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“MAX WEBER E LA «SCIENZA COMPRENSIVA DELLAZIONE SOCIALE»PROF.SSA SIMONA IANNACCONE

MM AXX R WEEBBEER REE ILLA ««SSCCIIEENNZZAA

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Università telematica Pegaso Max Weber e la “scienza comprensiva dell’azione sociale”

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 La razionalità dell’azione sociale ----------------------------------------------------------------------- 3

2 Tipi di potere --------------------------------------------------------------------------------------------- 10

3 La stratificazione sociale ------------------------------------------------------------------------------- 12

Riferimenti bibliografici -------------------------------------------------------------------------------------- 14

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1 La razionalità dell’azione sociale

Max Weber ( 1864 – 1920) rappresenta una delle figure dominanti della sociologia del

Novecento. Determinante, è stato il suo contributo allo sviluppo della disciplina sia per i diversi

studi storico-sociologici elaborati su vari aspetti della realtà sociale (studio delle religioni, del

capitalismo), sia per i criteri innovativi introdotti nell’analisi dei fenomeni sociali.

Centrale nel pensiero di Weber è l’esigenza di una approfondita riflessione sui metodi che

dovrebbero consentire non soltanto alla sociologia, ma a tutte le scienze storico-culturali di

rivendicare un autentico carattere scientifico. Egli si oppone tanto all’oggettivismo positivistico,

con la sua illusoria pretesa di possedere carattere scientifico in quanto fondato sull’analisi di fatti

materiali, quanto alle tendenze intuizionistiche di uno storicismo teso a cogliere l’individuale nella

sua irripetibilità e peculiarità. Si tratta invece di elaborare robuste strutture logiche che consentano

alle scienze storiche e sociali di raggiungere risultati validi e verificabili.

A tale scopo è però anzitutto necessario chiarire che queste scienze sono avalutative, non

possono decidere nulla circa i “valori”, vale a dire circa le ragioni delle nostre scelte politiche,

morali e religiose. Il sociologo non deve valutare i fatti sociali, ma limitarsi a inquadrarli all’interno

dei fenomeni culturali in cui si verificano, evitando di esprimere le sue personali convinzioni.

Pertanto, la sociologia, se vuole essere una scienza, non deve esprimere giudizi di valore sui

fenomeni che studia, ma deve limitarsi a descriverli e a darne spiegazioni soddisfacenti.

Una scienza empirica, sosteneva Weber, non può mai consigliare ad alcuno ciò che egli

dovrebbe fare, quantunque possa aiutarlo a chiarire a se stesso ciò che egli può o vuole fare, in base

ai mezzi a sua disposizione e alle condizioni storiche in atto.

Politica e scienza risultano perciò distinte, non perché le scienze non abbiano presupposti

politici, morali e religiosi, ma perché le scienze non possono fondare e determinare tali scelte. A

queste spetta invece il compito di mostrarne la razionalità intrinseca o meno, nel senso di chiarire se

i mezzi scelti per un certo scopo sono ad esso coerenti o meno. La razionalità non è mai un

principio assoluto o estrinseco alla situazione storica o sociale, ma è il metodo per comprenderla e

operare in essa in modo coerente.

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Weber considerò la sociologia come «la scienza comprensiva dell’azione sociale»1. A

differenza di molti suoi predecessori, che consideravano la sociologia in termini socio-strutturali,

egli concentrò la propria analisi sui singoli individui agenti (il mondo di partenza sono l’attore e la

sua azione sociale, l’individuo considerato come atomo e di unità base del sistema sociale). La

sociologia, poi, si distingue dalle scienze storiche, nell’adempiere a questo compito, in quanto non

deve essere una semplice descrizione di fenomeni particolari, ma deve essere comprensione delle

azioni sociali nella loro costante uniformità e nel significato che gli individui attribuiscono ad esse.

Anche gli atteggiamenti umani mostrano, infatti, “connessioni e regolarità”, come ogni altro

divenire, e oggetto della sociologia sono proprio quegli atteggiamenti umani che si riferiscono

all’agire altrui e devono essere spiegati in base a tale riferimento. Per Weber dunque, a differenza

del positivismo, non ci sono “fatti sociali” originari, qualificabili in sé come tali e anteriori

all’azione e intenzione concreta dei singoli uomini, ma soltanto forme di “agire sociale”, risultanti

dall’atteggiamento di uno o più individui in rapporto all’agire di altri individui.

