69
MICHELE BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori, da Dante a Manzoni, Firenze 1938 p. VIII Anche allora grande incertezza d’idee e non felice applicazione di quelle che s’avevano per migliori: c’era sì fra i giovani un grande interesse e diciamo pure un grande entusiasmo, per questi studi [di filologia], e maestri quali il Carducci, il Bartoli, il Monaci, il Rajna, incoraggiavano il movimento con l’esempio e con buone iniziative; era un correre di città in città e da biblioteca a biblioteca, per dare alla luce scritti antichi con quello stesso ardore con cui gli umanisti correvano a liberare i classici dagli ergastoli dei barbari, e non mancò chi si spingesse fino in Inghilterra per togliere dalla clausura degli ultimi Britanni il fiorentissimo Sacchetti. Un Molteni e un Mazzatinti non erano di meno dei più fervidi scopritori del Quattrocento. p. X Noi uscivamo [dalla scuola del Rajna] con la giusta idea che ogni testo ha il suo problema critico, ogni problema la sua soluzione e che quindi le edizioni non si fanno su modello. GIORGIO PASQUALI, Cattedre di Filologia Italiana, Romanza, Medievale, in «Lo Spettatore Italiano» (settembre 1949) All’uscita dall’Università uno scolaro sufficiente di latino e greco, purché abbia avuto maestri non dico eminenti ma a modo, sa, anzi per assuefazione sente che ha il dovere di interpretare ogni testo antico parola per parola, studiandosi di rivivere il valore stilistico di ogni locuzione, riesce anche di regola a leggere un apparato critico e a rendersi conto, informandosi, qualora sia necessario, nella prefazione critica, se la coincidenza di determinati manoscritti in una determinata lezione garantisca la scrittura dell’archetipo, sicchè ogni altra lezione non possa essere se non o errore o congettura (recensio chiusa) o se e in che limiti l’editore e il lettore abbiano diritto a scegliere tra le varianti, regolandosi con i criteri del significato, dell’usus scribendi, della lectio difficilior e pesando ciascuno di questi contro tutti gli altri (recensio aperta); sa anche giudicare quanto in un certo scritto valga una tradizione, se cioè e in che limiti vi sia il diritto, cioè il dovere di congetturare. Diversamente un laureato in lettere moderne non sa quasi mai rendersi ragione dei particolari, non sa interpretare… L’italianista non si degna nemmeno di chiedersi cosa sia un testo e come si costituisca… L’insegnamento della filologia italiana nelle Università perlomeno insegnerebbe agli scolari a non credere ai maestri ciecamente, ma invece a discutere con loro liberamente, perché i filologi, sia classici sia romanzi, non sono dogmatici e sono tolleranti: filologo in Platone, quando la filologia non esisteva, significa amator della discussione…

MICHELE BARBI La nuova filologia e l’edizione dei nostri ......MICHELE BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori, da Dante a Manzoni, Firenze 1938 p. VIII Anche

  • Upload
    others

  • View
    52

  • Download
    1

Embed Size (px)

Citation preview

  • MICHELE BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori, da Dante a Manzoni, Firenze 1938 p. VIII Anche allora grande incertezza d’idee e non felice applicazione di quelle che s’avevano per migliori: c’era sì fra i giovani un grande interesse e diciamo pure un grande entusiasmo, per questi studi [di filologia], e maestri quali il Carducci, il Bartoli, il Monaci, il Rajna, incoraggiavano il movimento con l’esempio e con buone iniziative; era un correre di città in città e da biblioteca a biblioteca, per dare alla luce scritti antichi con quello stesso ardore con cui gli umanisti correvano a liberare i classici dagli ergastoli dei barbari, e non mancò chi si spingesse fino in Inghilterra per togliere dalla clausura degli ultimi Britanni il fiorentissimo Sacchetti. Un Molteni e un Mazzatinti non erano di meno dei più fervidi scopritori del Quattrocento. p. X Noi uscivamo [dalla scuola del Rajna] con la giusta idea che ogni testo ha il suo problema critico, ogni problema la sua soluzione e che quindi le edizioni non si fanno su modello.

    GIORGIO PASQUALI, Cattedre di Filologia Italiana, Romanza, Medievale, in «Lo Spettatore Italiano» (settembre 1949) All’uscita dall’Università uno scolaro sufficiente di latino e greco, purché abbia avuto maestri non dico eminenti ma a modo, sa, anzi per assuefazione sente che ha il dovere di interpretare ogni testo antico parola per parola, studiandosi di rivivere il valore stilistico di ogni locuzione, riesce anche di regola a leggere un apparato critico e a rendersi conto, informandosi, qualora sia necessario, nella prefazione critica, se la coincidenza di determinati manoscritti in una determinata lezione garantisca la scrittura dell’archetipo, sicchè ogni altra lezione non possa essere se non o errore o congettura (recensio chiusa) o se e in che limiti l’editore e il lettore abbiano diritto a scegliere tra le varianti, regolandosi con i criteri del significato, dell’usus scribendi, della lectio difficilior e pesando ciascuno di questi contro tutti gli altri (recensio aperta); sa anche giudicare quanto in un certo scritto valga una tradizione, se cioè e in che limiti vi sia il diritto, cioè il dovere di congetturare. Diversamente un laureato in lettere moderne non sa quasi mai rendersi ragione dei particolari, non sa interpretare… L’italianista non si degna nemmeno di chiedersi cosa sia un testo e come si costituisca… L’insegnamento della filologia italiana nelle Università perlomeno insegnerebbe agli scolari a non credere ai maestri ciecamente, ma invece a discutere con loro liberamente, perché i filologi, sia classici sia romanzi, non sono dogmatici e sono tolleranti: filologo in Platone, quando la filologia non esisteva, significa amator della discussione…

  • 3

    FRANCESCO PASTONCHI, Il manoscritto originale della Divina Commedia, in «Corriere della sera» del 27 novembre 1949 (terza pagina) Chi avesse potuto, quel mattino, da una fessura, vedere nel suo studio il professor Eusebio Calanzi, il più insigne studioso di Dante e il più citato, le cui affermazioni facevano legge, l’uomo che fin dalla giovinezza – se giovinezza fu la sua, trascorsa nel chiuso della biblioteca – non si era concesso altri svaghi, altri viaggi, altri entusiasmi, infine altro amore che non toccasse il Divino poema, ricercandone e compulsandone le centinaia di codici sparsi nel mondo per riuscire a darne una precisa classifica e rintracciarne le ascendenze e le varie famiglie, e, pubblicato il colossale volume di tutte le varianti comparate e discusse, risalire così al più probabile testo originale, chi avesse potuto osservarlo, presso un enorme cassone, donde traboccavano confusamente antiche ingiallite carte, davanti alla tavola su cui stava aperto un infolio, agitarsi, gesticolare, convulso e ora chinarsi a voltare una pagina e un poco leggervi e quindi rilevatosi alzar le braccia gettando sospiri e mettersi a saltabeccare in giro allo studio con rotte esclamazioni, per tornare all’infolio e di nuovo piegato su di esso sfogliarlo affannosamente e mormorare: “non è possibile, non è possibile, eppure sì, è certo…” e allora correre all’uscio e tentarlo ad assicurarsi che fosse ben chiuso e ancora accostarsi alla tavola, premersi tra le mani la testa canuta quasi in atto disperato e a un tratto ergersi nella piccola persona e quasi ingrandire in aspetto raggiante, ma subito poi ricadere prostrato: quegli non avrebbe certo riconosciuto in lui così trasfigurato, l’ometto che s’era soliti incontrare rasente muro, con sempre un libro sotto braccio, la persona incurvata, la testa bassa, il passo schivante, come a dissimularsi, estraneo a tutti, temente di venir trattenuto e interrotto nelle sue elucubrazioni […] Insomma col procedere nella consultazione Eusebio Calanzi vedeva profondarsi tutti i testi architettati dagli studiosi e soprattutto il suo. La testa gli ronzava, dovette smettere la lettura, confuso, annichilito. Stava lì sospeso del come fare. Divulgare la scoperta distruggendo il suo onore di studioso? Il sogghigno dei colleghi strisciò lungo gli scaffali della biblioteca, danzò grottescamente sull’infolio della Commedia e sulle sue povere sudate carte. Egli pensò, e con insolita tenerezza, alla moglie e

    soprattutto a quelle terribili figlie che questa volta non si sarebbero divertite e non avrebbero riso. Rinascondere il manoscitto lasciando che altri, lui morto, lo scoprissero? Ma dove nasconderlo? E in qual modo sopportare un tanto seguito? E se avesse dato la notizia della scoperta, accompagnandovi la confessione del proprio fallimento, comune infine a quello di tanti altri interpreti? Muoia Calanzi e tutti i filistei! Ritirarsi, sparire dal mondo? Follia! Deliberò infine di soprassedere differendo ogni decisione, e riprendere l’esame, esaurirlo, preparare un’edizione definitiva. Gli parve di potersi acquietare in questa promessa d’attesa fatta a se stesso. Illusione. Col passare dei giorni crebbe l’angoscia e, tenendola in sé chiusa tanto più lo rodeva. Dalle pareti dello studio i suoi libri lo irridevano ironici. Le mura della casa lo opprimevano. Prese ad errare per le strade senza meta, sempre più curvo, parlottando a gran gesti. In famiglia si sforzava di parer calmo, ma, se non la moglie, astratta, lo atterrivano le figliole nella loro sfidante bellezza. Le notti insonni gli si riempivano d’incubi. Un mattino tuttavia lo invase una strana allegrezza: balzò dal letto con passo di danza. […] Lo costrinsero al letto, prima si ribellò, poi vi si assopì vaneggiante. Si avvicinava l’inverno e già nelle alte stanze di quel vecchio palazzo stagnava il freddo. Un giorno Eusebio Calanzi levatosi d’impeto corse nell’attiguo studio e si mise a vuotare gli scaffali e a scaraventare con rabbia i suoi cari libri qua e là sul pavimento: vi finì anche il fatale manoscritto scioltosi dalla custodia e sfasciato: un misero scartafaccio. La moglie accorse a tanta rovina, invocò le figliole che l’aiutarono a riportarlo in camera e metterlo a letto. Subitamente ammansito egli vi si lasciò ricondurre piagnucolando come un bambino. Poi le ragazze tornarono nello studio per riordinarlo alla meglio. “Qui si gela. Se facessimo una fiammata…”, propose Lia. Ma la legna, già preparata nel camino era umida e il fuoco stentava ad appigliarvisi. “Ci vorrebbe un po’ di carta…”. “Prendiamo queste”, disse Matelda, accennando allo scartafaccio. “Che cos’è?” – “Aspetta che guardo…: un Dante! Uno dei tanti…” – “Maledetti! Sono i maggiori colpevoli dello stato di papà” – “Allora dammi” – “È vecchio e sdrucito, ma ha una carta spessa… brucierà bene”. Cominciarono a strapparne i fogli e a gettarli via via nel camino, alla fiamma

  • 4

    TEOCRITO, Idilli, trad. a cura di M. Cavalli, Milano 1991.

    I. Tirsi o la canzone

    TIRSI Dolce, capraio, il mormorio del pino che canta alla sorgente; è dolce il suono della tua zampogna. Avrai il secondo premio, dopo Pan. Se a lui spetta il caprone, a te la capra; e se la capra sarà premio a lui, a te poi la capretta. È buona la sua carne, se ancora non è munta.

    CAPRAIO Ma più dolce è il tuo canto, pastore, che non l’acqua risonante che stilla dalla roccia. E se alle Muse spetterà la pecora, tu avrai l’agnello cresciuto nel recinto; e se poi loro vorranno l’agnellino, tu avrai la pecora.

    TIRSI Vuoi, per le Ninfe, vuoi, capraio, sederti qui sul pendìo fiorito di mirice e suonare la zampogna? Guarderò io le capre.

