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“Mondo carcerario: dalla reclusione alla inclusione”
Bortolotto Lucia Butnaru Valentina Ulinici Diana
Indice
- Introduzione
(Diana Ulinici)
- La cooperativa sociale Giotto nel carcere Due Palazzi di Padova
(Valentina Butnaru)
- “Più stelle meno sbarre”
(Lucia Bortolotto)
Introduzione
Art. 1 della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”
“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni
verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Tutti gli uomini nascono liberi e uguali, tutti hanno libertà di pensiero e di
espressione, tutti sono uguali davanti alla legge e possono chiedere asilo. Tutti
hanno il diritto alla vita. Tutti hanno diritto all’istruzione e a realizzare una
vita degna. Tutti, proprio tutti. Al di là della religione, della razza e del sesso e al
di là dello Stato in cui vivono.
Nessuno dei diritti sanciti nella presente Carta può essere usato per recare
pregiudizio alla dignità altrui e che la dignità della persona umana fa parte della
sostanza stessa dei diritti sanciti nella Carta.
Poiché la Dichiarazione si caratterizza per la sua universalità e quindi si
riferisce ad ogni persona senza distinzione alcuna per ragioni di razza, colore,
sesso, lingua, religione, opinione politica, ricchezza, nascita o altra condizione,
ne consegue sia rivolta anche alle persone sottoposte a limitazioni di libertà
personale.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo fissa alcuni dei principi base
per la tutela dei diritti delle persone limitate nella libertà personale. Offre in
generale delle indicazioni di come il sistema giudiziario/penale di ogni Paese
dovrebbe approcciarsi con la persona che a vario titolo subisce una condanna;
di seguito i principali:
Articolo 3
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria
persona.
Articolo 5
Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a punizione crudeli,
inumani o degradanti.
Articolo 7
Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna
discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad
una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente
Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.
Articolo 9
Nessuno individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto, esiliato.
Articolo 10
Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad un’equa e
pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della
determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri nonché della fondatezza di ogni
accusa penale che gli venga rivolta”.
Ritorno alla libertà dopo avere scontato la pena: si rinasce o si
muore una seconda volta?
Per una persona detenuta il giorno più bello è solo uno, quello della
scarcerazione. Ma spesso ci si dimentica che quando si chiudono alle spalle i
cancelli del carcere, inizia un nuovo percorso che può essere anche più difficile
della detenzione. Rientrare in famiglia, cercare un lavoro, affrontare una società
per cui sei ormai un "etichettato"
l recupero e l’inclusione dei carcerati ed ex carcerati è un aspetto fondamentale
nell’amministrazione della giustizia: troppo spesso l’esperienza della detenzione
finisce per rafforzare l’esclusione del condannato e spingerlo a rientrare negli
ambienti illegali e criminali.
Recuperare alla società chi è stato in galera è molto più di un atto di
solidarietà. E’ un principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione
italiana, che parla esplicitamente di rieducazione del condannato: “Le pene
non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono
tendere alla rieducazione del condannato”
Elemento fondamentale per rompere l’isolamento e offrire la possibilità di
ricominciare una nuova vita è la formazione al lavoro che, oltre a
essere una garanzia per il proprio sostentamento materiale, diventa anche
un’occasione di formazione in senso ampio, includendo un percorso di
rieducazione a valori come la legalità, l’impegno e il sacrificio.
Attraverso il reinserimento nel mondo del lavoro i detenuti hanno l’occasione di
poter dimostrare all’autorità ed all’azienda che apre le sue porte di poter
compiere un percorso di riabilitazione che parte dalla persona per concludersi
nell’esperienza lavorativa.
Il ruolo degli educatori e degli psicologi diventa molto importante nel risvegliare
le energie positive e creative in persone doppiamente segnate dall’esperienza
delle devianza: per la scelta dell’illegalità che le ha portate a delinquere e per
l’esperienza del carcere, spesso ancora più traumatica.
Il primo passo consiste nella rottura dell’isolamento sociale e morale in cui
viene a trovarsi il carcerato, per questo diventa importante creare occasioni di
relazione con il resto della società, sia attraverso il lavoro che con occasioni di
incontro.
Politiche per l’inclusione
Dall’inizio degli anni duemila si è assistito a un costante aumento della
popolazione carceraria sia a causa di leggi che hanno fortemente inasprito le
sanzioni previste in materia di immigrazione e consumo di droga e sia a causa
dell’alto tasso di recidiva, le stime parlano di valori vicini al 70%. La persistente
e grave condizione di sovraffollamento nelle carceri ha portato la Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo (CEDU) a condannare l’Italia nel 2013 per la violazione
sistematica dell’articolo 3 della Convenzione di Strasburgo, relativo ai
comportamenti disumani e degradanti, accusando inoltre l’Italia di non applicare
l’ottimo ordinamento penitenziario di cui dispone dal 1975. Negli ultimi anni si è
avviato pertanto un processo di cambiamento, in primis culturale, del
sistema carcere con l’obiettivo è di favorire un effettivo recupero e
reinserimento dell’individuo ristretto. L’alto tasso di recidiva è infatti indice di un
sistema non in grado di rieducare e reinserire nella società le persone detenute.
La Legge n. 354 del 1975, la riforma del sistema penitenziario italiano, prevede
che:
“L'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del
lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione
professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il
reinserimento sociale. Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è
remunerato”.
E questo non è un caso, infatti poco prima, la stessa Legge prevede: “ Il
trattamento del condannato e dell'internato è svolto avvalendosi principalmente
dell'istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e
sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con
la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al
condannato e all'internato è assicurato il lavoro.”
Perciò la Legge prevede che nelle carceri i detenuti svolgano un lavoro:
assicurato e remunerato, elemento fondamentale del trattamento rieducativo
del detenuto, al fine di fargli acquisire una preparazione professionale adeguata
agli standard reali che troverà all’esterno del carcere, in modo da agevolarne il
reinserimento sociale e quindi, abbassando la famosa recidiva di cui tutti
parlano, ma di cui nessuno (nemmeno il Ministro della Giustizia) conosce il dato
reale.
Per agevolare il reinserimento sociale dei detenuti, la
legge (legge Smuraglia) prevede sgravi fiscali per le
imprese che assumano detenuti o che svolgano attività
formative nei loro confronti. In particolare la popolazione
delle carceri rientra fra le categorie svantaggiate che le
cooperative sociali hanno l’obbligo di assumere nella
misura del 30%, usufruendo di agevolazioni contributive.
La legge Smuraglia sull'introduzione del lavoro in carcere
(22 giugno 2000, n° 193 - "Norme per favorire l'attività lavorativa dei detenuti") è
senz'altro un'iniziativa positiva purché tenga conto che il lavoro va inteso come
"riabilitazione sociale" e non come forma di coercizione o di lavoro forzato, cosa
che potrebbe addirittura risultare controproducente ai fini di un reinserimento
sociale dei detenuti.
Il Ministero del Lavoro ed il Ministero della Giustizia hanno firmato inoltre un
protocollo d’intesa rivolto a favorire l’attività lavorativa attraverso:
• La promozione di progetti di cooperative sociali formate anche da
detenuti, ex detenuti con l’applicazione di agevolazioni contributive
• Il sostegno all’attività di orientamento, formazione professionale e
inserimento lavorativo
• Il coinvolgimento delle Regioni nell’attività di promozione di interventi
mirati ai detenuti
Gli scopi di questi progetti oggi aspirano a cambiare attitudini ed interessi del
soggetto svantaggiato cercando di riportarlo verso un plastico di vita legittimo e
moralmente condiviso, grazie alla promozione di attività, laboratori, corsi di
formazione e opportunità lavorative.
Qual è la situazione del lavoro all’interno delle carceri in Italia?
Gli ultimi dati disponibili li ha forniti la sezione statistica del Dipartimento
dell'amministrazione penitenziaria (DAP) e si riferiscono al giorno della fine del
primo semestre 2016.
Qual è la differenza tra queste due tipologie di datori di lavoro (DAP e Società
esterne)?
AL 30 giugno 2016, il DAP ha rilevato 15.272 al
lavoro che equivalgono al 28,24% rispetto alle
54.072 persone ristrette quello stesso giorno.
Di quelle 15.272 persone che lavorano nelle
carceri, ben 12.903 svolgono lavori alle
dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria,
ed i restanti 2.369 detenuti invece, lavorano
“non alle dipendenze dell'Amministrazione
Penitenziaria”, cioè per cooperative, ditte e
società esterne.
✔ tipologia di lavoro che effettuano i detenuti
✔ periodo di tempo
✔ remunerazione
Quelli alle dipendenze del DAP si occupano di lavori essenzialmente
riconducibili alla gestione e funzionamento ordinario del carcere: spesino, porta-
vitto, pulizie etc. Sono lavori poco qualificanti che non possono essere
considerati tra quelli che offrono una “preparazione professionale adeguata alle
normali condizioni lavorative” esterne.
I detenuti alle dipendenze delle Società esterne sono persone impiegate per
esempio in lavori da assemblatore di componenti, call center, falegnameria,
ristorazione/pasticceria, sartoria, ecc.. lavori che possono essere utili a trovare
un impiego vero e sufficientemente remunerato, per ricostruirsi una vita
all’esterno del carcere, ma che riguardano solo il 4,38% di tutte le persone
detenute.
Perché solo il 4,38% dei detenuti (meno di uno ogni duecento) svolge un lavoro
che abbia la minima possibilità di consentirgli un reinserimento nella società?
Dipende forse dai detenuti che non hanno voglia di lavorare? Dalle leggi
finanziarie che tagliano i fondi per il lavoro nelle carceri? Dal mondo
imprenditoriale che non è capace a sfruttare le vantaggiose opportunità fiscali?
E quanto incide tutta questa inefficienza, sui costi sociali di lungo termine di un
elevato tasso di recidiva a cui andiamo inevitabilmente incontro?
Sono domande alle quali il DAP ancora non sa rispondere.
Percentuali reali sui detenuti coinvolti in attività lavorative utili
al reinserimento, 2016
Regione Capienza carceri
Detenuti presenti
Affollamento %
Lavoratori NON DAP
Lavoratori NON DAP %
Lavoratori DAP
Lavoratori DAP %
Abruzzo 1587 1705 107,44 23 1,35 517 30,32
Basilicata 474 505 106,54 4 0,79 185 36,63
Calabria 2657 2643 99,47 38 1,44 535 20,24
Campania
6093 6889 113,06 217 3,15 1384 20,09
Emilia Romagna
2800 3128 111,71 126 4,03 681 21,77
Friuli Venezia Giulia
476 620 130,25 13 2,10 110 17,74
Lazio 5267 5893 111,89 169 2,87 1340 22,74
Liguria 1109 1381 124,53 55 3,98 236 17,09
Lombardia
6120 7967 130,18 665 8,35 2136 26,81
Marche 863 853 98,84 23 2,70 239 28,02
Molise 263 319 121,29 10 3,13 84 26,33
Piemonte 3840 3682 95,89 158 4,29 898 24,39
Puglia 2359 3180 134,8 104 3,27 773 24,31
Sardegna 2633 2062 78,31 79 3,83 613 29,74
Sicilia 5892 5899 100,12 73 1,24 1188 20,14
Toscana 3406 3211 94,27 201 6,45 987 30,74
Trentino Alto Adige
506 424 83,79 19 4,48 89 20,99
Umbria 1336 1399 104,72 24 1,72 379 27,09
Valle D’Aosta
181 176 97,24 3 1,70 46 26,14
Veneto 1839 2136 116,15 359 16,81 483 22,61
Totali 49701 54072 Media: 108,79
2369 4,38 12903 23,86
Tabella 1: Altalex, 30 gennaio 2017. Articolo di Federico Olivo)
Perché creare opportunità di lavoro all'interno del carcere è
così importante per i detenuti, e quindi per l'intera società?
