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FRANCIA-ISRAELE Quei valori in pericolo Gli attacchi di Parigi e quelli in Israele. Tasselli di un unico piano di destabilizzazione su scala glo- bale. Come spiega Sergio Della Pergola. © KICHKA / P13 www.moked.it pagine ebraiche n. 12 | dicembre 2015 POLITICA L’illusione da ricomporre Lotta al terrore, valori da difendere per costruire un futuro di pace e democrazia. Il ministro degli In- terni Angelino Alfano prova a tracciare la via. OPINIONI Il momento della scelta Libertà, sicurezza. C’è un bivio da affrontare e non è più possibile restare indifferenti. Parola dello storico israeliano Ilan Greilsammer. Parole chiare, le nostre armi nella guerra al terrore DOSSIER / Parigi, l’anno del coraggio Mai come oggi, in questi giorni di minaccia e di paura, ma anche di risveglio degli ideali di libertà e di orgoglio identitario, voglia- mo ascoltare e pronunciare chia- re parole. Ecco la nostra istanza di ebrei italiani, di cittadini, di giornalisti. In questo anno terri- bile che si è aperto a Parigi con la strage nella redazione del set- timanale satirico Charlie Hebdo e che a Parigi è tornato alle por- te dell’inverno seguente con le stragi di novembre, tutti i valori che sostengono e garantiscono la possibilità di essere davvero ebrei a testa alta, cittadini e giornalisti sono stati minacciati. Occorrono chiare parole di citta- dini a tutti i concittadini. Per di- re che la società aperta, plurale, tollerante, libera che queste ul- time generazioni di italiani si so- no conquistata al prezzo di indi- cibili sacrifici, non ce la faremo portare via da quattro manovali della morte. E per dire che non rinunceremo ai nostri ideali di li- bertà, di giustizia e di tolleranza, non ci faremo vincere dalla pau- ra, non ci chiuderemo dietro alle nostre porte, non rinunceremo a vivere la nostra vita. Ma non ba- sta. Parole chiare, le stesse chia- re parole scelte dal presidente dell’Unione delle Comunità Ebrai- che Italiane Renzo Gattegna e da molte altre voci che contano nel mondo ebraico, a cominciare dal presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi Josef Schu- ster, per dire ai musulmani cui è toccato il privilegio di condivi- dere con noi la libertà e il pro- gresso dell’Europa, che il mo- mento di scegliere è arrivato. Og- gi non si tratta, ammesso che sia mai stato opportuno o accetta- bile in passato, di pietire som- messamente una formale disso- cino l’intera collettività e non so- lo gli ebrei è oggi ridicolmente messo a nudo nella sua malafede. Ma cade il velo anche su chi non vuole vedere come coloro che minacciano i giornalisti profes- sionisti minaccino tutta la demo- crazia e costituiscano un pericolo in primo luogo per le libere iden- tità minoritarie. Chi ha relativiz- zato la strage nella redazione di Charlie Hebdo, chi si è affrettato a classificarla come un esecrabile attacco alla vita umana, ma non ai cardini del nostro vivere co- mune, la libertà d’espressione e la libertà di stampa, o non ha sa- puto capire, o non ha voluto ca- pire. E chi nega il valore profes- sionale dell’informazione per af- fidarsi ai cialtroni della propa- ganda e della demenza digitale suscitando turbini di dicerie e puerili chiacchericci non fa altro che rafforzare proprio quegli strumenti che, fatti alla mano, hanno costituito il fertile terre- no di ignoranza, di odio e di pre- giudizio su cui prospera il terro- rismo. In questi pochi giorni febbrili che hanno seguito i drammi di Parigi, la redazione ha fatto del suo me- glio per raccogliere parole chiare e raccontare le storie e le idee di ebrei, di cittadini e di giornalisti in un dossier che il lettore trova nelle pagine seguenti e negli altri notiziari redatti ogni giorno. Ora il motto del vascello di Pari- gi, “Fluctuat nec mergitur” (fen- de il mare in tempesta senza mai affondare), torna a risplendere vivo su tutti i muri. Nelle vele di quel simbolico vascello hanno da soffiare ancora più forte quei venti della libertà che solo le chiare parole di tutti noi assieme possono sollevare. g.v. a cura di Ada Treves © Stephane Otin © Stephane Otin ciazione dalle azioni dei terrori- sti, di dissociarsi dall’antisemiti- smo e dall’odio per la vita che immancabilmente li contraddi- stingue. Si tratta di passare ai fatti. Di imbracciare tutti gli strumenti di cui una democrazia che si rispetti deve essere dotata per schiacciare chi pratica l’odio. Si tratta di denunciare, di offrire la propria piena collaborazione, di assumersi la completa respon- sabilità, di assicurare alle auto- rità i malfattori che assediano e minacciano la nostra società. E occorrono chiare parole di ebrei all’interno del mondo ebraico. Se la lezione di Parigi è in effetti determinante per ogni società che vuole continuare a credere nel futuro e nella vita, resta un passaggio importante anche per ognuno di noi. Ora possiamo comprendere che quello che sta avvenendo ci im- pone la conquista di una grande maturità e un vero e proprio sal- to di qualità nel nostro modo di stare assieme. La difesa dell’identità e la sicu- rezza non potranno certo passa- re attraverso quella mutazione avvelenata che proprio le forze del terrore sperano di ingenera- re. Non siamo e non potremo mai davvero essere una piccola mi- noranza accerchiata, incapace di vivere la gioia della vita quoti- diana e della nostra identità, in balia di duci cinici e cialtroni, ca- rica d’odio e di desiderio di ven- detta. Al contrario, è proprio re- stando noi stessi, conducendo rettamente la nostra vita quoti- diana, vivendo appieno la gioia della vita ebraica autentica, dei valori di rettitudine, tolleranza e amore per lo studio che abbia- mo ricevuto integri in consegna dalle generazioni che ci hanno preceduto, reagendo con estre- ma, inflessibile durezza, ma sen- za odio, a ogni aggressione, che l’ebraismo della Diaspora e l’ebraismo di Israele vinceranno uniti la terribile sfida che si tro- vano di fronte. L’attacco generalizzato a un’in- tera civiltà, di cui siamo da sem- pre orgogliosi protagonisti, ma di cui condividiamo i valori e la responsabilità con l’insieme dei cittadini, impone al mondo ebrai- co di rafforzare relazioni solide e trasparenti con le istituzioni e con l’opinione pubblica, di costi- tuire per tutti un modello di ret- titudine e di misura, di fornire esempi di concordia, di solidarie- tà, di rigoroso rispetto dei ruoli e delle responsabilità. E parole chiare di giornalisti ebrei a tutti gli operatori dell’in- formazione. Chi finge di non ve- dere come gli antisemiti minac-

n. 12 | dicembre 2015 P13 DOSSIER Parigi, l’anno del coraggio · Siria divenuta uno dei simboli della lotta, ma anche della devastazione, portata dall’Isis, per un documen-tario

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Page 1: n. 12 | dicembre 2015 P13 DOSSIER Parigi, l’anno del coraggio · Siria divenuta uno dei simboli della lotta, ma anche della devastazione, portata dall’Isis, per un documen-tario

FRANCIA-ISRAELE

Quei valori in pericolo

Gli attacchi di Parigi e quelli in Israele. Tasselli diun unico piano di destabilizzazione su scala glo-bale. Come spiega Sergio Della Pergola.

© K

ICH

KA

/ P13

www.moked.it

pagine ebraiche n. 12 | dicembre 2015

POLITICA

L’illusione da ricomporre

Lotta al terrore, valori da difendere per costruireun futuro di pace e democrazia. Il ministro degli In-terni Angelino Alfano prova a tracciare la via.

OPINIONI

Il momento della scelta

Libertà, sicurezza. C’è un bivio da affrontare e nonè più possibile restare indifferenti. Parola dellostorico israeliano Ilan Greilsammer.

Parole chiare, le nostre armi nella guerra al terrore

DOSSIER /Parigi, l’anno del coraggio

Mai come oggi, in questi giorni

di minaccia e di paura, ma anche

di risveglio degli ideali di libertà

e di orgoglio identitario, voglia-

mo ascoltare e pronunciare chia-

re parole. Ecco la nostra istanza

di ebrei italiani, di cittadini, di

giornalisti. In questo anno terri-

bile che si è aperto a Parigi con

la strage nella redazione del set-

timanale satirico Charlie Hebdo

e che a Parigi è tornato alle por-

te dell’inverno seguente con le

stragi di novembre, tutti i valori

che sostengono e garantiscono

la possibilità di essere davvero

ebrei a testa alta, cittadini e

giornalisti sono stati minacciati.

Occorrono chiare parole di citta-

dini a tutti i concittadini. Per di-

re che la società aperta, plurale,

tollerante, libera che queste ul-

time generazioni di italiani si so-

no conquistata al prezzo di indi-

cibili sacrifici, non ce la faremo

portare via da quattro manovali

della morte. E per dire che non

rinunceremo ai nostri ideali di li-

bertà, di giustizia e di tolleranza,

non ci faremo vincere dalla pau-

ra, non ci chiuderemo dietro alle

nostre porte, non rinunceremo a

vivere la nostra vita. Ma non ba-

sta. Parole chiare, le stesse chia-

re parole scelte dal presidente

dell’Unione delle Comunità Ebrai-

che Italiane Renzo Gattegna e da

molte altre voci che contano nel

mondo ebraico, a cominciare dal

presidente del Consiglio centrale

degli ebrei tedeschi Josef Schu-

ster, per dire ai musulmani cui è

toccato il privilegio di condivi-

dere con noi la libertà e il pro-

gresso dell’Europa, che il mo-

mento di scegliere è arrivato. Og-

gi non si tratta, ammesso che sia

mai stato opportuno o accetta-

bile in passato, di pietire som-

messamente una formale disso-

cino l’intera collettività e non so-

lo gli ebrei è oggi ridicolmente

messo a nudo nella sua malafede.

Ma cade il velo anche su chi non

vuole vedere come coloro che

minacciano i giornalisti profes-

sionisti minaccino tutta la demo-

crazia e costituiscano un pericolo

in primo luogo per le libere iden-

tità minoritarie. Chi ha relativiz-

zato la strage nella redazione di

Charlie Hebdo, chi si è affrettato

a classificarla come un esecrabile

attacco alla vita umana, ma non

ai cardini del nostro vivere co-

mune, la libertà d’espressione e

la libertà di stampa, o non ha sa-

puto capire, o non ha voluto ca-

pire. E chi nega il valore profes-

sionale dell’informazione per af-

fidarsi ai cialtroni della propa-

ganda e della demenza digitale

suscitando turbini di dicerie e

puerili chiacchericci non fa altro

che rafforzare proprio quegli

strumenti che, fatti alla mano,

hanno costituito il fertile terre-

no di ignoranza, di odio e di pre-

giudizio su cui prospera il terro-

rismo.

In questi pochi giorni febbrili che

hanno seguito i drammi di Parigi,

la redazione ha fatto del suo me-

glio per raccogliere parole chiare

e raccontare le storie e le idee di

ebrei, di cittadini e di giornalisti

in un dossier che il lettore trova

nelle pagine seguenti e negli altri

notiziari redatti ogni giorno.

Ora il motto del vascello di Pari-

gi, “Fluctuat nec mergitur” (fen-

de il mare in tempesta senza mai

affondare), torna a risplendere

vivo su tutti i muri. Nelle vele di

quel simbolico vascello hanno da

soffiare ancora più forte quei

venti della libertà che solo le

chiare parole di tutti noi assieme

possono sollevare.

g.v.

a cura di Ada Treves

© S

teph

ane

Otin

© S

teph

ane

Otin

ciazione dalle azioni dei terrori-

sti, di dissociarsi dall’antisemiti-

smo e dall’odio per la vita che

immancabilmente li contraddi-

stingue. Si tratta di passare ai

fatti. Di imbracciare tutti gli

strumenti di cui una democrazia

che si rispetti deve essere dotata

per schiacciare chi pratica l’odio.

Si tratta di denunciare, di offrire

la propria piena collaborazione,

di assumersi la completa respon-

sabilità, di assicurare alle auto-

rità i malfattori che assediano e

minacciano la nostra società.