    CAPRAIO Non si può, pastore, non si può suonare a mezzogiorno. Io temo Pan: perché questa è l’ora in cui stanco della caccia si riposa. È collerico, e l’aspra bile è sempre pronta per montargli al naso. Ma tu, Tirsi, i dolori di Dafni sai cantare e nella musa bucolica sei grande. Dunque sediamo sotto quest’olmo, davanti a Prìapo e alle Ninfe delle fonti: ci son le querce e la panca dei pastori. E se tu canti come quel giorno che hai fatto a gara con il libico Cromi, io ti darò, da mungere tre volte, una capra, madre di due capretti, che pure avendo i piccoli riempie di latte ben due secchi. E una coppa di legno ti darò, odorosa di cera, nuova nuova e profumata del cesello. Intorno al bordo l’edera si avvinghia, screziata di elicriso; e a lei s’intreccia l’elice, superba del suo frutto color di croco. Dentro, un’immagine di donna - forma divina - ornata di peplo e di diadema; accanto a lei due uomini dai bei riccioli fanno a gara per convincerla: ma i loro sforzi non toccano il suo cuore. Lei li guarda - ora l’uno, ora l’altro - e ride: loro hanno gli occhi gonfi di passione, ma è affanno inutile. C’è poi un vecchio pescatore e una scabra roccia, sulla quale a fatica tira la sua rete il vecchio, con enorme sforzo; pesca - lo vedi - con tutto il suo vigore, e gli si gonfiano i muscoli del collo: bianchi i suoi capelli, ma la sua forza è giovane. Più in là, accanto al vecchio che il mare ha logorato, una vigna dai bei grappoli bruni: la guarda un ragazzino, seduto sul muretto. Ma ecco due volpi; una si aggira tra i filari e ruba i grappoli maturi; l’altra ha di mira la sacca del ragazzo: «Io sono furba» dice, «gli faccio fuori il pranzo, e me ne vado». Lui intreccia giunchi e gambi d’asfodelo, e fa una rete per le cavallette: poco gli importa del pranzo e delle viti, tanta è la gioia di quel che sta facendo. Tutto intorno alla coppa si snoda il molle acanto. È uno

    spettacolo - per noi pastori - questo prodigio che ti tocca il cuore. Me l’ha venduta un barcaiolo di Calidne, al prezzo di una capra e di un formaggio bianco. Le labbra ancora non mi ha mai sfiorato: la serbo intatta. Con tutto il cuore te la donerò, se vuoi intonare la canzone che io amo. Non ti prendo in giro. Avanti, amico! Il tuo canto non tenerlo per l’Ade che tutto fa scordare.

    TIRSI Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Sono Tirsi dell’Etna, e dolce è la mia voce. Dove eravate, Ninfe, dove, mentre Dafni moriva? Forse nella bella valle del Penèo o sul Pindo? Qui no, non eravate qui, né all’ampia corrente dell’Anàpo, né in cima all’Etna, né all’onda sacra dell’Acis.

    Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Lo piangeva il lupo e lo sciacallo lo piangeva; Dafni moriva, e pianse nelle selve anche il leone.

    Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. E le mucche ai suoi piedi, e i tori, e giovenche e vitelli lo piangevano.

    Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Venne Ermes dai monti e disse: «Dafni, chi ti consuma? Chi è che ami tanto?»

    Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. E vennero i mandriani e i pastori, e i caprai vennero. Tutti gli chiedono: «Qual è il tuo dolore?» E venne Prìapo e disse: «Dafni infelice, non tormentarti. Di fonte in fonte, di bosco in bosco corre la fanciulla,

    - intona, amata Musa, intona il canto del pastore – cercando te. Ma tu sei timido e non sai proprio amare. Eri mandriano, e adesso sembri semmai un capraio: che quando vede montare le sue capre, ha le lacrime agli occhi per l’invidia di non essere caprone.

    Intona, amata Musa, intona il canto del pastore. Così tu, quando vedi giocare le fanciulle, hai gli occhi umidi, perché non danzi insieme a loro». Ma Dafni non rispose, e il suo crudele amore, si compì, si compì sino al termine fatale.

    Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. E venne Cipride; rideva, ma in segreto rideva, e in viso era molto adirata. Disse: «Tu ti vantavi, Dafni, di piegare Eros: e non sei tu, ora, dal terribile Eros piegato?»

    Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Rispose Dafni: «Cipride dura, Cipride odiosa, Cipride, nostra nemica! Credi che il sole ormai per me sia tramontato? Anche nell’Ade, Dafni darà tormento ad Eros!

    Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Non dicono forse che il mandriano ti ha... Vattene via, vai sull’Ida, da Anchise; là ci sono le querce e il cìpero, e le api ronzano intorno all’alveare:

    Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Anche Adone è bello, eppure

  • 5

    guarda il gregge, cattura lepri e va a caccia di animali. Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Vai da Diomede, affrontalo, digli:

    "Ho vinto Dafni, il bifolco; forza, combatti!".

    Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Addio lupi, sciacalli, e tu, orso, che vivi nelle grotte là sui monti, addio! Il vostro Dafni mai più vedrà foreste né boscaglie, ormai - non più. Addio, Aretùsa, addio bei fiumi che scorrete al Tibri.

    Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Io sono Dafni, quello che pascolava qui; Dafni, quello che abbeverava qui i suoi tori.

    Di nuovo, amata Musa, intona il canto del pastore. Pan, dovunque tu sia - sugli alti monti del Liceo, oppure sul gran Menalo - vieni in Sicilia, lascia la rocca d’Elice e la scoscesa tomba dei Licaònidi, che gli dei stessi ammirano.

    Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. Vieni, signore, prendi la mia zampogna legata con la cera, odorosa di miele, facile al labbro: ormai, l’amore mi trascina all’Ade.

    Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. Rovi, spineti, fiorite di violette, e tu, narciso, risplendi sui ginepri; che tutto sia al contrario: produca pere il pino - poi che Dafni muore - e il cervo insegua il cane, e voi, gufi dei monti, sfidate l’usignolo!»

    Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. Dafni ha finito, tace. Tenta Afrodite di sollevarlo: ma il filo delle Moire si è spezzato e Dafni è già nel gorgo di Acheronte, lui che le Muse, lui che le Ninfe amarono.

    Basta, Musa, interrompi il canto del pastore. E ora dammi la coppa, dammi la capra: col latte munto liberò alle Muse. Salve,

    mie Muse, salve mille volte: un canto ancor più dolce vi canterò domani.

    CAPRAIO Miele per la tua bocca, Tirsi, e i dolci fichi di Égilo: tu canti meglio delle cicale! Prendi la coppa, amico; senti come profuma: sembra lavata alla fonte delle Ore. Vieni, Cissèta, qui; mungila pure, Tirsi. E voi caprette, basta con quei saltelli, che non vi monti il capro.

    ECLOGHE DI VIRGILIO SCHEMA

    N. Cfr. Personaggi Contenuto I Melibeo, Titiro Autobiografico

    Encomiastico Dialogo

    II Coridone

    Erotico Monologo

    III Th. IV Menalca, Dameta, Palemone

    Gara di canto con giudice

    Dialogo

    IV Poeta

    Encomiastico Monologo

    V Th. I Menalca, Mopso Gara di canto Encomiastico (?)

    Dialogo

    VI Sileno

    Didascalico Diegetica

    VII Melibeo (Tirsi e Coridone)

    Gara di canto Diegetica

    VIII Th. II Damone, Alfesibeo

    Erotico Dialogo

    IX Licida, Meri

    Autobiografico Dialogo

    X Poeta (Gallo)

    Erotico Diegetica

  • 6

    VIRGILIO, Bucoliche, a cura di A. La Penna, trad. di L. Canali, Milano 1978, Buc. I MELIBOEUS Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi silvestrem tenui Musam meditaris avena; nos patriae finis et dulcia linquimus arva. nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida silvas. 5 TITYRUS O Meliboee, deus nobis haec otia fecit. namque erit ille mihi semper deus, illius aram saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus. ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum ludere quae vellem calamo permisit agresti. 10 MELIBOEUS Non equidem invideo, miror magis; undique totis usque adeo turbatur agris. en ipse capellas protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco. hic inter densas corylos modo namque gemellos, spem gregis, ah, silice in nuda conixa reliquit. 15 saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset, de caelo tactas memini praedicere quercus. sed tamen iste deus qui sit da, Tityre, nobis. TITYRUS Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi stultus ego huic nostrae similem, cui saepe solemus 20 pastores ovium teneros depellere fetus. sic canibus catulos similes, sic matribus haedos noram, sic parvis componere magna solebam. verum haec tantum alias inter caput extulit urbes quantum lenta solent inter viburna cupressi. 25

    MELIBEO Titiro, riposando all’ombra d’un ampio faggio, studi su un esile flauto una canzone silvestre; noi lasciamo le terre della patria e i dolci campi, fuggiamo la patria: tu, o Titiro, placido nell’ombra, fai risuonare le selve del nome della bella Amarilli. TITIRO O Melibeo, un dio mi ha donato questa pace. Infatti lo considererò sempre un dio, e spesso un tenero agnello dei nostri ovili tingerà il suo altare. Egli, vedi, ha permesso alle mie giovenche di errare, e a me di suonare sul flauto campestre le predilette canzoni. MELIBEO Non t’invidio, certo, piuttosto mi stupisco: dovunque nei campi è scompiglio. Ecco, io stesso affranto mi spingo innanzi le capre; questa, o Titiro, la trascino a stento. Lì tra i folti noccioli, poc’anzi, sgravata di una coppia di capretti, speranza del gregge, li ha lasciati sulla nuda pietra. Ma spesso questa sventura, se non fossimo stati stolti, ricordo ce la predissero le querce colpite dal fulmine celeste. Tuttavia, o Titiro, dimmi qual sia questo dio. TITIRO V’è una città che chiamano Roma. Io stolto, o Melibeo, la credetti simile alla nostra, dove noi pastori spesso usiamo avviare la tenera prole del gregge: così conoscevo i cuccioli simili ai cani, i capretti alle madri: così solevo paragonare il piccolo al grande. Ma questa città sollevò tanto il capo tra le altre, quanto sogliono i cipressi tra i molli viburni

  • 7

    MELIBOEUS Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi? TITYRUS Libertas, quae sera tamen respexit inertem, candidior postquam tondenti barba cadebat, respexit tamen et longo post tempore venit, postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit. 30 namque - fatebor enim - dum me Galatea tenebat, nec spes libertatis erat nec cura peculi. quamvis multa meis exiret victima saeptis pinguis et ingratae premeretur caseus urbi, non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat 35 MELIBOEUS Mirabar quid maesta deos, Amarylli, vocares, cui pendere sua patereris in arbore poma. Tityrus hinc aberat. ipsae te, Tityre, pinus, ipsi te fontes, ipsa haec arbusta vocabant. TITYRUS Quid facerem? neque servitio me exire licebat 40 nec tam praesentis alibi cognoscere divos. hic illum vidi iuvenem, Meliboee, quot annis bis senos cui nostra dies altaria fumant, hic mihi responsum primus dedit ille petenti: “pascite ut ante boves, pueri, submittite tauros”. 45 MELIBOEUS Fortunate senex, ergo tua rura manebunt et tibi magna satis, quamvis lapis omnia nudus limosoque palus obducat pascua iunco. non insueta gravis temptabunt pabula fetas nec mala vicini pecoris contagia laedent. 50 fortunate senex, hic inter flumina nota et fontis sacros frigus captabis opacum;

    MELIBEO E quale grande ragione ti spinse a vedere Roma? TITIRO La libertà, che benché tardi mi degnò d’uno sguardo, dopo che a me inerte, nel radermi, la barba cadeva imbianchita: mi guardò tuttavia e venne dopo lungo tempo, da quando mi tiene Amarilli, e mi lasciò Galatea. Infatti, lo confesso, finché mi tenne Galatea, non avevo speranza di libertà né cura del guadagno: sebbene dai miei recinti uscissero molte vittime e premessi grasso formaggio per l’avara città, non tornavo mai a casa con danaro che mi gravasse la mano. MELIBEO E io mi stupivo, o Amarilli, perché invocavi mesta Gli Dei e per chi lasciavi pendere all’albero i frutti. Titiro era lontano da qui! Persino i pini, o Titiro, persino le fonti e gli arbusti invocavano te. TITIRO Che fare? No potevo uscire di servitù né trovare con la mente altrove Dei abbastanza propizi. Là, o Melibeo, ho visto quel giovane per il quale Annualmente fumano dodici volte i nostri altari. Là egli prevenendomi mi diede il responso alla mia domanda: “Pascete come prima i buoi; allevate i torelli”. MELIBEO Fortunato vecchio! Dunque i campi resteranno tuoi, e grandi abbastanza per te, sebbene nude pietre e palude invadano tutti i pascoli con fangosi giunchi. Ma pascoli inconsueti non nuoceranno alle pecore gravide, non ti arrecherà danno il contagio d’un armento vicino. Fortunato vecchio, qui tra noti fiumi e sacre fonti godrai una frescura ombrosa;

