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Giornale di Sicilia Venerdì 10 Luglio 2020 l 22 Pa l e r m o La cucina delle suore N on si poteva mangiare in camera, a meno che non si fosse gravemente malate. Dalla priora alla conversa, la regola era identica, dal refettorio non si scappava. C’erano le monache addette alla cucina e quella che, a turno, leggeva salmi o passi dai Vangeli durante i pasti: le altre si sistemavano, per gradi, lungo tavolo comune, due ali che culminavano con il posto della priora, sola sotto il crocifisso al centro della stanza. Il convento di Santa Caterina non sfuggiva alla regola della clausura, e oggi rileggere stili e abitudini permette di calarsi in un tempo lontano, silenzioso, morbido. L’occasione è data da una nuova iniziativa del complesso, ideata (ovviamente) da padre Giuseppe Bucaro: stasera alle 20 nel chiostro sarà proposta (solo su prenotazione) la prima «cena» a tema che recupera le ricette della «cucina delle feste», per solennità o eventi, per esempio i banchetti allestiti in occasione delle professioni religiose delle aristocratiche fanciulle che prendevano i voti. Piatti antichi, ricchi, elaborati dalla famosa cucina aristocratica dei Monsù, una cena di più portate - pasticci e timballi, fritturine, gateau, ragù - che si chiuderà con il famoso «Trionfo di gola» e i celebri mandorlati di cui era ghiotto il principe di Salina. L’unico modo per raccontare la vita claustrale, è farsi prendere per mano da un’esperta e appassionata scrittrice come Maria Oliveri che ha pubblicato già un libro sui dolci delle monache (alla sua seconda edizione) prendendo spunto dalle ricette recuperate nella pasticceria nata proprio a Santa Caterina. Ed è la Oliveri a spiegare che la famiglia «monacale» non era mai molto numerosa in sé – le suore non superavano la quarantina – ma che si ampliava per tutte quelle figure che ruotavano attorno al convento, tra converse, zitelle, vedove, madri disonorate, serve e schiave, che potevano essere «acquistate» soltanto dalla priora e dalla badessa, e dormivano in un giaciglio ai piedi dei letti delle monache. Insomma, prendevano i voti soltanto quelle che potevano versare la dote richiesta (abbastanza cospicua), quindi appartenenti a famiglie nobiliari o comunque altoborghesi. Le altre vivevano la vita del convento, ma non potevano essere accettate. «Spesso facevano i lavori più umili – racconta Maria Oliveri - per esempio curare l’orto o lavare i panni su commissione per le famiglie della città, che pagavano il convento per questo servizio. Anzi Santa Caterina aveva affrancato una famiglia perché si occupasse della lavanderia a domicilio per almeno due generazioni». Anche se in convento ci si lavava poco, il cambiarsi spesso la tonaca era sinonimo di vanità. Il resto si occupava di altro, le nobili si dedicavano al ricamo o alla cucina sontuosa di dolci che venivano inviati alle famiglie d’origine. E le monache andavano persino «a scuola»: a fine ’800 un gruppo di suore, nonostante la clausura, raggiunse Firenze per imparare le ultime novità nel campo del ricamo. Ogni monastero cercava di «strappare» le candidate più facoltose, assicurando loro agi, privilegi e servizi a cui erano abituate. «Una bambina destinata dalla famiglia al chiostro, entrava in convento tra i sei e i sette anni. Non sapeva nulla del mondo esterno e la vita claustrale sarà l’unica che consoceranno, senza desiderare altro». Erano poche le donzelle che sceglievano volontariamente il convento, spesso per poter studiare – per le «monache professe» le celle erano un po’ più grandi per accogliere lo scrittoio - o sfuggire a matrimoni imposti dalla famiglia con parenti anziani. Ed eccoci ai pasti: in convento si mangiava tre volte al giorno, una sola durante la Quaresima. Proibito mangiare in camera o fuori dai pasti. C’erano l’addetta al vino (annacquato, serviva anche a disinfettare le pietanze), la dispensiera, l’economa (che veniva subito dopo la priora), la maestra delle novizie, la suora infermiera e l’addetta alla ruota, di solito la più anziana. La giornata iniziava prima dell’alba, dopo le preghiere e la prima messa, con una colazione molto semplice (latte e pane); a pranzo e a cena era facile che venisse servita una minestra dall’orto; poco pesce – solo baccalà o tonno -, rarissima la carne, proibita dalla Regola, a meno che non fosse festa o toccasse ad una monaca