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    Millantanni

    Il Maestrale

    Giulio Angioni

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    Romanzo

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    Dello stesso autore:Loro di Fraus, Il Maestrale 1997Il gioco del mondo, Il Maestrale 2000

    Grafica e impaginazione

    Nino MeleImago multimedia

    Foto di copertinaAlessandro Contu

    Imago multimedia

    Editing

    Giancarlo Porcu

    2002, Edizioni Il MaestraleVia XX Settembre 46 - 08100 NuoroTelefono e Fax 0784.31830e-mail: [email protected]: www.edizionimaestrale.it

    ISBN 88-86109-59-8

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    Giulio Angioni

    Millantanni

    Il Maestrale

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    Occorrono troppe vite per farne unaEugenio Montale,Lestate

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    (le molte et perdute a strati sotto i piedi)

    Don Agostino Deliperi a Fraus ha istigato a lungo certitombaroli, ma poi stato riciclato ispettore onorario delle an-

    tichit frauensi, come succede spesso a chi simpossessa illegal-mente del passato.

    I reperti archeologici preistorici che il cavalier don AgostinoDeliperi ha conservato, raccolti sotto i letti della casa avita,invece di portarlo in tribunale lhanno fatto ispettore onorario

    alle antichit. Saggia sanatoria: bastava fare mostra dei re-

    perti, come da tempo richiedeva questa scritta anonima che sulportale Deliperi corregge ancora adesso un regolamentare La-sciare libero il passaggio in un Lasciare libero il passato.

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    Le ombre di Gonnai

    Di come lho scoperto, che facevo ombra, mi ricor-do tutto.

    Babbo teneva la mia mano stretta stretta, l, dove ilmuro nuovo del nuraghe fa gomito col vento di mare.

    Babbo era gi tornato dalla prima guerra contro iRossi di Mare, quelli che ho imparato a chiamare an-che Peni, Puni, Gente Rossa o solo Quelli l, vomito

    di mare, male di buio fondo.Quando babbo partito per la guerra contro la gen-te Rossa io non mi ricordo, per non lo volevo salu-tare, mi hanno detto. Non ho accettato i baci, nongli volevo fare i saluti con le mani, me le prendevanoi grandi e le muovevano per me. Babbo ci rimastomale, mi hanno detto. E quando ritornato poi perqualche giorno, tutto vestito da soldato, gli occhi gliridevano, ricordo, ma io sono scappato a ripararmi die-tro mamma, me lo guardavo di nascosto: me lo sonostudiato da lontano e da vicino, quellintruso. Finchmi sono fatto sotto e lho picchiato con il pugno suuna gamba, per dispetto, perch faceva feste a tutti, e

    specialmente a mamma. Se poi me lo mostravano e

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    dicevano: Gonnai, saluta il babbo! io strillavo, ilviso nellascella di mia madre.

    E il giorno stesso quel babbo intruso si toglie di dos-so le armi e larmatura (e tu Gonnai stanne lontano,non toccarle, ti storpi) e tutto attento prende picco epala: che fa, rompe il cortile? S, ci fa un grande buco,tutto sporco e sudato, scalzo e con quelle grandi gam-be bianche con i peli neri.

    Un uomo non sinterra da se stesso, gli diceva

    un vicino, un antipatico. Un uomo forse no, ma le sue donne e i figli s, co-

    me i conigli nella tana, gli rispondeva babbo, e in-torno i vecchi erano daccordo con lui.

    Mamma mi spiegava: babbo sta facendo un rifugio,un riparo, un nascondiglio. Per giocare? No. Una vol-

    ta finito, ricoperto di tronchi e di fascine, poi ancoradi terra, ci si poteva scendere dentro in molti, su sedi-li e stuoie, a luce di lucerne dolio di lentisco.

    Babbo sgridava il mondo di l da Intramontis, quan-do arrivava un cavaliere rosso su a spiare, a debita di-stanza sopra Frs.

    Quello ci prende le misure, brontolava, vieneapposta.

    Dopo il cavaliere solitario, poi dal mare arrivavanoaltri cavalieri rossi, e a Frs la gente fuggi fuggi comele galline quando vola il falco in cielo e in terra correla sua ombra scura. Certi arditi fuggivano a nascon-

    dersi a Intramontis.

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    I Rossi di Mare venivano di giorno e anche di not-te, facevano un rumore, un galoppare, un brontoliodi tuono. Io mi facevo la pip nel sonno, ma sognavoche mamma mi faceva il bagno, dentro la conca gran-de, con lacqua allombelico, acqua lattiginosa, con cru-sca per gli sfoghi della pelle: e lei che mi parla pigo-lando mentre io la spruzzo e faccio battimani e grido-lini, solo che prima caldo, poi freddo e gi ti sve-gliano i rumori, in quella parte della notte che appar-

    tiene ai grandi.Poi il mio nome gridato o sussurrato: Gonnai, Gon-

    nai! Mio padre mi portava a cavalcioni sulle spalleaddormentato nel rifugio, avvolto negli scialli delledonne, gi nella grotta scura. Vedevo, sentivo tutto in-torno, dentro il grande sonno. Via tutti al riparo, tut-

    ti nel rifugio, con grida e piagnistei. Poi, su di fuori,un rimbombo di zoccoli, e passi di terribili giganti ol-tremarini che pestavano coi piedi proprio l, sopra dinoi. Tremavano i lumini sistemati in feritoie cieche delrifugio, con lolio e lo stoppino. Le donne macinavanopreghiere, prese da tremiti improvvisi, e gli uominicon occhi spiritati, consumati di sonno e di paura.

    Ecco perch mio padre stava attento al Monte e algrande buco di Intramontis. E il cavaliere solitario undopopranzo ricomparso in cima al Monte, lo spione.Anche mio padre lo spiava, tenendomi per mano. E al-limprovviso un qualche cosa di concreto ci passato

    sopra, un attimo oscurando il sole sul tramonto, come

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    un brivido, un tremore. Babbo ha sentito il mio spa-vento: Lombra, dice babbo, lombra del falcouccellatore.

    Lombra?

    O Gonnai, da bravo piccolino prendi bene que-stuovo e vammelo a scambiare con un pugno dombradi nuraghe, mi aveva detto nonno serio il giorno pri-ma, molto caldo. E io prendo e vado, attento cammi-

    nando, luovo stretto tenuto con due mani. Il topo, ilgiorno prima, aveva regalato a mia sorella quattro man-dorle, per il primo dente caduto. Sotto la torre grandedel nuraghe cera lombra, poca, in un angolino senzavento. Mi ci metto sotto. Cera un grande rumore dicicale, e le formiche ai piedi, indaffarate, fastidiose,

    volevano salirmi lungo il corpo. E quando il sole si bevuta lombra, tutta quanta: Cosa faccio, qui? To, cos impari a non fidarti, di nessuno, nemme-

    no di te stesso, mi ha detto dopo il nonno. E ri-dammi luovo, che anche se andato in acqua serve an-cora.

    Sempre qualcosa da imparare, quando non arrivavocon la testa alle ginocchia dei pi grandi, e neancheagli sgabelli: E impara a fare i passi al di l della tuaombra, dice ancora il nonno.

    Lombra? Lombra, come quella che vedi se ti volti, dice

    babbo, lombra di Gonnai.

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    E ho fatto la scoperta, su quel muro: una gran mac-chia sola ma divisa, madre e figlia unite.

    Che cos? Si muove: sar una cosa buona? Mi staccoda mio padre e lombra piccola si stacca dalla grande,ma resta appiccicata ai miei talloni. Studio la novit:muovo braccia e gambe, testa e corpo, di qua, di l,in su, in gi, avanzo ardito, arretro, mi spavento, cor-ro dietro le gambe di mio padre. E lombra fa lo stes-so, tutto uguale, solo che non fa suono. Mi volto, mi

    rivolto, sempre l. Sono e non sono io. Ma non famale. Anzi, una cosa amica, ci si pu giocare. Deves-sere una novit che porta il babbo, che cera ma noncera, prima, e invece babbo adesso c. Come quel ca-valiere solitario, rosso e nero, uno che viene e va. Unacosa e un sentire.

    O non sar il mio spirito guardiano, finalmente, sic-come forse sono stato buono, lo spirito che bada a ciche ti succede sulla destra, se c gi chi ti bada allasinistra?

    Io ci ho giocato a lungo. Anche con mio padre. Fin-ch non si stancava prima lui. Quel gioco dombre incasa lo chiamavano le ombre di Gonnai.

    Per unombra, salvandosi ogni sera dalle ombre del-la notte, crescendo o ritirandosi come due corna di lu-maca, o qui davanti o ai lati oppure incalzandomi didietro, rimasta per sempre attaccata ai miei talloni.

    Babbo ripartito per la secondo guerra al tempo

    delle more e delle rane. E io non ero pi per niente

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    sulle mie nel salutare. Per mi sono ancora ingelo-sito, dopo i saluti lunghi, quando un momento lui stato fermo nel cortile, con due occhi tristi, e ha scan-tonato nel recinto a dare lunghe pacche sul collo, sulmuso e sulla groppa del cavallo baio, per saluto.

    Una notte stato ucciso dalle nostre sentinelle, quivicino, un cavaliere rosso, proprio qui appena fuori delpaese tra i mandorli in fiore. Non ha fatto nemmeno

    un gran rumore, ha scosso un paio dalberi, il cavallo hanitrito, e ha nevicato petali allintorno, bianchi e rosa.

    Ohi, visto che muoiono anche loro?Cera chi diceva che la Gente Rossa era immortale. E

    Msala lo Scemo gli ha fatto tre giri tutto attorno, gliha sputato in faccia e poi gli ha detto: Tu sarai anche

    un Rosso di Mare, ma sei un Rosso di Mare morto, e gi tutti a ridere.Abbiamo fatto provvista di carne di cavallo. I ragaz-

    zi pi grandi hanno giocato con le armi. E nella sellahanno trovato questo pane, ma si capito dopo, chequello era pane, schiacciate tonde e fini, friabili, maiviste: non sar mica unarma magica, una loro fatturaper incenerirci?

    Angl, ha detto il vecchio Mogor, che aveva vi-sto mondo: un pane detto angl.

    Mogor aveva anche mangiato il pane di Carthago,non dorzo ma di grano. Mogor ne ha preso un tozzo,lha mangiato, ha fatto s col capo, lha mandato gi,

    ne ha dato agli altri: insomma, era buono.

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    Tutto il male finito, sembrava, fatto fuori per sem-pre, via da Frs, via da tutto il mondo.

    Ma una mattina un cavaliere rosso su un cavallo ne-ro, con lelmo lucido di ferro arrivato al galoppo sfer-ragliando, tra barbagli di sole, sbucato in cima alla sa-lita, mi passato davanti: babbo, babbo che torna glo-rioso! Gli ho fatto il saluto militare, con la spada dilegno appesa al fianco. Ma lha inghiottito la discesa.

    Alla fine vedevo solo lombra e gi mia madre mi por-tava via gridando di paura. Non era babbo.

    Quella notte ho scoperto che alla luce dei fuochidai miei piedi si formavano anche due, tre ombre, lanotte che hanno preso e messo Frs a ferro e a fuoco, icavalieri rossi coi cavalli neri.