  • 8

    hinc tibi, quae semper, vicino ab limite saepes Hyblaeis apibus florem depasta salicti saepe levi somnum suadebit inire susurro 55 hinc alta sub rupe canet frondator ad auras, nec tamen interea raucae, tua cura, palumbes nec gemere aeria cessabit turtur ab ulmo. TITYRUS Ante leves ergo pascentur in aethere cervi et freta destituent nudos in litore pisces, 60 ante pererratis amborum finibus exsul aut Ararim Parthus bibet aut Germania Tigrim, quam nostro illius labatur pectore vultus. MELIBOEUS At nos hinc alii sitientis ibimus Afros, pars Scythiam et rapidum cretae veniemus Oaxen 65 et penitus toto divisos orbe Britannos. en umquam patrios longo post tempore finis pauperis et tuguri congestum caespite culmen, post aliquot, mea regna, videns mirabor aristas? impius haec tam culta novalia miles habebit, 70 barbarus has segetes. en quo discordia civis produxit miseros; his nos consevimus agros! insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vites. ite meae, felix quondam pecus, ite capellae. non ego vos posthac viridi proiectus in antro 75 dumosa pendere procul de rupe videbo; carmina nulla canam; non me pascente, capellae, florentem cytisum et salices carpetis amaras. TITYRUS Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem fronde super viridi. sunt nobis mitia poma, 80 castaneae molles et pressi copia lactis, et iam summa procul villarum culmina fumant maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

    da un lato la siepe sul vicino confine di sempre, delibata dalle api iblee nel fiore del salice, spesso con lieve sussurro ti concilierà il sonno; dall’altro ai piedi di un’alta rupe canterà all’aria il potatore; ma frattanto le roche colombe, tua cura, e la tortora non cesseranno di gemere dall’alto dell’olmo. TITIRO Dunque pascoleranno in cielo leggeri i cervi e le acque lasceranno in secco sulla riva i pesci, e avendo errato a lungo l’uno nei territori dell’altro, l’esule Parto berrà nell’Arari, il Germano nel Tigri, prima che l’immagine di lui svanisca dal mio cuore. MELIBEO Noi invece di qui andremo tra gli Africani assetati, parte verremo alla Scizia e parte all’Oassi turbinoso d’argilla, e agli estremi Britanni esclusi da tutto il mondo. Giammai fra lungo tempo rivedendo la terra dei padri, e il tetto del povero tugurio elevato con zolle d’erba – era il mio regno – potrò ammirare le spighe? Un empio soldato possiederà maggesi così coltivati? Un barbaro queste messi? Ecco dove la discordia ha trascinato gli sventurati cittadini; per costoro seminavamo i campi. Innesta i peri, o Melibeo, disponi in filari le viti. Andate, o mie capre, gregge un tempo beato: d’ora in avanti non vi vedrò più, sdraiato in una verde grotta, pendere su un’erta spinosa: non canterò più canzoni; non sarò il pastore, o capre, quando brucherete il citiso in fiore e gli amari salici. TITIRO Tuttavia stanotte potevi riposare qui con me su un giaciglio di verdi frasche; abbiamo frutti maturi, tenere castagne e latte rappreso in abbondanza. E già lontano fumano i tetti dei casolari E più lunghe dall’alto dei monti discendono le ombre.

  • 9

    SERVII GRAMMATICI Qui feruntur in Vergilii Bucolica et Georgica commentarii, recensuit G. Thilo, Hildesheim 1961 Bucolica, ut ferunt, dicta sunt a custodibus boum, id est ajpo; tw``n boukovlwn: praecipua enim sunt animalia apud rusticos boves, huius autem carminis origo varia est. Nam alii dicunt eo tempore, quo Xerses, Persarum rex, invasit Graeciam, cum omnes intra muros laterent nec possent more solito Dianae sacra persolvi, pervenisse ad montes Laconas rusticos et in eius honorem hymnos dixisse: unde natum carmen bucolicum aetas posterior elimavit. Alii dicunt Orestem, cum Dianae Facelitidis simulacrum raptus ex Scythia adveheret et ad Siciliam esset tempestate delatus, completo anno Dianae festum celebrasse hymnis, collectis nautis suis et aliquibus pastoribus convocatis, et exinde permansisse apud rusticos consuetudinem. Alii non Dianae, sed Apollini Nomio consecratum carmen hoc volunt, quo tempore Admeti regis pavit armenta. Alii rusticis numinibus a pastoribus dicatum hoc asserunt carmen, ut Pani, faunis, nymphis ac satyris. Et hic est huius carminis titulus. Qualitas autem haec est, scilicet humilis character. Tres enim sunt characteres, humilis, medius, grandiloquus: quos omnes in hoc invenimus poeta. Nam in Aeneide grandiloquum habet, et in georgicis medium, in bucolicis umile pro qualitate negotiorum et personarum: nam personae hic rusticae sunt, simplicitate gaudentes, a quibus nihil altum debet requiri. […] Intentio poetae haec est, ut imitetur Theocritum Syracusanum, meliorem Moscho et ceteris qui bucolica scripserunt, - unde est “prima Syracosio dignata est ludere versu nostra” – et aliquibus locis per allegoriam agat gratias Augusto vel aliis nobilibus, quorum favore amissum agrum recepit. In qua re tantum dissentit a Theocrito: ille enim ubique simplex est, hic necessitate complusus aliquibus locis miscet figuras, quas perite plerumque etiam ex Theocriti versibus facit, quos ab illo dictos constat esse simpliciter. Hoc autem fit poetica urbanitate: sic Iuvenalis “Actoris Aurunci spolium”; nam Vergilii versum de hasta dictum figurate ad speculum transtulit.

    [Trad. Corfiati] “Bucolica” – si dice – deriva dai guardiani dei buoi, ossia dai boukovloi. Presso i contadini infatti i buoi sono animali di particolare importanza, ma l’origine di questa poesia è incerta. Alcuni infatti dicono che in quel tempo in cui Serse, re dei Persiani, invase la Grecia, dal momento che tutti si nascondevano all’interno delle mura delle città né potevano secondo il costume usuale officiare i sacrifici alle dea Diana, i contadini Spartani si recarono sui monti e recitarono inni in suo onore, e l’età successeiva non fece che rifinire ad arte questa poesia nata in questo modo. Altri dicono che Oreste, mentre stava trasportando, dopo averlo sottratto dalla Scizia, il simulacro di Diana Facelitide, fu sbattuto da una tempesta sulle coste delle Sicilia, e alla fine dell’anno celebrò una festa per Diana con canti, dopo aver riunito insieme i suoi marinai e alcuni pastori, e da allora è rimasta presso i contadini questa consuetudine. Altri ancora non a Diana, ma ad Apollo Nomio vogliono sia consacrato questo carme, nel tempo in cui pascolò le greggi di re Ameto. Altri ritengono che questa poesia fu dedicata dai pastori ai numi delle campagne, come Pan, i fauni, le ninfe e i satiri. E questa è la denominazione di questa poesia. La caratteristica poi è questa, ovvero uno stile umile. Tre infatti sono gli stili: umile, medio e alto, e tutti questi li troviamo in questo poeta. Infatti nell’Eneide fu alto, e nelle Georgiche medio, nelle Bucoliche umile in base alla qualità delle funzioni e dei protagonisti: infatti i protagonisti sono qui contadini, che godono delle cose semplici, e dai quali non bisogna aspettarsi niente di alto. Scopo del poeta è questo: di imitare Teocrito Siracusano, meglio di Mosco e degli altri che scrissero bucoliche, e perciò “prima Syracosio dignata est ludere versu nostra” (Buc. VI 1) – e in alcuni luoghi servendosi di allegoria ringraziare Augusto e altri nobili uomini, grazie al cui favore recuperò i campi perduti. E in questo si discosta molto da Teocrito: quello infatti è sempre semplice, schietto, lui spinto da necessità inserisce in alcuni luoghi immagini, che con maestria per lo più anche dai versi di Teocrito recupera, che è chiaro che da quello sono detti in maniera schietta. Ma questo è fatto per una forma di eleganza poetica: come in Giovenale III 100 “Actoris Aurunci spolium”, dove utilizza il verso di Virgilio sull’asta riferendolo in maniera figurata ad uno specchio.

  • 10

    Et causa scribendorum bucolicorum haec est: cum post occisum III. Iduum Maiarum die in senatum Caesarem Augustus eius filius contra percussores patris et Antonium civilia bella movisset, victoria potitus Cremonensium agros, qui contra eum senserant, militibus suis dedit. Qui cum non sufficerent, etiam Mantuanorum iussit distribui, non propter culpam, sed propter vicinitatem, unde est “Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae”. Perdito ergo agro Vergilius Romam venit et potentium favore meruit, ut agrum suum solus reciperet. Ad quem accipiendum profectus, ab Arrio centurione, qui eum tenebat, paene est interemptus, nisi se praecipitasset in Mincium: unde est allegoricos “ipse aries etiam nunc vellera siccat”. Postea ab Augusto missis tribus viris et ipsi integer ager est redditus et Mantuanis pro parte. Hinc est, quod in prima ecloga legimus eum recepisse agrum, postea eum querelantem invenimus, ut “audieras, et fama fuit; sed carmina tantum nostra valent Lycida, tela inter Martia, quantum Chaonias dicunt aquila veniente columbas”. Nec numerus hic dubius est nec ordo librorum, quippe cum incertum tamen est, quo ordine scriptae sint. Plerique duas certas volunt ipsius testimonio, ultimam, ut “extremum hunc” et primam ut in georgicis “Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi”; alii primam illam volunt “prima Syracosio dignata est ludere versu”. Sane sciendum, VII eclogas esse meras rusticas, quas Theocritus X habet. Hic in tribus a bucolico carmine, sed cum excusatione discessit, ut in genetliaco Salonini et in Sileni theologia, vel ut ex insertis altioribus rebus posset placere, vel quia tot varietates implere non poterat. […] ECLOGA PRIMA 1. Tityre tu patulae r. sub t. fagi inducitur pastor quidam iacens sub arbore securus et otiosus dare operam cantilenae, alter vero quomodo cum gregibus ex suis pellitur finibus: qui cum Tityrum respexisse iacentem, ita locutus est. Et hoc loco Tityri sub persona Vergilium debemus accipere; non tamen ubique, sed tantum ubi exigit ratio. Quod autem eum sub fago dicit iacere, allegoria est onestissima, quasi sub arbore glandifera, quae fuit victus causa: antea enim homines glandibus vescebantur, unde etiam fagus dicta est ajpo; tou`` fagei``n. […]

