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Massimo Cacciari, Physis Modena sabato 17 settembre 2011 Si dice che la filosofia inizia dalla meraviglia, che è un termine greco. Il termine greco non è propriamente così “meraviglioso” perché al suo interno thauma ha un significato anche sconvolgente, tremendo al limite. E comunque la filosofia inizia senz’altro dall’avvertire qualcosa come un problema inaggirabile, qualcosa che ci si impone come un problema che non possiamo evitare e che è meraviglioso-tremendo insieme. Ma se dovessimo dare un nome a questo problema che si impone alla riflessione, che dà inizio alla riflessione vera e propria, probabilmente il termine più appropriato sarebbe proprio quello di physis. Natura traduciamo noi ma che significa physis? Qui ovviamente si sono spesi milioni di libri e di tentativi di giungere ad un’interpretazione unanime di questo termine chiave di tutta la nostra tradizione culturale filosofica scientifica. Invano, perché probabilmente costitutivamente questo termine physis si nasconde. Vediamo come. Certamente appunto fin dalle origini la nostra riflessione è physis, la natura, ciò che ci si impone come problema e ciò che dobbiamo indagare. Ma certamente questo termine physis non indica originariamente un insieme di enti o anche la loro totalità, così come pensiamo noi quando diciamo natura: l’insieme degli enti, l’insieme degli enti che ci si offrono allo sguardo, ta phainomena, che si offrono nella luce, phos, phaino, hanno la stessa radice in greco, che ci si offrono nella luce allo sguardo, che ci sono fenomeni, che ci appaiono. Noi intendiamo natura sostanzialmente così: come l’insieme dei fenomeni o la loro totalità, l’idea della loro totalità oppure questi sottoinsiemi che classifichiamo in una forma o nell’altra, e che ci appaiono alla luce. Ecco, certamente physis non ha originariamente questo timbro, non suscita questa idea. Perché? Ma perché in physis, dove non si esclude certamente anche l’idea dell’ente nel suo apparirci, ma in physis i greci pensano l’arché di questo apparire, cioè l’origine, ma non l’origine semplicemente in senso cronologico, come vanno in cerca adesso gli scienziati col big bang eccetera, no, ciò che ci

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Massimo Cacciari, Physis

Modena sabato 17 settembre 2011

Si dice che la filosofia inizia dalla meraviglia, che è un termine greco. Il termine greco non è propriamente così “meraviglioso” perché al suo interno thauma ha un significato anche sconvolgente, tremendo al limite. E comunque la filosofia inizia senz’altro dall’avvertire qualcosa come un problema inaggirabile, qualcosa che ci si impone come un problema che non possiamo evitare e che è meraviglioso-tremendo insieme. Ma se dovessimo dare un nome a questo problema che si impone alla riflessione, che dà inizio alla riflessione vera e propria, probabilmente il termine più appropriato sarebbe proprio quello di physis. Natura traduciamo noi ma che significa physis? Qui ovviamente si sono spesi milioni di libri e di tentativi di giungere ad un’interpretazione unanime di questo termine chiave di tutta la nostra tradizione culturale filosofica scientifica. Invano, perché probabilmente costitutivamente questo termine physis si nasconde. Vediamo come. Certamente appunto fin dalle origini la nostra riflessione è physis, la natura, ciò che ci si impone come problema e ciò che dobbiamo indagare. Ma certamente questo termine physis non indica originariamente un insieme di enti o anche la loro totalità, così come pensiamo noi quando diciamo natura: l’insieme degli enti, l’insieme degli enti che ci si offrono allo sguardo, ta phainomena, che si offrono nella luce, phos, phaino, hanno la stessa radice in greco, che ci si offrono nella luce allo sguardo, che ci sono fenomeni, che ci appaiono. Noi intendiamo natura sostanzialmente così: come l’insieme dei fenomeni o la loro totalità, l’idea della loro totalità oppure questi sottoinsiemi che classifichiamo in una forma o nell’altra, e che ci appaiono alla luce. Ecco, certamente physis non ha originariamente questo timbro, non suscita questa idea. Perché? Ma perché in physis, dove non si esclude certamente anche l’idea dell’ente nel suo apparirci, ma in physis i greci pensano l’arché di questo apparire, cioè l’origine, ma non l’origine semplicemente in senso cronologico, come vanno in cerca adesso gli scienziati col big bang eccetera, no, ciò che ci governa sempre, arché, in greco, ha questo significato, è un’origine che è la parte più potente anche di ciò che oggi ci è determinato, che governa anche ciò che oggi ci appare determinato, che continua a governare. Quindi l’archè, nel senso anche se volete militare politico del termine, ciò che ha il comando fin dall’inizio ma che continua ad averlo, che continua a dominarci, ecco in physis vi è essenzialmente quest’idea. Per questo gli antichi filosofi parlavano peri physeos, intorno alla physis. Descrivevano semplicemente gli enti nella loro costituzione? Anche, ma ciò che cercavano era la loro arché, era il loro principio, il principio della loro costituzione non la struttura della loro costituzione, non come apparivano costituiti ma il principio che li aveva così costituiti. Quindi qualcosa in physis

