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3 n. 18 (1999), pp. 5-21. 4 L’abitato fortificato di Rofalco nell’entroterra vulcente (Viterbo) Ipotesi preliminari sulle fasi etrusche dell’insediamento Mauro Incitti Gruppo Archeologico Romano L’abitato di Rofalco 1 , in posizione dominante sulla pianura che dal torrente Olpeta si estende verso sud per diversi chilometri sino al mare, ricopre un’area di circa due ettari lungo il margine meridionale della Selva del Lamone. Tale bosco, nel territorio comunale di Farnese (VT), si estende su di un plateau di origine vulcanica che costituisce una sorta di confine naturale tra Lazio e Toscana (Fabbri 1992, pp. 257-262; Casi 1996, pp. 9-12) (tav. 1). STORIA DEGLI STUDI Dopo un primo intervento rimasto inedito effettuato dal professor Rittatore dell’Università di Milano circa trent’anni or sono, le uniche indagini degne di nota realizzate sul sito vennero svolte nei primi anni ’80 da gruppi di volontari del Gruppo Archeologico Romano guidati da R. Selmi. Queste indagini furono edite da M. Rendeli (1993, pp. 212- 220 e bibliografia ivi compresa), che pubblicò anche una pianta dell’insediamento e formulò una serie di stimolanti ipotesi che comunque andavano suffragate con l’aiuto dello scavo come egli stesso auspicava in una precedente illustrazione del sito (Rendeli 1985, p. 61) (tavv. 2, 3). LE FORTIFICAZIONI Sul versante meridionale l’insediamento risulta protetto naturalmente da un ripido costone dominante la valle del torrente Olpeta e, più a sud, la pianura di Vulci. Sugli altri tre lati si sviluppano, lungo un fronte a semicerchio di circa 330 metri, mura che in taluni punti paiono ricordare la «prima maniera» del Lugli. Sono costituite da blocchi irregolari, di varie dimensioni, in pietra lavica tipica del luogo, legati a secco. L’irregolarità dei blocchi quasi sicuramente è dovuta alla natura del materiale litico di non facile lavorazione. NOTIZIARIO 1998 Gruppo Archeologico Milanese, Gruppo Archeologico Romano, Gruppo Archeologico Toleriense Rossilli-Gavignano (Roma). Campagna di scavo 1998 p. 87 RECENSIONI p. 93 SUMMARIES p. 97 RIVISTE IN SCAMBIO p. 101 NORME PER LA PUBBLICAZIONE p. 103 GRUPPI ARCHEOLOGICI D’ITALIA p. 109

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    n. 18 (1999), pp. 5-21.4

    L’abitato fortificato di Rofalconell’entroterra vulcente (Viterbo)Ipotesi preliminarisulle fasi etrusche dell’insediamento

    Mauro IncittiGruppo Archeologico Romano

    L’abitato di Rofalco1, in posizione dominante sulla pianura che dal torrente Olpeta siestende verso sud per diversi chilometri sino al mare, ricopre un’area di circa due ettarilungo il margine meridionale della Selva del Lamone. Tale bosco, nel territorio comunaledi Farnese (VT), si estende su di un plateau di origine vulcanica che costituisce una sortadi confine naturale tra Lazio e Toscana (Fabbri 1992, pp. 257-262; Casi 1996, pp. 9-12)(tav. 1).

    STORIA DEGLI STUDI

    Dopo un primo intervento rimasto inedito effettuato dal professor Rittatore dell’Universitàdi Milano circa trent’anni or sono, le uniche indagini degne di nota realizzate sul sitovennero svolte nei primi anni ’80 da gruppi di volontari del Gruppo ArcheologicoRomano guidati da R. Selmi. Queste indagini furono edite da M. Rendeli (1993, pp. 212-220 e bibliografia ivi compresa), che pubblicò anche una pianta dell’insediamento eformulò una serie di stimolanti ipotesi che comunque andavano suffragate con l’aiutodello scavo come egli stesso auspicava in una precedente illustrazione del sito (Rendeli1985, p. 61) (tavv. 2, 3).

    LE FORTIFICAZIONI

    Sul versante meridionale l’insediamento risulta protetto naturalmente da un ripido costonedominante la valle del torrente Olpeta e, più a sud, la pianura di Vulci. Sugli altri tre latisi sviluppano, lungo un fronte a semicerchio di circa 330 metri, mura che in taluni puntipaiono ricordare la «prima maniera» del Lugli. Sono costituite da blocchi irregolari, divarie dimensioni, in pietra lavica tipica del luogo, legati a secco. L’irregolarità deiblocchi quasi sicuramente è dovuta alla natura del materiale litico di non facile lavorazione.

    NOTIZIARIO 1998

    Gruppo Archeologico Milanese, Gruppo Archeologico Romano,Gruppo Archeologico TolerienseRossilli-Gavignano (Roma). Campagna di scavo 1998 p. 87