    Poi, dopo quella notte, soldati rossi venivano anchein casa, belli e grandi, davano dolci al miele, gli elmida mettere su in testa. Nonno Itzoccr gli offriva vi-no. Seduti al tavolo in cucina, da un gran corno di to-ro i cavalieri rossi tracannavano vino bianco e nero,schioccavano la lingua, lodavano il vino e il nonno It-zoccr era contento. Io mi facevo prestare la spada, ilmantello E mamma mi sgridava: Gonnai che co-sa fai Gonnai smettila Gonnai vieni qua, e avolte mi picchiava allimprovviso spaventata, dura,come le succedeva quando lei se ne andava con unodella gente rossa nel suo angolo del sonno, ci restava-no un po, e poi ancora un altro.

    Sono giorni freddi, diceva nonno serio, che partiva

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    al lavoro col buio e tornava col buio, il cielo confusocol suolo.

    Poi quando babbo ritornato dalla guerra, io lhovisto per primo, fatto met di prima. Gli sono corsoincontro. Zoppicava, era cos magro e bianco che misono chiesto come faceva a fare ombra. Me lo sonopreso per mano, per aiutarlo a camminare, e l ho det-to quella cosa che gli ha fatto discendere unombrasulla faccia, e tutti poi dicevano che non dovevo dir-

    glielo: Babbo guerra, nonno vino, mamma stuoia.

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    Tant nascosta e sanguinante nel granaio

    A quei tempi ero a Nora e andavo a scuola. Volevodiventare scriba. E invece sono diventato frombolie-

    re, Tzppiri il Fromboliere.Un giorno a mezza estate entrando a scuola ho sa-

    lutato come al solito, ma la ferula in faccia del mae-stro Phlebas mi ha lasciato un bel segno per un anno: Cos impari, Tzppiri! mi dice. Guai a te, Tzp-piri, se mi saluti ancora qui a quel modo, col segno di

    Tant e quelscelm! Qui non sei mica al tuo villaggio,a Frs, a zappare la terra, tu sei qui per studiare, per ca-pire, asino! E dora in poi tu non sei nato a Frs, sei na-to a Fraus: a Fraus, capito, Fraus!

    E Phlebas mio maestro ha sollevato il braccio nelsaluto nuovo, romano, a mano aperta: Ave, vale!

    Basta, silenzio, tutti quanti a posto.Poi mi ha spiegato, Phlebas, parlando a me per di-

    cendo a tutti quanti, che adesso i Puni Gente Rossanon ci taglieranno pi la testa, a Fraus e dappertutto,se dove ariamo il grano ci piantiamo un albero: Ro-ma generosa, di frutti, legna e ombra.

    Da quel giorno a scuola non c stata pi la statua

    di Tant: la nostra Tant strabica, bella di lato ma di

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    fronte con unaria maliziosa. E per quante volte lave-vamo propiziata, prima, e ringraziata, con doni duvae spighe e melegrane, e il mio maestro Phlebas ricor-dava i bei tempi di Hannibl che ci aveva liberato dauna lupa grande inferocita, Roma, e ci faceva sermoniindignati, oppure entusiasti, sbandierando Ticino, Treb-bia, Trasimeno, Canne, grazie a Tant e a Baal.

    Nella nostra scuola a Nora da quel giorno, al postodi Tant Vergine Madre a piedi scalzi in bilico sui cor-

    ni della mezzaluna, c stata questa lupa a denti infuori con i due gemelli attaccati alle sue molte e lun-ghe tette secche penzoloni.

    E paff! io mi sono buscato unaltra ferulata dal mae-stro Phlebas, perch ho detto che quella era una volpe: Cos impari, Tzppiri! Quella la Lupa Capitolina,

    quella Roma. E in quanto lupa, Roma o nutre o sbra-na. Eh ne dovrai succhiare dora in poi di latte dellalupa: o latte o sangue, o tette o zanne.

    Lidea mi stomacava, dover sperare in quelle tettestriminzite della lupa, in quelle prugne secche. Main una lupa le tette sono sempre meglio delle zanne.

    E la lupa ha sbranato subito Tant, con mezzaluna,melegrane, uva e spighe a mazzo ornamentale. Guai anominarla, guai a tenere in casa la statua di Tant. Mamolte donne le hanno conservate, nascoste in luoghistrani, le loro vecchie statue di Tant Vergine Madre.

    Mia zia, che mi teneva in casa per gli studi a Nora,la sua Tant lha rintanata nel granaio, sepolta in mez-

    zo al grano, con uva passa e quattro melegrane. Io lho

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    vista nasconderla nel grano, tutta mistero e riverenza.Non lho detto a nessuno, tanto meno a Phlebas, diquella nostra povera Tant di legno dolivastro.

    Phlebas era alla testa degli uomini del rione sarda-nico di Nora quando siamo andati a prendere a sassatea mani nude o con le frombole il gran segno di Tant,quello inciso profondo nella pietra, sul colmo dellar-cata principale del ponte del canale di laguna. Tutti

    in un corteo, cantando in coro A ni Nora a ni Nora!Era una festa - e dietro ai grandi noi altri ragazzini asalti e corse - non fosse stato per le donne che in unangolo ululavano nel nome di Tant, e a tiri corti get-tavano giacinti verso il segno, di nascosto, come chigetta il sasso e nasconde la mano.

    Ma arrivati l, il segno ci ha impressionato. Nessunola voleva lapidare, Tant Vergine Madre, che in certestatue aveva bella nuda una sua tetta tonda come me-lagrana.

    Uno mica si svezza facilmente, dice Burra, loscemo del rione che alle volte diceva cose sagge.

    Phlebas incitava gli altri: un sasso su Tant lui nonpoteva lanciarlo, col suo braccio fiacco. Ma lha tiratolui il primo sasso, gridando: A mare la vecchia! eha fallito il bersaglio malamente. Cos tutti hanno vo-luto fare meglio di lui, mentre i giacinti delle donneannegavano gi prima di finire in mare vivo, colpitidalle pietre dei maschi in ricaduta nel canale di la-

    guna.

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    Poi molto pi dei grandi, per togliere Tant da quel-larcata, abbiamo fatto noi ragazzi del rione in garadi sassate, senza frombole, a mano libera. E ci ho la-sciato il segno anchio, su quellarcata, io Tzppiri as-pirante scriba poi invece diventato fromboliere: pergiorni e giorni ho preso Tant a bersaglio, come si facon le lucertole, con quelle code che staccate giocanoda sole, sullarcata del ponte di laguna, tanto pi a lun-go quanto caldo il sole il pomeriggio. Ma di notte in

    sogno la pregavo di salvarmi dai denti della lupa.Infine dove prima cera lei, Tant, Bobore lapicida ci

    ha scolpito in rilievo la lupa coi gemelli attaccati dasotto alle tette, e anche il fascio littorio e un grandeS.P.Q.R.

    Roma ci domava. E il primo che ha gettato una sas-

    sata, alla lupa e al fascio, Norace mio cugino, lhannopreso, processato e condannato al taglio della manodestra, con la diminuzione della pena perch Roma buona. La lupa gli ha azzannato solo il dito grandedella mano destra. E Norace rimasto senza pollice.

    Visto? O con la tetta o con la zanna, Roma doma! Pa-rola di Phlebas, maestro sardopunico, con lindice alza-to, ormai grande maestro di romanit.

    Gi, proprio mio cugino, povero Norace senza pol-lice, lui che imparava il mestiere dellintreccio di ca-nestri, di canna e di olivastro, per pesci e per grana-glie. Sua madre ha pianto molto, maledicendo la luparomana. E ha chiesto la vendetta di Tant, nel chiuso

    della casa, giorno e notte. Avevo voglia di vendetta

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    anchio. La mia vendetta sulla lupa stata lunga, ri-petuta e mai scoperta, finch non ho centrato tutte letette della lupa, con certe mie sassate clandestine con-tro il ponte di laguna.

    Per Norace mio cugino ha continuato a impararelarte dellintreccio, senza pollice destro, e a farmi damaestro nelluso delle mani alla ricerca del piaceredalla mandorla che si solleva tra le gambe.

    Norace mio cugino, per ricordare a Tant di vendi-

    carlo, di nascosto una notte ha rotto il pollice dellamano destra della statua di Tant. Il giorno dopo miazia lha trovata che sanguinava da quel pollice stac-cato, e anche dagli occhi sanguinava lacrime di san-gue, e subito mia zia ha sparso tra le donne il gran se-greto del portento: Tant ha pianto, Tant Vergine

    Madre sta piangendo lacrime di sangue nel granaio incasa nostra.Ma quale sangue e sangue, sono resti di ruggine del

    grano, ripeteva mio zio, anche per non insospettire chioramai faceva la spia per i romani. Per le donne civenivano di notte, nel solaio, con molti doni e suppli-che alla Grande Madre Vergine Tant. Io mi annegavoi sensi negli aromi di Tant.

    Quanta ne ho mangiata in combutta con Norace diuva fresca e passa e melegrane piene di rubini, segre-tissime offerte alla nostra Tant nascosta e sanguinantenel solaio.

    Poi me ne uscivo nelle notti senza luna e non sba-

    gliavo un colpo alla pancia della lupa, con le pietre. Ho

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    vida con le mammelle pendule che si mangiatotutto, avida e rabbiosa. Io volevo scappare. Norace miha tenuto: Fermo che arriva il bello. E quando ilcanaro se n tornato fuori dalla latrina, la lupa gra-vida girava intorno tramortita: Creder che si sgravaadesso, quello, dice Norace. E ci siamo goduti dinascosto la passione e morte della lupa gravida e deisuoi chiss quanti lupacchiotti nel buio umido dellapancia avvelenata.

    Io per poi con la lupa ho passato il mare: mi sonoarruolato fromboliere, coi romani.

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    Con Caius Julius Caesar

    Tutti a Fraus lo rispettano. Per c stato un tempoche da casa di zio Josto dovevano chiamare a volte an-

    che mio babbo per tenerlo a bada. Allora si chiamavazio Adsum, ma di soprannome, dopo tornato a casadalle guerre, con maniere da matto, per tutti gli annicombattutti in Oltremare, in Gallia e poi in Britan-nia, con Caius Julius Caesar

    Si credeva un capo, con gusto di oppressione. Dava gli

    ordini a tutti, li voleva inquadrati, ubbidienti. Ordinicome frecce. Tutti dovevamo fare solo come lui voleva: Le cose qui, diceva, voi non le avete mai sapute

    fare, n in casa n in campagna. I romani s. E qui noibisogna fare come loro

    Civis romanus sum, gridava, le cose a posto vele metto io, toglietevi di mezzo tutti quanti siete!

    I suoi fratelli maschi li legava al giogo, per ore, comei buoi, se non facevano a puntino come comandava, epoi urlava sempre che bisogna correre e scattare e lodiceva con parole che facevano paura:adesse, gradum su-

    stinere, eia, adsum e Adsum gli rimasto come so-prannome, che vuol dire presente! quando in legione

    fanno appello e contrappello.

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    Con le sorelle, le mie zie paterne, era un demonio:guai se uscivano senza il suo permesso, se non torna-vano allora stabilita, e con chi non voleva non doveva-no parlare: altrimenti, il frustino del cavallo, contandoi colpi: unum, duo, tres e ad ogni colpo loro che do-vevano ripetergli confiteor!

