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Direttore ARTURO DIACONALE Mercoledì 8 Febbraio 2017 Fondato nel 1847 - Anno XXII N. 26 - Euro 0,50 DL353/2003 (conv. in L 27/02/04 n. 46) art.1 comma 1 DCB - Roma / Tariffa ROC Poste Italiane Spa Spedizione in Abb. postale QUOTIDIANO LIbERALE pER LE gARANzIE, LE RIfORmE ED I DIRITTI UmANI delle Libertà Lo spread sale, ma il debito non scende poi anche dal Pci, che affidarsi all’om- brello protettivo americano era la solu- zione migliore per i nostri problemi di sicurezza e stabilità. Ma anche se alle spalle non avessimo alcuni decenni di europeismo ed atlanti- smo maggioritari nell’opinione pubblica di ARTURO DIACONALE P uò il cosiddetto sovranismo italiano imitare in tutto e per tutto il sovrani- smo francese, quello espresso da Marine Le Pen che ha promesso di portare la Francia fuori dalla Unione europea e dalla Nato nel caso di una sua conqui- sta dell’Eliseo? Nessuno dubita che in Italia ci possano essere degli imitatori della Le Pen. In fondo è almeno dalla Ri- voluzione francese che i fermenti politici e culturali provenienti da Parigi trovano rapidamente chi nel nostro Paese li rac- coglie e cerca di applicarli alla realtà ita- liana. Ma sul tema del sovranismo da rea- lizzare attraverso l’uscita da Ue e Nato è probabile che gli imitatori non siano troppo numerosi e troppo determinati. Innanzitutto per una ragione storica che marca una diffe- renza fondamentale tra Fran- cia e Italia. Senza voler tirare in ballo la storia antica di po- tenza autonoma e tendenzial- mente egemone della cugina d’Oltralpe e quella di “serva Italia” del nostro Paese, basta ricordare che nel secondo do- poguerra la Francia ha sempre seguito la linea di autonomia critica tracciata dal Generale De Gaulle nei confronti di Nato ed Ue, mentre l’Italia non solo è stato il Paese più europeista del Vecchio Continente ma ha anche mantenuto nei confronti della Nato un rapporto di quasi totale subordinazione fondato sulla considera- zione, condivisa dagli anni Settanta in italiana , l’imitazione pedisse- qua del sovranismo di Marine Le Pen non potrebbe e non dovrebbe scattare nella peni- sola. Non solo perché la no- stra storia è diversa da quella francese, ma perché se sovra- nismo deve essere questo so- vranismo non può avere tratti e caratteristiche presi dalle esperienze altrui, ma deve ne- cessariamente essere fondato su una autonomia nazionale piena e originale. L’internazionale sovra- nista, in sostanza, può avere un senso solo se porta avanti una reazione globale al globalismo delle multinazionali finan- ziare sovranazionali, ma se diventa una imitazione del trumpismo o del lepeni- smo, cioè di movimenti che perseguono Per un sovranismo né trumpista, né lepenista Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, definisce “sgarbato” il modo con cui i mercati denunciano il debito pubblico del nostro Paese ma non fa nulla per ridurlo LETIZIA A PAGINA 5 Parlamentari per la pace: summit mondiale in Corea ESTERI DI LOLLO A PAGINA 3 Parla Achille Occhetto: “Il peggior difetto del Pd? La sua classe dirigente” L’INTERVISTA MESSINA A PAGINA 7 Sbarco in Borsa: Snapchat punta a Wall Street WEB ME LLINI A PAGINA 2 Europa sì o no? Purché non sia un alibi POLITIC A A PAGINA 4 Le conseguenze del “No-Euro” ECONOMIA rispettivamente l’interesse nazionale ame- ricano e quello francese, diventa una con- traddizione in termini. Sovranisti, quindi, ma in nome del- l’interesse nazionale italiano. Un inte- resse che a differenza di quello francese non può portare all’abbandono del- l’Unione europea e della Nato, ma deve essere indirizzato a riformare dalle fon- damenta e sulla base delle sovranità dei Paesi europei ed atlantici sia l’Unione eu- ropea che quella a cui l’Italia deve la pro- pria collocazione nel mondo libero nel secondo dopoguerra. Il sovranismo estremo non fa parte della storia italiana. Quello riformista, fondato sulla consapevolezza che biso- gna ridiscutere le condizione di una col- locazione europea ed internazionale indispensabile, sicuramente sì!

Mercoledì 8 Febbraio 2017 Lo spread sale, ma il debitonon ... · Lo spread sale, ma il debitonon scende ... in ballo la storia antica di po- ... Sbarco in Borsa: Snapchat punta a

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Direttore ARTURO DIACONALE Mercoledì 8 Febbraio 2017Fondato nel 1847 - Anno XXII N. 26 - Euro 0,50

DL353/2003 (conv. in L 27/02/04 n. 46) art.1 comma 1

DCB - Roma / Tariffa ROC Poste Italiane Spa Spedizione in Abb. postale QUOTIDIANO LIbERALE pER LE gARANzIE, LE RIfORmE ED I DIRITTI UmANI

delle Libertà

Lo spread sale, ma il debitonon scende

poi anche dal Pci, che affidarsi all’om-brello protettivo americano era la solu-zione migliore per i nostri problemi disicurezza e stabilità.