Rimanere nell'inattività, aspettando che il tempo passi senza scopo, non avere
nessuna occupazione intellettuale o manuale, non permette di riflettere
sulla propria vita, su se stessi e sulle situazioni che hanno portato a vivere
nell'illegalità o ad essere incarcerato: insomma, non aiuta a migliorarsi.
L'occupazione in ogni ambito produce salute mentale, e per questo è
importante che negli istituti penitenziari venga offerta la possibilità di
professionalizzarsi, imparare un mestiere, studiare, avere un lavoro retribuito, in
modo che chi sconta la pena possa strutturare la fiducia in sé stesso, negli altri,
nelle istituzioni e nello Stato. In caso contrario potrebbe persistere un senso di
desolante solitudine che spesso porta a ripercorrere strade note, non
buone, non di rado più pericolose, vissute come l'unica possibilità per non
sentirsi emarginati, persi, finiti, o per sentirsi, per quanto illusoriamente,
'qualcuno'.
Come ogni cambiamento, quello della riabilitazione dei detenuti attraverso
l'attività professionale è dunque un processo che ha i suoi tempi, a volte anche
lunghi, e che richiede un contatto assiduo e costante con professionisti della
riabilitazione psicologica, sociale e lavorativa. È un processo che può iniziare
dentro il carcere, ma che poi deve poter proseguire anche fuori. Perché è nella
continuità che avvengono, si consolidano e stabilizzano tutti cambiamenti (cit.).
Ostacoli all’inclusione sociale: le difficoltà di inserimento o reinserimento lavorativo delle persone in uscita dalla detenzione
1. Livello di istruzione
La popolazione detenuta in Italia – così come in tutti i paesi occidentali – si
caratterizza per un livelli di istruzione molto inferiore alla media e per una
scarsissima professionalità acquisita prima della carcerazione.
Pene accessorie
Casellario giudizirio Pregiudizi della società
Il ruolo della famiglia
Livello di istruzione
A questi deficit di tipo scolastico, formativo e professionale si aggiungono
le difficoltà di accesso nel mondo del lavoro derivanti da alcune
caratteristiche del profilo socio-demografico della popolazione detenuta.
Prima tra queste, l’età non più giovane della maggioranza delle persone
recluse, che costituisce ovviamente un ostacolo aggiuntivo all’inserimento
lavorativo alla fine della pena. Più della metà dei detenuti in Italia oggi
hanno più di trentacinque anni di età e addirittura più di un terzo hanno
più di quarant’anni.
2. Pene accessorie
La legge impone dei paletti che devono essere rispettati e che in alcuni casi
possono rappresentare una grave limitazione alle ambizioni ed al desiderio di
rivalsa del detenuto.
Parliamo delle cosiddette pene accessorie, ovvero quelle condanne in
affiancamento alla pena detentiva che per un determinato periodo di tempo
vincolano la libertà dell’individuo
vietando l’accesso ad alcuni settori professionali e riducendo significativamente
gli ambiti e la possibilità del reinserimento sociale e lavorativo. Queste
esercitano effetti temporanei e perpetui, determinando l’impossibilità a chi vuole
dissociarsi da quelle che sono state le azioni del passato ed aprirsi una
prospettiva di riscatto sociale.
L’art. 19 c.p. elenca le pene accessorie previste nel nostro ordinamento; esse si
distinguono a seconda che seguano alla condanna per un delitto o per una
contravvenzione:
Le pene accessorie per i delitti sono:
1) l’interdizione dai pubblici uffici;
2) l’interdizione da una professione o da un’arte;
3) l’interdizione legale;
4) l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese;
5) l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione;
5-bis) l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro (numero inserito dalla l. 27
marzo 2001, n. 97);
6) la decadenza o la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori.
Le pene accessorie per le contravvenzioni sono:
1) la sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte;2) la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazionedella sentenza penale di condanna.
Le pene accessorie possono essere temporanee o perpetue: se la pena è
temporanea la durata è fissata dalla legge o ai sensi dell’art. 37 c.p., il quale
dispone che “la pena accessoria ha durata eguale a quella della pena
principale inflitta, o che dovrebbe scontarsi, nel caso di conversione, per
insolvibilità del condannato. Tuttavia, in nessun caso essa può oltrepassare il
limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena
accessoria”; al fine di non svuotare di contenuto affittivo le sanzioni accessorie,
l’art. 139 c.p. prevede che “nel computo delle pene accessorie temporanee non
si tiene conto del tempo in cui il condannato sconta la pena detentiva o è
sottoposto a misura di sicurezza detentiva, né del tempo in cui egli si è sottratto
volontariamente all’esecuzione della pena o della misura di sicurezza”
3. Il casellario giudiziario
Il casellario giudiziale o giudiziario è uno schedario istituito presso la Procura
della Repubblica di ogni tribunale e ha lo scopo di raccogliere e conservare gli
estratti dei provvedimenti relativi ai precedenti penali e civili di ogni cittadino.
Il casellario giudiziale va diviso in tre diverse tipologie (civile, penale,
generale) dalle quali deriveranno altrettanti certificati.
1. Il certificato generale viene utilizzato in caso di assunzioni da parte di
Pubbliche Amministrazioni, per la richiesta del permesso di soggiorno, per le
pratiche di
adozione, ecc
e contiene le sentenze passate in giudicato a carico del richiedente in materia
penale, civile ed amministrativa.
2. Quella che comunemente noi chiamiamo “fedina penale” è propriamente
denominata, in gergo tecnico, come “certificato penale”.
Il certificato penale è un compendio di tutte le registrazioni penali che sono
state iscritte nel “casellario giudiziale” e, in sostanza, contiene tutte le condanne
penali passate del cittadino interessato.
Sono però escluse da questo documento tutti quei procedimenti ancora in
corso, denominati “carichi pendenti”, che trovano invece spazio all’interno di
un altro documento.
Essere pregiudicati significa avere precedenti penali: in pratica, si è pregiudicati
solo quando è presente una iscrizione nel casellario giudiziale, dopo che il
processo si è chiuso e la sentenza o decreto penale di condanna sono definitivi.
In tutte le altre ipotesi semplicemente si ha un carico pendente, cioè un
procedimento in corso che ancora non si è chiuso. Nel momento in cui il
procedimento/processo si concluderà con una condanna e questa diventerà
definitiva, l’iscrizione verrà cancellata dai carichi pendenti e passerà nel
casellario giudiziale.
Il certificato penale inoltre, non riporta le condanne pronunciate dal giudice di
pace, quelle per contravvenzioni punibili con la sola ammenda o per le quali è
stato concesso il beneficio della “non menzione”, così come le condanne per
reati estinti.
Tutte le autorità che hanno giurisdizione penale, nonché quella parte della
pubblica amministrazione cui la legge lo consente, possono consultare le fedine
penali. Questo perché vi sono dei reati che qualora accertati definitivamente,
possono ostacolare il cittadino per l'ammissione ai concorsi pubblici o anche
impedire, più o meno parzialmente, l'esercizio dell'elettorato attivo e passivo .
Anche diversi enti privati richiedono, più o meno direttamente, di visionare la
fedina penale dei soggetti che si apprestano ad assumere. Tuttavia, se richiesto
dai privati, taluni tipi di condanne o di pronunce penali possono risultare
omesse in modo da permettere ai “condannanti” di apparire ugualmente
incensurati di fronte agli enti o alle società private che li assumeranno: è chiaro
che tale trattamento è riservato esclusivamente a tipologie di reati molto
“piccole”, o comunque non davvero gravi. Tuttavia sia la pubblica
amministrazione che la magistratura hanno il diritto di vedere la fedina sempre
completa.
Fedina penale sporca: si può ripulirla?
Ad eccezione di alcune ipotesi particolari (ad esempio, le condanne emesse dal
giudice di pace per reati lievi), le iscrizioni non si cancellano: in pratica,
l’iscrizione penale sarà sempre presente nel casellario e produrrà i suoi effetti
per sempre. Tuttavia, è possibile limitare gli effetti negativi attraverso due
strumenti in particolare: la riabilitazione e l’incidente d’esecuzione in caso di
patteggiamento o decreto penale di condanna. In questo modo, pur non
cancellando l’iscrizione, accanto ad essa verrà aggiunta una dicitura che
reciterà “reato estinto” e il precedente non avrà più alcun effetto, ripristinando la
facoltà giuridiche perse con la condanna.
3. Il certificato civile, infine, contiene i provvedimenti relativi alla capacità della
persona (interdizione giudiziale, inabilitazione, interdizione legale,
amministrazione di sostegno), i provvedimenti relativi ai fallimenti (i quali non
sono più iscrivibili dal 1°gennaio 2008) e i provvedimenti di espulsione.
14 settembre 2010
Questo articolo parla di L.R, un uomo di 42 anni che “da anni sta cercando di
rifarsi una vita. Di lavorare, per poter mantenere la sua famiglia. Ma ogni volta
che il lavoro, lo trova, poi si sente dire sempre la stessa cosa: «Per lei il posto
non c'è più»”.
La colpa è di quella fedina penale sporca, che sembra non pulirsi mai. Vent'anni
fa una condanna per spaccio. Dieci anni. Poi l'uscita dal carcere, i domiciliari,
l'affidamento ai servizi sociali. Il conto con la giustizia pagato. E il lavoro, che
però non c'è.
Fino a qualche anno fa un lavoro ce l'aveva. Faceva l'escavatorista, l'autista e il
saldatore in un 'azienda. “E ora - dice L.R- ogni volta che busso alla porta di
una ditta, mi si dice sempre la stessa cosa. Prima dicono di sì, valutano le mie
esperienze professionali. Poi si informano, e appena spuntano i miei precedenti
penali, mi dicono che non c'è posto”.
L.R. , negli ultimi mesi, ha chiesto lavoro ad almeno tre aziende edili. «Una ditta
di Grosseto cercava un operaio - dice - mi presento e mi dicono di tornare dopo
qualche giorno per firmare il contratto. Poi invece, cambiano idea. Dicono che
quel posto non c'è più. E scopro che hanno assunto un mio amico».
Stessa cosa qualche settimana dopo: «Scopro che c'è un'azienda che cerca un
operaio. Di nuovo invio il curriculum e vengo invitato al colloquio. Mi
propongono un contratto, mi dicono che non possono assumermi come operaio
specializzato, ma accetto lo stesso. Il venerdì è tutto a posto. Il lunedì mi
chiamano, e mi dicono che di questa cosa non se ne fa niente». È bastata una
telefonata. Un'informazione.
L.R. , sta continuando a cercare lavoro. Ma non lo trova. «Già non sono tempi
facili - dice - e poi non c'è nessuno che mi dia fiducia. Eppure, quando ho
lavorato, ho sempre fatto quello che c'era da fare senza perdere nemmeno un
giorno».
Conclusioni
Tutto questo fa riflettere sul fatto che diventa molto difficile la risocializzazione
del condannato nel momento in cui si ha “la diffusione” della notizia di un reato
precedente: questo creerà sicuramente pregiudizio nei confronti della persona
ex-detenuta.
Una divulgazione forzata – determinata dalla richiesta di esibire un proprio
certificato – di dati relativi a sentenze di condanna, infatti, compromette sia la
riservatezza della persona, sia impedisce il concreto reinserimento del
condannato nella società, essendo così costretto a patire gli effetti della pena
anche dopo la sua espiazione.
Tale certificazione in generale ha sicuramente una funzione utile per il sistema
giudiziario ma dannosa per chi deve ricominciare a vivere.
4. Pregiudizi
Un altro problema è dato dall’”etichettamento” da parte della società esterna.