    Un giorno per castigo ha trattenuto suo fratello, lal-tro mio zio, Sirva, con la testa nellacqua dellabbevera-toio per i buoi. Lo zio Sirva aveva detto quella cosa con-

    tro Caius Julius Caesar: che se la notte in cui statoinaugurato, sua madre se la fosse presa nel didietro, nonsolo lei ma tutto il mondo avrebbe guadagnato. Quelgiorno, con la testa nellabbeveratoio, lo zio Sirva era sulpunto di morire, blu scuro e gli occhi bianchi, quandomio babbo corso a liberarlo suo fratello minore zio Sir-

    va forte come un toro, ma lo zio Adsum lo vinceva sem-pre con sue tecniche di strumpa alla romana.Quel giorno il medico ha visitato anche zio Adsum,

    dopo il fratello quasi morto dacqua. E gli ha trovatoschegge nella testa, proprio qui nella tempia. Gliele hatolte coi ferri ed subito guarito, anche se n rimastosordo da un orecchio.

    In tutto il parentado, in tutto il vicinato, in tutta Frausla notizia si sparsa svelta e generosa, come il profumodi pane sfornato. E cos zio Josto ha finito di essere zioAdsum per essere di nuovo zio Josto. Tutte le guerreormai dimenticate, gli uomini ostili e i paesi nemici, ritornato come prima, come doveva essere, un frauense

    normale.

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    Gli restata solo la voglia di ripetere la storia delleortiche di Londinium, ch un luogo su in Britannia,unisola pi grande dov stato sei mesi prigioniero,sempre senza mangiare. Cos aveva imparato a man-giare le ortiche, su cui faceva i suoi bisogni per letame,sulle ortiche famose di Londinium che gli hanno sal-vato la vita, mangiando fusti e foglie come i cardi quidellorto. Strano che non facevano poi tanto male, gigi fino allo stomaco, per essere ortiche, e pure fore-

    stiere, di unisola lontana in altri mari scuri.Quasi ogni volta dopo che ha mangiato, ripulendo il

    coltello, lo zio Josto ancora adesso ripete questa storiadelle ortiche di Londinium che per mesi gli riempiva-no la pancia. E oltre allorecchio sordo, quello destro,e alla mania di raccontare delle ortiche, allo zio Josto

    restato un altro segno delle guerre. Lui lo crede unsegreto, per lo sanno tutti. Gli succede a volte, cossenza ragione, che gli scappa il pianto, ma tranquillo,a secco, senza lacrime, si apparta solo solo, non si sacosa pensa e se pensa a qualcosa, come mia sorellinaTzikkira quando si offende, che se ne va in disparte ed le spalle al mare, per un po.

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    (le molte et perdute a strati sotto i piedi)

    Don Agostino Deliperi setacciava le rovine dove gli altripascolavano animali, quando da sotto terra hanno iniziato

    a uscire fuori anticaglie di ogni tempo, dovunque si facesseun qualche scasso. E maneggiando le cianfrusaglie della suacuriosit, don Agostino ha cominciato a intendere le molteet perdute a strati sotto i piedi: dai sardi prenuragici e nu-ragici ai fenici, dai punici ai romani e cos via. E ha ma-turato una lussuria del reperto raro, del possesso geloso ed

    esclusivo, don Agostino gi malato di etimologia. Come uncane con losso, tutto preso da smanie per lo scavo. Non perlucro, sia chiaro, ma per salvare il salvabile dagli insultidel tempo, dice, che non aggiusta niente ma rovina tutto.Da ultimo, conscio della vanagloria dellautodidatta, don

    Agostino ha fatto un lungo corso da studente, e a pi di ses-santanni si laureato in archeologia: Non una laurea perla vita, scherza, ma una vita per la laurea.

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    Con la bisaccia piena di saggezza

    Un giorno destate ho convinto mia madre a lasciareandare me laggi in campagna a portargli cibarie e

    panni ripuliti, a mio padre, che aveva piantato vignain una vidatzone solitaria non lontana da Intramon-tis. Ne parlava come di una donna, bella da coltivare,da mantenere in ghingheri e lisciare a coccole e ca-rezze, lasciando bazzicare tra i filari solo rondini e far-falle. E guai a chi ci entrava. La custodiva lui, da solo,

    giorno e notte, beato come re Salomone con la sua, divigna.Dapprima lho intravisto sotto un fico, tra cespugli

    di timo, con il suo stocco al fianco, seduto sui talloni,con unaria guardinga, predatoria: Petru, sei tu! mi ha accolto sollevato, quando mi ha visto al giasso.

    Sotto una sugherella sanguinante la capanna di fra-sche profumava di fichi e di avventura. L mio padresfidava il solleone, lanno del primo frutto della vigna,pupilla dei suoi occhi, l solo con tre cani che quelgiorno mi volevano addentare, dimentichi di me, delcortile di casa, ma lui li ha calmati lunghi stesi, la te-sta sulle zampe e gli occhi bassi.

    Il suo cavallo pasceva vicino. Nel frinire assordante

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    di cicale, mentre guardavo un volo di farfalle fatto dicento riverenze, mio padre mi ha parlato delle vigne,dei filari diritti, come soldati in riga, ogni fondo lega-to ed elegante, come una fanciulla: In altri posti, dice, fanno arrampicare le viti sulle piante me-no bello.

    E mi ha spiegato che adesso quando molti si stannofacendo cristiani dappertutto, anche molto lontanoin Oltremare, c sempre pi bisogno di buon vino,

    vero. S, di vino, per farne sangue del Signor CristoGes. E infatti, giusto anche suo cugino Eusebio, ilmio zio Eusebio che sempre mi stato portato a esem-pio, andato a predicare il Vangelo del Signor Cristoai pagani che vivono Oltremare, di l da un fiumedetto fiume Pado o Po, dove non c ancora n Cristo

    n vigna. Era un affare, no? Con la fede nel nostro Si-gnor Cristo viaggia pure il vino, vino duva, merum,buono come il nostro, ch il migliore, e gli altri alparagone sembrano merdocco.

    Nel cielo chiaro di settembre uscivano dal nulla e ri-tornavano nel nulla nugoli di storni, tagliando lariaazzurra verso lIntramontis. La vigna intorno immobi-le nel sole mandava gi un odore di mosto che fermen-ta. Pi lontano allintorno, i campi gialli delle stoppie,non pi come a giugno quando il vento culla le spigheo le fa correre allegre verso i mandorli e gli ulivi.

    Ho visto poi come la sera attrae gli uccelli allalbero.Per cena mio padre ha acceso un fuoco di stoppie e le-

    gna morta, ha tolto fuori due pernici dal carniere, una

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    per ciascuno, le ha messe ad arrostire infisse in stecchifreschi, piantati in terra sghemba a una distanza benstudiata, e ha riaffilato il suo stocco gi tagliente, cheusava pure come attizzatoio, accoccolato sui talloni. Ilfuoco proiettava intorno le nostre ombre lunghe. Lequerce storte sulle rupi intorno sembravano arrestatedalla notte in una loro corsa verso i monti.

    Poi abbiamo cenato, lavorando di leppa e di denti,mio padre anche di stocco. Trincando vino da una zuc-

    ca, mi andato di traverso, ma ridendo. E c stato untuono, e poi altri due che sono sbucati dalle gole diIntramontis: un rapido acquazzone ha rinfrescato ilmondo. Sotto la pioggia ho fatto una mia danza, men-tre le gocce sfrigolavano sul fuoco, sulle braci sembra-va che danzasse un invisibile animale, calpestandole

    fitto, schiacciandole, fino a ridurle a spire di fumoprofumato: Vedi? Lho pregata apposta a un santo,questa pioggia, che non ci scappi il fuoco, e mostra-va il palmo della mano in giuramento.

    Quando sorta la luna e siamo entrati nellenormevuoto della notte, scesa gi dai monti, quando il mon-do ha tenuto solo i suoni del riposo e nel silenzio in-torno poi da nidi e tane e nascondigli si sentivanovoci di animali, e il frullo degli uccelli dalle pennemolli, di silenzio in silenzio, certo allora qualcosa capitato, come un arrivo allimprovviso, passando sul-le cose, forse quando le piante hanno sgrondato per ilvento, arpeggiando un sospetto. Il demonio qui in-

    torno, per tentarci, venuto da Intramontis. stato

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    forze del mattino, con fede e con speranza. Ho vistoluva e i fichi neri che abbandonano la notte dentro unbagno di perle di rugiada, prima che lape voli a intin-gervi il suo ventre mobile e peloso.

    Torner a casa come il Signor Cristo tornato daldeserto, ho pensato, senza paura della notte e dellegole di Intramontis, con la bisaccia piena di saggez-za, da portare Oltremare.

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    Il mondo sta per sfarsi

    Sempre avvolto in una nebbia di scintille, comeChrists Pantocratore in chiesa tra le stelle doro.

    Dicevano: Lhanno mandato qua da noi per puni-zione. S, ma per fortuna nostra: specialmente mia.Esiliato da un arconte bisantino suo nemico.

    Si sentiva dovunque nel paese, quando Miali FrauAregu suonava sullincudine, col suo ritmo terno, comeuna danza lenta e vigorosa: un colpo forte sopra il fer-

    ro da forgiare, due colpi di riposo sullincudine, comerintocchi di campane a festa grande. Non cera maistato nessuno cos bravo qui da noi, neanche dopo dilui. Per questo lo chiamavano Maestro.

    Zio Miali Frau Aregu - Michele Fabbro Greco - pri-ma era capo maniscalco della cavalleria imperiale dA-frica. Nientemeno. Tutta la cavalleria imperiale cam-minava sui suoi ferri. Certuni dicevano che i ferri pergli animali a cominciare dai cavalli li aveva inventatiproprio lui. A me non lha mai detto, ma a Fraus poiho sentito dire che la punizione era stata per unac-cusa di simpatia per le dottrine eretiche di Moham-met arabo.

    Era venuto solo, senza terra, senza figli, senza moglie,

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    anche se molte donne a Fraus ci hanno appuntato lesperanze, dicono. E non era nemmeno cavallario, peressere uno dei signori aregus bisantinus, e senza unaparola in lingua nostra. Era venuto dal mare, mastrofabbro qui da noi. Adriatico, diceva che di nascita luiera adriatico, ma che poi si fatto anche altre patrie,ultima questa nostra. Si era sistemato proprio al cen-tro del paese, allombra della chiesa, con unofficinamai veduta prima a Fraus.

    Te, io ti mando da Miali, minacciava babbo chedoveva farmi fare troppo spesso sandali nuovi, che tiferri per bene come lasino che sei.

    Io gli credevo, che mi avrebbe fatto ferrare da Mialicome un asino. Per un certo periodo gli sono stato alla

    larga: infatti stato mentre lo guardavo da lontanomartellare sullincudine che ho scoperto la lentezza delsuono rispetto alla vista. Strana cosa, prova e riprova epoi ci devi credere. Ma non ce la facevo a stare alla lar-ga molto a lungo da quel luogo a grotta dove zio Mialiforgiava il ferro e per mezzo bisante ferrava gli asini,per un bisante i cavalli e per due bisanti un giogo dibuoi.

    Poi sono cresciuto, zio Miali gi vestiva forese comenoi, ma sempre senza moglie n fancella. A volte milasciava ventilare nella forgia, con un gran mantice dipelle di cavallo che faceva un vento cento volte piforte della ventola di stoppie di mia madre, per rav-

    vivare il fuoco.

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    cos che ho incominciato a imparare larte del fab-bro, tutta larte del ferro e del fuoco, allievo di MialiFrau Aregu, che diceva che lui non aveva molte coseda insegnarmi, ma minsegnava senza dire. Io rubavocogli occhi, mai n calci n schiaffi, nemmeno maisgridato. Se sbagliavo rideva divertito, invocando i suoisanti Parasceve e Teraponto.