E occorrono chiare parole di

ebrei all’interno del mondo

ebraico. Se la lezione di Parigi è

in effetti determinante per ogni

società che vuole continuare a

credere nel futuro e nella vita,

resta un passaggio importante

anche per ognuno di noi.

Ora possiamo comprendere che

quello che sta avvenendo ci im-

pone la conquista di una grande

maturità e un vero e proprio sal-

to di qualità nel nostro modo di

stare assieme.

La difesa dell’identità e la sicu-

rezza non potranno certo passa-

re attraverso quella mutazione

avvelenata che proprio le forze

del terrore sperano di ingenera-

re. Non siamo e non potremo mai

davvero essere una piccola mi-

noranza accerchiata, incapace di

vivere la gioia della vita quoti-

diana e della nostra identità, in

balia di duci cinici e cialtroni, ca-

rica d’odio e di desiderio di ven-

detta. Al contrario, è proprio re-

stando noi stessi, conducendo

rettamente la nostra vita quoti-

diana, vivendo appieno la gioia

della vita ebraica autentica, dei

valori di rettitudine, tolleranza

e amore per lo studio che abbia-

mo ricevuto integri in consegna

dalle generazioni che ci hanno

preceduto, reagendo con estre-

ma, inflessibile durezza, ma sen-

za odio, a ogni aggressione, che

l’ebraismo della Diaspora e

l’ebraismo di Israele vinceranno

uniti la terribile sfida che si tro-

vano di fronte.

L’attacco generalizzato a un’in-

tera civiltà, di cui siamo da sem-

pre orgogliosi protagonisti, ma

di cui condividiamo i valori e la

responsabilità con l’insieme dei

cittadini, impone al mondo ebrai-

co di rafforzare relazioni solide

e trasparenti con le istituzioni e

con l’opinione pubblica, di costi-

tuire per tutti un modello di ret-

titudine e di misura, di fornire

esempi di concordia, di solidarie-

tà, di rigoroso rispetto dei ruoli

e delle responsabilità.

E parole chiare di giornalisti

ebrei a tutti gli operatori dell’in-

formazione. Chi finge di non ve-

dere come gli antisemiti minac-

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ú–– Angelino Alfanoministro degli Interni

Nessuno sceglie il tempo in cui vi-vere. A me, a noi, alla mia gene-razione, è capitato il privilegio dinon conoscere le guerre del secoloscorso. A me è capitato l’onore diessere ministro dell’Interno e la re-sponsabilità di esserlo al tempodell’Islamic State. A me, alla miagenerazione, è capitato di illudersiche le guerre potessero essere so-lamente quelle lì; quelle “conven-zionali”. Soldati in divisa, carri ar-mati, dichiarazioni ufficiali affidateagli ambasciatori degli Stati in con-flitto. Già, gli Stati, quelli che lageografia e la storia ci hanno la-sciato in eredità nei secoli e negliultimi decenni. Fino a Jalta e finoai postumi democratici della ca-duta del Muro di Berlino. Era, ap-punto, un’illusione. Come era un’il-lusione l’idea che la pace portassea una crescita infinita. L’illusionedi chi è nato negli anni Settanta eha conosciuto solo pace e prospe-rità. Peace and prosperity, promiseroe mantennero per decenni i PadriFondatori dell’Europa unita. Ogginon è più così: né per la pace e

neanche per la prosperità. E chi,come me, fa parte di quella gene-razione e si trova al governo delPaese ha una missione precisa: evi-tare in tutti i modi e a tutti i costidi pagare e far pagare un conto al-tissimo alla fine di quell’illusione.Innanzitutto guardando la realtàdritto negli occhi: c’è una guerrain corso. E non è di quelle che il

secolo scorso (e anche i secoli pre-cedenti) ci ha inflitto e gli storicici hanno raccontato. Non è quellaguerra lì. Non ci sono gli Stati, ascambiarsi le dichiarazioni di guer-ra. O meglio: non ci sono gli Statiriconosciuti dalle Convenzioni edai Trattati internazionali, quellicon il posto a sedere all’Assembleagenerale delle Nazioni Unite e ne-

gli organismi multilaterali interna-zionali. No. C’è un’organizzazioneche ha ambizioni, soldi e uominiche nessuno ha mai avuto. Èun’organizzazione terroristica cheha la pretesa di chiamarsi Stato,un’ambizione fin qui ignota a tuttii terroristi e a tutti i terrorismi; an-che quelli per definizione “rivolu-zionari”.

“Chi ha paura non è libero”. Lo ri-

corda il ministro Alfano, in una

densa e appassionante testimo-

nianza in uscita con Mondadori.

Il racconto in prima persona del-

la minaccia rivolta dall’Islam in-

tegralista alle società libere e de-

mocratiche e dello sforzo che

queste stanno assumendo o sono

chiamate ad assumersi nella lot-

ta al terrore. Con una convinzio-

ne di fondo, affermata con fer-

mezza: all'impegno profuso per

sconfiggere chi teorizza e pratica

la barbarie, anche il nostro Paese

non può e non deve sottrarsi.

Scrive infatti Alfa-

no: "Resteremo vi-

gili e lo faremo per

i nostri figli, per con-

segnare loro un'Italia ancor più

libera e sicura nella quale vivere.

Il nemico è forte; i nostri valori

democratici e i nostri princìpi li-

berali lo sono di più. Molto di più.

Per questo vinceremo".

ú–– Rossella Tercatin

“Forse è vero che l’Europa si stasvegliando. Ma la domanda è co-me e per fare cosa”. Itai Anghel,giornalista di Arutz 2, il secondocanale della televisione israeliana,parla con Pagine Ebraiche all’in-domani dei fatti di Parigi e di ri-torno da una serie di conferenzenegli Stati Uniti. Un mese fa era aKobane, città curda nel nord dellaSiria divenuta uno dei simboli dellalotta, ma anche della devastazione,portata dall’Isis, per un documen-tario che andrà in onda nei pros-simi mesi. Appassionato di Italia e di calcio(come raccontato sul giornaledell’ebraismo italiano nel maggio2015), Anghel fa il corrispondentedi guerra dal 1989. È stato nei Bal-cani, in Rwanda, in Pakistan, in Af-ghanistan. Nel dicembre 2014 è

partito di nuovo, destinazione Siria,e poi Iraq: la linea del fronte doveal califfato si oppongono le miliziecurde. Il risultato è un documento unico,45 minuti in cui l’ebraico si mischiaall’arabo e all’inglese, tra testimo-nianze dei soldati che combattonocontro l’Isis e interviste ad alcuniboia delle bandiere nere, catturatinegli scontri, là dove si tocca conmano lo sgretolamento dello scac-chiere mediorientale. “Era uno deiconfini più protetti e sorvegliatidel mondo. Oggi lo può attraver-sare chiunque senza batter ciglio.Anche un israeliano di Tel Aviv.O un combattente dell’Isis” rac-conta Anghel alla telecamera inpoche stranianti sequenze attra-verso il fantasma di un posto difrontiera.“L’Europa dichiara oggi di volerdistruggere l’Isis, ma non è un ri-

sultato che si possa in concreto ot-tenere come lo descrivono. Le di-chiarazioni dei leader europei one-stamente suonano più indirizzatea placare le opinioni pubbliche,che non a delineare un vero pianod’azione” spiega al telefono il gior-nalista. Secondo la sua opinione, è ancora

rilevante l’ipocrisia che vela l’ap-proccio del Vecchio Continentealle minacce globali. “Penso che lanozione più problematica sia rap-presentata dal fatto che l’ideologiadello Stato islamico, i suoi valori,non possono essere sconfitti. Nonè una questione di educazione, an-che se il 99 per cento dei musul-

mani del mondo rigettassero com-pletamente queste dottrine, quelliche rimangono sarebbero sufficien-ti. Perché così funziona il terrore,basta un decimale di percentualeper abbattere le Torri gemelle”. Maallora quali possono essere i rimedida opporre all’Isis? “Se le loro ideenon possono essere sradicate, puòesserlo l’entità statale. Il califfatoesiste solo se ha un territorio, il ca-liffato può essere un polo d’attra-zione per chi condivide le sueideologie solo se è un luogo geo-grafico. Smantellarlo vuol dire neu-tralizzare questo meccanismo”.Essere pronti ad affrontare un con-flitto dunque, senza nascondersidietro parole che rischiano di rap-presentare solo triti slogan come“portare la pace in Medio Oriente”.È questa la mossa dello scacco agliislamisti secondo Anghel.“Intraprendere una guerra però èun’enorme responsabilità: non ba-sta vincere le battaglie, poi è ne-cessario ricostruire. Non vedo pae-

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www.moked.it

n. 12 | dicembre 2015 pagine ebraiche

DOSSIER /Parigi, l’anno del coraggio

Inviato nel ventre dell’Isis. Eccoli visti da vicino

Quell’illusione infranta che dobbiamo riconquistareLa lotta al terrore, i valori da difendere. Il ministro degli Interni traccia la via

Angelino AlfanoCHI HA PAURA NON È LIBERO Mondadori

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Un’organizzazione che, nella suafolle presunzione statuale, invocala legittimazione di una religione,quella islamica. E che per giustifi-care il sangue versato nelle stradedalla furia omicida dei suoi accolititiene in ostaggio un Dio. Un Dioprigioniero della megalomane fol-lia di un uomo che si è autopro-clamato “Califfo”, comandante deicredenti, con l’obiettivo di rappre-sentare l’unità politica della comu-nità dei musulmani, ovvero la Um-ma. Il rappresentante pro temporedi Allah sulla Terra. Un uomo cheha l’aspirazione di cancellare tuttii confini esistenti dentro lo spaziofisico dell’antico Califfato, di ripro-porre il sogno della grande Siria,dove chiamare a raccolta tutti imusulmani della Terra. Richiamarlia combattere per la realizzazionedel folle sogno e poi a vivere lì perripristinare la purezza dell’anticoIslam. È esattamente con quest’uo-mo che dobbiamo fare i conti; conle sue bombe, con le sue ambizio-ni, con la sua ferocia che vuole far-si scudo di un Dio nel quale cre-dono oltre un miliardo e mezzodi persone nel mondo e un milionee seicentomila in Italia. Ha uccisoin due terzi del pianeta spargendosangue in una lunga e drammaticacronologia del terrore: Parigi, Bru-xelles, Sydney, Ottawa, Copena-ghen. Ha fatto paura all’Occidentee anche agli sciiti del Medio Orien-te. Ha occupato territori, compiuto

razzie, violentato donne, ha fattostragi di bambine e bambini, hasequestrato uomini e li ha liberatiper ottenere riscatti. Altri li hasgozzati davanti alle telecamere, ealtri ancora li ha bruciati dentrouna gabbia di metallo. Ha costrettoi leader internazionali a correre aParigi per confermare amicizia evicinanza al popolo francese che,dopo un terribile attentato a ungiornale satirico e ai suoi collabo-ratori, sfilava in silenzio per le stra-de. E nel frattempo lui, quell’uomo,il “Califfo”, organizzava il suo “Sta-to” come fosse un vero Stato: esi-gendo le tasse e distribuendo paneagli affamati in un falso e sbilencosistema di welfare, di protezionesociale. Mentre noi marciavamonella capitale francese, lui conti-nuava a fare proseliti sul web pro-

mettendo benessere e felicità, esor-tando chiunque ad attivarsi in pro-prio, a commettere attentati ovun-que fosse possibile, a organizzarela strategia dei “mille tagli”, milleferite per dissanguare il nemico.Cioè noi, le comunità occidentalie democratiche del mondo. Ogniattentato è un taglio utile all’emor-ragia del mondo libero. E non so-lo. Ha esteso il suo appello a tuttii musulmani della Terra e ha chie-sto loro di recarsi a combattere epoi di ritornare nei Paesi di nascita,di educazione, di residenza, percolpirli ancora. Anche questo ab-biamo dovuto subire: l’Europa deldiritto e della civiltà centrata alcuore – a Parigi come a Bruxelles– da terroristi vestiti con abiti eu-ropei, madrelingua nei loro Paesi.Ci ha costretti a correre a Washin-

gton per organizzare una strategiadi contrasto a quel fascino che lui,il sedicente “Califfo”, ha saputoesercitare su chi parlava francesee ha colpito la Francia, e su tuttiquelli pronti a ferire il proprio Pae-se. Un fascino veicolato attraversol’uso sapiente dei (suoi) media.Giornali, televisioni, account Twit-ter e ogni strumento utile a pro-muovere un messaggio di speranzae riscatto del “vero Islam”.A Washington per il programma“Counter Violent Extremism”, in-sieme al presidente Barack Obama,per dire che è una guerra che sicombatte riportando in alto i ves-silli delle democrazie, il fascino ela bellezza della libertà. A Bruxel-les, a Lussemburgo, a Roma coni colossi del web per fare squadranella promozione di una “contro-narrativa”, di una “controretorica”e nella individuazione di tutti que-gli allerta precoci capaci di evitareun’altra strage. Nel frattempo, luicontinuava a distruggere opered’arte millenarie o a rubarle e a far-ne mercimonio per alimentare ilsuo “Pil del terrore”, a occuparepozzi petroliferi e a venderne ilprodotto a prezzi da contrabban-do, procurandosi soldi sporchi sulmercato illegale. Intanto, costrin-geva l’Onu a riunirsi per assumeredecisioni e a sollecitare i singoliStati perché intervenissero. Obbli-gava l’Unione europea e i suoi or-gani, il Parlamento, il Consiglio, la