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che è pre-potente il manifestarci di ciò che chiamiamo natura, il manifestarsi delle cose visibili, degli enti, degli enti comprensibili afferrabili dal nostro sguardo. Diciamola in termini ancora più precisi: in physis si pensava, o si cercava di pensare, ciò che nel manifestarsi degli enti non era immediatamente visibile, non era immediatamente apparente, la loro arché appunto. E physis indicava il principio che costantemente genera, il nascere, il principio del nascere o tout court, il nascere, non il nato, non i nati, ma il principio che li faceva nascere, che li fa continuamente nascere. Quindi l’idea del crescere, del generare, del nascere, questo risuona nel timbro di physis, senza che ciò escluda ovviamente la considerazione, diremmo noi oggi, analitica anche degli enti nel loro determinato manifestarsi. Ma più potente di questo manifestarsi è l’arché che fa manifestare, che fa generare, pre-potente rispetto alla potenza degli enti che si manifestano è ciò che li ha generati e che continua li genera e che li governa, la loro arché. E questo principio, il principio dell’eterno costituirsi degli enti si nasconde allo sguardo. La grande questione di come interpretare il detto eracliteo: physis ama nascondersi, dove quel philey è tradotto malissimo con amare, è il suus, alla phsys appartiene come suo proprio il nascondimento, cioè a quel principio, a quell’arché della costituzione materiale degli enti, quell’arché ha il suo proprio nel nascondersi, perché non risulta visibile, non è un ente come gli altri visibili ma è il principio del loro essere generati, del loro generarsi. Quindi in questo senso io interpreterei, e credo sia un’interpretazione molto semplice ma anche difficilmente contestabile appunto il detto eracliteo. Certo se noi traduciamo physis, natura come la totalità degli enti che vediamo ma perché mai si nasconde, non si nasconde affatto il fenomeno, il fenomeno sta alla luce, si manifesta, che senso ha dire si nasconde, se intendiamo physis come la totalità dei fenomeni è chiaro che ci troviamo di fronte a un paradosso, a una contraddizione ma se interpretiamo physis come appunto ho cercato di fare, è evidente che appartiene alla physis proprio il nascondimento, philey suus, phylos in greco probabilmente ha la stessa radice del latino fuus, ciò che appartiene alla physis, ciò che appare alla luce proviene da un nascosto, la provenienza dell’apparire non appare, il principio della vita degli essenti, ciò che gli dà incessantemente vita, che dà incessantemente vita al crescere, al germogliare è ingenerato, eterno ed è irriducibile alla determinatezza dell’ente, ma è evidente altresì che io comprendo questo soltanto considerando l’essente, soltanto considerando l’essente e ponendomi la domanda della sua provenienza io comprendo il nascosto, quindi è chiaro che non si rompe mai il rapporto, la relazione, il simbolo, tra il fenomeno e questa sua arché, perché io considero l’arché, giungo nella mente a considerare l’arché soltanto attraverso la contemplazione dei fenomeni, di ciò che appare nella luce, phos, che non ho messo io in luce, perché non la produco io la luce, il fenomeno è nella luce e io lo posso considerare in tutti i sensi del termine considerare, (misurare

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calcolare ecc.) soltanto perché è nella luce e non perché io lo illumino, io lo rifletto non lo illumino.

