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Marta Moretti Cl. VD 06/05/2015 L’ETA’ AUGUSTEA NELLE FONTI STORICHE, LETTERARIE, ARTISTICHE LA SCALATA AL POTERE DI AUGUSTO Nel 44 a.C., dopo l’uccisione di Cesare e la cacciata dei congiurati che si rifugiarono in Etruria, le redini dello stato romano vennero prese in mano dai due maggiori esponenti del partito cesariano: Marco Emilio Lepido e Marco Antonio, uno dei più fidati luogotenenti di Cesare e suo collega durante il mandato consolare del 44 a.C.. Quest’ultimo, durante i funerali del 18 marzo, in seguito ad una riunione del senato tenutasi il giorno precedente nella quale si stabilì che venivano considerati validi tutti gli atti di Cesare ma che, d’altra parte, veniva concessa l’amnistia ai congiurati, mostrò alla folla attonita e commossa il cadavere di Cesare e ne lesse in pubblico il testamento, nel quale veniva dichiarato figlio adottivo e principale erede il pronipote Gaio Ottavio. Egli aveva quasi diciannove anni ed era arruolato nell’esercito che in quel momento si trovava in Illiria, in vista della campagna militare contro la temuta popolazione bellicosa dei Parti. Quando venne informato in merito alle disposizioni impartite da Cesare, non indugiò a tornare immediatamente in Italia, dove reclutò un esercito privato, rivendicò l’eredità, assolse gli impegni nei confronti della plebe e dichiarò anche di voler onorare pienamente la memoria del padre adottivo e di bramare la vendetta della sua uccisione. Poco dopo, nel 43 a.C., in occasione dell’ostilità creatasi tra Marco Antonio e Decimo Bruto per la gestione della Gallia Cisalpina, riuscì ad essere arruolato dal senato in appoggio a Bruto e a sconfiggere Antonio stesso; poté così approfittare di una situazione di momentanea anarchia per marciare su Roma con il suo esercito, imporre la propria nomina e far revocare l’amnistia agli assassini del padre. Sempre nello stesso anno cambiò campo e decise di accordarsi con Antonio e Lepido, con i quali costituì ed ufficializzò presso Bologna il secondo triumvirato; si mosse poi assieme al solo Antonio contro l’esercito di Bruto e Cassio che, nonostante si fosse assai rafforzato grazie alle risorse delle province orientali, venne duramente sconfitto in Grecia presso Filippi. Al termine della battaglia, mentre Lepido dovette accontentarsi del governatorato della provincia d’Africa, Antonio consolidò la propria posizione in Oriente e Ottaviano rafforzò il proprio potere nelle province occidentali ed in Italia, dove dovette gestire il difficile problema della sistemazione dei veterani di guerra attraverso pesanti espropriazioni di terreno, che causarono violente ribellioni e tumulti, repressi poi con estrema durezza. Non dobbiamo certamente dimenticare che Ottaviano, a causa di questa sua spietata condotta politica, si inimicò i congiunti dello stesso Antonio che assediò a Perugia nel 40 a.C.; tuttavia i contrasti vennero appianati dagli accordi di Brindisi che si conclusero con il matrimonio di Antonio con Ottavia, sorella di Ottaviano. Nel 36 a.C. debellò i pirati di Sesto Pompeo, isolò Lepido e nel 33 a.C. macchinò abilmente la definitiva rottura con Antonio. Quest’ultimo, che si trovava in Egitto come ospite della regina Cleopatra da cui ebbe un figlio, aveva domandato rinforzi militari per i combattimenti ma Ottaviano gli inviò, assieme alla sorella Ottavia, un piccolo contingente che Antonio rifiutò, venendo così accusato di avere respinto la moglie, una donna romana, a favore dell’amante egiziana. A 1

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Marta Moretti Cl. VD 06/05/2015

L’ETA’ AUGUSTEA NELLE FONTI STORICHE, LETTERARIE,

ARTISTICHE

LA SCALATA AL POTERE DI AUGUSTO

Nel 44 a.C., dopo l’uccisione di Cesare e la cacciata dei congiurati che si rifugiarono in

Etruria, le redini dello stato romano vennero prese in mano dai due maggiori esponenti

del partito cesariano: Marco Emilio Lepido e Marco Antonio, uno dei più fidati

luogotenenti di Cesare e suo collega durante il mandato consolare del 44 a.C..

Quest’ultimo, durante i funerali del 18 marzo, in seguito ad una riunione del senato

tenutasi il giorno precedente nella quale si stabilì che venivano considerati validi tutti gli

atti di Cesare ma che, d’altra parte, veniva concessa l’amnistia ai congiurati, mostrò alla

folla attonita e commossa il cadavere di Cesare e ne lesse in pubblico il testamento, nel

quale veniva dichiarato figlio adottivo e principale erede il pronipote Gaio Ottavio.

Egli aveva quasi diciannove anni ed era arruolato nell’esercito che in quel momento si

trovava in Illiria, in vista della campagna militare contro la temuta popolazione bellicosa

dei Parti. Quando venne informato in merito alle disposizioni impartite da Cesare, non

indugiò a tornare immediatamente in Italia, dove reclutò un esercito privato, rivendicò

l’eredità, assolse gli impegni nei confronti della plebe e dichiarò anche di voler onorare

pienamente la memoria del padre adottivo e di bramare la vendetta della sua uccisione.

Poco dopo, nel 43 a.C., in occasione dell’ostilità creatasi tra Marco Antonio e Decimo Bruto

per la gestione della Gallia Cisalpina, riuscì ad essere arruolato dal senato in appoggio a

Bruto e a sconfiggere Antonio stesso; poté così approfittare di una situazione di

momentanea anarchia per marciare su Roma con il suo esercito, imporre la propria

nomina e far revocare l’amnistia agli assassini del padre. Sempre nello stesso anno cambiò

campo e decise di accordarsi con Antonio e Lepido, con i quali costituì ed ufficializzò

presso Bologna il secondo triumvirato; si mosse poi assieme al solo Antonio contro

l’esercito di Bruto e Cassio che, nonostante si fosse assai rafforzato grazie alle risorse delle

province orientali, venne duramente sconfitto in Grecia presso Filippi. Al termine della

battaglia, mentre Lepido dovette accontentarsi del governatorato della provincia d’Africa,

Antonio consolidò la propria posizione in Oriente e Ottaviano rafforzò il proprio potere

nelle province occidentali ed in Italia, dove dovette gestire il difficile problema della

sistemazione dei veterani di guerra attraverso pesanti espropriazioni di terreno, che

causarono violente ribellioni e tumulti, repressi poi con estrema durezza. Non dobbiamo

certamente dimenticare che Ottaviano, a causa di questa sua spietata condotta politica, si

inimicò i congiunti dello stesso Antonio che assediò a Perugia nel 40 a.C.; tuttavia i

contrasti vennero appianati dagli accordi di Brindisi che si conclusero con il matrimonio di

Antonio con Ottavia, sorella di Ottaviano. Nel 36 a.C. debellò i pirati di Sesto Pompeo,

isolò Lepido e nel 33 a.C. macchinò abilmente la definitiva rottura con Antonio.

Quest’ultimo, che si trovava in Egitto come ospite della regina Cleopatra da cui ebbe un

figlio, aveva domandato rinforzi militari per i combattimenti ma Ottaviano gli inviò,

assieme alla sorella Ottavia, un piccolo contingente che Antonio rifiutò, venendo così

accusato di avere respinto la moglie, una donna romana, a favore dell’amante egiziana. A

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questo punto Ottaviano, dopo aver ottenuto il consenso popolare e un anche se precario

appoggio del senato, nel 32 a.C., alla vigilia della battaglia di Azio, compì il suo primo atto

da princeps, facendosi tributare dall’Italia e dalle province occidentali un giuramento di

fedeltà, ricordato come coniuratio Italiae et provinciarum, con il quale esse si impegnavano a

combattere contro la monarchia d’Egitto, in nome dei tradizionali valori della Roma

repubblicana. Sconfitte nel 31 a.C. le navi egiziane presso Azio e suicidatisi Antonio e

Cleopatra, Ottaviano celebrò nel 29 a.C. un grandioso trionfo per la conquista dell’Egitto

che passò a simboleggiare la superiorità dell’Italia e dell’Occidente romano contro una

monarchia orientaleggiante che cercava di trasformarne le istituzioni e di sovvertirne i

tradizionali valori.

L’AFFERMAZIONE DEL PRINCIPATO E LE CARICHE RIVESTITE DA AUGUSTO

In questo contesto, l’aristocrazia senatoria si convinse sempre più che la tradizionale

costituzione repubblicana, basata sull’equilibrio e sulla collaborazione fra nobiltà senatoria

ed assemblee popolari, non poteva rinascere ma che era indispensabile accettare una

qualche forma di potere personale. Per di più le famiglie della più alta aristocrazia

senatoria non disponevano di personaggi politici così influenti da poter contrastare

apertamente Ottaviano; a testimonianza di ciò, in base a quanto riportato dalle fonti

pervenuteci e dal materiale in nostro possesso, ricordiamo che durante tutto il principato

si verificarono soltanto due tentativi di congiura contro l’imperatore (23 a.C. e 2 d.C.)., non

dimentichiamo poi che Roma era stata travolta per quasi un secolo dalle violente guerre

civili che avevano stremato la plebe e anche le classi di maggior influenza politica, ora

accomunate da un desiderio unanime di pace.