    E il motivo per cui scrisse bucolica è questo: quando dopo la morte in senato di Cesare il 13 Maggio Augusto suo figlio contro gli uccisori del padre e contro Antonio ebbe condotto la guerra civile, guadagnata la vittoria diede ai suoi soldati i campi dei Cremonesi, che avevano parteggiato contro di lui. Ma poiché questi non erano sufficienti, ordinò che fossero distribuiti anche quelli dei Mantovani, non perché responsabili di qualcosa, ma a causa della vicinanza, e perciò “Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae” (Buc. IX 28). Virgilio dunque dopo aver perduto la campagna se ne venne a Roma e si ingraziò il favore dei potenti, in modo da recuperare da solo il suo campo. Partito per prenderne possesso, da un centurione Arrio, che lo teneva, fu quasi ucciso, se non si fosse buttato nel Mincio; e perciò “ipse aries etiam nunc vellera siccat” (Buc. III 95). In seguito dopo che Augusto ebbe mandato tre uomini e a lui fu restituito per intero il campo e ai Mantovani una parte. Da ciò deriva ciò che leggiamo nella prima ecloga, che lui recuperò il campo, e in seguito lo troviamo che si lamenta, quando dice “audieras, et fama fuit; sed carmina tantum nostra valent Lycida, tela inter Martia, quantum Chaonias dicunt aquila veniente columbas” (Buc. IX 11). E non ci sono dubbi né sul numero né sull’ordine dei carmi, benché tuttavia sia incerto in che ordine siano state scritte. I più vogliono che due sono certe per la testimonianza dell’autore, l’ultima, che fa “extremum hunc” (Buc. X 1) e la prima, perché nelle Georgiche (IV 566) dice “Tityre, te patulae cecini sub tegmine fagi”; alcuni vogliono che la prima sia quella che comincia “prima Syracosio dignata est ludere versu” (VI). Certo bisogna sapere che sette ecloghe sono propriamente rurali, mentre Teocrito ne ha dieci. Questo in tre si discosta dal carme bucolico, ma con una ragione, come nel genetliaco di Salonino e nella teologia di Sileno, sia perché potesse creare diletto inserendo argomenti più alti, sia perché non poteva altrimenti soddisfare la varietas. ECLOGA PRIMA v. 1. Tityre tu patulae… introduce un pastore che sta seduto al riparo sotto un albero e in ozio è impegnato in un canto, un altro poi che in qualche modo con il suo gregge viene cacciato dalle sue terre, il quale dopo aver visto Titiro che se ne sta seduto, gli parla in questo modo. E in questo luogo sotto le vesti di Titiro dobbiamo vedere Virgilio, non tuttavia sempre, ma soltanto lì dove ve ne è ragione. Il fatto poi che dice di stare seduto sotto un faggio, è una bellissima allegoria, perché vuol quasi dire che si trova sotto un albero che produce ghiande, e questo in ragione degli alimenti; in passato infatti gli uomini si nutrivano di ghiande, e perciò anche il faggio è detto da fagei``n.

  • 11

    5. Resonare doces Amaryllida s. id est carmen tuum de amica Amaryllide compositum doces silvas sonare. Et melius est, ut simpliciter intellegamus: male enim quidam allegoriam volunt, tu carmen de urbe Roma componis celebrandum omnibus gentibus. Plus enim stupet Meliboeus, si ille ita securus est, ut tantum de suis amoribus cantet.

    5. Resonare doces Amaryllida s. cioè “insegni alle selve a risuonare il tuo carme composto sull’amante Amarillide”. E sarebbe meglio, per interpretare in maniera semplice: infatti alcuni fanno male a volere l’allegoria. “Tu componi un carme sulla città di Roma da far recitare a tutti i popoli”. Più si sarebbe stupito Melibeo infatti, se quello fosse stato così tranquillo, da cantare soltanto dei suoi amori.

  • 12

    VIRGILIO, Bucoliche, a cura di A. La Penna, trad. di Luca Canali, Rizzoli, Milano 1978, Buc. X Extremum hunc, Arethusa, mihi concede laborem: pauca meo Gallo, sed quae legat ipsa Lycoris, carmina sunt dicenda: neget quis carmina Gallo? Sic tibi, cum fluctus subterlabere Sicanos, Doris amara suam non intermisceat undam; 5 incipe; sollicitos Galli dicamus amores, dum tenera attondent simae uirgulta capellae. Non canimus surdis: respondent omnia siluae. Quae nemora aut qui uos saltus habuere, puellae Naides, indigno cum Gallus amore peribat? 10 Nam neque Parnasi uobis iuga, nam neque Pindi ulla moram fecere, neque Aonie Aganippe. Illum etiam lauri, etiam fleuere myricae; pinifer illum etiam sola sub rupe iacentem Maenalus et gelidi fleuerunt saxa Lycaei. 15 Stant et oues circum (nostri nec paenitet illas, nec te paeniteat pecoris, diuine poeta: et formosus ouis ad flumina pauit Adonis); uenit et upilio; tardi uenere subulci; uuidus hiberna uenit de glande Menalcas. 20 Omnes "Vnde amor iste" rogant "tibi?" Venit Apollo: "Galle, quid insanis?" inquit; "tua cura Lycoris perque niues alium perque horrida castra secuta est." Venit et agresti capitis Siluanus honore, florentis ferulas et grandia lilia quassans. 25 Pan deus Arcadiae uenit, quem uidimus ipsi sanguineis ebuli bacis minioque rubentem: "Ecquis erit modus?" inquit "Amor non talia curat, nec lacrimis crudelis Amor nec gramina riuis nec cytiso saturantur apes nec fronde capellae." 30 Tristis at ille: "Tamen cantabitis, Arcades, inquit,

    Permettimi, Aretusa, quest’ultima fatica; m’urge di dire pochi versi per il mio Gallo, ma li legga Licori stessa; chi negherebbe versi a Gallo? Così quando scorrerai sotto i flutti di Sicilia, possa la salmastra Dori non mischiare le tue acque alle sue. Incomincia: canteremo gli ansiosi amori di Gallo mentre le capre camuse brucano i teneri virgulti. Non cantiamo per sordi: le selve riecheggiano tutto. Quali boschi o balze vi tenevano fanciulle Naiadi, mentre Gallo moriva per eccesso d’amore? Infatti non vi fecero indugio i gioghi del Parnaso e neanche quelli del Pindo, né l’aonia Aganippe. Lo piansero perfino gli allori, perfino le tamerici, lo piansero il Menalo folto di pini e le rupi del gelido Liceo, mentre giaceva ai piedi d’una roccia solitaria. Gli erano intorno le pecore (esse non sdegnano noi, e tu non sdegnare il gregge, o divino poeta: anche il bellissimo Adone pasce le pecore al fiume); e venne il pecoraio, vennero i lenti porcai, venne Menalca bagnato dal cogliere ghiande d’inverno; e tutti: «Di dove un simile amore ti venne?», chiedono. E venne Apollo: «O Gallo, perché ti stravolgi? Licori, il tuo amore, ha seguito un altro fra le navi e gli orridi accampamenti». E venne Silvano ornato il capo di fiori campestri, scuotendo canne fiorite e grandi gigli. Venne anche Pan, dio dell’Arcadia, che vedemmo rosseggiante di sanguigne bacche di sambuco e di minio. «Quale sarà la misura?» disse «Amore non cura simili cose. Amore crudele non si sazia di lagrime, né l’erba di rivi, le api del citiso, le capre di fronde». Ma egli angosciato diceva: «Almeno voi, o Arcadi, canterete il mio dolore alle vostre montagne,

  • 13

    montibus haec uestris, soli cantare periti Arcades. O mihi tum quam molliter ossa quiescant, uestra meos olim si fistula dicat amores! Atque utinam ex uobis unus uestrisque fuissem 35 aut custos gregis aut maturae uinitor uuae! Certe siue mihi Phyllis siue esset Amyntas, seu quicumque furor (quid tum, si fuscus Amyntas? et nigrae uiolae sunt et uaccinia nigra), mecum inter salices lenta sub uite iaceret: 40 serta mihi Phyllis legeret, cantaret Amyntas. "Hic gelidi fontes, hic mollia prata, Lycori; hic nemus; hic ipso tecum consumerer aeuo. Nunc insanus amor duri me Martis in armis tela inter media atque aduersos detinet hostis. 45 Tu procul a patria (nec sit mihi credere tantum) Alpinas, a, dura, niues et frigora Rheni me sine sola uides. A, te ne frigora laedant! a, tibi ne teneras glacies secet aspera plantas! Ibo et Chalcidico quae sunt mihi condita uersu 50 carmina pastoris Siculi modulabor auena. Certum est in siluis inter spelaea ferarum malle pati tenerisque meos incidere Amores arboribus: crescent illae, crescetis, Amores. Interea mixtis lustrabo Maenala Nymphis, 55 aut acris uenabor apros; non me ulla uetabunt frigora Parthenios canibus circumdare saltus. Iam mihi per rupes uideor lucosque sonantis ire; libet Partho torquere Cydonia cornu spicula; tamquam haec sit nostri medicina furoris, 60 aut deus ille malis hominum mitescere discat! Iam neque Hamadryades rursus nec carmina nobis ipsa placent; ipsae rursus concedite, siluae. Non illum nostri possunt mutare labores, nec si frigoribus mediis Hebrumque bibamus, 65 Sithoniasque niues hiemis subeamus aquosae, nec si, cum moriens alta liber aret in ulmo, Aethiopum uersemus ouis sub sidere Cancri. voi soli esperti nel canto. Con quanta dolcezza mi riposerebbero le ossa se le vostre siringhe un giorno canteranno i miei amori. Oh fossi stato uno di voi, un guardiano

    del vostro gregge, un vendemmiatore d’uva matura! Certo se avessi una passione per Filli o per Aminta, o per chiunque altro (che importa se Aminta è bruno? Anche le viole sono scure e foschi i giacinti) giacerebbero con me tra i salici all’ombra d’una vite flessuosa, Filli coglierebbe serti per me, Aminta canterebbe. Qui fresche sorgenti e molli prati, o Licori, e il bosco; qui mi consumerei con te nel trascorrere del tempo. Ora un amore dissennato ti trattiene fra le armi del duro Marte, fra i dardi, di fronte al nemico: tu lontana dalla patria (ah potessi non crederlo!), sola, senza di me, vedi le nevi delle Alpi e i ghiacci del Reno. Ah che il gelo non ti offenda, e tagliente qual è non ferisca le tue tenere piante! Andrò, e quei canti che ho composto in verso calcidico li voglio modulare sul flauto del siciliano pastore. E’ certo: meglio soffrire nelle selve, fra le spelonche delle fiere, e incidere i miei amori nella tenera corteccia degli alberi. Questi cresceranno, e anche voi amori crescerete. Frattanto misto alle Ninfe errerò per il Menalo, e caccerò i feroci cinghiali; i freddi non mi impediranno di circondare di cani le erte balze del Partenio. Già mi sembra di andare fra le rupi e i boschi sonanti, e godo nello scagliare frecce cidonie con l’arco di Partia. Come se questo medicasse la nostra follia, o quel Dio si lasciasse addolcire dalle sventure degli uomini! Già non mi allietano più le Amadriadi, e neanche le stesse canzoni; del resto allontanatevi anche voi, o boschi. I nostri affanni non potranno mutare il Dio, neanche se nel colmo del freddo bevessi le acque dell’Ebro o affrontassi le nevi e le piogge dell’inverno sitonio, o quando morendo si secca la corteccia sugli alti olmi pascolassi le pecore degli Etiopi sotto la costellazione del Cancro.

  • 14

    Omnia uincit Amor: et nos cedamus Amori." Haec sat erit, diuae, uestrum cecinisse poetam, 70 dum sedet et gracili fiscellam texit hibisco, Pierides: uos haec facietis maxima Gallo, Gallo, cuius amor tantum mihi crescit in horas, quantum uere nouo uiridis se subicit alnus. Surgamus: solet esse grauis cantantibus umbra, 75 iuniperi grauis umbra; nocent et frugibus umbrae. Ite domum saturae, uenit Hesperus, ite, capellae.

    Tutto vince l’Amore, e noi cediamo all’Amore». O Dee Pieridi vi basti che il vostro poeta mentre siede e intreccia un cestello di gracile ibisco abbia cantato questo, che voi renderete bellissimo per Gallo, l’amore del quale tanto mi cresce nel tempo, quanto al rinnovarsi della primavera s’innalza il verde ontano. Alziamoci. L’ombra di solito nuoce a coloro che cantano, nociva è l’ombra del ginepro. L’ombra nuoce alle messi. Tornate sazie alle stalle, capre, Espero sorge.