Ma anche se alle spalle non avessimoalcuni decenni di europeismo ed atlanti-smo maggioritari nell’opinione pubblica

di ARTURO DIACONALE

Può il cosiddetto sovranismo italianoimitare in tutto e per tutto il sovrani-

smo francese, quello espresso da MarineLe Pen che ha promesso di portare laFrancia fuori dalla Unione europea edalla Nato nel caso di una sua conqui-sta dell’Eliseo? Nessuno dubita che inItalia ci possano essere degli imitatoridella Le Pen. In fondo è almeno dalla Ri-voluzione francese che i fermenti politicie culturali provenienti da Parigi trovanorapidamente chi nel nostro Paese li rac-coglie e cerca di applicarli alla realtà ita-liana.

Ma sul tema del sovranismo da rea-lizzare attraverso l’uscita da Ue e Nato èprobabile che gli imitatori non sianotroppo numerosi e troppo determinati.

Innanzitutto per una ragionestorica che marca una diffe-renza fondamentale tra Fran-cia e Italia. Senza voler tirarein ballo la storia antica di po-tenza autonoma e tendenzial-mente egemone della cuginad’Oltralpe e quella di “servaItalia” del nostro Paese, bastaricordare che nel secondo do-poguerra la Francia ha sempreseguito la linea di autonomiacritica tracciata dal GeneraleDe Gaulle nei confronti di Nato ed Ue,mentre l’Italia non solo è stato il Paesepiù europeista del Vecchio Continentema ha anche mantenuto nei confrontidella Nato un rapporto di quasi totalesubordinazione fondato sulla considera-zione, condivisa dagli anni Settanta in

italiana , l’imitazione pedisse-qua del sovranismo di MarineLe Pen non potrebbe e nondovrebbe scattare nella peni-sola. Non solo perché la no-stra storia è diversa da quellafrancese, ma perché se sovra-nismo deve essere questo so-vranismo non può avere trattie caratteristiche presi dalleesperienze altrui, ma deve ne-cessariamente essere fondatosu una autonomia nazionale

piena e originale. L’internazionale sovra-nista, in sostanza, può avere un sensosolo se porta avanti una reazione globaleal globalismo delle multinazionali finan-ziare sovranazionali, ma se diventa unaimitazione del trumpismo o del lepeni-smo, cioè di movimenti che perseguono

Per un sovranismo né trumpista, né lepenista

Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, definisce “sgarbato” il modo con cui i mercati denunciano il debito pubblico del nostro Paese ma non fa nulla per ridurlo

LETIZIA A PAGINA 5

Parlamentari per la pace:

summit mondiale in Corea

ESTERI

DI LOLLO A PAGINA 3

Parla Achille Occhetto:

“Il peggior difetto del Pd?

La sua classe dirigente”

L’INTERVISTA

MESSINA A PAGINA 7

Sbarco in Borsa:

Snapchat punta

a Wall Street

WEB

MELLINI A PAGINA 2

Europa sì o no?

Purché non sia un alibi

POLITICA

A PAGINA 4

Le conseguenze

del “No-Euro”

ECONOMIA

rispettivamente l’interesse nazionale ame-ricano e quello francese, diventa una con-traddizione in termini.

Sovranisti, quindi, ma in nome del-l’interesse nazionale italiano. Un inte-resse che a differenza di quello francesenon può portare all’abbandono del-l’Unione europea e della Nato, ma deveessere indirizzato a riformare dalle fon-damenta e sulla base delle sovranità deiPaesi europei ed atlantici sia l’Unione eu-ropea che quella a cui l’Italia deve la pro-pria collocazione nel mondo libero nelsecondo dopoguerra.

Il sovranismo estremo non fa partedella storia italiana. Quello riformista,fondato sulla consapevolezza che biso-gna ridiscutere le condizione di una col-locazione europea ed internazionaleindispensabile, sicuramente sì!

All’improvviso, per contrac-colpo (si direbbe) alla presa

netta di posizione di Marine LePen in Francia in favore dell’ab-bandono dell’Euro e dall’Unione,la questione dell’uscita dell’Italiadall’Euro e dall’Europa è sem-brata diventare una cosa seria.Anzi, una riscoperta della serietàdegli argomenti della politica.Che Europa sì o Europa no siaquestione sulla quale valga lapena discutere, combattersi e sfi-darsi, non ne dubito. Che sia unacosa seria è pure, o dovrebbe es-sere, fuori discussione.Ci sono due cose che, però, mi

sembra doveroso premettere. Laprima è che l’Italia ha una diffi-coltà in più ad affrontare la que-stione, non perché si sia tagliata iponti alle spalle più degli altri.Non c’è nessuno in Italia, e nonc’è soprattutto tra quelli che piùdisinvoltamente parlano di uscitadall’Europa e dall’Unione che sipossa anche solo immaginare allaguida del Paese nell’affrontare iproblemi di una così grave svolta.Immaginare Matteo Salvini,

oppure Beppe Grillo o Luigi Di

Maio alle presecon una situa-zione del generesenza mettersi aridere è difficile.Ma anche gli altrimi dà i brividipensarli in taleruolo. Per usciredall’Europa oc-correrebbe unaclasse politica diun livello da noida tempo inesi-stente.La seconda

cosa è che anchei vari Salvinicredo non igno-rino tutto ciò eche, quindi, con-tinuino a parlarea vanvera, senzapreoccuparsi mi-nimamente delleimplicazioni di enorme portatache dovrebbero affrontare se ot-tenessero quanto vanno predi-

cando. C’è una terza questioneche temo sia conseguenza di que-ste due: parlare di questo (come

ne parlano quelli pure che invece sidicono contrari all’exit) che par-lino di uscita dall’Euro e dal-