Commissione, a chiedere ai citta-dini di fare lunghe file negli aero-porti per subire controlli più severio di vedere registrato per anni ilproprio nome nelle banche datidelle compagnie aeree. Europei alla prova dell’ansia in me-tropolitana oppure in treno, e aquella di vedere in ogni barba lun-ga un possibile nemico, in ognimoschea una minaccia alla sicu-rezza nazionale. Europei impauritida attacchi senza precedenti. Con-tro la nostra storia, contro la nostracultura, contro i nostri valori. Perfarci vivere peggio. Per farci cam-biare abitudini e il modo stesso disentirci cittadini del nostro tempoe dei nostri luoghi. Tutto organiz-zato da lui, che eredita tensionistoriche del Medio Oriente e fru-strazioni nuove dell’Occidente. Luiha ingaggiato contro di noi unaguerra che non ammette armistizi.Lui è Abu Bakr al-Baghdadi, l’uo-mo che sfida anche al-Qaeda e chevuole essere il “Califfo” dello Statoislamico, l’Islamic State. L’uomoche ha fatto paura al mondo. Con-tro di lui dobbiamo lottare. Perchéchi ha paura non è libero e com-battere contro la paura significacombattere per la libertà. È il com-pito di tutti noi; è il compito dellamia generazione. Quella che si eraillusa che il mondo libero fosse persempre libero da guerre. Per faresì che questa illusione infranta di-venti certezza per i nostri figli.

si stranieri che siano pronti aun’impresa del genere. Penso chela scelta sarà quella di fornire mag-gior supporto a chi è già sul terri-torio. Ma le uniche forze di cui og-gi ci si può davvero fidare, a mioparere, sono i curdi”.Il reporter i curdi li conosce bene.Sono loro i protagonisti del suodocumentario, e in particolare lesoldatesse. Sono giovani reclute di17 o 18 anni dagli occhi scuri e icapelli di ogni sfumatura di casta-no, trenta e quarantenni con il vol-to già bruciato dal sole. Le lorovoci, le loro armi, sembrano esserel’unico strumento per instillare neimilitanti dello Stato islamico lapaura della morte, perché, nellaloro ideologia malata, se uccisi “dauna creatura inferiore”, come unadonna, perderanno il diritto al pa-radiso e alle 72 vergini che sonoconvinti di conquistarsi nel perireda “martiri”.“Di fronte a un’idea del genere,non so se ridere o se piangere…”

sottolinea ironicamente nel docu-mentario Media, uno dei più alticomandanti nella lotta all’Isis, sullemontagne dorate davanti a Mah-mour, città nella cui liberazione ilcontributo femminile è stato deci-sivo.Nel suo nuovo documentario, An-ghel si concentrerà su un altroaspetto cruciale per l’Europa, quel-

lo delle migrazioni. “Quando unpaese attraversa una situazione dif-ficile, si aprono due strade davanti:c’è chi sceglie di rimanere e com-battere per riprenderselo, e chi sce-glie di scappare. Tra Kobane e laGermania, ho cercato di ascoltarele voci di entrambi”, anticipa. An-cora una volta, una delle molte cri-ticità deriva dell’atteggiamento de-

gli Stati europei. “Da un lato, iopenso che i rifugiati vadano accolti,che anche Israele stessa dovrebbeaccoglierli. E vedo la tragicità disituazioni che ho toccato con ma-no, di persone fuggite dalla Siria,dove sono state perseguitate daijihadisti, anche di origine europea,che arrivano e vengono tacciatedi essere jihadisti a loro volta.

Dall’altro bisogna ammettere cheun problema c’è, che non si puòoffrire rifugio a tutti, che può ca-pitare che il 99,95 per cento di in-nocenti nasconda infiltrati dell’Isis.Ma troppo spesso, chi lo mette inluce in Europa viene semplicemen-te archiviato come estremista xe-nofobo”. Dopo l’ultima ondata di attentati,ai paesi occidentali rimane dunqueil compito di cominciare a guar-dare alle situazioni per quello chesono, come primo passo sul diffi-cile cammino dell’auspicata solu-zione. Un compito cui possonodare un contributo anche i gior-nalisti. “A patto che vadano sulcampo a documentare ciò che ac-cade, non tentino di prevedere unfuturo che nessuno conosce disqui-sendo su persone che non hannoincontrato e paesi che non hannomai visto” rimarca Anghel. Cheammette: “Paura? Certo che ce l’-ho, tutto il tempo. Ma, almeno perora, continuo a partire”.

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www.moked.it

pagine ebraiche n. 12 | dicembre 2015

u Nell’immagine a sinistra un

momento dell’intervista di Itai

Anghel a un terrorista dell’Isis

catturato dalle forze curde.

In alto Itai assieme a un gruppo di

combattenti, a destra con una

giovane soldatessa.

u Il ministro Alfano con il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche

Italiane Renzo Gattegna durante un recente vertice sulla sicurezza.

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Interni israeliano; ndr). Molte or-ganizzazioni per i diritti umani so-no contro questo strumento cheviene applicato quando vi è il so-spetto concreto, non prove effettivee valide a fini processuali, che lapersona sia pericolosa”. “Davantial terrorismo – continua il profes-sore della Bar Ilan – ci sono delleazioni che bisogna prendere pertutelare la vita umana”. Però inIsraele la situazione è diversa dal-l’Europa, le sensibilità sono diffe-renti. “Questo è un paese abituato

al conflitto. È in guerra sin dallasua nascita. La preoccupazione perattacchi e attentati fa parte del vis-suto degli israeliani e ha creato unaradicata consapevolezza sul temadella sicurezza”. Anche se, sottoli-nea il docente, in Israele non si èmai verificato un attacco singolodella portata di Parigi: nemmenodurante la seconda Intifada (oltreseicento vittime in nove anni e ol-tre cento attentati terroristici) chevide, ricorda Greilsammer, salirevertiginosamente i controlli nel

paese ma che in parte oggi nonsussistono più. Come a dire, deipassi indietro si possono fare sep-pur le dinamiche di Israele, e l’ela-sticità dei suoi cittadini di fronte asituazioni di conflitto ed emergen-za, non siano assimilabili a quelleeuropee. Impossibile invece per Greilsam-mer il paragone tra i fatti di Parigie il conflitto israelo-palestinese ocomunque con l’attuale ondata diattacchi terroristici contro civili esoldati israeliani. “Questi paralleli-

smi a mio modo di vedere sonostupidaggini, seppur in entrambeci sia la componente del radicali-smo islamico, le situazioni sonomolto diverse. Qui - l’analisi del-l’esperto di politica mediorientale- le questioni si intrecciano a situa-zioni quotidiane, inasprite nel tem-po, a cui si aggiunge la questionedegli insediamenti. Non giustificonessun tipo di terrorismo ma in-trecciare i due piani non credo aiutiad affrontare fenomeni complessie a metterli nella giusta prospetti-va”. In molti, tra cui il Primo mini-stro d’Israele Benjamin Netanyahu,questo parallelismo l’hanno peròfatto, sottolineando che le vittimesono tutte uguali. Un punto cheGreilsammer non discute. Anchese afferma: “Netanyahu ha tutto

Sotto i ferri di Gadiel sono passatidue feriti, uno dei quali in condi-zioni critiche. La struttura in cuilavora Jael si trova in un quartieredove la quasi totalità degli abitantiè di fede islamica e dove certi ar-gomenti possono diventare incen-diari. Non sono testimoni direttidei drammatici fatti che hannosconvolto Parigi, ma davanti ai loroocchi continuano a scorrere incubi,speranze, incertezze della città fe-rita. “Dopo i fatti di gennaio, e do-po l’ultima ondata di attacchi, ladomanda mi viene posta semprepiù spesso: è questo il posto giustoper te? È qui che vuoi costruirti unfuturo? Al momento la risposta èsì. Perché la Francia – dice Gadiel(il primo da sinistra nella foto) –mi ha dato quello che da un puntodi vista professionale non avrei maipotuto ottenere in Italia”. Ma se da una parte ha dato, dal-

l’altra qualcosa ha tolto. Come lapossibilità di vivere alla luce delsole la propria identità ebraica. “So-no arrivato a Parigi una prima voltanel 2011 e tra le mie abitudini –racconta – c’era quella di girare conla stella di Davide al collo e la kip-pah in testa. Da quando sono tor-nato lo scorso anno, in ragione deigravi episodi di antisemitismo chegià si erano verificati nei mesi pre-

cedenti, ho dovuto cautelarmi neimodi più opportuni: ho tolto la ca-tenina e per strada indosso sempreil cappello”. Jael invece alla stella di Davide, purpiccola, ha deciso di non rinuncia-re. “Ho studiato per cinque anni inIsraele, imparando in quella circo-stanza a convivere con una minac-cia terroristica costante. Mi sforzopertanto di non fare nessun passo

indietro, di non regalare niente achi vuole toglierci tutto. E questo– afferma – vale sia per l’aspettoesteriore che per i comportamentie i luoghi che abitualmente fre-quento”. “Prima di entrare in un supermer-cato – aggiunge Jael – mi guardoattorno e rifletto su quello che stoper fare. Il pensiero va a quello cheè successo. Ed è un pensiero che

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DOSSIER /Parigi, l’anno del coraggioLibertà, sicurezza. Quel bivio che decide il futuro Lo storico israeliano Ilan Greilsammer: “Per i governi europei è il momento della scelta”Quanto della vostra libertà indivi-duale siete disposti a sacrificare afronte di una promessa di maggio-re sicurezza? “Il bilanciamento traqueste due sfere rappresenta la sfi-da più importante per i paesi de-mocratici davanti alla minaccia del-l’Isis. Libertà individuale o sicurez-za? È la domanda a cui i governie i cittadini europei devono dareuna risposta, devono fare delle scel-te”. Dopo i sanguinari attacchi diParigi compiuti dai terroristi di Da-esh – o Isis – in cui sono state as-sassinate 129 persone, la Francia el’intero continente si trovano difronte a un bivio, spiega Ilan Greil-sammer, professore di relazioni in-ternazionali e storia del MedioOriente all’Università israeliana diBar Ilan. Il professore, parlandocon Pagine Ebraiche, pone la que-stione in questi termini: “Da unaparte le nazioni democratiche coin-volte si trovano davanti a decisioniche possono danneggiare i loro va-lori fondamentali e i diritti dei lorocittadini e si chiedono se, una voltaintrodotti provvedimenti restrittivi,sia possibile tornare indietro alpunto di partenza; dall’altra, è chia-ro a tutti come ci si trovi in una si-tuazione di guerra e al nemico, inquesto caso il fondamentalismoislamico dell’Isis, bisogna rispon-dere”. Per Greilsammer, ebreo condoppio passaporto - francese eisraeliano - e convinto sionista, an-che l’emotività gioca la sua partee il pensiero della strage del Bata-clan “ha spostato un’immaginarialinea rossa nella coscienza dei cit-tadini europei, in questo momentopiù disposti a sacrificare la proprialibertà in virtù di una maggiore si-curezza”. La questione però è tantodelicata che Greilsammer stessonon si esprime. “Sono questioni davalutare attentamente e senza leg-gerezza, con la consapevolezza chedavanti c’è un movimento che vuo-le distruggere l’anima democraticadell’Europa. Le porto l’esempio diIsraele: da noi c’è la possibilità, incasi di terrorismo, di disporre unfermo amministrativo di sei mesi,senza che vi sia stato alcun pro-cesso (provvedimento da tempoapplicato al terrorismo palestinesee, dal tragico incendio a Duma, an-che a quello “ebraico”, nella defi-nizione usata dal ministero degli

