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Nicoletta Simionato L’ascolto psicopedagogico a scuola

Nicoletta Simionato - L’ascolto psicopedagogico a scuola

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Nicoletta Simionato L’ascolto psicopedagogico a

scuola

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La presenza dello psicopedagogista all’interno della scuola è una conquista relativamente recente. La circolare ministeriale 167 del ‘78 ha previsto che insegnanti di ruolo con particolari prerequisiti (titoli di laurea in psicologia o in pedagogia ad indirizzo psicologico) possano, all’interno di precise definizioni normative, sviluppare nell’ambito dell’organizzazione scolastica una nuova e diversa modalità di esplicitare il proprio compito istituzionale. Negli anni però il reclutamento di queste professionalità diverse si è svolto prevalentemente nell’ambito delle consulenze esterne con la finalità di garantire una competenza specifica “neutra”, non direttamente coinvolta nelle dinamiche istituzionali. La figura dello psicopedagogista si inserisce, nel quadro della complessità dell’attuale sistema scolastico, come mediatore della comunicazione all’interno dell’istituzione e come promotore dell’integrazione tra la cultura scolastica tradizionale e la cultura psicologica e pedagogica. Si viene a collocare quindi in quello spazio ideale di intervento che considera i problemi della scuola come più efficacemente affrontabili nell’ottica del collegamento tra competenze diverse, della collaborazione, dell’intesa sulle pratiche e sui modelli di riferimento. In realtà lo psicopedagogista che opera all’interno del mondo scolastico è caratterizzato nei suoi compiti e nelle sue funzioni da un profilo professionale ancora incerto poiché la sua presenza risente della difficoltà, per chi vive all’interno della scuola, di costruire un senso, un legame tra esperienze e competenze diverse. Nei nidi, nelle scuole materne ed elementari, l’incontro tra competenze diverse, tra psicopedagogisti e insegnanti, è avvenuto da più tempo e con risultati di cambiamento innovativo. Per questi insegnanti infatti appartiene per formazione e per cultura di ruolo l’integrazione tra obiettivi cognitivi e di relazione affettiva. Nelle scuole per l’infanzia il riuscire ad instaurare un buon rapporto con il bambino è di per sè un obiettivo auspicabile e la dimensione affettiva della relazione viene tenuta in grande considerazione. Nelle medie e nelle superiori invece la competenza psicopedagogica rimane ancora in un ambito di “confine”, in un’area potenziale che fatica a svilupparsi. Laddove entra in gioco il bisogno di raggiungere degli obiettivi didattici precisi, dove la funzione didattica si declina in un senso maggiormente valutativo, gli insegnanti temono che il prestare ascolto anche alle dimensioni affettive della relazione educativa possa inquinare l’obiettività della loro funzione, avvicinando pericolosamente il loro ruolo in quello di uno psicologo o di un assistente sociale. Una delle difficoltà più ricorrenti rispetto all’integrazione di tali competenze consiste nelle fantasie degli insegnanti di vedere nascere delle alleanze dello psicopedagogista con i ragazzi contro di loro, scattano cioè delle fantasie di accoppiamento tra pedagogisti e alunni che escludono gli insegnanti invalidandone il compito. Ci sono quindi obiettivi della psicopedagogia che sono poco integrati con il mondo scolastico e non sono vissuti come propri del compito primario della scuola, ma quasi un riflesso dei bisogni esterni, sociali che rimbalzano sulla scuola.