l’Unione per non parlare d’altroche pure incombe. Il guaio è che, senon abbiamo uomini politici cui sipossa anche solo pensare di doveraffidare il compito di affrontareun terremoto quale quello di uneventuale “Italexit”, non ab-biamo nemmeno una classe poli-tica capace di vedersela con iproblemi di una rinegoziazione osolo di una profonda ristruttura-zione dell’Unione europea, senza lequali non si supera la crisi.Occorrerebbe, poi, ristrutturare

tutto il sistema politico italiano:dividersi, magari, tra fautoridell’Europa Stato o di un’EuropaAlleanza. E di un’Europa a 27Stati o a dimensioni più piccole epiù compatte. Sarebbero partitipiù “concreti” di quelli attuali(che addirittura non ci sono) e diquelli che vorrebbero far finta diesserci. Questo discorso vi appa-rirà un po’ sconclusionato. Puòdarsi, provate a sistemarlo me-glio. Ma è di questo che, bene omale, dovremo renderci conto.

2 L’OPINIONE delle Libertà mercoledì 8 febbraio 2017Politica

Europa sì o no? Purché non sia un alibidi MAuRO MELLINI

Se si pensa ad un mito si è con-vinti di riflettere su qualcosad’antico, comunque di anterioreal “disincanto del mondo”. Mar-cello Veneziani, nel suo libro“Alla luce del mito” (Marsilio edi-tori, Venezia 2017, pp. 176, euro16,50), ci mostra che non è così,né lo può essere. I miti non sonolimitati all’età “giovanile” dellecomunità umane, ma perman-gono, o più spesso si rinnovano,o si trasformano, anche nelle epo-che mature o di decadenza. Nellanostra Era, improntata a raziona-lità (che spesso non è tale) e dallatecnica, il mito si ripropone nellosport, nello spettacolo, nel cinemae nella pubblicità. In politica ilmito, che spesso ha cambiatonome in ideologia, è ripropostoper la sua forza trascinante lemasse.Il mito della classe o quello

della razza sono stati i principalidel secolo passato. Georges Sorel,Alfred Rosenberg e Adriano Til-gher lo hanno capito: “Sorel colsuo mito dello sciopero generale edella violenza, li riassume tutti. Ilrazionalismo s’imbizzarrisce es’irrazionalizza; incrociando ilmito, anche il materialismo si spi-ritualizza e il determinismo sto-rico s’involontarizza. Sulle ceneridel materialismo è in agguato unvitalismo polivalente, dagli esitiimprevedibili”, scrive Veneziani; ericorda che, secondo Tilgher, “ilmito è uno slancio ideale chemuove le folle, guidate più dal-l’immaginazione che dalla ra-gione. Lo stesso Tilgher avverteperò che i miti non nascono dallapura fantasia o da un ritorno bar-barico alla mentalità primitiva; alcontrario presuppongono secolidi elaborazione filosofica e cri-tica, fino a Kant, Schopenhauer eBergson”.Anche i giuristi come Santi

Romano non disdegnavano diesaminare (criticamente) i mitidel (e nel) diritto. Il giurista sici-liano rilevava che: “Il mito èstato particolarmente, anzi quasiesclusivamente, definito e stu-diato in relazione alle credenzereligiose, che certo ne offrono gliesempi più tipici e caratteristici.Esso però si riscontra anche incampi diversi e, fra gli altri, inmodo molto interessante, inquello del diritto”. Anche la mo-dernità tardiva e la post-moder-nità hanno generato miti, o

meglio tentativi di mitizzazione,non riusciti o riusciti solo inparte: il mito della pace, la tec-nocrazia e il relativismo sono ipiù ricorrenti tra questi, anche sepoco mobilitanti (chi sarebbe di-sponibile a morire per un go-verno di tecnici?). La scarsa - onulla - capacità di coinvolgere lemasse è stata surrogata dal so-stegno dei media: per cui ab-biamo dei miti di carta patinata,analoghi, nella tecnica genera-trice, a quelli costruiti su (e per)personaggi dello spettacolo odello sport, o per marchi indu-striali.Ma il mito non è solo illusione;

il mito - come scrive l’autore - è

racconto, e quel racconto èspesso, scrive Veneziani, “l’imma-gine riflessa della verità”. In ef-fetti vi sono miti checorrispondono a verità, e la espri-mono in forma metaforica e in-tuitiva, ed altri che sono frutto dipura fantasia. I primi sono desti-nati a realizzarsi, i secondi no, oa realizzarsi in modo diverso.Scriveva Sorel: “C’è eterogenesitra fini realizzati e fini dati; la piùpiccola esperienza ci rivela questalegge, che Spencer ha trasferitanel mondo materiale per dedurnela sua teoria della moltiplicazionedegli effetti”; quindi i miti chenon si sono tradotti in realtà, siconcretizzano talvolta in realtà

diverse dalle intenzioni. Spessohanno conseguenze utili, altrevolte sono inutili e talvolta dan-nosi. Il mito - scrive l’autore - “èl’infanzia che resta da adulti, ha ilcuore puerile ma coglie l’intelli-genza del mondo”. Il mito è sim-bolo, trasfigurazione e metafora;un tempo c’erano i miti di fonda-zione, spesso espressi in formapoetica come l’“Eneide”, che ad-dirittura è un prequel della fon-dazione di Roma, o la “Chansonde Roland”: perfino l’Europa, di-ventata così ragionieristica nasceda un mito.Adesso siamo in un’epoca che