    RECENSIONI p. 93

    SUMMARIES p. 97

    RIVISTE IN SCAMBIO p. 101

    NORME PER LA PUBBLICAZIONE p. 103

    GRUPPI ARCHEOLOGICI D’ITALIA p. 109

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    La sola eccezione si riscontra sulla porta est, poiché era costituita da blocchi di tufogiallo, poco compatto, che meglio si prestavano a essere squadrati. Di tale strutturarestano oggi parzialmente visibili parte del basamento e alcuni elementi del crollo.Immediatamente a nord di questa, una murcia - tipica formazione geologica a profilomammillare del Lamone - appare regolarizzata e adattata a torre per proteggere la portasul lato destro a entrare.Sul lato a sud della porta, dove il pendio è meno scosceso, le mura risultano quasicompletamente rase al suolo; tuttavia restano visibili tracce delle rampe di accesso alcamminamento superiore, o a un’altra ipotetica torre in prossimità della porta stessa. Daqui la cinta parrebbe scendere sino a un piccolo pianoro posto a mezza costa sull’Olpeta.In questo punto sembrerebbe congiungersi con due piccole formazioni geologiche adanfiteatro analoghe a quella di ben più vaste dimensioni di Rosa Crepante nel cuore delLamone. Sulla stessa area, a conferma dell’ipotesi del proseguimento delle mura sulpiccolo pianoro a mezza costa, sono stati osservati diversi frammenti di tegole di tipologiastrettamente affine a quelle presenti nella parte superiore dell’abitato.Lo stesso pianoro è raggiungibile dalla strada che, uscendo dalla porta est, si dirigevaverso la valle dell’Olpeta. Per il primo tratto risulta costituita da una grande massicciataartificiale di pietra lavica, oggi in parte franata verso valle e ricoperta da crolli della costasoprastante. Tale via era forse l’asse principale di collegamento verso l’esterno, sia perle dimensioni, che per l’entità della porta attraverso la quale accedeva.

    Tavola 1. Il territorio di Vulci nel IV secolo a.C. (da Regoli 1985, fig. 34).

    Tavola 2. Pianta di Rofalco secondo Rendeli (da Rendeli 1993, fig. 83). Tavola 3. Pianta schematica della cinta muraria di Rofalco.

    Incitti L’abitato fortificato di Rofalco6 7

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    Dopo la torre che controllava da nord la porta in blocchi di tufo, le mura, esternamentemarginate da una costante depressione, forse traccia di un vallo, volgono prima versonord-ovest quindi a ovest formando una curva (foto 1); qui, a pochi metri da quel cheresta di una torre quadrangolare (foto 2), è visibile un sentiero che attraversa obliquamentele mura da nord-ovest a sud-est. Anche se curato nell’esecuzione e per diversi metriesposto sul lato destro di chi accede alle mura, potrebbe trattarsi di un’opera alquantorecente. Tale passaggio sarebbe probabilmente da porre in rapporto con fasi postmedievalilegate all’allevamento del bestiame o allo sfruttamento agricolo di spazi senza pietreall’interno della cinta difensiva e non con una eventuale antica posterula delle mura.Rendeli ipotizza qui un antico passaggio (Rendeli 1993, fig. 83, n. 6) ma nessuna tracciasufficientemente leggibile permette attualmente di confermare o meno tale ipotesi.Oltre la terza torre, la più conservata dell’intero circuito, le mura, come sempre adattateall’andamento del terreno, curvano verso sud congiungendosi con una murcia sul limitedel costone sull’Olpeta. Qui entra oggi un sentiero da ovest, proveniente da Roccoia.Questa località posta in linea d’aria a poco più di 700 metri da Rofalco è segnalata perla presenza di materiali dell’antica e della media età del bronzo (Casi 1996, pp. 22-23).Ricognizioni effettuate dai volontari dei Gruppi Archeologici hanno permessol’individuazione di frammenti di tegole di tipologia analoga a quelle del centro diRofalco concentrati presso l’estremità orientale di Roccoia. Inoltre tracce di murature asecco e adattamenti artificiali del suolo sono stati riscontrati lungo lo stesso percorso, acirca 200 metri a ovest di Rofalco. Tuttavia l’assenza di altri materiali archeologiciimpedisce una corretta diagnosi cronologica di tali strutture.È così probabile che questo sentiero fosse già in uso quando l’abitato di Rofalco era invita e che avesse un accesso all’oppidum nel punto in cui le mura terminavano sulcostone al disopra dell’Olpeta. Tale tracciato oggi procede da ovest verso est sino allaporta in blocchi di tufo. Nel percorso entro le mura si incontra, nel settore sud-ovestdell’abitato, con un altro che s’inerpica provenendo dalla vallata sottostante.

    IL PROBABILE ACCESSO DA SUD

    Giunto quasi alla sommità del costone corrispondente al baluardo meridionale dell’oppidumdi Rofalco, un ripido sentiero proveniente dal fondovalle si congiunge con un altro che,almeno in parte, provenendo da est, scorre a mezza costa sfruttando il punto d’incontrodi due diversi strati di roccia lavica. Da qui sale in direzione ovest/nord-ovest per unadozzina di metri, offrendo il lato destro di chi sale a un basso costoncino sormontato dairesti di un allineamento artificiale di blocchi, forse un muro difensivo. In questo punto lasalita è resa più agevole poiché qui si congiungono le basi di due murce. Appare evidenteche tali formazioni vennero in parte livellate e adattate alle esigenze insediativedell’oppidum.Poco più a monte il sentiero, formando uno stretto tornante, volta a nord-est entrandonell’abitato. In questo tratto il percorso appare delimitato a nord-ovest da un secondomuro in blocchi di pietra lavica al di sopra del quale gli scavi clandestini (n. 9 della pianta

    Foto 1. Cresta del tratto nord della cinta muraria di Rofalco.

    Foto 2. Torre occidentale delle mura di Rofalco.