All’obiezione secondo cui solamente con riferimento al mondo della natura è possibile

raggiungere una conoscenza razionale di tipo causale, giacché il mondo umano, a causa della sua

imprevedibilità ed irrazionalità, non è suscettibile di spiegazione razionale, Weber risponde

ribaltando le posizioni. Mentre la conoscenza della natura deve sempre derivare dall’esterno e noi

possiamo solamente osservare il corso esteriore degli eventi e registrarne le uniformità, in ordine

all’azione umana noi possiamo andare oltre la semplice registrazione delle ricorrenti sequenze di

eventi; il metodo della sociologia trova le sue basi nella comprensione oggettiva, nella capacità di

cogliere il significato dell’agire sociale dall’interno. Naturalmente, con questo metodo Weber si

oppone ai positivisti. «I fatti sociali sono, in ultima analisi, fatti intellegibili». Non possiamo

comprendere l’azione umana penetrando i significati soggettivi che gli attori attribuiscono al loro

comportamento e al comportamento degli altri. Coerentemente Weber ha definito la sociologia

come «una scienza la quale si propone di intendere in virtù di un procedimento interpretativo l’agire

sociale, e quindi di spiegarlo causalmente nel suo corso e nei suoi effetti»2

Weber sosteneva che il comportamento privo di tale senso non rientra nell’ambito della

sociologia.

1 R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano, 1972

2 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Mohr, Tubingen, 1922 , trad. it. Economia e società, 2 voll., Comunità,

Milano, 1961

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Per Weber3 l’azione sociale si differenzia in base alla scelta dei fini e dei mezzi dell’azione,

generando quattro tipologie base:

1. l’ “agire razionale orientato allo scopo” (strumentale), motivato dal fine che

ci si è preposti di raggiungere, in cui sia il fine sia i mezzi sono scelti

razionalmente, è esemplificato dall’attività dell’ingegnere che, per costruire

un ponte, tra i vari mezzi possibili per raggiungere l’obiettivo sceglie quello

tecnicamente più efficiente;

2. l’ “agire razionale orientato ai valori” (morale), è motivato da una credenza

in un valore assoluto che può essere etico, religioso, estetico ecc. solo per se

stesso e indipendentemente da ogni prospettiva di successo, ad esempio il

raggiungimento per la salvezza;

3. l’ “agire affettivo”, si basa non su una valutazione razionale dei mezzi e degli

scopi ma sullo stato emotivo degli individui agenti, come nel caso dei

partecipanti ai servizi di una setta fondamentalista;

4. l’ “agire tradizionale”, nasce da abitudini acquisite, dalla fiducia in «ciò che è

valido da sempre»; un esempio di tale azione può essere offerto dal

comportamento dei membri di una congregazione ebraica ortodossa.

Tra questi differenti modi dell’agire sociale, il primo è quello che interessa lo sviluppo del

processo moderno di razionalizzazione: per Weber, infatti, la società capitalistica è organizzata in

base alla razionalità rispetto allo scopo, che consiste nell’accrescimento dei profitti. Weber

sosteneva che nella società moderna sia nella sfera politica sia in quella economica, nel campo del

diritto e persino in quello delle relazioni interpersonali, l’efficiente applicazione dei mezzi ai fini è

divenuta prevalente ed ha sostituito le altre fonti dell’azione sociale.

L’esigenza di una consapevolezza razionale dei metodi e dei limiti delle scienze storiche e

sociali non vuole essere un’affermazione astratta o generica, ma corrisponde pienamente alla

situazione dell’uomo contemporaneo.

Con l’età moderna, che ha affermato il primato della coscienza su ogni altro criterio, è infatti

cominciato in Europa un processo di razionalizzazione che ha portato al “disincanto” del mondo,

vale a dire alla caduta di tutte le premesse teologiche o metafisiche sulle quali in altri tempi si

fondavano i giudizi universali di valore. L’uomo non nutre più alcuna illusione sulla “realtà” dei

3 M. Weber, Ibid, cit. p. 4

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suoi ideali e tanto meno l’illusione positivistica che tali ideali possano essere fondati

oggettivamente sui fatti storici o sociali e sul loro sviluppo. Il fatto, il dato, invece, è una sorta di

realtà inesauribile di fronte alla quale la scienza storica e sociale è capace di orientarci solo nella

misura in cui compie delle scelte, seleziona certi aspetti costruendo, sulla base di essi, dei tipi ideali

(strumento metodologico specifico, indicato da Weber, per studiare i fatti sociali) che non possono

essere giudicati in base a criteri assoluti, ma esclusivamente in base alla loro efficacia nel

consentirci di connettere razionalmente i processi storici e sociali. Weber sosteneva che nessun

sistema scientifico è mai in grado di riprodurre la realtà nella sua concretezza e totalità, e che non

esiste alcun apparato concettuale, che possa mai dare una spiegazione completa dell’infinita

diversità dei fenomeni particolari.