non crede nel mito, ma è “gremitadi miti e fabbriche di mitologia.Non riusciamo a sognare e nonriusciamo a vivere la realtà”. So-stiene Veneziani: “Funzionano apieno regime le fabbriche deisogni, dalla fiction all’astrologia:Theodor Adorno in ‘Stelle su mi-sura’ analizzò questo trasloconella veglia delle allucinazionioniriche e delle psicosi notturne.L’inversione tra il giorno e lanotte, tra il sogno e la veglia,trovò nel surrealismo e poi nel ‘68una formula di successo: l’imma-ginazione al potere. Il risultato furovesciare l’uomo, farlo cammi-nare con la testa e pensare con ipiedi, cioè con la praxis, ribal-tando così il rapporto col cielo ela terra”. I malesseri di oggihanno la stessa matrice “la pre-tesa di calcare il cielo con i piedie di camminare con la testa. Cosìi nostri dei e i nostri miti sono pe-destri, all’altezza delle nostresuole, o al più dell’inguine, e lanostra vita terrena si perde nelcervello, in quella tirannia del-l’immaginazione sulla realtà, delcervello sulla vita concreta”. Adavviso dell’autore: “La viad’uscita, facile a dirsi e ardua arealizzarsi, è restituire i sogni allanotte e la veglia al giorno, ridareil cielo agli dei e la terra agli uo-mini, ripristinando il duplice bi-sogno di miti e di realtà che cirende uomini; collocati però nelloro giusto topos e kairos, maiscambiandoli di posto e di mo-mento”.Da questo gradevole libro de-

riva che il mito non è espressionedi un periodo passato come no-vellano molti cosiddetti progres-

sisti, non è irrazionalità ma, sem-mai, frutto di un sapere intuitivoe “non calcolabile” (o mal calco-labile); non conduce a disastri,anzi spesso è “fondante” di co-munità durevoli e destinate agrandezza (come Roma). Non èneppure eliminabile, dato che èriproposto oggigiorno perfino perfigure e funzioni effimere. Scri-veva Carl Schmitt delle conce-zioni di Sorel: “Nella forza atta asuscitare il mito consiste il crite-rio per stabilire se un popolo oun altro gruppo sociale ha unamissione storica ed è giunto il suomomento storico. Dal profondodel vero istinto vitale, non da unragionamento o da una valuta-zione di opportunità, sgorgano ilgrande entusiasmo, la grande de-cisione morale e il grande mito...Solo così un popolo o una classediventa il motore della storia uni-versale. Dove ciò manca non sipuò più mantenere nessun poteresociale e politico, e nessun appa-rato meccanico può formare unargine, se si scatena un nuovotorrente di vita storica”. Quindi di miti si può vivere,

ma anche morire; e di miti “mi-nori” e individualistici comequelli della società contempora-nea si può vegetare. Ossia pos-sono morire - per assenza di miticomunitari e fondanti - le societàumane. E su questo Veneziani conil consueto stile piacevole ci fa ri-flettere.

“Alla luce del mito” di Marcello VenezianidiTEODORO KLITSChE de laGRANGE

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CHIUSO IN REDAZIONE ALLE ORE 19,00

Adifendere l’Euro ci ha pensatoMario Draghi. Nel corso di

un’audizione parlamentare a Bruxel-les il presidente della Banca centraleeuropea ha ribadito che “L’Euro è ir-reversibile. Il mercato unico europeonon sopravviverà davanti a svaluta-zioni competitive”.

Parole forti che avrebbero dovutoscatenare un terremoto di reazionifavorevoli e contrarie. Invece, si av-verte in giro un silenzio assordante,in particolare da parte di quei leadere dirigenti politici italiani che avreb-bero dovuto difendere a spada trattala posizione “iper-europeista” delbanchiere centrale. Che Matteo Sal-vini attaccasse frontalmente Draghici sta: il capo leghista mantiene lasua linea di condotta a maggior ra-gione oggi che il vento del sovrani-smo degli Stati nazionali spira piùforte che mai. Ma il Partito Demo-cratico, finora appiattito sulle posi-zioni più intransigenti del frontenordico dell’Unione, dov’è? Cosapensa? Sul tema, la posizione dell’ar-mata renziana in rotta dopo la Wa-terloo referendaria è “nonpervenuta”. Come la temperatura diBolzano. C’è una spiegazione plausi-bile a questo evidente stato confu-sionale: il vuoto di iniziativa politica

che affligge da tempo la sinistra eu-ropea nel suo complesso e quella ita-liana in particolare. Quando aBruxelles si è chinato il capo per se-guire gli ordini impartiti da Berlinosulle strategie di austerity e di sbar-ramento alle politiche espansive dicrescita economica, la sinistra non habattuto ciglio. E non lo ha fatto nep-pure quando sono emersi i danni diquelle scelte insensate: aumento del

tasso di disoccupazione, esplosionedel debito pubblico, caduta del Pil,deflazione, stagnazione dei consumi,allargamento della fascia di povertàa pezzi significativi dei ceti medi tra-dizionali.