    Un giorno mi ha chiesto se per caso qui da noi aFraus si fa un certo gioco, il primo maggio, per dire

    le sorti: S che si fa, perch? Perch lho visto fare dappertutto, dove sono stato. Tutto il mondo paese, dico io. S, tutto e dappertutto, ma con diversit. Paese che vai usanza che trovi, dico io.

    Cos va il mondo, dice lui. S, proprio cos vail mondo, sempre tutto uguale e sempre tutto di-verso. E il guaio sai qual ? quando chi comanda siostina a fare come se fosse vera una sola cosa delle due.

    Ma una domenica dinverno il nostro presbitero Ba-sili in omelia da messa grande ha incominciato a par-lare della fine del mondo, dellapocalisse, e a maledirelAnticristo che stava avanzando in Terrasanta, diceva,dove il Figlio di Dio ai suoi tempi se ne andava a pie-de in terra, e dove adesso lAnticristo avanzava distrug-gendo chiese e passando a fil di spada i seguaci del Si-gnor Cristo Salvatore. Non passava mese senza nuove

    gravi del venire avanti di quel male, con una mezza-

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    luna per bandiera: fino allAfrica qui vicino a noi,nella patria di Agostino grande santo nostro.

    E zio Miali era come se vedesse andare alla derivatutta la terra dAfrica, dove aveva vissuto e coman-dato, via sempre pi lontana, e allargarsi il mare e se-parare. Si spaccava il mondo. Tristi tempi.

    Vero sar che il mondo sta per sfarsi? ho chiestoun giorno a zio Miali, mio maestro in tutto, ormai.

    Levangelo di Cristo ce lo dice: la prima volta in

    acqua, la seconda in fuoco, cos sia,gnoito, gnoito, dice zio Miali. E si fa il sacrosanto segno della croce,dicendo bene tutto intero hen onmati tou Patrs kai touHuiu kai tou Pnumatos Hagou amn, meglio che inchiesa il presbitero Basili, che il greco lo slabbrava inciottoli scheggiati. Quel giorno zio Miali riuscito a

    fare un muttettu in lingua nostra, quasi. Ci tentava daanni:

    In su portu e ipsu mareTaspetto e no ti vido.Ma pro tornar impareHabeo fattu ipsu nido.

    Bello! gli ho detto, anche se aveva fatto un belmiscuglio di linguaggi. E lui contento.

    Poi gli ho chiesto: vero, zio Miali, che siete vis-suto a Bisanzio, nel palazzo del Magno Imperatore Ba-sileo, e poi anche nella grandissima citt di Alessan-

    dria dEgitto?

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    Lui non mi ha risposto, quella volta, per rimastoastratto a ricordare, con un vomere in mano, e non si accorto nemmeno di una lacrima che gli solcava il visoscuro di fuliggine, finch non lha asciugata con la ma-nica.

    E che cos limpero, ditemi un po voi, gli hochiesto unaltra volta, la basileia nostra, limpero bi-santino che diciamo sempre?

    un luogo dove noi non siamo: dove non siamo

    pi, ha detto zio Miali, e ha avuto una vertigine, si appoggiato al banco e mi ha guardato, ma non mi ve-deva. E anche a me la terra mi mancata sotto i piedi.

    Il giorno dopo a merenda gli ho chiesto: Zio Mia-li, ditemi, com possibile essere in un luogo che nonc pi?

    Dici bene, impossibile.Ci ho pensato su: Non vi piace pi stare qui danoi, o non vi mai piaciuto?

    No, non cos. il mondo, cos come si fatto.

    Una sera alla fine del lavoro zio Miali mi ha dettoche era ora: ora di mettermi da solo, che avevo fatto iltempo giusto, e lui ormai era policrono, s, era attem-pato, non aveva pi voglia di insegnare. E neanchedimparare: Chi pu insegnare a un vecchio? ripe-teva.

    E quella sera dopo il solito saluto, Christs nik, Chris-tus vincit, non mi ha lasciato andare, ma mi ha fermato

    sulla porta, mi ha messo la sua mano sulla spalla, ha

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    Monna Bona da Pisa

    Credevo che uscissero qui dalle gole di Intramontis.

    Invece ci venivano dallAfrica, peggio dei mori a mare.Il Mercoled delle Ceneri sono arrivate le avanguar-

    die. Poi le schiere, fitte, con un suono di mille lau-neddas senza garbo.

    Chi non lha vista non lo crede che cos una tem-pesta di locuste, come quella che la siccit di tarda

    primavera ci ha portato lanno mille e tre, dopo chis-s quanto tempo. A memoria duomo nessuno ricor-dava un simile flagello, se non da certe prediche dichiesa in penitenze di quaresimale. Ma non c da au-gurargli di vederlo il nostro cielo che si oscura comequalche temporale, e di sentire laria che risuona mi-nacciosa, come un rombare di miliardi di mosche im-prigionate in una grotta. E se ascolti in silenzio e loscomponi, non un suono di vivi, rumori secchi senti,di ossicini sbattuti di bambini morti tempo fa.

    Nel loro volo verso settentrione cadevano a milionigi per terra, su ogni cosa, frenetiche, ricoprivanotutto con i corpi, mangiavano i raccolti da una notte

    allaltra, come destate il fuoco. A trattenerle e scom-

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    pigliarle non valevano n galere di Pisa n di Genua.Gli uomini furiosi, le donne spaventate. Ognuno

    sinventava e consigliava i modi per ucciderle, disper-derle, salvare qualche cosa. Si raccoglievano con sco-pe e rami dalbero, dentro lenzuola stese al vento, ilparroco faceva ogni giorno rogazioni:a peste famine etbello, libera nos Domine!

    Certe vecchie facevano scongiuri, Obertino Pisanobestemmiava da fare evaporare lacqua santa di tutta

    la Trexenta, Gippi e Parteolla, e financo oltremareforse anche lacqua benedetta di Santa Maria di Pisa.Il bargello spargeva molta crusca avvelenata, accen-devano incendi controllati, e le bocche dei pozzi si-gillate. Mia nonna calpestava il suolo per farle volarvia: Andatevene a Mara, maledette! diceva, per-

    ch, male per male, il male fatto a Mara sempre me-glio del male fatto a Fraus.Ma le locuste prosperavano, senza rimedio, anche se

    ormai non ci cadevano pi tanto gi dal cielo ma fi-gliavano frenetiche qui in terra, dalle uova.

    E in mezzo a questo mondo brulicante, un giorno ci venuta a Fraus dal mare Monna Bona, Monna Bonada Pisa, la figlia di Obertino, Compositor pisano e miopadrone, essendogli io servo di campagna, a rapporto atuttanno con scarada.

    Era donna di grande venust, Madonna Bona, mache parlava solo tosco e di locuste non ne aveva ancoravisto neanche una, dalle parti di Pisa in luoghi colti.

    Cos Monna Bona un giorno mi ha voluto sua scorta

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    a passeggiare per i campi, a vedere e mostrare la tre-menda maraviglia.

    Al Piano dei Lini, mi dice Obertino, portalalaggi ch c la vista larga e i campi in fiore.

    Altro che campi in fiore. Camminavamo al sole sumari crepitanti di locuste. Io le calpestavo, le schiac-ciavo con gusto, io, mentre lei sulle prime cercava dievitarle: Cos per non si fa un passo, dico io.

    Ohi malmisia, dice lei con un ribrezzo molto

    grazioso.E via di questo passo, fermate e gridolini, finch an-

    che lei si rassegnata a calpestare le locuste, e poi ciha preso quasi gusto, a poco a poco, a ripulire il mon-do da quellindecenza, calpestandola a morte con i suoipiedini.

    Per istruire Monna Bona io quel giorno ho eseguitonotomie famose di quelle bestiacce piovuteci dal cie-lo in quantit mai viste. Dapprima mi sgridava, ohimalmisia non voleva, ma poi guardava attenta que-gli squartamenti, specie di quelle pregne gonfie duo-va.

    E io le dicevo, come il prete in chiesa, che un tempoSantAntonio nel deserto le mangiava ed erano anchebuone, dicono, eh s, fame ci vuole. E lei si mette adirmi che la Bibbia dice che le locuste erano una dellefamose sette piaghe dEgitto, pene per il peccato delfaraone: Chiss che peccato avete fatto voi quaggi,per meritarle cos numerose.

    Sar lo stesso che ci ha fatto meritare voi pisani,

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    dico io per me stesso, che lei non sentisse, tanto nonserviva.

    Ma solo verso il termine del viaggio distruzione,Monna Bona se nesce tutta strilli: O Sisinnio, Si-sinnio, eccola, vieni, ch qui ne ho visto una.

    Che cosa aveva visto Monna Bona? Ecco: una cavalletta!Una cavalletta aveva visto Monna Bona, nel mare di

    locuste. Ecco, proprio una cavalletta aveva visto, cio

    due, una a cavallo dellaltra, dunque una cavalletta, fi-nalmente!

    E io sotto a spiegarle che quelle s, sono cavallettecome tutto quanto il resto del flagello, e pure occupatea farne nuove, fuoco che le bruci: locuste che si accop-piano, capito?

    Monna Bona si un poco ricoperta di rossore, chesi fatto pi vivo quando le ho mostrato quante equante se ne stavano occupate a fare quella stessa co-sa.

    E ci stanno a lungo, chiede seria, luno sopralaltra?

    Anche tutto un giorno, dico io, che mica lo sa-pevo, ma mi sembrato bene dirle questo, per met-tere in cattiva luce le locuste, specie se cavallette.

    E secondo te, Sisinnio queste qui cos ci pro-vano piacere, quanto noi cristiani?

    Anche di pi. Guardi locchio sgranato. Ohi malmisia, poverine!

    Buon pro gli farebbe, se poi la femmina non sco-

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    dellasse figli e figli a centinaia. Quelle sono le primeda schiacciare, maledette!

    O no Sisinnio, lasciale, ti prego.Io lho guardata, Monna Bona, dentro gli occhi lu-

    cidi, le gote tutte un fuoco, s, io lho guardata a lun-go ammaliato. Ma stata lei che ha teso per prima almio viso la sua bella manina inanellata.

    E poi: Oh no, Sisinnio lasciami, ti prego.

    Io non la lasciavo, no, me la tenevo stretta MonnaBona.

    E poi le cavallette malmisia, Sisinnio, ma sonoveramente dappertutto ci tolgono ogni postonon ne troveremo.

    Gi labbiamo trovato.

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    Tempi confusi

    Matto? No, non sono matto. Smemorato s. Confu-so di memoria. Ma storie non ne invento. Le racconto

    a pezzi: me le ricordo a pezzi, le mie storie.Tempi confusi. E un pezzo di quei tempi io, o forse

    tutto quello che rimane, dopo tanto tempo. Non sonemmeno quanto. Non so neanche se vale pi la penadi contarli, gli anni, una volta che sono passati.

    Tempi confusi. E io adesso pi di loro. Ma dalle par-

    ti di Fraus non smetteranno mai di raccontarla, que-sta storia, se verranno a saperla, per confusa che sia.Resta molto da dire. E resto io, resto e avanzo di due

    rovine. Resto della distruzione pisana di Santa Igia, eavanzo delle galere episcopali di Castel di Castro, dopolaltra rovina, quella di Sa Illetta.

    Due rovine, una dopo laltra e dentro anchio, duevolte rovinato.