“Siamo vivi anche grazie allo Shabbat”Gadiel e Jael, medici negli ospedali parigini, raccontano quelle ore drammatiche

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“Gli psicologi avranno molto lavoro” Philippe Ridet, firma di Le Monde, analizza i traumi della città ferita“Niente sarà come prima. Ma que-sto fondamentalmente lo sapeva-mo almeno già da gennaio, dopogli attacchi a Charlie Hebdo e alsupermercato casher. Anche se c’èchi non ha voluto vedere e si èdetto: non sono né vignettista, néebreo. Cosa può succedermi?”. Giornalista e scrittore, autore diRome, l’Italie et moi, Philippe Ridetracconta ogni giorno l’Italia e lesue complessità ai lettori di LeMonde. È un parigino (anche sed’adozione) “ferito”, ma non ha ri-nunciato alla speranza che i suoiconnazionali continuino a riempirei locali e ad affollare le strade e iboulevard. “Lo spero, lo spero davvero di tut-to cuore. Anche se non sarà sem-plice, perché a mio avviso l’elabo-razione di quanto accaduto, permolti, non è nemmeno iniziata.Nella vita, come sappiamo, ci sonoinfatti diversi modi di affrontareun lutto: c’è chi piange, c’è chi re-sta apparentemente imperturbabi-le, c’è chi crolla magari qualchesettimana dopo. Uno standard chepossiamo applicare a questa nuova

situazione, anche se adesso nonparliamo più di fatti individuali madi traumi che riguardano una in-tera collettività. La sensazione –osserva Ridet – è che gli psicologifrancesi avranno molto ma-teriale su cui lavorare”. Ci sono già delle conse-guenze, sottolinea il gior-nalista. Piccoli ma indicativisegnali, tra i quali il consi-derevole aumento di gio-vani che hanno fatto do-manda di arruolamentonell’esercito. Un fatto cheviene interpretato come unriflesso di “patriottismo” e“autodifesa” allo stessotempo. A colpire, prosegueRidet, è anche il significa-tivo e trasversale consensoche vi è stato alle misuredi emergenza adottate dalpresidente Hollande. “Il te-ma della sicurezza – riflette – è or-mai centrale da anni nel dibattitopolitico nazionale. E allo stato at-tuale è crescente il numero di fran-cesi disposti a rinunciare a un po’di libertà in cambio di una mag-

giore tutela. Vale nella vita reale evale anche su internet e social net-work. Il ragionamento di molti è:non frequento siti jihadisti, non honiente da temere. Quindi alla gran-

de maggioranza va bene così”. Facendo delle istanze della destrale sue proposte, Hollande sembraguardare anche ai prossimi appun-tamenti elettorali. In particolare al-le elezioni regionali del 13 dicem-

inevitabilmente scuote e angoscia.Ma alla fine ha il sopravvento lavoglia di normalità”.La soglia d’attenzione è comunquedoppiamente alta, anche perché leresponsabilità sono andate di paripasso. “Ho due bambini – spiegaJael – il più grande ha due anni, ilpiccolo appena cinque mesi. Pensoa loro e mi chiedo: è questo il pae-se in cui voglio che crescano? Nonne sono tanto sicura”. La possibilitàdi un ritorno in Italia non è cosìda escludere. Anche se, viene poiprecisato, “l’idea di un ‘rischio zero’temo sia ormai utopistica”. “Il paradosso di questa situazione– dice Gadiel – è che la vita ebraicaparigina offre vantaggi enormi achi viene da una piccola comunità.Tante sinagoghe e ciascuna con leproprie peculiarità. Ristoranti e at-tività commerciali casher in moltiquartieri. È tutto a portata, tuttodietro l’angolo. Ma dietro l’angolo,come sappiamo, può anche essercialtro”. Un’espressione che, per Ga-diel, non è soltanto figurata. Il suoospedale si trova infatti a pochi iso-lati dall’epicentro dell’ultima ondata

terroristica e in particolare da ruede Charonne, dove l’Isis ha colpitoa morte decine di innocenti e dadove passa ogni giorno nel tragittoverso l’abitazione della fidanzata.“Avrei potuto essere tranquillamen-te per strada, come tanti altri pa-rigini. Un pensiero che mi ha fattovenire i brividi. A tenermi lontanoda questo pericolo – racconta – èstato il fatto che fosse Shabbat eche mi trovassi a tavola, per cele-brarne l’ingresso, assieme a mia so-rella e a suo marito”. Richiamato di corsa in servizio, ha

trascorso giornate lavorative se-gnate da grande intensità e in cuiraramente ha avuto la possibilitàdi distogliere l’attenzione dal suolavoro e concentrarsi su quello chestava accadendo fuori dalle muradell’ospedale. “I dialoghi sono statiframmentari e veloci, non c’eradavvero il tempo per approfondirele cose. Anche se – spiega – peralcuni minuti abbiamo avuto lapossibilità di confrontarci con unainfermiera di reparto, musulmanapraticante, che era di guardia la se-ra del 13 novembre e che è stata

in prima linea nell’accoglienza enella cura dei feriti”. Più complessa la gestione dei rap-porti con colleghi e pazienti perJael, il cui ospedale vive immersoin un contesto socio-abitativo alnovanta per cento islamico. “Ognigiorno sono a contatto con unaestrema varietà di persone, di cuispesso ignoro la provenienza e lostile di vita. Per prudenza – con-fessa – ho quindi l’abitudine di nonrivelare il mio nome”. Nonostantetutte le premure, gli attentati diquesto difficle 2015 sono stati spes-so oggetto di conversazione. E nondi rado anche oltre il limite delladecenza. “Ho assistito a una vastagamma di reazioni. Da una partec’è stato infatti chi ha condannatocon chiare parole quanto accaduto,motivando con efficacia e incisivitàil proprio rifiuto. Dall’altra non so-no certo mancati complottisti,odiatori e veri propri professionistidella menzogna. Lasciarli parlareè dura – conclude Jael – ma agirediversamente rischia di essere purepeggio”.

a.s.

bre, un crocevia ritenuto fonda-mentale per consolidare la sua le-gittimità all’Eliseo. “Come noto, ilrischio è che si vada incontro auna pesante sconfitta per la sinistra

e contestualmente a un ex-ploit del Fronte Nazionaledi Marine Le Pen, che po-trebbe accaparrarsi una odue regioni. Dietro alla de-cisione di Hollande c’èquindi una chiara intenzio-ne di sparigliare le carte edi procacciarsi maggioripossibilità nell’urna. D’al-tronde – spiega Ridet – ilterreno è stato preparato datempo ed è stato alimentatoda una vivace dialettica cheha visto protagoniste, in unclima non esattamente se-reno, forze di sinistra, destraed estrema destra”. Oltre alla politica a mobili-

tarsi è comunque tutto un paese,ritrovatosi compatto nella difesadei valori fondamentali del mondolibero e progredito. Anche senzanecessariamente scendere in piaz-za, anche senza gremire viali e luo-ghi di incontro. Un fatto che hasorpreso alcuni. Ma non il nostrointerlocutore. “Tanti – dice infatti– stanno vivendo questa tragediain una dimensione privata, sfor-zandosi di trovare dentro di sé imezzi per fronteggiarla. A gennaioavvertivamo l’esigenza di mostrarciuniti e numerosi davanti ai nostrinemici. Adesso la priorità è un’al-tra: attingere a tutte le nostre forze,anche e soprattutto psichiche. Far-ci trovare pronti, ammesso che siapossibile, in caso di un nuovo at-tacco”. L’idea che Parigi sia una cit-tà pericolosa, conclude Ridet, “fad’altronde parte del suo dna”. E ri-corda la terribile stagione degli at-tentati che colpirono la capitalenei decenni passati, tra cui l’atten-tato alla sinagoga di rue Copernicdel 3 ottobre 1980 e ancora l’at-tacco di un commando killer al ri-storante Goldenberg, in rue desRosiers, nel quartiere ebraico cit-tadino (9 agosto 1982). “Hanno colpito più volte noi e connoi i valori che rappresentiamo –riconosce la firma di Le Monde -È un momento duro, ma non dob-biamo mollare”.

Adam Smulevich

l’interesse che il mondo pensi cheParigi e quanto accade in Israele enei territori siano la stessa cosa. Ri-sponde alla sua agenda politica.Così come di contro, nell’agendapolitica di alcuni esponenti europeic’è il biasimo costante e per qual-siasi cosa di Israele, con connes-sioni anche in questi casi, al di làdel vero”. Parlando di politica dicontrasto all’Isis, il professore af-ferma di essere convinto che il pre-sidente francese Francois Hollandee il suo primo ministro ManuelValls abbiano ragione: la Franciacosì come tutte l’Europa, gli StatiUniti, la Russia, sono in guerracontro l’Isis e bisogna agire conforza per arginare l’avanzata delCaliffato in Medio Oriente. Alladomanda se pensa che gli ebrei, inparticolare francesi, debbano farel’aliyah (emigrare in Israele), Greil-sammer afferma: “Da convinto sio-nista sono sempre felice se unebreo sceglie Israele e penso chequesto sia il paese dove si può svi-luppare la propria vita ebraica. Det-to questo, ognuno è libero di sce-gliere e non inviterei a cambiareidea chi pensa che Parigi, Roma,New York sia il suo posto. Se sisente insicuro venga, ma non si fac-cia condizionare”.

Daniel Reichel

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diverse persone.Sono passati quasi dieci anni e do-po l’attentato a Charlie Hebdo, do-po che la redazione di un giornalesatirico è stata decimata, si è ri-presentato lo stesso problema:pubblicare o non pubblicare le loro“vignette blasfeme”? La copertinadel primo numero dopo l’attentatomostra un’immagine di Maomettoin lacrime che regge un cartellocon la scritta “Je suis Charlie” e il

titolo “Tutto è perdonato”. Moltigiornali - come i francesi Libéra-tion e Le Monde e la tedesca Fran-kfurter Allgemeine Zeitung - han-no pubblicato l’immagine nella suatotalità. Nel Regno Unito il Guar-dian ha mostrato la copertina “inquanto ha valore di notizia, e me-rita di essere pubblicata”. Negli Sta-ti Uniti Washington Post, Usa To-day e Wall Street Journal hannomostrato l’illustrazione, ma il New

York Times non lo ha fatto. Il problema, poi, non riguardavasolo la nuova copertina, ma anchele vignette “colpevoli” di aver sca-tenato la furia dei terroristi. Le te-state che hanno deciso di non pub-blicare le vignette di Charlie Heb-do sono state criticate ferocementeper le loro scelte, nonostante la di-fesa più frequente sostenesse cheera importante non essere visti co-me disseminatori di contenuti chealcuni lettori potrebbero trovareoffensivi. Il Guardian per esempioha sostenuto la sua posizione conun editoriale in cui si leggeva, traaltre cose: “Il punto cruciale è que-sto: sostenere l’inalienabile dirittodi un giornale di fare le propriedecisioni editoriali non si traduceautomaticamente nell’amplificarequelle decisioni: difendere il dirittodi qualcuno a dire quello che pre-ferisce, non obbliga a ripetere lesue parole”.Il problema, però, sorge nel mo-mento stesso in cui si evoca la“blasfemia” come causa di un’azio-

ne terrorista. Come spiega AlbertoMelloni nel testo che introduce ilvolume Blasfemia, diritti e libertà.Una discussione dopo le stragi di Pa-rigi a cura dello stesso Melloni,Francesca Cadeddu e FedericaMeloni (in uscita per il Mulino nel-le prossime settimane), senza inalcun modo voler avallare le ucci-sioni in molti hanno ritenuto cheinquadrarle in una logica di azio-ne-reazione permettesse di capirequalcosa in più. E non sono pochi quelli che han-no pensato che Charlie Hebdo ve-ramanete praticasse la blasfemia,rendendo quindi non giustificabilema “comprensibile” una reazionenon espressa per le normali viegiudiziarie - a cui era peraltro abi-tuata, la redazione del settimanalesatirico - ma che ha portato a unmassacro. Molti però hanno inve-ce espresso la convinzione che uncrimine di blasfemia fosse statoconsumato, ma nel senso opposto:a essere stata blasfema era l’invo-cazione di Dio da parte degli as-