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Per tutti questi motivi la figura dello psicopedagogista fatica a trovare una definizione ed una caratterizzazione univoca e precisa, sia rispetto ai suoi interlocutori, sia rispetto ai suoi compiti. Può accadere per esempio che in alcuni contesti istituzionali la consulenza psicopedagogica sia rivolta esclusivamente agli insegnanti, in altri venga allargata anche agli alunni e in altri ancora anche ai genitori. Mentre per quanto riguarda le funzioni e gli ambiti potenziali dell’intervento psicopedagogico si potrebbero indicare nel modo seguente: # incontri con singoli insegnanti su problematiche didattiche e relazionali in riferimento a situazioni problematiche e non (“sportello insegnanti”); # incontri di consulenza a team educativi per presentazione, analisi, discussione di casi segnalati. Messa a punto di metodi di lettura del caso. Ipotesi progettuali per l’approccio e il trattamento pedagogico più adatto al problema; # sperimentazione con gruppi di insegnanti di nuovi metodi per la comprensione e la lettura delle situazioni difficili, di gruppo e singole; # interventi di formazione finalizzati all'apprendimento e alla sperimentazione assistita di strumenti di intervento specifico nella realtà scolastica; # collaborazione con la scuola su compiti specifici (formazione classi, Progetto accoglienza, Commissioni salute, Tutoring, Orientamento, Gruppo H ecc.) # compilazione e negoziazione del progetto formativo di Istituto e suo presidio nel corso dell’attività scolastica; In realtà la tipologia dell’intervento psicopedagogico trova la sua propria messa a punto nell’ambito di un progetto e di un contesto istituzionale preciso, anche se ha come caratterizzazione specifica il porsi in un atteggiamento di ascolto del bisogno educativo e relazionale che sottende al processo di apprendimento e il valorizzare tali capacità all’interno della cultura del ruolo docente. Ciò che accade poi nella realtà, pur nella diversità del panorama scolastico, è che la richiesta iniziale proveniente dalla scuola il più delle volte si configura come richiesta generica di sostegno al ruolo docente, con l’obiettivo di incrementare le possibilità di individuazione di strategie pedagogiche per i casi e le situazioni problematiche emergenti. Ad una lettura più attenta però emerge che le aspettative e richieste più diffuse tra gli insegnanti riguardano il dare risposte immediate e urgenti a situazioni che vengono vissute in modo generalizzato come “l’emergenza”, “il problema”, “il caso di..”. Spesso a scuola una situazione difficile viene affrontata come “urgenza”, con il risultato che la soluzione proposta entra a far parte del problema stesso. Il problema del tempo a scuola, nel senso cioè della mancanza di tempo, è generalizzato e veramente rilevante; il supporto psicopedagogico allora può avere senso se consente di creare una sensibilità negli insegnanti che li porti a chiedere e a legittimarsi il tempo necessario per riflettere, per porre le distanze dall’urgenza, per valutare, chiedere, esplorare, contrattare soluzioni, cambiare.

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La figura dello psicopedagogista viene spesso associata automaticamente al problema dell’abbandono e del disagio scolastico, quindi, in ultima analisi, alla problematica dei ragazzi a rischio di devianza. Viene chiesto di intervenire in un ambito di prevenzione secondaria per alunni in grave svantaggio socio-culturale attraverso consulenze ai docenti per interventi di tipo didattico, relazionale, educativo. Dietro questa richiesta prende forma un’equazione data per scontata tra disagio psicosociale - svantaggio scolastico - difficoltà di apprendimento - difficoltà relazionali. Se si rimane però a tale livello di lettura della dinamica d’apprendimento si rischia di non cogliere la possibilità di un intervento coerente con le aspettative più profonde degli insegnanti e dell’istituzione ossia l’aspettativa di cambiamento autentico. Per cui, dopo una prima fase che possiamo definire di accoglienza dell’emergenza, la domanda della scuola deve poter essere ridefinita tra insegnanti e psicopedagogista, prestando ascolto alla differenziazione e alla complessità dei bisogni sottostanti. In linea generale è possibile individuare alcuni bisogni che emergono in maniera diffusa e insistente nel panorama scolastico. Bisogni degli insegnanti: riuscire a rispondere ai seguenti problemi # il problema delle difficoltà d’apprendimento ( i processi di apprendimento appaiono sempre più caratterizzati da fatica e difficoltà, dove emerge con forza la necessità di modificare e di sperimentare nuovi stili di apprendimento e quindi di insegnamento. Sempre più frequentemente l’esperienza scolastica delle nuove generazioni incontra e alimenta situazioni di disagio nei processi di apprendimento. La scuola sta cercando risposte a tale disagio. Le ipotesi e le sperimentazioni in corso: il tutoraggio, facilitazione cognitiva, lotta alla dispersione, orientamento, si aprono alla possibilità di mettere in cattedra la disponibilità ad apprendere dello studente; di conseguenza # il problema della motivazione allo studio # il problema del rapporto con il gruppo classe # il problema di relazione con i singoli studenti # la differenziazione dell’intervento educativo (poiché si innescano fantasie di privilegio e di discriminazione rifiutate dai principi di uguaglianza e di uniformità di lavoro che appartengono in maniera forte alla cultura di ruolo del gruppo insegnanti) # il problema di comunicazione tra adulti (tra colleghi e con le famiglie). Quest’ultima è in particolare un’area poco presidiata da competenze specifiche e poco professionalizzata all’interno della scuola. Bisogni dei ragazzi:

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i dati delle recenti indagini sulla condizione giovanile e sulla scuola nel nostro paese ci dicono che il sentimento maggiormente diffuso presso le nuove generazioni è quello di un desiderio di ascolto dei loro bisogni da parte dell’istituzione scolastica, dove i bisogni possono essere riassunti in una esigenza di riconoscimento e valorizzazione della loro soggettività intesa sia come dimensione relazionale, cognitiva e emotiva. Ascoltare e accogliere tale centralità significa andare oltre i piani di studio individualizzati, o all’adattamento di curricoli consolidati alle capacità presunte del soggetto: occorre far in modo che ognuno possa scoprire la propria individualità, valorizzare una visione personale delle cose, formare una propria capacità di lettura degli eventi. Spesso tuttavia tali bisogni sono espressi dagli alunni in modo non esplicito, in modo faticoso, quasi mai negli spazi giusti. Bisogni dei genitori: in nessun altro luogo come a scuola i genitori ricoprono esclusivamente il “ruolo affettivo” di genitori e questo crea un accomunamento nella loro richiesta di maggior confronto in relazione agli stili educativi, ai dubbi e alle difficoltà legate alla crescita dei figli, ma soprattutto di confronto in relazione al rapporto con la scuola. Una delle difficoltà più frequenti all’interno del rapporto scuola- famiglia consiste nel riuscire a comunicare senza che scattino immediatamente e automaticamente delle fantasie stereotipate legate al ruolo. La comunicazione tra insegnanti e genitori spesso non riesce ad essere efficace proprio perché non è possibile, tra questi due interlocutori, un ascolto privo di pregiudizi legati al ruolo. Così l’insegnante ancora prima di conoscere il genitore ha già nella sua mente un modello di genitore ( che varia dal disinteressato all’invadente) che condizionerà l’incontro, così pure il genitore spesso si relaziona fin dall’inizio in maniera difensiva, come se si sentisse egli stesso giudicato e valutato nella sua capacità educativa. In questa dinamica quasi sempre conflittuale, lo psicopedagogista può svolgere una funzione indiretta di aiuto, facilitando negli insegnanti una rielaborazione del transfert di ruolo sia attraverso un progetto di formazione specifico, sia attraverso un intervento di consulenza all’insegnante stesso. Possiamo dire allora che coesistono sullo scenario istituzionale scolastico domande diverse appartenenti a soggetti istituzionali diversi. Queste domande convergono nella competenza psicopedagogica che deve innanzitutto fare un’analisi attenta e reale della domanda che viene posta dalla scuola. La domanda che emerge dalla scuola, in tutti i suoi protagonisti, è sicuramente una domanda varia e complessa e riguarda di fatto l’ambito della relazione e della comunicazione. Tuttavia da parte degli insegnanti c’è una fatica di fondo a voler farsi carico di tali componenti costitutive del processo di insegnamento-apprendimento. E quindi può capitare che, nel rivolgersi allo psicopedagogista in quanto “esperto” nel campo degli aspetti psicologici e educativi della relazione possa evidenziarsi un equivoco di fondo che consiste nel pensare che