    Ecco, stato proprio dopo la seconda rovina, inca-tenati in dieci su a Castel di Castro, nelle galere epi-scopali, stato solo allora che mi hanno rovinato. Eil pi non si vede: rotto dentro, anima e corpo.

    Ma degna di passare il mare, la storia di Paulino,

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    a trattenere la fine del mondo. Era uno che veniva daVenezia, frate basiliano, abituato a stare in isolotti dilaguna.

    E ci riuscito ancora per sei anni quel santo eremi-ta, con molto aiuto di noi altri e con Paulino, a trat-tenere la fine. Perch poi lepiscopo pisano di Casteldi Castro ci ha messi in catene, tutti presi a forza, rin-chiusi a disposizione del tribunale episcopale, e tuttisottoposti a dure inquisizioni nelle carceri lass in al-

    to, sulla rupe grande dove ha fatto il nido lavvoltoiopisano.

    Oi come tutto questo mi confonde!

    E come si viveva a Sa Illetta?Si viveva. E quella era vita.

    E dunque testimonia in verit! mi comandavail giudice episcopale: vero che festeggiavate festepagane, con gozzoviglie da epuloni, che celebravatepure Aid el Kebir, la festa musulmana eretica del mon-tone che al posto di Isacco ha assaggiato il coltello diAbramo?

    S, ed era cosa buona per cristiani, ebrei e mao-mettani. Perch in quel giorno chi ha ne fa dono a chinon ha, e cera gran letizia a Sa Illetta.

    Ed vero che a sa Illetta si ostentava la peccami-nosa vista del seno delle donne?

    Vero?Vero che quando cera temporale anche in prigione

    era cosa buona stare sotto un tetto, perfino sotto un

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    tetto nellestate secca e torrida in Castel di Castro, nel-le segrete dellepiscopo pisano di Casteldisuso.

    C chi dice che tutto cominciato con un volo dimangoni sopra la laguna, passati sei anni da quandoPaulino e tutti noi ci eravamo rifugiati a Sa Illetta.

    C chi dice che prima dellassalto, a maggio, siapiovuta terra con sabbia e acqua rossa. E in fondo aipozzi lacqua diventata pi salmastra di quella dello

    stagno. E che la gente rossa, i mangoni fiammanti, ifenicotteri, quellanno sono stati molto rari alle bas-sure dello stagno.

    Segni, premonizioni, profezie: molte. Ma bisognavaavere gli occhi giusti per vederle. E cera chi le ha vi-ste. Ululavano i cani, le femmine abortivano, le galline

    facevano le uova andate in acqua. E una sera tardi la fi-glia di Nuradda muta e scema dalla nascita si leva, aprela finestra e grida a squarciagola: Mamma, babbo,nonna, venite qua a vedere: guardate, guardate tuttiquanti cosa vedo io dalla finestra qui di casa nostra.

    Ohi ohi, che cosa vedi, figlia mia? chiede suamadre prima ancora di meravigliarsi di questa figliamuta che parlava.

    Vedo lo stagno. Lo stagno io lo vedo tutto interoqui da casa nostra. E la luna ci spruzza dentro tanteluci.

    Ohi Nostra Donna Benedetta! ha gridato lamadre che le ha visto due rivoli di sangue colanti per

    le gambe. Questa mi si dissangua, e quasi non

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    considerava che sua figlia a ventanni finalmente ave-va le sue regole e parlava per la prima volta.

    Per un giorno e una notte non si mossa un istanteda quella finestra sullo Stagno: guai a toccarla, smuo-verla, l mangiava e dormiva, in piedi attenta e vigileo seduta a dormire con un occhio solo sulla sedia alta,strologando sempre come un arcolaio, bevendosi la lu-na liquefatta nello stagno. E mai che si stancasse diguardare, come se lo stagno non fosse stato sempre l

    davanti al posto suo. E poi, la notte degli sgherri del-lepiscopo, poco prima del fatto questa figlia di Nu-radda ha chiuso la finestra, ha spento gli occhi e nonha detto pi parola in vita sua.

    Ah, Sa Illetta nostra benedetta, dove il mare si ac-

    quatta travestendosi da lago. Dicevano che ci abitavasolo il male, il diavolo, la tentazione, dove nei tempiantichi ci avevano finito i loro giorni gli ultimi pa-gani, dicevano. Era un buon posto per stare, dopo larovina di Santa Igia: a Sa Illetta, nello stagno salatoin una vita dolce, circondati da cortine di canne, in-visibili a qualsiasi nemico, una zolla di terra di quat-trocento starelli, casa di pesci e di ogni frutto di terrae di mare.

    Paulino il giorno che abbiamo gettato il tetto sullachiesa di Simone e Giuda, Paulino quel giorno ha te-nuto un discorso su Dominedeus in cima al tetto, e habrindato coi muratori e con tutti gli aiutanti con un

    vino nuovo che sua madre gli aveva portato da Fraus

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    in due fiasche di sughero. E l sul tetto ci ha racco-mandato di non rimpiangere il mondo lasciato oltre lostagno, le voglie che trascorrono, fluiscono pi svelteche da quegli stagni le acque in mare aperto e vice-versa e si confondono con tutto un mondo dumidoinfinito e circolare.

    Dopo, nella notte, quando gli sciacquii dello stagnoriempivano il silenzio, e la grande quercia stormiva,Paulino chierico si unito con Rebecca ebrea. S, ve-

    ro, io lho intravista sotto la gran quercia, contro laluce della luna, discinta in equilibrio sulla sua ere-zione.

    E mi sembrato bene.Nessuno riuscir a convincermi che non stato be-

    ne. A convincere me, Mannai Murenu, servo nato ser-

    vo, prima di essere libero fratello di Paulino a Sa Il-letta nato per met servo dellepiscopo come salinaroe per met del presbitero di Fraus come porcaro. Maa Sa Illetta sono stato libero. Oggi lo sono ancora, den-tro di me, per sempre.

    Ha detto il Signor Cristo figlio di Domine Deusche non c servo da pi del padrone.

    Gridava, e come lo risento ancora lepiscopo pisanoche sgridava Paulino in catene su a Castel di Castro,radunati i resti, dieci, dei quattrocentoventi fratellidi Paulino a Sa Illetta, ristretti nelle celle pi segretea disposizione dellepiscopo.

    Io sono libero.

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    Libero di panilio? No, libero in toto, perch figlio di Dio. E del re-

    sto, se per te ha importanza, lepiscopo Procopio tuopredecessore ha reso ai miei e a me la libert, anche dipossedere, sebbene, come dice il profeta, metterai daparte ma non potrai salvare nulla e ci che avrai sal-vato lo abbandonerai alla spada.

    Tu lhai detto, Paulino. E tu invece lhai fatto, Dio te ne ripaghi!

    Ma sono stato io Mannai Murenu, io che ho seppel-lito ogni bene durevole la notte dellattacco a Sa Il-letta, che non cadesse in mano agli sgherri episcopali.Non sono pi potuto ritornare. E mi sogno ogni nottei nascondigli, sette, sotto gli olivastri.

    Tutto incominciato col peculio, diceva Baruch nel-le segrete dellepiscopo, Baruch, che il tribunale epi-scopale accusava di negromanzia, e certamente era ma-go e preveggente. Anche Baruch era libero con noi aSa Illetta, era uno di noi, dei fratelli raccolti di Pau-lino, chiamato l dallaltro ebreo Genatano, bachicol-tore e poliglotta, interprete, maestro delle lingue.

    No, io non ero un adoratore di Paulino, rispon-deva Baruch alle accuse episcopali. Noi, la Torah cimette in guardia dal fare idoli uomini e cose terrene.Dovresti saperlo, tu pastore di gregge del seme diAbramo.

    Genatano lebreo bachicultore ci diceva sempre che

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    il baco da seta quando sfoglia a sole alto, allora non bi-sogna mangiare aglio o cipolle o zafferano e neanchebere vino e non si fiata e tanto meno si peta, presso lafoglia che il baco manger, specialmente se baco a tremute. E che il semen bachi tra fine aprile e i primi dimaggio deve essere tenuto al seno delle donne duranteil giorno e di notte sotto il guanciale, come covatura.E come lo risento ancora il profumo dello zafferano au-tunnale in polvere sciolto in acquavite per tingere la

    seta, e i conversari interminabili delle donne.Perch bisogna sapere che le colture pi importanti

    dellisola erano per noi la pesca nello stagno e la ba-chicultura. Bello lo stagno e bella la cortina di mura-gelsa tutto intorno allisola, che alimentava pure ulivi,mandorli, ciliege e piricocchi. E sul mattino si senti-

    va cantare la tortora, lallodola pi tardi, nel gran soleche spunta dalla parte di Castel di Castro.Sicch io adesso muoio per il desiderio di sentire lo-

    dore dello stagno, anche solo una volta, la mattina. Odi bere ancora dalla polla dacqua dolce che sgorga inmezzo allo stagno tra Sa Illetta e la terra ferma. Si di-ceva che fosse un miracolo di Paulino, quella polla dac-qua dolce nello stagno salso. Noi si diceva questo, men-tre poi i suoi nemici episcopali gli hanno rinfacciatoanche questo come una delle sue arti diaboliche Lapolla dolce come un cerchio magico tra tutto quel sa-lato, in mezzo alle acque che poi nella notte della fu-ria episcopale hanno rispecchiato i bagliori dellin-

    cendio, mentre fino allora avevano rispecchiato il

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    cielo e le sue nubi come pecore in un prato, cos chequello era un luogo che dava la grazia della meditazio-ne e faceva il dono del raccoglimento, come si dice del-lanacoreta che proprio a Sa Illetta si assopito in pre-ghiera e si svegliato dopo un secolo e ha finito di direil Paternoster.

    Possessione diabolica o follia, la tua sventura grande e irrimediabile, diceva a Paulino in catene

    il suo inquisitore episcopale.E Paulino: grande s, la mia sventura, ma sop-

    portabile, perch anche qui nelle segrete episcopali,per tutti quelli che hanno scelto di vivere con noi a SaIlletta, i beni comuni e inesauribili dello spirito sonopi preziosi dei beni privati e consumabili del corpo.

    Perch se prima uno era uso a togliere agli altri, a SaIlletta ha imparato a dare. Se era borioso ha imparatolumilt, se avido la generosit e se lussurioso o ubria-cone la sobriet e lastinenza.

    Cos dunque voi qui reclusi realizzate lideale dellarinuncia al mondo?

    E sperimentiamo ogni istante liniquit delluo-mo, che vivendo non fa che accumulare un pesante far-dello di colpe. E ci ribattezziamo al fonte delle nostrelacrime.

    Ma che cosa volevi con la tua congrega a Sa Il-letta, che cosa chiedi in fondo, tu, Paulino?

    Chiedevo e chiedo che i pastori siano pi vicini a

    Cristo e al suo gregge. Che la loro orgogliosa autorit

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    abbia una volta sospetto di s, perch proprio i pastoricome lupi depredano il gregge, e il loro bastone pa-storale una verga impudica.

    Impazienza, la tua, vizio perverso, Paulino, perchil paradiso non sar mai pi su questa terra, tanto menoa Sa Illetta, luogo di disperati, eretici, scismatici, avan-zi di galera e di ogni luogo dove si abbattuta la giu-sta punizione dellEterno, su di te eretico e scismatico.E non cera perfino un tuo seguace a Sa Illetta che dice-

    va per certo di essere un discendente di uno dei compa-gni perduti di Ulisse, fatto porco da Circe?