    Incitti L’abitato fortificato di Rofalco8 9

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    di Rendeli) hanno messo in luce una cisterna circolare in muratura, rivestita in cocciopesto(n. 5 della pianta del Rendeli). Alcuni saggi clandestini sconvolgono le immediatevicinanze: sul terreno affiorano frammenti di tegole, coppi, pythoi e, meno frequente,ceramica d’uso comune. È stato qui ripulito un tratto di muratura a secco, orientata est/ovest, con una profonda rientranza nel tratto centrale, forse i resti di una porta. Purtroppola struttura non appare facilmente leggibile poiché in buona parte è franata verso valle.È comunque ipotizzabile anche una funzione sostruttiva di questo tratto di muratura voltoa contenere il terreno riportato artificialmente in antico a colmare una valletta tra duemurce sul limite meridionale dell’oppidum (foto 3).Tra i materiali ivi rinvenuti alcuni erano pertinenti a una stessa anfora decorata a vernicenera distribuita a pennello, con fasce di linee orizzontali sull’orlo e sulla spalla,immediatamente al disopra del punto di massima espansione del corpo. Sulla spalla sonopoi evidenti motivi «a linguette» o «a gocce», realizzati nella stessa tecnica pittorica, cosìcome una serie di tratti orizzontali sulle anse. Questo tipo di anfora trova puntualiconfronti in ambito vulcente e tarquiniese in contesti inquadrabili tra il IV secolo a.C. etutta l’età ellenistica (Falconi Amorelli 1987, pp. 24-25, tav.1, Loculo a destra dellatomba IV, n. 4). All’interno del collo il contenitore recava vistose tracce di un opercoloin argilla cruda; inoltre, aderenti alle pareti, sono stati rinvenuti diversi frammenti di ossacombuste e carboni. Purtroppo dallo stato di conservazione dei frammenti osteologicinon è stato possibile stabilirne l’appartenenza a una specie animale ben definita. Va però

    rilevato che immediatamente al di sopra del punto di ritrovamento, i massi della muragliaformano una nicchia che ben poteva ospitare il contenitore. Potrebbe quindi trattarsi deiresti di un contesto sacrificale o funerario.Nella stessa area è poi stato rinvenuto un piattino in bucchero grigio, in frammenti mapressoché completo, che trova puntualissimi confronti in contesti di fine IV - inizi IIIsecolo a.C., a Doganella nel Grossetano, forse l’antico centro di Kalousion, rientrante,come l’abitato di Rofalco, nel territorio vulcente (Michelucci 1985, fig. 122.1).Altri frammenti di bucchero grigio e di ceramica a vernice nera ivi rinvenuti sembrerebberocoevi al piattino. Tra le ceramiche fini l’esempio più antico è costituito da due frammenti,presumibilmente di una stessa kylix a vernice nera con decorazioni sovradipinte, attribuibileal gruppo Sokra e inquadrabile intorno alla metà del IV secolo a.C. (Beazley 1947, p.201; Pianu 1978, pp. 161-172).La classe comunque più attestata qui, come nel cuore dell’abitato, è costituita dai laterizi,rappresentati da coppi e soprattutto tegole. Risultano assenti per ora, su tutta l’areaindagata, le anfore da trasporto al contrario dei pythoi e delle olle di varie dimensioni,vale a dire tutti quei contenitori destinati all’immagazzinamento di derrate alimentari.Oltre a questo nucleo principale di materiali, la cui cronologia appare quindi racchiusa trala metà del IV e l’inizio del III secolo a.C., ne è stato individuato un secondo compostoda alcuni frammenti di ceramica d’impasto non tornita attribuibile genericamente all’etàdel bronzo. Questi ultimi non risultavano in giacitura originaria ma apparivano frammistiai materiali del nucleo più recente. Altri frammenti di ceramica d’impasto non tornita,sempre decontestualizzata, sono poi stati rinvenuti presso i vari scavi clandestini checostellano l’abitato (foto 4). Non è così possibile, per ora, stabilire con esattezza l’entitàe il genere di questa presenza più antica, ma va comunque rilevata la notevole importanzache l’attestazione riveste nel quadro degli insediamenti preistorici e protostorici dellaSelva del Lamone.

    CARATTERI GENERALI DELL’INSEDIAMENTO

    Tenendo pur presenti tutti i limiti costituiti dalla difficoltà di lettura conseguente alla fittavegetazione, l’interro, vecchi lavori agricoli e scavi clandestini, sembrerebbe che lecostruzioni interne dell’abitato fossero organizzate a nuclei, disposti su terrazzamentiartificiali che, partendo dal costone sud, digradavano verso il limite settentrionale. Questigradoni vennero ottenuti livellando le formazioni rocciose naturali, impiegando alcontempo i materiali di risulta per la costruzione di strutture ed edifici. È assai probabileche in un primo momento la maggior parte del pietrame di risulta venne usato nellarealizzazione della mura, mentre per la costruzione degli edifici, o almeno per le lorofondazioni e per l’alzato della porta est, vennero utilizzati blocchi squadrati di tufo giallo.Alcuni di questi sono visibili entro vari scavi clandestini e paiono indicare la presenza dimuri disposti tra loro ortogonalmente sulle varie terrazze artificiali. Tali blocchi venneroquasi sicuramente estratti a breve distanza dall’Olpeta, ad alcune centinaia di metridall’abitato, con un notevole salto di quota, determinando quindi un notevole dispendio

    Foto 3. Muratura di fondazione presso l’ipotetica porta sud.