Nella società vi sono pregiudizi rispetto a coloro che hanno compiuto
reati: è difficile perdonare, riconoscere che colui che è stato detenuto
possa ricominciare a “vivere”.
L’ex detenuto, come ogni altra figura di ‘diverso’, è oggetto di opinioni, di
comunicazioni, di reazioni sociali, che ne definiscono l’identità, il ruolo, il destino
e che ne determinano l’immagine sociale. Gli ex detenuti vengono visti
come persone ‘malvagie’ che coscientemente ‘decidono’ di commettere
un reato e devono essere punite perché ‘se lo meritano’. Lo stereotipo
criminale in particolare viene associato ad un
concetto di ‘impossibilità di cambiamento’
Tutti meritano una seconda possibilità. A parole ne siamo convinti. Ma, se
si tratta di mostrare un’apertura nei confronti di chi è finito in carcere per espiare
la propria pena, non sempre mettiamo in pratica questo principio. Spesso, per
paura, pregiudizio e diffidenza, emarginiamo i detenuti. Anche quando sono
usciti di galera e cercano di rifarsi una vita. Si crea una sorta di muro
impenetrabile tra noi, le cosiddette persone ‘civili’ e gli ex carcerati. Con la
conseguenza che chi è stato in prigione finisce per tornarci.
Può capitare che un ex-detenuto possa essere bollato da parte dei colleghi
nonostante non abbia mostrato alcun comportamento deviante nella sede del
lavoro. E questo può rappresentare un problema dal punto di vista umano, in
quanto il detenuto sente di non poter mai evadere dalla propria situazione.
5. Ruolo delle famiglie
La presenza di legami sociali e familiari è il cuore dell’intervento con le persone
che iniziano un reinserimento sociale. Ci sono alti tassi di recidiva soprattutto
per coloro che non ricevono supporto affettivo e non hanno legami sociali
significativi durante la detenzione.
Un articolo del Probation Journal esamina il potenziale ruolo delle famiglie dei
detenuti, introducendo il concetto di capitale sociale. Si può comprendere in
maniera immediata la possibilità per un ex-detenuto di ricevere un aiuto pratico,
come un lavoro, ed economico grazie alle reti familiari e amicali di cui dispone,
dal momento che le famiglie possono attivare circoli relazionali in grado di
aiutare l’individuo, cosa che da solo non sarebbe riuscito a fare. Oltre ad aiuti
materiali, la presenza di legami significativi aiuta il soggetto a desistere dal
commettere nuovamente reati, sostenendolo nella nuova vita all’insegna della
legalità.
Tuttavia, è possibile rintracciare anche alcune difficoltà: innanzitutto, le famiglie
di chi si trova ristretto spesso non hanno a disposizione aiuti sociali importanti,
vivono in condizioni fatiscenti, sono a loro volta al di fuori del mercato del lavoro
e, pertanto, non possiedono forme di capitale sociale sufficiente a prestare aiuto
al termine della pena. Allo stesso modo, è difficile mantenere durante il periodo
detentivo relazioni gratificanti che possano poi continuare all’esterno del
carcere, poiché il tempo concesso per i colloqui è sempre troppo poco e, di
frequente, la distanza tra il luogo di vita della famiglia e il carcere è tanta. Tutto
ciò rende problematico l’incontro tra la persona detenuta e i propri cari.
E’ legittimo a questo punto chiedersi: quando cessa di produrre effetti la
pena?
Nella società vi sono pregiudizi rispetto a coloro che hanno compiuto reati: è
difficile perdonare, riconoscere che colui che è stato detenuto possa
ricominciare a “vivere”.
Lo Stato non aiuta a superare questo pregiudizio nel momento in cui mantiene
in vita strumenti quali le pene accessorie o il casellario giudiziale, che anche
dopo lo sconto di pena, non cancellano il passato.
Il lavoro per il detenuto non è solo una occupazione ma è, prima di tutto, la
soddisfazione di un suo bisogno, una ragione di vita, una opportunità a livello
personale per rimettersi in gioco e per riscoprire risorse, abilità e potenzialità
che molto spesso non sapeva nemmeno di possedere e che, all’interno di un
sistema relazionale, gli consentono di riacquistare fiducia in se stesso.
Il fatto di essere impegnati in prima persona in azioni produttive significa anche
assumersene la responsabilità, un acquisizione di responsabilità che non è
solo responsabilità di sé stessi, ma anche del proprio processo formativo, dei
legami relazionali ed affettivi nei quali si è inseriti, per poi diventare
responsabilità nei confronti dell’intera comunità sociale.
In generale si può dire che il lavoro determina, nella maggior parte dei casi,
grandi cambiamenti nella personalità dell’individuo.
Spesso ci si dimentica che i detenuti sono anche soggetti di diritti e la loro
realtà, o meglio il loro vivere quotidiano, non deve essere solo costituito da
sbarre, cancelli, rumore di chiavi e guardie.
nel carcere Due Palazzi di Padova
Un po' di storia...
Giotto è una cooperativa sociale di tipo B regolata dalla legge 381/1991. In
quanto tale, integra persone svantaggiate nel mercato del lavoro. In base a
quanto previsto dalle disposizioni di legge, i soggetti a cui rivolge il suo operato
sono persone con disabilità fisica e mentale, con storie di tossicodipendenza e
alcolismo, con disturbi dello sviluppo e i detenuti, ai quali abbiamo posto una
particolare attenzione nella nostra ricerca.
La Cooperativa, con sede a Padova, viene creata nel 1986 da alcuni giovani
appena laureati all'Università di Padova: un gruppo di amici appassionati di temi
ambientali e di cura del verde pubblico e privato. Dunque, la sua prima attività è
stata principalmente la progettazione, la realizzazione e la manutenzione delle
aree verdi.
Quanto segue è scritto sulla base dell'intervista tenutasi in data 31 maggio
2018, alla quale si è gentilmente prestato il Vicepresidente della cooperativa
sociale Giotto, Andrea Basso.
Come siete arrivati nella casa di reclusione di Padova ?
“Nella casa di reclusione Due Palazzi siamo entrati per caso. Nel 1990
abbiamo preso parte a una gara indetta dall'amministrazione del carcere per la
sitemazione delle aree verdi al suo interno. I lavori per la sua costruzione erano
finiti 5 anni prima , ma è rimasta chiusa e gli spazi esterni si sono degradati.
Oltre a presentare la nostra offerta economica, abbiamo proposto alla direzione
del carcere di non appaltare il lavoro, ma di darci la possibilità di formare a
questo scopo i detenuti che, attraverso il lavoro, avrebbero potuto apprendere
un mestiere. Il direttore del carcere annullò la gara e ci concesse di dare via a
un corso di giardinaggio per 20 detenuti. Pertanto, nel 1998, in un'area di 8.000
mq, abbiamo realizzato il primo <<Parco didattico>> dove iniziarono a tenersi
lezioni pratiche di giardinaggio. ”
Con il passare del tempo, come si è ampliato il campo delle attività ?
“Nel 2001 il Parlamento vara i decreti attuativi della cosidetta <<legge
Smuraglia>>, la legge 193/2000 che, fino ad oggi, prevede agevolazioni fiscali
per le aziende che assumono detenuti sia all'interno degli istituti penitenziari
che in attività esterne. Proprio alcune settimane dopo l'attuazione della legge,
abbaimo trasformato un cappanone inutilizzato in un laboratorio artigianale per
la produzione di manichini di cartapesta per l'alta moda, realizzati secondo una
tecnica tradizionale toscana. Il laboratorio ha continuato a operare con il
coinvolgimento dei detenuti fino al 2008.
Nel 2004 ci viene affidato dal Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria il
confezionamento dei pasti del carcere Due Palazzi, utilizzando la cucina
dell'istituto. La strategia sperimentale del Dipartimento dell'Amministrazione
penitenziaria su scala nazionale prevede che ci siano dieci penitenziari italiani
che affidano i propri servzi di ristorazione a organizzazioni non profit.
Lavori a Chioggia assieme al direttore generale USL di Venezia, Giuseppe Dal Ben
Il progetto del Ministero considerava qualificante ampliare l'offerta lavorativa per
i detenuti anche con lavorazioni rivolte all'esterno. Perciò, abbiamo pensato di
coinvolgere la cooperativa sociale Work Crossing, trasferendo a essa la
gestione delle cucine e invitandola a portare nel carcere un piccolo laboratorio
di pasticceria esistente da anni a Padova.
Le specialità erano le colombe pasquali e i panettoni, questi ultimi prodotti in
circa 4.000 pezzi l'anno. Nasce così la pasticceria che produce artigianalmente
uno dei dolci più tipici della tradizione italiana, il panettone, e altri prodotti, con
un'importante impatto sociale e grande risonanza in Italia e all'estero. Da allora i
<< Dolci di Giotto>> ricevono quasi ogni anno alcuni tra i premi più prestigiosi
del mondo dell'enogastronomia, come ad esempio il premio '' Dino Villani'' da
parte dell’Accademia della Cucina Italiana del 2010.
Una piccola introduzione la si trova al seguente link:
https://youtu.be/rvuhpGLAPHo
Con il passare del tempo abbiamo cercato di diversificare le attività per
intercettare al meglio le attitudini e le inclinazioni dei lavoratori, tenendo conto
del fatto che la maggior
parte di essi non aveva mai lavorato o, se l'avevano fatto, avevano avuto delle
esperienze molto poco significative. Così, solo un anno più tardi, abbiamo
aperto un call center all'interno del carcere Due Palazzi, per fornire ai detenuti
un'ulteriore opportunità di crescita professionale. Questo significa diversificare
le attività e anche avviare nuove lavorazioni, facilitando l'assunzione di nuovo
personale detenuto. In effetti, l'anno 2005 vede l'apertura del laboratorio di
valigie Roncato e del laboratorio di gioielli Morellato, quest'ultimo in funzione
fino al 2011. Tutte queste attività lavorative vengono inaugurate ufficialmente il 7
novembre 2005. Tale data rappresenta la nostra prima <<uscita pubblica>>,
che presenta alla cittadinanza e ai mezzi di comunicazione il lavoro svolto
da parte della nostra Cooperativa al Due Palazzi.
La nostra attività nella casa di reclusione viene ancora una volta ampliata nel
2009 quando, in collaborazione con Infocert, si crea un laboratorio per la
produzione e la programmazione delle business key, drive pen USB per la firma
digitale e la digitalizzazione di documenti; nel frattempo viene aperta anche
un'officina per la produzione delle biciclette per conto di un'importante azienda
del settore con marchi famosi in Italia e all'estero.'
Come viene organizzato il lavoro ?
''La settimana lavorativa dei detenuti va dalle 24 ore alle 36 ore, con variazioni
che dipendono dalle diverse esigenze settimanali. E qui penso che valga la
pena descrivere bervemente le caratteristiche di ogni mestiere, l'impegno e la
dedizione che i detenuti ci mettono per realizzarlo.
Il catering, la pasticceria e la ristorazione sono attività alimentari che
comprendono la preparazione di colazione, pranzo e cena per tutti i detenuti
oltre alla produzione di diversi semilavorati per il mercato esterno, dalle insalate
alla macedonia a vari tipi di pasticceria salata, panini e tramezzini.