Con queste premesse Ottaviano riuscì ad imporre la propria figura su Roma e a detenere

un totale controllo sulla vita politica. Questo singolare potere fu dovuto inevitabilmente

proprio al sopra citato trionfo su Azio, che gli consentì di tornare nella capitale da

conquistatore e di fregiarsi del titolo di imperator, “comandante supremo, imperatore”;

questa carica veniva solitamente rivestita dai generali vittoriosi e abbandonata al termine

della celebrazione del trionfo, egli invece la mantenne come prenomen fino al termine del

suo principato, nella formula onomastica con cui veniva indicato nelle iscrizioni ufficiali .

Egli inoltre, a partire dal 32 a.C., esercitò continuativamente la carica di console fino

all’anno 23 a.C. ma, poiché questa istituzione non era tale da garantire un totale controllo

sullo stato, nel 28 a.C., si fece proclamare princeps senatus ossia “primo fra i senatori”; era

dunque il portavoce ufficiale, aveva il diritto di convocare l’assemblea, di presiederla e di

votare per primo, influenzando così le votazioni altrui e orientando di fatto le decisioni

politiche.

Successivamente, in una seduta del 13 gennaio del 27 a.C., quando aveva come collega al

consolato Marco Vipsanio Agrippa, con una studiata mossa ad effetto, restituì al senato

tutte le cariche ed i poteri straordinari concessigli per far fronte alla guerra civile,

mantenendo solo per qualche anno ancora la carica di console; in cambio ottenne un

imperio proconsolare della durata di dieci anni per la gestione delle province non ancora

pacificate quali Spagna, Gallia, Siria, Cilicia, Cipro ed Egitto, dov’erano stanziate la

maggior parte delle legioni. Si tratta quindi di un potere assai rilevante poiché, a partire

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dalla riforma di Mario, gli eserciti dipendevano direttamente dal loro comandante, che

poteva servirsi di essi anche come strumento per l’usurpazione del potere.

Non molti giorni dopo, su proposta dell’anziano console Munazio Planco, il senato lo

onorò con il titolo di Augustus; questo termine, che deriva dal latino augeo, “innalzo,

accresco” e rimanda senza dubbio al benessere e alla prosperità del suo principato, era

anche un attributo di Giove, che faceva inevitabilmente riferimento ad un potere non

humanus e sanciva il carattere divino del suo potere: la sua personalità era pertanto

considerata superiore a qualsiasi altra figura dello stato e le sue decisioni ritenute sacre e

venerabili. Anch’egli infatti, all’interno delle Res Gestae, precisò che questa carica non gli

conferì tanto la potestas, ossia il potere effettivo, quanto invece l’auctoritas, cioè la capacità

di influenzare le scelte e la vita politica, indipendentemente dalla carica rivestita.

Alcuni anni dopo, nel 23 a.C., l’imperio proconsolare di cui già godeva divenne maius et

infinitum, ossia assoluto, valido per tutte le province dell’impero; in questo modo egli si

affermò definitivamente come comandante supremo dell’esercito, coadiuvato da alcuni

incaricati che egli stesso eleggeva tra gli ex consoli e gli ex pretori (legati Augusti pro

praetore) per facilitare l’amministrazione e il controllo di tutto il territorio romano.

Sempre nello stesso anno gli venne conferita la tribunicia potestas, “potestà tribunizia”, che

costituì la vera base costituzionale del potere imperiale; essa infatti comportava

l’inviolabilità della persona, il potere di convocare i comizi e di far approvare i plebisciti e

il diritto di intervenire in tutti i rami della pubblica amministrazione, senza i vincoli

repubblicani della collegialità della carica e della sua durata annuale; oltre a ciò, non

dobbiamo dimenticare che questa magistratura gli garantì il diritto di porre il veto agli

altri tribuni, offrendogli dunque la facoltà di bloccare tempestivamente qualsiasi iniziativa

legislativa considerata pericolosa per la sua autorità.

E ancora, negli anni a venire, attraverso la carica della commendatio ebbe l’opportunità di

proporre i nomi dei candidati alle magistrature e di controllarne l’accesso anche se, di

fatto, il ruolo delle assemblee cittadine aveva perso rilievo e il sistema politico, che lo

storico Mommsenn definì una diarchia, si basava esclusivamente sull’equilibrio fra il

princeps ed il senatus. In aggiunta a ciò, menzioniamo la carica di curator annonae, ossia di

“responsabile agli approvvigionamenti”, precedentemente esercitata anche da Pompeo

Magno, che gli consentiva di ottenere il consenso popolare per mezzo di elargizioni di

terreno e distribuzioni di grano alle classi meno agiate; particolarmente significativo anche

il ruolo di censore, con il quale poté effettuare un’accurata revisione delle liste senatorie ed

espellere tutti coloro che non presentavano i requisiti necessari a prender parte

all’assemblea, restituendo così prestigio a questa magistratura, vertice del potere

consultivo. Corre poi l’obbligo di citare il 12 a.C., anno in cui il princeps, alla morte del

pontefice massimo Lepido il quale era stato ben accolto da Augusto nel nuovo sistema

politico, assunse altresì la somma carica religiosa di pontifex maximus, rappresentando

pertanto non solo la massima autorità civile, ma anche quella religiosa e detenendo in

questo modo un potere simile a quello dei primi re di Roma. Infine non dimentichiamo

che nel 2 a.C. il senato, i cavalieri e il popolo, come omaggio per aver restaurato lo stato e

le istituzioni, lo proclamarono pater patriae, padre della patria; con questa carica, che

rappresentava il riconoscimento politico dei valori del principato augusteo, si mirava a

sacralizzare i rapporti tra il princeps e i suoi sudditi, i quali dovevano comportarsi come

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dei figli e manifestare sentimenti di pietas e fides. In questo modo i rapporti politici

divennero la proiezione di quelli familiari.

Dobbiamo però tener presente che nel corso del principato, Augusto, nonostante avesse

rivestito un numero rilevante di magistrature, non decise mai di assumere il titolo

eccezionale di dictator, come aveva invece fatto Cesare, ma si propose come il restauratore

delle istituzioni repubblicane, agì con cautela ed adottò una politica trasformista, evitando

in tal modo di entrare in rotta di collisione con l’ordine senatorio, massimo organo

consultivo, che doveva assicurargli l’appoggio della più alta aristocrazia dell’impero.

Alla luce di ciò possiamo ben comprendere che Augusto, anche se de iure mantenne in

vigore tutte le istituzioni repubblicane, de facto, con una parvenza di legalità, accentrò su di

sé tutti i poteri e svuotò le magistrature dei loro effetti pratici, dando prova del potere

dell’imperium monarchico e della fine della collegialità repubblicana.

Proprio la questione del potere repubblicano de iure ma monarchico de facto fu sentita a tal

punto che persino lo stesso Augusto, nella sua autobiografia, le Res Gestae Divi Augusti,

ribadì la legalità repubblicana del suo potere; egli infatti evidenziò diverse volte il fatto

che tutte le onorificenze e i titoli attribuitigli, alcuni dei quali aveva anche rifiutato1, non

erano frutto di una decisione personale bensì derivavano da deliberazioni senatorie e dal

consenso universale del popolo; tanto è vero che possiamo chiaramente notare l’uso di

locuzioni quali “per autorità del senato”, “per decisione pubblica”. In aggiunta a ciò,

particolarmente significativo un passo in cui Ottaviano vuole mettere in luce la sua

modestia sostenendo di aver restituito un’ingente somma di denaro inviatagli da municipi

e colonie e di aver in seguito rifiutato, al momento del conferimento del titolo di imperator,

beni e donativi, nonostante gli fossero stati attribuiti per mera decisione delle colonie e dei

municipi stessi2.

RES GESTAE DIVI AUGUSTI

Le Res Gestae Divi Augusti “Imprese del divino Augusto” di cui abbiamo appena fatto

menzione, indicate dagli storici Svetonio e Cassio Dione con il nome di Index rerum a se

gestarum, furono redatte proprio dall’imperatore Ottaviano Augusto (63 a.C.-14d.C.);

costituiscono un’opera autobiografica e riportano pertanto avvenimenti contemporanei e

inerenti all’autore stesso.

