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Carlo Azeglio Ciampi Colloquio con Alberto Orioli Non è il paese che sognavo Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia

Non è il paese che sognavo

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Carlo Azeglio Ciampi

Colloquio con Alberto Orioli

Non è il paese che sognavoTaccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia

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Sommario

Introduzione 11

Risorgimento moderno 15

Patria d’élite e di popolo 24

Italia unita, la prova della storia 30

Patria Europa, non piccole patrie 36

Cavour, la religione, gli immigrati 43

Non è il paese che sognavo 50

8 settembre, compleanno della Patria 58

Balilla, «scippo» fascista 63

L’italiano ha fatto l’Italia 71

La scommessa dell’inno di Mameli 78

Alberto Sordi e il tricolore 87

Guttuso garibaldino 95

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La scrivania di Quintino Sella e lo spread 102

L’euro, Mazzini e Kohl 110

L’educazione «pane dell’anima» 121

Anita oggi 129

I Mille e le autostrade del mare 139

Il lavoro non festeggia 147

L’Italia (poco) unita dell’industria 153

Il Risorgimento a piazza Affari 163

Dai briganti alla mafia 170

Biblioteca tricolore 181

E a mo’ di chiusa… 186

Indice dei nomi 188

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Quando un popolo è politicamente ma-

lato, di solito ringiovanisce se stesso e

ritrova, alla fine, lo spirito che aveva len-

tamente perduto per riscoprire e conser-

vare la sua potenza. La civiltà deve le sue

più alte conquiste proprio alle epoche di

debolezza politica.

Friedrich Nietzsche

Umano, troppo umano

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Introduzione

Un colloquio con Carlo Azeglio Ciampi sui 150 anni dell’uni-tà d’Italia significa fare un viaggio nel tempo degli ideali e nello spazio della nazione, fusi insieme nella convinzione profonda che l’Italia sia un paese saldo nella continuità patriottica tra Risorgimento, Resistenza e Costituente.

Ciampi era stato scelto come presidente del Comitato dei ga-ranti per le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. E certo è uno dei pochi italiani che ha la statura istituzionale per rico-prire quel ruolo.

Ha lasciato l’incarico, ora passato a Giuliano Amato, «per-ché» dice «l’anagrafe impone il rispetto di certe regole», ma non ha rinunciato ad assecondare le curiosità di chi lo ha spinto a te-stimoniare ciò che avrebbe voluto trasmettere in quella veste.

Ne è nato un libro che ripercorre – dall’Italia dell’arte a quella del mare, dal paese dei distretti industriali a quello della corsa all’euro – i tanti volti di un paese straordinario così come emergono anche dalla rilettura delle tappe del Viaggio in Italia cui Ciampi ha dedicato molte energie durante il suo settennato

a Tommaso e Costanza,perché l’Italia sarà gli italiani che sarete voi

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al Quirinale (che hanno ritrovato, intatta, la ragion d’essere ori-ginale, grazie anche alla enciclopedica memoria della dottoressa Maria Teresa Pandolfi, assistente del presidente che al progetto di questo volume ha dato un prezioso supporto).

Nella sua ricostruzione appassionata, frutto di diversi collo-qui avvenuti nello studio al Senato nella prima metà del 2010 e di riletture condivise dell’abbondante materiale istituziona-le, torna sempre l’attualità dell’idea risorgimentale di Patria. Sia che si parli della cultura e della passione civile e artistica di un Renato Guttuso, sia che si analizzi il sistema formativo con il canone mazziniano, sia che si tratti di leggere la riduzione del-lo spread sui titoli pubblici come prosecuzione ideale dell’azio-ne di Quintino Sella o la questione femminile come storia di un progresso sociale e di riscatto, da Anita Garibaldi a Nilde Jotti.

