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Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
(apocrifo)
Numero
240 307
27 novembre 2017
Io ero estremamente contrario alle Olimpiadi, ma non ero sicuro che i romani la pensassero come me. [...] Decisi di telefonare a Massimo, il mio meccanico, e gli
chiesi di radunare un po’ di amici perché, gli dissi scherzando (ma neppure troppo), ‘dovevamo prendere una decisione politica’. Lui radunò una decina di persone:
l’edicolante, il fruttivendolo del quartiere, un paio di parenti, un pensionato. Chiesi a Massimo se si trattava di persone di fiducia. Te poi fida’ disse lui. Così, quasi in
modo solenne, domandai cosa ne pensassero delle Olimpiadi a Roma. Le loro rispo-ste furono molto aspre, e non posso riportare le parole esatte per evitare querele. A
ogni modo uscii dall’officina, dal mio ‘soviet’ personale tra bulloni, pezzi di ricambio e olio, e mandai un messaggio a Virginia: ‘Sulle Olimpiadi nessuna esitazione, linea
durissima. La stragrande maggioranza dei romani sta dalla nostra parte’.Alessandro Di Battista,
Maschietto Editore
Il soviet de’ noartri
dall’archivio di Maurizio Berlincioni
immagine
NY City, 1969
La prima
Ecco una bellissima
maternità nera!
Uscendo di corsa da
un negozio ho quasi
urtato questa giovane
madre con il suo
splendidi bambino.
Per fortuna allora i
tempi erano diversi
e nessuno pensava,
neppure da lontano,
a tutte le questioni di
privacy che ai giorni
nostri sono diventate
virali e, senza alcun
discernimento
ragionevole, rendono
praticamente quasi
impossibile registrare
situazioni come
questa, che una volta
erano considerate
belle e degne di
attenzione. E quindi,
come si dice ormai
sempre più spesso,
“si stava davvero
molto meglio quando
si stava peggio”!
Direttore
Simone SilianiRedazione
Gianni Biagi, Sara Chiarello, Aldo Frangioni, Vittoria Maschietto, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Barbara Setti
Progetto Grafico
Emiliano Bacci
www.culturacommestibile.com
www.facebook.com/cultura.commestibile
Editore
Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142
Firenze tel/fax +39 055 701111
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Numero
240 307
27 novembre 2017
In questo numeroLa variabile idea di bellezza
di Francesco Gurrieri
L’editore che regala i libri
di Simone Siliani
Bonsai atlantico
di Alessandro Michelucci
La badessa, il conte, il pittore
di M. Cristina François
Il Tempio dell’Incerto
di Angela Rosi
Guido Rey, alpinista e pittorialista
di Danilo Cecchi
Il movimento radicale non è mai esistito
di John Stammer
Paesaggio rotante
di Claudio Cosma
Mappe di percezione: San Francisco
di Andrea Ponsi
La ragazza nella nebbia
di Mariangela Arnavas
La realtà messa in posa resta reale?
di Elisa Zuri
Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli
di Simone Zanuccoli
Passaggio in Mongolia/1
di Marco Zappa e Rossella Seniori
The square
di Francesco Cusa
e Cristina Pucci, Valentino Moradei Gabbrielli, Anna Lanzetta, Paola Grifoni... Illustrazioni di Lido Contemori, Massimo Cavezzali
L’invito di Rosa Maria
Le Sorelle MarxL’invito di Rosa Maria
I Cugini Engels
Abbastanza incensurato
Lo Zio di Trotzky
Riunione di famiglia
427 NOVEMBRE 2017
Troppi luoghi comuni, tanti aforismi, non
poche ambiguità: è ciò che accompagna oggi
l’idea di bellezza, sempre più inseguita, sem-
pre più polisemica, troppe volte solo moto-
re di marketing. Più che l’abusata citazione
dostoevskijana ricordiamone quella data da
Thomas Mann, secondo cui “la bellezza ci
può trafiggere come un dolore”.
Sull’idea e la creazione della bellezza – ri-
cordiamolo – Vasari ci dà un primo saggio
nel Proemio alle “Vite”: “...di queste tre arti
eccellentissime Architettura, Scultura e Pit-
tura...comincerommi dunque dall’Architet-
tura, come della più universale e più neces-
saria e utile agli uomini, ed ora al servizio e
ornamento della quale sono l’altre due”.
Ciò viene da fonte insospettabile, da chi,
come Vasari, fu Architetto, Pittore e Sculto-
re. Ma qui non vogliamo riaprire la disputa
sulla primazia delle arti, anche se una verifi-
ca ad oggi potrebbe essere particolarmente
divertente. Ma certo, dovremmo mettere nel
conto almeno il cinema, la moda, i modi del-
la multimedialità e altro ancora.
Nella complessità e nell’entropia dei nostri
giorni, qualche decennio fa, un brillante stu-
dioso di origine svizzera, allievo di Wöefflin
e amico di Le Corbusier, Sigfried Giedion,
avvertiva un problema che è forse ancor oggi
di grande attualità: diceva che “il problema
odierno è di superare il nefasto abisso che si
determina tra un pensiero molto progredito
e una sensibilità arretrata, quale quella del
committente di qualunque categoria. Se si
riesce a superare questo dislivello potrà svi-
lupparsi naturalmente la ricerca di creatori
più capaci...”.
La verità è che il dibattito sulla bellezza è
stato congelato per molto tempo.
Sentite la perentorietà colpevole di questo
passaggio nella Storia della critica d’arte del
nostro Lionello Venturi: “Un altro concetto
che ha per molto tempo fuorviato l’esteti-
ca del suo compito di essere una filosofia
dell’arte, è stato quello di bellezza. Ed è uno
dei principali meriti dell’estetica di Bene-
detto Croce di aver escluso il concetto di
bello...”.
Come si vede una vera e propria teorizzazio-
ne per espungere dal lessico la “bellezza”.
Un modo per tentare di avvicinarsi al tema,
può esser quello di partire da un’affermazio-
ne “elastica” della bellezza, che non deve
scandalizzare: la bellezza è un concetto che
muta nel tempo e nello spazio. Il nostro è un
concetto proprio della cultura occidentale,
che ha radici nella classicità, che ha riferi-
menti con la filosofia e con l’estetica in par-
ticolare: quell’estetica di cui ci si riempie la
bocca, che si crede di conoscere, ma che in
realtà è solo un diffuso luogo comune. E do-
vremmo parlare anche di “cànone”, anch’es-
so variabile fra oriente e occidente; perché
in genere, troppo sommariamente, il giudi-
zio si esprime in termini di “bello” o “brut-
to”. Il cànone è importante perché è il metro
di paragone; è una chiave di lettura (estetica,
appunto) che ci avvicina e ci accomuna nel-
la lettura di un’opera d’arte. Comunemente,
lo vediamo applicato alla figura umana e in
quella femminile in particolare: non a caso –
ed è quasi ovvio - è supercitata la “Primave-
ra” botticelliana come paradigma della bel-
lezza. Ma anche l’estetica è una disciplina
che muta, oscilla e si eclissa nel tempo. Oggi
non è più studiata; così che desta meraviglia
un testo come quello di Sergio Givone inti-
tolato L’estetica del nulla. Uno studio e una
riflessione che hanno forse anticipato ciò
che oggi stiamo vivendo in ordine alla liqui-
dità e alla confusione del giudizio estetico:
non c’è più un cànone e, di conseguenza, va
bene tutto e il contrario di tutto.
Allora, cerchiamo di riflettere, per grandis-
sime linee, alcuni momenti salienti dell’idea
di bellezza nella nostra cultura occidentale.
Partendo dall’Atene di Pericle, dall’architet-
tura del Partenone e dalla scultura di Fidia.
Infatti, come potremmo prescindere dalle
mètope del Partenone o dalle meraviglio-
se fanciulle-cariatidi dell’Eretteo? Radici
queste che, assai più tarde e pur mediate
dalla classicità romana, ritroveremo in quel
di Francesco Gurrieri
La variabile idea di bellezza
527 NOVEMBRE 2017
O della confusione degli opposti
per non condizionare i giovani allievi. E così
potremmo continuare fino ai nostri giorni,
passando anche attraverso la stagione del
Futurismo, che ribaltò l’idea di bellezza, ab-
bandonando la figura umana e cercandola
piuttosto in quella della “velocità”. Le figure
di Carrà, di Balla e di Boccioni hanno, in-
dubbiamente altro e diverso cànone, come,
personalissimo, se l’era costruito Amedeo
Modigliani. Il “cubismo” fece il resto. Poi,
faticosamente, attraverso numerose e dif-
ferenziate strade espressive siamo ai nostri
giorni, ove si è riaffacciato prepotente l’e-
sercizio della figura, dalla lirica silenziosa
di Hopper al brutale realismo di Freud. A
clima artistico dell’Umanesimo proprio qui
in Toscana, segnatamente in quel rapporto
scultura-architettura che fu proprio della
“bottega” di Donatello e Michelozzo, di cui
il Pergamo dell’angolata del Duomo di Prato
resta forse l’esempio più significativo.
Del resto, parlando di cànoni, si può pre-
scindere da trattatisti come Vitruvio o Leon
Battista Alberti, figure primarie nella fissa-
zione dei canoni (soprattutto gli “ordini”) in
architettura?