Un tipo ideale è una astrazione concettuale che fornisce al ricercatore un metro per accertare

ad un tempo nei casi concreti le similitudini e le deviazioni; esso fornisce il metodo fondamentale

per uno studio comparativo.

I tipi ideali, vale a dire i concetti generali di certe realtà storiche e sociali (cristianesimo,

capitalismo, ecc.) oppure di certe specie di realtà storiche e sociali (Stato, Chiesa, setta, ecc.) non

sono affatto rappresentazioni del reale, ma accentuazioni di certi suoi aspetti per comprenderlo. In

questo senso anzi i tipi ideali hanno un carattere dichiaratamente e necessariamente utopico, poiché

indicano dei modelli razionali, dei concetti-limite a cui si deve commisurare e comparare la realtà

per poterla comprendere. In tal modo però la inevitabile soggettività dei presupposti delle scienze è

riscattata dalla logicità e coerenza degli strumenti concettuali con cui viene analizzato il dato di per

sé inesauribile nella sua molteplicità.

Weber sottolinea la tendenza dei processi di razionalizzazione della vita a trasformarsi da

mezzi in fini assoluti, rivoltandosi quindi contro l’uomo e trasformandosi perciò in irrazionalità. La

razionalizzazione del mondo si profila sempre più come un processo che chiude l’uomo in una sorta

di «gabbia d’acciaio» creata da lui medesimo: dal guadagno, il quale, diventando capitale, si

trasforma in fine autonomo dotato di proprie leggi. Tale «gabbia d’acciaio» di Weber è dunque

l’insieme dei processi di burocratizzazione, razionalizzazione, meccanizzazione in atto nella società

moderna.

Si deve a Max Weber lo studio della burocrazia come fenomeno tipico dell’epoca moderna.

Weber individua nel processo di razionalizzazione della società l’aspetto che qualifica più di ogni

altro la modernità. Tale processo consiste in una trasformazione radicale, attraverso la quale i

metodi di produzione, i rapporti sociali e le strutture culturali tradizionali, caratterizzati da modi

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spontanei e basati sulla pratica personale, vengono sostituiti da procedure sistematiche, precise

calcolate razionalmente. Ciò permette innanzitutto di applicare le regole in modo imparziale:

mentre, per esempio, nel mondo pre-moderno la giustizia veniva direttamente amministrata dal capo

o dagli anziani del villaggio, e in gran parte dipendeva dalle relazioni personali, nelle società

moderne le leggi sono applicate secondo regole definite e in modo tendenzialmente impersonale.

La burocrazia è appunto, per Weber, una forma particolarmente pervasiva, e per certi aspetti

pericolosa, di tale processo di razionalizzazione, giacché essa implica direttamente la gestione non

tanto di oggetti, macchine o procedure, quanto piuttosto di essere umani, i quali devono essere

organizzati per conseguire finalità specifiche. Per analizzare i tratti tipici della burocrazia, Weber

utilizzò il concetto di “tipo ideale”; il tipo ideale di burocrazia è quindi un modello di burocrazia,

che nella sua interezza non corrisponde precisamente ad alcuna situazione storica specifica, sempre

suscettibile di variazioni accidentali, ma permette di confrontare forme di burocrazie diverse sulla

base dei loro caratteri comuni. Il tipo ideale di burocrazia consta secondo Weber di alcuni elementi

fondamentali.

La netta divisione del lavoro, cioè la distribuzione delle attività necessarie agli scopi

dell’organizzazione in modo fisso tra i diversi uffici. Ciò permette di impiegare sempre

personale specializzato e di renderlo responsabile dello svolgimento del proprio

lavoro.

L’ordine gerarchico all’interno dell’organizzazione. Ogni ufficio è sottoposto alla

supervisione di un ufficio superiore, ogni funzionario deve rendere conto del proprio

lavoro a un superiore. L’ambito dell’autorità di ciascuno deve essere definito

precisamente.

Il funzionamento di tutte le operazioni è governato da un sistema di regole scritte, che

ha lo

scopo di assicurare l’uniformità dello svolgimento di ogni compito al di là della persona

che effettivamente lo svolge.

