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Maria Santini MATILDE DI CANOSSA “Come fiamma luminosa...” Tutto l’appassionante e drammatico racconto della vita dell’unica vera sovrana alla quale l’Italia abbia dato i natali Simonelli Editore 1

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Maria Santini

MATILDE DI CANOSSA

“Come fiamma luminosa...”

Tutto l’appassionante e drammatico racconto della vita dell’unica vera sovrana

alla quale l’Italia abbia dato i natali

Simonelli Editore

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Internet: http://www.simonel.com

ISBN 88-86792-28-X

Questa è una prova-assaggio di:

Maria Santini«Matilde di Canossa»

Tutto l’appassionante e drammatico racconto della vita del-l’unica sovrana alla quale l’Italia abbia dato i natali.

ISBN 88-86792-28-X, pp.160, Euro 15,50

Ordinalo Contrassegno con una e-mail a [email protected]

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I PROTAGONISTI DELLA STORIA

La famiglia

Bonifacio di Canossa, marchese di Toscana

Beatrice, figlia di Federico duca dell’Alta Lorena

Federico di Canossa

Beatrice di Canossa

Matilde di CanossaGoffredo il Barbuto,

duca della Bassa Lorena, secondo marito di Beatrice

Goffredo il Gobbo,duca della Bassa Lorena, primo marito di Matilde

Guelfoduca di Baviera, secondo marito di Matilde

Giulia e Marchionissa, figlie naturali di Bonifacio

Il potere

Enrico III di Franconia,re di Germania e Sacro Romano imperatore

Enrico IV di Franconia

Enrico V di Franconiaugualmente re e imperatori

Agnese d’Aquitania, moglie di Enrico III

Berta di Torino, prima moglie di Enrico IV

Prassede di Kiev, seconda moglie di Enrico IV

Corrado, figlio primogenito di Enrico IV

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I PROTAGONISTI DELLA STORIA

La Chiesa

Vittore II (Gebhardt di Dollstein-Hirschberg, vescovo di Eichstaett)

Stefano IX(Federico dei duchi di Lorena, abate di Montecassino)

Alessandro II (Anselmo da Baggio)

Gregorio VII (Ildebrando di Soana)

Vittore III(Desiderio di Benevento, abate di Montecassino)

Urbano II(Eudes di Lagery)

Anselmo vescovo di Lucca

Teofano, badessa del convento benedettino di Guastalla

I fedeli di Enrico IV

Goffredo di Buglione

Oberto degli Obertenghi

I fedeli di Matilde

Guicciardino da Firenze

Arduino da Palù

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Parte prima

stirpe fuit genita regali pulchra Beatrix

maiorum mundi stirpe fuit genita

La bella Beatrice nacque da stirpe regale

nacque da una stirpe dei più potenti del mondo

Donizone, Vita Mathildis

Firenze maggio 1055

Il maggio, a Firenze, è sempre dolce. In quellaprimavera un vento tepido e profumato spirava dallecolline ammantate di olivi e cipressi la cui distesa ver-deazzurra era interrotta qua e là soltanto dalla grigiamole di qualche casa-fortezza. Un’aria impalpabile esoave avvolgeva la piccola città turrita, ancora tuttachiusa nell’arcigna cerchia delle mura romane ed ada-giata in un’ansa del suo fiume lucente.

Firenze stava vivendo la pagina più importantedella sua storia fino ad allora così povera di eventi dirilievo. Essa infatti aveva l’onore di ospitare le duemassime autorità del mondo occidentale, Enrico III, redi Germania e Sacro Romano Imperatore, e Vittore II,il pontefice, tedesco come il sovrano e molto vicinoall’animo suo.

Papa e imperatore erano seguiti, naturalmente,dalle loro corti, cosicché per le strette straduzze dellacittà toscana al dolce dialetto locale si mischiava l’a-spra ed enfatica parlata germanica. Boriosi ed attacca-brighe, specie quando indulgevano troppo al vinelloitalico, i tedeschi non piacevano a nessuno ma, ad onta

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di ciò, la città viveva il suo primo grande momento infebbrile letizia. Mai come allora il commercio cittadinoaveva prosperato e, per di più, si mormorava insistente-mente che Enrico III avrebbe proclamato Firenze cittàimperiale. Questo voleva dire sottrarsi al dominio deisignori di Canossa, marchesi di Toscana, e dovereimposte e balzelli solo ad un imperatore lontano inveceche a un feudatario vicino e incombente... vero è cheFirenze amava Beatrice, l’attuale marchesa, assai piùdel suo defunto consorte Bonifacio, esoso e severo: mase, come pareva, l’imperatore si preparava a deporre lasignora di Canossa, per i fiorentini non sarebbe statapoi una tragedia così grande.