    Incitti L’abitato fortificato di Rofalco10 11

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    di mezzi ed energie. Appare evidente che il tufo venne usato in una fase costruttiva forsecoeva alla realizzazione della grande cinta muraria, o quantomeno della porta est. Ilmotivo principale che determinò l’impiego di materiali diversi va forse ricercatonell’assenza di rocce ben lavorabili sul posto. La presenza di frammenti di blocchisquadrati di tufo riutilizzati entro diverse murature farebbe supporre che queste sianostate realizzate in una fase successiva.Per quanto concerne la viabilità interna dell’insediamento è assai probabile che seguissel’andamento dei terrazzamenti artificiali raccordandosi agli assi principali legati alle vied’accesso all’abitato. Di queste una sola è attualmente identificabile con certezza, vale adire quella che entrava attraverso la porta orientale.Data l’assenza di sorgenti entro la cinta di mura, è assai probabile che le strutture legateall’approvvigionamento idrico fossero spazi ipogei dove si raccoglieva acqua piovana, inragione di almeno uno ogni unità abitativa. Non va neppure escluso che alcuni pythoi,che ivi appaiono molto attestati, fungessero allo scopo. Sono oggi visibili due cisternerivestite in cocciopesto messe in luce dagli scavi clandestini. Una è posta a sud-ovest, abreve distanza dal costone sull’Olpeta presso il probabile accesso all’oppidum, di cui siè già accennato, e una seconda più ampia si colloca in posizione quasi centrale su uno deiterrazzamenti inferiori del sito.

    ALCUNI AMBIENTI ENTRO L’ABITATO

    Tra gli scavi clandestini che costellano l’area all’interno del circuito delle mura, se ne èscelto uno a campione poiché posto presso un allineamento di murature evidente nellacartografia esistente (n. 4 della pianta di Rendeli), quindi ben localizzabile nella topografiadel sito e perché erano qui visibili tratti di stratigrafie superstiti che avrebbero permessoun’analisi, seppur parziale, del contesto.Già dopo la prima pulizia del settore preso in esame, risultava evidente che non ci sitrovava dinanzi a un solo saggio di scavo clandestino ma a una serie di almeno treinterventi fisicamente separati. Tra questi il maggiore era costituito da un’ampia fossaallargata in più riprese. Apparivano comunque ben visibili almeno quattro ambientiseparati da murature tra loro perpendicolari, orientate nord-est/sud-ovest e,conseguentemente, sud-est/nord-ovest. Gli ambienti sono stati così distinti: il sud con iln. 1, l’est con il n. 2, il nord con il n. 3 e l’ovest con il n. 4. Si è proceduto alla rimozionedel terreno sconvolto negli ambienti 2 e 3.

    L’AMBIENTE 2

    Nell’ambiente n. 2 già da tempo il dilavamento aveva asportato le stratigrafie superiorimettendo in luce alcuni affioramenti del banco roccioso e un vespaio sottopavimentalericco di frammenti di laterizi e ceramica. Su questo erano intervenuti i clandestinioperando uno scavo che aveva anche tagliato uno strato sottostante al vespaio compostoda terreno carbonioso, quasi completamente privo di ceramica e sicuramente più anticoanche della parete sud-ovest dell’ambiente 2 visto che vi si sovrapponeva tagliandolo. Aldi sotto della lente carboniosa il terreno, ormai a diretto contatto con il banco roccioso,risultava arrossato dal fuoco. Tale successione stratigrafica potrebbe indicare che primadella costruzione dell’ambiente 2, in una cavità del terreno venne acceso un fuoco moltoforte, tale da far arrossare il terreno circostante. I materiali rinvenuti all’interno dellalente carboniosa potrebbero chiarire un poco la cronologia dell’evento che ne determinòla formazione. Oltre ad alcuni frammenti di ceramica d’uso comune, parzialmente alteratidall’azione secondaria del fuoco, sono stati qui rinvenuti alcuni frammenti quasisicuramente relativi a una stessa oinochoe a vernice nera, anch’essi recanti tracce dialterazione secondaria da fuoco e alcuni dei quali recuperati nel terreno sconvolto dalvecchio scavo clandestino. Nonostante il cattivo stato di conservazione, il tipico fondo eil profilo del corpo dell’oinochoe riconducono ai tipi 5722-5724 di Morel, tutti databilitra il 340 e il 280 a.C. (Morel 1981, p. 382, tav. 185). Inoltre le tracce di palmette dipintea vernice nera sul fondo risparmiato riportano, anche per la forma del vaso su cui sonorealizzate, al gruppo Toronto 495 di Beazley databile tra la fine del IV e l’inizio del IIIsecolo a.C. (Beazley 1947, pp. 182-183; Buranelli 1989, p. 101, fig. 390). Tuttavial’esecuzione apparentemente alquanto accurata delle palmette, in via del tutto ipotetica,potrebbe far supporre una cronologia piuttosto alta del nostro esemplare. Infatti talimotivi parrebbero molto prossimi a decorazioni vascolari accessorie, tipiche degli anniFoto 4. Dolio frammentato in ceramica d’impasto messo in luce entro un vecchio scavo clandestino a Rofalco.