Il funzionario deve escludere i sentimenti personali (principio di impersonalità).

Svolge il suo compito in modo imparziale e distaccato , considerando in modo impersonale i

dipendenti e il pubblico. Non si ha a che fare con individui, ma con casi di lavoro.

L’impiego nella burocrazia costituisce una carriera, è basato su qualifiche tecniche, su

un

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sistema di promozioni generalmente prevedibile basato sia sul merito, sia sull’anzianità,

ma non su favoritismi personali, è protetto dal licenziamento arbitrario.

Il luogo del lavoro e generalmente tutto ciò che riguarda l’attività dell’ufficio deve

essere

separato completamente dall’abitazione e in generale dalla sfera della vita privata del

funzionario (separatezza della sfera pubblica).

L’ufficio è una “professione”; per eseguirla sono richiesti un corso di studi determinato

e prove di qualificazione prescritte come condizione preliminare per l’assunzione.

Nessun membro dell’organizzazione deve possedere le risorse materiali con le quali

opera. I lavoratori della burocrazia sono separati dal controllo dei loro mezzi di lavoro

(separatezza dei beni materiali).

Questo coordinamento burocratico delle azioni di un vasto numero di persone è divenuto il

carattere strutturale dominante delle moderne forme di organizzazione. Secondo Weber

un’organizzazione di questo tipo è adatta a controllare in modo molto efficace la produttività di un

grande numero di individui, in quanto essa elimina, o quantomeno limita, il capriccio individuale

nelle decisioni, assicura complessivamente una buona competenza media dei lavoratori, riduce le

possibilità di corruzione (sulla quale erano per lo più basati i sistemi più tradizionali di gestione

dell’amministrazione) e riduce anche la prassi di ottenere un incarico per legami di parentela o

amicizie personali.

I tipi di organizzazione burocratica sono tecnicamente superiori a tutte le altre forme di

amministrazione, tanto quanto la produzione per mezzo delle macchine è superiore ai metodi

artigiani4.

Weber tuttavia mise in evidenza anche le disfunzioni determinate dalla burocrazia. Il suo

maggior vantaggio, la possibilità di calcolare i risultati, la rende anche lenta e persino inefficace nel

trattare i casi individuali; così i moderni sistemi giuridici razionalizzati e burocratizzati sono

divenuti incapaci di considerare le fattispecie particolari, cui i precedenti sistemi di giustizia bene si

confacevano.

Il pessimismo di Weber è evidente nel suo considerare la burocratizzazione e la

razionalizzazione un destino inevitabile pieno di oscuri presagi, una tendenza oppressiva che ha

evidenti analogie con l’idea di alienazione di Marx. Entrambi concordano sul fatto che i moderni

4 M. Weber, Economia e società, cit. pp. 287-288

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metodi organizzativi hanno paurosamente accresciuto l’efficacia e l’efficienza della produzione e

dell’organizzazione ed hanno consentito all’uomo un dominio senza precedenti sul mondo della

natura. Essi concordano anche sul fatto che il nuovo mondo razionalizzato ed efficiente si è

trasformato in un mostro che minaccia di rendere disumani i suoi creatori.

Ma Weber si distacca da Marx nel momento in cui questi considera l’alienazione soltanto

come uno stadio transitorio sulla via della reale emancipazione dell’uomo.

Vi è, tuttavia, un altro aspetto per il quale Weber si differenzia da Marx o piuttosto ne amplia

la concezione. In armonia con il proprio interesse per la sfera della produzione economica, Marx

aveva abbondantemente dimostrato come l’organizzazione industriale capitalistica conduceva

all’espropriazione del lavoratore dai mezzi di produzione: come il lavoratore della moderna

industria, a differenza del lavoratore dell’era artigianale, non possedeva i propri strumenti ed era

quindi costretto a vendere il proprio lavoro a coloro che lo controllavano. Pur aderendo nel

complesso a tale analisi, Weber contrappose al riguardo l’osservazione che tale espropriazione dagli

strumenti del lavoro era il risultato inevitabile di qualsiasi sistema di produzione razionalizzato e

centralmente coordinato e non una conseguenza del sistema capitalistico in quanto tale. Tale

espropriazione avrebbe caratterizzato tanto il sistema socialista di produzione quanto quello

capitalistico.