La marchesa Beatrice era disperata. Ogni gior-no, tirandosi dietro la sua bambina di nove anni, ripete-va il tentativo di farsi ricevere dall’imperatore. Vedovadi Bonifacio, che era stato ribelle all’autorità di EnricoIII, colpevole di essersi risposata con uno dei più osti-nati nemici dell’imperatore, il duca Goffredo diLorena, Beatrice era caduta in disgrazia e solo la suateutonica ostinazione (era anche lei lorenese), la spin-geva a persistere nella ricerca del perdono imperiale.Invano: la feudataria virtualmente deposta collezionavasolo sgarberie. Quando le passavano davanti, entrandoe uscendo dagli appartamenti imperiali, personaggidella corte tedesca che la conoscevano da sempre fin-gevano di non vederla o la gratificavano di uno sguar-do vacuo, che pareva attraversarla.

In quella particolare mattina madre e figlia,sedute nel vano di una finestrella in una grande antica-mera spoglia, formavano un quadro ammirevole.Beatrice era sottile ed elegante, con carnagione di lattee occhi azzurro ghiaccio: la bambina era rosea, gras-soccia, biondissima, con occhi di un celeste più slavato

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di quelli della madre: una vera tedeschina. La marchesasi manteneva composta, con una sfumatura dell’anticaarroganza mentre la bambina appariva dolce e sgomen-ta. Ogni tanto volgeva il visetto ansioso verso il voltomaterno ma la feudataria, nervosa e angosciata, nonaveva tempo per lei.

Beatrice stava pensando all’amara ironia deldestino che faceva sì che lei, la potente signora dellaToscana e della Padania, stesse facendo anticamera nelproprio palazzo fiorentino, quel palazzo che Enrico IIIle aveva confiscato per stabilirvisi con la sua corte. Mamentre stava per alzarsi, sfiduciata, col proposito ditornare alle case dei conti Gotizi che le offrivano una(tepida) ospitalità, un tramestio insolito in fondo allasala le fece capire che, forse, l’incontro bramato etemuto con il cugino imperatore stava per avere luogo.

Ecco: le guardie che presidiavano la porta difondo si irrigidivano nel saluto protendendo le lance...la porta si apriva... un corteo di gentiluomini entravanella sala, veniva verso di lei. Beatrice scattò in piedi.

«Alzati!» sussurrò alla figlioletta, tirandola sucon uno strattone.

Un’animata discussione pareva si stesse svol-gendo fra i nobili signori che, traversando l’anticamera,stavano per passare di fronte a loro. Fra tutti, gli occhidella marchesa avevano già individuato la familiarefigura dell’imperatore, la sua grossa testa sul corpoesile ed alto. Ella si inginocchiò, costringendo con unaltro strattone la bimba a genuflettersi con lei, e attese.

Come Enrico fu davanti a loro, Beatrice alzò gliocchi mentre le sue labbra già formavano le parolesupplichevoli cento volte provate... ma quando losguardo del giovane imperatore si fissò, gelido e nemi-co, nel suo, la donna sentì che la voce le mancava.Questione di un attimo: subito Enrico distolse i freddi e

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beffardi occhi azzurri e si rivolse, con noncurante iro-nia, ad uno dei compagni:

«Non tentatemi, mio caro Herschfeld, nonabbiamo proprio tempo per la caccia. Siamo qui per deigravi doveri, lo sapete meglio di me».

Sparirono tutti oltre l’altra porta. Voci e risate siaffievolirono in lontananza.

Ora che aveva constatato di persona come stes-sero le cose, Beatrice doveva arrendersi alla realtà, perquanto amara fosse. Fino ad allora si era cullata nellasperanza che fossero subdoli intrighi di cortigiani asepararla dall’imperiale cugino insieme al quale eracresciuta: invece era lui stesso che, mortalmente offe-so, la teneva lontana. Se le cose stavano così, che nesarebbe stato di lei, dei suoi figli, del suo dominio? Pernon parlare di Goffredo, suo marito, fuggiasco in chis-sà quale angolo d’Europa.

«Avete visto la marchesa di Toscana?» motteg-giava intanto l’imperatore, rivolto ai suoi fidi mentrescendevano le scale. Tutti risero.

«Non sembra più lei, perbacco!» affermò ilbiondo e giovanissimo Lothar di Ulm, «mi ricordo,sire, quando mi mandaste a Canossa, per prelevarla:un’alterigia...».

Erano intanto arrivati alla loggia interna delprimo piano. Lì comparve di fronte a loro il conte diRossbach, l’anziano cerimoniere dell’imperatore, coluiche tutte le mattine introduceva la marchesa in antica-mera per la sua attesa vana.