    Incitti L’abitato fortificato di Rofalco12 13

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    centrali del IV secolo a.C., di probabile produzione vulcente quali ad esempio, taluneopere del Pittore della Biga Vaticana (Buranelli 1989, p. 100, fig. 389). Va poi rilevatoche palmette di buona fattura, realizzate con una tecnica molto prossima a quella riscontratasui frammenti di Rofalco, appaiono attestate su prodotti vulcenti dell’ultimo trentenniodel IV secolo a.C., come quelle che compaiono all’esterno dell’orlo di un cratere a calicedel Pittore di Turmuca (Cristofani 1992, p. 327, figg. 174 A-B). In attesa del restauro ditali frammenti e del conseguente studio, è soltanto in via ipotetica che l’oinochoe diRofalco può datarsi entro la fine del IV secolo a.C. Va comunque rilevato che unesemplare analogo, anch’esso incompleto e frammentario, è stato rinvenuto a Rofalco inuno strato di incendio, forse connesso con l’abbandono del sito agli inizi del III secoloa.C.Dalla stessa lente carboniosa provengono diversi frammenti di un piattino su alto piedein ceramica a vernice nera, molto vicino nella morfologia al tipo Morel 1172b (Morel1981, p. 90, tav. 6, n. 1172b1), proveniente dalla Tomba del Sileno a Sovana e datatogenericamente, e non senza qualche dubbio, al III secolo a.C. Va poi rilevata l’affinitàmorfologica del nostro esemplare con le serie Morel 1111 e 1112 datate tra il 330 e il 270a.C. (Morel 1981, p. 81, tav. 1). Pertanto, sulla scorta delle informazioni fornite da questeceramiche, è probabile che la formazione dello strato debba porsi tra la fine del IV e nonoltre i primi anni del III secolo a.C. L’azione umana che ne determinò la formazione ful’accensione di un fuoco talmente forte da generare la reazione dell’ossido di ferro oltrel’immediata superficie del terreno a diretto contatto entro la cavità del banco roccioso. Lapresenza di vasellame frammentato e bruciato indica che questo venne gettato nel fuocomentre le fiamme ancora ardevano o comunque quando la temperatura era ancora talmenteelevata da alterare la ceramica. Anche se sconvolto dalle successive azioni dell’uomo,tale contesto sembra ricordare una sorta di pozzo sacrificale di ben maggiori dimensionie migliore stato di conservazione, rinvenuto nell’abitato di Doganella nel Grossetano edatato anch’esso tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C. (Michelucci 1985, p. 112,fig. 121).In un momento immediatamente successivo a tale evento il terreno venne livellatoasportando parte del banco roccioso e la parte superiore del probabile contesto sacrificale.Vennero poi realizzate le fondazioni delle murature perimetrali, spesse circa 65 centimetrie all’interno dell’ambiente venutosi a creare, di m 3,90 x 4,20, venne creato un vespaiosottopavimentale con materiali di risulta. Si trattava principalmente di frammenti dicoppi e tegole, di pythoi, di ceramica fine e d’uso comune, di scaglie del banco rocciosoe di schegge di blocchi squadrati in tufo giallo. Era inoltre presente qualche frammentodi terracotta, modellato a mano, che potrebbe esser interpretato come parte di un elementodi coroplastica votiva forse da porsi in rapporto con il contesto a carattere sacrificalesconvolto in antico dalla realizzazione del vespaio sottopavimentale. La datazione di taleevento va ovviamente posta dopo la formazione della lente carboniosa, anche se non sirivelano grandi differenziazioni cronologiche tra i materiali delle due diverse stratigrafie.Ciò potrebbe indicare che l’arco temporale intercorso fu piuttosto breve. Parrebbe indicativa

    nello strato sottopavimentale la presenza di coppe a vernice nera il cui inizio di produzionesi pone intorno ai primi anni del III secolo2.Sono poi presenti in questo strato, come nelle fondazioni delle murature immediatamentecircostanti (altre apparivano usate nella muratura presso la probabile porta meridionale),scaglie di blocchi squadrati di tufo giallo. È poco probabile che si trattasse degli scarti dirifinitura per la messa in opera di conci in tufo poiché le strutture degli ambienti di questosettore sono in pietra lavica. È così più plausibile che tali frammenti debbano porsi inrapporto con una fase di ristrutturazione dell’area durante la quale vennero demolitestrutture in blocchi tufacei squadrati. Nel corso della stessa fase avvenne la formazionedel vespaio, la messa in opera delle pareti di almeno quattro ambienti e probabilmente delmuro presso la probabile porta meridionale.

    L’AMBIENTE 3

    Questo vasto ambiente quadrangolare (m 6,80 x 6,60) confina a SE con l’ambiente 2,posto a un livello poco più elevato e con il quale forse comunicava tramite un’ipoteticaapertura sulla parete SE. La base della parete NE in parte è tagliata nel banco di rocciae in parte è costruita in blocchi irregolari di pietra lavica e scaglie di tufo giallo. Inoltrechiude a SE una fenditura nel banco che procede verso N-E ed è stata soltanto parzialmentemessa in luce. Con molta probabilità si trattava di una fenditura naturale del banco lavicoche, precedentemente alla realizzazione dell’ambiente 3, subì alcuni adattamenti artificialicome parrebbero indicare delle tracce di lavorazione lungo i lati. Immediatamente a N-O una seconda cavità del banco roccioso risulta tagliata e tamponata dalla stessa paretedell’ambiente 3.Al termine della rimozione del terreno sconvolto dall’azione vandalica dei clandestini eraancora possibile intravedere dei residui di stratigrafie che rendevano possibile laformulazione di una serie di ipotesi sulle fasi finali della vita dell’ambiente 3 e in sensolato, dell’oppidum di Rofalco. Lo strato superiore risulta composto da pietrame,principalmente pietra lavica e qualche rara scaglia di tufo giallo, frammenti di tegole escarsa ceramica. La terra risulta a granulometria fine, piuttosto chiara e talvolta arrossatadall’azione del fuoco verso la porzione più bassa dello strato. Con molta probabilità laparte superiore è stata dilavata dagli agenti naturali, poiché in tutta la zona il terreno è inlieve pendenza. Anche in rapporto con le stratigrafie sottostanti, è stato possibile supporreche questo strato sia venuto a formarsi con il crollo delle pareti collassate entro l’ambiente.Queste, molto probabilmente, dovevano recare alla base grandi blocchi di pietra lavica,in parte ancora conservati in posizione originaria, mentre la restante porzione dell’alzatoera costituita da pietrame mescolato a frammenti fittili legati con fango. I pochi elementiceramici sicuramente riferibili a tale strato paiono indicare genericamente un ambitocronologico compreso tra la seconda metà del IV e i primi decenni del III secolo a.C.È molto probabile che le pareti degli ambienti in esame, come precedentemente osservato,siano state innalzate nel corso della stessa fase edilizia in cui fu realizzato il vespaiosottopavimentale e vadano quindi considerate a essa contemporanee.