Noto psicanalista, allievo di JacquesLacan e discepolo di YeshayahouLeibowitz, Gérard Haddad è inFrancia un volto noto. Autore, prin-cipalmente, ma anche traduttoreed editore, ha pubblicato testi nonfacili e i suoi interventi sia sul por-tale ebraico Akadem che su radioe televisioni nazionali hanno un se-guito notevole. Destinato ad au-mentare. È grande infatti la riso-nanza che sta avendo il suo ultimolibro, Dans la main droite de Dieu:psychanalyse du fanatisme, uscito asettembre per le Edizioni PremierParallèle con un tempismo rispettoagli ultimi avvenimenti di Parigi cheha quasi dell’inquietante. L’incrocio fra la psicanalisi e il pen-siero religioso non è parte ovviadel suo percorso: Haddad, infatti,nato a Tunisi nel 1940, è stato pri-ma di tutto ingegnere, agronomo,con un passato da ricercatore inSenegal. Racconta di aver scopertoFreud e il suo Introduzione alla psi-canalisi in un periodo difficile del-l’adolescenza, durante il liceo, e diesserne rimasto così colpito da de-cidere di diventare medico e so-prattutto psicanalista. L’incontrocon la malattia mentale di una per-

sona cara, però, e la realizzazionedi come gli ospedali psichiatricipossano a volte essere un luogo dipuro orrore lo avevano convintodi non avere le forze per confron-tarsi con la follia, spingendolo cosìin un direzione del tutto diversa.Ci sono voluti poi dieci anni e l’ana-

lisi con Lacan per riportare Had-dad al suo progetto originario, egrazie al sostegno di quello che sa-rebbe poi diventato suo maestro siè riavvicinato alla medicina, e infinealla psicanalisi. Proprio l’analisi, eil conseguente percorso di riavvi-cinamento alle sue radici ebraiche

si incrociano nell’ultimo libro, incui affronta “quella febbre che siimpossessa a volta dell’anima degliuomini, portandoli alla convinzioneprofonda di essere detentori dellaverità”. Sono domande complesse,quelle a cui vuole rispondere Had-dad. Come è possibile comprende-re che alcuni individui si precipitinoa massacrarne altri? Al fanatismosino ad ora non è stata trovata altrarisposta che la violenza, come pereliminare una parte malata del no-stro corpo, mentre nel volume vie-ne proposto una analisi dei molte-plici fattori che al fanatismo por-tano oggi, come già in passato. Perscoprire quali siano i meccanismimentali e i percorsi psichici cheportano a lasciarsi travolgere dalperseguire un’idea fino alle sueestreme conseguenze. È una letturaa volte psicologica, a volte antro-pologica, quella in cui si è avven-turato Haddad, iniziata un giornoa Tunisi, città dove ha passato i pri-

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DOSSIER /Parigi, l’anno del coraggio

Fanatismo, febbre dell’animaGérard Haddad, fra psicanalisi e pensiero religioso

I manovali della morte e il pretesto della blasfemiaViolenza, libertà d’espressione, satira, diritti. Da Charlie in poi la necessità di riflettereSarà fra poco passato un anno daquando, fra il 7 e il 9 gennaio del2015 un gruppo di terroristi, a Pa-rigi, ha portato a termine primaun attentato contro la sede delgiornale satirico Charlie Hebdo epoi, barricandosi all’Hypercacherdi Porte de Vincennes, ha causatoaltri morti. La redazione di Charlie Hebdo eraritenuta dagli attentatori colpevoledi aver offeso il Profeta con le suevignette, colpevole di un delitto dapunire con la morte.Alla fine del 2005, in Danimarca,uno scrittore di libri per bambiniche voleva pubblicare un libro suMaometto e sull’Islam scoprì constupore che ogni illustrazione delProfeta era proibita. Non è davverocosì, ma fu in questi termini chene parlò con la redazione culturaledel giornale Jyllands Posten, la qua-le fece scoppiare il caso sottoline-ando solo un aspetto del proble-ma, ossia quello della limitazionedella libertà di espressione. Anche in seguito alle reazioni dellapubblica opinione il giornale decisedi commissionare le famose vi-gnette, per sfidare quella che con-siderava l’intolleranza dell’Islam.Con l’effetto - non pienamenteprevisto - di scatenare proteste vi-brate nel mondo musulmano. Vi-brate e violente. Quelle caricature,che si inserivano in un dibattitointerno al mondo danese sul temadell’auto-censura nei media, eranoaccompagnate da un testo che so-steneva come i danesi non osas-sero più confrontarsi con gli im-migrati musulmani presenti nelpaese. Era una discussione politicalegata alla situazione interna, cheè continuata, e il caso delle vignet-te ha avuto l’effetto di radicalizzarele opinioni su significato e impor-tanza della libertà di stampa. I gior-nalisti danesi oggi sono più con-sapevoli delle implicazioni di talediritto costituzionale. E lo sono siache abbiano sostenuto la pubbli-cazione delle vignette incriminatesia che fossero contrari. La stampadanese le vignette le ha poi ripub-blicate nel 2008, come reazione al-la scoperta di un complotto chemirava a uccidere uno degli autori.Sono stati vari gli attentati collegaticon le “vignette blasfeme pubbli-cate in Danimarca”. E sono morte

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mi vent’anni della sua vita, dove erastato invitato per una conferenzasul fanatismo e sulla barbarie. “Ab-biamo molto discusso di quella bar-barie che senza ombra di dubbiotra tutte le possibili fonti di dolore

per gli esseri umaniè la più atroce”. E

spiega: “Si tratta di unlibro che ha una storia un po’ par-ticolare, in realtà, perché mi sonotrovato a scriverlo di getto, in po-che settimane. Ero e resto convintoche uno psicanalista possa averequalcosa da dire su questo fenome-no del jihadismo che è in verità unanuova guerra mondiale, una situa-zione in cui un gruppo di uominiha dichiarato guerra all’insiemedell’umanità, a tutta l’umanità, mu-sulmani compresi, sciiti in partico-lare. Ho cercato di far luce comesono capace. Mi è parso che cer-care di spiegare il fenomeno possaessere une delle armi che abbiamo,

uno strumento per comprendere”.La prima parte del libro dimostracome l’aspirazione radicale all’uni-versale possa portare al fanatismo,come sia una delle matrici stessedel fanatismo. Alla base, la volontàdi imporre all’insieme dell’umanitàuna convinzione, un’ideologia ouna credenza di un dato gruppoumano, che si pone come deten-tore di una verità assouta. E l’ideache se gli altri non condividonoquesta visione del mondo diventaimpossibile raggiungere quella sorta

di età dell’oro in cui tutto sarà per-fetto. Per arrivarci, dunque, è ne-cessario procedere a dei sacrificiumani, bisogna eliminare tutti co-loro che non condividono quel da-to sistema di valori. “Si tratta di una volontà di univer-salizzazione nota - spiega ancoraHaddad - una nozione di universaleche viene vissuta come il bene pereccellenza. D’altronde non è unanovità: è il sogno della torre di Ba-bele, di un mondo in cui parliamotutti la stessa lingua, le stesse opi-

nioni, e addirittura in cui siamo tuttiriuniti sotto un governo mondialeche porterà la pace e la felicità. Matutte le esperienze che abbiamoavuto mostrano che questo proget-to è mortifero e catstrofico”. Il pas-saggio logico successivo è una di-samina delle posizioni tenute dalletre grandi religioni monoteiste, equi il tono di Haddad diventa im-provvisamente più fermo, quasi du-ro: “Bisogna però distinguere fra imonoteismi. L’ebraismo ha una ca-ratteristica sostanziale che lo di-

stingue da cristianesimo e islam:non solo non si pone come univer-sale, ma rifiuta nettamente il pro-selitismo. E questa è automatica-mente una potentissima difesa daogni forma di fanatismo. Certo, c’èchi cerca di sostenere che quelloche succede in Israele sia simile,ma è un errore. È vero che in Israele ci sono degliestremisti, ma non si tratta di quelloche noi siamo abituati a considerareuna forma di fanatismo religioso.Ci sono dei nazionalisti, come intutti i paesi del mondo, e anche deirazzisti, certamente, ma si tratta diuna società dotata di un sistema dianticorpi fortissimo. L’uomo piùstraordinario che ho conosciuto,uno dei miei maestri, YeshayahouLeibowitz, era profondamente an-tirazzista, e possedeva una eccezio-nale apertura di spirito. Era un uo-mo di una fede incrollabile, asso-luta, ma nella sua assoluta ortodos-sia non la pensava come loro, emostrava una apertura mentale im-pareggiabile. Non è automatica-mente la religione che porta al fa-natismo”.

a.t. twitter @atrevesmoked

sassini. Il fanatismo e la motiva-zione “religiosa” che parrebbe es-sere all’origine degli attentati del13 novembre non si sottraggonoal medesimo duplice ragionamen-to. Nel caso delle vignette il pro-blema sarebbe il superamento diquel limite che in teoria potrebbee per alcuni dovrebbe separarel’ironia dalla blasfemia, in nomedella libertà d’espressione. Nel casopiù recente invece si arriva al pa-radosso di individuare come “bla-sfema”, e quindi da punire, una so-cietà secolare e pluralista. Quellastessa società che oltre a crederenella libertà d’espressione e nellagioia di vivere aveva identificatonella “satira blasfema” un valoreper la laicità dello stato. Ma una tale satira spingendo ilfondamentalista a “uscire allo sco-perto” permette di individuarlo edi collocarlo al di fuori dalla so-cietà civile. In Francia, inoltre, varicordato che la manifestazionestessa della propria appartenenzareligiosa in uno spazio pubblico èpercepita come una minaccia allalaicità dello stato. E che si tratti diun velo, di portare la kippà o sfog-giare una croce al collo, o in alcunicasi anche solo di indossare unagonna lunga, si rischia di scontrarsi

con i principi della “Charte de lalaïcité” firmata dal ministro Vin-cent Peillon nel 2013. Con il risul-tato che la proibizione di manife-stare “ostensibilmente” nelle scuoleun’appartenenza religiosa implicaelevare la laicità a principio ugualeo superiore alla libertà di manife-stare la propria fede. E fanatismo, fondamentalismo,blasfemia, amoreper la libertà, li-bertà d’espres-sione, odio perla libertà altrui,antisemitismo,concetti cheemergevano neidiscorsi del gen-naio scorso, sono ri-comparsi con forza durante tuttoun anno puntggiato di episodi diintolleranza di varia gravità, e sonotornati prepotentemente alla ribal-ta in questi giorni cupi. Parigi triste, deserta, disperata;frontiere che si chiudono; diffiden-za, paura e il ritorno di un linguag-gio che inquieta nei suoi moltepliciaccenti xenofobi; il sospetto neiconfronti di ognuno e di ogni cosa.Paiono essere questi, oggi, i temidominanti della vita quotidiana.Con una estrema semplificazione

si potrebbe dire che la ragione era-no alcune vignette satiriche, prima,e un eccesso distorto di fede, ora.Sono ovvimente in realtà molte-plici e ben più complesse le pos-sibili motivazioni di quanto acca-duto, e le pagine di questo dossieroffrono spunti di approfondimentosu alcune di queste prospettive, maoccorre porsi un’altra domanda, acui il già citato libro del Mulinocerca di rispondere. Esiste un di-

ritto a non es-sere offesi?Prova a ri-spondere lostesso Mello-ni: “Se la so-cietà pluralista

può esigere dalle fedi di accettarel’irrisione, foss’anche greve, perchélo spazio pubblico è per definizio-ne il luogo nel quale non può for-marsi un diritto a non essere ‘offesi’come limite della libertà di espres-sione, è altrettanto chiaro che lostesso tipo di espressione ha un si-gnificato diverso se è enunciata dauna maggioranza contro una mi-noranza o da una minoranza con-tro una maggioranza (la satira, adesempio, rivendica il suo dirittocome espressione della minoranzadegli irriverenti, per definizione),