ammalata. Le suore entravano in fila nel refettorio, dalla più giovane alla più anziana (per professione di voto, non per età) e sedevano una accanto all’altra, la tavola era apparecchiata in modo semplice perché tovagliati e stoviglie sontuose erano riservati per la «monacazione» – la professione dei voti - pari ad un matrimonio: le famiglie aristocratiche mandavano le partecipazioni e pagavano i banchetti preparati dal convento dove apparivano piatti elaborati come i gamberetti con pomodori verdi fritti e i pasticci di gattopardesca memoria. I dolci venivano serviti in occasioni particolari: la cassata solo a Pasqua, il buccellato a Natale, il cannolo o le cassatelle a Carnevale. (*SIT*) © RIPRODUZIONE RISERVATA Da gustare pasticci e timballi, fritturine, gateau, ragù e i dolci di cui era ghiotto il principe di Salina I locali. La cucina delle monache Simonetta Trovato Nel chiostro di Santa Caterina il primo dei «banchetti a tema» proposti sull’esempio delle celebri ricette aristocratiche dei Monsù. Piatti antichi, ricchi ed elaborati per un pasto serale a più portate A cena dalle monache del convento per assaporare il famoso «trionfo di gola» Domani con il giornale il nuovo libro dell’agronomo, storico dell’enogastronomia mediterranea e scrittore Mario Liberto «Couscous, Koinè culturale dei popoli»: ricette dal mondo Simonetta Trovato È il piatto dei mille colori e delle mille lingue, con le ricette dei Pae- si del Nordafrica che si scippano a vicenda semola, cipolla, monto- ne, verdure. Ogni luogo ha il suo couscous, ogni trazzera, contrada, vicolo, quartiere ha il suo piatto. Ma tutti si riconoscono a vicenda. Insomma, il couscous è il piatto dell’amicizia, del volersi bene, dell’aiutare l’amico, il conoscente, il viandante sconosciuto con un boccone in più. L’agronomo, sto- rico dell’enogastronomia medi- terranea e scrittore Mario Liberto ha deciso di racchiudere in un vo- lume visioni e ricette: è nato così «Couscous. Koinè culturale dei popoli», con una prefazione di Giacomo Dugo, pubblicato da Ka- lòs e in distribuzione domani in edicola con il Giornale di Sicilia (costerà 6,70 euro più il prezzo del quotidiano). «Il couscous è il piatto che ha favorito la koinè storica e gastro- nomica del “continente mediter- raneo”, cultura cosmopolita e fles- sibile che si muove sposando e adattandosi alle esigenze minime dell’uomo», scrive Liberto che due anni fa ha già pubblicato con Ka- lòs, un bel volume sulla «Cucina dei Monsù nel regno delle Due Si- cilie». Partendo dalle terre del Ma- ghreb per arrivare alle regioni co- stiere della penisola italiana, Li- berto propone un vero e proprio itinerario «del couscous», in cui emergono per ogni territorio, le caratteristiche di questa singolare ricetta che si intrecciano a ingre- dienti differenti, legati soprattut- to alla sacralità, alla socialità e convivialità che una preparazio- ne di questo tipo presuppone. Il couscous è la ricetta per tutti i gu- sti e per tutte le occasioni. Queste pagine raccontano i di- versi modi di prepararlo e il risul- tato è un piatto unico che recupe- ra una parte di storia della mille- naria e multiculturale cucina me- diterranea. È facile immaginare le tavole nel deserto, i deschi familiari sotto le tende dei beduini, i locali di Tu- nisi dove viene servito nelle terra- glie multicolori su un unico piano di marmo per tutti gli avventori. Il couscous è sacro e inviolabile, co- me l’amicizia, racconta un’econo- mia scarna ma felice, cammina nelle bisacce dove di solito finisce anche una coucouscussiera di me- tallo; ha persino un fratello estivo, il classico tabbouleh che nasce in Libano e via mare arriva persino in Francia; e una sorella calda co- me il fuoco, che si allunga nel bro- do di carne di montone . e che dire poi della ’ncocciata? Che è un’arte a parte, intimamente femminile, appartiene alle madri e passa alle figlie. In un «diffa» (banchetto) nordafricano è l’ultimo ad essere servito ai matrimoni, e l’unico a fi- nire sulla tavola per i funerali. Esi- ste persino un «couscous della puerpera» per farle recuperare le energie del parto; e una ricetta per le donne con problemi di fertilità, con 144 spezie diverse … (*SIT*) © RIPRODUZIONE RISERVATA Il dolce delle suore. «Il trionfo di gola» Santa Caterina. Il chiostro del convento con la fontana La copertina. «Couscous. Koinè culturale dei popoli», con prefazione di Dugo