  • 15

    CALPURNIO SICULO, Ecloga III (da Ecloghe, a cura di M. A. Vinchesi, Milano 2002) IOLLAS Numquid in hac, Lycida, vidisti forte iuvencam valle meam? solet ista tuis occurrere tauris, et iam paene duas, dum quaeritur, eximit horas; nec tamen apparet, duris ego perdita ruscis iam dudum nullis dubitavi crura rubetis 5 scindere, nec quicquam post tantum sanguinis egi. LYCIDAS Non satis attendi: nec enim vacat. uror, Iolla, uror, et inmodice: Lycidan ingrata reliquit Phyllis amatque novum post tot mea munera Mopsum. IOLLAS Mobilior ventis o femina! sic tua Phyllis: 10 quae sibi, nam memini, si quando solus abesses, mella etiam sine te iurabat amara videri. LYCIDAS Altius ista querar, si forte vacabis, Iolla. has pete nunc salices et laevas flecte sub ulmos. nam cum prata calent, illic requiescere noster 15 taurus amat gelidaque iacet spatiosus in umbra et matutinas revocat palearibus herbas. IOLLAS Non equidem, Lycida, quamvis contemptus abibo. Tityre, quas dixit, salices pete solus et illinc, si tamen invenies, deprensam verbere multo 20 huc age; sed fractum referas hastile memento.

    IOLLA Non hai per caso visto in questa vallata la mia giovenca, o Licida? Ha l’abitudine costei di farsi incontro ai tuoi tori, e già mi ha fatto perdere quasi due ore a cercarla, ma di lei non si scorge traccia. Quanto a me, già da un pezzo mi sono rovinato le gambe fra i duri pungitopo lacerandomele, senza alcun riguardo, ad ogni rovo; ma dopo tanto sangue versato non sono venuto a capo di niente. LICIDA Non vi ho affatto badato, non ho tempo per questo. Un fuoco, un fuoco smisurato mi divora, Iolla! Fillide, l’ingrata, ha lasciato Licida ed ama, dopo tanti doni che le ho fatto, un nuovo innamorato, Mopso. IOLLA O donna, più mutevole del vento! Così dunque la tua Fillide, lei che, lo ricordo bene, ogni volta che tu partivi da solo giurava che senza di te anche il miele le pareva amaro. LICIDA Mi sfogherò più a fondo, Iolla, se un giorno avrai tempo di ascoltarmi. Ora piuttosto va’ verso questi salici e piega a sinistra, sotto gli olmi. Quando i prati sono caldi è là che il mio toro preferisce riposare; se ne sta disteso, vasto com’è, sotto l’ombra fresca e rumina nella giogaia l’erba del mattino. IOLLA No certo, non me ne andrò, Licida, anche se tu non mi tieni in alcun conto. Va’ tu, Titiro, da solo, verso i salici che lui ha detto e, se la troverai, portala via di là a suon di nerbate e conducila qui; e ricordati, voglio che mi riporti il bastone rotto.

  • 16

    nunc age dic, Lycida, quae vos tam magna tulere iurgia? quis vestro deus intervenit amori? LYCIDAS Phyllide contentus sola (tu testis, Iolla) Callirhoen sprevi, quamvis cum dote rogaret: 25 en sibi cum Mopso calamos intexere cera incipit et puero comitata sub ilice cantat. haec ego cum vidi, fateor, sic intimus arsi, ut nihil ulterius tulerim. nam protinus ambas diduxi tunicas et pectora nuda cecidi. 30 Alcippen irata petit dixitque: ‘relicto, improbe, te, Lycida, Mopsum tua Phyllis amabit’. nunc penes Alcippen manet ac ne forte negetur, a! vereor; nec tam nobis ego Phyllida reddi exopto quam cum Mopso iurgetur anhelo. 35 IOLLAS A te coeperunt tua iurgia; tu prior illi victas tende manus; decet indulgere puellae, vel cum prima nocet. si quid mandare iuvabit, sedulus iratae contingam nuntius aures. LYCIDAS Iam dudum meditor, quo Phyllida carmine placem. 40 forsitan audito poterit mitescere cantu; et solet illa meas ad sidera ferre Camenas. IOLLAS Dic age; nam cerasi tua cortice verba notabo et decisa feram rutilanti carmina libro.

    Ed ora su, Licida, dimmi, che litigio cosi grave vi ha travolto? Quale dio si è interposto nel vostro amore? LICIDA Pago della sola Fillide - tu ne sei testimone, Iolla -, respinsi Calliroe, benché mi richiedesse con una dote. Ed ecco che assieme a Mopso quella si mette a unire le canne con la cera e in compagnia del ragazzo canta sotto il leccio. Quando io vidi ciò, tanto profondamente ne bruciai, lo confesso, da non tollerare più oltre. Immediatamente, feci a pezzi le sue due tuniche e le percossi il petto nudo. In preda all’ira lei se ne è andata da Alcippe, dicendo: «Malvagio Licida, la tua Fillide ti lascia e amerà Mopso». Ed ora se ne sta da Alcippe e temo, ahimè, che forse otterrò un rifiuto. Ma non tanto desidero che mi sia resa Fillide, quanto che lei venga a litigio con quel Mopso tutto ansante d’ amore. IOLLA Da te è partito il litigio, sii tu il primo a protenderle le mani vinte. E’ bello mostrare indulgenza nei confronti di una ragazza, anche quando è lei la prima a fare un torto. Se ti farà piacere affidarmi qualche incarico, raggiungerò, zelante messaggero, le orecchie della fanciulla adirata. LICIDA E’ da un pezzo che vado provando una canzone con cui rabbonire Fillide. Forse sentendo la musica potrà raddolcirsi: è solita portare alle stelle la mia Musa. IOLLA Suvvia, canta; annoterò le tue parole sulla scorza del ciliegio e dopo averla ritagliata porterò a lei la tua canzone su quel libro rosseggiante.

  • 17

    LYCIDAS ‘Has tibi, Phylli, preces iam pallidus, hos tibi cantus 45 dat Lycidas, quos nocte miser modulatur acerba, dum flet et excluso disperdit lumina somno. non sic destricta macrescit turdus oliva, non lepus, extremas legulus cum sustulit uvas, ut Lycidas domina sine Phyllide tabidus erro. 50 te sine, vae misero, mihi lilia nigra videntur nec sapiunt fontes et acescunt vina bibenti. at si tu venias, et candida lilia fient et sapient fontes et dulcia vina bibentur. ille ego sum Lycidas, quo te cantante solebas 55 dicere felicem, cui dulcia saepe dedisti oscula nec medios dubitasti rumpere cantus atque inter calamos errantia labra petisti. a dolor! et post haec placuit tibi torrida Mopsi vox et carmen iners et acerbae stridor avenae? 60 quem sequeris? quem, Phylli, fugis? formosior illo dicor, et hoc ipsum mihi tu iurare solebas. sum quoque divitior: certaverit ille tot haedos pascere quot nostri numerantur vespere tauri. quid tibi, quae nosti, referam? scis, optima Phylli, 65 quam numerosa meis siccetur bucula mulctris et quam multa suos suspendat ad ubera natos. sed mihi nec gracili sine te fiscella salicto texitur et nullo tremuere coagula lacte. qui sibi tunc felix, tunc fortunatus habetur, vilia cum subigit manualibus hordea saxis. 85

    LICIDA «Questa preghiera, o Fillide, questa canzone a te la offre, ormai pallido, Licida; la suona, infelice, nel corso aspro della notte, mentre piange e rovina, insonne, i suoi occhi. Non così si strugge il tordo quando l’oliva viene spiccata dal ramo, non la lepre dopo che il raccoglitore ha portato via le ultime uve, come consunto vado errando, io, Licida, senza Fillide, signora del mio cuore. Senza di te, ohimè misero, i gigli mi paiono neri, le sorgenti non hanno più sapore, e il vino, quando lo bevo, si fa aceto. Ma se tu ritorni, candidi diverranno i gigli, e le sorgenti ritroveranno il sapore e il vino sarà dolce a bersi. Io sono quel Licida, le cui canzoni, eri solita dirlo, ti rendevano felice, quel Licida a cui spesso hai dato dolci baci e che non esitavi a interrompere nel mezzo del canto e a cercarne le labbra, erranti di canna in canna. Oh dolore! E dopo ciò ti è potuta piacere la voce secca di Mopso, il suo canto senza nerbo e gli stridii di un flauto acerbo? Che uomo vai seguendo? Che uomo fuggi, Fillide? Si dice che io sono più bello di lui e questo tu stessa me lo hai giurato molte volte. Sono anche più ricco: scenda a gara con me, provi a pascolare tanti capretti quanti sono i tori che conto la sera. Che dirti che già non conosci? Tu sai, adorabile Fillide, quante sono le vacche che vengono munte per i miei secchi e quante quelle che tengono i loro piccoli appesi alle poppe. Ma senza di te non intreccio più cesti con il salice sottile e non più tremola il latte cagliato. Ché se tu temi ancora, Fillide, le mie brutali percosse, ecco ti porgo le mie mani: ti consento, sì ti consento di legarle dietro la schiena con ritorto vimine o con la flessuosa vitalba, così come Titiro legò una notte le mani malfattrici di Mopso e appese il ladro in mezzo all’ovile. Eccole, non esitare: l’una e l’altra mano hanno meritato la punizione. Eppure con queste mani, con queste medesime mani più volte nel tuo grembo ho deposto colombe, più volte anche un leprotto spaurito, sottratto con l’inganno alla madre; da me tu hai avuto, all’inizio della stagione, gigli e rose, e non appena l’ape cominciava a suggere i fiori; tu eri cinta di ghirlande. Ma forse con te vanta regali d’oro quel bugiardo, che dicono raccolga, sul finir della notte, i lupini amari come la morte e sostituisca il pane con legumi cotti: lui che si ritiene felice, che si ritiene fortunato quando mette sotto la mola a mano del vile orzo.

  • 18

    quod si turpis amor precibus, quod abominor, istis obstiterit, laqueum miseri nectemus ab illa ilice, quae nostros primum violavit amores. hi tamen ante mala figentur in arbore versus: "credere, pastores, levibus nolite puellis; 90 Phyllida Mopsus habet, Lycidan habet ultima rerum"‘.- Nunc age, si quicquam miseris succurris, Iolla, perfer et exora modulato Phyllida cantu. ipse procul stabo vel acuta carice tectus 95 vel propius latitans vicina saepe sub horti. IOLLAS Ibimus: et veniet, nisi me praesagia fallunt. nam bonus a dextro fecit mihi Tityrus omen, qui venit inventa non irritus ecce iuvenca.

    Ma se un amore indegno si opporrà - dio non voglia - a queste mie preghiere, legherò, sventurato, la corda a quel leccio che per primo ha violato il nostro amore. E tuttavia prima sulla pianta maledetta saranno incisi questi versi: "Non fidatevi, pastori, delle fanciulle incostanti. Mopso possiede Fillide, Licida lo possiede la fine di tutto"». Orsù dunque, Iolla, se vuoi procurare un qualche soccorso agli sventurati, porta questa canzone a Fillide e supplicala con melodioso canto. Io me ne starò discosto al riparo del carice tagliente o, nascosto da presso, sotto la siepe del giardino vicino. IOLLA Andrò, e verrà, se non mi ingannano i presagi: ché Titiro, venendo da destra mi fornisce un auspicio favorevole; eccolo che torna, compiuta la missione, con la giovenca ritrovata.