    Cos diceva lui, perch non di solo pane vive luo-mo, ma pure di favole e illusioni.

    E dunque per voi tutti l nellisola, tra stagni, lavita era pi piena, se era piena di diaboliche illusioni?

    Anche quelle sono cura alla nostra comune po-chezza. Ma in te, Paulino, con la scusa della nostra comune

    pochezza, non c presenza di rimorso. S, e certe volte questo mi preoccupa. In te c unindebita fiducia nella giustezza dei tuoi

    fini. S, qualche volta, certo, come per ritorsione a chi

    troppo mi accusa. Ma vivo sempre nel dubbio sui mieifini e su quelli comuni dellumanit, e in pi qui ogniistante antivedo la mia fine.

    Anche a Sa Illetta, come dappertutto, la stessa in-clinazione a peccare, che fa disperare delluomo, ed

    ecco perch io sono qui per interrogarti.

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    La vita minterroga, il male minterroga, la morteminterroga, non tu.

    il mio Dio che tinterroga in me. E il tuo Dio ti chiede di vincere in giudizio contro

    il reo? Il mio Dio non pu essere che il tuo, Paulino, bada! No, se il tuo dio Mammona!

    E quale mai vangelo predicava Paulino? chiedeva

    a me linquisitore episcopale frandigandosi la barba. LEvangelio predicava Paulino, il cibo degli umili,

    lEvangelio che pone il sabato in vista delluomo, nonluomo in vista del sabato. E dunque ai vostri occhiPaulino bestemmia lEvangelio, e non il vangelo usatodai potenti come mezzo di dominio.

    Bada a come parli, servo! No, su questo non la cedo neanche al papa, perchquando ho capito le parole di Paulino, ho sentito al-leggerirsi tutti i pesi, e ne ho tratto una forza mai pen-sata prima, e ho incominciato a sentirmi uomo tuttointero.

    E che coshai capito, tu, Mannai Murenu della pre-dicazione di Paulino a Sa Illetta?

    Dal fare di Paulino a Sa Illetta si capiva molto. Dalsuo dire, anche. Non so se ne capivo quanto gli altri.

    E dunque? E dunque quando ho smesso di servire Mammona,

    ho incominciato a servire la verit, la libert e la giu-

    stizia. Perch senza di esse la vita fa paura, e pena.

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    Ecco perch la nostra Santa Chiesa ha scelto la pro-fessione della piet e della misericordia.

    Appunto, come di chi guarda un altro uomo dal-lalto in basso, misericordiosamente.

    Bada a come parli, servo! Io ci bado e ti dico che se un Dio c, non pu es-

    sere che un Dio complice delluomo, amico suo. Se fos-se altro, non me ne importerebbe, a me, se non per be-stemmiarlo.

    E tra le altre ricordo anche questa donna, Rebecca,gi prima prostituta a Santa Igia, fuggita e riparata lda noi a Sa Illetta. Rebecca ebrea, femmina perdutache ignorava di essere perduta, prostituta, n che altredonne facessero questo per mestiere, dappertutto, di-

    cono, e lei la pensava una sua incombenza o punizione,scelta apposta per lei dal Signor Cristo Dominedeus,come per Maria Magdalena. E come Santa Maria Egi-ziaca, dopo il flagello pisano a Santa Igia, Rebecca pas-sa anche lei lo stagno a nuoto nei punti meno larghifino a Sa Illetta e l incomincia a vivere una vita pu-dica di letizia a fianco di Paulino.

    Dimmi tu se vero, figliola, chiedeva proprio alei linquisitore episcopale, dimmi dunque, Rebec-ca, se vero che Paulino diceva di aver visto per rive-lazione divina lannientamento totale del mondo e chegli unici a salvarsi sarebbero stati quelli radunati incongrega con lui a Sa Illetta, e che sarebbe poi toccato

    a loro dare inizio a una nuova vita nel mondo, e in-

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    somma, che fonderete voi altri nel mondo una societnuova e senza mali, dove conter lamore e non la mo-neta: che voi siete lArca Santa di una nuova umanit,la vera Israele alla fine dei tempi?

    Io non so, io sono stata come il baco, che passamolte et prima di salire al bosco a imbozzolarsi. Io soche sono stata donna vera solo l, su quella terra brevecircondata dallo stagno.

    E Paulino, mentre noi altri siamo tutti trattenuticome ostaggi nelle basse prigioni di Castel di Castro,Paulino stato inviato in pellegrinaggio penitenzia-le. Dapprima in Terrasanta, con obbligo di bagno nelGiordano per rigenerarsi nel battesimo dellacqua, poitramutato in viaggio penitenziale al Finis Terrae, a

    Santo Jacopo di Compostella. Per in viaggio a piedinudi, tranne il mare da passare alle galere pisane: ot-timo esercizio penitenziale, se ben compiuto, specieper gli accusati e sospetti di eresia e per grave turba-mento dellordine pubblico o per cospirazione controlautorit.

    Cos Paulino, ostaggi noi nelle segrete episcopali, partito da Castel di Castro con due grandi croci di co-lore zafferano sul petto e sulla schiena, con obbligo diflagellarsi in pubblico ad ogni santuario che incon-trava sulla sua strada penitenziale. Con due belle gran-di croci di seta che Rebecca gli aveva fatto della no-stra miglior seta, di semen bachi fatto schiudere te-

    nendolo qui al seno, tessute con amore, e lamore era

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    entrato nella trama del tessuto. Ma poi Paulino le cro-ci se le vendute in Provenza per tre pasti e una not-te con una prostituta, secondo laccusa che gli statafatta al suo ritorno. Cosa vera, solo che la donna nonera di malaffare, ma una donzella della villa di Dra-ghignano di Provenza, che ne aveva concupito il cor-po mentre lui si flagellava le carni davanti al santua-rio di Santa Fede, dove si venera un dente di latte diCristo.

    Troppo mi si confonde nella testa tutto quanto.Perch mi rivedo troppo spesso, sempre, i nostri

    bimbi a Sa Illetta che quel giorno giocavano dentro lebarche in secca, quando si levato il volo dei fenicot-teri.

    E la mia tartaruga si ritirata nel guscio per lul-tima volta.E poi nella notte molti hanno guardato affascinati

    alla luce degli incendi le mutilazioni proprie e altrui.Ahi quella notte, quella notte scura, la notte degli

    sgherri episcopali, dei ladroni di Pisa! Erano gi a metstrada nello stagno quando Andria Busi di vedetta li haintravisti. Eppure, disturbati, i fenicotteri gi si eranolevati in volo sghembo e cieco laggi presso i cannetidi Santo Paulo, lunghi e diritti come un nugolo di frec-ce, dirette su di noi.

    Poi ho sperato di morire nellagguato, come moltialtri, per non finire i giorni alle galere dei pisani, o con

    la testa mozza appesa a una torre di Castel di Castro.

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    S, ho cercato di morire nellagguato, l sulla riva dellostagno, mentre il dolore esalava come un miasma dallaterra bagnata di sangue fraterno.

    Quando Paulino ritornato dal suo pellegrinaggio,molti di noi dieci erano gi morti in quel buio di pri-gione. E dopo anche lui nelle segrete di Castel di Ca-stro morto di stenti, e tutti quanti gli altri, meno io,quasi dimenticato, mandato alle galere e poi lasciatoandare per vecchiaia, quando non servivo pi.

    Tutto questo non sar dimenticato, ha detto ilvecchio ebreo Baruco esalando lultimo respiro tra lemie braccia insanguinate sulla riva dello stagno, perchmai gli occhi umani sono tanto chiaroveggenti comequando sanno che si stanno chiudendo per sempre.

    Che tutto questo non sia dimenticato. Non del tut-

    to. Non da me, neppure nei giorni peggiori della penadi essere un sopravvissuto, che pi grande del mare,che nessuna terra finisce, ma ne viene compresa.

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    (le molte et perdute a strati sotto i piedi)

    La mostra dei reperti per don Agostino stata un pubblicolavacro del peccato solitario, anche se i frauensi non po-

    tranno mai capire il sacrificio del mostrare il suo reliquarioprivato.

    Il giorno che il sovrintendente gli ha proposto quella sana-toria (mi fa la mostra e io la nomino soprintendente onora-rio), don Agostino lo ha guardato come se gli avesse chiesto dimostrare in pubblico le grazie pudibonde di sua figlia. Ma

    poi ha ceduto, cos ha legittimato il possesso del bottino, perlo pi ricettato ai tombaroli. Ha ordinato e raccolto i suoigioielli in solide bacheche, e al vernissage di quello che dove-va diventare lAntiquarium Frauense ha tenuto unalunga conferenza, arringando ventotto frauensi. Comeranovalenti i nostri antichi, capaci di venire a patti con la vita econ la morte! Quanto dopo di loro abbiamo tralignato! Que-

    sto il succo.

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    Tierra a la vista

    Sappiate che queste sono cose da mormorare in luo-ghi chiusi e solitari, per da ridire. Che non vadano per-

    se. Cose che a suo tempo raccontava Sigismundo, pro-prio lui, Sigismundo Arquer Calaritano, il bruciato aToledo eresiarca, pi di trentanni fa.

    E se tutte le cose che Sigismundo diceva delle IndieOccidentali gliele avessero a suo tempo rinfacciate intribunale, non sarebbe sopravvissuto un mese alla pe-

    rizia della santa inquisizione, n qui n a Toledo e innessun altro luogo. Perch gi da allora, come adesso,a Madrid ci tengono allAmerica.

    Ma giudicate voi.

    Sigismundo iniziava una sua specie di racconto tur-binoso con una domanda che restava sempre l sospesa,tutti a bocca aperta:

    Che cosa hanno a che fare le zanzare qui di Fl-mini Mannu con la scoperta dellAmerica?

    E Sigismundo stesso rispondeva: Molto, ci hanno a che fare molto le nostre zanzare

    di Flmini Mannu, tutto ci hanno avuto a che fare, o

    quasi, con la scoperta dellAmerica.

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    Lui laveva capito subito cos lAmerica, il NuovoMondo, la novit incredibile che molti qui non credo-no nemmeno adesso dopo settantanni che lhanno sco-perta e corsa e raccontata in cento modi.

    Poi Sigismundo faceva laltra delle sue due stranedomande:

    Chi stato a vedere per primo le coste delle Ame-riche, da quelle navi comandate da Colombo Geno-vese?

    Qualcuno lo sapeva, faceva un certo nome, di un taleRodrigo de Triana, sivigliano dallocchio fortunato, sefosse stato suo, quellocchio.

    No, non stato Rodrigo de Triana sivigliano, statouno di qua, di Fraus, stato Aricu de Anna Cuccumeuche ha scorto per primo quelle nuove terre americane.

    Parola di Sigismundo.E raccontava tutto.

    Dunque, con la scoperta dellAmerica coshanno ache fare le zanzare qui del Flmini Mannu? Col fiumenostro che discende tra Marmilla e Trexenta, sfioraSanluri e poi pi in gi si getta nello Stagno di SantaIgia sotto la citt e il Castello di Cagliari?

    Sigismundo prendeva appunto le mosse dalla Bat-taglia di Sanluri, di fine giugno del 1409, e di batta-glia in battaglia tra sardi e aragonesi arrivava fino allaBattaglia di Macomer, dellestate del 1478, tra mag-gio e giugno, inizi dellestate, tutte due le battaglie

    con i morti a mucchi di migliaia.