Ma veniamo ad un punto cruciale nella
storia dell’estetica: a quel momento magico
dell’umanesimo, all’acme, che con Lorenzo
il Magnifico vedeva compresenti il Ficino,
Pico della Mirandola e il Poliziano. Ma che
di lì a poco, con l’incendio spirituale e pia-
gnone del Savonarola, muterà improvvisa-
mente colpendo lo stesso Botticelli. Peraltro,
appena più tardi, ecco arrivare Michelange-
lo col suo David, con l’introduzione di un
cànone maschile che ha traversato i secoli.
Ma pensiamo poi alle figure femminili di
Rubens che sconvolgono antiteticamente le
antropometrie botticelliane.
Quando arriviamo a Winckelmann e a
Canova ( e siamo nel XVIII secolo) le cose
cambiano ancora: il primo guarderà esclu-
sivamente alla figura maschile, parametriz-
zandola (e facendone un cànone), il secondo
spostando di nuovo l’attenzione sulla figura
femminile; il paradosso è che al Canova
succederà un Lorenzo Bartolini che, provo-
catoriamente, vuol silenziare l’idea di càn-
one, portando a modello, in Accademia, un
gobbo! Una trasgressione programmatica
dimostrare come si stia vivendo quella che è
stata definita la “confusione degli opposti”,
digerendo tutto e il suo contrario, colpevol-
mente accettando una progressiva ideologia
dell’ignoranza, che rende tutti più uguali.
Come si vede, si torna alle “oscillazioni del
gusto” (di dorlesiana memoria); si torna al
“perimetro culturale” a cui si fa riferimento,
ci si riconduce al “cànone”, entrambi varia-
bili nel tempo e nello spazio. Del resto, cosa
direste se chiamati a giudicare fra l’Angelo
che sorride della Cattedrale di Reims e la
Venere di Samotracia del Louvre?
Questo testo è in parte apparso sulla
rivista “Testimonianze” , 510/2016
627 NOVEMBRE 2017
L’equivoco non è destinato a sciogliersi,
anzi: in qualunque contesto lui si trovi,
dall’intimità di un dialogo a due con Ben
al confronto con il Presidente degli Stati
Uniti, passando per la partecipazione ad un
talk-show televisivo, le risposte di Chance,
sempre molto semplici e invariabilmente
riferite al mondo del giardinaggio, vengono
sempre scambiate per profonde metafore,
proprie di una persona dalla grande saggez-
za e illuminante filosofia.
Alla morte di Ben, eminenza grigia del
potere espresso dal presidente, quest’ulti-
mo pronuncia un discorso di commemora-
zione, mentre chi muove le fila del potere
e presenzia il funerale, all’ombra di un
famedio piramidale recante un occhio al
suo vertice, già si chiede nelle mani di chi
mettere il potere, in vista della scadenza del
mandato. L’attenzione dei grandi industria-
li finisce per indirizzarsi verso Chance, il
quale, in un finale surreale, si allontana dal-
la cerimonia, teneramente distratto dalla
natura intorno, e si avvia verso un laghetto,
che percorre a piedi come fosse solido, una
metafora forse della sua ingenua leggerez-
za mentale che gli permette di “camminare
sulle acque”; nel frattempo si ascoltano an-
cora in sottofondo parole di Ben citate nel
discorso funebre, che si concludono con la
frase: “La vita è uno stato mentale”.
Abbiamo chiesto un commento sull’intervi-
sta di Eike Schmidt, direttore delle Gallerie
degli Uffizi (pubblicata nello scorso numero
di Cultura Commestibile), ad Antonio Na-
tali, secondo il suo costume, non ha voluto
commentare; ma ci ha suggerito di riguar-
dare il film interpretato magistralmente da
Peter Sellers, “Oltre il giardino” del 1970.
Noi, per rinfrescare la memoria, ne diamo
qui di seguito la sinossi.
“Alla morte del padrone, Chance, un giar-
diniere sempliciotto e non più giovane, che
non è mai uscito dalla casa nella quale ha
lavorato per tutta la vita, si ritrova in mezzo
alla strada, con una valigia di vecchi abiti
di lusso e un disarmante candore. L’unico
collegamento col mondo esterno è stata nel
corso di tutti questi anni la sola televisione.
Vagando disorientato e senza meta per le
strade di una Washington sporca e maledu-
cata, ben diversa dal mondo che lui vede-
va rappresentato attraverso la TV, Chance
viene investito dall’auto della moglie di un
influentissimo personaggio. La donna, Eve
Rand, si preoccupa di soccorrere il malca-
pitato e lo porta nella sua villa per farlo cu-
rare. Durante il tragitto in automobile Eve
chiede all’uomo come si chiami, e la sua
risposta, resa poco chiara da un colpo di tos-
se, viene compresa nella versione originale
come Chauncey Gardiner, mentre nelle
intenzioni voleva essere “Chance il giardi-
niere” (Chance the gardener).
Chance si rimette presto dal piccolo inci-
dente ma poi si trattiene come ospite, vi-
sto che il vecchio e malato Ben, marito di
Eve, uomo d’affari e amico del Presidente
degli Stati Uniti, colpito dalla sua riserva-
tezza, lo tiene in grande considerazione,
e sua moglie addirittura se ne innamora.
Tutto ciò avviene all’insaputa di Chance e
in maniera del tutto fortuita, dato che quei
pochi concetti che lui esprime riguardano
il giardinaggio (unico argomento da lui co-
nosciuto) e l’unica cosa che gli interessa è
guardare la televisione. Ma in un mondo
che è portato a vedere ciò che vuole più che
ciò che è, Chance viene scambiato per un
saggio, sensibile e arguto osservatore. Solo
il medico di famiglia nutre dei sospetti sem-
pre più concreti circa la sua reale natura.
Quando qualcuno cerca di parlargli con
una metafora, una forma allegorica, oppure
un doppio senso, Chance interpreta alla let-
tera, rispondendo quindi in modo bizzarro.
Le risposte vengono interpretate come frut-
to del suo senso dell’umorismo.
a cura della redazione Il giardiniere Chancee la guida degli Uffizi
Il commentodi Antonio Nataliall’intervista a Eike Schmidt
727 NOVEMBRE 2017
sorta di obbligo a comprare le quantità enormi
che di solito si vedono nella prima stanza del-
le grandi librerie di catena sistemate in grandi
pile di “novità”, che hanno una obsolescenza
di qualche settimana e poi vengono diretta-
mente mandate al macero.
Questo sottrae spazio invece ad una editoria di
qualità?
Sì, perché la piccola editoria non può permet-
tersi simili tirature.
Questa specificità di Maschietto editore sulle
immagini d’arte, fa giustizia del modo un po’
semplicistico con cui si è celebrato il funerale
del libro di carta, perché l’immagine resta un
punto di forza dell’edizione cartacea?
Io credo che questi riti siano piuttosto dei bal-
lon d’essai per stupire, indurre domanda di
altri prodotti. Certo, ci sarà sempre di più una
produzione digitale che consente anche certi
usi d’occasione come ai viaggi in cui diventa
difficile portarsi dei libri di carta, mentre con
un ebook reader è molto più facile. Ma io non
conosco persone che non abbiano libri in casa.
E’ un oggetto formidabile, affinatosi tecnolo-
gicamente nel corso del tempo, che ha delle
notevoli funzioni fascinatorie. Ricordo che al
primo anno di Università nella facoltà di giu-
risprudenza, durante la prima lezione di dirit-
to romano, il professore - che era un luminare
dall’aspetto molto severo - disse al pubblico:
“Il libro funziona sul principio del cardine”,
con l’intenzione di spiegarlo ad un pubblico
che riteneva, a torto o a ragione, poco esperto
dell’oggetto.
Tornando a questa esperienza di rete di dona-
zione di libri, come la volete definire?
Francamente non saprei. Abbiamo iniziato
invitando amici e conoscenti, presentandola
come una cosa gioiosa, che all’inizio è stata
presa anche con una certa diffidenza (“dove
sarà il trucco?”); ma poi è stata accolta con
entusiasmo. Perché noi lo sappiamo bene,
l’editore si affeziona ai propri libri, come se vi
avesse un rapporto parentale, e non di sempli-
ce produttore. Per cui li conserva, li trattiene,
aspetta occasioni che poi non arrivano, per
diffonderli e questo porta ad un accumulo.
A chi rivolgete l’invito a venire a prendere i
vostri libri?
Alle scuole, certamente, anche se è difficile
proprio per la quantità di passaggi burocratici
che donazioni verso queste istituzioni richie-
dono. Ma noi siamo riusciti, attraverso la col-
laborazione di alcuni insegnanti, a risolvere
questi problemi per allestire una piccola bi-
blioteca circolante. Ma, ci rivolgiamo a chiun-
que, liberi e singoli cittadini, associazioni, ecc.
Questo alleggerimento del magazzino ci aiu-
terà anche a concentrarci maggiormente sul
lavoro di promozione e valorizzazione anche
in senso commerciale dei libri che abbiamo e
che ci restano. Guardando a questo enorme
magazzino, è chiaro che senti il peso di un
problema, ma ti dà anche la dimensione di un
lavoro fatto di una certa qualità.