«Sire...».«Sì, mio buon Rossbach?».«La margravia Beatrice...» questo era il titolo

che i tedeschi davano a coloro che in Italia erano chia-mati marchesi o conti, «non ritenete... non avete ritenu-to opportuno neppure stamane...».

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«No, Rossbach, non ho ritenuto e non ritengodare a Beatrice, g i à m a rgravia di Toscana, nessunaudienza. So che voi, gentiluomo all’antica, non riuscitea concepire come si possa trattare così una donna ditanto nobile lignaggio... ma mia cugina Beatrice nonmerita nessuna benevolenza: traditrice come tutti iLorena, come il suo primo marito, come Goffredo!» ilsovrano si interruppe un attimo, conscio che la suavoce stava prendendo, nell’ira, toni troppo striduli. Poiriprese, con foga quasi pari «del resto la già margraviaavrà modo di parlare di fronte a me e di discolparsi, seci riuscirà, quando la chiameremo in giudizio. In attesadi quel giorno, che non tarderà, ella ringrazi Iddio chenoi, nella nostra suprema mitezza, le concediamo anco-ra di andar libera!».

Friedrich di Rossbach si portò una mano alpetto, inchinandosi profondamente senza più osar direplicare. Enrico gli fece un brusco cenno di congedo eproseguì.

Mentre discendevano l’ultima rampa di scale,quella che conduceva al cortile interno del palazzo,Ruprecht di Herschfeld, rimasto indietro con il sire diUlm, chiese con noncuranza:

«Quella ragazzina che la margravia si tira sem-pre appresso è la figlia minore o la maggiore?».

«La più piccola» rispose Lothar, «si chiamaBeatrice come lei... ma che dico, quella è l’altra, questaqui si chiama Matilde».

«E il maschio che fine ha fatto?».«L’erede?» sogghignò l’altro. «Se ci sarà qual-

cosa da ereditare per lui, beninteso... La madre si èguardata bene dal portarlo qui, dice che è gravementemalato, intrasportabile».

«Speriamo» si augurò tetramente Herschfeld,«che l’imperatore nostro signore si decida presto a farla

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finita con la razza traditrice dei Canossa e deiLorena...».

Non restava a Beatrice altra via se non quella dicercare l’appoggio del papa. Ci voleva una bella facciatosta, dato l’odio che i signori di Toscana avevanomostrato, in tempi per loro migliori, a lui ed ai prece-denti pontefici fedeli all’imperatore ma la marchesavoleva tentare. Vittore II, per la stessa clemenza che ilsuo ufficio imponeva, non poteva rifiutarsi di riceverla.E infatti non si rifiutò.

Il papa risiedeva al palazzo arcivescovile,accanto a Santa Reparata. Dalle finestre delle sue salesi vedeva la mole della vecchia cattedrale fiancheggiatadal piccolo battistero di epoca longobarda. QuandoBeatrice fu ammessa alla sacra presenza non degnò delminimo sguardo il dignitario ritto accanto al seggiopapale: non aveva mai occhio per i subordinati e menoche mai in quelle circostanze. Si gettò invece ai piedidel pontefice in un gesto di supplice abbandono.Accanto a lei la piccola Matilde, biancovestita, si sfor-zava di imitarne ogni gesto.

«Alzatevi, figlia mia».Al suono di quella voce benigna Beatrice sollevò

la testa ma rimase in ginocchio, con la bimba accanto.L’uomo che occupava il trono di Pietro appariva

ancora piuttosto giovane ma, notò la marchesa, pallidis-simo e sciupato in viso. Del resto che Vittore II fosseammalato molto gravemente era voce comune.

«Beatrice, nostra diletta figliola, molto ci rattristail vostro stato...».

«Oh, beatissimo! Una vostra parola, una parolasola, e il mio cuore si riaprirà alla speranza. Nel momen-to della sventura gli uomini mi hanno abbandonato maconfido che il vostro cuore paterno...».

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Vittore II, prelato di santa vita ma fine diploma-tico e buon conoscitore delle cose del mondo, osserva-va la bella donna altera e non poteva non notare quantopoco spontanee uscissero da quelle labbra orgogliose leparole di pentimento e di sottomissione. No, personal-mente non se la sarebbe sentita di raccomandare all’im-peratore clemenza e perdono. Tuttavia disse:

«Come potrei aiutarvi, figlia mia?».Beatrice, equivocando, sentiva il proprio cuore

battere di speranza. Dolce era l’animo del papa e facileottenerne l’appoggio. Esclamò, enfatica:

«Beatissimo padre, voi avete un grande ascen-dente sull’animo del nostro signore, l’imperatore...ditegli, vi prego, quanto io sono confusa e pentita diavergli, mio malgrado, arrecato pena e molestia» feceuna brevissima pausa e proseguì, «oppure fate soltantoin modo che mi riceva... che acconsenta a parlarmi,prima di trascinarmi in giudizio come minaccia!».