    Incitti L’abitato fortificato di Rofalco14 15

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    Al disotto del crollo delle pareti appare molto evidente uno strato composto unicamenteda tegole e coppi disposti lungo una linea pressoché orizzontale e con le fratturefrequentemente in connessione. È stato interpretato come il crollo del tetto dell’ambienteavvenuto, apparentemente, in uno stesso momento come parrebbe indicare la particolaregiacitura dei laterizi. Gli interstizi tra questi ultimi risultavano colmati da terriccio fine,di colore chiaro, talvolta arrossato dall’azione del fuoco e con molta probabilità percolatodallo strato superiore. Anche alcune tegole recano, soprattutto sulla faccia inferiore,tracce dell’azione secondaria del fuoco. È così possibile ipotizzare che il crollo del tetto,come forse anche quello delle pareti, fu causato da un incendio, ancor più evidente nellostrato sottostante e dopo il quale l’ambiente 3 non fu più ricostruito.Lo strato di laterizi si sovrapponeva a un altro caratterizzato da terriccio fine, di colorenerastro, ricchissimo di particelle carboniose e lenti di cenere. Spesso la ceramica relativaa tale strato risulta alterata dall’azione secondaria del fuoco e cioè non relativa allacottura del recipiente o all’esposizione alla fiamma per uso di cucina. Tutti questielementi inducono a supporre che l’ambiente fu devastato da un incendio che ne determinòil definitivo abbandono.Va inoltre rilevato che la maggior parte dei frammenti ceramici rinvenuti nel terrenosconvolto dagli scavi clandestini, soprattutto quelli di maggiori dimensioni, in connessionetra di loro e alterati dall’azione del fuoco, sono da riferire allo strato d’incendio eraggiungono il numero di qualche centinaio. Un numero così elevato di reperti permetterà,una volta ultimati restauro e documentazione, non solo di meglio puntualizzare la cronolo-gia dell’evento che determinò l’abbandono dell’ambiente 3 e quasi sicuramente del sitodi Rofalco, ma stabilire i rapporti economici degli antichi abitanti e, nel particolare, lafunzione dell’ambiente in esame. Sin da ora è comunque possibile se non proprioanticipare delle conclusioni, quantomeno avanzare delle ipotesi supportate dai primi datiraccolti in fase di recupero e di primo ordinamento dei materiali. La maggior parte di essisono pertinenti a frammenti di recipienti destinati alla conservazione di derrate alimentari.Tra questi, quelli di maggiori dimensioni sono i pythoi d’impasto, alcuni dei qualipresentavano tracce di colature di vernice rosso-bruna che, in analogia con altri esemplaririscontrati nell’area dell’oppidum, doveva rivestire la superficie esterna della spalla.Si hanno poi una serie di olle, principalmente di grandi e medie dimensioni, e coperchiin ceramica d’uso comune; molto rara è invece la ceramica fine da mensa.È stato poi raccolto un considerevole numero di pesi da telaio e un frammento di grossoelemento tronco-piramidale in arenaria, forse un peso da rete. Infine è stata recuperatauna ghianda missile in terracotta sicuramente proveniente dallo strato d’incendio.Trattandosi di un nucleo di alcune centinaia di frammenti, potrebbe assumere un particolaresignificato l’apparente assenza di anfore da trasporto, fenomeno che andrà consideratopiù oltre con il procedere dello scavo.Risulta comunque evidente la funzione di magazzino dell’ambiente 3 nel quale eranoforse riposti uno o più telai, oppure dove venivano anche intessute stoffe. Ciò potrebbeanche indicare che nel territorio circostante venissero allevati ovini per la produzionedella lana. Ma è pur vero che la materia prima, non lavorata, poteva essere importata. Il