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2 Tipi di potere

Nella sua opera postuma più famosa, Economia e Società (1922), Weber definisce il potere

come la «capacità di indurre altri a fare ciò che non farebbero spontaneamente». Tale nozione di

potere rinvia a una duplice dimensione:

come relazione, in quanto indispensabile e ineliminabile fattore della

regolazione e della coesione sociale;

come struttura, che esprime in modo empiricamente accertabile le gerarchie

sociali in termini di ricchezza, influenza, comando.

In questa seconda accezione, il potere costituisce quella che si chiama dimensione algebrica a

somma zero, perché a ogni acquisizione di potere da parte di un attore sociale corrisponde una

proporzionale perdita da parte di altri.

In un’ottica relazionale è praticamente impossibile determinare la quantità del potere che

viene esercitato da individui e gruppi su altri individui e gruppi: il potere è una sorta di lubrificante,

una materia fluida indispensabile al funzionamento dell’ordine sociale e capace di assumere le più

svariate e persino imprevedibili modalità. Privilegiando, invece, l’ottica strutturale, a somma zero,

il potere ci apparirebbe come una sostanza solida, presente in quantità costante entro un sistema

politico o economico e perciò destinata ad essere ridistribuita di volta in volta come esito di conflitti

ed espressione di variabili rapporti di forza.

Sempre Weber pone il potere, o meglio, il potenziale di decisione, alla base della

stratificazione sociale, e ne suggerisce una tipologia collegata a differenti forme di legittimazione.

Quello di legittimazione è un concetto cruciale, dal momento che tutta la sociologia del potere

weberiana si fonda sulla domanda basilare: “perché obbediamo”?. O meglio: “perché siamo indotti

a fare ciò che non faremmo spontaneamente?”. Una possibile risposta sta nell’istinto di

sopravvivenza o nel timore. Ci pieghiamo alla forza per salvare un bene più grande, come la vita;

ma nessun potere può sperare di mantenersi nel tempo utilizzando esclusivamente la forza. Chi

aspiri a detenere in modo durevole il potere deve godere di una forma di legittimazione che gli

consenta l’esercizio dell’autorità e, ove occorra, anche della forza. Tutti i regimi politici e tutte le

forme di leadership, in altre parole, hanno bisogno di legittimarsi per preservarsi, differenziandosi

così dall’azione temporanea che si esprime attraverso il puro ricorso alla violenza fisica o alla

minaccia.

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Secondo Weber si devono distinguere vari tipi di potere a seconda della loro pretesa di

legittimità.

1. Il potere legal-razionale, costituisce il potere in quanto funzione collettiva,

legittimata da procedure certe, verificabili e socialmente condivise. È ciò che

avviene nel caso dell’elezione popolare della rappresentanza politica o in

quello dell’autorità burocratica codificata da procedure, tipo concorsi pubblici

e carriere amministrative. È questo il potere che tende sempre più a

caratterizzare le relazioni gerarchiche nella società moderna. Per Weber il tipo

più importante di potere legal-razionale è quello che si avvale di un apparato

amministrativo burocratico, che è per definizione imparziale, come prescrive la

cosiddetta etica del funzionario.

2. Il potere tradizionale, si basa, invece, sulla continuità, nel tempo, della

legittimazione e sulla sua efficacia rassicurante. È il caso delle sovranità

dinastiche, trasmesse per via ereditaria (es. la monarchia inglese). In una

rappresentazione estensiva, il concetto è associato alle grandi famiglie

imprenditoriali (es. la dinastia Agnelli).

3. Il potere carismatico, poggia sulla capacità di coloro che pretendono

obbedienza in base al proprio straordinario valore, di ordine morale, religioso

od eroico. Si fonda sull’attribuzione al leader di qualità straordinarie, che

lasciano immaginare una sorta di investitura sovrannaturale. (es. Gandhi,

Hitler).

La tipologia relativa alle diverse forme di potere è importante per più di un motivo: il suo

contributo sociologico poggia in modo più specifico sul fatto che Weber, contrariamente a molti

teorici politici, concepisce il potere in tutte le sue manifestazioni come espressione delle relazioni

tra coloro che esercitano il potere e coloro che sono tenuti all’obbedienza, piuttosto che come

attributo dei capi. Sebbene la sua nozione di carisma possa non essere stata espressa in una

definizione rigorosa, la sua importanza poggia sullo sviluppo dell’idea weberiana secondo cui il

capo deriva il suo ruolo dall’idea che coloro che sono tenuti all’obbedienza hanno della sua

missione.