Allora la meraviglia, la tremenda meraviglia, sta in che cosa? Sta non nel manifestarsi degli enti ma nella “scoperta” di questa sua arché nascosta, ecco questo è quanto fa problema, è quanto inquieta, e diciamolo in altri termini ancora, più propriamente filosofici, anche se la filosofia non nasce dalla filosofia, o noi ci cacciamo, col nostro Vico e con tanti altri, in queste primae, nel tentativo di comprendere queste originarie esperienze, senò non facciamo filosofia che nasce dalla filosofia, questa cosa stucchevolissima secondo cui la filosofia si fa attraverso i libri di filosofia e discutendo libri di filosofia e con le storie della filosofia ecc. O noi ci ricacciamo dentro alcune esperienze originarie oppure la nostra diventa sedentaria erudizione. E quindi io credo che il thauma, la meraviglia da cui appunto gli antichi sapevano nascere la filosofia, quindi la filosofia non nasce dalla filosofia, nasce da un pathos, da un’esperienza, che ti obbliga a considerare, a riflettere, che è per te un pròblema come dicevo, e appunto il vero problema non è gli enti che sono ma la loro provenienza, il nascosto da cui provengono, ma in termini più propri ancora – passo ulteriore – ogni ente e ogni insieme di enti è determinato, lo scienziato lo sa, lo scienziato può considerare soltanto gli enti nella loro determinatezza, questo ente, questo insieme di enti, comuni per questo o quel carattere, per questa o quella forma, ma, ecco il thauma, questo di per sé non è niente di meraviglioso, né di tremendo, ma il thauma, la meraviglia si suscita quando? Quando io chiedo: sì ma tutti questi enti de-terminari, de-finiti, peras, limite, posso avere un’arché, finita anch’essa? Questo va a un regresso all’infinito perché se l’arché degli enti determinati fosse a sua volta un ente determinato, l’arché di quell’ente determinato qual è? Un altro ente determinato e così via. Quindi l’arché di queste determinatezze non può avere limite a sua volta, se è il principio; allora ecco il rapporto peras-apeiron, che non ha nulla di idealistico, quando si legge appunto Anassimandro in questa chiave, non ha nulla di idealistico, è tutto dentro questo pery physeos, quest’interrogazione intorno al thauma che è la physis, in questa ricerca di individuare, di indicare, di far segno a quel nascondimento che physis “ama”. E allora, se cerchiamo la causa, l’arché della determinatezza dell’ente, è chiaro che dobbiamo rivolgerci a ciò che non è determinato, che non ha limiti, il peras, ciò che ha limite, rimanda, richiama, l’esigenza di affrontare l’apeiron, l’in-finito, ciò che non ha determinatezza, ciò che non può essere ricondotto alla determinatezza degli enti, e qui davvero è il thauma, perché che cos’è questo apeiron? Come faccio ad indagare l’apeiron? Da cui tutti i mondi, nella loro determinatezza, secondo il famoso frammento che è all’origine di tutto il nostro pensare.

Ecco il paradosso in cui ci imbattiamo, in quanto irriducibile la physis in quanto allora irriducibile a stato, uno stato degli enti, uno stato degli enti nella loro determinatezza, ci appare prima di tutto qualcosa che pre-esiste,