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possa esistere un sapere che può fare andare le cose in modo corretto e positivo. Pensare che ci possa essere un sapere che se applicato bene prima sicuramente fa andare bene il dopo è riduttivo. Non si tratta di avere a disposizione strumenti già pronti, di sviluppare una competenza che permetta di sapere esattamente come funziona quell’alunno/a e trovare la soluzione giusta per ogni situazione: le uniche informazioni utili ai fini del cambiamento sono quelle pensate e riscoperte attraverso un attento e rigoroso percorso di ricognizione psicopedagogica. In questo senso lo psicopedagogista aiuta, attraverso un intervento indiretto, a capire il problema che si presenta nella sua complessità, aiuta a vedere i problemi da un’altra prospettiva e a declinare questa maggior consapevolezza in termini di soluzioni pedagogiche e didattiche più adeguate. Può esistere anche la situazione in cui lo psicopedagogista della scuola si faccia carico direttamente di problematiche degli studenti attraverso colloqui con i ragazzi, interventi diretti nella classe, preferendo una presa in carico diretta della problematica presentata dagli insegnanti. Può risultare efficace e utile tale approccio perché può arrivare a produrre cambiamenti positivi nel ragazzo. Il rischio di questa modalità di lavoro consiste nel favorire un atteggiamento di delega all’ “esperto”, di problemi e difficoltà di cui necessariamente gli insegnanti sono parte in causa in quanto interlocutori diretti della dinamica di apprendimento e artefici dei cambiamenti nell’approccio didattico e relazionale. L’educazione scolastica esiste in una cultura che è innanzitutto il complesso di esperienze del modo di attribuire valori e significati da parte di ciascun individuo. Sapersi guardare dentro, ascoltare e interpretare, attribuire significati, riconoscere e nutrire la pluralità delle nostre intelligenze sono competenze da acquisire in particolare laddove si iniziano i processi di conoscenza. Quando iniziamo ad insegnare un qualsiasi argomento non sappiamo che cosa “sa” l’altro e non sappiamo come costruisce il suo sapere. Possiamo essere competenti su molte cose, conoscere molte bene la materia che vogliamo insegnare, conoscere i metodi della didattica, saper programmare, e valutare con la massima efficacia, ma tutto ciò non mi risponde alla domanda cruciale che permette di entrare in relazione con l’allievo: ossia come ti posso insegnare la mia materia in modo che tu possa apprendere? Il verbo “insegnare” etimologicamente significa: incidere, imprimere dei segni nella mente1. Per chi di professione “insegna” è allora determinante far sì che il “lasciare il segno” non sia più un evento casuale ma diventi parte integrante, e più ancora, elemento costitutivo del meccanismo educativo e didattico. E’ necessario poter ricostruire la visibilità del segno che si lascia. La relazione educativa a scuola si realizza in realtà entro spazi, tempi, contesti su cui si rischia spesso di sorvolare, si preferisce fidarsi della propria “spontaneità”, della propria esperienza