Ci fu un attimo di silenzio. Ma poi le parole cheil pontefice pronunciò furono una pioggia gelida sul-l’ottimismo della marchesa.

«Molto, figliola, la vostra famiglia ha scontentatol’imperatore. Il vostro primo marito, il marcheseBonifacio, che Dio abbia pietà dell’anima sua... disob-bedì apertamente al signore Enrico e odiò tanto ogni ten-tativo di riformare la chiesa da perseguitare in tutti i modiil nostro predecessore Leone, rendendosi causa non ulti-ma della sua precoce morte di dolore. E non risulta,figliola, che voi abbiate in qualche modo operato per fre-nare il vostro consorte. Rimasta vedova, come aveteagito? Invece di aspettare che il signore Enrico scegliesseper voi acconce nozze, avete contratto matrimonio senzachiedere il permesso imperiale... e con chi!».

Beatrice chinò la testa, cercando di nasconderela confusione.

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«Ho agito da sconsiderata, beatissimo, lo rico-nosco. Se avessi solo sospettato che il mio imperialecugino avrebbe tanto vivamente riprovato il mio se-condo matrimonio, mi sarei piegata alla volontà del-l’augusto sovrano... facendo tacere la voce del miocuore!».

Alla voce del cuore il papa ci credeva ben poco:tuttavia, tralasciando di esprimere un’opinione su unargomento così personale, replicò pacatamente:

«Ma voi sapevate, figliola, che Goffredo diLorena si era macchiato di colpe gravissime nei con-fronti dell’imperatore. Due volte proscritto e due volteperdonato, come ha ripagato, il vostro consorte, la cle-menza del suo signore Enrico?».

Questo era il punto dolente. Beatrice trasse unsospiro e si preparò a tentare:

«Beatissimo padre, il mio consorte...».Dovette interrompersi. Il pontefice, diventando

da pallido addirittura livido, si era abbandonato all’in-dietro sul suo seggio, gli occhi chiusi e il respiro affan-noso.

«Padre Santo!» esclamò vibratamente il digni-tario che gli era accanto, fino ad allora rimasto in per-fetto silenzio, e battè forte le mani, chiamando:

«Soccorso al nostro Signore! Presto!».Subito accorsero servitori e prelati, ci fu non

poca confusione e il papa, mezzo camminando e mezzostrascinato, fu condotto via. Intanto Beatrice era piom-bata in un imbarazzo repentino e atroce: all’atto del-l’interruzione non aveva potuto non gettare un’occhiatasul dignitario e l’aveva di colpo riconosciuto...

«Vostra Dignità!» balbettò la donna, confusa, leguance in fiamme, «scusate se non vi ho ancora resoomaggio, fuori di me come sono» e si profuse in uninchino che nulla aveva da invidiare a quello rivolto

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precedentemente al papa. Perché - quale enormità! - inquell’uomo all’incirca dell’età del pontefice, piccolo,sottile e ascetico ma spirante vigore ed energia dagliintelligenti occhi grigi, la marchesa in disgrazia ricono-sceva ora il potentissimo Ildebrando di Soana, segreta-rio di Vittore II e vera anima di tutta la politica papale.Troppo tardi, si disse Beatrice, perché un tale uomonon le avrebbe perdonato di essere stato così disinvol-tamente ignorato.

Dal canto suo, Ildebrando aveva capito benissi-mo il tormento della gentildonna. Non si era per nienteoffeso - conosceva troppo bene la mentalità dei potentidella terra - ma non fece nulla per rassicurarla. Si volseinvece alla bambina disorientata e impaurita e le chiesecon molta dolcezza:

«E voi, figliola, che ve ne state così silenziosa ecosì buona accanto alla mamma, come vi chiamate?».

Ildebrando aveva parlato tedesco perché intedesco, lingua madre di Beatrice e del papa, si erasvolto tutto il precedente colloquio. Il potente uomo distato era senese ma il periodo trascorso a Colonia alfianco dell’infelice pontefice Gregorio VI e poi lacomunanza di vita e di lavoro con i tre papi tedeschiche si erano succeduti dopo di lui, lo avevano familia-rizzato con parecchi degli aspri dialetti d’oltralpe.Tuttavia, vedendo che la bambina non rispondeva malo guardava con occhi attoniti, ripetè dolcemente, ado-perando questa volta l’armonioso volgare toscano:

«Non mi volete dire il vostro nome, figliola?».«Oh, ella vi aveva ben capito!» si intromise la

madre, desiderosa di rientrare nelle grazie di Ildebrando,«è solo molto timida... rispondi!» ordinò poi alla figlia.