Riguardo alla datazione, non siamo in grado stabilire con esattezza a quando risalga la

stesura dell’opera tuttavia è d’obbligo ricordare che, in due differenti passi del testo,

Augusto fornì delle indicazioni cronologiche precise: nel primo passo egli affermò di

riportare le sue memorie durante il suo tredicesimo consolato3, nel secondo invece

sostenne di avere settantacinque anni4. Tenendo conto del lasso di tempo in cui visse, la

prima data corrisponderebbe al 2 a.C. mentre la seconda coinciderebbe con il 13 o il 14

1 “Consul[atum] quoqu]e tum annum e[t perpetuum mihi] dela[tum non recepi].”, Augusto, Res Gestae Divi Augusti, 5

2 “Auri coronari pondo triginta et quinque millia municipiis et colonis Italiae conferentibus ad triumpho[s] meos

quintum consul remisi, et postea, quotienscumque imperator a[ppe]llatus sum, aurum coronarium non accepi,

decernentibus municipii[s] et colonis aequ[e] beni[g]ne adque antea decreverant.”, Augusto, op. cit., 213 “Consul f]ueram terdeciens, cum [scribeb]a[m] haec, [et eram se]p[timum et] tricen[simu]m tribuniciae potestatis.”,

Augusto, op. cit., 44 “Cum scripsi haec, annus agebam septuagensumum sextum.”, Augusto, op. cit., 35

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d.C.; in realtà, però, la struttura e la complessità dell’imponente documento augusteo

lasciano ben intendere come questo sia frutto di una lunga e matura elaborazione

intellettuale, senza dimenticare che, quasi certamente, il princeps pose più volte mano alla

stesura del suo testamento politico. Alla luce di tutto ciò, possiamo dunque concludere che

le Res Gestae furono terminate proprio nell’imminenza della morte del loro autore.

Oltre a ciò, è di fondamentale importanza tener presente che nessuno dei testi pervenutici

costituisce l’originale, ma si tratta di copie inviate alle province probabilmente già durante

il regno del successore Tiberio.

Finora archeologi ed esperti di questo

settore sembrano affermare che l’area

anatolica, dove Augusto creò la provincia

di Galazia, unica annessione orientale da

lui operata, rappresenti l’unico deposito

dei resti di questo monumentale

documento augusteo. Tra le copie

pervenuteci, la meglio conservata, il

Monumentum Ancyranum, è stata ritrovata,

come ci dice il nome stesso, nell’allora

capitale dei Galati, Ancyra, l’attuale

Ankara, sulle pareti di un tempio edificato

in onore della Dea Roma e di Augusto,

quando quest’ultimo era quasi certamente

ancora vivo. Dell'originario tempio si

conservano ora solo il pronao e le due

pareti laterali, una delle quali presenta uno

squarcio di notevoli dimensioni.

All'interno del pronao, a sinistra e a destra,

è inciso il testo latino dell'iscrizione,

disposto simmetricamente in sei colonne di

scrittura, per un'altezza di 2, 70 m e larghezza di 4 m; la traduzione greca si sviluppa

invece all'esterno, lungo la parete laterale intatta della cella, ordinata su 19 colonne, alte

circa 1, 25 m.

Lo stato attuale di tutto lo specchio epigrafico

versa in condizioni di assoluto degrado ed il

testo greco risulta, a causa di forti escursioni

termiche e piogge acide, quasi completamente

illeggibile. A tal proposito menzioniamo un

grido d’allarme, lanciato nel 1997, affinchè

questo importante documento non vada

perduto; l'allarme è stato accolto

dall’Università degli Studi di Trieste che ha

attivato il Progetto Ancyra, finalizzato alla

messa in sicurezza del tempio e alla

conservazione dell'iscrizione. Per quanto

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Tempio di Augusto e Roma, Ankara

Monumentum Ancyranum, frammento del testo in lingua

greca, Ankara

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concerne invece il testo originale, secondo la volontà del principe, esplicitamente espressa

nei documenti di natura testamentaria consegnati alle Vestali un anno prima di morire,

l’intero resoconto delle opere e delle imprese compiute durante la sua carriera politica

doveva essere inciso su tavolette bronzee, le quali, immediatamente dopo la sua morte,

vennero collocate all’ingresso dell’imponente Mausoleo, situato nel Campo Marzio a

Roma.

Le tavolette, andate in seguito perdute, avevano lo scopo di ricordare a tutto il popolo

romano, italico e delle province ed in particolare di tramandare ai posteri il benessere che

Augusto aveva procurato all’impero, non solo attraverso tutte le valorose imprese

compiute in campo militare, ma anche per mezzo delle molteplici opere di evergetismo

come elargizioni di beni a favore del popolo romano e inoltre della straordinaria

sistemazione di Roma e del generale clima di pace e prosperità che si era venuto a creare.

Dunque, com’è facile comprendere, si tratta di una fonte intenzionale, in quanto prodotta

con il fine di essere letta e tramandata, memorialistica, poiché rientra nel genere

autobiografico ma anche epigrafica, siccome si tratta di un’iscrizione, nonché indiretta,

giacché risultato di una lenta e ponderata gestazione dell’autore.

Come già sopra accennato, nel testo, suddiviso per comodità in trentacinque paragrafi

dagli editori moderni, il Principe fornisce una minuziosa descrizione del suo cursus

honorum e delle cariche e dignità conferitegli, specificando i titoli accettati e quelli rifiutati.

Oltre a ciò, per esaltare il proprio operato, egli sottolinea le numerose distribuzioni di

denaro, sostenute con risorse attinte esclusivamente dal suo patrimonio privato,

l’organizzazione di diversi giochi pubblici e l’ampio programma di rinnovamento

urbanistico della città, senza dimenticare poi una sezione dedicata alle conquiste militari,

alla sua azione diplomatica ed ai rapporti con le popolazioni vinte. Infine, particolarmente

interessanti per la storia della genesi del principato risultano essere gli ultimi due capitoli

(34 e 35) in cui vengono testimoniati i momenti chiave della sua carriera politica,

culminanti nell’espressione dell’auctoritas, fulcro del suo potere.

Quanto allo stile dell’autore, egli si serve di periodi brevi dalla struttura paratattica e dalla

coordinazione per asindeto ed adotta un lessico concreto, lasciando così al lettore la

possibilità di cogliere immediatamente il contenuto del testo; la prosa, tipicamente attica,

risulta scarna e asciutta, priva di abbellimenti e di figure retoriche, ma al contempo

solenne, pur conservando una continua sobrietà di fondo. Corre altresì l’obbligo di

ricordare che egli, per rimarcare i propri atti, parla di sé in prima persona, facendo delle

Res Gestae un unicum della letteratura latina, senza eguali. Tenendo conto di quanto detto,

bisogna prestare molta attenzione all’attendibilità del contenuto che, seppur riporti

avvenimenti realmente verificati, potrebbe essere stato eccessivamente celebrato ed

esaltato da Augusto stesso.

ANNALES AB EXCESSU DIVI AUGUSTI: IL CONFRONTO CON LE RES GESTAE

Proprio per questa ragione, ideale sarebbe poter confrontare le Res Gestae con altre fonti

che riportino contenuto ed avvenimenti relativi al principato augusteo. A tal proposito

citiamo pertanto gli Annales ab excessu Divi Augusti, composti da Tacito, uno storico

romano vissuto a cavallo tra il I ed il II secolo d.C., dunque successivo agli avvenimenti

documentati e non direttamente coinvolto in questi ultimi; la fonte può essere datata

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all’inizio del II secolo d.C., verso la fine della vita di Tacito, circa un secolo dopo gli

avvenimenti descritti.

Si tratta di una fonte storiografica, anch’essa indiretta, in quanto gli avvenimenti sono stati

soggetti ad una rielaborazione personale dell’autore e chiaramente intenzionale, poiché

prodotta per tramandare ai posteri un’analisi attenta del primo periodo imperiale e non, a

differenza delle Res Gestae, per elogiare le imprese compiute da Augusto; a conforto di ciò,

si può sottolineare che alla locuzione augustea “per decisione del senato” si contrappone il

riflessivo “si chiamò…”, seguito dalle cariche rivestite da Augusto o addirittura la

formula “contro il volere del senato”. La fonte è per di più indirizzata ad un pubblico

colto, che sia in grado di comprendere ed apprezzare la prosa raffinata e complessa di

Tacito stesso.

L’opera, suddivisa in sedici libri non tutti interamente pervenutici, racconta, come già

detto, i regni dei successori di Ottaviano, in particolare di Tiberio e di Nerone, tuttavia non

mancano frammenti relativi al principato augusteo.

Concetto fondamentale dell’opera è il tramonto definitivo della collegialità repubblicana

che Tacito, nostalgico di una Repubblica idealizzata, fa emergere con mera amarezza

sostenendo che gli uomini in vita non avevano mai conosciuto la vera Roma repubblicana,

giacchè o erano nati nel periodo tumultuoso delle guerre civili oppure addirittura ai tempi

del trionfo di Azio sull’Egitto, quando il principato si era già radicalmente affermato.5

Nella visione dell’autore, però, il passaggio dalla travagliata età repubblicana all’età

imperiale rappresentava una necessità storica e politica, atta a superare i drammatici

conflitti determinatisi con le guerre civili, indispensabile per il mantenimento della pace e

utile per il benessere delle comunità italiche e delle province; era dunque fondamentale

accettare qualche forma di potere personale6. Tuttavia, con il nuovo assetto politico, si

estinse fatalmente la libertà repubblicana e si spense, a poco a poco, ogni residuo di

dignità morale, sia per le nefandezze degli imperatori, che lo storico tratteggia con

drammatica forza espressiva in una galleria di tragici profili, sia per la degenerazione

dell’aristocrazia senatoriale, che Tacito, pur appartenendovi, giudica moralmente

decaduta, corrotta ed asservita ai voleri del sovrano7.