Vorrei che di questa esperienza si parlasse an-
che in forma letteraria, immaginativa e credo
che “Cultura Commestibile” potrebbe essere
il veicolo giusto per farlo: in questi movimenti
attorno ai libri c’è sempre qualcosa di lettera-
rio e, dunque, perché non favorire una raccol-
ta di storie. Anche con una rubrica, “Notizie
dal magazzino”. Il libro è sempre in crisi: fino
a qualche anno fa l’intero settore rimetteva
500 milioni l’anno, poi negli ultimi anni c’è
stata un’inversione di tendenza. Pensiamo al
proliferare dei saloni e le fiere del libro: io cre-
do che l’obiettivo finale sia quello di arrivare a
fare 12 grandi fiere del libro l’anno perché il
prodotto, come si dice, tira.
Un editore, il nostro Maschietto Editore,
affronta il problema comune a tutte queste
aziende, cioè la gestione dei magazzini (costo-
si e ingombranti), in forme nuove ma con cuo-
re antico; di chi non solo “produce merci” (li-
bri, in questo caso), ma “ama” il suo prodotto.
Invece di mandare al macero quintali di libri,
ha deciso di regalarli a chi vuole passare dalla
sede e ritirarli. Ma sta avvenendo un piccolo
fenomeno peculiare. Ascoltiamolo raccontato
dalla voce del titolare, Federico Maschietto.
Cosa succede? L’editore per sue esigenze in-
terne, diventa un distributore di libri, svuota
magazzini e si genera un fenomeno culturale?
Succede qualcosa che valorizza la memoria e
la storia di questa azienda. Non c’è un metro
certo per misurare il successo di un libro, ma
noi stiamo toccando con mano questo dato
attraverso l’afflusso di persone, le quali ven-
gono e sfogliano e scelgono questi libri che
regaliamo. Sono libri tornati in casa editrice
e che doniamo a istituzioni culturali, studio-
si, semplici lettori. Libri che si accumulano e
che creano una pesante zavorra dal punto di
vista del consumo di spazio e di costi di ge-
stione. Restano in casa editrice alcuni titoli
più recenti o che hanno una consolidata pre-
senza in libreria, e una parte di archivio in-
toccabile. Tutto il resto, cioè 25 anni di lavoro
con questo marchio, è a disposizione. Abbia-
mo registrato un grande interesse per questo
patrimonio. Partiamo sempre dall’argomento
artistico, perché da lì è iniziata la nostra espe-
rienza professionale. Abbiamo iniziato que-
sto “gioco” con il passa parola ed è cresciuto
a dismisura. Occorrono, ovviamente, delle
regole perché il libro è un prodotto tracciato e
quindi non si possono regalare o buttare libri
senza lasciarne un riscontro formale, per cui
chiediamo a chi viene a prendere i libri gra-
tuitamente di firmare una semplice ricevuta
per avvenuta donazione.
Di quanti volumi stiamo parlando?
Siamo fra i 400 e i 500 titoli pubblicati in 25
anni. Che comporta un magazzino pesante:
questa reductio ad unum serve un po’ anche a
razionalizzare e a riprendere il cammino. Ab-
biamo rinnovato il nostro contratto di distri-
buzione dei nostri libri con Messaggerie, che
è la più grande azienda italiana nel settore.
Quindi abbiamo ora un sistema di “magazzi-
no funzionale” che muove i libri che vengono
ordinati dalle librerie e rimanda indietro le
fantasmagoriche rese. Il libraio è un mercante
apparentemente libero che di fronte al rap-
presentante si pensa abbia piena ha libertà
di scelta, ma non con le major con cui ha una
di Simone Siliani L’editore che regala i libri
827 NOVEMBRE 2017
Anche quest’anno, puntuale come il Natale
ma anche come la morte, si celebra l’enne-
sima Leopolda renziana nella nostra sfinita
– anche da queste cerimonie – cittadina.
Essendo delle autorità in materia, abbiamo
ricevuto dall’amica (lei ci chiama così, anche
se non ci abbiamo mai fatto un pasto insieme,
ma tant’è) senatrice Maria Rosa Di Giorgi,
l’invito a partecipare al tavolo leopoldino de-
dicato al Cinema e allo Spettacolo. Occasione
imperdibile, soprattutto per l’incipit dell’in-
vito della senatrice (e non certo perché questi
tavoli servano ad alcunché, come del resto
quelli dei “100 luoghi” di renziana memoria
a Firenze). Infatti la Rosa Maria ci notifica
che il Parlamento “ha varato due leggi, di
cui sono stata relatrice, attese da tantissimi
anni: la Legge che disciplina il Cinema e
l’audiovisivo e la Legge Spettacolo”. E fin qui
va bene, ma poi la senatrice esagera: “Queste
importanti riforme riconoscono, una volta per
tutte, i valori sociali, economici e culturali di
questi due settori strategici per lo sviluppo
del nostro Paese”. Ora, vorremmo suggerire
all’amica Rosa Maria di spararle anche meno
grosse. Intanto perché non è che prima di
queste leggi il settore non fosse regolamentato
da norme statali. Ma si sa, è lo stile renziano:
“prima di me il nulla, dopo di me il diluvio”.
Ma soprattutto vorremmo dire alla carissima
Rosa Maria che niente è per sempre, neppure i
diamanti; figuriamoci Renzi!
Lo Zio diTrotzky
In una emorragia di voti ormai piuttosto
generalizzata il segretario del PD Matteo Renzi
si è convinto che il successo del suo partito
alle prossime elezioni si giocherà nel confronto
verso le giovani generazioni. Ecco quindi che
Renzi si è circondato sul suo treno di una serie
di Millennials il cui unico criterio di scelta
pare essere la data di nascita e si è messo a
citare e affrontare temi da supergiovane, il
tutto sempre a favore di social. Lo troviamo
quindi su instagram a cantare Coez (imma-
giniamo cambiando il verso del ritornello del
suo maggior successo da “amami o faccio un
casino” in “votami o faccio un casino”) oppure
a immaginare come logo/slogan della nuova
Leopolda “L8” giocando sull’ottava edizione
(in un rimando tarantiniano forse involonta-
rio visto che i protagonisti dell’ottavo film di
Tarantino fanno quasi tutti una brutta fine) e
sul fatto che, letto, lo slogan suona come “lotto”.
Avesse la nostra tradizione il buon Renzi
potrebbe abbinare anche una colonna sonora al
suo slogan, quel “battan l’otto” canto socialista
di inizi novecento in cui si canta: “Verrà qui’
giorno della rivoluzione,/verrà qui’ giorno che
la dovrai pagare/ma verrà qui’ giorno della
rossa bandiera/infame società, dovrai pagare”.
Certo, direte, un canto del genere non pare
adatto al giovanilismo del lupetto di Rignano;
ma solo perché non avete ascoltato la versione
elettronica di les anarchistes.
Buon sangue non mente, mai. Ed è il caso
di Luigi Genovese, figlio d’arte, cioè di
Francantonio Genovese, un vero artista
della truffa. Il padre, da poco condannato a
11 anni di carcere per avere guidato un’as-
sociazione criminale che faceva la cresta a
fondi regionali per la formazione professio-
nale, può ben dirsi orgoglioso del pargolo
che, alla tenera età di 21 anni, dopo una
trionfale marcia elettorale in Sicilia a suon
di 18 mila preferenze, si è trovato indagato
per riciclaggio ed evasione fiscale. D’accor-
do, son reatucci, quasi da cavalierato del
lavoro in Italia, ma come cantava Francesco
De Gregori, Il ragazzo si farà, anche se ha
le spalle strette. Insomma,non è ancora mol-
to, ma è abbastanza. Concetto con il quale
il giovane Luigi ha una certa affinità, visto
che in una intervista a Repubblica del 27
settembre scorso ebbe a pronunciare la stori-
ca frase: “Sono anche abbastanza incensu-
rato”. Ma che vuol dire? E’ come dire,”come
stai?”, “eh non c’è male, sono abbastanza
incinta”. Poi nella stessa intervista il
ragazzo ha perfezionato il concetto: “questo
mondo i giovani li ha finora messi da parte
o utilizzati solo quando fa comodo. La mia
candidatura nasce anche per cambiare rot-
ta. L’unica verità è che si fa sempre grande
retorica attorno ai giovani. … Chiediamo
solo la possibilità di costruirci il futuro... io
ho avuto un’opportunità di scommettere su
me stesso. E ho sentito il dovere di farlo. E’
già un messaggio, o no? Non candidarmi
sarebbe stato irrispettoso nei confronti della
mia generazione, non della mia famiglia».
Per carità, non sia mai che ci perdiamo un
genio come questo. Lui ha scommesso e la
fortuna lo ha baciato in fronte. A parte il
piccolo dettaglio dell’inchiesta che, forse, lo
renderà abbastanza meno incensurato.