La bimba fissò i suoi occhi negli occhi di quelterrorizzante adulto ma ciò che vi lesse sciolse qualcosanel suo cuore impaurito.

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«Mi chiamo Matilde» mormorò, «Matilde deisignori di Canossa...».

«E quanti anni avete, Matilde?».«Ne ha nove, Vostra Dignità» rispose per lei la

madre. Ma Ildebrando, ignorandola, continuò a rivol-gersi alla piccola:

«Avete dei fratelli, vero?».«Sì» disse la bambina ormai così rinfrancata da

continuare spontaneamente, «Federico e Beatrice. Masono più grandi di me».

«...E non si possono prostrare con noi ai piedidel Santo Padre e vostri perché, convalescenti comesono di forti febbri, ho preferito non affrontassero illungo viaggio fino a qui».

Il segretario pontificio sapeva benissimo, cometutti, che Beatrice mentiva. Ma questa era anche la piùumana e comprensibile delle sue bugie. Alle primeavvisaglie della collera imperiale ella si era affrettata anascondere, con l’erede del dominio, anche la figliamaggiore, portandosi appresso solo quel batuffolo dellaminore, la meno importante dei suoi rampolli: ed ancheper questo la bimba ispirava tanta pena all’animo sensi-bile di Ildebrando.

«Nobile dama» egli disse gravemente fissandoil volto supplice della marchesa, «né il Santo Padre nétanto meno io possiamo far molto per allontanare davoi la collera imperiale. Sperate e pregate. I signori diCanossa, a parte qualche intemperanza del defuntomarchese Bonifacio, sono sempre stati il sostegnofedele della chiesa. Perciò io mi auguro vivamenteche possano venire per voi e il vostro casato tempim i g l i o r i » .

Beatrice si sentì allargare il cuore perché, pro-nunciata da Ildebrando, questa era una larvata promes-sa di aiuto. Egli continuò:

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«Per adesso accettate un consiglio. Non solleci-tate più l’udienza imperiale. Sappiate aspettare e... ri-sparmiate questa creaturina, vi prego. So che ve la por-tate appresso dappertutto: lasciatela stare, siate tran-quilla e tranquillizzate anche lei».

Beatrice era adesso molto delusa. A n n u ìmeccanicamente, ben decisa a fare a modo suo. Intantoil segretario pontificio si rivolse di nuovo a Matilde:

«Quanto a voi, figliola cara, addio. Siate semprebuona, mi raccomando, e pregate molto il Signore».

Sembrava - ed era - un semplice atto di genti-lezza compiuto da un adulto sensibile nei confronti diuna bambinetta spaventata.

Ma era anche l’inizio dell’alleanza e dell’amici-zia di una vita.

Castello di San Martino all’Argine (Mantova)maggio 1052

Tutto era cominciato in un altro maggio, treanni prima. Per l’esattezza era il giorno 6.

Matilde non l’avrebbe dimenticato mai, quelgiorno. La famiglia, cioè Beatrice con i bambini, si tro-vava a San Martino a seguito del signore, il nobileBonifacio di Canossa, marchese della Toscana e dellaPadania. Anche se Canossa, infatti, era considerata datutti la vera casa, il marchese, la consorte e i tre bambi-ni non mettevano mai radici né là né in nessun luogo,spostandosi continuamente da un punto all’altro deiloro immensi dominii. Si passava, magari, un mese aMantova poi ci si spostava in un castello dell’Aretinoper ripartire, poche settimane dopo, diretti a Ferrara,abbandonando presto questa città per qualche altrocastello o per Siena, o per Firenze: successivamente,dopo un periodo che ben di rado superava i due o tre

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mesi, si tornava in qualche fortezza su Po o si scendevafino in Etruria, nel contado di Corneto, che era il lemboestremo dei territori marchionali. Dagli agili pioppi aicomposti cipressi, dalle selve padane alle spiagge orla-te di pini marittimi: da turriti castelli di solida pietra adaltri meno imponenti di mattoni e legno, da case-for-tezza a severi palazzi cittadini. Bonifacio, accortopadrone, trovava che istallarsi qua e là per periodi deiquali evitava sempre accuratamente di specificare apriori la lunghezza era un modo eccellente per sorve-gliare i sudditi e la loro puntualità nel versare le tasse ei balzelli dovuti.