  • 19

    DANTE ALIGHIERI, Le egloghe, testo, traduzione e note a cura di Giorgio Brugnoli e Riccardo Scarcia, Ricciardi, Milano-Napoli 1980 DANTES ALAGHERII JOHANNI DE VIRGILIO Vidimus in nigris albo patiente lituris Pyerio demulsa sinu modulamina nobis. Forte recensentes pastas de more capellas tunc ego sub quercu meus et Melibeus eramus. Ille quidem, cupiebat enim consciscere cantum, «Tityre, quid Mopsus? quid vult? edissere» dixit. Ridebam, Mopse; magis et magis ille premebat. Victus amore sui, posito vix denique risu, «Stulte, quid insanis?» inquam: «tua cura capelle te potius poscunt, quanquam mala cenula turbet. Pascua sunt ignota tibi que Menalus alto vertice declivi celator solis inumbrat, herbarum vario florumque inpicta colore. Circuit hec humilis et tectus fronde saligna perpetuis undis a summo margine ripas rorans alveolus, qui, quas mons desuper edit, sponte viam, qua mitis eat, se fecit aquarum. Mopsus in his, dum lenta boves per gramina ludunt, contemplatur ovans hominum superumque labores: inde per inflatos calamos interna recludit gaudia sic ut dulce melos armenta sequantur, placatique ruant campis de monte leones, et refluant unde, frondes et Menala nutent». «Tityre, » tunc «si Mopsus» ait « decantat in herbis ignotis, ignota tamen sua carmina possum, te monstrante, meis vagulis prodiscere capris». Hic ego quid poteram, cum sic instaret anhelus? «Montibus Aoniis Mopsus, Melibee, quot annis, dum satagunt alii causarum iura doceri, se dedit at sacri nemoris perpalluit umbra. Vatificis prolutus aquis, et lacte canoro viscera plena ferens et plenus ad usque palatum,

    DANTE ALIGHIERI A GIOVANNI DEL VIRGILIO Vedemmo nei neri solchi che il candido campo sopporta musica soave stillata per noi dal seno delle Pieridi. Chiamando le capre pasciute pur come d’uso alla conta, io e il mio Melibeo ci accoglievamo allora sotto una quercia. Ed egli, che ardeva meco conoscere questo canto «Titiro,» disse «che vuole Mopso? Che dunque? Racconta». Io ne ridevo, o Mopso; ma quello più e più incalzava. Mi vinse l’affetto di lui e cessato alfine il sorriso, «Sciocco, che t’arrovelli?» gli dissi «le capre a te affidate pretendon la tua cura, benché il magro pasto or ne turbi. I pascoli ti sono ignoti che il Menalo con l’alta sua cima copre d’ombre allor che li cela al sole cadente, trapunti del vario colore dell’erbe e dei fiori. Ad essi scorre d’attorno, cupo e coperto di fronde di salcio, con onde perpetue facendo dall’orlo ricolmo molli le rive, un picciol canale, che alveo si rese da sé di quante acque il monte sgorga di sopra, così che tranquillo ne scenda. Ivi, Mopso, nel mentre posano i buoi ruminando nel prato, lieto contempla gli affanni degli uomini e dei sovrani: quindi soffiando sulla siringa schiude l’interna esultanza, sì che all’armonico umore tengano dietro gli armenti e mansueti irrompano pei campi dal monte i leoni, e rifluiscano addietro le onde e crollino la cima le fronde del Menalo». «Titiro», allora ei mi disse «se Mopso riecheggia il suo canto tra ignote verzure, pur ignoti potrei tali versi, se me ne additi i sensi, far udire alle erranti mie capre». Che far potevo, quando sì ansioso mi domandava ? «Mopso ai monti Aonii, o Melibeo, tanti anni, quanti altri assai si consumano per la dottrina del foro e del giure, tutto si diè e pallido si fece all’ombra del sacro bosco. Intinto dell’acque onde soli si fanno i poeti e recando le viscere piene del latte dolcissimo e pieno finanche la gola,

  • 20

    me vocat ad frondes versa Peneyde cretas». «Quid facies?» Melibeus ait: «tu tempora lauro semper inornata per pascua pastor habebis ? » «O Melibee, decus vatum, quoque nomen in auras fluxit, et insomnem vix Mopsum Musa peregit», retuleram, cum sic dedit indignatio vocem: «Quantos balatus colles et prata sonabunt, si viridante coma fidibus peana ciebo! Sed timeam saltus et rura ignara deorum. Nonne triumphales melius pexare capillos et patrio, redeam si quando, abscondere canos fronde sub inserta solitum flavescere Sarno?» Ille: «Quis hoc dubitet? propter quod respice tempus Tityre, quam velox; nam iam senuere capelle quas concepturis dedimus nos matribus hircos». Tunc ego: «Cum mundi circumflua corpora cantu astricoleque meo, velut infera regna, patebunt, devincire caput hedera lauroque iuvabit: concedat Mopsus». «Mopsus» tunc ille «quid?» inquit. «Comica nonne vides ipsum reprehendere verba, tum quia femineo resonant ut trita labello, tum quia Castalias pudet acceptare sorores?» ipse ego respondi, versus iterumque relegi, Mopse, tuos. Tunc ille humeros contraxit et «Ergo quid faciemus» ait «Mopsum revocare volentes?» «Est mecum quam noscis ovis gratissima» dixi «ubera vix que ferre potest, tam lactis abundans; rupe sub ingenti carptas modo ruminat herbas; nulli iuncta gregi nullis assuetaque caulis, sponte venire solet, nunquam vi, poscere mulctram. Hanc ego prestolor manibus mulgere paratis, hac inplebo decem missurus vascula Mopso. Tu tamen interdum capros meditere petelcos et duris crustis discas infigere dentes». Talia sub quercu Melibeus et ipse canebam, parva tabernacla nobis dum farra coquebant.

    m’invita alle fronde che nacquero dalla conversa Peneide». «E che farai?» Melibeo mi disse: «tu sempre pastore trarrai tra i paschi le tempie non orne di lauro?». «O Melibeo, l’onor dei poeti, e il nome pur anche nell’aura svanì e a stento si volse la Musa alle veglie di Mopso», già avevo risposto, quando sì mi si fece sul labbro lo sdegno: «Quanti belati replicheranno i colli ed i prati, se con verde chioma susciterò sulle corde un peana! Ma ch’io tema le balze e le campagne che non conoscon gli dei. Non sarà meglio acconciare i capelli al trionfo e, se mai io ritorni, nasconderli bianchi sotto un serto di fronde allor che soleano farmisi biondi in su le sponde del Sarno paterno?». Ed egli: «Chi mai ne potrà dubitare? Però guarda, Titiro, il tempo come sen fugge; che già le capre invecchiarono, alle cui madri i becchi offerimmo che ne ingravidassero! ». Ed io: «Quando i corpi che al mondo ruotano attorno e chi nelle stelle ha dimora si sveleranno al mio canto, come i regni d’inferno, grata cosa sarà di ricingermi il capo di edera e lauro: Mopso vi assenta». «Mopso», mi disse «perché?». « Non vedi com’ei ne rimproveri le parole volgari, e perché le ripetono logore labbri di femminette e perché le sorelle Castalie d’averne offerta han vergogna?». Così gli risposi e i versi tuoi, Mopso, di nuovo rilessi. Ma quegli restrinse le spalle e «Dunque che cosa faremo» disse «se a Mopso vogliamo dar voce?». Risposi: «Tu sai quella pecora, che ho prediletta, che reca le mamme a fatica, cotanto abbonda di latte; al pie’ d’una rupe grande l’erbe or ora brucate si rumina, né a gregge alcuno congiunta né a recinto alcuno assuefatta, da sé, giammai con la forza, suole venire a richiedere la sua mungitura. E a mungerla adesso mi accingo, con pronte mani, con essa dieci cupelle empirò per farne viatico a Mopso. Tu bada frattanto a distogliere i capri dal dare di cozzo e sulle dure croste apprendi a infiggere i denti». Così sotto una quercia io e Melibeo parlavamo, mentre cuoceva per noi la capanna un pugno di farro.

  • 21

    Da Jean-Louis Charlet, L’Architecture du Bucolicum carmen de Pétrarque, in «Res Publica Litterarum», XXVII, 2004, pp. 30-41

  • PETRARCA Fam. X 3 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) Io voglio, o fratello a me più caro della luce, por fine al mio lungo silenzio, che a torto tu crederesti indizio di un animo oblioso; più difficilmente io dimenticherei me stesso che te. Finora, ho avuto scrupolo di turbare la quiete del tuo noviziato; sapevo che tu rifuggivi dallo strepito e amavi il silenzio, e che invece io, una volta incominciato a parlarti, non facilmente avrei cessato; tanto ti voglio bene, tanto ammiro la tua vita. Perciò, tra due estremi sceglievo non quello che a me era più gradito, ma quello che a tè era più caro; ma ora, per dire il vero, mi induco a scriverti non per far piacere a te, ma a me. Che bisogno hai tu delle mie chiacchiere, che entrato nella via che mena al cielo, di continuo ti ricrei degli angelici colloqui? veramente felice e fortunato nella tua scelta, tu che nel fior dell’età potesti abbandonare il mondo proprio quanto più ti lusingava e passare sicuro con le orecchie chiuse attraverso il canto delle Sirene. Scrivendoti, io procuro dunque il mio vantaggio, sperando che alla fiamma tua sacra il mio misero cuore reso torpido e gelido da lunga inerzia si riscaldi; e perciò le mie parole, se non utili, non ti saranno almeno importune. Poiché tu non sei più un coscritto, come un tempo, ma ormai un soldato di Cristo agguerrito da lunga milizia; e grazie ne siano rese a Colui che ti degnò di tanto onore e, come è solito, accolse sotto le sue bandiere un nobile disertore togliendolo dalle schiere dei nemici. Dapprima, mi peritavo a rivolgerti inopportuni consigli; ora sicuro io ti parlo. A chi comincia tutto fa paura, molte cose che da fanciulli tememmo ora ci fanno ridere; ogni rumore spaventa il soldato novellino, chi è abituato alla guerra a nessuno strepito si commuove; il navigante novello si spaventa al primo sussurro di vento, il vecchio nocchiero, che tante volte ricondusse in porto la nave sconquassata e disarmata, dall’alto della poppa guarda tranquillo il mare irato. Io spero dunque in Colui che dal seno della madre ti incamminò per questo sentiero faticoso, sì, ma glorioso, perché attraverso a varie difficoltà tu giungessi in patria; nessuna cosa ormai ti svierà, non le disgrazie, né i dolori, né le malattie, né la vecchiezza, né la paura, né la fame, né la povertà, «né la morte o gli affanni, ombre terribili» e neppure «il guardiano dell’Orco, che nell’antro sanguinoso sulle ossa rose giace», né tutto quello che a spaventare il cuore degli uomini inventò l’ingegno dei poeti. Né di maggior coraggio contro ogni cosa paurosa può aver fatto dono al suo Ercole quel Giove che lo generò per adulterio, che non a te il Figlio della Vergine, eterno padre di tutti, che vede e conforta i giusti voleri di quelli che sperano in lui. Così stando le cose, tu puoi ormai senza timore ascoltare le parole dei tuoi e, se un po’ di tempo libero ti apparirà tra le tue sante

    occupazioni, potrai anche brevemente rispondere. E lascia che io mi valga teco dell’autorità di scrittori profani, citati da Ambrogio e dal nostro Agostino e da Girolamo, e che anche l’apostolo Paolo non disdegnò di nominare; e non voler chiuder la porta della tua cella a ciò che è degno che io dica e non indegno che tu ascolti» […] Ma io debbo ora, o mio Dio, entrare in controversia con te, se tu me lo permetti. Perché mai, dimmi, mentre io e mio fratello eravamo presi nel medesimo laccio su tutti e due si abbatte la tua mano, ma non ambedue fummo insieme liberati? egli se ne volò via, e io non più tenuto ad alcun laccio ma ancora ricoperto dal vischio delle male abitudini, non riesco a spiegare le ali, e dove ero legato, ivi sebbene sciolto rimango. Qual è la cagione per la quale, ugualmente rotti i nostri lacci, non ci toccò insieme «l’aiuto nel nome del Signore?». Perché questa davidica cantilena così armoniosamente cominciata terminò con voci così discordi? La volontà di Dio non è mai senza causa, poiché tutti dipendono da lei, che è fonte di tutte le cause. Mio fratello cantò in tono con l’animo rivolto al ciclo, io invece pensando a cose terrene e curvo verso terra; e forse non vidi la destra liberatrice, forse sperai nelle mie proprie forze; questa o altra è la cagione perché, rotto il laccio, io non sono libero. Abbi compassione di me, o Signore, perché sia degno di una maggior compassione; che senza la grazia della tua misericordia in nessun modo l’umana miseria può ottenere misericordia. PETRARCA Fam. X 4 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) Al medesimo, sullo stile dei Padri della Chiesa e sulle relazioni tra la teologia e la poesia, con una breve esposizione della prima egloga del suo Carme Bucolico, a lui inviata. Se ben conosco la pietà dell’animo tuo, tu avrai provato orrore nel ricevere il carme unito a questa lettera, così discordante con la tua professione e contrario i tuoi propositi. Ma non far giudizi temerari; che v’è infatti di più stolto che giudicare di ciò che non si conosce? […] Or sono tre estati, mentre ero in Francia, il caldo mi indusse a recarmi alle sorgenti della Sorga, che un tempo, tu lo sai, noi scegliemmo come nostra dimora; ma a te per dono divino si preparava una sede più sicura e più tranquilla, a me neppur di quello fu dato di godere, trascinandomi la fortuna tant’alto che è troppo. Là dunque io mi trovavo, in questa disposizione d’animo: che frastornato