Votami o faccio un casino
Le SorelleMarx
I CuginiEngels
L’invito di Rosa Maria
Abbastanzaincesurato
927 NOVEMBRE 2017
disegno di Lido Contemori
didascalia di Aldo Frangioni
Nel miglioredei Lidipossibili
Al povero non donare un pesce educalo, invece, a pescare le lische
SCavezzacollo
disegno di Massimo Cavezzali
1027 NOVEMBRE 2017
Il Tempio dell’Incerto
Archi-tè, venerdì10 novembre inaugurazio-
ne de“Il Tempio dell’Incerto”, operazione
artistica del Collettivo Superazione. L’i-
naugurazione del Tempio è preceduta da“-
Non so chi”performance di Santiago Bruni
e Tommaso Verde. A torso nudo e dotati di
frusta fatta con fili di cellulari e di auricolari
e in testa una corona di spini, spine elettri-
che, attraversano l’ingresso della biblioteca
di Architettura fino al Tempio dell’Incerto,
davanti ad esso distribuiscono pagine di
enigmistica con un richiamo fortemente
religioso. Hanno camminato fustigandosi
ed enunciando a voce alta i loro dubbi e
le loro incertezze. Il dubbio è umano, l’in-
certezza è nel nostro DNA. Tutti i nostri
dubbi e paure ci possono paralizzare ma
altrimenti possono essere la speranza che ci
apre a innumerevoli spiragli di possibilità. I
giovani artisti attraverso la loro performan-
ce ci hanno insinuato il dubbio sull’essere
digitale. Il Tempio dell’Incerto ha pavimen-
to in mattoni traballanti, camminandoci ci
sentiamo incerti, esitanti, qui il corpo e la
mente vivono nel timore sperimentando
la totale incertezza ma, restiamo in piedi e
procediamo verso l’altare. Un ologramma
del DNA è racchiuso in una raggiera simile
all’Ostensorio, è un richiamo a Cristo e al
ciclo continuo di nascita, morte e resurre-
zione. Cristo è colui che dubita ma ha fede
e segue il suo destino. Cristo ha ed è pas-
sione, Credo quindi dubito, dubito perché
Credo. Il dubbio viene mosso dall’interes-
se e dalla passione nella ricerca della veri-
tà la nostra personale e profonda verità, la
nostra essenza. L’incerto è dentro di noi in
ogni attimo della nostra vita e ci accompa-
gna nelle scelte, decidiamo nell’incertezza
e sempre dobbiamo dubitare solo così evi-
tiamo i preconcetti, le frasi fatte e soprat-
tutto l’omologazione. Solo il dubbio e l’in-
certezza ci permettono di cercare per avere
risposte creative, per trovare dentro di noi
quella forza che ci permette di vivere e non
di sopravvivere. Solo così l’incertezza su cui
poggiamo i piedi diventa una grande forza,
l’energia di coloro che non si fermano alla
prima risposta. E’ la forza di chi non crede
e non vive per l’apparenza ma per qualco-
sa di più profondo, la nostra verità iscritta
anch’essa nel DNA, perché ciascuno di noi
ha la sua unica verità. “La palla che lanciai
giocando nel parco non è ancora scesa al
suolo” ci introduce al Tempio, questa frase
di Dylan Thomas racchiude tutta la ricerca
di una vita, il continuo cammino dall’infan-
di Angela Rosi
zia in poi affinché la palla/percorso conti-
nui il volo/pensiero e per fare ciò dobbiamo
poggiare i piedi sull’Incerto. Nella sala del-
la biblioteca il video documento “Risposte
nascoste” perché, alle volte, le rispose sono
nascoste nei posti più impensabili.
Arch-tè Incontri Trasversali Biblioteca
Scienze Tecnologiche – Architettura Pa-
lazzo San Clemente Via Micheli 2 Firenze
fino al 24 novembre.
1127 NOVEMBRE 2017
di un passato celtico: esiste una squadra di
calcio che si chiama Celta Vigo, mentre in
vari luoghi si trovano toponimi celtici. Lo
stesso nome Galizia richiama termini come
Galli e Galles. Il paesaggio, ricco di verde,
ricorda spesso quello scozzese e irlandese.
A queste caratteristiche geografiche si af-
fiancano quelle culturali: basta leggere la
bella antologia Cruceiros. Racconti dalla
Galizia magica (Edizioni Estemporanee,
2007) per ritrovare l’inconfondibile imma-
ginario celtico, ricco di atmosfere magiche
e misteriose.
In campo musicale, accanto a cantanti
come Carmen Penim e Uxía, spiccano nu-
merosi musicisti legati all’eredità celtica.
Anzitutto, il gruppo Milladoiro (nella foto),
attivo dagli anni Settanta. Ma anche Car-
los Núñez, Cristina Pato e Susana Seivane,
che suonano la gaita, la tipica cornamusa
galega. La comune eredità celtica è confer-
mata dai Chieftains, alfieri del folk irlande-
se, che hanno reso omaggio alla Galizia con
un intero CD (Santiago, 1996), mentre il
Festival interceltico di Lorient le ha dedica-
to l’edizione del 2009.
Stavolta non parliamo di musica. O per me-
glio dire, lo facciamo indirettamente, perché
ci addentriamo in una regione europea in
modo da creare un terreno, una conoscenza
di base che in futuro ci permetterà di parla-
re meglio della sua musica. La regione di cui
vogliamo parlare è la Galizia. Questa scelta
non è causale, ma è legata all’attualità. Nel-
le ultime settimane la cronaca ha dato am-
pio spazio alla Catalogna e ai suoi contrasti
politici con il potere centrale spagnolo. Il ri-
lievo mediatico del separatismo catalano ha
stimolato un’associazione d’idee con quello
basco, fenomeno comunque diverso perché
segnato dalla violenza terroristica. È rima-
sta in ombra, al contrario, la terza regione
autonoma spagnola (nacionalidad histori-
ca) abitata da una minoranza linguistica: la
Galizia. Una minoranza consistente (circa
3.000.000 di persone), ma molto meno tur-
bolenta di quelle suddette.
Questa regione nordoccidentale della Spa-
gna, grande come il Belgio, confina con il
Portogallo, al quale è legata da una stretta
affinità linguistica, dato che il galego è quasi
uguale al portoghese. Si tratta di un rappor-
to simile a quello che esiste fra olandese e
fiammingo. Il capoluogo, Santiago di Com-
postela, è la meta del celebre pellegrinag-
gio: secondo la tradizione cristiana, la città
custodisce le spoglie dell’apostolo Giacomo
il maggiore.
In questa regione sono nati scrittori e artisti
noti anche in Italia. Pensiamo alla cantante
Agustina del Carmen Otero Iglesia, meglio
nota come la Bella Otero; all’attore Fernan-
do Rey, interprete di molti film italiani e
americani; agli scrittori Alfredo Conde (Il
grifone, Editori Riuniti, 1989), Camilo José
Cela (Undici racconti sul calcio, Feltrinel-
li, 1990) e Manuel Rivas (I libri bruciano
male, Feltrinelli, 2009). Quest’ultimo sot-
tolinea che la Galizia non è una regione
mediterranea, ma atlantica: El bonsai atlan-
tico, come l’ha definita nel suo libro omomi-
mo (1989).
Il galego e lo spagnolo sono lingue neolatine,
ma questa terra conserva tracce importanti
di Alessandro Michelucci
Bonsai atlantico
MusicaMaestro
di Valentino Moradei GabbrielliLa cura con la quale il pannello esplicativo, po-
neva l’accento sulla verosimiglianza della stam-
pa fotografica all’opera pittorica, era tale che
l’osservatore finiva per essere preoccupato del
prossimo rientro della pala originale: “L’adora-
zione dei Magi” di Paolo Veronese conservata a
Vicenza nella Chiesa di Santa Corona. L’opera
è momentaneamente esposta alla National Gal-
lery di Londra, per una importante mostra.
L’esaltazione della tecnologia come autrice del-
la riproduzione non lasciava tanto immaginare
il livello qualitativo raggiunto a garanzia di un
risarcimento congruo e opportuno per chi si tro-
vava a visitare l’edificio monumentale, privato
se pur momentaneamente di un suo gioiello, ma
lasciava trasparire un tale compiacimento che
presagiva un diminuito interesse nei confronti
dell’opera e del suo autore che si lasciava inten-
dere anche sostituibile con eguale effetto emo-
zionale ed estetico dei visitatori.
L’insistere sulla matericità del colore e del sup-
porto, reso dall’immagine fotografica, non faceva
assolutamente rimpiangere l’assenza dell’origi-
nale, ma quasi ne esaltava la sua asetticità, la-
sciando immaginare una maggior resistenza al
tempo.
A mio avviso un intendere e un procedere in
linea con l’odierna filosofia conservativa delle
opere d’arte e dei monumenti, che troppo spes-
so sono negati alla collettività in ordine ad una
volontà di protezione e tutela, sostenuta e sup-
portata dalla tecnologia. Non più considerata e
considerabile un valentissimo strumento d’inda-
gine studio e conservazione, ma come potenziale
concorrente e sostituto dell’originale, vedi i tan-
tissimi esempi di disegni e stampe esposti in fac-
simile e non sempre dichiarati come tali in mo-
stre temporanee, collezioni permanenti e musei.
L’Opera e il suo doppio
1227 NOVEMBRE 2017
Nella metà degli anni ‘60 dal ribollente
calderone della facoltà di Architettura
di Firenze escono giovani architetti che
iniziano un percorso di profondo ripensa-
mento, quasi una rifondazione, del modo
di essere architetto, della maniera di fare
architettura e dello stesso concetto di pro-
getto e di progettazione. Non un movimen-
to culturale e neppure una scuola. Anzi
una serie di piccoli e piccolissimi gruppi di
architetti che, spesso in modo isolato, speri-
mentano nuove idee e nuovi territori, intro-
ducendo il pop (il popolare) nella proget-
tazione, ma che non sedimentano queste
esperienze in una corrente o in un filone di
pensiero uniforme e univoco. Come scrive
Pino Brugellis in uno dei saggi introduttivi
al catalogo della mostra Utopie Radicali:
“Il Movimento Radicale non è mai esistito.
Sono esistiti piuttosto gli Archizoom, i Su-
perstudio, i 9999, gli Ufo, gli Zziggurat e i
solisti Remo Buti e Gianni Pettena.”