Di libri su e con Ciampi ne sono usciti diversi; basti pensare a quello recente di Arrigo Levi o agli altri, più datati, di Marzio Breda, Fabrizio Galimberti, Massimo Giannini, Paolo Peluffo, Dino Pesole, Alberto Spampinato, tutti preziosi materiali di consultazione. Ma questo, coincidendo con la celebrazione dei 150 anni dell’unità d’Italia, offre un’irripetibile opportunità per ripercorrere tutti i temi ciampiani e «testarli» con la prova del tempo: dall’idea di nazione a quella di identità culturale, dalla difesa del valore dei «campanili», purché aggregati verso l’obiet-tivo nobile dell’Europa unita nella pace e nella moneta, alla di-fesa della laicità dello Stato e della libertà religiosa anche come metodo per gestire al meglio l’integrazione degli immigrati.

Un’occasione per ridare smalto e attualità – secondo il mot-to di Massimo d’Azeglio «fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani» – a quello sforzo realizzato per creare solida unità di cittadinanza

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Introduzione 13

che ha caratterizzato la quotidiana azione di pedagogia civile di Ciampi al Quirinale.

Il paese, tuttavia, affronta questo compleanno di nazione giovane e di democrazia ancor più «imberbe», senza particolare enfasi, stretto tra la scarsità dei mezzi finanziari e la volontà po-litica di superare l’attuale assetto istituzionale per dare corpo al federalismo e a forme di leadership rafforzata dell’esecutivo.

È toccato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricordare con forza il senso di questa ricorrenza: «Tutte le ini-ziative in programma per il 150° fanno tutt’uno con l’impegno a lavorare per la soluzione dei problemi oggi aperti dinanzi a noi: perché quest’impegno si nutre di un più forte senso dell’Italia e dell’essere italiani, di un rinnovato senso della missione per il futuro della nazione. Ieri volemmo farla una e indivisibile, co-me recita la nostra Costituzione, oggi vogliamo far rivivere nel-la memoria e nella coscienza del paese le ragioni di quell’unità e indivisibilità come fonte di coesione sociale, come base essen-ziale di ogni avanzamento tanto del Nord quanto del Sud in un sempre più arduo contesto mondiale. Così, anche nel celebra-re il 150°, guardiamo avanti, traendo dalle nostre radici fresca linfa per rinnovare tutto quel che c’è da rinnovare nella socie-tà e nello Stato».

Unità e indivisibilità ricorda Napolitano, e lo stesso Ciampi sente il pericolo, mai scongiurato del tutto, di una fuga in avan-ti secessionista che tradirebbe i suoi ideali di una vita (e cosa sarebbe, se non una forma di secessione, l’idea del cosiddet-to «modello bavarese» per il Nord?). Avverte un decadimento nel costume istituzionale; l’imbarbarimento della lotta politica, combattuta fino allo scontro tra istituzioni con slogan e insulti

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più che con idee e progetti; l’insorgenza, nel vuoto di regole e di etica, della spietatezza primordiale dei mercati finanziari in grado di mettere sotto scacco l’idea stessa dell’Europa del-la moneta unica.

Da qui l’amarezza di chi guarda all’Italia con disincanto.«Non è il paese che sognavo» dice ora il presidente che, tut-

tavia, non rinuncia a scommettere sui giovani, cui ripropone le sue stelle polari di una vita: dignità e speranza.

«Alzatevi all’alba per conoscere il miracolo del risveglio quo-tidiano della natura» è l’invito fatto spesso spesso ai ragazzi. Dopo 150 anni sembra tornato il bisogno di un tempo per un nuovo risveglio civile. Un’alba della Patria, non retorica, per ri-trovare valori, coscienza di sé e di popolo.

A loro, alle ragazze e ai ragazzi che dovranno mantenere lo «sguardo alto» e sentire l’energia dell’aria pungente del nuovo mattino, sono dedicate queste pagine.

a.o.