  • 23

    da tante brighe, non osavo intraprendere nulla di grande, e tuttavia non sapevo stare in ozio, abituato come sono fin dall’infanzia a fare qualche cosa, se non sempre buona. Scelsi allora una via di mezzo: di rimandare ad altro tempo le cose più gravi, e comporre qualcosa che mi distraesse in quel soggiorno. L’aspetto stesso del luogo e i boschi solitari, dove spesso pieno di gravi pensieri io penetravo all’alba e donde soltanto l’avvicinarsi della notte mi richiamava, mi spinsero a cantare qualcosa di silvestre. Cominciato dunque a scrivere un carme bucolico diviso in dodici egloghe, che da un pezzo avevo in mente, è incredibile a dire in quanto pochi giorni lo terminai; tanto quel luogo eccitava l’animo mio. E poiché nessun soggetto avevo in mente che più mi stesse a cuore, scrissi la prima egloga su noi due, la quale facilmente m’indussi a mandarti, non so se per tuo diletto o per impedimento del tuo diletto. Ma poiché è questo un componimento, che se non è spiegato da chi lo scrisse, non si può capire, perché tu non ti stanchi inutilmente, ti spiegherò brevemente, prima che cosa io dico, poi quel che intendo dire. Sono introdotti due pastori; poiché pastorale è lo stile, e perciò messo in bocca a pastori. I nomi dei pastori sono Silvio e Monico. Silvio, vedendo Monico solo e felice, in una quiete degna di invidia sedere sotto un antro, gli parla quasi ammirando la sua fortuna e deplorando la propria, perché egli, lasciati il gregge e i campi, abbia trovato il riposo, lui stesso invece vada ancora aggirandosi con gran disagio tra aspri colli; e tanto più si duole che così grande sia la differenza della loro fortuna, in quanto, come dice, una sola fu la madre di ambedue, perché si capisca che i due pastori son fratelli. Monico in risposta ritorce tutta la colpa della fraterna disdetta su lui stesso, dicendogli che da nessuna forza costretto, egli erra di sua volontà per monti e per selve; e Silvio gli risponde che cagione del suo errare è l’amore, ma soltanto l’amor delle Muse e non d’altro. E perché questo sia chiaro, comincia a narrare una favola piuttosto lunga, di due pastori, che dolcemente cantavano, l’uno dei quali egli si ricorda di aver udito nella sua puerizia, l’altro più tardi, e che preso dal loro diletto ogni altra cosa ha trascurato; e mentre per i monti anelando li segue, ha ormai imparato a cantare, sì da esser lodato dagli altri, anche se non ancora è soddisfatto di sé. Perciò si è proposto di aspirare alla perfezione e di raggiungerla o morire. Monico cerca di persuadere Silvio a entrare nel suo antro, per udirvi un canto più soave, ma subito lascia a mezzo il suo discorso, come se veda sul viso di Silvio segni di turbamento. Quello a sua volta si scusa, e Monico termina il suo discorso, alla fine del quale Silvio meravigliato domanda chi sia quel pastore dal canto così dolce, del quale ora per la prima volta ode far menzione. Monico con rozzezza veramente pastorale non

    ne fa il nome, ma ne descrive la patria e, come soglion fare i villani, che spesso errano ne’ nomi, parla di due fiumi che nascono da una stessa sorgente, e subito dopo, quasi accorgendosi del suo errore, cambia le parole, e non più di due, ma di un sol fiume seguita a parlare, che nasce da due sorgenti; l’una e l’altra in Asia. Silvio dice di conoscer questo fiume, e ne dà prova ricordando che in esso un irsuto giovane lavò Apollo. Di là soggiunge Monico essere oriundo quel cantore; e ciò udendo, Silvio subito lo riconosce e ne critica la voce e il canto, esaltando due suoi pastori, mentre Monico ricopre di lodi il suo. Alla fine, Silvio, come se si rassegnasse, dice che a suo tempo tornerà e dimostrerà quanto dolcemente canti quello che è con lui, ma che ora ha fretta. Meravigliato, Monico domanda la ragione di quella fretta, e si sente rispondere che, tutto preso da un canto che ha preso a comporre intorno a un giovane egregio, di cui brevemente narra le gesta, Silvio non può ora occuparsi d’altro; sicché Monico termina il colloquio dicendo addio a Silvio e in ultimo esortandolo a considerare il rischio e il danno dell’indugio. Questo è il sunto del componimento; quanto al suo significato, eccolo. I pastori che parlano siamo noi due, io Silvio, tu Monico. Quanto alla ragione dei nomi, del primo, poiché l’azione si svolge nelle selve, e perché in me è insito fin dall’infanzia l’odio delle città e l’amore delle selve, per il quale molti nostri amici nei loro scritti mi chiamano più spesso Silvano che Francesco; del secondo, perché, chiamandosi uno dei Ciclopi Monico quasi monocolo, un tal nome mi parve in certo modo convenirti, come a colui che dei due occhi di cui ci serviamo noi mortali per guardare con l’uno le cose celesti con l’altro le terrene, tu ti sei privato di quello che guarda le cose terrene contentandoti di quello migliore. L’antro dove Monico vive solitario è Montreux, dove tu ora conduci vita monastica tra spelonche e boschi, o anche in quello in cui Maria Maddalena fece penitenza, vicino al tuo monastero; poiché in esso tu ti confermasti, con l’aiuto di Dio che rinsaldò il tuo cuore vacillante, nel santo proposito, di cui lungamente avevi meco ragionato. La campagna e il gregge, di cui è detto che abbandonasti ogni cura, intendili come la città e gli uomini, che lasciasti fuggendo in solitudine. Che una sola fu la madre di ambedue, anzi ambedue i genitori, non è allegoria ma pura verità. Il sepolcro è l’ultima dimora; che te aspetta il cielo, me, se Dio non m’aiuta, l’inferno; ma si può anche più semplicemente intendere come suonano le parole; che tu hai ormai una sede stabile e perciò una più sicura speranza di sepolcro, io sto ancora vagando e tutto è per me incerto. La vetta inaccessibile, alla quale Monico rimprovera Silvio di tendere con grande sforzo, è l’altezza della fama, che è rara e cui pochi conseguono. I deserti, nei quali Silvio si aggira, sono gli studi, oggi

  • 24

    davvero deserti, perché abbandonati o per cupidigia di lucro o per pigrizia d’ingegno. Gli scogli muscosi sono i potenti e i ricchi, coperti dalle ricchezze come dal musco; fonti sonanti possono essere chiamati i letterati e gli oratori, dal cui ingegno, come da sorgenti, scaturiscono i fiumi delle scienze con piacevole mormorio. Quello che Silvio fa in nome di Pale, è un giuramento da pastori, poiché Pale è la dea dei pastori; da noi può significare Maria, non dea, ma madre di Dio. Partenia è Virgilio, ed è nome non da me ora inventato, poiché nella vita di lui si legge che meritò di esser chiamato Partenia, come dire integro per il suo modo di vivere; e perché questo da sé il lettore intendesse, è ivi aggiunto un passo nel quale è detto che il Benaco, lago della Gallia Cisalpina, genera un figlio a sé somigliante, ed è questo il Mincio, fiume di Mantova, che è la patria di Virgilio. Il nobile pastore venuto di fuori è Omero, nella descrizione del quale quasi tutte le parole hanno un particolare significato. Infatti quel poi, cioè dopo, non è detto senza occulta cagione, poiché a Virgilio ancor fanciullo io mi accostai, e poi, cresciuto in età, ad Omero; poiché devi sapere che quella che porta volgarmente il nome di Omero è un’operetta di non so quale scolastico, sebbene contenga un riassunto dell’lliade d’Omero. Dissi poi che veniva da paesi stranieri, perché non è italiano né si serve della lingua latina; perciò dissi che non cantava nella nostra favella, essendo egli greco. E giustamente gli compete l’epiteto di generoso pastore, poiché chi mai più generoso della lingua e dell’ingegno d’Omero? Fu aggiunto non so qual valle perché del luogo dov’egli nacque varie sono le opinioni che qui non è il caso di enumerare; infine che Virgilio bevesse al fonte omerico è cosa nota a tutti quelli che si dedicano alla poesia. L’amica, della quale ambedue son degni, è la fama, per la quale cantino i poeti, come per l’amica gli amanti. L’orrida selva e gli aerei monti che Silvio si meraviglia che non seguano il dolce canto dei pastori sono il volgo ignorante e i principi potenti. La discesa dalla cima del monte al fondo delle valli e la salita dal fondo delle valli ai monti di cui parla Silvio a proposito di se stesso, sono l’alterno passaggio dall’altezza della teorica all’esercizio della pratica secondo il variare dei nostri affetti. La fonte che applaude colui che canta è il coro degli studiosi; le aride rocce sono gli idioti, sui quali, come l’eco sulle rocce, batte la nuda voce e si riflette indietro senza esser da essi compresa; le ninfe dee delle fonti sono i divini ingegni degli studiosi. La casa, dentro la quale Monico invita Silvio, è l’ordine dei Certosini, nel quale nessuno entra ingannato, come avviene per altri ordini, nessuno malvolentieri. Il pastore, il cui canto Monico preferisce a quello di Omero e Virgilio, è David stesso, a cui propriamente conviene il verbo salmeggiare a cagione dei suoi Salmi; e la mezzanotte è ricordata per la mattutina salmodia, che soprattutto in quell’ora si

    ode nelle nostre chiese. I due fiumi con una sola sorgente, intorno ai quali Monico dapprima prende errore, sono il Tigri e l’Eufrate, noti fiumi dell’Armenia; il fiume dalle due sorgenti è il Giordano della Giudea, e di ciò fanno fede molti autori, tra i quali Girolamo, che spesso e a lungo abitò in quel paese. I nomi delle sorgenti sono: Ior e Dan, dalle quali deriva il fiume stesso e il suo nome; e si narra che sfoci nel mare di Sodoma, dove si dice esistano ancora i campi di cenere a cagione dell’incendio di quella città, in questo fiume si ricorda che Cristo fu lavato col battesimo da Giovanni. Poiché quel giovane irsuto è Giovanni Battista: giovine vergine, puro, innocente, irsuto, incolto, coperto di folte pelli, coi capelli arruffati, con la faccia bruciata dal sole. Quanto ad Apollo, esso è detto figlio di Giove e dio dell’ingegno; e per esso io intendo Gesù Cristo, vero Dio e vero figlio di Dio, signore di ingegno e di sapienza, poiché, secondo i teologi, ha gli attributi della somma e indivisibile Trinità, al figlio è attribuita la sapienza ed egli stesso è detto la sapienza del Padre. Quanto alla voce rauca di David e alle frequenti lacrime e al nome di Gerusalemme spesso ripetuto, essi vogliono indicare lo stile di lui, a prima vista aspro e flebile, e il fatto che nei Salmi ricorre, storicamente e allegoricamente, menzione di quella città. A questo punto si accenna sommariamente a quel che cantano i poeti che Silvio preferisce; fare una vera e propria trattazione sarebbe stato troppo lungo, ma a chi è provetto negli studi tutto è chiaro e manifesto. Monico gli contraddice giustificando la davidica raucedine e con uguale brevità esponendo il suo tema. Il giovane, del quale Silvio cominciò a riferire un canto, è Scipione Affricano, che sul lido d’Affrica abbattè Polifemo, cioè Annibale duce dei Cartaginesi; poiché come Polifemo anche Annibale fu monocolo, dopo aver perduto un occhio in Italia. I leoni libici, di cui come si sa abbonda l’Africa, sono gli altri capitani dei Cartaginesi, che Annibale vincitore sbalzò dal potere. Le tane incendiate sono le navi bruciate, nelle quali era riposta ogni speranza, dei Cartaginesi; narra la storia romana che ben cinquecento Scipione ne bruciò sotto i loro occhi. Questi è anche chiamato giovane celeste sia per l’eroico valore onde rifulse, che da Virgilio è chiamato ardente e da Lucano igneo, sia per l’opinione della sua origine celeste, che per l’ammirazione di tanto uomo avevano allora i Romani. Lui lodano gl’Italici dall’opposto lido, poiché il lido italico è di contro al lido africano, non soltanto per la reciproca inimicizia, ma anche per la posizione geografica; Roma è infatti di fronte a Cartagine. Ma di questo così lodato giovane nessuno canta; così io dissi perché, sebbene ogni storia sia piena delle lodi e delle gesta di lui, e non vi sia dubbio che Ennio a lungo scrisse di lui «in uno stile rozzo e trascurato» come dice Valerio Massimo, non esiste su tal personaggio un componimento poetico veramente degno. Di esso

  • 25

    dunque io mi proposi di scrivere come potevo, perché proprio di lui tratta l’opera mia che s’intitola Africa, che Dio voglia io possa felicemente terminare da vecchio come animosamente incominciai da giovane. Quanto poi al grave pericolo di differire un saggio divisamento e ai gravi e inattesi casi della vita presente, da cui le ultime parole di Monico consigliano di guardarsi, non c’è bisogno neppur di parlarne. Il resto capirai bene meditandolo. Addio. Padova, il 2 di dicembre, di sera [1349].