Pur di non guardare in faccia larealtà, “i compagni” di un Pd pocodi lotta e molto di governo si sono ri-fugiati in una realtà parallela assolu-tamente bugiarda ma spacciata per

vera attraverso l’aberrante modalitànarrativa dello storytelling renziano.Tutto pur di non dire che l’Europadella moneta unica non ha funzio-nato. Era facile prendersela con i po-pulisti, accusarli di ogni peccatocome se fossero stati loro la causa enon il sintomo del male che sta cor-rodendo le fondamenta dell’Unione.Ora, però, che la Storia presenta ilconto bisogna pur assumersi la re-sponsabilità di una scelta di campoinequivoca. Si sta con Draghi che di-fende la moneta unica definendola ir-revocabile o si aspetta che Marine LePen prenda possesso dell’Eliseo perdichiararla un’esperienza finita? Sipuò essere paladini di quel sistemache, stando alle parole del governa-tore centrale, avrebbe contribuito inmodo cruciale “agli attuali sviluppipositivi dell’economia”. Si può in-vece andar dietro al ministro del-l’economia tedesca, WolfgangSchaüble, che denuncia: “Quando ilpresidente della Bce ha deciso di ini-ziare una politica monetaria espan-siva, gli dissi che avrebbe provocatoun aumento dell'export tedesco...Ciò detto, non voglio neppure essere

criticato per le conseguenze della suapolitica”.

Si può essere bianchi o neri, si puòessere falchi o fringuelli ma non sipuò giocare a fare gli gnorri, gli on-divaghi, gli europeisti à la carte, se-condo convenienza. Oggi la sinistratace e preferisce ricorrere all’arma didistrazione di massa delle intemeratedel sempreverde Massimo D’Alemapur di nascondere una totale inade-guatezza a prendere posizione sul de-stino europeo del Paese. In tempi diacque chete la cosa potrebbe anchenon essere decisiva, ma dopo l’“aper-tura” della signora Merkel ad un’Eu-ropa spezzatino non si può fingereche nulla stia accadendo. Di regolanon è bello mettere becco in casa al-trui, ma questa volta potrebbe esserenecessario: c’è una minoranza “dem”che pur non avendo combinato gran-ché nella vita oggi meritoriamentechiede a Matteo Renzi la celebra-zione di un Congresso straordinarioprima della tornata elettorale. Vo-lesse il cielo che si tenesse unoschietto confronto di idee: sarebbe lavolta buona per capire dove la sini-stra vuole portare un’Italia che,stando ai sondaggi, ha sempre più inodio i burocrati di Bruxelles ma temeil salto nel buio dell’uscita dall’Euro.E aiuterebbe gli italiani a sceglierechi non votare la prossima volta.

3l’oPiNioNe delle libertàPrimo Piano

Un dialogo tra neuroscienza e po-litica. Uno sguardo alla libertà

umana e un duro attacco alla classedirigente del Partito Democratico. Laricetta per battere il populismo e perpermettere al centrosinistra di ricon-quistare la fiducia dei più deboli.Achille Occhetto ripercorre gli ultimiventi anni di riformismo ricordandobattaglie vicine e lontane. La svoltadella Bolognina, la nascita del Pds eil tradimento del progetto inizialedopo le sue dimissioni: “Coloro chehanno preso in mano la direzione delpartito dopo il mio addio hanno spo-sato un nuovo agire politico arri-vando a compromessi e a inciuci chehanno progressivamente degradatola funzione del partito”.

Cosa racconta nel suo ultimo sag-gio “Pensieri di un ottuagenario. Allaricerca della libertà dell’uomo”,edito da Sellerio?

Sono partito dalle ultime scopertenel campo delle neuroscienze se-condo cui, prima di arrivare a unascelta consapevole, le nostre “cellu-line grigie” prendono delle decisioni.

Ce ne può parlare?Giù secoli fa un grande filosofo,

Baruch Spinoza, aveva detto che ilnostro corpo prendeva decisioniprima di noi stessi attraverso una ca-tena di impulsi e di conseguenze lo-giche. Era una filosofia che si potevaprendere o lasciare, ma oggi è di-verso. Oggi è la scienza a dircelo. Citroviamo di fronte a degli esperi-menti di laboratorio e, una voltacompreso quanto scoperto, mi sonospaventato.

Addio libero arbitrio?Esatto. Che ne sarà del nostro

senso di colpa, dei meriti, della no-stra volontà individuale e collettiva?Così ho deciso di prendere la lam-pada di Diogene in mano e di partirealla ricerca della libertà nell’uomo.

Questo saggio parla anche di po-litica?

Sì. La riflessione politica è colle-gata a questo tema: la ricerca delrapporto tra libertà e necessità. A se-conda se noi diamo maggior peso allibero arbitrio o ai condizionamenti,si hanno delle visioni politiche di-verse. Chi tende a dare un peso asso-luto alla libera volontà di ciascunotendenzialmente ha una visione vo-

lontarista legata al darwinismo so-ciale, alla concorrenza, alla competi-zione selvaggia e a una cultura deivincitori, cosa che sta producendomolti danni.

Questione di prospettiva. Comeevitare il peggio secondo lei?

Bisognerebbe insegnare nellescuole fin dai primi anni che è meglioperdere con le proprie idee, che vin-cere con le idee degli altri. Se si ca-pisce tutto il peso che hanno icondizionamenti sociali famigliari,economici e genetici si ha una visionepiù umana volta verso la solidarietà.Verso forme di diritto diseguale cheaiuti quelle persone che partonosvantaggiati dalla corsa della vita.Una visione più alta dei temi della di-versità e dell’uguaglianza. Già dal-l’impostazione filosofica da cui partoderivano anche dirette considera-zioni politiche.

Facendo un passo indietro: la na-scita del Pds secondo lei è la storia diuna vittoria o di una sconfitta?

La nascita del Pds deriva da unavittoria interna al dibattito del Pciche a grande maggioranza decise dicogliere le novità del tempo e diaprire una fase politica nuova.

Un fatto riconosciuto anche al-l’esterno del partito?