La mattina di quel 6 maggio Matilde, allora unabambina di sei anni molto felice, fu destata, all’alba, daun allegro e sostenuto vociare nel sottostante cortile: ilmarchese Bonifacio partiva per la caccia. Per un attimola piccola fu tentata di alzarsi per andare a sbirciare lapartenza della cavalcata da una delle logge ma poi sisentì troppo piena di sonno per mettere in atto la suadecisione. E quando la nutrice la destò definitivamenteera giorno fatto. Chissà dov’era arrivato, in quelmomento, suo padre. Suo padre. Quell’uomo severoche aveva per lei soltanto dei brevissimi momenti e cheMatilde temeva. Come tutti, del resto, tranne Beatrice,la sua seconda moglie, principessa della casa diLorena, molto più giovane di lui: donna intelligente eaccorta, ella aveva saputo prendere con calma padro-nanza il ruolo di consigliera indispensabile del marito.

Suo padre. Pensando a lui, negli anni a venire,Matilde avrebbe ricordato un uomo gigantesco, conuna barba nera lunghissima e folta e due occhi neribrillanti come carboni ardenti... e quale non fu il suostupore quando, confrontando, anni dopo, i suoi ricordicon quelli della madre, si vide cancellare l’immaginedel padre orco! Perché Bonifacio, in realtà, era stato un

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uomo non molto alto, magro, di aspetto severo manobile, con occhi grigi in un viso allungato ed una bar-betta a punta molto ben curata, che la moglie ricordavagrigia fin dai primi tempi del matrimonio. Così Matildesi rese conto di essersi inventata quella figura terribilesulla base della fama che sempre aveva circondato suopadre: un signore che energico è dir poco, capace dicollera gelida e rovinosa dato che le facevano seguitopunizioni tremende nei confronti dei sudditi che nonrigassero dritto o dei nemici vinti.

Matilde aveva dormito, come al solito, più ditutti. Beatrice e Federico, svegli da un pezzo, la canzo-narono parecchio quando li raggiunse: specialmente ilfratello. In realtà Federico, che avrebbe desiderato piùdi ogni altra cosa al mondo partecipare alla caccia consuo padre, sfogava il suo dispetto col tormentareMatilde. Ad un certo punto però la causa vera del suomalumore venne a galla.

«Mica sono più un fanciullo, diamine! Che stoa fare chiuso qui?» e passeggiava avanti e indietro ner-vosamente, decenne bruno ma di pelle candida, longili-neo e fine. A parte i capelli più scuri, era, tra di loro, ilpiù somigliante alla madre.

La biondissima Beatrice, una Matilde con treanni di più, replicò:

«Neppure io sono più una bambina. Quando tuavrai il permesso di andare a caccia vorrò venircianch’io».

«Tu sei una donna» disse Federico con freddez-za.

«Anche nostra madre» rimbeccò la sorella, pernulla smontata, «lo è ma accompagna il signore nostropadre dove le pare».

Il fratello, colpito da tanta logica, non replicòpiù ma continuò a camminare su e giù per la stanza.

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«Anch’io voglio venire a caccia» se ne uscì lapiccola Matilde. Tanto bastò perché i due maggiori sicoalizzassero subito contro di lei.

« Tu, lattante?» profferì Federico con tutto ildisprezzo di cui era capace.

«Tu, Matilde? Ma non farmi ridere!» e la bion-da Beatrice rideva, infatti, a crepapelle. La piccola siarrabbiava: il suo visetto diventava rosso di stizza.

«Certo che ci vengo! E poi non sono piccola. Eun giorno sarò più importante di voi».

«Sì, certo! Sposerai il principino, il figlio del-l’imperatore» la beffò Federico, «e noi ci inchineremodavanti a te, e ti chiameremo la nostra signora Matilde,augusta imperatrice...».

«Ci inchineremo profondamente» fece ecoBeatrice eseguendo una riverenza burlesca alla sorelli-na.

Alla fine, come sempre, Matildina scoppiò inlacrime di stizza e la nutrice dovette portarla via inbraccio lontana da quei cattivacci. Ma le sue lacrime sierano appena asciugate che già correva di nuovo daifratelli: come tutti i figli minori era irresistibilmenteattratta dai più grandi e non c’era sgarberia che lapotesse tenere a lungo lontana da loro.

Verso l’ora sesta il monaco Ranieri venne perimpartire la consueta lezione a Federico e Beatrice. Ilmarchese Bonifacio e la sua sposa desideravano che iloro figli, anche le due ragazze, si elevassero al disopra della media della cultura del tempo - media per laverità piuttosto modesta se si pensa che fra i gentiluo-mini, specie tedeschi, andava di moda essere analfabeti- e li facevano istruire in tutte le discipline degne dirampolli di una così illustre stirpe. Matilde per la veritàera considerata ancora un po’ piccola ma niente riusci-va a tenerla lontana dalle lezioni dei fratelli. Sapeva già

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disegnare, più che scrivere, la forma latina del suo nome:M a t h i l d a.