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prepotente dicevo prima, ogni nostra capacità di calcolare determinare, diciamolo in un termine che poi ci sarà utile, diciamo ci appare come un eterno passato, un’abisso, questa natura, da dove viene, la provenienza, apeiron, non determinabile, certamente l’avvertiamo come prima di noi, pre-potente ogni nostra capacità di calcolo, di imposizione, un eterno passato, c’è sempre stata la natura, la physis, questa capacità indeterminabile di crescere, di germogliare, di nascere, far nascere, c’è sempre stata, è un passato insondabile, appunto pre-potente rispetto ad ogni stato dei fenomeni, ma anche in quanto crescere, in quanto germogliare, è un eterno futuro, il thauma si articola così, dopo tutta questa esperienza, dopo tutto questo viaggio, passaggio, dobbiamo dire: questa natura, eterno passato, questa physis eterno passato ma anche insieme eterno futuro, perché il crescere il nascere incessante anche imprevedibile, impredittibile, quest’arché che si nasconde ma che continua a governare, che continua a dominare, che continua a essere arché, è anche un futuro, che noi non possiamo in alcun modo pensare di disporre, possiamo determinare i fenomeni, così come ci appaiono, ma da dove?, eterno passato, e come ri-nasceranno, ri-germoglieranno ecc., eterno futuro, questo è il thauma, che ci sorprende e badate nella lingua latina questa meraviglia è quasi detta nelle parole, riflettete sull’etimo di physis, e l’etimo di physis lo trovate in latino non in greco, in latino lo trovate in fui, passato remoto e in futurus, è lo stesso etimo, di physis, ritrovate physis come ciò che fu, cioè un essere stato più essenziale di quanto lo sia alcun ente, perché per un ente determinato il suo esser passato equivale a non essere più mentre lì quell’essere passato è arché tuttora dominante, e già ora nel suo presente potenza futura, a differenza di ogni altro ente che in quanto possibile, ancora non è.

Fui e futurus, dice di sé la natura, nella sua attualità physis è passato futuro e futuro passato e badata che natura anche in latino è un participio futuro anch’esso, ed è stato un errore colossale di Heidegger polemizzare con il latino a questo proposito, quando diceva appunto che già per i latini natura era uno stato dell’ente determinato e aveva dimenticato il senso di physis, neanche un po’, è come se Heidegger non avesse mai letto Lucrezio, non aveva capito proprio natura nel suo significato di participio futuro che è dominante nella latinità, altro che dimenticato nella latinità, e quindi è una buona traduzione di physis, natura, se si ricorda il significato etimologico del termine e ancora di più è ricchissimo il latino, unico tra gli idiomi indoeuropei ad avere questa radice comune che collega il participio passato al futuro, ed è la stessa radice di physis. Questo è il thauma, questa è la meraviglia che continuamente pensiamo, ma a questo punto del pensiero, dell’esperienza del pensare, tutto si complica ancora poiché per tempo ben prima di Socrate e poi da allora sempre, nella totalità dei fenomeni, e il rapporto tra phainomena e physis ormai non ne parliamo più, speriamo di averlo capito, nella totalità dei fenomeni appare quell’ente che di quella totalità e di quella provenienza

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nascosta e di quell’arché prova meraviglia e se ne interroga ecc., nel thauma della physis, nel guardare questo spettacolo io vedo me stesso, nel thauma della physis appare il deinon per eccellenza, che è l’uomo. Qui entriamo nella filosofia nell’epoca tragica dei greci, per parafrase Nietzsche; allorché nel thauma della physis lì dentro io vedo me stesso e devo conoscere me stesso dentro la physis. Ma riconosco dentro la physis il ruolo sconvolgente-perturbante che mi è assegnato, che è assegnato al mio esserci, che è il tema vero filosofico teoretico della tragedia, il ruolo perturbante sconvolgente che necessariamente, ananke, per necessità, l’esserci ha all’interno della physis nel senso complesso che abbiamo cercato di individuare. Della physis questo deinon che è l’esserci umano è parte; alla physis appartiene senza alcun dubbio, nessuno l’ha mai messo in dubbio, in discussione, ma in una forma del tutto appunto perturbante inquietante singolare. Poiché col logos, con la sua ragione, col suo linguaggio, traducete logos come volete, non possiamo qui aprire una discussione anche su questo termine, addirittura giunge all’idea di poterla dominare, di poterla avere a disposizione, attenzione, contraddicendo il timbro originario della physis, perché se avete seguito il discorso che ho fatto fin d’ora, è evidente che quell’arché non è a disposizione, quella physis che ama nascondersi, proprio nel suo nascondimento non è a disposizione del nostro logos, del nostro calcolo, ma allorché vediamo nella physis lo straordinario e il perturbante dell’esserci che comprende, che calcola, che misura, che trasforma è necessario, ananke, che compaia, che si presenti questa singolare idea, che physis sia a nostra disposizione, che physis sia qualcosa di non soltanto comprensibile ma dominabile. E allora lo spettacolo, il thauma della physis, si concentra su tale protagonista, su questo protagonista della sua scena, che è l’uomo. E via via l’archè, il principio diviene allora il problema… il problema del principio diviene il problema di questo protagonista, di questo logos, delle idee che formano costituiscono l’operare del logos, e più specificatamente ancora, è evidente che l’uomo è uno zoon, un animale, come un ente animato animale, come ogni altro ente a diversi gradi della natura, ma tuttavia è altrettanto evidente che questa parte della natura è stra-ordinaria, pensa, è dotata di logos, e questo potrebbe confermarlo qualsiasi scienziato attuale, il logos, comunque voi lo definiate, diciamo pure fondamentalmente linguaggio, appartiene solo a noi, pensa, parla, calcola, trasforma, questo ente della natura, questo ente della physis, è stra-ordinario, è un paradosso, dal punto di vista degli altri enti, degli altri phainomena, appare, phainomenon, qualcosa di paradossale o di stra-ordinario rispetto agli altri fenomeni. Questo è il thauma, questo diviene il thauma, dal thauma della physis al thauma di questo esserci, della natura, physis (a questo punto possiamo dire physis proprio come lo usa anche Platone), della natura di questo esserci, che poi diventa equivalente a dire dell’essenza di questo esserci. È naturale, che scoperta è?, è una sciocca banalità, che noi si appartenga alla physis, il problema che cos’è?, e che quindi noi siamo un corpo insieme agli altri che appare nell’ambito della