Un grande passo avanti che fu ap-prezzato in Italia e in tutta l’Europacome un grande fatto di innovazione.Fu quindi una vittoria nell’intelli-genza dell’innovazione rispetto a unaposizione di una pura e sempliceconservazione che ci avrebbe fattorestare sotto le macerie dei drammi

del comunismo internazionale.A più di 20 anni di distanza lo

può dire: fece bene a virare verso ilPds?

La scelta del Pds fu molto posi-tiva. Successivamente però non si èseguita la strada che si voleva seguirecon la svolta della Bolognina.

Quale era il suo progetto?La mia ipotesi era un’uscita da si-

nistra dalla crisi del comunismo. Co-loro che hanno preso in mano ladirezione del partito dopo le mie di-missioni hanno scelto una linea piùopportunista, considerando la svoltauna dura necessità. Ma non indivi-duando gli elementi e gli orizzonti diun nuovo agire politico, sono arrivatiai compromessi e agli inciuci chetutti noi conosciamo e che hannoprogressivamente degradato la fun-zione del partito.

Qual è secondolei il peggior difettodel Pd?

È un difetto difabbrica. Viene dal-l’inizio. Non a casoio non sono entratonel Pd. Da un lato ilPd accoglieva unodei punti fonda-mentali per cui fa-cemmo la svolta:costruire l’unità trale grandi compo-nenti riformatricidella società ita-liana laiche e catto-liche.

E cosa ha sba-

gliato?Ha sbagliato perché invece di dar

vita a una vera contaminazioneideale e politica, sulla base di una di-scussione aperta sui fondamenti, hafatto una fusione a freddo tra appa-rati. Apriti cielo.

Una critica a Matteo Renzi?Renzi ha avuto un buon inizio

quando voleva smuovere le acquestagnanti della politica e creare unrinnovamento. Poi però si è incana-lato in una debolezza programma-tica incerta e confusa. A questo valegato un suo difetto culturale difondo: ritenere che non ci siano piùdistinzioni tra destra e sinistra e chela distinzione sia solo tra conserva-zione e innovazione.

Idea sbagliata?Del tutto priva di senso, perché

sappiamo che c’è un’innovazionegiusta e una sbagliata. Anche il fasci-smo era innovazione, anche il nazi-smo era innovazione, anche labomba atomica era innovazione. Cisono innovazioni che vanno scartatesulla base degli orientamenti gene-rali, culturali, politici, ideali che unocoltiva e persegue attraverso un pro-getto.

Una critica a Massimo D’Alema?Credo di non dover fare nessuna

critica a D’Alema. Nel passato cisono già state posizioni politiche di-verse. Ciò che mi turba è che oggi,con il ritorno al proporzionale, si ri-schia di dire addio a un fronte pro-gressista unitario.

Il problema potrebbe interessareanche il centrodestra...

Mi preoccupa un dato generale

della politica di questo momento. Daun lato abbiamo un nuovismo bulli-sta di cui campione è Renzi. Dall’al-tra abbiamo prevalentemente deiguastatori e non dei costruttori dinuove prospettive.

Si fanno tanti nomi, ma chi è se-condo lei l’anti Renzi per eccellenza?

Quali nomi?Si parla di Emiliano, Speranza,

Rossi, addirittura c’è chi parla diBerlinguer. Lei che ne pensa?

Sinceramente non lo so... Come leho detto non sono nel Pd e non parlodi questioni interne. La cosa cheposso dire però è questa: prima divotare è chiaro che ci deve essere nelcentrosinistra un’assemblea sullabase della quale si fanno le candida-ture e le primarie.

Per molti la sinistra ha perso divista i più deboli, qual è la ricetta perbattere i populismi su questo punto?

La ricetta è che bisogna abbatterliprendendo in mano la critica a que-sta Europa e non giocando di ri-messa.

Cioè?Molte delle critiche populiste a

Bruxelles sono giuste, ma sono sba-gliate le risposte che danno. Serveuna sinistra riformista, transnazio-nale, che vada al di là delle idee me-schine di “America First”, “ItaliaFirst”, “Germania First”, “Lombar-dia First”. Ma che abbia al propriocentro l’idea dell’umanità e che ri-sponda in modo giusto alle critiche.Ai difetti gravissimi dell’Europa bi-sogna rispondere con i poteri sovra-nazionali e rimettendo la politica alprimo posto.

“Il peggior difetto del Pd? La sua classe dirigente”di MiChele Di lollo

mercoledì 8 febbraio 2017

di Cristofaro sola Il Pd dei danzatori sul Titanic

Chi sostiene l’uscita dell’Italia dal-l’Euro lo fa affermando che ce

ne verrebbero due vantaggi: la possi-bilità di svalutare la moneta, e dun-que rendere le nostre esportazionipiù competitive; il sottrarsi alle re-gole europee sul bilancio pubblico, edunque la possibilità di abbandonarela cosiddetta austerity.

Si tratta in entrambi i casi di van-taggi impossibili.

In base ai trattati, un Paese che haaderito alla moneta unica non puòuscirne senza attivare l’articolo 50,cioè senza uscire dall’Unione. Que-sto vorrebbe dire uscire dal mercatounico. Avremmo una nuova lira, ocome altro la vorremo chiamare, cheimmediatamente si svaluterebbe ri-spetto alle altre monete, Euro com-preso. Ma le imprese non netrarrebbero grandi benefici, perché

contestualmente perderemmo l’ac-cesso al mercato unico europeo,verso il quale sono dirette gran partedelle nostre esportazioni.