1 M. Cortellazzo, P. Zolli “Dizionario etimologico della lingua italiana”, Bologna, Zanichelli, 198

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sul campo; le variabili in gioco sono tante e gli strumenti concettuali, osservativi e riflessivi di cui spesso si dispone non sono consapevoli. La presenza dello psicopedagogista all’interno della scuola, più che essere orientata all’inseguimento dell’emergenza e al recupero di situazioni limite, viene allora ad assumere un carattere formativo più generale. E’ questa dimensione formativa che deve essere valorizzata in quanto rappresenta il vero strumento di cambiamento auspicabile, poiché consente di aumentare le competenze psicopedagogiche dei singoli insegnanti e della scuola, rendendo più acute e introspettive le capacità di osservazione, di ascolto, di comunicazione, di relazione. Allora si potrebbe affermare che l’obiettivo cruciale dell’intervento psicopedagogico è rappresentato dal fornire contributi alle capacità della scuola di “leggere” e “interpretare” le situazioni problematiche, di produrre “diagnosi pedagogiche”, di progettare e sperimentare ipotesi di soluzione che abbiano il carattere di progettazione educativa. Ciò che è in gioco quindi non è la presenza di una bravo professionista a scuola che intervenga sulle situazioni emergenti, ma arrivare all’acquisizione da parte degli insegnanti di competenze specifiche in senso psicopedagogico. Così infatti è possibile lavorare su processi di cambiamento, riuscendo a creare un’area potenziale, intesa come condizione simbolica e spazio-temporale che consenta a chi la vive (insegnanti, allievi, genitori) di comprendere il senso di ciò che è chiamato a fare e di creare le condizioni concrete di funzionalità e di efficacia necessarie per raggiungere gli obiettivi che generalmente definiscono il compito primario della scuola: il massimo di apprendimento per il massimo di allievi. Il setting formativo psicopedagogico consente di dare un nuovo significato all’esperienza educativa, permettendo di staccarsi dall’esperienza diretta, per produrre un’elaborazione di ciò che è avvenuto all’interno del setting educativo. E’ così possibile riflettere in profondità sull’esperienza educativa e produrre un sapere. Se la relazione formativa viene unanimemente individuata come condizione necessaria per la possibilità di istruire e di apprendere, allora diventa determinante porre la questione dell’istituzione di uno spazio di rielaborazione continuativo e sul campo attraverso cui poter “dare un nuovo sguardo” al problema, per poterne fare una ristrutturazione razionale, cognitiva ed emotiva. Per osservarsi, per riflettere, occorre mettere spazio e tempo tra sé ed il processo formativo di cui si è protagonisti. Nella relazione educativa a scuola questi momenti rappresentano le condizioni necessarie per avviare qualsiasi cambiamento cognitivo, poiché consentono di mettere l’altro ad una distanza tale che ne riveli maggiormente le peculiarità, di mettere a distanza se stessi, i propri pensieri, contenuti emotivi, proiezioni e identificazioni. Si tratta allora di dare voce e di ascoltare il bisogno che si delinea sullo sfondo della relazione educativa: il bisogno di un “terzo”, inteso come funzione che separa e che presiede all’acquisizione di competenze e alla valorizzazione delle potenzialità individuali. Una funzione che afferisce a valori affettivi appartenenti all’area paterna e che nella teoria dei codici affettivi viene esplicitata dal codice paterno.

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Forse allora ciò che permette l’incontro educativo tra soggetti culturali diversi è ciò che si viene a costituire come spazio di rielaborazione psicopedagogica che funge da terreno neutrale al di sopra delle parti da cui poter dare senso e rielaborare l’esperienza educativa stessa. La competenza psicopedagogica diventa allora uno strumento ermeneutico specifico, che permette di dare una rilettura ed un’interpretazione dell’esperienza educativa, interpretazione intesa come decostruzione e svelamento di impliciti affettivi, cognitivi e pedagogici. Il ruolo dello psicopedagogista costituisce quindi come un’area potenziale di riflessione e di confronto che viene continuamente sperimentata e non definita in maniera rigida; è uno spazio formativo che viene costruito tramite la relazione tra individui e istituzione. Lo psicopedagogista realizza la funzione di consulenza e di consultazione e si viene, anche proprio per questa collocazione istituzionale, a porre come elemento critico perché mette in discussione, e agisce attraverso la modalità della ricerca e della sperimentazione. E’ l’intervento psicopedagogico che legittima quei prodotti organizzativi che permettono di passare da modelli organizzativi basati sulle regole e sulla rigidità dei percorsi didattici a modelli basati sulla relazione e sul cambiamento. In quest’ottica lo psicopedagogista si propone come una figura di snodo operativo proprio nel senso di presidiare i fattori strutturali di incentivazione del compito scolastico (migliorare l’apprendimento e la collaborazione tra le funzioni necessaria a questo compito). Il setting formativo più efficace è rappresentato dal gruppo composto dal Consiglio di classe e psicopedagogista, poiché definisce il Consiglio di classe come un’équipe di lavoro che elabora indicazioni progettuali, ma soprattutto strumenti e occasioni di analisi attraverso tempi e spazi di riflessione e di supervisione delle problematiche individuate. Non potendo attivare il Consiglio di classe è comunque la dimensione di gruppo, anche non di insegnanti della stessa classe, il vero spazio di rielaborazione e di progettazione psicopedagogica. In particolare quando si vuole intervenire efficacemente sulle situazioni di disagio dei ragazzi con difficoltà comportamentali e di apprendimento, bisogna tenere in considerazione la difficoltà propria di questi ragazzi ad avere una visione integrata di sé e del mondo, per cui risulta per loro determinante poter ricevere stimoli e messaggi il più coordinati possibile e questo solo nel gruppo di lavoro degli insegnanti può essere messo a fuoco e valorizzato. Sempre il gruppo di insegnanti risulta essere l’ambito privilegiato per un ulteriore intervento psicopedagogico, cioé il sostegno alle capacità metacognitive degli studenti. Gli insegnanti sempre più si trovano a confrontarsi con difficoltà di apprendimento dei loro alunni che apparentemente sono poco comprensibili. Le attività che un individuo esegue quando studia sono cognitive e metacognitive: leggere, comprendere, memorizzare implicano processi cognitivi, di elaborazione dell’informazione, sia metacognitivi, di consapevolezza e controllo di tale elaborazione. Apprendere non significa solo acquisire elementi di conoscenza ma anche capire qualcosa della situazione di apprendimento, delle strategie adatte, dei propri limiti delle proprie risorse, della difficoltà che un determinato compito implica. Per cui le difficoltà di apprendimento