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physis, così come abbiamo spiegato, ma ciò che è inquietante perturbante è che siamo un corpo pensante. Quando bene diciamo che siamo corpo e tentiamo di ridurre anche tutto nel modo più naturalistico deterministico a ta physikà, che cosa abbiamo detto?, non abbiamo detto assolutamente nulla, perché appunto il problema non è il riportare la nostra “natura” alla physis ma comprendere la straordinarietà di questa nostra forma di appartenenza, noi apparteniamo alla physis pensando, parlando, non abbiamo altro modo di appartenervi, se non questo modo straordinario rispetto a tutti gli altri enti, questo è il problema, non raccontarci che siamo corpo, il problema è che siamo un corpo pensante, questo è il problema, e questo fatto appunto parrebbe non spiegabile in base ai principi stessi della natura, o lo è? Questo era il thauma, per gli antichi, questo fatto indiscutibile che pensiamo, è il prodotto di una qualche evoluzione della natura? Oppure ci viene da fuori, dalla soglia, questo elemento, il pensiero, viene da fuori? O è immanente alla sua stessa costituzione naturale? Pochi forse oggi ne dubiterebbero, nella scienza pochi dubitano che la spiegazione di questa straordinarietà vada riportata a fattori attinenti alla nostra evoluzione naturale, la scienza è tutta riduzionistica da questo punto di vista e non può essere altrimenti, per propria natura, ma qualunque operazione riduzionistica non può eliminare la domanda: perché questo pezzo di natura, questo pezzo di cosmo di cui posso spiegare tutti i meccanismi al limite, posso ritenere che siano tutti spiegabili, tutti calcolabili, perché questa porzione determinata, peras, di cosmo, può pensare l’infinito, apeiron? O se volete, per dirla con Dostoevskij, com’è che questo miserabile esserci (porzione di cosmo, tutto natura, ecc.) ha potuto concepire l’idea di Dio? È un fenomeno dell’evoluzione? Ma allora, com’è che l’evoluzione ha avuto questa evoluzione? Quale caso straordinario ha fatto in modo che nella totalità infinita dei casi possibili questo: una materia pensante, si sia realizzata? E proprio la ricerca dell’archè, di nuovo, anche nelle correnti scientifiche più avvedute, meno volgarmente materialistiche, ritorna ad essere, proprio questa cupiditas scienti, il sapere questo archè, di cercare di dare risposta appunto a questo, spinge la ricerca, ancora proprio nel senso di quella physis forse, di quella ricerca di un archè, che rimane nascosta, ma che non esonera affatto appunto dalla ricerca, perché l’ignoto è sempre come dire una parte del noto, quando io ricerco qualcosa e giungo ad un risultato, lì, in quel risultato, immanente a quel risultato, è quello che ancora è da trovare, da definire, da determinare. Questa lunga chiacchierata giunge a un primo risultato: che comunque sia, physis non è, non può essere concepita come qualcosa che si riduce a uno stato manifesto degli enti, non solo perché è qualcosa, physis, che sempre ha da venire, appunto, eterno futuro, che quindi non è mai catturabile in uno stato, è sempre creatrice, ma perché, ecco questo è il punto fondamentale, physis, ci è risultata indissolubilmente legata a chi la osserva, al pensare. Non vi è natura se non come esperienza della natura, ormai lo sappiamo, non vi è ente se non come fenomeno, ciò che appare al pensare, ma al pensare, ecco l’idea di physis, nel momento stesso che appare