Pertanto l’autore, se da un lato celebra Augusto per aver portato benessere e pace allo

stato romano, dall’altro rivela la fine della repubblica e mostra gli svantaggi del dominio

cesariano, esercitato sempre grazie alla forma debole ed eufemistica del nomen principis8,

che può quasi essere definita il “contenitore” entro il quale Ottaviano, con una parvenza

di legalità, dominò attraverso la sostanza forte del suo potere, ossia l’imperium. Per chiarire

5 “Bellum ea tempestate nullum nisi aduersus Germanos supererat, abolendae magis infamiae ob amissum cum

Quintilio Varo exercitum quam cupidine proferendi imperii aut dignum ob praemium. Domi res tranquillae, eadem

magistratuum uocabula; iuniores post Actiacam uictoriam, etiam senes plerique inter bella ciuium nati: quotus quisque

reliquus qui rem publicam uidisset?”, Tacito, Annales ab excessu Divi Augusti., I, 3 6 “Postquam hic socordia senuerit, ille per libidines pessum datus sit, non aliud discordantis patriae remedium fuisse

quam ut ab uno regeretur”, Tacito, op. cit., I, 97 “ubi militem donis, populum annona, cunctos dulcedine otii militem surgere paulatim, munia senatus magistratuum

legatum in se traehere, aduersante, cum ferocissimi per acies aut proscriptione cecidissent, ceteri nobilium, quanto

quis seruitio promptior, opibus et honoribus extollerentur ac nouis ex rebus aucti tuta et praesentia quam uetera et

periculosa mallent”, Tacito, op. cit., I, 28 “Non regno tamen neque dictatura sed principis nomine constitutam rem publicam;”, Tacito, op. cit., I, 9

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meglio, secondo la legge Augusto si trovava in una posizione di primus inter pares, godeva

cioè degli stessi poteri dei suoi colleghi, e deteneva soltanto l’auctoritas, autorevolezza

morale ma in realtà, egli, legittimando il suo potere con il nomen principis, assommò su di

sé tutte le prerogative del senato, delle magistrature e delle leggi. Il passo tacitiano sembra

essere dunque anche un commento alquanto critico alla celebre formulazione delle Res

Gestae: all’augustea auctoritas corrisponde il nomen principis di Tacito.

Impossibile poi non notare che l’autore, scrittore grandissimo, non di rado si arroga il

compito, più che di storico delle vicende umane, di censore o di giudice implacabile,

severissimo nelle condanne. Lapidario risulta in particolare il profilo della società che egli

traccia; a suo parere, tutte le classi, senza eccezioni, nutrono forti passioni politiche e sono

dominate da incontrastabili sentimenti di ambizione, bramosia di potere e di prestigio

personale, invidia, ipocrisia e spesso anche presunzione.

Significativo poi il quadro del principato che emerge dal testo di Tacito, il quale ci riporta

e descrive minuziosamente i funerali del princeps e le opinioni che aveva tutto il popolo

romano riguardo a lui. In questo contesto possiamo osservare in particolare che, se da una

parte diverse personalità autorevoli elogiavano largamente il suo operato e proponevano

il conferimento di onoranze funebri grandiose9, dall’altro, numerosi erano quelli che lo

criticavano e giudicavano aspramente quanto lui aveva eseguito.

Secondo questi ultimi, Augusto non aveva preso in mano le redini dello stato con l’intento

di vendicare l’uccisione del padre o perché preoccupato delle condizioni in cui versava lo

stato romano, bensì perché dominato, da profondi sentimenti di bramosia di potere e

avidità di denaro; aveva conquistato la sua posizione con mera corruzione, concedendo ai

veterani e al popolo frequenti donativi ed elargizioni e imponendo poi, contro il volere del

senato, la propria nomina alla carica di console.10

Poco dopo aveva stretto un apparente patto di amicizia con Lepido ed Antonio che gli

permise l’emanazione di nuove e terribili liste di proscrizione; liberatosi poi di questi

ultimi, era iniziato un periodo di pace, determinato però da continue e dure battaglie in

territorio straniero.

Negativi altresì i giudizi relativi alla vita privata dell’imperatore; Tacito sostiene

addirittura che egli abbia sottratto la moglie a Nerone e che abbia beffeggiato i pontefici,

domandando loro se gli era permesso sposare Livia nonostante questa fosse incinta. Dal

rigidissimo giudizio di Tacito non si salva neppure quest’ultima, criticata fortemente per

la sua condotta scandalosa e protagonista degli intrighi legati alla successione al trono che

accompagnano tutto il passo tacitiano.

9 “Tum consultatum de honoribus; ex quis qui maxime insignes uisi, ut porta triumphali duceretur funus Gallus Asinius,

ut legum latarum tituli uictarum ab eo gentium uocabula anteferrentur L. Arruntius censuere.”, Tacito, op. cit., I, 8

10 “Dicebatur contra: pietatem erga parentem et tempora rei publicae obtentui sumpta: ceterum cupidine dominandi

concitos per largitionem ueteranos, paratum ab adulescente priuato exercitum, corruptas consulis legiones, simulatam

Pompeianarum gratiam partium; mox ubi decreto patrum fascis et ius praetoris inuaserit, caesis Hirtio et Pansa, siue

hostis illos, seu Pansam uenenum uulneri adfusum, sui milites Hirtium et machinator doli Caesar abstulerat, utriusque

copias occupauisse; extortum inuito senatu consulatum, armaque quae in Antonium acceperit contra rem publicam

uersa;”, Tacito, op. cit., I, 10

8

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Per quanto concerne lo stile letterario, appare anch’esso diverso rispetto a quello augusteo.

La scrittura di Tacito si rivela infatti intensa e di grande suggestione artistica; la prosa,

concisa e allusiva, predilige l’uso della varietas, dissimmetria con mutamenti inaspettati di

struttura e nell’ordine delle parole, di ellissi, di metafore “violente”, di audaci

personificazioni, senza tralasciare circonlocuzioni creative e dizioni che si estendono fino

ai limiti del lessico latino. Possiamo tuttavia notare come lo stile cambi profondamente nel

corso della lettura; dal tredicesimo libro in poi, l’autore si serve di un genere più

tradizionale e vicino ai canoni dello stile classico e predilige l’uso di espressioni meno

ricercate, forse perché anche lo stile letterario dell’età repubblicana, arcaico e solenne,

aveva subito profonde trasformazioni nel corso del I secolo.

Alla luce di quanto detto finora, tenuto conto dell’intenzionalità della fonte, dello scopo

per cui è stata prodotta e soprattutto del coinvolgimento dell’autore, l’opera di Tacito, si

può considerare attendibile, se analizzata con una coscienza critica che sia capace di

discernere la concretezza dei fatti realmente accaduti dal, seppur involontario, giudizio

dell’autore.

ROMA, DA CITTA’ DI MATTONI A CITTA’ DI MARMO

Al momento dell’ascesa al trono di Augusto, la capitale versava in condizioni di profondo

degrado; erano infatti parecchie le aree devastate a causa della scarsa manutenzione, dei

repentini incendi e delle frequenti alluvioni del Tevere. Pertanto, poichè risultava

chiaramente necessario che la città venisse al più presto ricondotta all’ordine, Ottaviano

trasformò questa grande emergenza in un efficace strumento propagandistico; egli si

impegnò ben presto in un ampio piano urbanistico di ristrutturazione della capitale e di

costruzione di nuovi monumenti, i quali dovevano celebrare non solo la grandezza della

città ma anche la figura del principe.

In quel tempo inoltre, la causa del disordine e la decadenza dello stato erano

comunemente attribuite alla perdita della religione tradizionale, quindi Augusto, per agire

in accordo con questo sentimento comune, prestò particolare attenzione alla restaurazione

di numerosi templi a Roma e al ripristino di antichi culti che erano stati abbandonati.

Tra le opere principali, elencate anche dall’imperatore nel suo modello di auto elogio,

ricordiamo innanzitutto nella zona del Campidoglio la restaurazione dell’antico tempio

edificato in onore di Vesta e del tempio di Giove Ottimo Massimo, dedicato alla triade

capitolina, Giove, Giunone Regina e Minerva, dove terminavano le cerimonie trionfali e si

svolgevano le assemblee solenni del Senato, oltre ai sacrifici augurali dei nuovi consoli. In

aggiunta a ciò, sul colle Palatino si dedicò all’edificazione di un nuovo tempio dedicato ad

Apollo, il dio del Sole di cui si riteneva figlio, accanto al quale fece appositamente porre la

sua residenza; non dimentichiamo poi la completa restaurazione del tempio della grande

Madre, chiamato anche Lupercale in quanto si tratta del luogo dove, secondo l’antica

tradizione, la lupa aveva allattato i due gemelli Romolo e Remo. Numerosi per di più gli

interventi attuati nel Foro come la sistemazione della Basilica Emilia e del tempio di

Saturno, dove venivano custodite le imposte delle province, le insegne dello stato e una

bilancia per la pesatura ufficiale del metallo, senza tralasciare l’aggiunta di una nuova

sede per le adunanze del senato e l’ampliamento della piazza stessa con una sezione

dedicata ad Augusto.

9

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Da non dimenticare, sempre nella zona del Foro, la costruzione del tempio dedicato a

Marte Ultore, cioè Vendicatore, a cui Augusto aveva promesso in voto un tempio poco

prima della battaglia di Filippi (42 a.C.), nella quale vendicò la morte di Cesare con

l’uccisione di Bruto e Cassio.