Nella pasticceria, posizionata in un'area diversa e indipendente dalla cucina,
vengono sfornati prodotti di alta qualità artigianale. La linea principale è quella
dei <<Dolci Giotto>> con in testa il panettone, più volte premiato e offerto al
pubblico in diverse versioni, e la colomba pasquale anche'essa proposta in
varie tipologie. La linea è completata da un nutrito assortimento di dolci da forno
e biscotti. I <<Dolci di Antonio>> invece nascono dall'interesse da parte dei
maestri pasticceri e dei detenuti per la figura di Sant'Antonio, che durante la sua
breve vita dimostrò sempre attenzione ai carcerati con iniziative socialmente
rilevanti a loro favore. Grazie alla collaborazione con i Frati della Basilica del
Santo, attraverso il recupero di notizie storiche del Medioevo, e lunghe
sperimentazioni sugli ingredienti e le ricette dell'epoca, è nata una linea di dolci
dai sapori antichi come la <<Noce del Santo>>. A tutto ciò si aggiunge la
pasticceria fresca, dolce e salata che ogni giorno esce dal laboratorio del
carcere per fornire bar, ristoranti e strutture di ristorazione collettiva del
territorio. C'è da aggiungere inoltre che , rispetto alla cucina, la pasticceria
Giotto prevede anche la commercializzazione dei prodotti all'estero, in base al
principio che tutti i prodotti e i servizi devono essere competitivi sul mercato.
La configurazione del laboratorio soddisfa tutte le condizioni disposte dalla
legge 81/2008: formazione obbligatoria e attività di sviluppo per tutti i lavoratori,
fornitura dei materiali e dei dispositivi di protezione richiesti per il lavoro,
informazione completa sui possibili rischi e pericoli da parte di professionisti
accreditati alla sicurezza sul lavoro. In più, la cucina si conforma rigorosamente
a tutte le normative vigenti in materia di analisi dei rischi e controllo delle criticità
in materia di igiene e sicurezza. Tre cuochi professionisti e tre maestri
pasticceri affiancano i detenuti, oltre a due dirigenti che supervisionano l'intero
processo. Altri professionisti, chef e pasticceri, tengono occasionalmente
seminari di aggiornamento professionale. Questi laboratori mirano ad
accrescere la competenza dei detenuti e, allo stesso tempo, permettono loro
di incontrare professionisti animati da passione per il loro lavoro, fattore
quest'ultimo ritenuto fondamentale nel processo di recupero.
Il successivo laboratorio che vorrei descrivere è la fabbrica di valigie, che si
occupa dell'assemblaggio di parti delle valigie Roncato. Tutte le componenti del
bagaglio di alta qualità vengono realizzate all'interno del laboratorio per essere
poi spedite direttamente allo stabilimento principale dell'azienda, dove sono
indirizzate su diverse linee di produzione.
L'intero processo viene eseguito in conformità a standard rigorosi: il controllo
della qualità viene attuato internamente con risultati ottimali in termini di
precisione e minima quantità di prodotto non conforme. Il metodo di produzione
richiede che i detenuti lavorino in modo altamente collaborativo: ciascuno ha il
proprio compito che contribuisce alla realizzazione del prodotto finale. La
comunicazione nella risoluzione delle inevitabili difficoltà risulta elemento
essenziale nella creazione di un gruppo coeso e di elevata efficienza.
Per quanto riguarda l'officina di bicilette, dal 2009 la casa di reclusione è sede
anche di uno spazio secodo per la produzione di biciclette per la società
Esperia. I detenuti producono svariate linee di biciclette con marchi storici:
Torpado, Legnano, Bottecchia, Fondriest. Il modello in costruzione cambia ogni
due o tre giorni: non raramente si tratta di modelli di punta dell'azienda, con
teconologie di avanguardia. I requisiti della certificazione dell'Unione Europea
sono rigorosamente rispettati e controllati: una volta completato l'assemblaggio,
le biciclette vengono spedite ai venditori. Ancor più del laboratorio di valigie, il
lavoro richiede massima collaborazione tra i detenuti e rigorose
verifiche di qualità.
Per le attività di business key e digitalizzazione dei documenti cartacei è
intervenuta la specializzata società Infocert. Questi sistemi comprendono la
gestione dei documenti, i sistemi di archiviazione dati, l'e-mail certificata,
soluzioni di Enterprise Content Management e le firme digitali. In quest'ultimo
settore Infocert ha realizzato la Business key, una chiavetta USB che permette
all'utente di firmare i documenti digitalmente e archiviare con sicurezza i dati
personali. I lavoratori della nostra Cooperativa le assemblano in un laboratorio
del Due Palazzi dal 2009, adattandole alle esigenze dei
singoli clienti. Le Business key - se ne producono fino a 20.000 al mese -
arrivano direttamente a tutte le Camere di commercio d'Italia, alle associazioni
professionali e a importanti organizzazioni nazionali. La collaborazione con
Infocert prevede altresì l'impiego di detenuti nella digitalizzazione dei documenti
cartecei. Questo lavoro viene eseguito con macchinari di ultima generazione e
comporta l'elaborazione digitale, precisa e ad alta velocità, di ogni singolo tipo
di documento cartaceo. I fogli lavorati sono circa 200.000 / 250.000 al mese.
I servizi di call center, che attualemte impiega il numero più alto di detenuti,
prevedono sia telefonate in entrata ( numeri verdi e servizio di assitenza clienti)
sia in uscita (customer satisfaction e telemarketing). Uno dei clienti più
importamti è il provider di energia elettrica e gas Illumia, per il quale non solo
affettuano chiamate di accoglienza ma verificano anche i nuovi contratti e
controllano la documentazione.
Tra i clienti passati va ricordato il gestore di servizi internet e telefonici Fastweb,
mentre l'altro principale cliente è il sistema ospedaliero e sanitario di Padova. I
detenuti prenotano gli appuntamenti per gli esami diagnostici e visite
specialistiche con un volume di circa 100.000 contatti all'anno. In seguito
quest'ultimo servizio è stato esteso anche da parte del sistema sanitario di
Venezia.
Il lavoro del call center è complesso: la competenza teconologica è un requisito
fondamentale per operare con il software e le esigenze degli utenti richiedono
una preparazione specifica unita a una notevole esperienza, senza contare che
i detenuti devono mettere in gioco la propria capacità relazionale per indirizzare
chi chiama alla soluzione più corretta. Il servizio è operativo 10 ore al giono dal
lunedì al venerdì e il sabato mattina. Queste fnzioni richiedono una formazione
di vari mesi, comprensiva degli aspetti relazionali: i detenuti devono essere
formati anche a una corretta interazione con gli utenti esterni all'istituto, con un
alto livello di flessibilità. A tal fine, sia i detenuti, sia i non detenuti che lavorano
con loro, sono tenuti a frequentare continui corsi di aggiornamento. I risultati
sono testimoniati dalle numerose attenzioni che il call center riceve dagli utenti.
Il presidente di Illumina, Francesco Bernardi, e i dirigenti dell'Ospedale di
Padova hanno elogiato più volte gli operatori riconoscendone la <<particolare
sensibilità>> sulla base dell'elevata soddisfazione degli utenti.”
Quali sono i detenuti che possono lavorare?
“Alle attività lavorative possono accedere soltanto coloro che arrivano al
beneficio ed è una decisione presa da più organi. Il primo passo è affettuato dal
giudice dell'esecuzione penale, quindi da quello che è stato deciso in sentenza
a livello processuale. Il secondo invece, dal magistrato di sorveglianza che, in
base all'iter che ogni detenuto ha eseguito, decide se concedere il beneficio o
meno. Naturalmente, per chi avesse commesso un reato piccolo il beneficio
arriva prima, per chi commette un reato più grave invece, il percorso è più
lungo. La legge italiana prevede l'accesso ai benfici a tutti i detenuti, tranne per
coloro che hanno l'ergastolo ostativo (in Italia riguarda circa 200 detenuti).
Anche per coloro che hanno l'ergastolo - non ostativo - c'è la possibilità di
accedere ai benefici anche se la pratica da eseguire è molto più lunga.”
Mi può dare qualche numero ?
Numero di dipendenti annuali della Giotto operanti nel Due Palazzi dal 2001 al
2014
E oggi ?
“Attualmente, su 580 detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi, noi
impieghiamo intorno ai 140. Rispetto ad altri carceri italiani, questo rappresenta
un numero alto, se si pensa che, a livello nazionale, ci sono circa 800 detenuti
che lavorano - su circa 200 carceri - coordinati dalle cooperative , e soltanto a
Padova abbiamo 180 lavoratori. Un risultato bello ma non ancora soddisfacente
perché a livello normativo siamo tra i primi paesi al mondo, abbiamo una
legislazione molto avanzata. Tuttavia il problema sta nel fatto che è poco
applicata. L'Italia ha 58.000 detenuti e soltanto 800 lavorano. I dati
quindi sono chiari. Il discorso che spesso i dirigenti dell'Amministrazione
penitenziari fanno è legato al fatto che oltre a questi ci sono altri 12 / 13 mila
che sono dedicati ai cosiddetti lavori domestici, cioè pulire gli spazi comuni, fare
la spesa per gli altri, fare lavanderia ecc. Non si può parlare di un vero lavoro
ma piuttosto di occupazioni sporadiche e poco qualificate, con una paga più che
simbolica, senza alcun tipo di formazione, accompagnamento e spesso
nemmeno valutazione. Considerato da vari osservatori come un sussidio
assistenzialistico e diseducativo, questi lavori, inoltre, non dotano la persona di
una professionalità spendibile una volta usciti dal carcere.”
Che criteri di selezione vengono adottati e chi esegue le selezioni ?
''I detenuti che si candidano a lavorare per la nostra Cooperativa hanno la
possibilità di farlo attraverso due strade principali. Alcuni si essi, interessati
all'impiego, possono presentarci direttamente una richiesta scritta, mentre i
nominativi di altri sono proposti dagli educatori della casa di reclusione e
dall'Ufficio Comando degli agenti di Polizia penitenziaria, in genere sulla base di
una valutazione relativa all'utilità del lavoro per il percorso di tali persone.
In seguito, le candidature vengono esaminate dal nostro Ufficio Sociale,
composto da tre psicologhe del lavoro e altri operatori, a cui fa capo la
supervisione del processo di selezione.
Di fronte alle segnalazioni di candidati al lavoro in carcere, l'Ufficio Sociale
verifica se il richiedente soddisfa i requisiti formali per il lavoro, accertando che
vi siano riserve o obiezioni da parte dell'Amministrazione penitenziaria in merito.
In seguito, le psicologhe organizzano incontri individuali con ciascun candidato
per rispondere ad alcune domande. Queste interviste durano circa 45 minuti e
sono condotte nelle aree del carcere dove si trovano le celle dei detenuti. Le
due psicologhe raccolgono i dati biografici essenziali e danno un giudizio
preliminare sull'idoneità del candidato. Coloro che mostrano un potenziale e
soprattutto una motivazione per essere parte del nostro cosiddetto ''Modello
Giotto'', iniziano un periodo di formazione, che è quasi interamente
on the job e che può durare anche fino a nove mesi. Va inoltre chiarito, come
avevo accennato prima, che alcuni di loro non ha alle spalle significative
esperienze di lavoro e qui siamo in presenza di oltre il 90%.
L'Ufficio Sociale cerca di collocare ogni lavoratore nell'area più adatta alle sue
capacità, sempre fornendogli ampie opportunità di sviluppo personale e
professionale. L'apprendista inizia a lavorare affiancato da un accompagnatore
che di norma è un dipendente esterno o un detenuto con maggiore esperienza.
Noi riteniamo opportuno chiamare e considerare queste guide <<maestri di
bottega>>, in quanto sono professionisti con notevole esperienza e
specializzazione, che agiscono da supervisori e
formatori. Nei primi tre mesi del periodo di formazione la giornata lavorativa del
detenuto non supera in generale le quattro ore. Questo tetto è stato fissato per
garantire una transizione graduale dalla <<normale>> vita detentiva al lavoro. In
più, nel periodo di formazione, i componenti dell'Ufficio Sociale si incontrano
ogni 15 giorni con lo staff responsabile della produzione per valutare il
rendimento dei lavoratori. Inoltre, viene analizzata la produttività di ogni
apprendista insieme al suo benessere personale nel posto di lavoro.
