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Micol Trezzi - Bisogni evolutivi e comportamenti trasgressivi in adolescenza

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Difficile scegliere un unico caso che riesca a rappresentare, esemplificandola, la complessità e la

ricchezza del lavoro con ragazzi che “hanno trasgredito”. Diversi nomi, volti, età, storie, ma ognuno di loro ad un tratto del viaggio verso la crescita si è in qualche modo trovato a chiedersi “cos’ho fatto?” “com’è successo?”. Un azione, un gesto, per qualcuno un reato, che lascia la loro mente e quella di chi accanto a loro vive con un senso di stupore spesso paralizzante (“non potevo credere che fosse stato mio figlio” sembra il commento più frequente dei genitori), sorpresa, incredulità, un desiderio di comprensione sottende questi momenti ma sembra in qualche modo contrastare la natura stessa di quei comportamenti in cui il pensiero non è ammesso. A fronte di agiti aggressivi, sia che portino il ragazzo ad incontrare i servizi della giustizia minorile, sia che rimanga ad una gestione privata della famiglia, sembra mettersi in moto una grande attivazione da parte dei soggetti coinvolti ma con un’impossibilità condivisa di pensare e collocare quanto accaduto nelle singole narrazioni autobiografiche. Forse perché il comportamento messo in atto sembra andare al di là di quello che viene concepito come un naturale approccio al mondo, ai rapporti; nonostante Lichtenberg ci ricordi che “….la motivazione avversiva rappresenta una eccezione al principio secondo cui la ricerca di affetti positivi orienta le motivazioni dominanti nella vita delle persone…”, di fatto molti individui, e tra questi molti dei nostri ragazzi, mentre cercano l’amore, il benessere, la costruzione di rapporti gratificanti, di fatto agiscono nelle loro relazioni distruggendo, ferendo, non riconoscendo i bisogni altrui, e rimanendo, alla fine, soli sopra un mucchio di rovine affettive e relazionali.

Il primo incontro con Giacomo è rappresentato dalla descrizione che di lui mi fa l’assistente sociale in

una fase preliminare di presentazione della situazione: premette di sentire un profondo bisogno di condivisione nella gestione di questo caso, “Giacomo è uno che si arrabbia e mi fa arrabbiare, così come i suoi genitori. Devo fare davvero degli sforzi di controllo con loro!”. Mi racconta che Giacomo è imputato di un “reato brutto”: una rapina aggravata, insieme a due coetanei, ai danni di un altro minorenne. Sarebbe stato usato anche un coltello, di cui sembra difficile accertare la provenienza, Giacomo sostiene che fosse suo ma di averlo passato ad uno dei coimputati, il quale afferma il contrario. Il fatto è accaduto in seguito ad una lite con i genitori, perché non più disponibili ad acquistare il giaccone che gli avevano promesso. Uscito insieme ai suoi amici, passando vicino alla stazione e vedendo la vittima sola lo avrebbero minacciato e rapinato di vestiti e portafoglio, “insomma l’hanno lasciato in mutande”. La vittima era un vecchio compagno di scuola di Giacomo, ma lui afferma di non averlo riconosciuto, “io non ci credo”. E’ importante raccogliere elementi sulla cronaca dei fatti, con le eventuali contraddizioni, senza che questo ci condizioni: nostro obbiettivo non è poi ottenere una “confessione” sull’oggettività dell’accaduto quanto la verità dell’adolescente che ci sta di fronte.

La descrizione prosegue con indicazioni sulla vita familiare di Giacomo: da poco diciottenne, figlio primogenito di una famiglia di quattro persone, vivono in un appartamento in affitto nella zona industriale di un piccolo paese dell’interland, il padre lavora in proprio come muratore, mentre la madre si occupa di lavori domestici dopo aver perso il suo posto di segretaria, a detta di Giacomo a causa “dell’invidia della sua capa”, la sorella di 10 anni viene descritta come molto sensibile ed un po’ ritirata; l’assistente riferisce di una madre molto impulsiva che durante i colloqui ha faticato nel contenersi emotivamente, il padre le è apparso invece maggiormente disponibile ma di fatto piuttosto distaccato dal figlio, sentendosi di non essere riuscito a trasmettergli dei sani valori. Tutti appaiono molto spaventati dalla “macchia sociale” che il reato avrebbe gettato sulla loro famiglia. Raccogliendo tutti gli elementi, le informazioni, i vissuti suscitati nell’operatrice

MICOL TREZZI Bisogni evolutivi e comportamenti trasgressivi in adolescenza

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mi preparo al primo incontro con Giacomo che concordiamo di svolgere presso il suo ufficio al fine di mostrare la continuità tra gli interventi.