Anzi alcuni di loro rifiutano anche l’eti-
chetta di “radicali”, inventata da Germa-
no Celant. Scrive Cristiano Toraldo di
Francia:” i radicals è una definizione del
1973 che non ci piace per niente, tanto
che quando uscì il numero di Casabella
con tale definizione decidemmo la fine di
Superstudio”. Una galassia di architetti, e
di gruppi di architetti, che non si definisco-
no mai come un insieme ma come elemen-
ti separati. Ma che tutti insieme in modo
disordinato, certe volte contraddditorio e
spesso in competizione l’uno contro l’al-
tro, esprimono un’energia di rinnovamento
che è figlia sia del periodo storico sia della
ribellione verso la consolidata “nomencla-
tura” architettonica allora dominante. Un
agire in apparente contrasto anche con i
professori della facoltà di Architettura di
Firenze che annoverava fra gli altri Leo-
nardo Ricci, Leonardo Savioli, Leonardo
Benevolo, Umberto Eco, Giovanni Klaus
Koenig, Gillo Dorfles e Ludovico Quaro-
ni. Un contrasto apparente perchè alcuni
di essi hanno lasciato tracce importanti
nell’immaginazione creativa dei giovani
laureati. La mostra esprime bene questo
senso di confusione, di invenzione, di caos
creativo e provocatorio già dalla prima sala
dove sono esposte, al centro su un piccolo
basamento, le opere colorate e fantastiche
degli Archizoom e di Lapo Binazzi e del
Superstudio. Questa sensazione continua
poi anche nelle altre sale e in particola-
re nella sala dedicata agli Istogrammi di
Architettura del Superstudio e nella sala
dedicata al lavoro di Remo Buti con l’espo-
sizione della collezione Piatti di Architet-
tura. Una mostra che tenta con successo di
costruire un filo conduttore per il visitato-
re, con una suddivisione per argomenti e
per soggetti, e che restituisce alla fine una
piacevole sensazione di non avere capi-
to ancora tutto quello c’è da capire. Una
sorta di necessità di rivedere, ripassare,
ripensare una parte della storia dell’archi-
di John Stammer Il movimento radicalenon è mai esistito
tettura di quegli anni che in Italia, dopo le
esplosioni dei primi anni ‘70 con la par-
tecipazione alle Biennali di Venezia e la
mostra al MoMA di New York “ The new
Italian Landscape” del 1972, era tornata
nell’oblio. Non così fuori dall’Italia dove
le opere, i disegni e gli scritti dei gruppi
del movimento radicale hanno trovato lar-
ga eco e ospitalità in musei e centri studi
sull’architettura. A Firenze solo nel 2008,
grazie alla collaborazione con l’Assessora-
1327 NOVEMBRE 2017
to all’Urbanistica, si svolge la prima mostra
sugli Archizoom nei sotterranei dell’Isti-
tuto degli Innocenti. Una mostra in gran
parte costruita all’estero, ed in particolare
dal EPFL (Ecole Polytechnique Federale
Lausanne), in collaborazione con l’Uni-
versità di Parma, in cui, per la prima volta,
furono esposti tutti i più importanti dise-
gni di quella No-Stop City che è diventata
uno dei capisaldi del dibattito architettoni-
co contemporaneo.
Oggi con questa mostra nei locali della
Strozzina aperta fino al 21 gennaio 2018
(ancora una volta in un sotterraneo di un
palazzo storico di Firenze) si completa un
ciclo di iniziative ( il Maxxi ha dedicato
una grande mostra nel 2016 al Superstu-
dio) che riportano all’attenzione nazionale
il lavoro di architetti che hanno contributo
a cambiare il modo di pensare e di fare ar-
chitettura e hanno anche rinnovato il desi-
gn italiano. Dalle opere esposte nella mo-
stra si può comprendere bene come dalle
suggestioni di quel periodo siano poi nate
opere di architettura contemporanea rea-
lizzate o progettate. Come Brunelleschi in-
venta la ritmica perfetta del loggiato degli
Innocenti avendo bene in mente gli archi a
tutto tondo disegnati nel paramento ester-
no del Battistero o nella facciata di San Mi-
niato a Monte, allo stesso modo come non
riconoscere nelle nuove porte del Museo
degli Innocenti progettate da Carlo Ter-
polilli reminescenze della discoteca Mach
2 del Superstudio? E come non mettere in
relazione la progettata ( e mai realizzata)
nuova stazione dell’Alta Velocità di Zevi/
Breschi (il cosidetto squalo) con il fotomon-
taggio Urban Belvedere degli Archizoom?
E infine come non vedere nelle strutture
di edilizia residenziale pubblica costruite
a Pistoia le idee espresse dagli Zziggurat
nella città lineare per Santa Croce. Idee e
suggestione determinate anche dalla asso-
luta variabilità della scala del disegno dove
il micro e il macro si intersecano e si con-
taminano.
Una mostra che segna un punto di non
ritorno nella costruzione della narrazione
storica su quello che non si può chiamare
“movimento radicale italiano/fiorentino”.
Perchè come dice Lapo Binazzi “quello
che, all’interno della mostra, meglio riesce
a rappresentare questo periodo è il video
nella prima sala dove le opere di tutti noi
sono cosi mischiate e interconnesse che
quasi non si distinguono le une dalle altre
e così nessuno di noi potrà mai dire che la
sua è migliore delle altre”.
1427 NOVEMBRE 2017
Quella stagione della fotografia che attraversa
tutta la seconda metà dell’Ottocento ed i primi
del Novecento, definita come “pictorialism”, e
liquidata forse troppo in fretta come il dispe-
rato tentativo di elevare la fotografia e di farla
accettare come forma d’arte, semplicemente
imitando i generi artistici come il disegno e la
pittura, coinvolge tardivamente anche l’Italia.
Il “pittorialismo” italiano conta numerosi espo-
nenti di primo piano, come Luigi Cavadini,
Ludovico Pachò, Cesare Schiaparelli, Emilio
Sommariva ed altri, fino a Domenico Riccardo
Peretti-Griva, e trova la sua consacrazione nel-
la rivista “La fotografia artistica”, pubblicata a
Torino da Annibale Cominetti fra il 1904 ed
il 1917. Fra i “pittorialisti” italiani un posto di
rilievo viene occupato dal torinese Guido Rey
(1861-1935), un personaggio eclettico che ha
lasciato il segno del suo impegno come fotografo
dilettante di grande successo e notorietà. Erede
di una agiata famiglia di commercianti, impa-
rentato con il ministro Quintino Sella, marito
di sua zia Clotilde e fondatore del Club Alpino
Italiano, Guido Rey comincia a seguire lo zio
nelle sue ascensioni, appassionandosi a questa
attività, nonostante la tragica morte di uno dei
suoi fratelli durante una scalata, fino ad abban-
donare l’attività familiare per dedicarsi alla
montagna, con una predilezione speciale per
il Cervino. E per la fotografia, affiliandosi alla
neonata Società Fotografica Subalpina. Diver-
samente dal suo contemporaneo Vittorio Sella
(1859-1943), altro nipote di Quintino, che si
dedica esclusivamente e con ottimi risultati alla
fotografia di montagna, Guido Rey sceglie un
genere fotografico del tutto opposto, riservando
alla montagna il suo estro di scalatore, lettera-
to e narratore. Il tipo di fotografia praticato da
Guido Rey consiste nella più classica fra le ap-
plicazione del “pittorialismo”, la ricostruzione
e la riproduzione di scene in costume ispirate
alla pittura tradizionale ed alle ambientazioni
storiche. Ricostruite in maniera accurata e con
grande attenzione ai dettagli, in interni oppure
all’aperto, le scene fotografate da Guido Rey
non rappresentano in maniera ampollosa ed
esaltata i momenti particolari o determinanti
della storia, ma raccontano in maniera discre-
ta scenette, più o meno attendibili, della vita
quotidiana relativa all’epoca prescelta. Con le
sue opere Guido Rey si distingue in quelli che
all’epoca erano i grandi appuntamenti dei foto-
grafi italiani, l’Esposizione Mondiale di Mila-
no del 1894, la Prima Esposizione Nazionale
di Torino del 1898, la Seconda di Firenze del
1899, fino all’Esposizione Internazionale delle
Arti Decorative di Torino del 1902, all’interno
della quale viene allestito il padiglione dell’E-
Guido Rey, alpinista e pittorialista
di Danilo Cecchi
sposizione Internazionale di Fotografia Arti-
stica. I riconoscimenti che raccoglie in queste
manifestazioni lo pongono in una dimensione
sovranazionale, tanto che Guido Rey risulta
l’unico fotografo italiano presente in ambedue
gli Annuari “L’Epreuve Photographique” del
1904 e del 1905. Se le sue scenette in costu-
me secentesco ispirate alla pittura olandese e
quelle in costume settecentesco, realizzate con
grande attenzione alla illuminazione morbida
ed alla resa tonale, possono far sorridere e pos-
sono essere facilmente accusate di disimpegno
nei confronti della realtà sociale e di strizzare
l’occhio al cattivo gusto imperante, bisogna
riconoscere che all’interno della produzione
dell’epoca rappresentano forse il massimo ri-
sultato raggiungibile. Facendo un passo ancora
più indietro nel tempo, Guido Rey si diletta di
realizzare scene di ambiente greco o romano,
ambientando ed abbigliando i suoi modelli e le
sue modelle ispirandosi agli affreschi, ai mosai-
ci ed alla statuaria dell’epoca. Rimanendo sem-
pre in una dimensione leggermente poetica ed
irreale, senza scivolare nella descrizione diretta
ed esplicita delle nudità, come i suoi contem-
poranei Von Gloeden e Von Pluschow, che del
mondo greco e romano apprezzavano tutt’altri
valori estetici
1527 NOVEMBRE 2017
a cura di Aldo FrangioniPer il progetto Out of the box. Arte - impresa
– territorio è stata presentata a Villa Pacchia-
ni a Santa Croce sull’Arno “Stille”, una mo-
stra di Ornaghi & Prestinari a cura di Ilaria
Mariotti. L’esposizione nasce da un percorso
di relazione tra gli artisti e il Consorzio Depu-
ratore di Santa Croce sull’Arno, nell’ambito
di un progetto più ampio, iniziato nel 2013,
fortemente sostenuto dal Comune di Santa
Croce sull’Arno e da Galleria Continua e
Associazione Arte Continua. Per la quarta
volta il progetto è stato premiato dal Bando
regionale Toscanaincontemporanea.