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sarebbero da considerare come carenze metacognitive: una persona può avere una strategia nel suo repertorio ma non sapere come, quando e perché applicarla. Raramente qualcuno ci ha insegnato a riflettere, mentre imparavamo qualcosa su come stavamo imparando, raramente ci è stata data occasione di accedere al livello metacognitivo del nostro apprendere, di interiorizzare così un numero sempre maggiore di strategie cognitive e di diventarne consapevoli per poi produrne di nostre. La psicopedagogia si pone anche come uno strumento specifico di intervento in tale senso. Proporre esperimenti osservativi, stimolare gli studenti e gli insegnanti a leggere la dinamica di una situazione educativa, costruire percorsi di mediazione del processo cognitivo, rappresentano momenti formativi fondamentali che trovano nella psicopedagogia la competenza specifica. Per concludere vorrei riportare un’esperienza fatta all’interno del progetto di “Educazione alla salute” in alcune scuole medie di Busto Arsizio, dove dal ‘94 al ‘98 è stato realizzato un intervento di sostegno psicopedagogico al ruolo docente, che concretamente ha significato affiancare agli insegnanti, all’interno della scuola di appartenenza, la figura di consulenti esterni con competenze psicopedagogiche, garantendo una presenza settimanale o quindicinale. Le finalità generali sono state di carattere formativo e si sono orientate a incrementare negli insegnanti competenze psicopedagogiche che li potessero poi aiutare nel leggere le situazioni problematiche e nel progettare e sperimentare ipotesi di soluzione che avessero carattere educativo. L’intervento ha assunto le caratteristiche di consulenza e formazione continua sul campo, a partire dai casi concreti e situazioni proposte dagli insegnanti stessi. Inizialmente la presenza si è connotata come “sportello” per i singoli docenti che evidenziavano una difficoltà nello svolgimento del loro lavoro (con un ragazzo problematico, con un gruppo all’interno della classe, con i colleghi). Accadeva molto spesso che l’insegnante che accedeva allo sportello si presentasse come il portavoce dei colleghi, impossibilitati dalla mancanza di tempo a venire anche loro a parlare. Spesso questo portavoce era l’insegnante di sostegno. Ben presto però questa forma di intervento ha mostrato i suoi limiti, rappresentati soprattutto dall’impossibilità di avviare un qualsiasi progetto pedagogico, poiché mancava la dimensione di rielaborazione, di comunicazione e di riflessione che interessasse l’intero Consiglio di classe. Per cui poteva accadere che l’insegnante tentasse una restituzione ai colleghi di quanto emerso nell’incontro con lo psicopedagogista, ma questa forma di comunicazione non permetteva alcun cambiamento. Si riusciva, a questo livello di intervento, a fare una analisi della situazione che aveva soprattutto una funzione di ascolto per gli insegnanti e di contenimento delle loro ansie e frustrazioni. Non era possibile cioè in questo modo aiutare il gruppo degli insegnanti a recuperare una funzione pedagogica pensata e mirata. La consulenza psicopedagogica quindi inizialmente pur rispondendo anche al bisogno espresso dalla scuola, si è connotata in un senso più progettuale e di più ampio respiro. Quindi