Dall’altro lato non potremmo farea meno di continuare a comprare al-l’estero, al di fuori dell’Unione, tuttele materie prime che ci sono essen-ziali - pensiamo solo a gas e petrolio.La svalutazione farebbe aumentare ilcosto di queste importazioni non so-stituibili. La nostra bilancia com-merciale peggiorerebbe, nonmigliorerebbe. E i prezzi interni au-menterebbero velocemente, ridu-cendo il potere di acquisto di tutticoloro che vivono del proprio sala-rio.

Fuori dall’Unione non saremmo

tenuti a rispettare le regole im-poste al bilancio pubblico dalpatto di stabilità e crescita. Inastratto, potremmo dimenti-carci il famoso limite del 3 percento al deficit pubblico e ognipercorso di rientro dal debito.Qualcuno di noi fa fatica aconsiderare il debito pubblicouna panacea. Altri potrebberoricordare che ci toccherebbemodificare in tutta fretta la Co-stituzione, nella quale abbiamoinserito un seppur debole vin-colo all’equilibrio di bilancio.

Ma lasciamo perdere questidettagli. La verità è che nean-che fuori dall’Unione europeapotremmo in realtà consentirci

maggior deficit emaggior debito.La nuova lira ten-derebbe a svalu-tarsi; i prezziinterni a salire.La Banca centraleeuropea non ac-quisterebbe più ilnostro debito. Perconvincere i pri-vati, italiani estranieri, a comprare ititoli di Stato italiani,dovremmo pagare tassidi interesse molto piùalti di oggi. E i poten-ziali acquirenti non sifiderebbero affatto diun Paese che aggiungeulteriore debito al gi-gantesco peso da cui ègià gravato. Per trovarequalcuno disposto acomprare i nostri titoli,

o a rinnovare quelli che detiene, do-vremmo porre in atto paradossal-mente politiche più e non meno“austere” di quelle di oggi.

È lecito che ciascuno abbia le pro-prie opinioni. Ma perché si possanofare scelte consapevoli, bisogna ri-flettere sulle loro potenziali conse-guenze. L’uscita dall’Euro nondarebbe ossigeno alle imprese espor-tatrici; aumenterebbe il costo delleimportazioni, e quindi l’inflazione in-terna. E il bilancio pubblico non po-

trebbe fornire alcun sollievo, gravatoda una massa velocemente crescentedi pagamenti per interessi sul debito.A meno che non si pensi di non ono-rare il debito. Il che comporterebbe -fra l’altro - il più gigantesco espro-prio dei risparmi degli italiani che siricordi. Almeno 200 volte il famige-rato prelievo notturno sui depositibancari del Governo Amato del1992.

Se questa è la proposta, si abbia ilcoraggio di renderla esplicita.

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4 L’OPINIONE delle Libertà Economia

a cura dell’ISTITUTO BRUNO LEONI

mercoledì 8 febbraio 2017

Le conseguenze del “No-Euro”

Il 15 febbraio dello scorso anno,presso l’Assemblea nazionale di

Seoul, 150 parlamentari provenientida oltre 40 nazioni si sono riuniti perla fondazione dell’Associazione in-ternazionale dei parlamentari per lapace. Nel corso del 2016 è stata inau-gurata in ogni regione del mondo unasede dell’associazione. Ad un anno didistanza, oggi sono 360 i parlamen-tari eletti nei parlamenti di 260 na-zioni che partecipano al Summitmondiale, che anche quest’anno sitiene la prima settimana di febbraioin Corea del Sud. Per comprendere almeglio l’importanza di tali lavori nediscutiamo con Roberto Rampi, filo-sofo, scrittore e deputato italiano checollabora con l’Associazione interna-zionale dei parlamentari per la pace. Può descriverci il perché della

nascita e cosa propone di fare l’As-sociazione internazionale dei parla-mentari per la pace?

Si tratta di scambiare esperienze,competenze, strategie. Di compren-dere la dimensione globale del nostroagire politico e personale. E si trattadi tenere in piedi il tema della pacecome obiettivo finale di un camminoche combatta tutte le forme di vio-lenza e di non comprensione delledifferenze culturali per trarre gli ele-menti positivi e superare quelli nega-tivi: i fondamentalismi prima ditutto.Stiamo seguendo il suo lavoro a

Seoul dove si tiene il primo incontrodell’Associazione dei parlamentariper la pace che lei ha contribuito afondare lo scorso anno a Londra.Sono presenti parlamentari da tuttoil mondo, ex capi di Stato, leader re-ligiosi ed esponenti della società ci-vile. Quali sono gli argomenti

prioritari presenti sul tavolo dei la-vori?

Ci sono molti temi comuni: lalotta alla povertà e alle disugua-glianze. L’inclusione. La diffusionedella cultura e dell’educazione. Le ca-tastrofi ambientali e lo sviluppo diuna società ecologica. Tutti temi uni-ficanti sui quali sono state presentateesperienze concrete da ogni angolodel pianeta.

Quali sono le problematiche tran-snazionali affrontate durante i lavoriin Corea, e che sintonia di visione po-litica possiamo ritrovare tra il mondoorientale e quello occidentale?