    PETRARCA, Epistola a Barbato da Sulmona (Var. 49, da Epistuale de rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze 1863) Ti recherà questa lettera il mio carissimo ed intrinseco amico Lelio, che volgarmente chiamano Lelio di Pietro Stefano, uomo di recente ma nobilissima romana origine, e d’indole e di natura veramente romano all’antica. E a te, fratello mio, con tutto il cuore, con tutta l’anima lo raccomando, e per la santa amicizia nostra ti prego che in quelle bisogne sue, delle quali ti parlerà Messer l’Arcivescovo di Trani, piacciati di fare in suo pro né più né meno di quanto faresti se si trattasse delle mie cose o dell’onor mio. E quello che a te scrivo fa che come a sé scritto abbialo il nostro Giove, cui raccomanda tu il suo Mercurio il quale è pronto sempre e parato ad eseguire ogni paterno di lui comando. Addio fratello. - Quantunque la nausea delle faccende che m’ho in questa Curia mi abbiano messo addosso una tal quale pigrizia, e la gravissima soma delle mie occupazioni fatto m’abbia restio ad ogni fatica, non son potuto star saldo contro il volere di questo Lelio, che mi costrinse a copiare colle stanche mie dita una almeno delle diverse Egloghe or ora da me composte nel solitario ritiro della mia Valchiusa: quella cioè con cui intesi d’onorare la eterna memoria del nostro santissimo Re. Egli dice che quantunque piccolo, deve questo dono tornare accettissimo a voi due, ed a Maestro Niccolò d’Alife, ai quali vuol che io lo mandi per avervi ben disposti a secondare del consiglio e dell’opera i suoi desiderii. Fate dunque che non cadano a vuoto le sue speranze: io ve ne prego e riprego quanto so e quanto posso. Or perché aperto a te si paia il senso di questa Egloga, rammentane l’argomento che dianzi io ti esposi. Nell’occhiuto pastore ravvisa l’avvedutissimo Re che a guidare i suoi popoli era tutt’occhi: sotto il nome d’Ideo intendi il nostro Giove nutrito a Creta sull’Ida: in Pitia conosci il mio Barbato, che così chiamai per dar gloria alla sua amicizia, della quale non volendo pur io arrogarmi il vanto, anzi che dirmi Damone, scelsi chiamarmi Silvio, e perché innato è in me l’amore per le selve, e perché quel poetico mio lavoro, siccome dissi, fu da me composto nel silenzio de’ boschi. Il resto è chiaro. Addio di nuovo. Dall’inferno de’ vivi. Ai 18 di gennaio 1347

  • 26

    PETRARCA, Epistola a Cola di Rienzo (Var. 42, da Epistuale de rebus familiaribus et variae, ed. G. Fracassetti, III, Firenze 1863) Dal procelloso mare di questa Curia che chiaman Romana, in mezzo al quale navigando invecchiai, e pur mi sento rozzo ancora e inesperto del navigare, al porto della consueta mia solitudine, che è quanto dire, dalle mura di Avignone al luogo che secondo sua natura detto è Valchiusa, mi riparai. E sebbene di quindici sole miglia da quella città quanto altra mai turbolenta, e dalla sinistra sponda del Rodano sia questo luogo lontano, tanta in così piccola distanza corre fra loro la differenza, che quante volte dall’una partendo mi reco all’altro, dall’ultimo occidente al punto estremo d’onde nasce il sole parmi d’aver fatto viaggio. Tutto è diverso dal cielo in fuori: uomini, acque, terre diverse. Limpida e fresca per cristalline onde meravigliose scorre per letto come puro smeraldo trasparente e tra tutti i fiumi bellissima la Sorga, or tumida e gonfia come torrente, or come fonte cheta e tranquilla, che veggo con meraviglia da Plinio fra le cose piu memorabili della Narbona annoverata, perocché veramente è sul territorio di Arles. Ho qui una villetta in cui fuori d’ltalia, per legge d’inesorabile necessità, io mi trattengo, luogo a miei studi del mattino e della sera acconcissimo più ch’altro mai per colli ombrosi, per valli apriche, per nascosti ricetti, e per la solitudine che tutta intorno vi regna grata e tranquilla: nel quale d’altri animali meglio che d’uomini l’orme si stampano, né per altro mai che per lo mormorare delle acque correnti, pel muggito de’ buoi che pascolano lungo le rive, o pel cantar degli augelli il grave e lungo silenzio avvien che si rompa. In questo luogo pertanto, del quale altro non dico perché dalle naturali sue qualitadi e da miei versi venuto in fama già fu per ogni dove celebrato e notissimo, non appena avidamente io mi ridussi, sia perché le orecchie e la mente stanche del cittadino tumulto qui potessero trovare alcun conforto, sia per dar l’ultima mano ad alcuni lavori che mi tengono in faccende ed in pensiero, all’aspetto di queste selve mi venne in fantasia di cantare alcun che d’incolto e di pastorale. Ed a quel carme bucolico che nella scorsa estate aveva composto, un capitolo, o per parlare come di poetiche cose conviensi poeticamente, un’egloga aggiunsi, e seguendo la legge che in quella specie di componimenti vieta d’uscir dalle selve, indussi a colloquio fra loro due pastori germani fratelli, e a te degli studi amantissimo in sollievo delle gravi e molteplici tue cure questo mio componimento volli inviato. Ma perché di cosiffatto genere di poesia proprio è che ove l’autore stesso non ne mostri la chiave, altri possa per avventura congetturando indovinare, ma tutto per intero il riposto significato a comprenderne non riesca, io che te intento a pubblici e gravissimi negozi della

    Repubblica non voglio costringere a meditar le parole di un rozzo pastore, né che tu spenda in cosiffatte bazzecole pur una briciola di cotesto ingegno divino, brevemente ti farò manifesto il mio pensiero. I due pastori pertanto sono due specie di cittadini nella medesima patria loro abitanti, ma nel sentire della Repubblica fra loro a gran pezza discordi. Marzio è uno che è quanto dire bellicoso ed inquieto, il quale preso il nome da Marte cui fecer gli antichi padre di Romolo, tutto pietoso e compassionevole si dimostra alla sua genitrice. E questa è Roma. L’altro fratello è Apicio, che tu ben sai essere stato maestro della cucina: nel quale sono da ravvisarsi i voluttuosi e gli inerti. Gran contesa è fra loro intorno agli uffici di pietà che all’annosa madre sono dovuti, e spezialmente si tratta di ristorarle la casa antica, cioè a dire il Campidoglio, ed il ponte per lo quale alle campagne sue solea tragittarsi, che è il ponte Milvio, sotto cui scorre il rivo, ossia il Tevere, che giù discende dai gioghi dell’Appennino. In quella strada che porta agli orti antichi e alle case di Saturno intendi quella che guida ad Orta antica ed a Sutri: e nell’ombrosa Tempe ravvisa l’Umbria ove sono Narni, Todi, ed altre molte città: siccome più innanzi è la Toscana, il cui popolo discendere dalle genti dei Lidi è a te ben noto. E in quel pastore, del quale ivi si narra che sorpresi i ladri li uccidesse sul ponte, ravviserai di leggieri M. Tullio Cicerone, che tu sai bene aver sul ponte Milvio scoperta la congiura di Catilina. Perché console, lo dissi pastore: lo dissi arguto, perche fu principe nella eloquenza. La selva cui la rovina del ponte minaccia ruina e la scarsa greggia, sono figure del popolo di Roma: le mogli e i figli, de’ quali, senza curar della madre, tanto pensiero si dà Apicio, sono le terre ed i vassalli e le spelonche delle quali ivi è parola, sono le rocche dei baroni, entro le quali riparandosi insultano alla pubblica miseria. E vuole Apicio che il Campidoglio non si restauri perché Roma si sbrani e partasi in due, ed a vicenda or dall’una ed or dall’altra parte si prenda il comando. L’altro, ch’è vago dell’ unità dell’impero, rammenta per lo restauro del Campidoglio le materne dovizie, e tuttora potente nella concordia de’ figli vuol che sia Roma nutrice del gregge e dei giovenchi, che è quanto dire dell’umile volgo e del popolo più robusto. E fra gli altri avanzi dell’ antiche ricchezze gli vien pur fatto di rammentare il sale nascosto: il che, quantunque della gabella del sale, che a quel che dicono rende assaissimo, possa intendersi detto, meglio però sarà da te interpretato per la Romana sapienza lungamente soffocata dalla tirannide. E mentre que’ due così garriscon fra loro, ecco venir un Veloce, che è la Fama, di cui, secondo Virgilio:

    Altro male non avvi al par veloce. E questi delle vane cure e del piatire inopportuno fatta prima rampogna, annunzia

  • 27

    loro che la madre li sconosce, e che per volere di lei un minor germano gli imprese a fabbricare la casa; il quale e delle selve tiene il governo, e a dolce canto sciogliendo la voce, alle greggie degli animali impone silenzio, che è quanto dire: leggi promulga, e quel che nuoce allontana. Delle quali cose parlando o i nomi, o l’indole, o gli stemmi di alcuni infra i tiranni nel nome delle fiere accortamente nascosi. Quel germano minore infino ad ora sei tu. Il resto è chiaro di per se stesso. - Addio , grand’ uomo, e ti sovvenga di me. PETRARCA Fam. XXII 2 (da Opere, Sansoni, Firenze 1975, trad. E. Bianchi) A Giovanni da Certaldo, che spesso scrivendo gli accade di errare in quel che meglio sa; e sulla legge dell’imitazione. Appena tu fosti partito, sebbene addolorato, tuttavia, poiché non so stare senza far nulla - sebbene, a dire il vero, tutto quello che fo sia nulla o al nulla molto simile - trattenni presso di me il nostro amico per compiere insieme con lui il lavoro cominciato insieme con te: rivedere le copie del Carme bucolico, che avevi portato teco. E mentre ne discorrevo con quel brav’uomo tagliato all’antica, amico veramente caro, tardo nel leggere, mi accorsi di alcune parolette ripetute più spesso che non avrei voluto e di altre cosette ancor bisognose di lima. Perciò ti avvisai di non affrettarti a trascriverlo e a darne copia al nostro Francesco, non ignaro dell’interesse che voi dimostrate a ogni cosa mia e soprattutto ai miei scritti, che, se l’amore non vi facesse travedere, non sarebbero degni né delle vostre dita né dei vostri occhi; pensavo di poter far comodamente le correzioni in poche ore, appena tornato in campagna, come mi proponevo di fare il primo di luglio; ma m’ingannai. Poiché i frequenti e quasi annuali moti della Liguria mi trattennero in città, sebbene ta