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Risorgimento moderno

Carlo Azeglio Ciampi ha, di risorgimentale, a sentire bene, an-che l’inflessione. Di quel toscano caldo e perentorio, adatto a dire cose solenni, siano esse le «Considerazioni finali» del-la Banca d’Italia o il discorso di fine anno del presidente della Repubblica. O a declamare (o cantare) l’inno di Mameli. «Ho caratterizzato il mio settennato al Quirinale con lo sforzo di identificare la continuità tra il Risorgimento, la Resistenza e la Costituente. Ho sottolineato più e più volte l’origine risorgimen-tale della nostra Costituzione. Ho voluto dare lustro a tutti gli attori di quell’esperienza fondante. Ho voluto che il Vittoriano tornasse a nuovo splendore, vera piazza di tutti gli italiani. So bene che i romani non hanno mai amato quel monumento ma, giorno dopo giorno, ho avvertito nettissima la sensazione che la gente avesse capito il mio intendimento e interpretasse quel luo-go come un simbolo della nazione, dunque di tutti noi.»

Anche per questo Ciampi era stato scelto come presidente del Comitato dei garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’uni-tà d’Italia. «Il nostro Risorgimento è una miniera di storie

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appassionanti che aspettano solo di essere raccontate» ama dire il presidente. E proprio perché non considerava questo compito un puro esercizio di fredda rappresentanza ha lasciato l’incarico, do-po molti allarmi e preavvertimenti, per motivi di salute. Non sono pochi quelli che vi hanno letto una protesta garbata, alla sua ma-niera di servitore dello Stato, in modo non strillato, non plateale, ma incisivo e – ancora una volta – solenne, contro lo scarso inte-resse che il governo ha mostrato, fin da subito, verso questo pa-triottico compleanno. Lui si schermisce: «Ho deciso di attenermi alla condotta prudente che l’anagrafe mi impone, anche se a vol-te mi costa fatica». La sua scelta per motivi di salute ha comun-que indotto molti altri membri del Comitato a lasciare l’incarico. È stata breve la stagione degli entusiasmi accesi dalla riunione del Comitato in occasione della presentazione ufficiale del logo di Italia 2011, ancora una volta al Vittoriano, diventato il «topos» ciampiano per eccellenza. «Gli ideali del Risorgimento, poi ripresi dalla Resistenza e posti a fondamento delle scelte dei costituenti» diceva Ciampi «sembrano ora venuti meno nella nostra coscienza civile, ma in un momento, quale è quello presente, in cui la socie-tà italiana appare preda di una sorta di torpore spirituale e cultu-rale, essi hanno bisogno di una linfa che li vivifichi e li reinterpreti alla luce delle esigenze di un mondo dove convivono complessità talora in contrasto tra loro. L’anniversario della nazione è oppor-tunità per dare avvio a questo processo.» E già nel 2002 Ciampi da capo dello Stato suggeriva di studiare un percorso di recupero della memoria unitaria per preparare il Giubileo della nazione.

«Abbiamo il dovere di progettare oggi il percorso che condur-rà gli italiani a celebrare, nel 2011, il Giubileo della nazione – il centocinquantenario d’Italia – e, prima di allora, il sessantesimo

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anniversario della nostra amata Repubblica e i bicentenari di al-cuni dei nostri eroi, fondatori della Patria: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Camillo Benso di Cavour. Questi anniver-sari devono collegarsi in una trama unica che fornisca l’occasione di approfondire e celebrare la nostra storia. Nel passato, sia il giu-bileo del 1911, sia quello del 1961 sono stati occasione per fon-damentali momenti di riflessione culturale e di riorganizzazione delle città capitali: Torino, Firenze, Roma. Il 1911 ha visto la re-alizzazione di importanti opere: a Roma il Vittoriano, la Galleria d’Arte Moderna, il percorso delle Accademie straniere. Il 1961 dette vita al rilancio urbanistico di Torino, in pieno «miracolo economico». Entrambi furono momenti di straordinaria apertu-ra internazionale e di maturazione morale e culturale. Per «Italia 2011», come già per il 1911 e il 1961, si renderà necessaria una legge speciale che coinvolga tutte le istituzioni della nazione nel lavoro di preparazione. Spetta al parlamento e al governo stabilire gli obiettivi concreti che portino a vivere il 2011 come un’occasio-ne di crescita per tutti. «Mi limito ad alcuni spunti e suggeri-menti» diceva sempre Ciampi in un discorso alle Forze armate. «Affidare a una istituzione pubblica il compito di raccogliere le testimonianze dei reduci della guerra e della lotta di Liberazione, in modo che uno straordinario patrimonio di conoscenze e ricor-di non venga disperso. Collegare tutti i musei storici – indipen-dentemente dalla loro diversa collocazione amministrativa – in un progetto di rete che li renda accessibili unitariamente agli stu-denti e ai visitatori. È il progetto, non ancora del tutto definito, di Museo della nazione che ha già mosso i suoi primi passi, che deve ora coinvolgere le città, le regioni e anche i musei delle Forze ar-mate, per arrivare magari a un catalogo informatico comune.»