Tra i più interessanti rappresentanti della gio-
vane generazione di artisti italiani, Valentina
Ornaghi (1986) e Claudio Prestinari (1984).
La mostra presenta un gruppo di opere inedi-
te realizzate appositamente per il progetto e
in relazione al percorso di incontro e scambio
con il Consorzio Depuratore. Il tema dell’ac-
qua, della sua depurazione e re-immissione in
un circolo vitale, la sostenibilità delle azioni
nel mondo contemporaneo, l’idea di trasfor-
mazione, la vita degli oggetti e dei materiali,
l’identità dei nostri territori e la riflessione sui
processi di trasformazione in atto e ultimo ma
non meno importante, l’incontro con tecnolo-
gie avanzate di depurazione sono le tematiche
sulle quali Ornaghi & Prestinari riflettono in
“Stille” riflette su concetti associati all’idea
di economia circolare in relazione all’ecolo-
gia, sul processo circolare come l’utopia della
macchina a moto perpetuo. Dall’acqua e dal-
la sua bonifica vengono estratti materiali che
assumono la conformazione di polveri e grani
scuri. Il trattamento delle acque reflue si con-
figura, per gli artisti, come un costante movi-
mento di raffinazione all’interno di condotti e
acquai circolari. Un sistema che tiene conto
sia del benessere economico del territorio che
di quello fisico dei cittadini e dell’ambiente.
“Le opere realizzate per la mostra a Villa Pac-
chiani sono da intendere come un insieme di
suggestioni legate a movimento, circolarità,
aspetti estetici e caratteristiche fisiche, ma-
teriali incontrati durante il percorso”, chiosa
Ilaria Mariotti. Sculture che si configurano
come vasi e bacini: è il caso di Paolina, dove
la celebre opera di Antonio Canova (Paolina
Bonaparte come Venere vincitrice), viene rie-
laborata e realizzata in ceramica per diventa-
re una vasca per piante acquatiche. Materiali
fragili e domestici, come la ceramica vengono
messi a colloquio con il metallo (ferro, accia-
io), propri di una produzione industriale ma
egualmente figli di processi di lavorazione
dove il fuoco, la terra sono indispensabili. A
questi materiali si associano i “prodotti” del
L’arte e l’economiacircolare di Ornaghi & Prestinariciclo di lavorazione del Depuratore e degli al-
tri impianti industriali ad esso collegati e che
chiudono il ciclo di bonifica e inertizzazione
dei fanghi e dei materiali di risulta che vengo-
no poi reintrodotti nel sistema come materiali
per l’edilizia o si rinnovano nel circuito del
trattamento del pellame: l’acqua bonificata
utilizzata per la realizzazione degli acquerelli
che riproducono schemi di comportamen-
to dell’acqua quando incontra un ostacolo
e flussi. Oppure gli inerti che, scarti di un
processo di lavorazione, acquisiscono nuova
vita e si riconfigurano esteticamente nelle
sculture che incrociano motivi geometrici a
motivi floreali. Il movimento circolare e con-
tinuo, l’operosità delle macchine e degli uo-
mini sembra risuonare anche in quel “mocio”
fatto di ritagli di pelle appoggiato alla parete,
accanto al secchio, così come, utopicamente,
un’altra scultura fatta di tubi presente in mo-
stra, garantisce il ricircolo continuo del getto
d’acqua.
1627 NOVEMBRE 2017
Film importante, opera monumentale che
affronta il tema del disagio della contempo-
raneità in una chiave che oseremmo defini-
re “sinfonica”.
Si comincia con una dichiarazione di in-
tenti: il direttore del museo (protagonista
assoluto di questa Odissea) pone un quesito
alla sua intervistatrice: “la sua borsetta, se
la esponessimo al museo, sarebbe conside-
rata opera d’arte?”. Con ciò Christian met-
te in chiaro la sua visione estetica dell’arte
“come insieme di pratiche d’uso”, rievocan-
do il famoso “giochetto” dello scolabottiglie
di Duchamp.
Si prosegue col maldestro tentativo di rimo-
zione di una statua equestre che finisce con
lo spezzarsi in più parti.
Eccola l’arte contemporanea che non par-
la più ai cuori pulsanti delle vite, che vive
nel paradosso settario degli specialisti, nella
desolazione degli spazi vuoti in cui lo sven-
turato visitatore non può neanche fare una
fotografia, e che muore nelle prigioni delle
conferenze autocelebrative, ove i colpi di
tosse, i cellulari che squillano, e le urla dei
pazienti affetti dalla sindrome di Tourette,
rappresentano l’unico genuino segno di
“verità espressiva”.
Eccola l’arte per collezionisti, secondo la
devastante critica alla critica, vera e propria
cancrena del nostro tempo, sostituto imba-
razzante di ogni fenomenologia d’artista.
Il tema dell’arte contemporanea è in realtà
la rampa di lancio dei missili che Östlund
sgancia per colpire l’opulenza delle élite di
potere, e il regista opera proprio a partire
dalla scissione in cui versa la contempora-
neità dell’arte per estendere tale nevrosi
alle storture della nostra società occidenta-
le, sempre più in mano alle élite sterili, alle
paradossali (in)competenze.
In questo senso è emblematico l’epilogo
della scena di sesso tra Richard e la sua in-
tervistatrice, in cui Il preservativo, il serba-
toio della deiezione, del contenuto occulto,
del rimosso, diventa tragicomico e grottesco
oggetto del contendere, trofeo occulto bra-
mato della Donna-Pattumiera (Anne tiene
in grembo il cestino), portato osceno della
plastificazione, dell’eros industriale. Que-
sto è un vero e proprio atto di interiorizza-
zione dell’economia libidica.
“The Square” è un film denso di simbolo-
gie, di infiniti rimandi, in cui echeggiano i
fantasmi di Bunuel, Sokurov, Kubrik, Vin-
terberg, è la mostra-manifesto di un’epoca:
tutto ciò che sta al di fuori di “The Squa-
gli, le bambine non vogliono più dipingere,
mentre le scimmie di casa sembrano avere
una vera passione per il disegno.
Oleg, la scimmia brutale, l’attore che irrom-
pe nel Reale prekantiano della cena di gala,
è follia privata di ogni umanità; dunque
occorre che egli stupri affinché possa scate-
narsi il delirio dell’Orda borghese, il sacrifi-
cio del Capro Espiatorio.
Così Richard, in questo suo viaggio iniziati-
co, è costretto a ricercare la via del perdono
nella spazzatura, a sperimentare nella con-
ferenza riparatoria con la stampa l’impossi-
bilità di una dialettica tra diritto alla libertà
di espressione e senso del limite, della cen-
sura.
Al museo, il sottofondo costante di rumori
di scavi, il rombo sonoro, in casa, i lamenti
del bambino che pretende delle sacrosante
scuse, sono segni dell’Osceno Vibrante, “la-
mella” di Lacan, organo parziale di Freud,
insistenza cieca e indistruttibile della “pul-
sione di morte”, dell’arcano organo privo di
corpo, della “Cosa”. Il mondo irrazionale
pressa e preme tutto intorno alla cornice
di “The Square”, fagocita i valori e le icone
del nostro mondo rigido, la Natura pressa
da ogni dove ed ha il volto dell’Altro.
Il gesto di Richard-padre, la volontà di chie-
dere perdono non può essere relegato alla
comodità di un video inviato dal telefoni-
no. Occorre agire, tentare, adoprarsi, e non
importa se poi alla fine ogni cosa sarà vana;
sarà laforza della generosità e della capaci-
tà di chiedere perdono la maiuetica per le
future generazioni. Lo sguardo delle bam-
bine nel sedile posteriore dell’auto rivela
l’infinito, incommensurabile patrimonio
dell’essere, la perla più preziosa che sfugge
ad ogni mercificazione, il senso distaccato
del futuro.
di Francesco Cusa
The squarere”, ovvero al quadrato di fiducia e amore
entro il quale tutto abbiamo gli stessi diritti
e doveri, è territorio dell’Altro, del barbaro,
dell’irrazionale.
In questo senso, forse, “The Square” è
Schengen, è la cinta muraria e virtuale di
valori ed egemonie condivise.