Menzioniamo poi altri interventi rilevanti quali la restaurazione del teatro di Pompeo,

primo teatro romano costruito in muratura, la sistemazione di alcuni acquedotti e in

particolare dell’Aqua Marcia, ricostruito in seguito ad un incremento di portata, pressoché

raddoppiata con la captazione di una nuova sorgente.

LA RISISTEMAZIONE DEL CAMPO MARZIO: I MOTIVI DI ORDINE IDEOLOGICO

E SIMBOLICO

In questo contesto corre altresì

l’obbligo di ricordare il Campo

Marzio, una vasta area

pianeggiante situata tra l’antica

via Flaminia e l’ansa del fiume

Tevere, in cui si riunivano i

soldati armati in occasione dei

comizi centuriati. Il Campo

Marzio, che rappresenta una

delle zone più toccate dal

progetto urbanistico augusteo, ci

viene minuziosamente

tramandato dallo storico greco Strabone il quale, oltre a menzionare i portici, i circhi, le

palestre, i teatri, i templi che vi erano stati edificati e l’ampia pianura verdeggiante

ombreggiata da boschi sacri che dominava il territorio, pone particolare rilievo alla

sacralità del luogo, che egli definisce locus amoenus, dovuta in particolare ai monumenti

che vi si trovavano.

Partendo da Nord, possiamo osservare

in primis l’imponente Mausoleo di

Augusto, ossia la tomba che

l’imperatore aveva fatto costruire per sé

stesso e per i suoi congiunti. La

costruzione di questo monumento

funerario iniziò nel 28 a.C., subito dopo

il ritorno di Augusto dall’oriente, dove

quest’ultimo potè ammirare la

monumentale tomba che Artemisia

aveva fatto costruire nel 353 a.C. ad

Alicarnasso in onore del marito

Mausolo, opera da cui

l’imperatore trasse ispirazione

per la costruzione della propria tomba.

10

Ricostruzione Mausoleo di Augusto, Campo Marzio, Roma

Ricostruzione Campo Marzio, Roma

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Il Mausoleo di Augusto è un monumento a pianta circolare, costituito da un basamento in

travertino di dodici metri e da sette anelli in calcestruzzo rivestito di marmo o pietra

arenaria; tra i gradoni a cerchi concentrici si trovano alberi sempreverdi, soprattutto

cipressi, i quali rappresentano un evidente richiamo all’immortalità. Nel portico erano

collocate le due colonne su cui era stata incisa l’opera delle Res Gestae Divi Augusti, mentre

all’interno si trovava un grande pilastro con una stanzetta quadrata che corrispondeva alla

tomba di Augusto. Dopo una passeggiata in un piccolo bosco sacro, poco distante dal

Mausoleo troviamo anche l’ustrinum, ossia il luogo adibito alla cremazione del corpo

prima che venisse sepolto.

Infine, proseguendo verso Sud-Est, un tempo si scorgevano l’Ara Pacis, il cosiddetto

“Altare della Pace”, e l’Horologium Augusti, che delimitavano questa area del Campo

Marzio a cui

l’imperatore volle

affidare la sua

memoria.

La costruzione

dell’Ara Pacis fu

concordata nel 13

a.C. per volontà

dell’ordine

senatorio in onore

di Augusto, il

quale era tornato

a Roma vittorioso

in seguito alla

pacificazione

della Gallia e

della Spagna; i

lavori

terminarono definitivamente nel 9 a.C. quando l’altare fu ufficialmente dedicato

all’imperatore.

L’altare vero e proprio, sul quale venivano compiuti i sacrifici, si innalza su una

piattaforma di tre gradini, entro un recinto quadrilatero di 11,63 x 10,625 metri, con due

porte che si aprono sui lati corti. Questo recinto, muro marmoreo di 4,50 metri di altezza,

interamente coperto di finissime decorazioni sia sui lati esterni sia su quelli interni, forma

una cornice di bellezza e ricchezza incomparabili. La decorazione della parte esterna,

affidata con tutta probabilità a scultori greci attivi a Roma nel I secolo a.C., è costituita da

un fregio figurato nella fascia

superiore e da un motivo di

girali d’acanto in quella

inferiore.

Quest’ultimo ornamento a

bassorilievo, estremamente

fine ed elegante, rappresenta

11

Ara Pacis, complesso museale dell’Ara Pacis, Roma

Girali d’acanto che decorano la fascia inferiore del recinto dell’Ara Pacis

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uno dei più grandi capolavori della scultura classica; i girali celano nel fogliame piccoli

animaletti come lucertole, rane, serpenti… e si dipartono in maniera simmetrica da un

unico cespo che si trova al centro di ciascun pannello. Impossibile poi non notare che

l’intera raffigurazione contiene un evidente aspetto politico-propagandistico e allude allo

stato aureo di natura e al ritorno di un’età di pace e tranquillità, sotto la guida del princeps.

Per quanto concerne invece la parte superiore, la fascia figurativa sui lati corti, ossia quelli

che si volgevano ad est e ad ovest, si divide in quattro pannelli mentre sui lati lunghi, cioè

nord e sud, presenta un fregio continuo, che va letto ed interpretato unitariamente come

un’unica scena.

Partiamo con i due pannelli del lato ovest, il lato principale dal quale si accedeva all’altare.

Una delle due formelle, di cui oggi

restano pochi frammenti, raffigura

l’allattamento dei gemelli Romolo e

Remo da parte della lupa presso il

Ficus ruminalis,11 tra i resti di piante

palustri che caratterizzano lo sfondo;

riconoscibili altresì il dio Marte armato,

padre dei due gemelli, il pastore

Faustolo e altre divinità.

Nella formella di destra osserviamo

invece Enea, figlio di Venere, che assieme al

figlio Julo sacrifica presso un altare una scrofa ai Lari

e ai Penati, divinità protettrici della famiglia. In

questo modo l’altare mette chiaramente in luce la

doppia origine divina dei romani e del princeps: dal

dio guerriero i primi, tramite i gemelli Romolo e

Remo, e da Venere il secondo, tramite il pius Enea.

Proseguiamo poi con il pannello di sinistra del

fronte orientale, uno dei meglio conservati e

pervenutoci praticamente integro. Su di esso è

rappresentata una grande figura matronale, la

cosiddetta Saturnia Tellus, seduta con in grembo

due putti e alcune primizie; ai lati troviamo poi

due ninfe seminude, una seduta su un cigno in

volo, simbolo dell’aria, e l’altra su un drago

marino, simbolo dell’acqua. La figura femminile, che potrebbe essere una Venere Genitrice

11 secondo il mito della fondazione di Roma, l'albero di fico selvatico nei pressi del Tevere sotto il quale Romolo e

Remo furono allattati dalla lupa

12

Formella di sinistra lato ovest Ara Pacis: la lupa allatta i gemelli

Formella di destra lato ovest Ara Pacis:

sacrificio di Enea ai Penati

Formella di sinistra lato est Ara Pacis: Saturnia

Tellus

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oppure la personificazione dell’Italia, è certamente simbolo della terra fertile e dei suoi

frutti, rappresentati dai due bimbi che le siedono in grembo; chiaro pertanto il richiamo

che rimanda nuovamente alla prosperità e al benessere del principato augusteo.

Il pannello di destra del fronte orientale, pervenutoci invece in

resti molto scarsi, permette di riconoscere sulla destra solo una

personificazione della dea Roma vincitrice, seduta su una catasta

d’armi che tacciono e lasciano spazio alla pace.

Sul fronte sud appare poi la scena più importante

e meglio conservata, la processione, con

personaggi della famiglia imperiale; la

successione delle figure ricalca un preciso schema

protocollare, legato inevitabilmente al

programma dinastico concepito da Augusto

attorno al 10-9 a.C.. La processione ha inizio con

la raffigurazione lacunosa dei littori, seguiti da

una serie di togati a partire da Augusto col capo

velato e coronato di alloro, nella veste di pontifex maximus; chiudono poi il corteo ufficiale

alcuni degli ordini sacerdotali maggiori (Diali, Marziali, Quirinali…). A questo punto,

dopo un netto stacco, inizia la processione della famiglia imperiale. Per primo si trova

Agrippa, amico e principale collaboratore di Augusto, morto nel 12 a.C.; seguono il piccolo

Caio Cesare, figlio di

Agrippa, e Livia,

seconda moglie di

Augusto. La

successione dei

congiunti è così

sapientemente

calcolata che, come è

stato notato, tutti gli imperatori romani, fino a Nerone, discendono dai membri della gens

Julia qui raffigurati; altri membri della famiglia imperiale, in genere di minore spicco,

compaiono sul lato settentrionale del recinto.

In ogni caso la scena non va interpretata come un reale corteo, così come potrebbe essere

avvenuto nel 13 a.C., poiché Augusto sarebbe diventato pontefice massimo solo nel 12

a.C., né può essere la processione del 9 a.C., perché Agrippa era già morto, Tiberio e Druso

si trovavano in campagne militari nell'Illirico e in Germania. Si tratta quindi di una

13

Formella di destra lato est Ara

Pacis: dea Roma

Processione lato sud Ara Pacis con al centro

Augusto

Processione lato nord Ara Pacis

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raffigurazione politica ideale, da mettere in relazione con le gravi incertezze di quegli anni

legate alla successione, che troveranno una temporanea soluzione nel 6 a.C. con la crisi e

l'esilio volontario di Tiberio.