Giacomo si presenta puntuale: è un ragazzo minuto, capelli scuri portati molto corti, un cappellino da baseball che alternativamente viene calcato sulla fronte o sfilato completamente, quasi a rimandare un senso di intermittenza nel contatto, uno sguardo profondo, modi dall’apparenza tanto nervosa quanto spaventata, accenna a mangiarsi le unghie ed è continuo lo stropicciarsi il piercing a lato del labbro; l’abbigliamento è curato con abiti dalle marche evidenti, ma portati “sottotono”. L’assistente sociale mi presenta e commenta che Giacomo era un po’ scettico di fronte alla proposta di incontrare uno psicologo, “non è che non volevo, se devo farlo lo faccio però non mi sembro matto” interviene lui. Commento che riconosco il mio essere giovane, ma affermo di non aver mai visto matti fino a quel momento, piuttosto di aver incontrato diversi ragazzi che come lui, a partire da un gesto si trovano improvvisamente catapultati in un sistema complesso, un arresto, diversi operatori, avvocati, giudici ed anche psicologi, un po’ come se si finisse in lavatrice; forse lo spazio di osservazione potrebbe essere un po’ il luogo in cui la lavatrice si ferma e si prova a guardare dentro e mettere in ordine, una volta che le cose sembrano più chiare si scrive una relazione al giudice in modo che possa giudicare Giacomo mettendo insieme il reato commesso alla persona che è. Sorride commentando “Altro che lavatrice, sono finito in una centrifuga. La mia vita è cambiata sì, è da tre mesi che sono chiuso in casa, mi sto esaurendo!”. Proseguiamo da soli il colloquio e partiamo proprio dalla sensazione di stare esaurendo: Giacomo sembra faticare a comprendere il senso della misura cautelare a cui è sottoposto “non sono mica scemo che vado a fare un’altra rapina”, il problema principale sembra rappresentato dall’impossibilità di incontrare la sua ragazza, i cui genitori non “possono assolutamente scoprire ho commesso un reato”: la descrive come bellissima, di buona famiglia, dice di non piacere ai genitori perché non va più a scuola “figuriamoci se sanno questo”, “ho anche fatto la figura del pezzente non andando a trovare la madre che era in ospedale”. Racconta del reato: la promessa dei genitori di comprargli una giacca di una famosa marca che non viene mantenuta, la litigata e l’uscire di casa pieno di risentimento. L’incontro con Alessandro e Michele, amici di infanzia, tutti e tre a lamentarsi sul bisogno di soldi, i discorsi su come avrebbero potuto fare a procurarseli, e poi l’incontro con la vittima: “era alla stazione, non c’era nessuno, aveva una giacca di Ralph Lauren stupenda, abbiamo detto cosa facciamo dai andiamo! Io avevo un coltello, di quelli a farfalla, lo porto con me perché mi piace la forma, Alessandro aveva un tirapugni, ce li siamo scambiati e siamo andati e gli abbiamo detto di darci tutto. Non gli avremmo mai fatto niente servivano per essere sicuri che ci avrebbe dato le cose”. E’ avvicinandosi al ragazzo che Giacomo lo avrebbe riconosciuto come il suo vecchio compagno di scuola, “Ho pensato nooo, ma adesso non posso tirarmi indietro”. Da qui l’esperienza di Giacomo si scollega da quella dei coimputati, trasformandosi in un susseguirsi di eventi che lui si rappresenta in modo esclusivamente autoriferito. “Dopo ho detto cosa ho fatto?” “Ho buttato via tutto in un campo”, “Quando è arrivata la polizia a casa ho negato, poi mi hanno detto che se dicevo la verità non mi avrebbero fatto niente, ci ho creduto e mi hanno fregato e così sono finito al Beccaria e adesso eccomi qua”. “Mi sono stupito di me stesso”, anche di Alessandro e Michele riferisce di “qualcuno da cui non ci si sarebbe aspettato” una simile condotta; interessante appare nella rappresentazione di Matteo il ruolo dei compagni che sembra assolutamente poco rilevante rispetto alla dimensione fortemente autocentrata presentata dal ragazzo. Proseguiamo con il racconto di com’era la vita al momento del reato: descrive mesi alla ricerca di un lavoro, “senza un mezzo prendevo i pullman e mi facevo tutte le ditte della zona, mi dicevano ti faremo sapere e nessuno richiamava e io avevo bisogno dei soldi”, appare come un errare senza senso, per cui qualsiasi cosa o nessuna sarebbe davvero andata bene, senza alcuna rappresentazione precisa di quale sarebbe potuto essere il suo ruolo professionale. Dopo la terza media la carriera scolastica di Giacomo era proseguita con l’iscrizione ad un corso professionale di elettricista, “poi ho bigiato per 3 mesi, non so bene non avevo voglia”, a cui a fatto seguito un corso per meccanico abbandonato dopo poco “non ce la facevo, non avevo voglia, volevo avere i soldi”. Dal racconto Giacomo appare molto solo nell’affrontare il percorso e prendere decisioni. Ha poi svolto diversi lavori, operaio, idraulico, qualche ristrutturazione insieme al padre, nulla di stabile. “Una volta avevo anche trovato lavoro in un bar, mi avevano assicurato di richiamarmi e poi non lo hanno fatto; sono tornato e ho litigato con il proprietario ci siamo quasi messi le mani addosso”, commento che le promesse non mantenute fanno proprio arrabbiare, accordandoci sul prossimo appuntamento ci salutiamo; uscendo domanda “ma se vengo da te me le danno le prescrizioni?”, gli rimando che questo non dipende da me e che ne avrebbe potuto parlare con l’assistente. Le richieste sul cambio di misura e la rabbia connessa hanno caratterizzato le aperture e le chiusure di ogni successivo incontro; l’impossibilità di differire nel futuro il soddisfacimento dei desideri e delle aspettative ha rappresentato un forte ostacolo per Giacomo: in particolare nella fase iniziale l’auspicata possibilità di modifica della misura di permanenza a casa con prescrizioni appariva sostenere la motivazione al lavoro di