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Di quell’idea di tracciare un filo unitario della memoria non si è fatto più nulla. Ora è toccato a Giuliano Amato prendere la fiaccola di presidente del comitato e portarla a destinazione.

È evidente che un po’ di Risorgimento Carlo Azeglio Ciampi lo porta nel suo stesso nome. Ecco la spiegazione: «Mio non-no paterno si chiamava Azeglio. È morto nel 1924, era un uo-mo dell’Ottocento e dice molto sulla matrice risorgimentale che pervadeva la nostra famiglia. Mio nonno materno, Giuseppe Masino, come dice il cognome, era piemontese e andò volonta-rio nella guerra del ’59. Parliamo dei tempi delle battaglie epiche di San Martino e Solferino. È morto nel ’15 prima della mia na-scita. Da ragazzo entra, pieno di passione, nell’esercito regolare del Piemonte ed essendosi occupato di cavalli e qualificato, nel corso del tempo, come grande esperto, diventa il responsabile delle scuderie reali a San Rossore. Mia madre infatti nasce a Pisa perché il padre allora era tenente colonnello a capo delle scude-rie e lì viveva in un palazzo giallo sul Lungarno: era chiamato, un po’ pomposamente, Palazzo reale». Il pensiero ritorna alla gene-razione del nonno: «Erano giovani pieni di passione. Pensiamo a Goffredo Mameli, morto poco più che ventenne. Ai martiri di Belfiore, ai tanti che seguirono Garibaldi tra i Cacciatori delle Alpi e liberarono Varese, Como, Bergamo. La passione di quel-la generazione era arricchita dal senso di responsabilità, forma-tosi sulla conoscenza della storia e della nostra cultura».

Ciampi visiterà i luoghi mitici del Risorgimento il 4 novembre del 2001, a San Martino della Battaglia, in provincia di Brescia.

«All’inizio, quando la mente ritorna agli eroi del Risorgimento» dice oggi Ciampi «si è abbagliati dal ricordo dei personaggi più mitici, come è stato Garibaldi» ma per il cuore e il «tifo», se

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così si può dire, del presidente emerito della Repubblica, il ve-ro «campione del Risorgimento italiano» resta Camillo Benso conte di Cavour.

La prova è nell’unico cimelio che il presidente ha voluto te-nere per sé dei molti che le sue alte cariche istituzionali gli han-no procurato. «Ho fatto solo una deroga al principio etico che ho posto a guida del mio operare pubblico. Nel mio studio al Senato conservo incorniciata la copia di una lettera che Cavour scrisse da Torino a Massimo d’Azeglio a Londra, il 17 marzo 1861, nel giorno della proclamazione dell’unità d’Italia. Cavour definisce in questo modo l’evento più importante in un millen-nio della nostra storia: “Dès ce jour, l’Italie affirme hautement en face du monde sa propre existence. Le droit qui lui appar-tenait d’être indépendante et libre, e qu’elle a soutenu sur les champs de bataille et dans les Conseils, elle le proclame solen-nement aujourd’hui”.*

«Indipendenza, libertà, unità sono le parole chiave del Risorgimento che Cavour ha saputo tradurre in istituzioni del-lo Stato, che ancora oggi esprimono la propria vitalità al servi-zio della nazione.»