Per quanto concerne invece l’interno, la

superficie presenta nella parte superiore

festoni sorretti da bucrani, cioè crani di

buoi con ghirlande, mentre in quella

inferiore steccati, un motivo già presente

negli altari romani risalenti al VII-VI

secolo a.C.

L’Ara sorgeva un tempo lungo la via Flaminia, esattamente alla distanza di un miglio dal

pomerium,12 e presenta, come già detto, delle aperture pronunciate su due dei quattro lati.

Essa rappresentava probabilmente un accesso simbolico alla città da settentrione come il

tempio di Giano a sud di Roma, anch’esso aperto su due lati e legato alla simbologia del

passaggio dalla guerra alla pace, ne costituiva invece l’ingresso

meridionale.

In secondo luogo è doveroso ricordare che questo monumento,

il quale rivolgeva ad occidente la sua apertura principale, si

trovava in stretto legame simbolico anche con l’Horologium

Augusti, collocato nella zona antistante l’ara stessa. L’orologio

era formato da una vasta piazza di circa 160 x 175 metri,

pavimentata in travertino e sulla quale erano tracciate, con dei

listelli di bronzo, le indicazioni delle ore; utilizzava poi come

gnomone un grande obelisco egiziano in granito rosso di circa

30 metri di altezza, che era stato prelevato dalla città di

Eliopoli durante lo scontro in Egitto. L’obelisco, che si trova

oggi, in seguito a numerosi e talvolta difficili spostamenti in

piazza Montecitorio, reca sulla base la seguente dedica che

Ottaviano fece incidere in onore di Apollo, il dio Sole, di cui

l’imperatore si riteneva figlio.

« Imp. Caesar divi fil. / Augustus / pontifex maximus / imp. XII cos XI trib pot XIV / Aegypto in

potestatem / populi romani redacta / soli donum

dedit. »

« L'imperatore Augusto, figlio del divino Cesare, pontefice massimo, proclamato

imperatore per la dodicesima volta, console per undici volte, che ha rivestito la potestà

tribunizia per quattordici volte, avendo condotto l'Egitto in potere del popolo romano,

diede in dono al sole »

12 Confine della città di Roma entro il quale l’esercito non poteva entrare armato

14

Decorazioni parete interna Ara Pacis

Obelisco Horologium Augusti,

piazza Montecitorio, Roma

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Secondo alcuni studi approfonditi e le testimonianze pervenuteci, ogni anniversario dalla

nascita di Augusto (23 settembre) questo obelisco gettava la sua ombra al centro

dell’altare; tenendo conto invece di altre ipotesi, si può supporre che ci fosse un ulteriore

legame simbolico il quale univa in un unico orizzonte visivo tutti tre i monumenti: l’Ara,

l’Horologium e il Mausoleo. L’obelisco dell’orologio, simbolo delle conquiste militari, è

dedicato ad Apollo, dio Sole e nume tutelare di Augusto; la permanenza dell’astro solare

nel cielo diurno inizia a prolungarsi a partire dal solstizio d’inverno, giorno in cui Augusto

venne concepito mentre il suo giorno natale, che coincide con l’equinozio d’autunno,

segna l’inizio di un’era di pace e prosperità. E’ altresì opportuno ricordare che attraverso

alcune simulazioni si è potuto osservare che la sfera solare proiettava la sua ombra al

centro dell’obelisco il 9 ottobre, giornata in cui veniva celebrato il tempio di Apollo.

BREVE STORIA DEL RITROVAMENTO DELL’ARA PACIS

A partire dal II secolo d.C. non si ebbe più notizia dell’Ara Pacis il cui ritrovamento iniziò

soltanto nel 1568 quando, in occasione di alcuni restauri presso palazzo Peretti, diversi

blocchi di marmo, che si pensava appartenessero ad un arco di trionfo, si dispersero tra la

Galleria degli Uffizi, il Museo Vaticano, il Museo del Louvre e la Villa Medici. Dopo questi

ritrovamenti non si seppe più nulla riguardo all’altare fino al 1859, quando palazzo Peretti

richiese ulteriori lavori di consolidamento durante i quali fu visto il basamento dell’altare

e altri frammenti scolpiti. In quella occasione furono recuperati numerosi frammenti del

fregio a girali, ma solo nel 1903, a seguito del riconoscimento dell'Ara operato da Friedrich

von Duhn, fu inoltrata una richiesta al Ministro della Pubblica Istruzione per la ripresa

dello scavo.

Nel luglio 1903, iniziati i lavori, fu subito chiaro che le condizioni erano estremamente

difficili e che alle lunghe poteva essere compromessa la stabilità del palazzo pertanto,

esplorata circa metà del monumento e recuperati cinquantatrè frammenti, lo scavo venne

interrotto. Nel febbraio 1937, il Consiglio dei Ministri, in vista del bimillenario della

nascita di Augusto, decretò la ripresa dello scavo con l'impiego di tecniche

all’avanguardia. Tra il giugno e il settembre 1938, contemporaneamente allo scavo, si

svolsero anche i lavori del padiglione che avrebbe ospitato la ricostruzione dell'Ara Pacis

sul Lungotevere e il 23 settembre, il giorno stesso di chiusura dell'anno augusteo,

Mussolini inaugurò il monumento.

Negli anni del conflitto le vetrate del padiglione furono rimosse e il monumento fu

protetto da sacchetti di pozzolana, sostituiti in seguito da un muro paraschegge; solamente

nel 1970 la teca venne ripristinata. Importante però notare che l’altare, nel periodo in cui

venne conservato all’interno di questo padiglione, subì gravi danni a causa del microclima

sfavorevole e dell’elevato inquinamento; nel 2000 si decise dunque di smantellare la

struttura e il progetto per la costruzione di un nuovo padiglione venne affidato a Richard

Meier, studioso statunitense a cui si devono alcuni dei più notevoli musei della seconda

metà del Novecento.

Per la realizzazione del nuovo Museo sono state impiegate materie prime e realizzati

impianti di assoluta qualità; l’illuminazione, sia interna che esterna, notturna e diurna,

utilizza riflettori dotati di accessori anti-abbagliamento, filtri per la resa del colore e lenti

15

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che circoscrivono e modulano la distribuzione del fascio luminoso in relazione alle

caratteristiche delle opere esposte.

LA FIGURA DI AUGUSTO: CONTORNI QUASI SACRI

Come già emerso dai paragrafi precedenti, la propaganda costituì una caratteristica

fondamentale del principato augusteo; quest’ultima non si inserì soltanto nel campo

urbanistico con la costruzione di ponti, strade, acquedotti, terme e soprattutto templi ma

immise in ogni aspetto culturale, artistico e letterario elementi atti a convincere ed

orientare l’opinione pubblica a favore dell’impero.

Oltre all’esempio dell’Ara Pacis che abbiamo appena menzionato, numerosi gli oggetti

propagandistici come statue, tripodi di bronzo, scudi celebrativi dedicati all’imperatore, il

quale, nel tempo, aveva assunto dei contorni quasi sacri.

Tra questi ricordiamo in particolare la celebre statua di Augusto, ritrovata nella villa della

sua seconda moglie Livia, a Prima Porta, e conservata attualmente nei Musei Vaticani. Si

tratta probabilmente di una copia in marmo bianco di una bronzetto risalente al 20 a.C.,

che celebra la riacquisizione delle insegne militari catturate dai Parti nel 53 a.C., dopo la

sconfitta di Crasso a Carre.

La statua, conosciuta anche con il nome di

Augusto loricato (dalla lorica, la corazza in

pelle dei legionari), è alta 2,08 metri, nonostante

il princeps fosse alto soltanto 1,70 metri, e ritrae

Augusto con le fattezze di un giovane, imitando

forse i lineamenti di Alessandro Magno che

morì quando aveva trentatrè anni. Augusto

viene raffigurato sotto le vesti di imperator,

mentre incita l’esercito nell’imminenza della

battaglia con il braccio destro alzato e con la

mano sinistra che impugna una lancia; la

posizione in cui egli si trova è quella del

Doriforo di Policleto, perfettamente bilanciato

nella disposizione incrociata tra gli arti

superiori e quelli inferiori.

Importante poi sottolineare che egli non porta

calzature, segno del suo status “divino” in

quanto le divinità venivano rappresentate

sempre a piedi nudi; inoltre, ai piedi della

statua, è collocato, a cavallo di un delfino, un

piccolo Eros, figlio di Venere, la quale viene

richiamata alla mente dell’osservatore poichè

considerata la divina progenitrice della famiglia di Augusto, la gens Julia.