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osservazione, con il procedere del percorso ed il conseguente prolungamento della misura cautelare Giacomo si mostrava sempre più rigido sulle sue posizioni, sostenendo con ferma determinazione una serie di pregiudizi circa l’intervento dei servizi tale da rappresentare una massiccia barriera difensiva di fronte ad un suo autentico coinvolgimento “Non è cattiveria ma l’assistente sociale ce l’ha con me, anche a me lei non piace”, “So che tu non c’entri ma non puoi dirle qualcosa”, “Voi dite che volete aiutare la gente ma la fate diventare scema!”

Giacomo ha alternato nel corso degli incontri diffidenza ad aperta ostilità, unitamente ad una profonda fatica nella comprensione del senso del percorso di valutazione. Apparentemente, questi atteggiamenti potrebbero rimandare a superficialità ed oppositività; proseguendo però nel lavoro di osservazione si sono rivelati legati a motivazioni più complesse: non tanto ad un’assenza di sensibilità o reale incapacità di dare importanza alla situazione relazionale, quanto piuttosto a modalità difensive molto strutturate e ad una forte ambivalenza nei confronti dell’interlocutore adulto.

Giacomo sembrava tendere da una parte ad assumere una posizione rigida per cui non vi sarebbe nulla da capire e da spiegare, riducendo le azioni ai puri fatti, dall’altro si è posto in modo provocatorio dando quasi per scontata l’incapacità dell’interlocutore di identificarsi empaticamente con lui, comprendendolo autenticamente. “Voi non capite che non ho bisogno di niente, o meglio quello di cui ho bisogno a voi non interessa!” “Tutti mi dicono che devo capire quello che ho fatto ma un senso non c’è, è stata una cavolata e basta!, “Voi cercate il marcio nella gente, ma questo non ha senso la mia famiglia è normale!”

L’altro è vissuto come giudicante a tratti persecutorio, facendo emergere atteggiamenti di rinuncia e risentimento, insieme ad una ferma negazione di qualsiasi bisogno.

Il lavoro di ricostruzione dei fatti, la possibilità di farne emergere vissuti e operare connessioni tra i pensieri è stato caratterizzato da fatica e discontinuità, lasciando spesso l’impressione di dover continuamente ricostruire un aggancio nel tentativo di ritrovare un filo, non completamente perso, ma mantenuto ad una necessaria distanza.