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lentamente, attraverso incontri con gruppi di insegnanti già presenti nella scuola, con Consigli di classe, si è lavorato per modificare la domanda della scuola da una richiesta di consulenza sul singolo caso (“il problema”) e con un singolo insegnante, ad un intervento sul e con il gruppo degli insegnanti. Si è problematizzato all’interno del Consiglio di classe la difficoltà di passare dall’intervento del singolo insegnante all’intervento del gruppo insegnanti, poiché i casi segnalati come problemi di apprendimento, di comportamento, di gestione dell’aggressività, una volta osservati e letti obbligavano a pensare ad un progetto pedagogico più complessivo. A questo punto è nato il problema dell’unitarietà dell’intervento all’interno della classe, della sua coerenza educativa e didattica, in quanto condizioni necessarie per pensare alla possibilità di cambiamento e di successo dell’intervento pensato. E’ stato possibile in alcune scuole allora attivare degli incontri mensili tra Consiglio di classe completo e psicopedagogista, durante i quali si prendeva in esame le difficoltà dei singoli studenti e si pensavano a delle soluzioni pedagogiche realisticamente possibili per quella situazione. Questo però ha voluto dire, soprattutto, poter guardare alla classe come gruppo con una sua dinamica precisa che andava colta e valorizzata attraverso proposte didattiche e extracurricolari precise (progetto di educazione affettiva, progetto orientamento, progetto accoglienza). Il gruppo di lavoro composto da Consiglio di classe e psicopedagogista si è rivelato la dimensione più efficace per realizzare l’intervento, che ha assunto così un suo carattere formativo generale, che istituzionalmente è rientrato nella forma dell’autoaggiornamento, e che ha permesso al Consiglio di classe di confrontarsi anche sui modelli di riferimento teorico dei singoli, sugli stili di insegnamento, sulle aspettative e sulle delusioni legate al ruolo, su metodologie didattiche e percorsi, su progetti pedagogici. Un gruppo di adulti che si interroga su quelli che sono i problemi per loro e quelli che lo sono per i ragazzi, permette di muoversi secondo un doppio canale, da un lato è stata un’occasione per conoscere meglio i ragazzi e dall’altro per confrontarsi su come gli adulti si rappresentano i vissuti dei ragazzi ed i loro in relazione ad essi. In queste situazioni quindi si è valorizzata una risorsa formativa che, coniugando le competenze psicologiche e pedagogiche, ha permesso di creare una metodologia di approccio alle problematiche legate all’insegnamento che rimane patrimonio acquisito per i docenti e che consente di aumentare le possibilità di un intervento mirato ed efficace. Questo tipo di intervento di sostegno pedagogico, ha significato innescare la possibilità che all’interno della scuola si avviasse un lento processo di riflessione critica e di ridefinizione del ruolo docente. In questo modo è stato possibile lentamente cambiare la cultura istituzionale e creare una sensibilità professionale nuova che ha consentito anche di limitare il numero di segnalazioni e di richieste di intervento ai Servizi esterni, uscendo dalla logica di dipendenza e di delega dell’intervento allo specialista. La figura dello psicopedagogista va dunque pensata come funzione integrata con la realtà scolastica e, contemporaneamente, come promotore e parte integrante del setting educativo della scuola.

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Solo in quest’ottica e non pensandolo come “specialista” esterno venuto a risolvere i problemi, può dare un significativo contributo alla progettazione educativa e alla prevenzione del disagio nella scuola.