La figura, come già detto, indossa una corazza in pelle con ricchi decori dal carattere

simbolico che fanno riferimento all’ideologia augustea. Partendo dall’alto, visualizziamo

una personificazione del Caelum, sotto il quale vola la quadriga del Sol; proseguendo verso

destra troviamo invece la Luna quasi completamente coperta dall’Aurora, che tiene in

16

Statua di Augusto loricato, Musei Vaticani, Roma

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mano un vaso, mentre a sinistra è collocato Apollo sopra ad un carro. Al centro si trova la

scena principale, che raffigura il re dei Parti, Fraate IV, mentre restituisce ai Romani le

insegne strappate dopo la sconfitta presso Carre del 53 a.C.; è possibile che il generale

romano, raffigurato con ai piedi un cane, o più probabilmente un lupo, simbolo di Roma

per eccellenza, sia Tiberio, visto che proprio lui partecipò alla campagna partica tuttavia,

non è da escludere che si tratti di Augusto o di un semplice legionario romano. In basso,

semisdraiata, è raffigurata Madre Terra con un corno colmo di frutta e due neonati che si

afferrano alla veste della dea, ai due lati si vedono invece due donne che piangono e

rappresentano le province conquistate (Gallia e Spagna). Da notare infine, posizionate

sulle spalle della corazza, delle borchie a forma di Sfinge, immagine presente anche sul

sigillo di Augusto in ricordo della celebre vittoria egiziana.

Un’altra statua di cui risulta doveroso far menzione è l’Augusto

di via Labicana che deve il suo nome alla zona dove venne

ritrovata. L’Augusto di via Labicana, oggi conservato presso il

Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, è

una copia di età tiberiana di un ritratto dell’imperatore eseguito

alla fine del I secolo a.C. o agli inizi del I secolo d.C.. Anche

questa statua, come la precedente, è alta più di due metri ma, a

differenza dell’altra ritrae Augusto nelle sembianze di pontifex

maximus. Egli presenta infatti il capo velato ed è avvolto da una

tunica drappeggiata; probabilmente nella mano destra, che è

stata spezzata, teneva una patera, piatto rituale utilizzato per lo

spargimento di vino durante la celebrazione rituale.

Dalla descrizione delle due statue possiamo facilmente

osservare che Augusto veniva rappresentato in diverse

occasioni (nella prima, ad esempio, sotto le vesti di imperator,

nella seconda, invece, nelle sembianze di pontifex maximus);

questo aspetto risulta essere dunque un’ulteriore testimonianza

della somma di potere che quest’ultimo possedeva,

paragonabile persino a quella dei primi re romani.

17

Augusto di via Labicana, Museo

Nazionale Romano, Roma

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IL NUOVO COME RESTAURAZIONE DELL’ANTICO: I VALORI TRADIZIONALI

DI ROMA NELLE FONTI LETTERARIE

Come già detto sopra, la decadenza dello stato era comunemente attribuita all’abbandono

delle antiche virtù dei Romani, pertanto, uno dei problemi principali che Augusto dovette

affrontare durante il suo principato fu il ripristino dei tradizionali valori che costituivano il

mos maiorum romanum, ossia il nucleo della morale della civiltà romana.

Tra questi ricordiamo in primo luogo il ritorno alla vita agreste e il lavoro della terra,

ideali presentati come sede di pace e di tutte le virtù e promossi da una legge promulgata

da Augusto che proibiva l’eccessiva ostentazione del lusso; questo aspetto è chiaramente

visibile soprattutto nelle laudes Italiae di Virgilio, in cui si fa riferimento alle ricche messi

dei campi e agli alberi ricchi di frutti maturi che occupavano il territorio romano13. In

questo passo, confrontando i luoghi esotici, specialmente quelli orientali, con l’Italia,

l’autore elogia il proprio Paese, affermando che esso è superiore a tutti gli altri per clima,

fertilità della terra, opere realizzate dall’uomo, stirpi gloriose e grandi condottieri, tra i

quali l’ultimo è il grande Ottaviano, vincitore dell’Oriente corrotto e dissoluto.14

Un altro valore tradizionale che si intravede dalla lettura delle laudes Italiae e che stava alla

base del mos maiorum romanum è sicuramente la contrapposizione delle virtù romane agli

eccessi dell’Oriente; questo contrasto con il mondo orientale si evince in particolare da un

passo delle Odi di Orazio, in cui si festeggia di fronte all’annuncio appena arrivato del

suicidio di Cleopatra.15

In aggiunta a ciò, dobbiamo ricordare che la politica augustea era fortemente incentrata

anche sul valore della famiglia, intesa come la cellula base della società romana. Per

mantenere integro questo ideale, fra il 18 e il 17 a.C. l’imperatore fece approvare una serie

di leggi che miravano a frenare la decadenza dell’istituzione familiare, di cui si notavano

le conseguenze nella diffusione smodata degli adulteri e nel calo drastico delle nascite. In

particolare, con l’emanazione della Lex Iulia de Adulteriis Coercendis, citata anche nell’Ode

oraziana più celebrativa 16, gli adulteri venivano considerati dei crimini e puniti pertanto

con l’esilio; di questa legge fece le spese anche la figlia di Augusto, Giulia, che il padre

condannò all’esilio nell’isola di Ventotene nel 2 d.C., in seguito a una denuncia per

adulterio. Invece, con la promulgazione della Lex Iulia de Maritandis Ordinibus, di cui si fa

chiara menzione addirittura nel Carmen Saeculare di Orazio17, tutti i cittadini in età fertile

erano obbligati a sposarsi, o a risposarsi se vedovi; inoltre, le famiglie numerose

ricevevano un sussidio mentre quelle senza figli venivano multate.

13 “sed grauidae fruges et Bacchi Massicus umor impleuere; tenent oleae armentaque laeta.”, Virgilio, Georgiche, II,

vv. 136-17614 “Haec eadem argenti riuos aerisque metalla ostendit uenis atque auro plurima fluxit. Haec genus acre uirum,

Marsos pubemque Sabellam assuetumque malo Ligurem Volscosque uerutos extulit, haec Decios Marios magnosque

Camillos,

Scipiadas duros bello et te, maxime Caesar, qui nunc extremis Asiae iam uictor in oris imbellem auertis Romanis

arcibus Indum.”, Virgilio, Georgiche, II, vv.136-17615 “Antehac nefas depromere Caecubum cellis auitis, dum Capitolio regina dementis ruinas funus et imperio parabat

contaminato cum grege turpium morbo uirorum, quidlibet impotens sperare fortunaque dulci ebria.”, Orazio, Odi, I, 3716 “Ianum Quirini clausit et ordinem rectum evaganti frena licentia/ iniecit emovitque culpas et veteres evocavit artis”,

Orazio, Odi, IV, 1517 “diva, producas subolem patrumque prosperes decreta super iugandis feminis prolisque novae feraci lege marita,”,

Orazio, Carmen Saeculare

18

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Infine, il princeps si impegnò altresì nel ripristino di antichi culti e rivendicò sempre la

discendenza dagli antenati leggendari Romolo e Remo nonché dalla dea Venere, madre di

Enea. Anche questo aspetto emerge dalla lettura di alcuni passi di Orazio e Virgilio;

numerosi infatti i richiami alla tradizione romana soprattutto nel I libro dell’Eneide dove

si descrive ampiamente la leggenda e si profetizza la potenza di Cesare Augusto18 e nel VI

in cui Anchise, sceso negli inferi con il figlio Enea, mostra a quest’ultimo tutti i suoi

successori tra cui anche Ottaviano19. Evidenti riferimenti alla tradizione sono ben visibili

anche dalla lettura del Carmen Saeculare20 e di un breve passo delle Odi di Orazio21.

LA PROPAGANDA AUGUSTEA NELLA LETTERATURA: I TEMI PRINCIPALI

DELLE OPERE DI VIRGILIO ED ORAZIO

L’idea che con il principato augusteo fosse arrivata un’epoca di pace, che il saeculum

augustum fosse una rinnovata età dell’oro e che Roma fosse destinata dagli dei a governare

il mondo non era diffusa tra i Romani soltanto attraverso le statue del principe, le monete,

i monumentali edifici pubblici, ma anche attraverso le creazioni di grandi poeti che fecero

di questi temi lo sfondo principale delle loro opere.

Questi ultimi, tra cui ricordiamo in particolare Virgilio, Properzio, Orazio, Tibullo e Livio,

si raccolsero ben presto attorno a Mecenate, amico e stretto collaboratore di Augusto. Egli,

che aveva facilmente compreso quale rilievo avessero l’arte e la poesia presso l’opinione

pubblica, istituì un vero e proprio circolo di intellettuali che protesse, incoraggiò e

sostenne nella loro produzione artistica attraverso doni e aiuti finanziari tratti dal suo

ingente patrimonio. In cambio, questi autori celebravano nei loro versi lo stesso Mecenate,

Augusto e talvolta anche il suo programma politico, tuttavia appare di fondamentale

importanza sottolineare che essi mantennero la loro indipendenza personale e non

composero mai alcun testo di esplicita ed eclatante esaltazione dell’impero.