se è la voce del violento o la vocedell’inerme, se esprime il punto divista dei perpetratori di un crimineo delle loro vittime, o dei discen-denti degli uni e degli altri.”Va tenuto in considerazione ancheil fatto che la recente “crisi dei mi-granti” pur se non numericamentecosì imponente come certa infor-mazione tende a far credere sicu-ramente è destinata a spostare gliequilibri europei anche dal puntodi vista dell’identità religiosa deisuoi cittadini, rendendo di fattoimprorogabile una discussione sul-la costruzione stessa dello spaziopubblico, uno spazio che deve ave-re caratteristiche condivise e con-divisibili. Non si tratta di costruirea tavolino una sorta di par condi-cio interreligiosa che tenga contodelle reciproche sensibilità e per-metta di bilanciare offese e libertà,ma di riflettere insieme sulla defi-nizione e sulla costruzione di valoricomuni e di un equilibrio che per-metta a ognuno di sentirsi rispet-tato e di rispettare l’altro, e chenon faccia sentire nessuno estra-neo. Non sono necessariamente leidentità religiose, le fedi, a doversifar carico di un processo da cui di-pende almeno parzialmente il fu-turo dell’Europa, ma di sicuro è

stato importante il gesto di alcuniimam e dei rappresentanti dellacomunità ebraica francese che in-sieme, due giorni dopo gli attentatimultipli che hanno scosso Parigi,si sono trovati davanti al Bataclane insieme hanno voluto cantare laMarsigliese. Con loro, come si ve-de nell’immagine pubblicata inqueste pagine, si trovava anche loscrittore francese di origini ebrai-co-polacche Marek Halter, che hapubblicato quest’anno un libro daltitolo significativo: Réconciliez-vous!(Éditions Robert Laffont). Occorre ricordare anche le paroledi un altro grande autore, un fu-mettista che ben rappresental’identità multipla di un continente.Il francese Joann Sfar, di originiebraico-algerine da parte di padreed ebraico-ucraine da parte di ma-dre, ha pubblicato da poco un li-bro, intitolato Si Dieu existe (inuscita in edizione italiana per Li-zard-Rizzoli i primi giorni di gen-naio) in cui compare un personag-gio simile al protagonista della for-tunata serie Le chat du rabbin. Ein una tavola indimenticabile il gat-to dice “Si Dieu existe, il ne tuepas pour un dessin”.

a.t. twitter @atrevesmoked

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pagine ebraiche n. 12 | dicembre 2015

AA.VV.BLASFEMIA,DIRITTI E LIBERTÀ Il Mulino

Gérard HaddadDANS LA MAINDROITE DE DIEU PremierParallèle

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ú–– Francesca Matalon

I territori perduti della nazione nonsono lande desolate, luoghi lontanidove la Repubblica e i suoi valorinon sono mai arrivati. Quei terri-tori perduti sono nel cuore dellaFrancia, nel cuore delle città, dellestrade e delle scuole. Sono le ban-lieue, le periferie delle grandi città,abitate da una popolazione di im-migrati musulmani, prevalente-mente dai paesi del Maghreb, sem-pre più densa e sempre più restiaa integrarsi. A definirle così è statoGeorges Bensoussan, storico ebreofrancese di origine marocchina, re-sponsabile editoriale del Mémorialde la Shoah di Parigi, curatore nel2002 del volume intitolato Les Ter-ritoires perdus de la République (Iterritori perduti della Repubblica),una denuncia contro i mali primadi tutto dell'istruzione ma in ge-nerale della società francese – laviolenza, l'islamismo radicale, l'an-tisemitismo – di cui una nuova edi-zione è appena comparsa nelle li-brerie francesi. Una riflessione cheparte dalla messa in luce di unarealtà per cui ci troviamo oggi difronte a “un fatto storico inedito”:per la prima volta si assiste a un

fenomeno di “disintegrazione, anzidi disassimilazione”. Ed è per que-sto che ora, quando si parla di ter-ritori perduti, non si può più chia-mare in causa solo la tanto cele-brata Repubblica, intesa per primacosa una forma di governo, ma lanazione francese stessa, intesa co-me l'insieme del suo passato, i suoivalori, la sua lingua e la sua lette-ratura – in altre parole, la sua cul-tura. In essa, una parte della gioventùdi cittadinanza francese si ricono-sce ogni giorno un po' meno.“Stiamo assistendo inFrancia all'emergere didue popoli – ha affer-mato Bensoussan – alpunto che qualcuno in-voca addirittura i germidi una guerra civile, duepopoli che si stanno for-mando fianco a fiancoe che si guardano spesso con osti-lità”. Le ragioni del fenomeno nonsono solo sociali, secondo lo sto-rico. Accanto alla disoccupazione,alla povertà, alla marginalità anchegeografica, vi è una vera e propriaregressione identitaria che ha in-fluito su questo fondo di frustra-zione e risentimento. “Una regres-

sione identitaria – spiega Bensous-san – che innanzitutto riguarda po-polazioni giovani e numerose, ve-nute da un mondo musulmano inespansione e che, allo stesso tem-po trova la sua espressione politicanell'islamismo e non più nel na-zionalismo arabo che è oramai af-fondato. Si aggiunga poi – conti-nua – il contesto mediatico, conla tv via cavo e internet che hannofavorito la diffusione delle tesi isla-miste e di un antisemitismo viru-lento proveniente dal MedioOriente”. La congiunzione di tutti

questi fattori demografici, so-ciali, culturali e mediatici ha

perciòdivisoil pae-se, esecon-do lostorico

questo si è visto proprio all'in-domani degli attentati di gennaio,la cui reazione ha mostrato unpaese ben lontano dall'essere unito,bensì l'esistenza di “due paesi chevivono l'uno accanto all'altro, manon formano più una nazione”. A tutto questo è legata la peculia-rità di quello che Bensoussan ha

individuato come “l'antisémitismedes banlieues”. È diverso da quellotradizionale, legato soprattutto agliambienti di estrema destra, si trattadi un antisemitismo “d'importa-zione”. È nelle famiglie che si tra-smette e si apprende, e arrivati ascuola si è già pienamente radica-to. Diverse branche dell'antisemi-tismo vengono così a unirsi nei cli-ché e nel linguaggio utilizzato: ladestra estrema che conosce unarinascita, una certa sinistra estremaantisionista che qualche volta faticaa mascherare il suo antisemitismo.“Ma il ramo più grande, e di granlunga, è quello arabo-islamista. So-lo quello – sottolinea Bensoussan– “passa agli atti, insulta, colpiscee uccide”. Del resto non si trattapiù di un antisemitismo di esclu-siva matrice arabo-islamista poichéoggi straripa nelle banlieues, ne èdiventato il codice d'integrazionesociale, un'integrazione “che inFrancia viene fatta al contrario,escludendo la parte ebraica dellasocietà”. In una grande intervistarilasciata a Pagine Ebraiche nelfebbraio del 2012, Bensoussanmetteva già in guardia sul fatto chetale islamismo militante “a casanostra” potesse rappresentare un

la società francese che quelle eu-ropee hanno perso la capacità dicogliere il senso delle cose, di sta-bilire dei significati condivisi, dianalizzare e cogliere il senso delpresente, surrogando tale incom-petenza con il rifugio in una me-moria al medesimo tempo tantoconsolatoria quanto illusoria (“i beitempi trascorsi”) oppure in quelche resta di una speranza verso ilfuturo dove il feticcio progressistacompensa la perdita di orizzontenel tempo corrente. Alla base delpensiero dell’autore vi è una notadi profondo pessimismo, legato aldeclino del repubblicanesimo e allacrisi della laicità nel corpo dellesocietà franco-europee. Non dimeno, tema ricorrente è l’antise-mitismo come specchio rovesciato

delle difficoltà in cui si trovano ipaesi a sviluppo avanzato, dinanzi

alle trasformazioni indotte dallaglobalizzazione e dalle migrazioni.

Citando Paul Valéry, il filosofo ri-manda al fatto che: “Quand unhomme ou une assemblée, saisisde circonstances pressantes ou em-barrassantes, se trouvent contraintsd’agir, leur délibération considèrebien moins l’état même des choses,en tant qu’il ne s’était jamais pré-senté jusque-là, qu’elle ne consultedes souvenirs imaginaires”. L’im-maginazione, ben lontana dall’es-sere una risorsa, diventa così unafuga dalla realtà. Disarmandoquanti dovrebbero invece provve-dere politicamente – ovvero negliinteressi della collettività – in basea ragione e consapevolezza. Fin-kielkraut, insieme ad altri pensatorie scrittori come Eric Zemmour,Michel Houellebecq e Michel On-fray, è da tempo nell’occhio del ci-

ú–– Claudio Vercelli

La violenza terroristica di questigiorni, partorita dal radicalismoislamista, non fa altro che rilanciarealcune questioni di fondo: l’immi-grazione musulmana, massiccia econtinua, è integrabile nelle nostresocietà? Ed ancora, a quali condi-zioni siamo capaci di pensare noistessi dinanzi ai cambiamenti col-lettivi che rischiano di soverchiar-ci? Esiste un problema di identitànazionale, repubblicana e, in casoaffermativo, come va ridefinito iltema alla luce delle trasformazioniche, in linea generale, subiamo sen-za riuscire a gestirle? Il filosofo epolemista Alain Finkielkraut, notoanche con il diminutivo di “Finky”,prolifico autore ed esponente dellapiù ampia e oramai storica gene-razione dei nouveaux philosophes,affermatisi in Francia a partire dallaseconda metà degli anni Settanta,in contrapposizione alle ortodossiecristallizzate dei marxismi europei,si interroga su questi ed altri temiin un recentissimo, volume, La seu-le exactitude (L’unica esattezza, ti-tolo che rimanda a una citazionedi Charles Péguy), da poco uscitoper l’editore Stock di Parigi. L’au-tore, ripetutamente tradotto in Ita-lia negli anni scorsi, è figlio di ge-nitori sopravvissuti alla Shoah. For-matosi alla prestigiosa École nor-male supériore della capitale fran-cese, fucina di docenti e ricercatori,ha successivamente insegnato sto-ria del pensiero presso il diparti-mento di Scienze Umanistiche eSociali dell’École polytechnique.Pensatore fortemente legato al ma-gistero intellettuale di HannahArendt, Emmanuel Lévinas e Vla-dimir Jankélévitch ma anche diFreud e Heidegger, da semprecombatte una battaglia controquelle che considera le posizionidel relativismo culturale e valorialediffuse da tempo nei paesi occi-dentali. Il suo ultimo volume, chesi inserisce in questo filone di ri-flessioni, raccoglie e riordina i nu-merosissimi interventi succedutisi,tra il 2013 e l’anno corrente, sianelle trasmissioni di Radio Com-munaute Juive, di cui è abitualeospite, sia su Le Figaro e il mensiledi Elisabeth Lévy Causeur. La pro-spettiva di Finkielkraut è netta: sia

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n. 12 | dicembre 2015 pagine ebraiche

DOSSIER /Parigi, l’anno del coraggio

Il nostro torpore ormai genera mostriGeorges Bensoussan punta il dito sui “Politici senza coraggio”

GeorgesBensoussanLES TERRITOIRES

PERDUS

Fayard

“L’Europa e la Memoria. Le lancette sono sfasate”Alain Finkielkraut denuncia il rischio imminente di un declino dei valori occidentali

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nuovo nazismo, “con la sua intol-leranza nei confronti della varietàumana, il suo irrispetto per le don-ne, il suo delirio purificatore, la suaattesa della fine dei tempi”. A talproposito, lo storico citava l'esem-pio di uno studente francese di re-ligione islamica che al ritorno daun viaggio ad Auschwitz vinse unconcorso di poesia, ma al momen-to della premiazione ufficiale do-vette rinunciare a declamarla: “lapoesia conteneva una parola chenon poteva da lui essere procla-mata in pubblico, la parola 'ebreo'”. Una situazione dunque ora portataall'estremo, che tuttavia per Ben-soussan è chiara da molto tempoma vittima della volontà delle isti-tuzioni, dei media e della stessasocietà francese di chiudere gli oc-chi e non parlarne. “L'omertà faparte dei problemi denunciati nellibro – afferma – si ha paura di direciò che si vede come se parlare diciò che è reale fosse farlo esistere”.Les territoires perdus de la Répu-blique nacque infatti dai raccontipervenuti a Bensoussan al Mémo-rial de la Shoah di alcuni insegnan-ti e presidi di istituzioni scolastichesul fatto che accanto a una cre-scente offensiva islamista nellescuole superiori francesi era sem-pre più difficile affrontare certi ar-gomenti, in particolare legati allaseconda guerra mondiale. Di lì leconstatazioni, poi divenute un in-sieme di saggi, sul fatto che l'inte-

grazione di una parte di popola-zione delle banlieues, sempre piùrelegata in quelle periferie e colpitadalla disoccupazione di massa, erafallita. “Tuttavia – rileva lo storico– sembrava difficile in Francia farequesta semplice osservazione poi-ché si rischiava di essere accusatidi razzismo, che del resto è pro-prio quello che è successo”. Ancherecentemente, quando per aver

detto in una trasmissione radiofo-nica che i musulmani delle banlie-ues succhiano l'antisemitismo conil latte dalle madri fin da bambini,Bensoussan è stato denunciato dalMouvement contre le racisme etpour l'amitié entre les peuples.Accanto a questo, si registrano an-che un interesse e un numero didenunce sempre maggiori degli at-ti antisemiti stessi.