Ma per fortuna, i mucchi di ghiaia dell’ope-
ra dell’artista concettuale, vengono distrat-
tamente rimossi da un inserviente, e qui è lo
stesso Richard (evidentemente sulla strada
di una progressiva “redenzione”) a porre ri-
medio con un espediente (come non ripen-
sare allo straordinario Sordi di “Le Vacanze
Intelligenti”?).
Dunque è nei “tic” che Ostlund individua
un percorso di catarsi, in tutto ciò che “The
Square” non comprende e ingloba.
Il discorso attorno al sesso e all’eccitazione
del potere, il video della bambina mendi-
cante che esplode e la conseguente viralità,
il segno che il Media è in mano ai pubbli-
citari, alle marchette del marketing dei
cosiddetti “creativi”, sono peculiarità da
esorcizzare tramite gesti piccoli e grandi di
“volontà di potenza”, in un mondo dove i fi-
1727 NOVEMBRE 2017
Mi è stato regalato questo curioso disco dipinto,
l’artista si chiama Gordon Faggetter ed è stato,
nel periodo d’oro del Piper, batterista di Patty
Pravo, quindi stupisce la classicità dello stile là
dove ci si aspetterebbe qualcosa di psichedeli-
co.
Penso si tratti, come per i militari, che appesa
la sciabola al chiodo, si dedicano alle rose del
giardino, di un desiderio di pace sopraggiunto
col tempo.
Gordon, nella sua carriera precedente, quella
di musicista, quindi sempre un artista, rappre-
sentava un modo di vivere assolutamente e in-
vidiabilmente libero, siamo alla fine degli anni
‘60.
Io in quegli anni frequentavo la Versilia ed al
Piper di Viareggio prima e poi alla Bussola e da
Oliviero Patty era di casa e faceva le sue serate
entusiasmanti con l’aria di una principessa più
francese che italiana, bella come Brigitte Bar-
dot e tutti noi ragazzini eravamo innamorati di
lei e della sua voce.
Mi ricordo da Oliviero, locale che non esiste
più da tempo, un’estate, per tutta l’estate era lì
tutte le sere, per la stagione immagino si dica, e
mi era presa la fissa e tutte le sere sono andato
a sentirla, c’era anche Gordon Faggetter che
in quel periodo oltre che batterista era anche
suo marito; alcune sere in mezzo alla settimana
c’era pochissima gente e lei mi aveva notato e
mi sorrideva e qualche volta si sedeva con me
e rimaneva esterrefatta che bevessi frullati di
pesca.
Aveva una infinità di bracciali d’argento che le
lasciavano degli anelli neri sulla pelle, cosa che
mi sembrava straordinaria.
Non divaghiamo. Quando ricevetti quel disco
era ospite in una casa vicino Firenze, in campa-
gna e teneva una lezione di pittura, per scherzo,
ad una altra invitata, disponeva di una tavolozza
ricchissima e di una quantità infinita di tubetti
e bottigline, aveva una tecnica antica, usava le
velature e stava per l’appunto dipingendo un
cielo, all’inglese come quello del vinile. Aveva
regalato una pila di dischi al nostro ospite, che
visto il mio interesse, mi disse di sceglierne uno
che è poi quello dell’immagine.
Una pittura atmosferica e di paesaggio che so-
pra ho definito inglese, ma ripensandoci ricor-
da quella francese di Claude Lorrain e Nicolas
Poussin, naturalmente senza esagerare.
Rimane il fatto che l’accostamento di una pit-
tura di paesaggio e di un disco a 33 giri è “bello
come l’incontro fortuito su di un tavolo anato-
mico di una macchina da cucire con un ombrel-
lo”, come ebbe a dire per altre questioni Isadore
Lucien Ducasse, in odore di surrealismo.
di Claudio Cosma Paesaggio rotante
Gordon FaggetterPatty Pravo Nicolas Poussin
1827 NOVEMBRE 2017
ne, la dignità di chi esegue un compito come
può, la tenerezza di chi cerca di proteggere chi
ama, la normalità che assume forme di soprav-
vivenza e l’eccezionalità del disagio che rivela
tratti di bellezza disarmante.
C’è il bisogno di essere onesti per raccontare
delle storie. Ed è un bisogno benedetto, per-
ché quelle storie, all’uscita dalla mostra, si por-
tano a casa e non si è più come prima. Penso
che questa sia la grandezza del World Press
Photo: strappare alla realtà dei momenti di
vita più veri di molte delle percezioni distratte
quotidiane, che ci insegnino a riconoscere la
verità e a sentirla più forte.
Questa domanda, che cattura l’attenzione di
chiunque nel tempo di Instagram e del selfie
selvaggio, è stata al centro del dibattito che ha
portato gli organizzatori del più importante
premio internazionale di fotogiornalismo, il
World Press Photo, alla stesura di un nuovo
codice etico di partecipazione al concorso.
Il World Press Photo ogni anno porta le fo-
tografie vincitrici dalla sede di Amsterdam
in mostra in 40 paesi, all’attenzione di oltre
un milione di visitatori. Negli ultimi anni la
giuria si è interrogata sull’etica delle immagi-
ni proposte e sulle linee guida necessarie per
una riproduzione autentica della realtà. Una
fotografia necessariamente ne mostra solo una
visione parziale, che può essere modificata con
aggiunte, tagli o enfatizzazioni, se non in alcu-
ni casi addirittura riprodotta per uno scatto ad
effetto. E’ il caso del reportage vincitore dell’e-
dizione del 2015, per il quale il fotografo Gio-
vanni Troilo, con l’obiettivo di mostrare il lato
oscuro della cittadina di Charleroi in Belgio,
ha ricreato delle scene da fotografare, una cop-
pia di amanti in macchina, dei giochi erotici di
gruppo, una donna nuda in gabbia. Pena l’ira
del sindaco ed il ritiro del premio. Il codice eti-
co stilato nel 2016 dalla giuria del concorso è
ora chiaro: le foto non possono essere modifi-
cate e la realtà non può essere messa in posa.
Eppure, guardando le foto straordinarie dell’e-
dizione 2017, ospitate in questi giorni a Lucca,
sembra incredibile che i fotografi siano riusciti
a cogliere degli attimi tanto significativi in si-
tuazioni estreme di conflitto o nei passaggi più
determinanti della storia dell’ultimo anno: dai
cortei per la morte di Fidel Castro, all’assas-
sinio dell’ambasciatore russo in una galleria
d’arte ad Ankara per mano di un poliziotto
turco fuori servizio; dagli istanti di tensione
dei campioni olimpici durante le gare a me-
ravigliosi capolavori naturali; dagli esodi per
mare dei profughi siriani alle immagini stra-
zianti dell’assedio iracheno di Mosul, baluar-
do dell’Isis.
E’ difficile immaginare la presenza del foto-
grafo davanti a ciò a cui si assiste. Viene da
chiedersi come si possa restare lucidi di fronte
all’orrore e all’emozione, se a rendere possibile
la straordinarietà di questi scatti è l’ambizione
estrema per il risultato, la necessità della testi-
monianza o l’adrenalina per il prender parte a
momenti di vita pulsante.
Certo è che in queste foto di vita ce n’è tantissi-
ma. C’è la miseria della realtà, ci sono le atroci-
tà della guerra e ci sono i racconti dei civili che
vivono e muoiono per decisioni prese altrove.
C’è la gioia del gioco, la forza della condivisio-
di Elisa Zuri
La realtàmessa in posa resta reale?
1927 NOVEMBRE 2017
Negli anni venti del ‘500 com’era la Chie-
sa di S.Felicita? Quale era la sua gestione
religioso-amministrativa? Quale il contesto
in cui Pontormo dipinse per il suo com-
mittente, il Conte Capponi, la decorazio-
ne della sua Cappella familiare? Delle tre
personalità citate nel titolo, quella che per
prima orientò la conduzione dei lavori del
pittore in S.Felicita fu la Madre Badessa il
cui ruolo decisionale era assoluto: “Era tale
dignità a vita fino dalla primitiva sua isti-
tuzione” [Ms.728 p.105]. Dall’anno 1124
“Era di pertinenza della Badessa la Parroc-
chia, e Cura delle Anime” sia di S.Felicita
che della “Chiesa manuale” di S. M. Mad-
dalena, l’elezione dei Sacerdoti e Cappel-
lani, nonché la loro istituzione e conferma
[p.106]. Inoltre tutti “gli atti riguardanti la
giurisdizione parrocchiale venivano eseguiti
in nome della Badessa” [p.108]. Dal 1480
competeva a lei l’elezione del “Priore e Go-
vernatore del Monastero […] come pure la
conferma ed istituzione dei Sacerdoti no-
minati dai rispettivi Patroni delle Cappelle
[il Conte Capponi, in questo caso]” [p.111].
Fino al 1573 spettò a lei anche la vestizione
delle nobili fanciulle che, in seguito, passerà
al Priore. Aveva pure “la cura degli Oblati”
dei quali gestiva le donazioni ricevute. Fra i
suoi doveri “fu l’amministrazione e conser-
vazione dei Beni del Monastero” [p.113],
ma non risulta che rendesse conto della pro-
pria amministrazione [p.115]. La Chiesa le
apparteneva tanto quanto il Monastero. Dal
suo volere dipendevano i lavori sia architet-
tonici che artistici: era in suo potere accet-
tare o respingere un’opera d’arte.