Il tema principale, che domina soprattutto le opere composte tra l’uccisione di Cesare e

l’affermazione del principato, è quello della grande paura delle guerre civili, le quali

avevano travolto la repubblica romana per quasi un secolo. Gli autori che vissero in questo

periodo turbolento e che si occuparono di questo tema, in particolare Virgilio ed Orazio,

fecero emergere il dramma delle guerre civili ma diedero anche altissima forma artistica al

desiderio di ricostruzione e pacificazione, contribuendo a plasmare l’idea di un ritorno

dell’età dell’oro. In questo contesto corre innanzitutto l’obbligo di citare un passo del I

libro delle Georgiche in cui Virgilio, enumerando i parecchi prodigi che sconvolsero la

natura alla morte di Cesare, riporta il quadro desolato e realistico dell’attualità di Roma,

18 “nascetur pulchra Troianus origine Caesar, imperium Oceano, famam qui terminet astris, Iulius, a magno demissum

nomen Iulo. Hunc tu olim caelo spoliis Orientis onustum accipies secura; vocabitur hic quoque votis. Aspera tum

positis mitescent saecula bellis: cana Fides et Vesta, Remo cum fratre Quirinus iura dabunt;”, Virgilio, Eneide, 254-29619 “Hic Caesar et omnis Iuli progenies magnum caeli uentura sub axem. Hic uir, hic est, tibi quem promitti

saepius audis, Augustus Caesar, diui genus, aurea condet saecula qui rursus Latio regnata per arua

Saturno quondam, super et Garamantas et Indos proferet imperium; iacet extra sidera tellus, extra anni solisque uias,

ubi caelifer Atlas axem umero torquet stellis ardentibus aptum. huius in aduentum iam nunc et Caspia regna responsis

horrent diuum et Maeotia tellus, et septemgemini turbant trepida ostia Nili.”, Virgilio, Eneide, VI, vv.781-88620“Roma si vestrum est opus Iliaeque litus Etruscum tenuere turmae, iussa pars mutare lares et urbem sospite cursu,

cui per ardentem sine fraude Troiam castus Aeneas patriae superstes liberum munivit iter, daturus plura relictis:”,

Orazio, Carmen Saeculare 21 “Lydis remixto carmine tibiis Troiamque et Anchisen et almae progeniem Veneris canemus.”, Orazio, Odi, IV, 15

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incentrandolo sul tema della guerra22. Il confronto più immediato si effettua sicuramente

con l’Epodo XVI di Orazio, componimento che riflette ancora una volta lo sconforto dei

Romani per il protrarsi e il rinfocolarsi dei conflitti interni; qui Orazio propone ai suoi

concittadini, come unica via di uscita, una fuga verso l’isola dei Beati, alla ricerca della

tranquillità e della sicurezza23. Altrettanto chiaro il richiamo a questo tema nell’Epodo VII,

nel quale Orazio giustifica il delitto della guerra, attribuendolo alla colpa originaria di

Roma, ossia il fratricidio, da cui deriverebbe il conflitto24.

Alla paura di un nuovo conflitto si contrapponeva però, come già detto, il preannuncio di

un’era di pace e prosperità in cui anche gli autori speravano; questo aspetto si ricava

chiaramente dalla IV Bucolica di Virgilio, in cui si prevede l’arrivo venturo di un puer (le

cui identificazioni sono state molteplici: addirittura Gesù Cristo), portatore di una radicale

rivoluzione futura della vita degli uomini, che potranno godere di un periodo

straordinario di pace interna e benessere25; quest’ultimo ideale di tranquillità e

antimilitarismo si evince anche in un passo del IV libro delle Odi di Orazio26.

Non dimentichiamo poi un ultimo concetto trattato da Virgilio, ossia la forte critica alle

espropriazioni effettuate da Augusto nel 37 a.C. per conferire terre ai veterani al momento

del congedo. Questo concetto si ricava anche dalla lettura della I Bucolica, nella quale si

tiene un dialogo tra due pastori, Melibeo e Titiro: il primo colpito dall’esproprio e costretto

all’esilio, mentre il secondo graziato dall’intervento di un giovane, identificato con

Ottaviano, che gli ha restituito i possedimenti. Qui l’autore, che fu anch’egli vittima per un

breve periodo delle confische e che riottenne i suoi possedimenti solo per intercessione di

Asinio Pollione e Cornelio Gallo, si immedesima nel personaggio di Titiro 27.

22 “Denique quid vesper serus vehat, unde serenasventus agat nubes, quid cogitet humidus Auster,sol tibi signa dabit.

Solem quis dicere falsumaudeat. Ille etiam caecos instare tumultussaepe monet fraudemque et operta tumescere bella.

Ille etiam exstincto miseratus Caesare Romam,cum caput obscura nitidum ferrugine texitinpiaque aeternam timuerunt

saecula noctem.”, Virglio, Georgiche, I, vv.463-51423 “Altera iam teritur bellis civilibus aetas, suis et ipsa Roma viribus ruit. Quam neque finitimi valuerunt perdere Marsi

minacis aut Etrusca Porsenae manus, aemula nec virtus Capuae nec Spartacus acer novisque rebus infidelis Allobrox

nec fera caerulea domuit Germania pube parentibusque abominatus Hannibal: impia perdemus devoti sanguinis aetas

ferisque rursus occupabitur solum: barbarus heu cineres insistet victor et Vrbem eques sonante verberabit ungula,

quaeque carent ventis et solibus ossa Quirini, (nefas videre) dissipabit insolens. Forte quid expediat communiter aut

melior pars, malis carere quaeritis laboribus; nulla sit hac potior sententia”, Orazio, Epodo 1624 “Quo, quo scelesti ruitis? Aut cur dexteris Aptantur enses conditi? Parumne campis atque Neptuno super fusum est

Latini sanguinis, non ut superbas invidae Carthaginis Romanus arces ureret, intactus aut Britannus ut descenderet

sacra catenatus via,

sed ut secundum vota Parthorum sua Urbs haec periret dextera?Neque hic lupis mos nec fuit leoni bus umquam nisi in

dispar feris. Furorne caecus an rapit vis acrior an culpa? Responsum date.

Tacent et albus ora pallor inficit mentesque perculsae stupent. Sic est: acerba fata Romanos agunt scelusque fraternae

necis, ut inmerentis fluxit in terram Remi sacer nepotibus cruor.”, Orazio, Epodo 725 “Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum desinet fave Lucina: tuus iam regnat Apollo. Teque adeo decus hoc

aevi, te consule, inibit, Pollio, et incipient magni procedere menses; te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,

inrita perpetua solvent formidine terras.”, Virgilio, Bucoliche, IV26“ custode rerum Caesare non furor civilis aut vis exiget otium, non ira, quae procudit ensis et miseras inimicat urbis.

Non qui profundum Danuvium bibunt edicta rumpent Iulia, non Getae non Seres infidique Persae, non Tanain prope

flumen orti.”, Orazio, Odi IV, 1527 “O Meliboee, deus nobis haec otia fecit. Namque erit ille mihi semper deus; illius aram saepe tener nostris ab

ovilibus imbuet agnus. Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum ludere quae vellem calamo permisit agresti.”,

Virgilio, Bucoliche I

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LA COSTRUZIONE DI UN NUOVO REGIME: CONSIDERAZIONI PERSONALI IN

MERITO AL CONCETTO DI “NECESSITA’ DELL’IMPERO”

L’affermazione del principato augusteo dopo la vittoria di Azio del 31 a.C. ebbe strada

spianata: la repubblica romana era stata travolta per quasi un secolo dal disastro delle

guerre civili, la lotta politica, in seguito al tentativo di riforma dei Gracchi, si era radicata

nel contrasto politico tra ottimati e popolari all’interno dell’oligarchia senatoria, senza

dimenticare che la riforma dell’esercito di Gaio Mario aveva aperto la strada alla presa del

potere di capi militari i quali, appoggiandosi all’una o all’altra fazione, costituivano un

pericolo in quanto potevano ambire ad usurpare il potere centrale e trasformarlo in un

potere dispotico. In aggiunta a ciò, con l’avvento di Giulio Cesare si era manifestato un

primo tentativo di istituire un potere monarchico, ma questo aveva suscitato una

vivissima opposizione all’interno del senato; ben presto l’uccisione di Cesare aveva

scatenato un’ennesima guerra civile nella quale, ancora una volta, il senato si era mostrato

incapace di tenere le redini dello stato. Tutto questo si era accompagnato, lungo tre

generazioni, ad un’immensa distruzione di ricchezza, all’impoverimento dell’Italia e delle

province, che avevano sopportato il terribile sistema della riscossione dei tributi tramite

appalto gestito dai publicani, e ad un drammatico spargimento di sangue.

Tenendo dunque conto della situazione appena illustrata, risulta facile comprendere che,

in assenza di un organo istituzionale concorde che fosse in grado di garantire una corretta

gestione dello stato e di ripristinare il clima precedente il tumultuoso periodo delle guerre

civili, non essendoci per di più la volontà di apportare modifiche alla “macchina”

repubblicana, era inevitabile accettare l’imposizione di una qualche forma di potere

personale. In questo quadro così drammatico, essendo inoltre basso il rischio di una nuova

guerra e non essendoci all’interno dell’oligarchia senatoria un’altra personalità che fosse in

grado di contrastarlo, riuscì a distinguersi Caio Giulio Cesare Ottaviano; egli non aveva il

genio della guerra, bensì quello incomparabile e insuperabile della politica: coraggioso, in

situazioni particolari temerario e cinico, e determinato nelle decisioni.

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BIBLIOGRAFIA

AA.VV., Storia e geografia, Zanichelli

Augusto, Res Gestae Divi Augusti

Tacito, Annales ab excessu Divi Augusti

Enciclopedia Treccani

www.arapacis.it

Furio Sampoli, Le grandi donne di Roma antica, Newton & Compton editori s.r.l., 2003

Wikipedia

Per il testo in lingua latina:

www.ips.it

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