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    Tempi di zanzare, non solo di resistenza contro il ca-talano aragonese. Contro Martino il Giovane, re dAra-gona, re di Sicilia, conte di Barcellona e cos via, e an-che, mezzo de facto e mezzo in pectore, de jure tuttoquanto, re di Sardegna e Corsica. Ossi duri da mordere,Sardegna e Corsica, anche per un mastino aragonese.

    Ma il morso aragonese, quel giugno del 1409, a San-luri, stato duro, se ancora oggi il luogo dello scon-tro tra sardi e catalani detto SOccidroxu, lammaz-

    zatoio, Domine Deus ne scampi ogni figlio di cristia-no.

    Dopo lammazza ammazza di Sanluri, diecimila car-ni trafitte a morte, Martino baldanzoso riprende lavia di Cagliari verso Bonaria, lungo il Flmini Man-nu. E qui lungo il fiume in un bivacco notturno si

    sollazza con una fanciulla di Sanluri a ci non si saquanto costretta, come preda di guerra. Bella, dico-no, tanto che ne parliamo ancora adesso a grandi lodicome la Bella di Sanluri. Ideo dilexit me rex et introduxitme in cubiculum suum, salmodiava qui il vecchio Sigi-smundo con eretico sogghigno, per quanto Domine-deus concede in licenza solo ai re, in fatto di sollazzicon le femmine.

    Ma nel cubicolo regale, sulla riva destra del FlminiMannu, quella notte di giugno sintroducono anchele zanzare, anchesse femmine come si sa, e pungonoMartino che si becca la malaria, come si sa.

    Sulla via di Cagliari, il mattino dopo, il giovane re

    non riesce gi pi a stare in sella, nemmeno invere-

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    condamente abbarbicato allarcione, mentre i suoi ba-roni scherzano sulle notturne cavalcate regali: masempre meno, finch il re costretto a finire il viag-gio in carrettone, sequestrato per strada a un carret-tiere di Serrenti che portava pietre a vendere a Nurami-nis. E questo carrettiere di Serrenti, seduto sul muc-chio di pietre che gli sgherri aragonesi gli avevanofatto scaricare a lato della strada, si dice che abbia ma-ledetto il re Martino che si allontanava sul suo car-

    rettone con un improperio contagioso: Anco ti por-ti il carro della morte, per quanto fatto re.

    Martino il Giovane entra vittorioso in Cagliari cos,tra le armi palate, steso dalla febbre cos impara.

    Ma non ha molto tempo per imparare il povero Mar-tino vincitore, anche se le prova tutte, le cure contro

    le febbri di malaria, compresa limmersione nel leta-me, nelle scuderie reali, a lume di candele monacali. Ilventicinque luglio il re se ne muore dintemperie, diterzana maligna, a ventitr anni, di morte straniera, dimorte orribile e ridicola, su unisola. Lhanno sepoltoin cattedrale a Cagliari, potete visitarne anche la tom-ba, gi di sotto, nella cripta.

    I messi per mare e per terra portano la ferale notiziaai quattro canti dei possedimenti catalani. Ma i messiportano anche nel giustacuore lordine segreto dinda-gare su eventuali progenie del monarca morto. E intutto il reame, da Barcellona a Valenza, da Palermo aPalma de Mallorca, ci si domanda chi sar lerede, anzi,

    se c un erede, del sangue di Martino.

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    Gi: c un erede? Uno da fare re, per quanto ignaro?Martino catalano aveva lasciato a Palermo una se-

    conda moglie senza figli, Bianca di Navarra, e concu-bine dappertutto, il cui ventre cento medici si dannoad auscultare, sperando in frutti impuri, compreso ilventre della nostra Bella di Sanluri, mentre altre fem-mine rigonfie spacciano per regali giaciture i loro me-retrici, e per compenso frusta e gogna, se plebee, risae scherno se aristocratiche.

    Nove mesi dopo, a fine aprile 1410, muore anche lasperanza di una progenie regale di Martino. E a Bar-cellona il povero Martino il Vecchio, annoso, nodoso,lardoso, fatto risposare a una giovane fattrice, ai cuiamplessi il vecchio di gran mole, maledicendo le zan-zare del Flmini Mannu, accede in una gabbia mac-

    chinosa che procura artificiali drizzamenti e movimen-ti avanti e indietro. Da tutto ci per non segue impre-gnazione, anzi ne muore lui, di noia e sfinimento, e aiposteri il sogghigno.

    Finisce cos la dinastia regale dAragona dei conti diBarcellona. Tutto finisce. Come si sa.

    Cos, lanno dopo, nel 1412, a Caspe fatto re perelezione Ferdinando I de Antequera, ramo bassissimodella famiglia dei Trastmara di cui il ramo pi eccelso quello regale di Castiglia e di Leone. Come si sa.

    Meno si sa per che Ferdinando di Antequera eradetto - con la puzza al naso e in confidenza - Re Zan-zaro dagli altri re del mazzo di carte europeo. E Sigi-

    smundo Arquer assicurava che Ferdinando Primo ha

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    tenuto per il resto della vita una zanzara del FlminiMannu, fatta catturare apposta sulle rive di questo no-stro fiume in piena estate: proprio una zanzara di Fl-mini Mannu dentro uno scapolare sempre appeso alcollo, scapolare che poi ha passato al figlio Giovannisenza Fede, il torvo vincitore di Macomer che pose finealla resistenza sarda antiaragonese, e che poi Giovanniha passato a suo figlio Ferdinando Secondo gi maritodIsabella di Castiglia. Anche questo secondo Ferdi-

    nando lo ha tenuto appeso al collo, lo scapolare con unazanzara del Flmini Mannu, pure nel talamo con Isa-bella di Castiglia che ha ignorato a lungo il contenutodello scapolare del marito, cos fastidioso a volte sottole lenzuola di seta comacina, quando Ferdinando sin-duceva agli obblighi di dare un erede al nuovo regno

    dAragona e di Castiglia.Gi. Ma perch mai, chiedeva a questo punto Sigi-smundo, perch mai lorgogliosa Isabella di Castigliaun bel giorno si convince a finanziare i progetti di Co-lombo Genovese sempre in cerca di palanche per an-dare nel Catai? E soprattutto, com che Isabella riescea convincere anche quello gnocco cocciuto del maritoFerdinando?

    Con le zanzare del Flmini Mannu. Cos rispon-deva Sigismundo, che a questo punto rivelava pure ilvero luogo dei natali di Colombo, il quale era di Cal-vi, comune di Corsica pazionato a Genova, corso dipadre genovese e madre sarda. E Sigismundo qui ag-

    giungeva che l in Corsica, su a Nord di Bonifacio - e

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    abbassava la voce in gran segreto - un giorno nascerun altro uomo straordinario che anche lui cambiermolte cose in questo nostro porcomondo.

    Ma le zanzare, quelle zanzare dentro il reale scapo-lare e fuori sulle rive del Flmini Mannu?

    Sigismundo sogghignava raccontando la notte cheFerdinando il Cattolico nel regio talamo a Isabella diCastiglia ha confessato il contenuto del regale scapo-lare, quella zanzara del Flmini Mannu conservata

    viva con segrete arti negromantiche. stato allora cheIsabella riuscita a convincere il recalcitrante Ferdi-nando: Come puoi dire ancora no a Colombo, Fer-nandito mio? Come puoi fare torto a un uomo cheper via di madre originario di quellisola le cui zan-zare sono allorigine delle fortune della tua casata?

    Tanto pi che Colombo si era offerto, in segreti col-loqui con i re cattolici, di compiere con loro delle In-die il destino della Corsica secondo la papale volontdi Bonifacio VIII, che nel 1297 aveva infeudato il Re-gnum Sardiniae et Corsicae alla corona dAragona: Eil volere del papa vincolante, Fernandito mio. Nonsolo per il povero Martino il Giovane che ci ha lascia-to le penne, gi in Sardegna, ma anche perch ci facomodo, dopo quasi due secoli, prenderci ci chnostro, questisola di Corsica, che Colombo mi assi-cura abitata da buoni cristiani, da genti fedeli e pa-cifiche quanto quelle dellisola di Sardegna, gi feli-cemente nostra lungo la ruta de las islas verso Terra

    Santa.

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    Ferdinando ha obiettato che se i corsi sono come isardi, meglio lasciarli ad altri. Ma poi ha ceduto, hadeciso di aprire la scarsella e ha dato le palanche aquel matto di Cristoforo. Come si sa.

    * * *

    Ma chi poi che unalba livida, nella madrugadadel dodici ottobre del 1492, ha gridato dalla gabbia

    di vedetta quelle famosissime parole: Tierra a la vista?Sigismundo assicurava che quella mattina stato Ari-

    cu de tzi Anna. S, Aricu de Anna de Attilia de MariaCuccumeu di Fraus, e non quel Rodrigo de Triana sivi-gliano, a vedere per primo le terre americane, il Nuo-vo Mondo.

    E come mai non si tratta di Rodrigo de Triana, madi Aricu de tzi Anna?Per riuscire a spiegare proprio questo, dato che delle

    zanzare di Flumini Mannu gi sapevamo tutti qui danoi, Sigismundo faceva una dottissima disamina di fat-ti e documenti, che poi i domenicani di Toledo gli han-no rinfacciato come prova di eresia, non soltanto di le-sa maest nelle sacre persone di quattro re e di una re-gina.

    Anche qui, come per le zanzare, Sigismundo partivadalla fine di una dinastia.

    Dicono le storie che nel 1407 si spegneva unaltra di-scendenza, quella di Eleonora dArborea, la nostra gran-

    de madre. Si spegneva con la morte di Mariano V, larva

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    di monarca senza prole, che i catalani per cospargerezizzania in campo sardo dicevano ucciso dal suo stessopadre e marito di Eleonora, Brancaleone Doria, che vo-leva farsi al suo posto giudice sovrano dArborea.

    Ma Sigismundo qui diceva che questo rampollo diEleonora, Mariano V, aveva lasciato un figlio spurio,Pedru, da una serva di corte: e dunque un nipotino diEleonora, anche se figlio della serva, dato che il san-gue non acqua neanche in una donna, tanto pi se

    Eleonora, la nostra grande Eleonora dArborea.E questo spurio discendente, che il suo nome viva

    nei secoli, Pedru, una volta adulto, finito a Fraus,stalliere dei Marrocu, dunque in zona pisana fra Tre-xenta e Gippi, non sottomessa ancora al giogo arago-nese che molti sardi ancora singegnavano a scuotersi

    di dosso, perch faceva male, anche a chi non avevacorna in testa.E a Fraus il povero stalliere dei Marrocu, questo Pe-

    dru, si giace spesso con la sua padrona, Donna Anna,tanto che poi, dallo stalliere Pedru, Donna Anna haun figlio, legalmente figlio del consorte di Donna An-na, cio del cavalier Comita Marrocu. Nasce cio quel-lAricu de tzia Anna de Attilia de Maria Cuccumeu,pronipote di Eleonora dArborea, che benedetto sia ilsuo nome.

    A questo punto non erano pochi quelli che stavanol confusi a bocca aperta davanti a questa complicatagenealogia, e Sigismundo a dirgli di non preoccupar-

    si: Gi controllato io con i miei occhi, diceva, tutti i

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    documenti, ci si pu fidare, le cose stanno propria-mente cos.

    S, ma, perch mai questo Aricu figlio di Pedru epronipote di Eleonora non si chiamava Marrocu, maAricu de tzia Anna de Attilia de Maria Cuccumeu?