Guardare i problemi della povertà,dell’economia, della cultura e del-l’educazione, la coscienza ecologica edelle migrazioni in chiave transna-zionale è l’unico modo per risolverli.Oggi nelle politiche nazionali vanno

di moda le semplificazioni. E le chiu-sure su se stessi. Ma sono un imbro-glio. Ci sono molti punti di contatto,ma di certo un approccio olistico ap-partiene di più alla cultura orientale,così come una certa dimensione spi-rituale che vede la religiosità come unelemento integrato alla modernità ealla dimensione scientifica. La mag-gior sintonia tra i presenti indubbia-mente riguarda la lotta alle

disuguaglianze e alla violenza, eanche l’aspetto ecologico e la prioritàeducativa. Su questi temi sono emersemoltissime sintonie.Recentemente, lei si è recato in

missione in Africa, con la collabora-zione degli attivisti Antonio Stango,Eleonora Mongelli e Yuliya Vassi-lyeva, rappresentanti delle Ong “Nes-suno tocchi Caino” e Lega Italianadei Diritti dell’Uomo, nel tentativo dicoinvolgere anche gli Stati di questoContinente nella battaglia interna-zionale per la moratoria delle esecu-zioni capitali. Può descriverci questaesperienza?

È stata un’esperienza di grande va-lore, che ha prodotto risultati con-creti. La chiave è il rispetto delle altreculture. Non possiamo presentarcicome europei che vogliono insegnarei diritti umani. Peraltro, spesso, nonne avremmo nemmeno i requisiti.Partendo dalla comprensione dellediverse storie e culture si può co-struire un percorso comune. È ciò èstato possibile. Qui a Seoul ho ritro-vato rappresentanti di quei Paesi. Secondo lei quali sono le maggiori

problematiche del Continente Afri-cano e quale potrebbe essere il verocontributo dell’Europa e dell’Occi-dente?

Il grande tema dello sviluppo eco-nomico a cui si associa quello dellalotta alla povertà e dell’accesso al-l’educazione e alla salute. Si è parlatomolto di questo qui in Corea. E poic’è il tema della democrazia e dellacorruzione, della violenza e dei dirittiumani. L’Africa è una grande occa-sione e una grande opportunità, inparticolare per l’Europa. Bisognaavere il coraggio di lavorare in ter-mini di co-sviluppo e di pensare allerisorse per l’Africa con un piano perveri investimenti.

5L’oPinione delle Libertàmercoledì 8 febbraio 2017

Parlamentari per la pace: il summit mondiale in Corea di Domenico Letizia

Esteri

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Morgan Stanley, Goldman Sachse JP Morgan, ma anche Deut-

sche Bank, Barclays, Credit Suisse eAllen & Company.

È una vera cordata di grandi ban-che quella messa insieme per curarela maggiore Ipo (initial public offe-ring) dal 2014, quando a battereogni record fu il colosso cinese Ali-baba, che al suo debutto a WallStreet aveva raggiunto un valore di168 miliardi di dollari. Questa voltaè Snap Inc., società a cui fa capoSnapchat, a tentare la scalata inBorsa. La quotazione, prevista per iprimi di marzo, potrebbe arrivare aun valore pari a circa 25 miliardi didollari, vale a dire 13 milioni per di-pendente.

Nella documentazione depositatalo scorso novembre all’Autoritàamericana per il controllo sui mer-cati, la Securities and ExchangeCommission (Sec), e resa nota solonei giorni scorsi grazie alla regola se-condo cui alle aziende con meno diun miliardo di dollari di ricavi non èimposta la comunicazione pubblica,Snapchat viene presentata come unasocietà di fotocamere che “permettealle persone di esprimersi, vivere ilmomento, conoscere il mondo e di-vertirsi con gli altri”.

Le quote saranno ugualmente di-vise tra i due fondatori che nel 2011

in un dormitorio dell’Univer-sità di Stanford diedero vita auna applicazione che in moltiinizialmente criticarono, tac-ciandola di essere solo unmezzo per fare del “sexting”.Ciascuna del valore di circa 5,5miliardi di dollari, le quotespetteranno quindi a EvanSpiegel, co-fondatore e ammi-nistratore delegato e RobertMurphy, co-fondatore nonchéchief technology officer dellasocietà.

“La nostra raccolta pubbli-citaria - si legge nella docu-mentazione depositata al Sec -è ancora giovane ma sta cre-scendo rapidamente. Abbiamosubito una perdita operativa inpassato, ci aspettiamo di incor-rere in una perdita operativanel futuro e potremmo nonraggiungere mai o mantenerela redditività”.

Malgrado nel 2016 gli utilisiano schizzati a 404,5 mi-lioni di dollari, quasi ottovolte quelli registrati l’annoprecedente, anche il rosso èaumentato, raggiungendo lacifra di 514 milioni di dollari,

contro i 373 del 2015.Una situazione complessa che ha

già condotto la stampa americana avalutare la nuova quotazione come“insanely expensive” se non addirit-tura “suicidal”.

Ma la vera novità non è l’approdoalla Borsa di New York con il titolo“Snap”, bensì il fatto che per la

7l’OPiniOne delle libertà

Snapchat punta a Wall Street di Maria Giulia Messina

mercoledì 8 febbraio 2017 Web

prima volta la società venderà azionial mercato senza alcun diritto divoto.

Immediata la reazione del Councilof Institutional Investors (Cii), chevenerdì scorso ha inviato una letteraai due fondatori mostrando “preoc-

cupazione per il pro-getto di Snap di quo-tarsi con una strutturache nega agli azionistiesterni qualsiasi vocenella società”.

Nel chiedere un in-

contro urgente per di-scutere della questione,il Cii ha aggiunto che“le società prive di unaresponsabilità effettivacrescono per un certoperiodo, ma altre crol-lano e si bruciano, oaltre ancora perse-guono una strategiasbagliata per troppo alungo”.

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