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3 La stratificazione sociale

La concezione weberiana della stratificazione parte dall’analisi elaborata da Marx, ma la

modifica mettendo in rilievo anche altri fattori importanti oltre quelli dipendenti dal controllo dei

mezzi di produzione. Weber pone l’accento soprattutto sugli effetti che l’appartenenza a una

determinata classe ha sulle opportunità di vita di una persona, ossia sulla possibilità di ottenere tutto

ciò che in una determinata società è considerato desiderabile e di evitare quello che è giudicato

indesiderabile.

La concezione di Weber del concetto di classe è multidimensionale rispetto a quella

unidimensionale di Marx, perché introduce nuovi criteri di valutazione, come lo status politico o

potere, lo status economico o ricchezza, lo status sociale o prestigio. Ad esempio un individuo può

essere politicamente molto potente ma non ricco, oppure essere molto ricco ma non per questo

possedere prestigio, o ancora possedere prestigio ma essere povero.

Weber ritiene che le fonti delle disuguaglianze e i principi fondamentali della stratificazione

sociale vadano ricercati non solo nell’ambito dell’economia, ma anche nella sfera della cultura e in

quella della politica. Mentre nella sfera economica gli individui si uniscono sulla base di interessi

materiali comuni, formando le classi sociali, nella sfera della cultura essi seguono comuni interessi

ideali e danno origine ai ceti; nella sfera politica, infine, gli individui si associano in partiti o in

gruppi di potere per il controllo dell’apparato di dominio.

Nella definizione di classe, Weber non si allontanava troppo da Marx. «Il possesso e la

mancanza di possesso, scriveva, costituiscono le categorie fondamentali di tutte le situazioni di

classe»5. Tuttavia la teoria della stratificazione di Weber si differenzia da quella di Marx per il fatto

che egli introduce una categoria strutturale aggiuntiva, quella di «ceto». Weber riteneva che Marx

non fosse riuscito a vedere l’importanza di tale categoria proprio perché aveva concentrato la sua

attenzione esclusivamente sulla sfera produttiva. Dunque, secondo Weber non solo la classe, ma

anche il ceto e il gruppo di dominio sono fattori essenziali per la comprensione dei processi di

stratificazione.

Il concetto di ceto (fondato sul possesso e sulla gestione del potere), e più in particolare di

condizione di ceto acquista perciò in Weber fondamentale importanza. A differenza delle classi che

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possono essere come non essere raggruppamenti di carattere comunitario, i ceti normalmente sono

comunità che hanno a loro fondamento da un lato la consapevolezza che gli appartenenti ad esse

hanno del loro stile di vita (stesso gusto, stesse preferenze di consumo), e dall’altro la stima e la

considerazione che viene accordata loro dagli altri. I ceti si distinguono l’uno dall’altro per il

diverso grado di prestigio di cui godono.

«Definiamo “situazione di ceto”, ha scritto Max Weber, ogni componente tipica del destino di

gruppi di uomini, la quale sia condizionata da una specifica valutazione sociale, positiva o negativa,

dell’ “onore” che è legato a qualche qualità comune di una pluralità di uomini».

Questo ha importanti conseguenze. «L’onore di ceto si esprime normalmente soprattutto

nell’esigere una condotta di vita particolare da tutti coloro i quali vogliono appartenere ad una data

cerchia. Connessa con ciò è la limitazione dei rapporti sociali»6. Discende da tale situazione

l’aspettativa che vi siano limiti imposti ai rapporti sociali con coloro che non appartengono al ceto e

una pretesa distanza sociale dalle persone socialmente inferiori.

Secondo Weber, solo la condizione di ceto può assicurare una comune base dell’agire.

L’attenzione va quindi posta sui fattori anche psicologici, che determinano sia le condizioni

dell’agire individuale, sia la suddivisione stessa delle persone in gruppi sociali di diverso rango e

prestigio; ciò, senza trascurare la base per la comprensione della stratificazione sociale.

L’elemento costitutivo dell’essere sociale non è insomma per Weber semplicemente

l’appartenenza di classe, quanto piuttosto l’insieme di abitudini, tradizioni e idee che ogni

individuo, quale appartenente a un ceto, si vede indicate come fondamento del proprio agire. Ciò,

d’altra parte, non significa che la condizione di ceto vada pensata come indipendente da quella di

classe, giacché condizione di ceto e condizione di classe stanno fra loro in un rapporto che si gioca

a più livelli.

5 M. Weber, Economia e società, cit. p. 229

6 M. Weber, Economia e società, cit., pp.234-235

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Università telematica Pegaso Max Weber e la “scienza comprensiva dell’azione sociale”

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(L. 22.04.1941/n. 633)

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