    Perch?Perch il marito di Donna Anna, il cavalier Comita

    Marrocu, non era gran che come uomo, anche se natocavaliere, mentre Donna Anna sua moglie era invece

    una donna come poche, e come qui succede in questicasi, il proprio nome questo figlio lha preso da suamadre, Aricu de tzi Anna di Attilia de Maria Cuccu-meu. Chiaro?

    Mica tanto.Sigismundo qui si spazientiva.

    Una cosa chiara, diceva: il padre putativo di Aricu,Comita Marrocu, era cornuto, non era solo uomo dapoco, mentre sua madre era una donna da molto, e nonperch bagassa, ma perch era questo e molto altro, edunque Aricu ricordato come figlio de tzi Anna, fi-glia di Attilia, figlia di Maria Cuccumeu, in linea fem-minile, da tutte due le parti, dato che era pure proni-pote di Eleonora dArborea, lodato sia il suo nome.

    Troppo complicato?S.Tanto vero che su queste complicazioni dinastiche

    Sigismundo faceva fare una bella riflessione al poveroPedru, padre vero di Aricu.

    Una sera al tramonto, seduto sulla costa del pozzo

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    di stalla, Pedru pensa al suo destino e ai suoi natali,e ai natali di suo figlio Aricu, e come accade ancoraai sardi che riflettono, riflette in rima:

    Giugi rei fiat babbai,fillu miu cavalleri:e comenti ispiegaica deu seu stadderi?

    Che in toscano sarebbe: Re giudice era babbo, Miofiglio cavaliere: Come si pu spiegare Che io sono stal-liere?

    Un bel muttettu, no? Tanto bello e acuto che di tuttala storia raccontata da Sigismundo forse questa del mut-tettu poco vera, e il muttettu pi suo, di Sigismun-

    do, che di Pedru stalliere ma nipote di Eleonora Giudi-chessa dArborea.Comunque sia, a un certo punto questo Aricu figlio

    vero di Pedru, nipote naturale di Eleonora dArboreae presunto figlio di Comita Marrocu, nel racconto diSigismundo lo ritroviamo poi valoroso vessillifero diArtale Alagn alla battaglia di Macomer nel 1478, alsanguinoso epilogo di un secolo e mezzo di lotte deisardi ribelli allAragona, il cui ricordo Sigismundo nonvoleva si estinguesse almeno qui da noi.

    Eccolo dunque a Macomer, Aricu, valoroso, che so-pravvive alla sconfitta dei sardi e alla morte del suo co-mandante, quellArtale Alagn figlio del ribelle Leo-

    nardo marchese di Oristano. E riesce anche a fuggire,

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    Aricu: fugge con altri a Bosa, dove un legno li aspettaper la fuga. Ma in alto mare il capitano fellone li tra-disce e li consegna ai catalani, gi a Palermo: e l chissche cosa gli combinano i catalani allo sfortunato pro-nipote di Eleonora, benedetto per sempre sia il suonome. Di certo si sa solo che gli tolgono qualcosa chedi solito si volge in acutezza della vista.

    Meglio per lasciare perdere che cosa gli hannofatto a Palermo i catalani, ch quelle sono cose da non

    dirsi. Tanto pi che poi Sigismundo ci mostra Aricuancora vivo nella lontanissima Siviglia, pi precisa-mente a Triana: s, pescatore di trote nel Guadalqui-vir, nellUad al Kebir, che in arabo significa anchessoFlmini Mannu, chiss se con zanzare, certamente connon molte trote, se Aricu a Triana non fa altro che so-

    gnare il ritorno in Sardegna, parola di Sigismundo.Aricu a Triana sogna la sua terra. Per non gli con-cessa. Il ritorno costoso o gli impedito. E cos Ari-cu ormai si trianizza, rassegnato e farsi Aricu de Tria-na.

    Ma proprio quellanno 1492, vinto e scacciato il moroda Granada, Aricu cerca di cogliere loccasione del ri-torno, di essere cacciato via: pericolosamente tenta dispacciarsi per musulmano senza voglia di conversio-ne, poi per ebreo, per avere la scusa di essere cacciatodai territori di Fernando e Isabella, comera legge pro-prio di quellanno, ma tutte due le volte bastatouno sguardo alla sua nudit non circoncisa, e tutte

    due le volte si beccato otto mesi di lavori forzati.

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    Una pena inventata l per l da un giudice del luogo,per questo reato non previsto, mai commesso. Caso maiil contrario, molto spesso in quei luoghi a quei tem-pi, farsi passare per incirconciso, con protesi varie,come fanciulla con la sua virt.

    S, ma che centra allora Aricu de tzi Anna, a parteche assomiglia come suono a Rodrigo de Triana, conluomo di vedetta che allalba del dodici ottobre del-lanno Domini 1492 ha scorto per primo le terre ame-

    ricane?Il fatto che un bel giorno Aricu de tzi Anna, tria-

    nizzato ormai da tempo in Rodrigo de Triana, riesce aimbarcarsi su una nave, di una flotta di tre, che non sicapiva bene dove fossero dirette, comunque versoOriente, forse in Terrasanta, forse lungo la ruta de lasislas

    , o con giri strani, buscando el levante per el po-niente Non si capiva molto, Aricu anche di meno.Ma era una spedizione col vantaggio di poter reclutarechiunque nella ciurma, anche un forzato strano comeAricu, marrano a rovescio per quella speranza di potertornare a Fraus.

    Di quel viaggio crediamo di sapere molto. Ma nontutto. Non quanto raccontava Sigismundo.

    Non sappiamo che cera pure Aricu de Tzia Anna deAttilia de Maria Cuccumeu pronipote di Eleonora diArborea, che Dio labbia in gloria. Non sappiamo cheAricu era mozzo e non proprio marinaio. Capo mozzo,addetto anche alla cabina dellammiraglio del mare

    oceano, delladelantado Cristoforo Colombo genovese.

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    E cos una sera allora del vespro, mentre la ciurmain coperta canta il Salve Regina, Aricu gi sotto co-perta a pulire la cabina di Colombo, che intonato ilSalve scende gi in fretta per sbrigare cose che preme-vano, e trova gi in cabina Aricu che canta in sardo enon in latino, con quel suo vocione. E Colombo tut-tocchi e tuttorecchi percepisce le parole insolite, mavagamente familiari. Per farla breve, stata una rim-patriata, si scoprono le origini isolane, luoghi e paren-

    tele, e dire di Corsica e Sardegna, e chi lavrebbe maidetto, e compare di qua e compare di l, che a momen-ti buttavano a mare perfino la gerarchia, che lultimacosa che si butta fuori da una nave, specie se ammi-raglia. Comunque Aricu quella sera promosso ma-rinaio.

    Il pi importante per che quello stato un rico-noscimento provvidenziale, perch le cose si erano gimesse molto male tra Colombo e il resto della spedi-zione, con quegli Hermanos Pinzn poi, cos malfi-dati, ma non solo loro, anche Aricu detto Rodrigo eraparte del complotto, intimo comera di Colombo co-me mozzo suo privato, che non ne poteva pi di quel-landare sempre verso il tramonto, cara al sol che sispegne troppe volte nel Gran Mare Oceano, e non cre-deva pi a un ritorno circolare, magari via terra o chis-s mai. Sicuro, anche Aricu era implicato in un pro-getto di ammutinamento, con sgozzamento di Co-lombo, e per Aricu doveva pure diventare un bel di-

    rottamento, verso il Mediterraneo, sempre con la scu-

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    sa della Terrasanta e del Sepolcro di Cristo, ma con intesta Fraus.

    Poi quella sera tutto si rivela, si sventa il pericolo,l sotto in cabina di Colombo, grazie a unDeus ti sal-vit Reina alla frauense, se no lAmerica poteva aspet-tare ancora chiss quanto.

    Da quel giorno Colombo si fida solo di Aricu dettoRodrigo, tra di loro comunicano in corso e in sardo,oltre che in toscano, quando vogliono non farsi ca-

    pire. E Colombo ne ha dovuto dire di parole in corso,in toscano, in sardo e anche in latino per convincerequel sardo cocciuto che valeva la pena di tirare avanti,buscando el levante por el poniente, e se vuoi alla fineti buschi anche Fraus, se ci tieni tanto, zuccone, men-tre siamo diretti verso gli splendori delle Indie, del

    Catai, del Chitango e delle beate terre delle spezie, aparte lo scopo finale del sepolcro di Cristo.Sono tanto uniti i due che mentre Cristoforo Colom-

    bo detto dalla ciurma El Estranjero, Aricu dettoEl Estranjerito, anche per la taglia, e per certe mali-gnit che circolano sui due nella ciurmaglia. Il solosvantaggio per Aricu che deve sorbirsi estenuantiturni di vedetta, lass in alto, specialmente di notte,anche per controllare i movimenti dei pi turbolentidella ciurma, e per stare alla larga da certuni che glivogliono fare la pelle, per via del sospettato tradi-mento, che era pure vero, perch stato proprio lui,Aricu, a rivelare a Colombo i piani di ammutinamen-

    to e dinversione della rotta. E poi stando lass in cima,

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    nella gabbia, stava pure lontano dalle mani lunghe diCristoforo, gi, proprio cos, bisogna dirlo. E poi per-ch cera la promessa di Colombo: non so pi quantiscudi doro a chi per primo avesse visto terra (e dabuon corso-genovese non ha mai mantenuto la pro-messa, il che mostra senza alcun dubbio la sua origi-ne).

    Ed cos che la mattina del dodici ottobre del 1492,ai primi biancori del giorno, Aricu de tzi Anna de At-

    tilia de Maria Cuccumeu, come un gallo allalba an-nuncia il grande avvenimento:

    A ni Nora a ni Nora, cuccumeu,Currei totus a bi ita biu eu:Terra, terra, tierra a la vista!

    E Aricu de tzi Anna balla un ballo tondo nella gab-bia di vedetta mentre tutti corrono in coperta a vederecosa vede Aricu che continua a sbracciarsi, lass inalto, e balla e canta in coffa al ritmo di quellantichis-simo a ni Nora cuccumeu. Aricu, tanto pi felice dichiunque altro della spedizione perch lui convintodi riconoscere un profilo noto, laggi in fondo, s, ilprofilo di Nora, della costa sarda: crede di tornare a ca-sa, finalmente, passate in una qualche notte scura leColonne dErcole, il Monte di Tarik. Gi, lavevano te-muto mille volte i marinai spagnoli, quei cagalloni,che arrivati a un certo punto lOceano avrebbe inghiot-

    tito navi e tutto, come aveva gi fatto mille volte, e

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    tutto avrebbe rivomitato chiss dove dopo chiss quan-to tempo. E adesso, ecco, s, Aricu credeva di vedere ilprofilo dellisola natale.

    A quelli che ridevano qui Sigismundo diceva che cpoco da ridere: Forse che Colombo lo sapeva, lui, suquale isola stavano approdando?

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    Rosa Maria Lepnto Serra, Coga

    Io sono il bogino, il verdugo, il boia. E so tutto dilei. Per lo meno so molto della fine.

    Ma pure dellinizio.

    Inizio? Quale inizio? Inizio di che cosa, reverendopadre?

    Gli inizi, figlia mia: quando e come hai iniziatole stranezze, a essere diversa, a tradire il battesimo cri-

    stiano, a essere unastriga, o coga, come dite voi, quan-