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il fenomeno, appare se non altro la domanda dell’archè, della physis. Nel momento stesso dell’apparire del fenomeno è inesorabilmente connesso la domanda intorno alla sua nascosta provenienza e a maggior ragione laddove appunto mi interrogo su quella parte di physis, su quella porzione di cosmo che è il nostro esserci, perché lì la domanda si fa ancora più inquietante, ancora più forte, da dove il fatto che sono materia pensante? Da dove questa straordinarietà? Il problema che mi si poneva per qualsiasi fenomeno diventa ancora più drammatico laddove questo fenomeno che mi appare sono me stesso. È quindi impossibile ogni operazione riduttivistica, in qualche modo il pensiero critico filosofico, ma anche quella che i grandi scienziati chiamano oggi la scienza ironica, i più grandi fisici, quelli che appunto non sono deterministici per nulla, in qualche modo mantengono da questo punto di vista proprio quella physis che ama nascondersi, quel physis krypthesthay philey, che risuonava originariamente, lo tengono aperto, come una prospettiva, forse inconscia, quella idea di una apertura alla ricerca verso physis, per l’appunto verso physis nel senso che abbiamo spiegato all’inizio. Possiamo dire che vi è stato un periodo, certo, un periodo decisivo, eroico nella storia della nostra cultura, nella storia dello spirito europeo, quella che è stata definita l’età della scoperta, in cui si pensava che tutto potesse essere disvelato, scoperto, chiarito, illuminato da noi, un’età decisiva, eroica, che non potremo mai dire, per le ragioni per le quali accennerò, superata, sono sciocchezze, che continua a essere dominante prima ancora che nella nostra mente, nei nostri comportamenti, nelle nostre pratiche, l’idea della scoperta, si può dire che c’è stato un periodo in cui appunto il pensare ha preteso davvero di costituire il principio stesso della physis, o per lo meno, il fine supremo della physis, teleologicamente physis, natura, rivolta teleologicamente al fiore supremo, la mente, il cervello, la cui missione, stava nel rendere evidente physis, nello scoprirla, questa è la missione, è la grande missione del progetto tecnico-scientifico, su cui potremmo discutere a lungo le aporie le contraddizioni ma sono discorsi da mosca cocchiera e marcia talmente da aver dissolto ogni forma di obiezione; possiamo dire appunto che c’è stata questa pretesa, questa presunzione, di poter giungere con il logos a disvelare la costituzione della physis in quanto il logos ne era l’archè, e quindi nel disvelare la physis si congiungeva a se stesso, ne poteva dire l’archè perché l’archè era lui stesso, questa natura che parla il mio linguaggio e vi è perfetta coerenza tra le mie asserzioni, le asserzioni che faccio con il mio linguaggio, e la cosa in sé, sì, c’è stato un momento in cui il logos ha avanzato questa pretesa ed è fondamentale per la nostra cultura, la nostra civiltà, in cui li logos era perfettamente dire la cosa, senza residui, senza che nulla rimanesse fuori, senza che nulla rimanesse nascosto; ecco, probabilmente siamo tornati senza assolutamente superare, lo vedremo, la costituzione del progetto tecnico-scientifico, ma siamo probabilmente ritornati nella scienza contemporanea, nelle scienze non più deterministiche meccanicistiche, ci siamo riavvicinati

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forse a una qualche idea, ci siamo riavvicinati alla possibilità di poter forse dialogare di physis anche con lo scienziato. Provo a dirla così:

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