    grande peso di arenaria, date le dimensioni, poteva esser impiegato o per tendere reti dapesca entro il corso del vicino Olpeta, oppure per reti da uccellagione. Anche il proiettiledi fionda in terracotta potrebbe testimoniare a favore di un’attività venatoria in zona. Nonè neppure da escludere che la sua presenza, nello strato d’incendio, sia da porre inrelazione a un evento violento legato all’abbandono dell’ambiente 3 e forse dell’oppidum.Un primo esame dei materiali sicuramente pertinenti a tale strato e a quelli di probabileprovenienza, sembrerebbe porre la datazione dell’incendio intono all’inizio del III secoloa.C. Concorderebbe con questa cronologia un gruppo di frammenti di uno stesso piccolokantharos molto vicino nella morfologia al tipo Morel 3643a (Morel 1981, p. 276, tav.108) rinvenuti nello strato. Tra i materiali provenienti nel terreno sconvolto va rilevata lapresenza di una coppa (due frammenti di cui uno probabilmente alterato dall’azionesecondaria del fuoco) abbastanza vicina al tipo Morel 2643d dall’oppidum di Ensérunedatabile entro la prima metà del III secolo e forse imitante modelli attici di tipo Morel2643c databili intorno al 300 o immediatamente dopo (Morel 1981, p. 276, tav. 62). Altriframmenti, con tracce dell’azione secondaria del fuoco, sono relativi a una coppa di tipoMorel 2775c, attribuita alla cerchia dell’atelier «des petites estampilles» e datata, conl’approssimazione di più o meno venti anni, al 285 a.C. (Morel 1981, p. 222, tav. 72).Un’altra coppa, sempre con evidenti tracce di combustione secondaria, presentacaratteristiche morfologiche intermedie tra i tipi Morel 2783c1 e 2783e1. Il primoproviene dalla tomba VI di Barbarano (VT), databile tra la fine del IV e i primi decennidel III secolo a.C., l’altro da Cales e inquadrabile intorno al secondo quarto del III secoloa.C. (Morel 1981, p. 223, tav. 72). La morfologia con caratteristiche intermedie tra i duediversi tipi del Morel, del nostro esemplare, potrebbe indicare che venne prodotto in unmomento compreso tra la fine di produzione del primo e l’inizio del secondo: vale a direintorno alla fine del primo quarto del III secolo a.C. Sempre dallo stesso strato provengonoalcuni frammenti di almeno due piccole olpai di tipo Morel 5121d datato tra la fine delIV e l’inizio del III secolo a.C. e proveniente dalla tomba XI di Barbarano (Morel 1981,p. 336, tav. 154). Almeno da questo primo esame sembrerebbe emergere così chel’incendio che determinò la formazione dello strato avvenne entro la prima metà del IIIsecolo a.C., forse tra il secondo e il terzo decennio del secolo.La stratigrafia d’incendio poggiava sul piano di calpestio dell’ambiente 3. Questo risultacomposto da terreno chiaro, fine, con frequenti tracce di arrossamento provocato dall’azionedel fuoco. Parrebbe costituire un piano di battuto artificiale creato dopo la regolarizzazionedel banco roccioso volta alla realizzazione dell’ambiente 3 con un processo moltoverosimilmente analogo a quanto riscontrato nel contiguo ambiente 2. Nei frequenti scaviclandestini che sconvolgono il sito, non sono evidenti tipi diversi di pavimentazione conla sola eccezione di un’ampia fossa, posta a un centinaio di metri a est dell’ambiente 3,dove, al di sotto di un piano composto da blocchi squadrati di tufo giallo alternati a nucleiquadrangolari colmati da scaglie di basalto, appare evidente un secondo pavimento inlastroni di tufo che presenta strettissime analogie con la «casa del Pescatore» a Vulci econ la struttura «a» di Saturnia datata antecedentemente alla distruzione del 280 a.C.(Michelucci 1985, pp. 134-135, figg. 154-155).

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    Sono poi visibili tracce di suddivisioni interne lungo il lato S-E dell’ambiente 3 indiziateda residui di tramezzi in argilla e piani posti a quote leggermente differenti.

    CONCLUSIONI

    Il lavoro d’indagine su Rofalco si può considerare appena iniziato, quindi il procederedelle ricerche potrà portare a nuove formulazioni di ipotesi e alla conferma o smentita dialtre. È comunque doveroso sin da ora proporre, quantomeno in via del tutto provvisoria,delle interpretazioni che permettano di inquadrare l’insediamento all’interno di unadinamica storica che superi la sola - e sterile - illustrazione dei materiali.Prima dell’intervento oggetto di questa relazione si riteneva che l’insediamento di Rofalcofosse già attivo nel VI secolo a.C. Tale conclusione nasceva dall’osservazione di materialiriscontrati entro la cerchia delle mura dell’oppidum (Rendeli 1993, p. 214). Dalle ricercheeffettuate nel corso delle campagne 1996-97 e dalla ricognizione dei materiali conservatipresso i depositi del Museo Civico di Farnese, risulta invece che, dopo una frequentazioneinquadrabile nell’ambito dell’età del bronzo, forse verso la fine della stessa, la cui entitàè tutta da verificare, il sito parrebbe rioccupato soltanto a partire dagli anni centrali delIV secolo a.C. Va rilevato che la ricerca è soltanto all’inizio e nulla può escludere unafrequentazione in momenti precedenti, della quale non è stato per ora possibile rinvenirealcuna traccia. Risulta comunque inconfutabile che il centro conobbe un notevole sviluppointorno alla metà del IV secolo a.C. in analogia con altri del territorio vulcente (Regoli1985, p. 49). Ma il solo sviluppo economico del territorio di Vulci non sembrerebbesufficiente a spiegare la posizione arroccata e l’apparato difensivo dell’abitato. La realizza-zione di quest’ultimo, se non anche dell’abitato stesso, andrebbe posta quindi in rapportocon un momento storico in cui si rese necessaria una consistente difesa del territorio,come potrebbero testimoniare altri ritrovamenti nel vulcente, senza escludere del tutto unriadattamento di strutture almeno in parte preesistenti. Nel IV secolo a.C. nella vicinaVulci si riscontra la fortificazione dei principali punti d’accesso alla città con mura inopera quadrata di tufo (Paglieri 1959, p. 111; Bartoccini 1961, p. 265). Inoltre tra la metàe la fine del IV secolo a.C. altri centri dell’area vulcente parrebbero venire cinti da mura;è il caso di Sovana (Maggiani 1985, p. 85), di Ghiaccioforte (Rendini 1985, pp. 131-132)e forse Doganella (Michelucci 1985, p. 113).I motivi che resero necessaria la creazione di queste difese vanno quindi ricercati in unasituazione storica che ne determinò l’esigenza. Sarebbe forse da escludere il timore delleincursioni galliche poiché, dopo l’assedio di Chiusi e il sacco di Roma del 3903, i Gallistabilirono le loro basi nel Lazio meridionale e da qui, con i Latini di Preneste e Tivoli,premevano contro Roma escludendo quindi l’Etruria (Carandini 1985, p. 36). Anche unruolo difensivo nei confronti delle scorrerie siracusane potrebbe esser considerato pocoplausibile dato che queste parrebbero limitate alla sola fascia costiera e paiono interrompersipoco prima della metà del IV secolo (Carandini 1985, p. 36).Tale esigenza difensiva fu generata forse, più che dal timore dello scorrazzare di gruppidi sbandati (Michelucci 1985, p. 113), dalla guerra romano-tarquiniese conclusasi nel