Verso la fine del terzo mese di formazione il lavoratore incontra lo staff
dell'Ufficio Sociale; insieme si valutano le difficoltà e i successi incontrati. Una
terza valutazione viene effettuata dopo il sesto mese. L'obiettivo è di
raggiungere il più velocemente possibile un giudizio attendibile
“sull'impiegabilità“ dell'apprendista; i dati che abbiamo dimostrano che al
termine del periodo di formazione viene offerto un impiego a oltre 90% dei
dipendenti. Dopo il nono mese di formazione, il lavoratore viene formalmente
assunto. L'Ufficio Sociale continua il suo rapporto con ogni lavoratore attraverso
valutazioni scritte periodiche. Il livello in base al quale vengono valutati i
lavoratori viene diviso in tre categorie: autonomia personale, autonomia
relazionale e autonomia professionale.
L'organizzazione delle mansioni è diversa nei vari settori della casa di
reclusione, ma in genere comprende due elementi principali: team e micro-team
ai quali vengono assegnati ruoli diversi nella catena di produzione. Infatti, la
nostra Cooperativa ritine che questo sistema promuova l'affiatamento nel
gruppo e il senso di appartenenza e insistiamo soprattutto sul fatto che ogni
detenuto debba vedere l'altro come collega.
Il nostro scopo principale, dunque, è quello di mettere i nostri lavoratori nelle
condizioni che con più probabilità consentano loro di intraprendere un percorso
di recupero autentico, un <<nuovo inizio>>. I detenuti sono incoraggiati a
coltivare una nuova immagine di sé, opposta al modello criminale che hanno
costruito nelle esperienze di vita precedenti. In tutto questo processo di
inserimento e accompagnamento, essi sono in costante contatto con alcuni
soggetti di riferimento - la Direzione del carcere, l'Ufficio Comando, gli
educatori, gli psicologi, gli psichiatri, gli operatori sanitari, i volontari, il
cappellano del carcere, i magistrati di sorveglianza, gli avvocati - oltre che con
le proprie famiglie.”
Il fatto di aderire a queste attività, comporta uno sconto di pena?
“No, in Italia non è previsto questo modello. L'idea di base è che non si può
pagare il lavoro vero con lo sconto di pena, ma soltanto con lo stipendio.”
Lo stipendio, chi lo incassa?
“ I soldi con i quali i detenuti vengono compensati vanno versati nel conto del
carcere. Chi ha bisogno di soldi può accedervi attraverso una domanda,
dovendo però giustificare la necessità. Una delle voci più importanti del
chiedere i soldi è quella di mandarli alla propria famiglia. Questo è un quesito
fondamentale perché vuol dire che il detenuto non è più il ''parassita'' della
famiglia, anzi è egli che la aiuta. Chi lavora deve pagare le spese del
mantenimento in carcere. Ma soprattutto, chi lavora bene e non spreca i soldi,
quando avrà finito la sua condanna avrà nel suo bagaglio anche un certo
budget per spenderlo e per poter sopravvivere una volta messo in
libertà. Aggiungerei inoltre che il momento dell'uscita dal carcere è uno dei più
difficili del percorso. Se ad esempio un detenuto riesce ad attivare rapporti con
l'esterno durante i permessi di uscita, avrà una buona probabilità di
reinserimento nella società, altrimenti torna a delinquere. ”
Quindi è questa la causa principale per cui ritornano in carcere?
“Si, perché lo Stato non mette a disposizione programmi di reinserimento
sociale e un detenuto che non sa lavorare e che non trova un impiego torna a
fare esattamente quello che faceva prima.”
Da un punto di vista psicologico, che ripercussioni hanno sui detenuti le
attività lavorative ?
“Questa la considero una problematica molto importante. Perché lo dico?
Perché nella prima fase dell'inserimento al lavoro si va a vedere se il detenuto
in causa è veramente disponibile a questa nuova opportunità. C'è da dire che ,
in tutti i carceri, la vita è molto difficile. Da un lato, è una vita quasi da
sopravvivenza, dall'altro, non è incentivante sul presente in maniera rilevante
perché la psicologia dei detenuti è proiettata al dopo, ovvero alla fine della
condanna. Essendo proiettato al dopo, il detenuto non riesce a
vivere bene il presente e anche quando li viene proposto un lavoro, sfrutta e
strumentalizza la proposta in funzione al futuro che ha in mente. Spesso,
rimanendo in quest'ottica, si rovina l'opportunità di lavorare e si rischia in
maniera seria di perdere la scommessa. Per questa ragione non tutti portano il
lavoro a un buon fine oppure non sfruttano fino in fondo l'opportunità per
educare la propria persona. Qui si collega automaticamente l'art. 27 della
Costituzione che afferma che le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato. Vuol dire che il detenuto deve imparare dal lavoro il valore di sé, a
recuperare la propria dignità e il senso delle cose. Chi fa questo percorso fino in
fondo si scopre una persona diversa, scopre di sé valori e pregi che aveva già
da prima ma che non aveva mai avuto la possibilità di mettere in pratica. Alcuni
dei lavoratori dichiarano di aver voltato le spalle alle immagini negative che
avevano di se stessi, e che li hanno accompagnati durante gli anni vissuti da
criminali grazie al sostegno incontrato nell'ambiente lavorativo. Altri invece
dicono che l'impegno lavorativo migliora la loro routine all'interno della struttura
penitenziaria; insegna loro competenze professionali, facilita rapporti solidali
con la famiglia e fornisce loro risorse materiali e intellettuali necessarie per il
reintegro positivo della società civile una volta usciti dal carcere.”
Cosa si aspetta per il futuro da questa cooperazione con il carcere ? Vede
numeri incrementati o ulteriori sviluppi ?
“La prospettiva del lavoro penitenziario per la cooperativa sociale Giotto
dipende principalmente da due fattori. Premesso che la mission della
cooperativa rimane quella di favorire l’integrazione sociale di persone
svantaggiate tra cui i detenuti, in primo luogo Giotto continuerà la sua
opera in carcere secondo una linea di sviluppo che seguirà inevitabilmente
quello che l’Amministrazione penitenziaria a livello centrale, e poi locale,
deciderà di perseguire. Il cambio di governo forse modificherà la linea fin qui
tenuta negli ultimi anni, che ha visto un raffreddamento nei confronti di chi porta
lavoro dall’esterno, imprese e cooperative, a favore invece di un tentativo di
accentramento della conduzione delle attività lavorative in capo al DAP
(Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). Nel nuovo programma di
governo si parla di centralità del lavoro penitenziario, vedremo cosa significherà
per le cooperative come la nostra. Senza contare che sarà sempre più decisivo
vedere come evolverà la popolazione carceraria e questo dipenderà dalle scelte
del Governo e del Parlamento in materia di certezza della pena e misure
alternative. In secondo luogo sarà importante capire come si svilupperà il
rapporto con le imprese profit del territorio, perché il loro contributo sarà
determinante per consolidare le attività da svolgere in carcere. Sul carcere di
Padova forse c’è ancora qualche margine di sviluppo, ma non grandi numeri.
Sarà già un grande obiettivo mantenere quelli attuali.”
In conclusione, si può chiaramente affermare che l'esperienza di Giotto
costituisce una rara avis nel quadro italiano. E' una delle poche organizzazioni
e imprese che sono riuscite a offrire una opportunità di impiego a un
considerevole numero di carcerati. La Cooperativa assume detenuti che
continuano a scontare la loro condanna, permettendo loro di acquisire,
mantenere e accrescere le proprie attitudini e capacità professionali,
facilitandone così il processo rieducativo.
Adolfo Ceretti, importante criminologo di rango nazionale, nonché docente
presso l'Università degli Studi Milano Bicocca, afferma: <<Le vite di chi sconta
una pena all'interno di un carcere sono offese, ogni giorno, da parole e da gesti
di umiliazione, di svilimento, di spregio personale da parte di altri detenuti, di
alcuni gesti della polizia penitenziaria o di operatori carcerati. A tali sofferenze si
affiancano quelle che derivano dalla costrizione di vivere in un'istituzione totale.
Quest'ultima, con i suoi protocolli disumanizzati è incapace, per definizione, di
sostenere un'elaborazione dei sensi di colpa dei rei e degli altri sentimenti che
lo accompagnano. Queste piccole esperienze di scomunica dal mondo, che si
intrecciano con le tragiche condizioni morali e materiali di esistenza all'interno di
un istituto penitenziario, feriscono e mortificano chi le subisce, ma ancor più
impediscono di attingere a un'immagine positiva di se stessi, di fare riferimento
a un proprio ideale di vita costruttivo, di auto-realizzarsi, di potersi percepire
quali soggetti apprezzati per le proprie qualità e capacità individuali.
In questo senso, le attività di Giotto sostengono una <<piccola rivoluzione
mite>>, laddove creano concreti contesti di vita e di lavoro all'interno dei quali
ogni detenuto può trovare una sua <<misura>>, un suo modo di esistere, una
sua dignità ed essere, così, onorato, apprezzato e rispettato - in una parola,
riconosciuto - sia come persona sia per il proprio apporto concreto.
La tragica paura dei detenuti è quella di rimanere da soli ad affrontare i rischi
legati a vite fragile o isolate. Questo dato assume un particolare significato nel
contesto dei penitenziari italiani, dove più dell'80% dei detenuti sconta la pena
in pochi metri quadri di spazio, senza lavorare e senza poter accedere ad altre
attività. In questi contesti cresce in ogni istante, in chi sconta una pena
detentiva, la percezione che dall'isolamento, dalla fragilità e dalla vulnerabilità si
uscirà solo tornando a commettere gesti devianti. Giotto si impegna, in prima
battuta, a edificare con i suoi impiegati-detenuti una fitta trama di rapporti di
fiducia, una trama che può finalmente interrompere quel circolo vizioso che
incatena questi ultimi all'indifferenza, alla diffidenza, ma anche al rancore,
all'odio e alla violenza - così spesso presenti nella vita dei delinquenti. Ognuno,
ma proprio ognuno, è accompagnato a riflettere sulla paura che nasce dalla
propria vulnerabilità e a dischiudersi a nuovi legami emotivi, a nuovi vincoli di
reciprocità e nuove forme di socialità. Tutto ciò si genera perché si è inseriti in
un contesto in cui si è guardati e trattati come persone, e non come delinquenti:
all'interno della Cooperativa sociale Giotto si condivide infatti, la condizione -
morale - di essere persone, degne in quanto tali, di essere rispettate.
E' l' uguaglianza, allora, il principio centrale che sostiene la mission di Giotto
ed è questa che riesce a dare sul campo, vera sostanza a quel rispetto che si
deve a tutti gli esseri umani indipendentemente dalle particolari persone che si
è, da come ci si comporta, dalle doti che si hanno o dalla stima di cui si gode.>>
Le stelle sono quelle del firmamento della ristorazione, quelle che incoronano
anno dopo anno gli chef più meritevoli di tutto il mondo. Le sbarre, invece, sono
quelle delle carceri, che spesso costringono i detenuti a una pena che molte
volte continua anche fuori dalle prigioni, quando hanno scontato il loro debito
con la comunità ma faticano a lasciarsi alle spalle il passato per essere
reinseriti nella società.
Così quindi nasce “Più Stelle meno Sbarre”, iniziativa che vede coinvolti
appunto i grandi chef, che lavorano per una cena di beneficenza fianco a fianco
con i detenuti lavoratori del ristorante del carcere di Torino, gestito dalla
cooperativa Libera mensa; una cena gourmet realizzata per sostenere
economicamente “Stampatingalera”, il corso di stampa Fine Art, promosso
dall’associazione Sapori reclusi.