Il reato è riconosciuto sia nella cronaca degli avvenimenti che nell’ammissione della responsabilità e nella dimensione dell’illegalità; tuttavia la motivazione è interamente oggettivizzata nell’obbiettivo esterno: il desiderio di impossessarsi del giaccone indossato dalla vittima. Di fronte ad una proposta di connessione tra la delusione e la rabbia di fronte alle promesse non mantenute, la sua fatica a contenere gli impulsi, risponde “Non ti offendere ma secondo me non hai capito, non c’è nessuna emozione volevo solo quella giacca!” L’impossessarsi di un giubbotto firmato sembra rappresentare per Giacomo un importante strumento a sostegno dell’immagine di sé, ferita dalla promessa non mantenuta da parte dei genitori di acquistargli quello da lui desiderato dopo che per due mesi era uscito solo con maglioni pesanti per una macchia di resina “che sembrava saliva, mi facevo schifo”. La cura di sé, in particolare attraverso abiti di marca e il desiderio di oggetti costosi appare indispensabile al rifornimento narcisistico dell’immagine di sé costruita su rappresentazioni grandiose spesso non sostenute dalla realtà (“sono intelligente, furbo, bravo negli sport, ci so fare con le ragazze”), ogni aspetto di fragilità appare poco tollerabile, la possibilità pertanto di accedere al significato simbolico dei suoi agiti al momento viene ostacolata.

Anche la scelta dell’oggetto d’amore appare caratterizzata in tal senso: una studentessa liceale, di buona famiglia, benestante ed esteticamente attraente; la loro relazione è caratterizzata da una profonda gelosia del ragazzo nei confronti di reali o presunti rivali; Giacomo racconta di essere stato più volte coinvolto in discussioni, in alcune occasioni esitate in aggressioni fisiche, per timore che qualcuno importunasse la sua ragazza. Seppur riconoscendo la fatica a controllare e gestire la propria impulsività Giacomo sembra far rientrare simili condotte in un sistema di valori personale per cui queste appaiono legittime. In questo senso Giacomo individua il reato come una “cavolata” isolata che poco avrebbe a che fare con tratti di impulsività “giusti se ci provano con la tua ragazza”.

Tratti di egocentrismo appaiono molto marcati, tanto da individuare l’altro più spesso come qualcuno con cui contrapporsi in uno scontro di punti di vista piuttosto che una possibilità di confronto (“io ci penso a quello che mi dicono, ma non mi convince, rimango della mia idea”).

A partire dalla sua ricostruzione del valore di quella giacca, qualcosa sembra muoversi nella mente di Giacomo e nella relazione; gli propongo di fare insieme dei test per allentare un po’ la pressione che avvertiva su l’entrare nella sua mente; la YSR era stata compilata insieme e le risposte erano state utilizzate come spunto per approfondire alcuni temi. Durante il colloquio successivo in realtà le tavole del TAT sono rimaste capovolte, entrando infatti appare meno arrabbiato del solito e racconta di aver fatto un sogno che vorrebbe raccontarmi: “Camminavo da solo in un posto buio, ad un certo punto si avvicinano due, erano grossissimi, due armadi! Mi puntano un coltello e mi dicono di dare tutto quello che ho o mi ammazzano”, “Ti giuro che mi sono svegliato tutto sudato, avevo un’angoscia!” Giacomo è riuscito progressivamente ad

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identificarsi con il ragazzo aggredito, riconoscendo i sentimenti di terrore (“paura, magari anche di morire”) che questi potrebbe aver provato ed avvicinandoli al timore che lui stesso viveva in quei momenti ed in quelli successivi alla rapina (“cos’ho fatto?!”). Nel descriversi durante quei momenti Giacomo parla di una parte di sé che l’ha sorpreso, sconvolto, facendo qualcosa che non si sarebbe mai immaginato di poter compiere. Concludiamo il percorso di osservazione con la somministrazione del Test di Rorchach: da cui emergono elementi in sintonia con il profilo della YSR i cui picchi si collocavano sia nell’area dell’impulsività, sia nell’area delle difficoltà di relazioni sociali; un’immagine profonda di sé estremamente fragile, pochi strumenti autoriflessivi e rappresentazioni relazionali protettive; in un mondo interno rappresentato come povero e solitario, oltre che poco accessibile, l’aggressività apparirebbe funzionale in senso difensivo. Emerge un potenziale cognitivo nella norma, con un pensiero fermo ma poco disponibile ad approfondire gli stimoli presentati: di fronte a rappresentazioni poco strutturate e potenzialmente disturbanti Giacomo tenderebbe a trovare risposte rapide, impulsive che preservino il più possibile la stabilità, spesso a scapito della prestazione che ne risulta qualitativamente peggiorata. Entrare in contatto con realtà complesse sembra evocare perdita di controllo e temuta invasione degli affetti, pertanto Giacomo sembrerebbe attivare modalità agite apparentemente più funzionali a preservare la sua fragile sfera narcisistica.