«C u r» stava chiedendo il monaco a Federico,«principes diligere iustitiam debent? » .

E qui stava il problema. Perché i principi devonoamare la giustizia? Se lo chiedeva anche il ragazzo, ren-dendosi conto di non saper rispondere alla domanda né inlatino né in volgare. Lanciò un’occhiata alla maggioredelle sorelle.

«C u r» intervenne allora Beatrice, «p r i n c i p e s e h ma Deo. . . » .

«Non c u r» la corresse severamente il monaco,«ma q u i a. Io interrogo c u r ma voi dovete rispondereq u i a!».

«Già, è vero. Quia principes a Deo... a Deo... macosa sta succedendo?».

La vivace Beatrice s’era di colpo interrotta nonpotendo ignorare un brusio che, sempre più insistente,arrivava attraverso la porta, spalancata, per avere aria eluce, sulla loggia interna del castello. Il monaco corrugòla fronte.

«Non cercate qualunque pretesto, figliola» e par-lava in volgare perché dubitava assai che in latino sareb-be stato capito, «per trarne motivo di distrazione.D u n q u e . . . » .

«Quia principes» intervenne Federico, «a deopotentiam accipiunt et... ma qui succede qualcosa dig r a v e ! » .

Balzò in piedi e corse sulla loggia, ché il brusioera diventato tumulto e tutto il castello pareva in sub-buglio: urli, ordini confusi, voci isteriche, pianti di donne,perfino. Ecco un rumore di passi veloci sopra la loro testae poi giù per la scala di legno che univa i loggiati. Figurerapide passarono davanti alla porta della stanza imboc-cando poi la rampa che scendeva.

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Ranieri si affrettò dietro a Federico e le bambinedietro al monaco. Sulla loggia per poco non furono tra-volti da altri armigeri e servitori che si precipitavanoanch’essi giù. Il monaco e i ragazzi si sporsero dallabalaustra...

E così Matilde di Canossa vide l’uomo insangui-nato dalla schiena del quale una lunga lancia sporg e v a ,grottesca e tragica: un uomo che alcuni armigeri stravoltistavano tentando di tirare giù dal cavallo che sbuffava efremeva, nervosissimo.

«Ah padre, padre!».Fu Beatrice la prima a capire ed a lanciare quel

grido straziante. Perché quel misero essere, abbandonatosulla groppa dell’animale terrorizzato, era proprio il mar-chese Bonifacio che l’oscuro istinto del cavallo avevariportato, cadavere, al castello.

La tremenda scena rimase per sempre impressanegli occhi di Matilde anche se più tardi, confrontandosicon altri, ella dovette arrendersi all’evidenza: il suo eraun falso, fantasioso ricordo. Secondo il monaco Ranierila bambina era troppo piccola di statura per arrivare aguardare giù dalla balaustrata e inoltre lui stesso si erapremurato di portarla via subito. La lancia, poi, non eramai esistita. In realtà Bonifacio era stato colpito da unasottile freccia avvelenata che dall’alto della loggia non sipoteva certo vedere. Del resto era impensabile che l’ac-corto e sospettoso marchese si lasciasse avvicinare, nelleprofondità di una selva, da un sicario fornito di un’armatanto vistosa: invece un uomo nascosto in un cespuglio oacquattato fra i rami bassi di un albero avrebbe avutofacilmente ragione, con il suo dardo impregnato di morte,della vittima ignara. Ma anche quando conobbe il realesvolgimento dei fatti Matilde non potè impedirsi di segui-tare ad avere il ricordo di un gigantesco uomo barbuto

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piegato in due sul cavallo, con un’enorme asta oscillanteche gli usciva dalla schiena.

Chi aveva voluto la morte di Bonifacio diTo s c a n a ?

La vedova dichiarò, allora e sempre, di non averedubbi: la mano del sicario era stata armata dall’im-peratore. Il marchese non aveva forse rappresentato il piùforte ostacolo a quella riforma della chiesa che stavatanto a cuore ad Enrico III? L’opinione pubblica consen-tiva, in genere, con Beatrice ma non erano pochi quelliche pensavano alla vendetta di un vassallo magari permotivi privati. Un uomo nella posizione di Bonifacio,padrone di mezza Italia, non aveva potuto non farsi deinemici implacabili: la gestione spietata era infatti la piùvalida compagna del suo potere.

Sta di fatto che la freccia scoccata nella selvapadana oltre ad uccidere il padre troncò bruscamente eper sempre l’infanzia spensierata dei figli, trasformandoliin prigionieri della paura e del sospetto.