Il 4 aprile 2016, grazie all'Associazione Sapori Reclusi e al carcere di Saluzzo,
per la seconda volta un manipolo di chef stellati si è messo a disposizione di
una causa, quella di Stampati galera, laboratorio di Stampa Artistica Fine Art
della casa di reclusione “Rodolfo Morandi” per conoscere e far conoscere un
mondo altrimenti nascosto, duro, scomodo.
Duecentocinquanta persone a cena, servite da impeccabili camerieri della
scuola alberghiera di Dronero e accolte dentro la Castiglia di Saluzzo, che
chiude nelle sue mura il ricordo dell'antico carcere della città. Una cena con
nove portate stellate cucinate nello spazio precario di una cucina da campo
sotto la pioggia battente, un viaggio nei sapori e nelle mani sapienti di uomini e
donne abituati a sprigionare sapori inusuali e inconsueti, accompagnati dal
controcanto di tannini e note fruttate, di sapidità̀ e robustezza come quella
regalata dai vini del territorio, dal Veneto alla Sicilia, tutti riuniti sotto il grande
rigoglio della madre Langa.
Non solo grandi chef ma detenuti, in permesso lavoro, si sono alternati ai
fornelli, per vivere da vicino un’esperienza concreta a contatto con la società
esterna, in cui sperano - e in cui speriamo - torneranno un giorno più
consapevoli.
Non solo evento ma incontro e dialogo, fatto di parole, silenzi e condivisioni,
come quelle scambiate tra gli chef, i loro staff e i detenuti del corso di cucina,
come quelle urlate e affollate del laboratorio di stampa, dove ammassati sulle
sedie e sui tavoli abbiamo tracciato un nuovo filo, un nuovo oggi, fatto di nuova
consapevolezza e condivisione dei percorsi di vita di tutti, compresi i più̀ difficili.
Varcare il muro è stato, ed è sempre, il passo più̀ grande. Impossibile, per tutti,
uscire senza esserne cambiati, almeno un po.
“Più stelle meno sbarre” è il miracolo dell'uomo che incontra un altro uomo,
l’uno libero, l’uno recluso. E lo fa attraverso una cosa semplice, come il cibo.
Acqua, farina, olio, sale. Cibo sano e giusto, cibo pulito di rinascita. Amore nei
gesti, amore nello sguardo. Nutrimento che parla all'anima, nutrimento che
scoperchia i cuori, apre pertugi di umanità̀, sorprende sorrisi, incide gesti nella
pietra dell'amicizia.
“Più̀ stelle meno sbarre” è una sfida immensa, è portare mondi lontani alla
stessa tavola, è sedersi e pretendere che si mischino, si sporchino uno dell'altro
e uno con l'altro.
“Più̀ stelle meno sbarre” è carcere e fastidio, è burocrazia che ti ferma, è
sonno che cala sugli occhi, è freddo pungente delle albe biancastre, è penuria
di mezzi, è spazio soffocante ma troppo grande da colmare.
“Più̀ stelle meno sbarre” è un sogno che diventa reale e si fa umano, è testa
che si risolleva e mani che si stringono, è sigaretta condivisa e pazienza stesa
sul marmo, è fuoco e caffè dolce, è racconto e domanda, è storia e volti, è
sdegno e scoperta, è speranza e domani. “Più̀ stelle meno sbarre” è un evento
che ci piace raccontare così, attraverso gli occhi di chi c'era perché́ si trasformi
in emozione per tutti gli altri.
Il mondo della detenzione incontra da vicino il mondo ‘fuori’, il mondo ‘fuori’ si
immerge nella realtà della reclusione e ne diventa parte attiva, collaborando al
processo di interazione, scambio, comprensione che sta alla base del cambio di
prospettiva indispensabile per creare un percorso di inclusione che veda i
singoli come parti diverse di una società unica.
“Più stelle meno sbarre” è dunque molto più di una cena stellata, è una
scommessa coraggiosa, per provare a ricreare in modo nuovo il filo che unisce
le diverse parti di una stessa società civile, al di là di pregiudizi, preconcetti,
immagini prefabbricate.
“LA LIBERTÀ È UNA FORCHETTA” – ARTICOLO TRATTO DA VANITY FAIR
Un gesto semplice, come mangiare con una vera posata, diventa eccezionale in
una prigione. Ma oltre alla mancanza delle piccole cose, sono famiglia, dignità e
giustizia le parole ricorrenti nei racconti dei carcerati incontrati nel reparto di Alta
Sicurezza della Casa di Reclusione di Saluzzo.
«Com’è bella la vita». Una strana affermazione, se sentita nella serata fredda e
piovosa che avvolgeva le vecchie mura della Castiglia, l’ex carcere di Saluzzo
diventato museo della memoria e luogo di eventi, animato dalla musica e dal
chiacchierio delle 200 persone che stavano partecipando a una cena di
beneficenza preparata in una cucina improvvisata nel cortile, sotto una tenda
piegata dalla pioggia, da dieci tra i migliori chef d’Italia.
Rifugiato in un vano dell’ingresso aperto sul cortile, unico angolo tranquillo, se
pur gelido, dove poter fumare una sigaretta, Emilio pensava davvero che la vita
fosse bella: lui non era un imprenditore o un brillante professionista che
prendeva parte alla cena, ma un detenuto che stava scontando una condanna
di 17 anni per rapina.
Fumare una sigaretta guardando il cielo, aver voglia di telefonare e poterlo fare
senza dover chiedere il permesso, bere un aperitivo in un bicchiere di cristallo e
non di plastica: gesti scontati, del quotidiano, che facciamo senza pensarci. Ma
per Emilio, recluso da oltre 10 anni, avevano un gusto speciale perché non
erano più abitudini, ma una riscoperta.
Tra una sigaretta e un bicchiere di vino, Emilio mi ha raccontato serenamente
frammenti del suo passato: bon vivant a Milano, marito e padre severo a
Catania, i suoi otto arresti per rapina e gli anni trascorsi nella casa di reclusione
di Saluzzo, dove si trovava bene, soprattutto dopo aver conosciuto altre carceri
di cui mi aveva raccontato aneddoti raccapriccianti, come i sei letti a castello in
una cella per due, o il water a vista, vicino al fornello, celato alla meglio con una
tendina improvvisata. «Perché ci sono posti dove, oltre alla libertà, la cosa
peggiore che ti possono togliere è la dignità».
Emilio in carcere lavora in cucina, e si ritiene fortunato perché ha un impiego,
come Mimmo, Salvatore, Giuseppe e Omar, gli altri 4 detenuti scelti come
«assistenti» degli chef che avevano preparato la cena di gala «Più stelle meno
sbarre», organizzata per raccogliere fondi e cofinanziare il laboratorio di
Stampa artistica Stampatiingalera promosso da «Sapori Reclusi»,
associazione attiva da qualche anno nel carcere di Saluzzo per favorire la
formazione del lavoro e un modo di scambio e contatto tra «il dentro e il fuori».
Non c’erano guardie, perché questi detenuti, usufruendo di permessi di uscita,
qualche assaggio di libertà avevano già avuto modo di riassaporarlo. Erano
loro, improbabili Cenerentole, i più preoccupati di dover rientrare in cella prima
dello scadere della mezzanotte.
Varcando la soglia del carcere, non della Castiglia, ma questa volta di quello
reale, la mente si fissa sui particolari, forse per non immedesimarsi troppo nello
stato d’animo di chi, quella soglia (o quella di una qualunque altra prigione) la
varca per restarci: non solo chi deve scontare una pena, ma anche chi è ancora
in attesa di giudizio e magari poi verrà assolto.
Le dimensioni delle chiavi, per esempio: grandi, leggermente dorate, simili a
quelle che mi aspetterei di vedere in un’iconografia di San Pietro davanti alle
porte del Paradiso, non certo di quel Purgatorio. Che è pure Inferno, per
qualcuno, perché nel reparto di Alta Sicurezza, dove entro con il mio «Virgilio»,
Matteo Boschiero Preto, lo chef che nell’ambito dell’Associazione «Sapori
Reclusi» ha organizzato un corso di cucina per un gruppo di detenuti, ci sono
persone condannate all’ergastolo ostativo (senza benefici, come i permessi o il
regime di semilibertà dopo 26 anni) e che probabilmente in cella ci resteranno
per sempre.
Tre di loro partecipano alla lezione di Matteo, chef che a soli 21 anni ha già
avuto due vite: la prima fino a 18 anni come promessa del ciclismo, finché una
emiparesi l’ha fermato per quasi un anno. Ora la seconda, dedicata alla cucina
e a occuparsi degli altri: come volontario della Caritas (Matteo è stato adottato e
ha un fratello naturale di cui sa solo che è un senzatetto) e per i diritti dei
carcerati, cercando di portare, a chi è recluso, i sapori della libertà.
«La gente mi guarda con sospetto, non capisce perché lo faccio. Ma io voglio
occuparmi di persone che, pur avendo sbagliato, hanno comunque il diritto di
confrontarsi con l’esterno, di comunicare. Non trovo giusto che si debba
rinchiuderli e gettare la chiave, come se non esistessero».
Il silenzio che circonda l’edificio è interrotto solo dal canto libero degli uccelli,
che accentua la cupezza di quel luogo di reclusione. Tra un’ala e l’altra del
complesso corrono piccoli tratti erbosi, ma all’interno, dove i detenuti possono
passeggiare durante le ore d’aria, è il trionfo del cemento: «Hai presente una
piscina senza acqua?» mi racconteranno, «con pareti alte, da dove vedi solo il
cielo».
«Il lunedì mattina cominciamo a preparaci alle 7, anche se sappiano che il
corso non inizia prima delle 9.30, e continuiamo a chiedere se siete arrivati. Per
noi queste iniziative, il corso di cucina e di stampa, sono molto importanti,
vogliamo che la gente abbia la possibilità di conoscerci. Magari se aumenta la
fiducia nei nostri confronti, potremo ottenere qualcosa di più. E poi stare seduti
a parlare intorno a un tavolo ci fa dimenticare dove siamo», spiega Maurizio,
che ha quasi finito di scontare la pena. Sarà il primo di loro a uscire, ma lo dice
come se si sentisse in colpa nei confronti di chi forse non potrà mai farlo, come
Francesco, Giovanni e Angelo.
Cosa manca di più? La risposta, per tutti, è la famiglia. «Non posso capire cosa
provano loro che non usciranno», si accalora Maurizio. Io posso restare
sdraiato anche anni su una branda a contare i giorni, se so che prima o poi
riabbraccerò mio figlio, che andrò di nuovo al mare con lui, che potrò
accarezzare ancora una donna. Ma loro cosa contano? A cosa pensano? Tanto
vale morire.
«La gente pensa che l’ergastolo non esiste, invece esiste, eccome se esiste: è
una pena di morte lenta perché non ci faranno uscire mai, e riguarda anche le
nostre famiglie, condannate con noi. Siamo a migliaia di chilometri di distanza
e, anche se abbiamo diritto ai colloqui, i miei famigliari li vedo pochissimo. Ci
stanno uccidendo lentamente» ci racconta Francesco.
Stare in regime di Alta Sicurezza significa non godere di benefici, non si può
lavorare, le celle sono sempre chiuse a parte due ore nel pomeriggio per
socializzare. A Saluzzo nelle celle ci sono due letti, un televisore con 10 canali,
un tavolo, un piccolo fornello, una radio. Il bagno c’è ed è chiuso, constato con
sollievo, dopo quei racconti sulla «turca a vista»: ci sono un water e un lavabo,
ma lo spazio è talmente stretto che per chinarti e lavare la faccia devi aprire la
porta e stare fuori con il corpo.
Mi sarei aspettata, in un carcere, che la parola più pronunciata fosse Libertà.
Invece è Giustizia. La giustizia li ha condannati, e loro accettano di pagare. Ma
ci sono leggi che concedono anche dei diritti, e chiedono che vengano rispettati.