Insomma, Cavour è «il padre dello Stato», di quello Stato così caro a Ciampi perché «unitario, liberale e moderno», che ha fatto crescere gli italiani «in conoscenza, educazione, benes-sere, sicurezza e orgoglio».

Non stupisce quindi la sincera emozione con cui ancora oggi

* Da oggi, l’Italia afferma apertamente di fronte al mondo la propria esi-stenza. Il diritto che le apparteneva di essere indipendente e libera, e che ha sostenuto sui campi di battaglia e nei Consigli, lo proclama solenne-mente oggi.

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ripercorre la giornata in cui gli fu conferito il premio Cavour 2007 a Santena, «una giornata indimenticabile, con talmente tanta gente a seguirla, che fummo costretti a uscire da una sa-la già assai grande eppure ben presto rivelatasi piccina rispetto alla ressa della gente, incuriosita e partecipe».

«Sentirmi in qualche modo associato al nome di Cavour» spiegherà Ciampi nel discorso ufficiale «risveglia in me emozio-ni antiche, come quelle, comuni credo a molti di noi, provate sui banchi di scuola al tempo dei primi incontri con le vicende risorgimentali. Ci avvicinammo a quella storia come all’epopea della nostra unità nazionale e dell’indipendenza dalla domina-zione straniera; ci appariva un racconto di idealità, di passioni e anche di avventure che, insieme con le letture di quella sta-gione della vita – da Cuore a Ettore Fieramosca – accendeva la nostra fantasia di adolescenti e infiammava il nostro animo di sentimenti generosi.»

Per Ciampi, Cavour è «l’unico uomo veramente europeo del Risorgimento». «È sua la figura di maggior spessore, indubbia-mente. Un genio della diplomazia, un grande uomo di Stato che fiuta le situazioni e capisce al volo quali siano le soluzioni dei problemi. Il genio politico sta nel comprendere dove sia il li-mite massimo al quale spingere le proprie idee e i propri ideali calcolando i rapporti di forza e le possibilità effettive di succes-so. E Cavour, di questo genio, ne ha da vendere. Ha una gran-dissima abilità nell’inserirsi, pur essendo un minore, nel gioco dei grandi della terra del tempo.»

Ma – è la notazione per Ciampi più importante – «lo fa con grande dignità». «Ciò che apprezzo di Cavour» prosegue «è che non è mai andato a pietire favori presso i potenti di allora. Ha

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affermato, con qualità intellettuali e morali tanto elevate, l’orgo-glio di un paese, di una storia, di una cultura che cercava di ri-aggregare le sue radici, e ha potuto parlare con i grandi statisti di allora da pari a pari. Non è mai stato il “piccolo” che questua dai grandi qualcosa, uno strapuntino d’angolo al tavolo. È sta-to piuttosto come uno spiraglio, una boccata d’aria, per una na-zione che voleva nascere e cercava il modo migliore per unire le sue energie vitali. Un uomo che ha saputo affermare i suoi dirit-ti sentendosi orgogliosamente al livello intellettuale ed etico di interlocutori certo assai difficili.» Ciampi lo ricorderà così nelle celebrazioni ufficiali: «Europeo per formazione, cultura, interes-si, aspirazioni, al punto che uno dei nostri maggiori storici lo de-finì “lontano dalla tradizione culturale italiana”. Forse il giudizio di Chabod è eccessivo, ma non c’è dubbio che ci fossero Guizot e Constant, Bentham e Adam Smith a influenzare il pensiero di Cavour e il suo modo di porsi di fronte ai problemi etici, politici, sociali, intellettuali che l’Europa del suo tempo, borghese e libe-rale, si trovava ad affrontare. Era, quella europea dei primi de-cenni dell’Ottocento, una società in profonda trasformazione e il giovane Cavour ne prendeva conoscenza e coscienza non solo at-traverso le letture, ma direttamente con la presenza assidua nel-le due nazioni dove più si agitavano i fermenti del cambiamento: Francia e, soprattutto, Inghilterra, “madre delle istituzioni libe-rali… modello insuperabile di quel progresso graduale e mode-rato al quale guardavano con invidia i liberali di tutto il mondo”. Francia e Inghilterra – annotava Cavour citando Lamartine – era-no “il piedistallo dei diritti del genere umano” perché “la libertà del mondo ha un piede sul suolo britannico, un piede sul suolo francese”. A Parigi Cavour coglie appieno lo spirito del tempo