Anche la marchesa Beatrice aveva partecipatoalla caccia fatale e c’era voluto un bel po’ di tempo perrintracciarla in tutt’altra parte della selva. E quando lavedova si rialzò, staccandosi dal corpo esanime del mari-to, nulla si poteva leggere sul suo volto chiuso e rigido.Diede immediatamente ordine che i tre figli, sotto muni-tissima scorta, fossero condotti a Canossa: lei li avrebbeseguiti dopo le esequie del marito, recando la bara.

Abbracciando la madre prima di quella partenzache somigliava ad una fuga, i ragazzi la sentirono giàprofondamente mutata. Non era mai stata troppo espansi-va ma aveva dato loro un senso di sicurezza e di protezio-ne, forte e serena com’era: adesso appariva raggelata e ibambini capirono d’istinto che, se non chiedevaconforto, non era neppure capace di darne. Non poteva-

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no rendersi conto, piccoli com’erano, dell’enorme moledi responsabilità che si era rovesciata sulla marchesa.Anche un uomo avrebbe vacillato sotto quel doppiocarico: fronteggiare gli inquieti sudditi di un immensodominio ed un imperatore forte e ostile.

Castello di Canossa (Appennino emiliano)anni 1053/1054

L’orrore del giorno che li aveva resi orfani siandava dissipando ma i figli di Bonifacio non tornaronopiù alla vita felice di prima. Finiti per sempre i viaggi cheavevano rappresentato la normalità della loro esistenza,Federico, Beatrice e Matilde si trovarono di colpo confi-nati nelle sale di Canossa. Un maniero enorme ma sco-modo, con gli appartamenti padronali angusti e compres-si dagli sterminati locali di rappresentanza, dai quartieridegli armigeri e perfino da un convento: quello deimonaci di S. Apollonio, sull’alto della rocca. Unicosvago, per i tre fanciulli, era quello di scendere alla man-ciata di case del borgo, racchiuso fra la prima e la secon-da cinta di mura ed abitato da artigiani che servivano ilcastello.

Così i ragazzi si annoiavano molto anche perchésentivano che nelle occupazioni loro destinate non c’era-no più né l’antico ordine né l’antico rigore: fare o nonfare era lo stesso. Il monaco Ranieri appariva troppo sba-lordito per potere esercitare con lo zelo di una volta leproprie mansioni mentre la marchesa era indaff a r a t i s s i m ae spesso si allontanava per settimane. Cercava alleanzeche puntellassero il suo potere pericolante ma i figli,ignari di tutto, non capivano e sentivano la sua mancanzacome una specie di punizione.

I mesi si susseguivano ai mesi, le stagioni allestagioni. Infine venne quel giorno dell’aprile di due anni

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dopo nel quale Beatrice tornò da uno dei suoi viaggi n o npiù sola. C’era un cavaliere al suo fianco: un uomo daicapelli fulvi e dalla bella barba bionda, non più giovanis-simo ma vigoroso.

«Figli miei, abbracciate il vostro nuovo padre».Un patrigno!Seppero poi che quel gentiluomo più bello che

simpatico, nei cui occhi scrutatori non si leggeva il mini-mo affetto, era Goffredo, duca della bassa Lorena: vedo-vo, aveva due figlie giovinette delle quali tutto quello chesi sapeva erano i nomi, Ida e Wiltrude, ed un figlio delsuo stesso nome, all’incirca dell’età di Federico. Di lui sisussurrava che fosse storpio. Ad ogni modo questi ragaz-zi, rimasti nella loro lontana patria, non si videro mai.

L’acquisto di un patrigno non cambiò niente nellavita dei piccoli Canossa: Goffredo aveva troppo da fareper curarsi di loro. Ed aveva anche, si vide subito, ilgenio delle mosse sbagliate. Beatrice non avrebbe potutoavere una mano più infelice nello scegliersi il suo secon-do compagno: e sì che ne conosceva il turbolento passa-to, costellato di selvagge ribellioni al suo sovrano Enricoe di altrettanto clamorose sottomissioni. Dispotico, esosoe irragionevole, presto il duca si fece detestare da tutti nelcastello, nelle città e nel feudo intero, da Cremona aCorneto. I sudditi esasperati quasi quasi rivalutavano ilmarchese Bonifacio... La rivolta cominciò a serpeggiare:nello stesso tempo si fece appello ad Enrico III, supremosignore, per avere giustizia.

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l’unica sovrana alla quale l’Italia abbia dato i natali.

ISBN 88-86792-28-X, pp.160, Euro 15,50

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INDICE

Parte prima pag. 9

Parte seconda pag 55

Epilogo pag 119

Nota dell’autrice pag 147

Note pag. 154

Maria Santini

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