Nel chiostro di Santa Caterina il primo dei banchetti a

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Page 1: Nel chiostro di Santa Caterina il primo dei banchetti a

Giornale di SiciliaVenerdì 10 Luglio 20 20l22 Pa l e r m o

La cucina delle suore

Non si poteva mangiare in camera, a meno che non sifosse gravemente malate. Dalla priora allaconversa, la regola era identica, dal refettorio non siscappava. C’erano le monache addette alla cucina equella che, a turno, leggeva salmi o passi daiVangeli durante i pasti: le altre si sistemavano, pergradi, lungo tavolo comune, due ali checulminavano con il posto della priora, sola sotto ilcrocifisso al centro della stanza. Il convento diSanta Caterina non sfuggiva alla regola dellaclausura, e oggi rileggere stili e abitudini permettedi calarsi in un tempo lontano, silenzioso,morbido. L’occasione è data da una nuovainiziativa del complesso, ideata (ovviamente) dapadre Giuseppe Bucaro: stasera alle 20 nel chiostrosarà proposta (solo su prenotazione) la prima«cena» a tema che recupera le ricette della «cucinadelle feste», per solennità o eventi, per esempio ibanchetti allestiti in occasione delle professionireligiose delle aristocratiche fanciulle cheprendevano i voti. Piatti antichi, ricchi, elaboratidalla famosa cucina aristocratica dei Monsù, unacena di più portate - pasticci e timballi, fritturine,gateau, ragù - che si chiuderà con il famoso«Trionfo di gola» e i celebri mandorlati di cui eraghiotto il principe di Salina.L’unico modo per raccontare la vita claustrale, èfarsi prendere per mano da un’esperta eappassionata scrittrice come Maria Oliveri che hapubblicato già un libro sui dolci delle monache(alla sua seconda edizione) prendendo spuntodalle ricette recuperate nella pasticceria nataproprio a Santa Caterina. Ed è la Oliveri a spiegareche la famiglia «monacale» non era mai moltonumerosa in sé – le suore non superavano laquarantina – ma che si ampliava per tutte quellefigure che ruotavano attorno al convento, traconverse, zitelle, vedove, madri disonorate, serve eschiave, che potevano essere «acquistate» soltantodalla priora e dalla badessa, e dormivano in ungiaciglio ai piedi dei letti delle monache. Insomma,prendevano i voti soltanto quelle che potevanoversare la dote richiesta (abbastanza cospicua),quindi appartenenti a famiglie nobiliari ocomunque altoborghesi. Le altre vivevano la vitadel convento, ma non potevano essere accettate.«Spesso facevano i lavori più umili – raccont aMaria Oliveri - per esempio curare l’orto o lavare ipanni su commissione per le famiglie della città,che pagavano il convento per questo servizio. AnziSanta Caterina aveva affrancato una famigliaperché si occupasse della lavanderia a domicilioper almeno due generazioni». Anche se inconvento ci si lavava poco, il cambiarsi spesso latonaca era sinonimo di vanità. Il resto si occupavadi altro, le nobili si dedicavano al ricamo o alla

cucina sontuosa di dolci che venivano inviati allefamiglie d’origine. E le monache andavano persino«a scuola»: a fine ’800 un gruppo di suore,nonostante la clausura, raggiunse Firenze perimparare le ultime novità nel campo del ricamo.Ogni monastero cercava di «strappare» lecandidate più facoltose, assicurando loro agi,privilegi e servizi a cui erano abituate. «Unabambina destinata dalla famiglia al chiostro,

entrava in convento tra i sei e i sette anni. Nonsapeva nulla del mondo esterno e la vita claustralesarà l’unica che consoceranno, senza desiderarealtro». Erano poche le donzelle che sceglievanovolontariamente il convento, spesso per poterstudiare – per le «monache professe» le celle eranoun po’ più grandi per accogliere lo scrittoio - osfuggire a matrimoni imposti dalla famiglia conparenti anziani.

Ed eccoci ai pasti: in convento si mangiava tre volteal giorno, una sola durante la Quaresima. Proibitomangiare in camera o fuori dai pasti. C’eranol’addetta al vino (annacquato, serviva anche adisinfettare le pietanze), la dispensiera, l’e co n o m a(che veniva subito dopo la priora), la maestra dellenovizie, la suora infermiera e l’addetta alla ruota, disolito la più anziana. La giornata iniziava primadell’alba, dopo le preghiere e la prima messa, conuna colazione molto semplice (latte e pane); apranzo e a cena era facile che venisse servita unaminestra dall’orto; poco pesce – solo baccalà otonno -, rarissima la carne, proibita dalla Regola, ameno che non fosse festa o toccasse ad una monacaammalata. Le suore entravano in fila nel refettorio,dalla più giovane alla più anziana (per professionedi voto, non per età) e sedevano una accantoall’altra, la tavola era apparecchiata in modosemplice perché tovagliati e stoviglie sontuoseerano riservati per la«monacazione» – la professione dei voti - pari adun matrimonio: le famiglie aristocratichemandavano le partecipazioni e pagavano ibanchetti preparati dal convento dove apparivanopiatti elaborati come i gamberetti con pomodoriverdi fritti e i pasticci di gattopardesca memoria. Idolci venivano serviti in occasioni particolari: lacassata solo a Pasqua, il buccellato a Natale, ilcannolo o le cassatelle a Carnevale. (*SIT *)© RIPRODUZIONE R I S E RVATA