L’intervento dei servizi della giustizia è stato vissuto con estrema fatica da Giacomo, nel percorso è apparso inoltre molto solo: i genitori da me contattati più volte hanno rifiutato diverse proposte di appuntamento adducendo motivi di lavoro, Giacomo ha poi raccontato di come i genitori abbiano esplicitamente dichiarato la loro scarsa disponibilità a farsi coinvolgere, trattandosi di un reato da lui commesso “Ma hanno ragione il reato l’ho fatto io, oltre la delusione si devono fare anche gli sbattimenti”. Dalle descrizioni dell’assistente sociale sembra che tratti di impulsività, diffidenza verso il mondo esterno unite a rappresentazioni iperinvestite dell’immagine di sé caratterizzino l’intero sistema familiare di Giacomo; non rappresentando perciò una possibile risorsa su cui investire.

Viene concordata con l’assistente sociale di svolgere due restituzioni: una sola con Giacomo sul percorso psicologico ed i test, che lo avevano molto incuriosito, ed una comune sull’udienza e le possibili proposte al giudice. Alla luce della fatica espresse da Giacomo ad affrontare il percorso, la proposta era quella di un rinvio al fine di lasciare maggior spazio alla graduale costruzione di un progetto di messa alla prova. Fino a quel momento Giacomo infatti non mostrava di avere sufficiente spazio mentale per cogliere il senso di quello che per lui era la “messa in prova”.

Giacomo si è mostrato disponibile ad accogliere le proposte, ritrovandosi in quella che gli avevo proposto come metafora della sua immagine “un castello bellissimo, alle pareti quadri bellissimi, ma anche grandi toppe che nascondono infiltrazioni e crepe, un molto isolato e con mura altissime, che danno l’impressione di essere al sicuro dai nemici ma che non consentono nemmeno di vedere quanto di bello ci può essere fuori”.

La proposta di rinvio è stata accettata stiamo pertanto proseguendo da una parte la costruzione di un progetto educativo e di inserimento lavorativo con l’assistente sociale, con me i colloqui valutando la possibilità per Giacomo di accedere gradualmente ad un contatto più autentico tale da consentirgli un costruzione dell’immagine di sé maggiormente integrata.

Tornando al dubbio rispetto a quanto sostenuto da Lichtenberg circa la motivazione avversiva, la risposta potrebbe stare nel fatto che costruire un’esperienza sana della soggettività è opera difficle, perché l’accesso alla soggettività richiede da un lato una fedeltà effettiva alla propria individualità, e dall’altro la disponibilità a rinunciarvi almeno parzialmente: sembra in fondo per preservare la propria individualità che ragazzi come Giacomo spesso trasformino le relazioni in una lotta piuttosto che in una danza; lottare distingue dall’altro da sé, vissuto come avversario, e struttura i confini della propria individualità in modo apparentemente forte, netto, fanatico e quindi relazionalmente sterile. Chi danza invece mantiene i confini con il proprio partner, ma si tratta di confini più fluidi, più permeabili e quindi più facilmente percepibili come precari. Danzare è più gratificante, ma molto più minaccioso per il sentimento di sicurezza, di coesione e di controllo sulla situazione di chi, come molti dei ragazzi che trasgrediscono, possiedono un’identità fragile e sono quindi spinti alla lotta. Se come secondo Storolow la realtà soggettiva viene “…articolata attraverso un processo di risonanza empatica….”, il lavoro psicologico non serve solo a capire, a costruire campi condivisi, a favorire l’esperienza di nuovi “stili” relazionali sconosciuti al ragazzo: fa tutto questo, ma in più fa in modo che tutto questo sia articolato fra uno spazio totalmente privato ed uno condiviso, fra un soggetto che è generato ed allo stesso tempo crea.

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