Citano la Costituzione, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che
ha affermato il principio per cui l’ergastolo senza possibilità di liberazione
anticipata o di revisione della pena è una violazione dei diritti umani, poiché è
considerata un trattamento degradante ed inumano contro il prigioniero.
E anche nei momenti più concitati, di maggior sdegno, mi rendo conto che la
dignità, così a rischio in un regime carcerario, loro la conservano sempre, nei
modi e nell’espressione. «E scrivilo: leggi applicate allo stesso modo per tutti,
non ci devono essere detenuti più fortunati di altri, a seconda di dove capitano.
Scrivilo».
È il momento clou del corso, ed è vero che la cucina unisce, abbatte le
differenze e mette tutti d’accordo intorno a un tavolo. Matteo ha fatto il miracolo
ed è riuscito a cucinare nel laboratorio vicino il suo «risotto bio visto con occhi
diversi» a base di ingredienti scelti per portare, a quelli che non possono uscire,
i sapori della loro terra d’origine: ci sono il basilico di Genova e le olive, il
pecorino e i pomodorini del Sud, e il gusto un po’ amarognolo degli asparagi,
omaggio all’Albania.
«Voi siete chiusi ma la vostra mente è libera, può evadere da qui. Francesco,
Giovanni e Angelo, lo chiedo soprattutto a voi. Che sensazioni vi suscita questo
piatto?»
Gli allievi si siedono, a occhi chiusi, e Matteo gli fa assaggiare il risotto. «È la
prima volta che imbocco un boss», lo sento mormorare con l’allegra schiettezza
dei suoi vent’anni.
Il piatto è buonissimo, e per qualche minuto regna il silenzio: ma c’è un
ingrediente inaspettato che trionfa su tutti, mette in secondo piano i sapori e
trasporta la mente dei detenuti nel passato, gli fa scartare decisamente il
presente e poi li proietta nel futuro: è la forchetta.
Hanno usato vere forchette di metallo (in carcere ci sono solo posate di
plastica) che lo chef ha portato senza minimamente pensare all’effetto che
avrebbe ottenuto. «Aveva un sapore speciale mangiato con la forchetta, dopo
24 anni», osserva soddisfatto Giovanni. Chi l’avrebbe pensato che il simbolo
della libertà potesse essere una forchetta.
INTERVISTA A MATTEO PRETO – INTEGRATA DA UN’INTERVISTA
RILASCIATA A VANITY FAIR
Da chi è nata l’idea di questo progetto?
L’idea è nata da me e Davide Dutto ex fotografo
sportivo con l’idea di portare il fuori dentro,
attraverso la cucina.
Chi sono i detenuti nelle nostre carceri?
C’è una divisione abbastanza netta: detenuti
chiamati pericolosi che in qualche modo lo sono,
come per mafia, traffico di droga e omicidi. E poi c’è la percentuale del
“bisogno”, anche se poi non è sempre riconducibile al bisogno. Persone che
alla fine in carcere a volte ci rimangono, non perché più pericolose degli altri,
ma perché non possono ottenere misure alternative semplicemente perché non
hanno casa, lavoro, non hanno relazioni col territorio. Dove il carcere non è
nemmeno più prevenzione, diventa una comunità che paradossalmente poi ti
offre tutta una serie di servizi dove ti manca solo più la libertà.
La soluzione a questa solitudine umana?
La persona che arriva in carcere deve avere diritto ai diritti, mentre in qualche
maniera oggi quella persona diventa quasi il poverino della situazione. Ma non
è così che si salvano le persone. E non è così che si cresce. Il carcere è quella
cosa che vogliono tutti, ma che poi tutti capiscono che è innaturale. Tenere una
persona in carcere non è naturale. Se ci commuoviamo per gli orsi, figuriamoci
con gli uomini. Però poi si cerca di recuperare con la pietà, che è certamente
una componente importantissima, ma sulla quale puoi lavorarci poco. Ci vuole
un carcere poroso dove ci sia un interscambio tra esterno e interno, ovviamente
non criminale, cercando di invertire quell’aforisma per cui una mela marcia
contamina tutte le altre mele. Credo molto nella contaminazione, nell’esempio
positivo, nella partecipazione e nel coinvolgimento di tutti gli attori possibili. Un
carcere con solo il personale del carcere non funzionerebbe mai. È necessario
rendere permeabili le mura del carcere.
Il lavoro in carcere ha un valore?
Certo, ma il lavoro in carcere non è un argomento facile. Le aziende prima
investivano nelle carceri, però pagavano una inezia. Oggi un’impresa che vuole
investire nel carcere deve retribuire il detenuto esattamente quanto una
persona libera, ma priva di formazione professionale. Nonostante alcune realtà
estremamente positive e lodevoli, chi investe nel carcere deve affrontare una
serie di ostacoli inimmaginabili, già solo per entrarci e poi comunque l’attività
lavorativa confligge con i tempi della detenzione: il detenuto deve andare
all’aria, ha i colloqui con l’avvocato, il magistrato, i parenti, ci sono i processi…
Insomma, tutta una serie di tempi che sono funzionali alla vita nel carcere e al
futuro reinserimento.
Qual è l’obbiettivo del progetto?
Dare una speranza di vita a queste persone, speranza che ergastolani non
hanno.
Avete riscontrato qualche difficoltà?
Difficoltà…far entrare le materie prime nelle celle di alta sicurezza, problemi di
permessi, far entrare forchette d’argento o piastre a induzione.
INTERVISTA A DAVIDE DUTTO – TRATTO DA INVESTO MAGAZINE
Un gruppo di persone che condivide un obiettivo comune può raggiungere
l’impossibile: è una semplice frase motivazionale, letta così ma è la migliore
descrizione di quello che è andato in scena ieri sera a Saluzzo, nella Castiglia,
sede del vecchio carcere fino al 1992 e dal 2006 ristrutturato e restituito alla
funzione pubblica. Una cena gourmet, la seconda edizione, dopo quella del
2014 che ha fatto incontrare imprenditori, cittadini e realtà economiche legate al
mondo del carcere.
C’è un senso profondo dello scambio dentro/fuori in un simile evento, c’erano
gli scatti affissi alle pareti di chi tutto questo lo ha messo in piedi, Davide Dutto.
C’era la voglia di contaminarsi, che poi è anche un tema alla base della cucina,
della buona cucina. Ci sono stati luoghi e persone lontani che hanno scelto di
incrociare le loro vite e di darsi una opportunità.
Com’è stato il primo vero incontro tra detenuti e chef?
C’è un meccanismo dietro che ai più sfugge e forse è anche la parte migliore.
Non si aiuta e basta, si conosce chi si aiuta. Ecco perché ogni singolo cuoco è
venuto con me in carcere al mattino, a conoscere quelle persone che sarebbero
state al suo fianco nella preparazione della cena. Stessa cosa dissi a Ceretto
quando decise di aiutarmi. Lo invitati a venire in carcere e a conoscere di
persona chi avrebbe aiutato: solo così possiamo fare la differenza. Ci è tornato
ancora e ci tornerà nuovamente, ne sono certa.
Parliamo di numeri.
Gli invitati che hanno preso parte all’iniziativa benefica sono stati in tutto 230.
Non abbiamo ancora i numeri esatti ma escludendo le spese sostenuto
dovremmo aver raccolto una cifra che supera, seppur di poco, i 10.000 euro.
Questi soldi per cosa saranno utilizzati?
Per finanziare una piccola parte di STAMPATINGALERA, il laboratorio di
stampa artistica FINE ART nato grazie ad un finanziamento della Compagnia di
San Paolo di Torino e all’idea dell’Associazione culturale Sapori Reclusi.
Parliamo del primo laboratorio nato all’interno di una casa di reclusione, gestito
interamente da un gruppo di detenuti. Il progetto è nato due anni fa e coinvolge
dieci detenuti, alcuni ne fanno parte ancora oggi. Non sono detenuti comuni, ci
tengo a precisare, ma di alta sicurezza, legati a reati commessi da bande
organizzate. Si parla di mafia, di camorra, di sacra corona unita. Sono detenuti
che scontano ergastoli, anche più di un ergastolo, anche ostativi. Uno dei
detenuti che prese parte al progetto oggi non è più parte del gruppo perché
trasferito in un 41bis, quello che tutti chiamano carcere duro.
Perché aiuti la gente cattiva?
Perché è l’unico modo che conosco per combattere la mafia. Perché per me
quei detenuti non sono dei mafiosi, sono delle persone. Perché la mafia non la
combatti solo con azioni esterne al carcere. Devi entrare in quelle celle, parlarci
a quegli uomini e fissare i tuoi occhi nei loro occhi.
Senza aver paura di ciò che ti faranno vedere. Questo lo dico con tutto il
rispetto che posso io provare nei confronti delle vittime e le considerazioni del
caso che potremmo fare sul tema…Non possiamo non fare niente e pensare di
poter semplicemente buttare via la chiave.
Qualcuno ha chiesto di tornare in carcere?
Ogni singolo cuoco, ogni ragazzo che ha dato una mano affinché tutto questo
fosse realizzabile mi ha chiesto di poter tornare in quel carcere a far visita a
quegli uomini. Perché alla fine è di questo che parliamo… uomini.
“PIÙ STELLE MENO SBARRE”
https://www.youtube.com/watch?v=uj4q67e2YGU&feature=youtu.behttp://www.compagniadisanpaolo.it/ita/Multimedia/Video/Piu-stelle-meno-sbarre
“LETTERE DAL CARCERE”
“Ciao Matteo,
sono Francesco, nel nostro incontro mi sono presentato con un po’ di ironia, ma
vorrei ripresentarmi con questo scritto. Io mi chiamo Francesco Crisafulli e mi
trovo in carcere dal 1990 e sono ergastolano, ho trascorso tutta la mia gioventù
dietro le sbarre e non sono pochi… mi sembra un’eternità e a volte mi domando
se sono nato in una matricola del carcere ma chissà?
Però io sono rimasto un po’ affascinato dal tuo forte carattere e chi te lo dice è
uno che carattere ne ha abbastanza e nel sentirti dire e raccontare il tuo difficile
cammino che il destino ti aveva riservato da ciclista sportivo ad un letto di
ospedale, per non aggiungere le altre difficili problematiche situazioni che hai
passato… Che dirti, in me hai lasciato una bellissima e affascinante
sensazione, per come ti sei alzato dopo quella caduta senza paracadute, per
questo caro Matteo io farò sempre il tifo per te e ti auguro che un giorno
arriverai al tuo sogno, te lo meriti tanto. Spero che ti posso rivedere di nuovo
per farti i complimenti di una tua invenzione ma ti raccomando di non pensare la
tua formula nel bagno se no rimani troppo a lungo e Francesco ne soffrirà
tantissimo. Ti ringrazio per il tuo “in bocca al lupo” che mi hai dato e io farò lo
stesso per te un “in bocca al lupo”: che Dio ti doni la fortuna che meriti.
Ciao Matteo, a presto. Francesco.”
“Ciao Matteo, sono Francesco, innanzitutto spero che
queste poche righe ti vengano a trovare in ottimo stato di
salute fisico e mentale. E così ti posso dire lo stesso di me.
Matteo, sono stato felice d’averti conosciuto, sei una bella
persona, umile e generosa e non faccio altro di pensare alle
bellissime cose che fai per noi e che vorresti fare. Anche se
non è facile fare qualcosa in questi luoghi che sono pieni di
pregiudizi verso di noi detenuti e soprattutto quando si parla
di ergastolani, ma sono felicissimo di fare parte di questo
progetto di stampatingalera che in questi due anni che
frequento i nostri insegnanti e soprattutto amici, in me
hanno cambiato tutto, perché io ero una persona chiusa, non conoscevo altro
che sbarre di isolamento, e celle piccole e tristi ma soprattutto buie e sporche:
figurati che quando ho fatto il provino del corso io non volevo venire, mi aveva
convinto una persona che non finirò mai di ringraziare…un grandissimo grazie
ai nostri amici e insegnanti Manuela, Virginia, Davide e Roberto che hanno
portato in me il sorriso e la voglia di lottare per una vita migliore fuori da queste
mura e con il vostro aiuto ci riuscirò… Matteo, ti saluto con un forte abbraccio e
un grazie…di nuovo un saluto per le persone che ci aiutano a tenere vivo il
nostro sogno Stampatingalera: più stelle e meno sbarre però le sbarre più
grandi sono quelle che imprigionano i nostri sogni. Ciao Francesco Crisafulli”.