Mentre nel 1990, dopo la profa-nazione del cimitero ebraico diCarpentras, scesero in piazza cen-tinaia di migliaia di francesi com-preso il presidente della Repubbli-ca, solo una generazione dopo, nel2012, in solidarietà alle vittime del-la strage alla scuola ebraica di To-losa e nel 2014 a quelle della spa-ratoria al Museo ebraico di Bru-xelles, lo fecero solo gli ebrei. Unsegno evidente, secondo Bensous-san, della crescita di un ripiega-mento su se stessi e dell'indifferen-za, nonché di una frammentazionedella società francese e allo stessotempo di un certo scoramento. Una disaffezione che ha però forseanche delle altre cause, e cioè ilfatto che quell'antisemitismo “nonveniva da dove ce lo si aspettava,cioè l'estrema destra”. Mohammed Merah, l'attentatoredi Tolosa, così come Mehdi Nem-mouche, quello di Bruxelles, eranomusulmani, e dunque “il nemiconon era quello giusto” contro cuimanifestare. “Una certa strumentalizzazionedella storia – fa quindi notare Ben-soussan – ha paralizzato la rifles-sione politica”. Per giunta, sia Me-rah sia Nemmouche erano nati inFrancia e cittadini francesi, e fre-quentavano il liceo nel 2002, quan-do uscì Les territoires perdus de laRépublique. Un dato preoccupanteche, osserva Bensoussan, “ponedegli interrogativi sull'educazione

nazionale, e in particolare su que-sta idea un po' semplicista secondola quale un buon insegnamentodella Shoah, che è il caso dellaFrancia, sarebbe sufficiente a met-tere un freno a razzismo e antise-mitismo”. Una necessità, quella diricercare nuove prospettive di di-dattica e di Memoria lontane dallameccanica ripetizione di formulea fronte di una crescita di frainten-dimenti e letture strumentali, sucui Bensoussan aveva già messoin guardia anche nella sua intervi-sta a Pagine Ebraiche. “Stiamo as-sistendo – aveva detto – a una pre-occupante avanzata del culto dellaMemoria. Il rischio è la costituzio-ne di una religione civile in cuil'Europa in una stagione cupa sirinchiuda, una stagione in cui sirespira la perdita di fiducia nei con-fronti del presente e l'incapacità diprogrammare l'avvenire. Il passato diviene un rifugio delpensiero e ritorna in quanto strut-tura museale dove portare al riparoi propri sentimenti”. Ma oggi, dopola presa di coscienza seguita agliattentati di gennaio e ancor più aquelli di novembre, si andrà final-mente alla radice del problema?Lo storico non ne è sicuro: “L'ac-cidia intellettuale e soprattutto lamancanza di coraggio politico fan-no sì che questa rischi di essereun'onda senza un seguito. La forzadel torpore – afferma – rischia dicondurre all'immobilismo”.

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clone. Ad essi, infatti, si imputa ilnon adoperarsi più nella lotta con-tro il razzismo ma di essere sem-mai preoccupati esclusivamentedelle derive dell’antirazzismo, ditessere le lodi del francese di cetomedio di contro all’attenzione peri percorsi di integrazione degli im-migrati, di nutrire un pregiudizioa tratti islamofobicoe un’ossessione perl’identità nazionale.Non pochi criticihanno rilevato cheuna parte di questeposizioni accostanopericolosamente l’in-tellettualità che leesprime al Front Nationaldi Marine Le Pen, quanto menosul piano della formulazione dellepriorità dell’agenda culturale. I de-trattori rimandano al fatto che laradicalità di certe idee sarebbe pro-porzionale al marketing comuni-cativo, prestandosi al gusto dellapolemica fine a se stessa. In realtà,

il mutamento delle idee di AlainFinkielkraut segue una traiettoriache in Francia, così come in Italia,ha connotato una parte del mondointellettuale formatosi a cavallo tragli anni Sessanta e Settanta, pas-sando da posizioni di sinistra, an-corché tra di loro già in originemolto diversificate, ad un’attenzio-ne molto più accentuata per la

radice dell’identità individualee, in im-media tor i f l e s so ,collettiva.L’oppor-tunismo,del quale

sono ripetutamente accusati, sem-bra più nascondere un conserva-torismo di ritorno, dove all’ideaastratta di riformabilità della so-cietà si è sostituita la necessità con-creta di preservare la comunità dauna globalizzazione che è vista co-me un processo senza volto né so-stanza.

AlainFinkielkrautLA SEULEEXACTITUDE Stock

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Dopo la tragica strage di Parigi del13 novembre, la propaganda del-l’Autorità palestinese ne ha subitoattribuito la responsabilità a Israe-le. E a chi, se no? Attribuire aIsraele la colpa dell’attacco, cosìcome avvenne dopo l’assalto alletorri gemelle dell’11 settembre2001, dimostra con che tipo di par-tner Israele debba trattare. Ben no-ti uomini politici, analisti, giorna-listi e attori europei, se non in for-ma diretta, indirettamente incolpa-no Israele di essere la vera causadell’ondata di terrorismo in Euro-pa. Queste persone irresponsabilioltre che incompetenti nel rilevarelo stallo dei negoziati tra israelianie palestinesi volutamente ignoranol’ambiente islamico – o meglio i di-versi ambienti islamici – nel cuivicinato Israele deve muoversi.L’analisi di chi separa il terrorismoanti-occidentale (ingiustificabile)da quello anti-israeliano (invecegiustificabile) riflette una fissazio-ne unilaterale che forse potrà gene-rare un senso di soddisfazione ecompiacimento all’anima degli au-tori, ma che non produce nessunaincidenza sul piano dell’analisi so-cio-politica oltre che della politicareale, e diciamolo chiaramente, su-scita invece ripugnanza. La man-canza di un assetto politico defini-tivo della regione medio-orientalenon può essere del tutto trascurata

ma dipende quasi esclusivamentedal rifiuto islamico di ammettere alsuo interno l’esistenza di uno Sta-to ebraico. L’Islam, soprattutto apartire dalla rivoluzione di Kho-meini nel 1979, ha non solo radica-lizzato le sue posizione anti-ebrai-che e anti-israeliane, ma ha anchesviluppato una posizione aperta-mente guerrafondaia nei confrontidell’Occidente in generale e delmondo cristiano in particolare.L’11 settembre e ora il 13 novem-bre sono la manifestazione parossi-stica di quello che Bergoglio chia-ma giustamente una terza guerramondiale. Questo fondamentali-smo politico islamico non innovanulla ma solo si accumula alla po-sizione intransigente nei confrontidell’esistenza di Israele che apparegià chiaramente fin dal dibattitoall’assemblea generale dell’Onunel 1947 in vista della proposta dispartizione della Palestina al ter-mine del Mandato Britannico. Inquell’occasione il rappresentantepalestinese Jamal El-Husseini (pa-rente del mufti filo-nazista) dichia-rava:Un’altra considerazione di fonda-mentale importanza è quella del-l’omogeneità razziale. Gli arabi vi-vono in un vasto territorio, estesodal Mediterraneo all’Oceano India-no, parlano una stessa lingua, con-dividono la stessa storia, la stessatradizione e le stesse aspirazioni.La loro unità è una solida fonda-zione per la pace in una delle zonepiù centrali e delicate del mondo. Èpertanto illogico che le NazioniUnite si associno all’introduzionedi un corpo estraneo in quella ben

consolidata omogeneità [...]. La fu-tura organizzazione costituzionaledella Palestina dovrebbe essere ba-sata [...] sulla costituzione di unostato arabo democratico che inclu-da l’intero territorio della Palestina. Oggi, a parte la tragica barzellettadell’unità araba, con i massacriquotidiani fra sunniti e sciiti, ri-troviamo ancora le medesime posi-zioni negazioniste nei confronti deinon-islamici e degli ebrei in parti-

colare. Nella confusione mentale diquesti estremismi islamici, a voltesi nega agli ebrei il carattere di na-zione e si concede loro solamentel’appartenenza a una religione, eciò serve a sostenere la tesi che gliebrei non hanno diritto a una so-vranità politica statale perché que-sta è riservata solo ai gruppi nazio-nali. Altre volte invece si contestaproprio la religione ebraica che suun piano teologico viene definita

dall’Islam come inferiore e da com-battere senza pietà. In altre paroleagli ebrei non viene concesso alcu-no spazio. La carta costituzionaledi Hamas propone una soluzione alivello individuale (art. 7): Il Profeta – le preghiere e la pace diAllah siano con Lui – dichiarò:“L’Ultimo Giorno non verrà finchétutti i musulmani non combatte-ranno contro gli ebrei, e i musul-mani non li uccideranno, e fino a

Dopo l'11 settembre molti di noihanno tentato, ognuno nel propriopiccolo ruolo, di impedire un cor-tocircuito fra islamismo di massa,islamofobia, restrizione dei dirittidemocratici. Abbiamo tentato dispiegare alle giovani generazioniche Islam non significa terrori-smo, che non tutti i musulmani

possono essere considerati pazzisuicidi, che sacrificano al dio Mo-loch la loro stessa carne e quelladei loro figli. Abbiamo, anzi, so-stenuto con forza che la forma-zione di un simile pregiudiziosarebbe stato il miglior modo perfar trionfare i fondamentalismiche reclutano i propri adepti nelmare dell'odio ideologico e dellafrustrazione sociale. Abbiamo pro-testato contro la costruzione dimuri insensibili alle sofferenze dimigranti, nei cui occhi rivivevamole esperienze nostre o di nostri fa-miliari che hanno dovuto soppor-

tare nella propria vita analogheangosce e privazioni. Abbiamo de-nunciato la debolezza di un'Eu-ropa richiusa su stessa e in cuistavano trionfando, Paese dopoPaese, governi di vario colore, cheriportavano in auge slogan nazio-nalisti e xenofobi che speravamoseppelliti per sempre. Abbiamotentato di mantenere vivo il di-scernimento che impedisse di fardi tutta l'erba un fascio e ci con-sentisse di individuare nell'“altraparte”, il variegato mondo isla-mico, interlocutori possibili, ma-gari fra coloro che subivano

quotidianamente le minacce instile mafioso della propaganda ji-hadista. Abbiamo chiesto loro,spesso invano, di far sentire lapropria voce, gli abbiamo garan-tito il nostro sostegno forte e visi-bile. Ora, dopo gli ultimi attentatiparigini, dobbiamo ammetterlo:abbiamo perso. Le esplosioni e lesparatorie del terribile venerdì 13che ha vissuto la Francia, le enne-sime dopo Londra, Madrid, an-cora Parigi, Bruxelles eCopenaghen, hanno spazzato viaogni possibile linea di distinzione;l'Europa è in guerra e in guerra,

si sa, non c'è tempo per ragiona-menti e distinguo. In guerra nonsi fanno prigionieri, solo morti. Enon fa niente se gli attentati pari-gini giungono due soli giornidopo quelli, altrettanto efferati,vissuti in Libano. Non conta chele principali vittime del terrori-smo islamico siano, e per distacco,i musulmani stessi. Iraq, Afghani-stan, Libano, Egitto, Yemen, Tu-nisia, Siria, ovunque, nel mondoislamico, le vittime di attentati eguerre civili si contano a decine,se non centinaia di migliaia. Nonimporta nulla, in guerra non sifanno prigionieri. Non ha alcunaimportanza che la coalizione in-ternazionale che sta bombardando