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“di una società e di un’epoca” fa osservare Romeo “che, accanto a forme rinnovate di scetticismo voltairiano, che contribuivano in tanti settori al trionfo di un mediocre e volgare materialismo, esal-tavano la passione e il sentimento, alimentando un culto dei valori e una capacità di dedizione all’ideale che non senza ragione so-no rimasti nella coscienza comune come il tratto più caratteristico dell’era romantica”. A Londra Cavour conosce Tocqueville, la cui fama era stata da poco consacrata dal successo della Democrazia in America; nella stessa occasione avvicina l’economista Senior, autore di un rapporto sulla povertà, riassunto e pubblicato dal venticinquenne conte di Cavour solo un anno dopo la conclusio-ne della grande, omonima inchiesta. Quell’inchiesta influenzerà in modo determinante l’orientamento di Cavour in tema di poli-tica sociale. Senza ombra di ambiguità avrebbe, in seguito, affer-mato di essere “più persuaso che mai che il dovere di ogni uomo realmente interessato alla causa del progresso è di lavorare senza sosta alla riforma sociale”».

Ma ecco l’elogio di Ciampi al pragmatismo del suo eroe: «Ieri come oggi non è nella progettazione astratta delle riforme che si esercita il genio politico, “ma nella intuizione del limite e delle condizioni”; Cavour mostrò sempre di esserne consapevo-le, agendo di conseguenza. Al tempo stesso restò coerente con i principi ai quali si era formato e ai quali la sua azione non venne mai sostanzialmente meno. L’espressione dell’adesione convin-ta e della pratica di quei principi si ritrova nell’affermazione e nella realizzazione della libertà dei commerci e dell’integrazio-ne delle economie, presupposti indispensabili per accrescere il benessere economico e insieme rinsaldare le istituzioni».

«Gli spiriti più illuminati» continua l’ex capo dello Stato

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«anche nei periodi oscuri della storia europea, hanno sempre guardato a questi obiettivi come a fattori in grado di determi-nare stabilmente le condizioni per la pace e per il progresso sociale ed economico del nostro continente. La tenacia di que-sto disegno ha portato al traguardo storico della costituzione dell’Unione europea; alla creazione delle istituzioni necessarie per il suo funzionamento, in primo luogo la moneta unica e la Banca centrale europea. Il talento di Cavour, politico, statista, economista, stratega “tessitore” dell’unità d’Italia è racchiuso nella sua straordinaria personalità della quale la storiografia, e non solo italiana, continua a interessarsi soprattutto per met-tere in luce la visione avanzata che egli aveva della società, del-le sue forze propulsive come delle inerzie regressive. Non sono uno storico, nonostante l’interesse per la storia, soprattutto del Risorgimento. Credo, però, di poter sottolineare alcuni tratti della personalità di Cavour, alcune sue caratteristiche per co-sì dire astoriche, alle quali si può guardare come ad altrettanti valori. Mi riferisco all’intuito sicuro con cui comprende pron-tamente l’evolversi dei processi storici, alla sua “fede nel pro-gresso”, che non è acritica infatuazione per il “moderno”, ma spregiudicata e coraggiosa analisi di contesti e di vincoli; valu-tazione rigorosa di costi immediati e di risultati prospettici.»

Tornando all’oggi, quanto alla lettura del Cavour spregiu-dicato e cinico, Ciampi la rifiuta: «È uno statista con la consa-pevolezza delle sue doti e della bontà delle idee e del progetto che professa e in cui crede. Lo vive pienamente e con forza: chi è convinto della propria causa diventa coraggioso e, certo, an-che spregiudicato».