“Saluzzo. Mi chiamo Preng Doba nato in Albania il 23.03.1979 sono
partecipante del corso di grafica “stampati in galera” dal giugno del 2015. Ho il
piacere di dire che ho conosciuto delle persone eccezionali, mi riferisco agli
organizzatori del corso, Davide, Roberto, Emanuele, Virginia e altre persone…
In un certo senso mi sento privilegiato di aver partecipato a questo corso e di
aver conosciuto queste persone e che ognuno di loro ha una storia nel loro
percorso di vita…”
“Scarcerato per fine pena dopo più di trent’anni di galera, ma gli effetti della
carcerazione ti seguono ovunque… Quando fui arrestato nel marzo del 1977,
pensai che dal carcere non sarei uscito più, o perlomeno ci sarei uscito vecchio.
Sotto alcuni aspetti avevo ragione.
La pena che mi è stata inflitta, e quelle che ho accumulato sia stando in carcere
che dopo la mia fuga da un permesso datomi nel 1988 che mi costò tantissimo
in termini di anni di galera, le ho scontate tutte, e nel giugno 2008 sono stato
scarcerato per fine pena. Ma gli effetti della carcerazione ti seguono ovunque.
Avevo 19 anni nel ‘77 e sono uscito a 50, una mattina di giugno: è stato come
se rinascessi di nuovo.
Era una giornata importante, se mia madre e mio padre fossero stati ancora
vivi, sarebbero stati fuori ad attendermi, questo lo so, li ho persi entrambi
durante la detenzione, con due miei fratelli morti tragicamente entrambi
giovanissimi. Non c’era nessuno ad attendere la mia uscita, giustamente fuori la
vita assorbe il tempo e le energie delle persone, ed erano tutti molto impegnati.
Ma io ero veramente felice.
Ora la vita mi si apriva davanti. Avevo mille sogni da realizzare: una casa, un
lavoro, una donna, una famiglia.
Pensai anche a cosa stavo lasciandomi alle spalle, il carcere come parte
integrante della mia vita per quasi tutta la mia esistenza: quando ascolti una
canzone per la prima volta la associ subito a qualcosa, mi veniva in mente che
quando ascoltai per la prima volta “Ti Amo” di Umberto Tozzi ero nel carcere di
Saluzzo 1977, poi” Balla” di Umberto Balsamo 1978 Carcere Le Nuove di
Torino, “Dio è morto” di Guccini ero ancora libero, suonavo piano arpeggiando
la chitarra per non disturbare. Finita la galera, avevo però il cuore gonfio di
rabbia, di delusione, credo che piansi, poi mi alzai ed andai a vomitare.
Sono solito pensare che tutto serve nella vita, anche le esperienze negative. Ma
sono stanco di esperienze negative! Desidero cose positive, costruttive, belle,
che abbiano un senso, delle radici, che non creino ansie, paure, ho voglia di
pace, serenità e di tanta, tanta, sana NORMALITÀ.
E per il lavoro?
Ho fatto prove per lavori in aziende fuori dal circuito delle cooperative sociali,
ma pur superando le prove quando si parla della fedina penale, dei carichi
pendenti, del casellario giudiziario… la porta mi si chiude subito sul muso, con
molto tatto, ma si chiude. O non ci provo neppure perché so che per quel
determinato lavoro è richiesto di essere incensurati.
Mi ha fatto male dover eclissarmi dopo tre giorni di prova in una grossa e
rinomata ditta che produce e consegna surgelati, ottime relazioni sia dall’autista
che mi ha fatto l’affiancamento, sia dal promoter di vendita (ho una buona
dialettica e sensibilità nell’impostare i colloqui con i possibili clienti, mi hanno
detto), il terzo giorno mi hanno invitato ad andare in direzione: “Benvenuto tra
noi, intendiamo assumerla, comunicheremo i suoi dati, se lei è d’accordo, alla
sede centrale per l’assunzione e per il tesserino sui carichi pendenti e casellario
giudiziario”.
Doccia fredda. Gli ho risposto: grazie della fiducia, ma è un lavoro che mi
assorbirebbe totalmente e non me la sento di lasciare in toto le attività che
attualmente svolgo… E poi non so se ci sono portato. Ho fatto come la volpe
nella favola che mi ricordo da un mio libro alle elementari, che non potendo
arrivare a mangiare un grappolo di buonissima uva matura posto troppo in alto
disse che tanto non era buona, era ancora acerba, e andò via mogia mogia con
le orecchie basse. Voleva quell’uva, come io volevo quel lavoro!
Nonostante tutto quanto mi è successo in questi pochissimi mesi, ho fiducia
nella gente, credo nella vita, nella mia volontà di farcela. E soprattutto credo
ancora nell’amore.
Ma credo anche che solo la possibilità che ho avuto di uscire in misura
alternativa, fare permessi, cominciare gradualmente a uscire per lavorare
rientrando in carcere la sera, mi ha permesso di essere ancora fuori: non ho
rapinato banche come la mia indole di qualche anno fa suggerirebbe, ma mi
sono rimboccato le maniche e ci provo ancora, e poi ancora! Sono per così dire
vaccinato nei confronti della vita reale, che è molto più dura di quella che un
uomo privato della libertà per trenta anni possa immaginare.
Ce la farò! Stringerò i denti, lo sto già facendo tra umiliazioni e nervosismo, so
però una cosa: la via della legalità è l’unica che voglio e vorrò praticare. La
Libertà è bella, è la possibilità di amare, è la vita, e qualunque vita libera per me
vale la pena di viverla. Anche se oggi è una stupenda giornata piovosa, domani
ci sarà il sole!”.
Un detenuto che si è chiuso la porta del carcere alle spalle, ottobre 2008 -
Tratto da Ex detenuto”
CARCERE E FOTOGRAFIA: UN BINOMIO IMPORTANTE
“Perché tu carcerato che guardi una foto, ti metti allo stesso piano di tutti noi.
Cioè mi spiego meglio, non c’è differenza in nulla. Tu mangi una pasta buona,
hai un pensiero, un ricordo, un’idea, e tutto questo, il provare emozione non ha
costo, non ha barriere, non ha mura. Questo è una cosa che la gente non
pensa, a loro basta una piccola cosa” ci dice Matteo Preto.
“Il progetto più stelle meno sbarre aiuta queste persone a trovare
un'opportunità di "evasione" dalla loro quotidianità in carcere che è molto
restrittiva, si sono sentiti parte di qualcosa, si sono sentiti utili, e sicuramente
hanno fatto tesoro di questi appuntamenti con gli chef stellati, c'è una foto a cui
tengo particolarmente che ti ho inviato, quella dove si vedono tutte le mani con
la forchetta che prendono i ravioli dalla padella, beh in quello scatto tu non sai
chi sono, sai solo che stanno condividendo un momento tutti insieme senza
distinzioni l'uno dall'altro. Quindi penso che queste iniziative possano essere
d'aiuto per loro ma anche per la società” ci racconta Domenico Petrellese,
fotografo del progetto.
“La fotografia è importantissima per questo progetto, dare un volto alle parole,
alle persone che fanno parte di questo progetto è di fondamentale valore e al
giorno d'oggi uno scatto può arrivare a chiunque ed è immediato, un solo scatto
può rappresentare tante parole” prosegue Domenico.
Quando si parla di inclusione nell’ambito del mondo carcerario si fa sempre
riferimento agli ex detenuti, si fa riferimento a chi dal carcere ci è già uscito e si
augura di non tornare più. Ma l’inclusione può avvenire, come nel caso di
questo progetto, anche “dentro le sbarre”. Citando Domenico Petrellese, questo
progetto è stato per i detenuti motivo di evasione, occasione per sentirsi utili e
parte integrante di un qualcosa.
Speranza, dignità e libertà sono le parole che echeggiano maggiormente, dalle
lettere e dalle testimonianze raccolte si può osservare come nei detenuti vi sia
la voglia e la convinzione di poter cambiare, di poter tornare ad essere liberi e
padroni della propria libertà.
Photo Credit : DOMENICO PETRELLESE
Grazie a progetti come questo e molti altri percorsi formativi per l’inclusione
socio-lavorativa dei detenuti e delle detenute è possibile garantire loro delle
qualifiche professionali e delle certificazioni delle competenze pregresse.
Innumerevoli sono i percorsi formativi per l’inclusione dei detenuti ed ex
detenuti ed interventi alternativi; si ricorda in particolare lo stage, percorso
pensato per acquisire competenze lavorative. Inteso, quindi, come
realizzazione di esperienze pratiche in un determinato settore produttivo,
perfezionamento professionale, addestramento compiuto sotto la guida di un
esperto, preparazione all'esercizio di un mestiere.
Molti di questi percorsi riabilitativi sono finalizzati “al dopo” ed in particolare al
mondo del lavoro: infatti, dopo che un detenuto abbia scontato la sua pena e
sia tornato in libertà, sarà estremamente difficile trovare un nuovo lavoro,
cimentarsi in una nuova esperienza di vita, senza essere discriminato. Per
questo motivo diverse Regioni d’Italia ed organizzazioni hanno iniziato ad
affrontare dei corsi di formazione in carcere, per promuovere la formazione e
l’istruzione. Fare formazione in carcere non è semplice ed è finalizzato alla
ricerca di lavoro di pubblica utilità per i detenuti, una volta che torneranno in
libertà.
Tutto questo, perché il carcere può essere visto anche come “una ricchezza”,
per tale motivo oggi si intende aggregare l’istituto e la sua gente ad una rete di
relazioni e di servizi, al fine di evitare ogni trauma di inserimento da una parte e
dall’ altra, vivendo la nuova esperienza del penitenziario come un’opportunità
che porti ricchezza al territorio anche attraverso lo sviluppo delle capacità
espressive e lavorative dei detenuti.
BIBLIOGRAFIA/SITOGRAFIA
1.Introduzione:
● http://www.crea-lavoro.com/sono-ex-detenuto/
● http://www.stateofmind.it/2016/06/inserimento-lavorativo-ex-detenuti/
● http://bancadati.italialavoro.it/bdds/download? fileName=C_21_Strumento_2661_documenti_itemName_0_documento.pdf&uid=c1139b59-0e22-449d-a1a4-2ef7d3d2346c
● http://www.milano-sfu.it/2018/01/reinserimento-detenuti-consorzio- viale-dei-mille/
2. La cooperativa sociale Giotto nel carcere Due Palazzi di Padova:
● Intervista, vis à vis, rilasciata dal Vicepresidente della cooperativa
sociale Giotto, Andrea Basso
● Sito web della Cooperativa: http://www.coopgiotto.org
● YouTube
● Parere del criminologo Adolfo Ceretti
3. Più stelle meno sbarre
● Vanity Fair “la libertà è una forchetta” ● Investo Magazine “Più stelle meno sbarre”● Intervista rilasciata da Matteo Preto● Intervista e fotografie concesse da Domenico Petrellese● Lettere e testimonianze condivise da Matteo Preto● Ex detenuto “Scarcerato per fine pena…”● Identità Golose Web● Sapori Reclusi Web ● Gazza Golosa Web● You Tube ● Compagnia di San Paolo Media