Da gustarepasticci

e timballi,f r i t t u r i n e,

gateau, ragùe i dolci di cui

era ghiottoil principedi Salina

I locali. La cucina delle monache

Simonett aTrovat o

Nel chiostro di Santa Caterina il primo dei «banchetti a tema» proposti sull’esempio delle celebriricette aristocratiche dei Monsù. Piatti antichi, ricchi ed elaborati per un pasto serale a più portate

A cena dalle monache del conventoper assaporare il famoso «trionfo di gola»

Domani con il giornale il nuovo libro dell’agronomo, storico dell’enogastronomia mediterranea e scrittore Mario Liberto

«Couscous, Koinè culturale dei popoli»: ricette dal mondoSimonetta Trovato

È il piatto dei mille colori e dellemille lingue, con le ricette dei Pae-si del Nordafrica che si scippano avicenda semola, cipolla, monto-ne, verdure. Ogni luogo ha il suocouscous, ogni trazzera, contrada,vicolo, quartiere ha il suo piatto.Ma tutti si riconoscono a vicenda.Insomma, il couscous è il piattodell’amicizia, del volersi bene,dell’aiutare l’amico, il conoscente,il viandante sconosciuto con unboccone in più. L’agronomo, sto-rico dell’enogastronomia medi-terranea e scrittore Mario Libertoha deciso di racchiudere in un vo-lume visioni e ricette: è nato così«Couscous. Koinè culturale deipopoli», con una prefazione di

Giacomo Dugo, pubblicato da Ka-lòs e in distribuzione domani inedicola con il Giornale di Sicilia(costerà 6,70 euro più il prezzo delquot idiano).

«Il couscous è il piatto che hafavorito la koinè storica e gastro-nomica del “continente mediter-raneo”, cultura cosmopolita e fles-sibile che si muove sposando eadattandosi alle esigenze minimedell’uomo», scrive Liberto che dueanni fa ha già pubblicato con Ka-lòs, un bel volume sulla «Cucinadei Monsù nel regno delle Due Si-cilie».

Partendo dalle terre del Ma-ghreb per arrivare alle regioni co-stiere della penisola italiana, Li-berto propone un vero e proprioitinerario «del couscous», in cuiemergono per ogni territorio, le

caratteristiche di questa singolarericetta che si intrecciano a ingre-dienti differenti, legati soprattut-to alla sacralità, alla socialità econvivialità che una preparazio-ne di questo tipo presuppone. Ilcouscous è la ricetta per tutti i gu-sti e per tutte le occasioni.

Queste pagine raccontano i di-versi modi di prepararlo e il risul-tato è un piatto unico che recupe-ra una parte di storia della mille-naria e multiculturale cucina me-diterranea.

È facile immaginare le tavolenel deserto, i deschi familiari sottole tende dei beduini, i locali di Tu-nisi dove viene servito nelle terra-glie multicolori su un unico pianodi marmo per tutti gli avventori. Ilcouscous è sacro e inviolabile, co-me l’amicizia, racconta un’e co n o-

mia scarna ma felice, camminanelle bisacce dove di solito finisceanche una coucouscussiera di me-tallo; ha persino un fratello estivo,il classico tabbouleh che nasce inLibano e via mare arriva persinoin Francia; e una sorella calda co-me il fuoco, che si allunga nel bro-do di carne di montone . e che direpoi della ’ncocciata? Che è un’artea parte, intimamente femminile,appartiene alle madri e passa allefiglie. In un «diffa» (banchetto)nordafricano è l’ultimo ad essereservito ai matrimoni, e l’unico a fi-nire sulla tavola per i funerali. Esi-ste persino un «couscous dellapuerpera» per farle recuperare leenergie del parto; e una ricetta perle donne con problemi di fertilità,con 144 spezie diverse … (*SIT *)© RIPRODUZIONE R I S E RVATA

Il dolce delle suore. «Il trionfo di gola»Santa Caterina. Il chiostro del convento con la fontana

La copertina. «Couscous. Koinè culturale dei popoli», con prefazione di Dugo