Islam radicale, un pericolo troppo a lungo sottovalutato

Un corto circuito che annuncia tempi difficili

DOSSIER /Parigi, l’anno del coraggio

ú–– Sergio Della PergolaUniversitàEbraica di Gerusalemme

ú–– Davide Assael Ricercatore

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pagine ebraiche n. 12 | dicembre 2015

A Milano il 18 novembre scorso èstato ricordato Khaled al-Asaad,l’archeologo, il “custode di Pal-mira”. È stato ricordato dedican-dogli un albero e un cippo nelGiardino dei Giusti. Nella moti-vazione si legge come il suo nomeentri in quanto “trucidato dal-l’Isis per aver difeso a Palmira ilpatrimonio archeologico, memoriacivile dell’umanità, mentre ilmondo rimaneva inerte”. Ho sot-tolineato la parola “inerte” perchéè importante non perderla.La scena dell’omaggio a Khaledal-Asaad, decisa da tempo, è avve-nuta nei giorni del lutto, dopo lastrage di Parigi. Forse nel mo-mento in cui è stata decisa si trat-tava solo di riconoscere ilcoraggio, la fermezza. Dopoquella data inevitabilmente sitrattava di prendere in caricoqualcos’altro. Per quanto sembri semplice o au-tomatico, a me sembra che ancorastentiamo a prendere in carical’eredità di Khaled al-Asaad neigiorni del sangue di Parigi. Perquesto è importante sottolinearequella parola.Perché? Perché la scena annichi-lente di Parigi fa concentrare ilnostro sguardo sulla forza di at-trazione rappresentata dai carne-fici come “icone” e non dallevittime. Ovvero rende isolato e“sconfitto” Khaled al-Asaad (no-nostante il nostro omaggio pub-blico). Questo perché noi siamoattratti, non solo noi e non soloora, dalla capacità operativa delmale estremo.Noi abbiamo l’immagine del ter-rorista come figura tutta d’unpezzo. Il guerrigliero rivoluziona-rio di professione che irrompesulla scena e in nome dell’intran-sigenza incute terrore, ma soprat-tutto per alcuni suscita ancherispetto perché per quanto aber-rante, è intravista come una di-mensione non egoistica chesacrifica se stessa in nome di unprogetto di cui noi non siamo piùcapaci, finito il secolo delle ideolo-gie. Gran parte del fascino delguerriero contemporaneo sta in

questa doppia dimensione.È una fisionomia che ha unalunga tradizione dietro le spalle,ma che non racconta tutto. Rac-conta solo una versione mitizzatadel guerriero. Dentro le scelte delguerriero, spesso c’è il mercato,c’è un uso accorto, intelligente,“scaltro” e non idealistico delproprio linguaggio. C’è uno stu-dio delle debolezze o delle sensibi-lità dell’avversario.Chi distrugge in nome della pro-pria fede, o chi dichiara di di-struggere per l’affermazione delproprio credo, appena percepito ilmercato, non disdegna. Tutto iltema connesso con i siti archeolo-gici e la loro distruzione è altempo stesso la creazione e/o l’in-nalzamento delle quote di valore.Insieme al greggio il contrab-bando di antiquariato è forse laseconda attività economica degliuomini del califfo.Come spesso accade, in mezzoall’intransigenza si fanno spaziole ragioni del mercato. Isis non faeccezione. Questo aspetto andrebbe valutatoper ciò che denuncia: il fatto chenon esiste l’universo puro del-l’ideologia, ma esiste un campoconsistente dell’uso dell’ideologia.La storia delle pratiche di vio-lenza, di possesso del corpo deglialtri non sono mai solo storie chesi spiegano con l’ideologia. Spessosono storie che si fondano sugliinteressi materiali. Dimenticarloè un grande errore, perché signi-fica regalare agli uomini di mortel’aura di attori che non hanno in-teressi materiali. Prendere in carica questa veritàrisulta ancora molto complicato.Prenderne consapevolezza implicaprima di tutto distruggere l’im-magine del guerriero che il guer-riero stesso intende promuovere.L’alternativa per non essere solosubalterni al terrorismo è l’eticapubblica testimoniata da Khaledal-Asaad. Ma non basterà né asalvare, né a salvarci. Occorre unatto.Quello che contraddistingue lasua scelta è un atto di responsabi-lità, ma quello che dà uno statutouniversalistico al nostro agire,una volta liquidato l’atto diomaggio, deve essere l’abbandonodella nostra condizione di inerzia.Quell’abbandono sarà l’inizio delnostro percorso di responsabilità.

il Daesh in casa propria conti trale proprie fila numerosi Paesiarabi vittime del fuoco e della pro-paganda jihadista, come e più dinoi occidentali. Non c'è più tempoper i distinguo. Non importa se lecomunità islamiche, europee enon, siano anche state capaci diatti commoventi come la difesasimbolica della sinagoga di Cope-naghen durante lo shabbat succes-sivo agli efferati attentati contro iluoghi ebraici, o la solidarietà mo-strata a Tunisi, anche lì, dopo lamorte portata da spietati attenta-tori. Allora, non resta che accet-tare la sconfitta e cedere spazio aisostenitori dello scontro di civiltà,ai seguaci dei libri di Oriana Fal-

laci e della teorie di Samuel Hun-tington. Agli elettori di Marine LePen, Matteo Salvini o HeinzChristian Strache. Ai seguaci delmodello “illiberale” (citazionesua) di Viktor Orban, ai “difen-sori” dei confini etnici e nazionali,a chi rimpiange un mondo maiavuto in cui ognuno se ne stava acasa propria. Non resta che riti-rarci ed assistere al compimentodella profezia, alla chiusura delcerchio da cui siamo partiti, isla-mismo, islamofobia, affermazionedi regimi autoritari. Ed assistiamopienamente consapevoli che que-sto porterà a una restrizione dellelibertà, alla sospensione (ma per-ché non la fine?) della democrazia

come la abbiamo conosciuta daldopoguerra in avanti. Per di piùconsci che, come ci è stato inse-gnato da 70 anni ad oggi, quandosi restringe la democrazia per gliebrei non si annunciano tempibuoni. Lo sappiamo, quando siapre la deriva xenofoba in Europa,l'ebreo ci rientra sempre perché èancora ritenuto uno straniero,basta dare un'occhiata ai com-menti sui social riferiti al truceaccoltellamento di Milano. Com-menti, va detto, di italianissimicristiani. Lo sappiamo bene, nonci facciamo alcuna illusione. Ma,si dirà fra qualche anno, non c'erapiù tempo per i distinguo. Inguerra non si fanno prigionieri.

L’uso dell’ideologiaquando gli ebrei si nasconderannodietro una pietra o un albero, e lapietra o l’albero diranno: O musul-mano, o servo di Allah, c’è unebreo nascosto dietro di me – vienie uccidilo”. La carta costitutiva dell’Olp sem-mai parla di un movimento disgombero collettivo della presenzaebraica (art. 15): La liberazione della Palestina, daun punto di vista arabo, è un dove-re nazionale, si propone di respin-gere l’aggressione sionista e impe-rialista contro la patria araba easpira a eliminare il sionismo inPalestina.Lo Stato d’Israele è stato aggreditonel 1948 non perché occupava iterritori palestinesi ma per il solofatto di esistere dopo il voto al-l’ONU. Nel 1967 e nel 1973 sonostati operati due nuovi tentativipan-arabi di distruzione, per nonparlare degli scud iraqeni nel 1991e delle continue provocazioni mili-tari di Hezbollah dal Libano delsud e di Hamas dalla striscia diGaza. L’occupazione dei territoripalestinesi nel 1967 è stata la con-seguenza, non la causa di questi ri-petuti tentativi di sopraffazione edi distruzione. Israele ha forsemancato diverse buone occasioniper promuovere il dialogo di nor-malizzazione, e chi lo aveva fattocon maggiore energia, Yitzhak Ra-bin, è stato assassinato proprio perquesto. Ma l’accusa di calpestare idiritti dei palestinesi non può esse-re fatta senza prima ammettere chese dipendesse dai palestinesi gliebrei sarebbero tutti morti o in esi-lio e Israele non esisterebbe. L’8 ot-tobre scorso citavo sul notiziarioonline pagine ebraiche 24 la defi-nizione dell’ayatollah Khamenei

della strategia islamica nei con-fronti di Israele: Distruggere Israe-le, e comunque, con l’aiuto di Al-lah, non concedere un solo giornodi pace al regime sionista. Comeabbiamo visto a Parigi venerdì 13novembre, la strategia di Daesh(Isis) è identica: Non concedere unsolo giorno di pace all’occidente.Negli stadi, nei ristoranti, nei tea-tri, nei pub, ai concerti rock, nelleredazioni dei giornali, nei super-market, per la strada. Di fronte aqueste deliranti ma concrete strate-gie, credo sia chiaro: Khamenei(sciita) e Al-Baghdadi (sunnita)dicono e vogliono la stessa cosa.Gli sforzi volti a distinguere primafra sciiti cattivi e sunniti buoni,poi fra sunniti cattivi e sciiti buo-ni, infine fra terrorismo ingiustifi-cato (contro l’occidente) e terrori-smo giustificato (contro Israele) di-mostrano ingenuità, incompeten-za, e grande malafede. Allora ci sideve chiedere come porre fine alconflitto. Qui da sempre si con-frontano due strategie. Una propo-ne la via dell’analisi socioeconomi-ca, dell’accomodamento culturale,dello smussamento delle causedell’ostilità da parte dell’avversa-rio. L’altra propone l’uso della for-za, il massiccio intervento militare,la vittoria sul terreno del rivale.Dalla storia apprendiamo che lavera chiave nella conclusione di unconflitto consiste nel mettere il ne-mico nella condizione di non averepiù la voglia di combattere. In unmodo o nell’altro. Dai buoni culto-ri della pace ci aspettiamo unapubblica presa di posizione di fron-te al terrorismo islamico, alle stra-gi perpetrate in Francia e in altripaesi, fra i quali anche Israele. Daibuoni amanti delle arti e della cul-

tura ci aspettiamo una accoratapresa di posizione di fronte allebarbare distruzioni di siti e di re-perti storici compiute in questi an-ni da forze islamiche. Dalla Chiesacattolica e dalle altre denominazio-ni cristiane ci aspettiamo una pre-sa di posizione coerente e indigna-ta di fronte alle persecuzioni e di-scriminazioni di cui sono vittimele comunità cristiane in MedioOriente da parte islamica. Ma senulla di tutto ciò emerge, e se tuttoquello che rimane è la critica neiconfronti di Israele, siamo di frontea una vera e propria ossessione pu-nitiva disgiunta da qualsiasi anali-si obiettiva dei fatti storici e socia-li. Diventa allora ammissibile par-lare di antisemitismo. Certo la so-cietà israeliana, e in particolare ilsuo governo attuale, hanno moltepecche nella gestione sia degliaspetti interni sia di quelli esternidel quotidiano e, cosa ancora piùpreoccupante, sembrano spessomancare di una visione strategicasu come gestire il futuro dei pro-blemi. Io credo che per onestà e di-gnità, dopo la strage di Parigi, icritici di Israele debbano prima ditutto esprimere chiaramente unpensiero su quanto avviene in que-sti ultimi anni all’interno delle so-cietà islamiche e nella dialettica framondo islamico e occidente. Sola-mente dopo potremo intavolareuna discussione su come si possarendere lo Stato d’Israele meno im-perfetto, più giusto e più rilevante.Intanto il 17 novembre a Istanbulprima dell’incontro di calcio ami-chevole Turchia-Grecia, durante ilminuto di silenzio in memoria del-le vittime di Parigi, il pubblico hafischiato e urlato dalle tribune “Al-lah U Akhbar”.

ú–– David BidussaStorico sociale delle idee