    351 a.C. o nelle sue conseguenze. Non va infatti esclusa l’erezione delle fortificazioninegli anni immediatamente successivi, in previsione di una ripresa delle ostilità (con lanon lontana Tarquinia, Roma stipulò un trattato di pace quarantennale e a quanto risultadalle fonti venne rispettato). Gli affreschi della tomba François di Vulci, datati proprio inun momento immediatamente successivo alla metà del IV secolo a.C. (Cristofani 1987,p. 199; Ampolo 1988, p. 206, nota 9)4, vale a dire subito dopo la fine della prima guerratra Roma e la Lega Etrusca, potrebbero forse indicare una partecipazione vulcente aquella guerra e parrebbero mostrare un atteggiamento antiromano dell’oligarchia localenegli anni successivi al 351 (Coarelli 1983, pp. 43-69; più cauto Pallottino 1987, pp. 232-233).La fine dell’abitato di Rofalco, come l’osservazione delle stratigrafie parrebbe dimostrare,è legata a un fenomeno traumatico, un incendio, verificatosi intorno ai primi decenni delIII secolo a.C., come attestano i materiali reperiti. Più che dovuta a un incidente, taledistruzione potrebbe esser legata a un episodio bellico forse indiziato dalla ghiandamissile rinvenuta nell’ambiente 3 e un’altra analoga, ma frammentaria, recuperata pressola porta orientale. Avvalorerebbe l’ipotesi della distruzione violenta l’apparente, definitivoabbandono del sito dopo tale evento. Quest’ultimo, molto presumibilmente, va posto instretta relazione con la vittoria romana su Vulci del 280 a.C. Il grande centro etruscovenne fortemente penalizzato dalla sconfitta: tratti di mura vennero smantellati, l’estensionedell’abitato si ridusse, l’entità dei corredi funerari diminuì notevolmente, scomparveroiscrizioni etrusche nelle tombe e vennero sostituite da altre in lingua latina, nessunmembro dell’aristocrazia locale, al contrario di ciò che si verificò per altre città etruscheconquistate, entrò a far parte del senato romano e scomparvero dai commerci alcuneproduzioni locali a favore di altre direttamente controllate da Roma (Gazzetti 1985, pp.61-64; Incitti 1985, pp. 75-76; Sgubini Moretti 1985, p. 58).Probabilmente le truppe di Roma, condotte da Tiberio Coruncanio, non si limitarono allasola conquista della città ma ne devastarono il territorio circostante saccheggiando oppi-da e altre entità insediative minori. Infatti in questo momento l’abitato di Ghiacciofortesubì una violenta distruzione e un definitivo abbandono (Rendini 1985, pp. 131-132). ASaturnia uno strato caratterizzato da un incendio a cui segue un lungo abbandono, lo«strato F», precede la fondazione della colonia del 183 a.C. ed è stato datato intorno al280 a.C. (Michelucci 1985, pp. 134-135.). A questi si aggiungano recenti ritrovamenti,pressoché inediti, effettuati dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionalequali l’insediamento di Poggio Evangelista a Latera e l’altro del Bagno di Musignano aCanino. Forse anche la distruzione dell’abitato di Doganella è da porre in rapporto conlo stesso evento bellico. L’oppidum di Rofalco, molto probabilmente, seguì la stessadrammatica sorte. Potrebbe anche darsi che l’insediamento venne distrutto negli annisuccessivi al 280 a.C., comunque compresi nella prima metà del III secolo a.C., mal’ipotesi risulta per ora non supportata da alcun elemento degno di una qualche atten-dibilità.Ne consegue che questo centro etrusco, almeno nelle parti sinora indagate, sarebbevissuto entro un arco cronologico piuttosto limitato nel tempo: circa settanta anni.

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    Pertanto appare alquanto evidente l’importanza che ricopre non solo sotto gli aspettistorici, urbanistici e topografici, ma anche legati alla seriazione tipologica dei materiali.Risulterebbero infatti chiusi in arco cronologico abbastanza ristretto, tale da costituire unpunto di riferimento fondamentale per gli studi a venire.

    NOTE

    1 Dal 1996 una squadra del Gruppo Archeologico Romano è tornata a operare tanto sul sito di Rofalco quantosul territorio circostante. Tale attività viene poi integrata nel corso dell’estate con la realizzazione di campipresso il comune di Farnese. Questi si svolgono sotto l’egida dei Gruppi Archeologici d’Italia e vedono lapartecipazione di soci principalmente dei Gruppi Archeologici Romano, Torinese e Milanese. A ciò si aggiungala cortese e fattiva disponibilità per la realizzazione dell’iniziativa dell’Amministrazione comunale di Farnese,dell’Ente Riserva Naturale della Selva del Lamone e del locale Museo Civico. Le operazioni si svolgono sottola supervisione della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale. A tutti questi Gruppi Archeologicied Enti vanno i più doverosi ringraziamenti per il buon esito delle operazioni e per aver reso possibile lapubblicazione di questo articolo preliminare.2 Coppe affini ai tipi Morel 2672b, e, f; 2686d; 2561a; 2538b.3 Il percorso seguito dai Galli verso Roma parrebbe escludere Vulci e comunque il fenomeno si verifica in unmomento troppo distante dalla metà del IV secolo a.C. allorquando si possono datare i materiali più antichirinvenuti a Rofalco successivi all’età del bronzo.4 Comunque tra la metà e la fine del IV secolo a.C.

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