Ci chiediamo, a questo punto, se la
sua onnipotenza si estendesse all’i-
conografia, come era avvenuto in
S.Marco tra S.Antonino e l’Angeli-
co. La Badessa era la sola religiosa
autorizzata a lasciare la clausura
per entrare in contatto con uomi-
ni: il Padre confessore, il Predica-
tore, i Granduchi, i nobili Patroni,
il cerusico, la manovalanza della
Monastero (fattori e lavoratori in
genere) e della Chiesa (artisti, ope-
rai, sacristi, ostiari). Pontormo ebbe
a che fare con due Madri Badesse:
Suor Costanza di Piero Gualterotti,
eletta il 22 giugno 1521 e morta il
20 gennaio del 1527, e Suor Maria
di Antonio De’ Gondi che morì nel
1539 [pp.137-138]. Non citiamo
i nomi dei Priori perché dipende-
vano interamente dalla Badessa. Lo stesso
avveniva per il Conte Capponi il quale,
nonostante la sua funzione di Patrono della
propria Cappella e di committente, dipen-
deva anch’egli dalla potentissima Madre che
concedeva oppure negava le autorizzazioni.
Nelle Carte Gondi (Fondo Mannelli-Ga-
lilei-Riccardi nell’ASF, e nel Fondo della
Penns University - USA) sono ancora tutti
da indagare i documenti su Suor Maria, la
quale sembra fosse donna colta e studiosa
delle Sacre Scritture. Se prendiamo l’esem-
pio di variazione iconografica della “nube”
dipinta da Pontormo in alto a sinistra della
“Pietà di S.Felicita” - al posto della proget-
tata scala per deporre Cristo dalla Croce -
per quanto detto finora l’artista dové con-
cordare questo ripensamento con la Madre
Badessa [cfr. “Cultura Commestibile” 223 e
224]. Nel Nuovo Testamento (pericope di
Matteo 17, 5) la “nube” è presenza di Dio
Padre: “una nuvola luminosa li avvolse con
la sua ombra. Ed ecco una voce che diceva:
Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale
mi sono compiaciuto. Ascoltatelo”. Nel Van-
gelo di Luca (1,35) l’“ombra” di Dio fa dire
all’Arcangelo Gabriele rivolto a Maria: “Lo
Spirito Santo scenderà su di te, su te sten-
derà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”.
Nel Vecchio Testamento la nube raffigura la
Dimora di Dio (la Shekinah) in seno al suo
popolo. Tornando al Pittore, al Conte e alla
Badessa, il contratto stipulato, mai reperi-
to, dovette sicuramente in origine trovarsi
nell’Archivio del Monastero, custodito in
una cassa murata del quartiere della Madre
Superiora, dove si conservavano tutte le car-
te. Il contesto in cui lavorò l’artista fu una
S.Felicita molto diversa dall’attuale: la sem-
plice facciata a capanna (come appare nella
Pianta del Buonsignori, 1584), preceduta da
un piccolo cimitero, immetteva in un’aula
assai più stretta di quella odierna, ma egual-
mente profonda; la scansione degli altari
laterali era irregolare, si affollavano altarini
ed immagini sacre anche sui pilastri; sparse
emergenze gotiche e rinascimentali si alter-
navano a monumenti funerari ingombranti
come quello dei Gabbrielli che in alto, nella
misura di tre braccia, adombrava la Cappel-
la Capponi; ovunque e accanto all’altare
di famiglia erano murati stemmi nobiliari
ed epigrafi; intere campiture ad affresco (v.
la Cappella Nerli accanto alla Capponi);
nel fianco sud della Chiesa cinque cappel-
le erano scandite da colonne binate (v. Ms.
720), fronteggiate da sei cappelle sul lato
opposto ritmate dai pilastroni gotici pog-
giati alla parete; in controfacciata - sopra
le Cappelle Capponi e Canigiani - stava il
‘Coro di fondo’ delle Monache; nel transetto
destro il Coro gotico o “Coro antico” dove,
non viste, le Corali cantavano dietro grate
“di legno, schife brutte [ch]e minacciavano
ruina” [Ms.720, c.176v.]. Gli alti e
stretti finestroni gotici del presbite-
rio (ancor oggi visibili dall’“Orto di
dietro”), e quelli della parete della
Chiesa a settentrione, non offriva-
no luce bastante; lumini, candele
e lampane oscillavano nella pe-
nombra. Dai chiusini marmorei
del pavimento filtravano odori di
morte, miasmi che cesseranno solo
con l’abolizione lorenese delle se-
polture in Chiesa. Qui, come per
un impossibile miracolo, Pontor-
mo, creò ai lati della nuova finestra
l’Annunciazione, opera luminosa e
travolgente di sacra poesia, dove lo
Spirito Santo prende corpo come
‘Vento di Dio’ (la Ruah) tra le ve-
sti rigonfie di luce dell’Arcangelo
e l’“Ombra” leggera disegnata dal
corpo della Vergine.
di M. Cristina François La badessa, il conte, il pittore
2027 NOVEMBRE 2017
Beatnik Museum “The Russian may have their Sputnik, but we
have our beatniks here in North Beach”.
Herb Caen, il giornalista del San Francisco
Chronicle, dopo avere parlato con Bob Kauf-
mann che aveva appena finito di recitare le sue
poesie beat, accompagnandosi al suono del bon-
go, su Adler alley, proprio accanto a Citylight
Bookstore.”
Questo è quanto si afferma, per spiegare l’ori-
gine della parola, su un’ insegna all’entrata del
Beatnik Museum, uno strano connubio tra ne-
gozio, libreria e street museum, aperto alcuni
anni fa lungo Broadway, a North Beach.
Ero entrato con circospezione vedendo tutte
quelle T-shirt appese sul muro o i gadgets sul
bancone. Mi son detto: entro ed esco, dopo
un minuto, certamente con l’amaro in bocca.
Sono entrato. Dopo essermi aggirato tra foto e
locandine storiche, copie di manoscritti, cimeli
e memorie, mi son messo a guardare un film su
Kerouac. Nel video Allen Ginsberg recitava
i “Vagabondi del Dharma” (Dharma Bums).
Sono stato li’, come ipnotizzato, forse un’ora,
forse due, forse dieci ore, ascoltando quella
voce sublime leggere uno dei testi più poetici
mai scritti.
Citylights Bookshop &Publishers1. Mi avvicino al tempio (della letteratura): City
Lights Booksellers &Publishers. Sono ancora
oltre la strada. Il tempio è là, una casa orizzonta-
le, con una lunga vetrina nera e gialla, in disce-
sa su Columbus Avenue . Occorre attraversare
questo incrocio plurimo stando molto attenti :
“NO U-turn”, “freeway”, “Broadway”, “Stop”,
luci verdi, gialle, rosse. Mi trovo proprio sul cri-
nale di una collinetta, un sottile spartiacque tra
North Beach e Chinatown. E’ verde, passo.
Entro o guardo prima la vetrina? Penso: sarà
ancora lì, al piano di sopra, nel suo ufficio, Fer-
linghetti? I libri oltre il vetro dicono di Zen,
Ginsberg, Samuel Johnson, Jack Hirshman,
Zapata, Duke Ellington. Cento copertine di-
sposte su un piano di legno verticale creano un
vetrina-scudo, un vero muro di difesa contro la
volgarità che assedia dal di fuori.
2. Ho varcato la sacra soglia. La prima cosa che
ho notato, l’ho sentita. Una musichetta dolce,
un jazz che da’ sul blues. Mi sono subito seduto
su una sedia solitaria proprio in mezzo agli scaf-
fali, sostituiti con altri più nuovi, da quando ci
venivo nei lontani anni 80. Appeso alla parete
c’è il segnale con il nome in italiano di una stra-
da: “via (sic) Ferlinghetti”. Non so se c’è la stra-
da ma il cartello è lì già pronto. Proprio accanto
a Citylight c’è “Kerouac alley”, questo davvero.
Che fare? Guardare i libri o solo passeggiare
per le stanze e respirare l’ aria di queste carte
umane? Respirare.
Salgo al piano di sopra. Un cartello con una
freccia indica “Poetry-Beat generation”. Un al-
tro dice: “San Francisco Left Coast”; un altro
ancora “ Books not bombs”. Mi siedo e penso.
Se i libri fossero mattoni si potrebbe creare
un’architettura di bellezza, di libertà, idee, po-
esia. Ma i libri sono mattoni! Che ognuno usa
per costruire la propria identità, per erigere le
stanze della propria esistenza, per creare ponti,
porte, finestre. Certo non tutti i mattoni sono
buoni o resistenti, ma questa è un’altra storia.
Salgo nell’eremo. Mi sono seduto sulla “pol-
trona del poeta”, così recita il cartello lì vicino.
E’ una sedia a dondolo, proprio accanto a una
finestra (ma dove è Ferlinghetti?). Sulla sini-
stra ci sono gli scaffali con i libri; qui accanto,
alla mia destra, la finestra. Oltre i vetri, su un
muro di mattoni, vedo una scala antincendio
arrugginita, poi la skyline del downtown di San
Francisco a non più di mezzo miglio. Arrivano
i rumori della strada: sibili dell’autobus, voci
cinesi. Mi dondolo sulla “sedia del poeta”. Se
venisse Ferlinghetti, che farei? Un saluto? Una
domanda? O me ne starei lì, in silenzio, a legge-
re qualcosa? E’ un bel posto questa “sedia del
poeta”, con accanto la finestra, le voci della stra-
da, i libri qui vicino.
3. Lo scrittore Ferlinghetti ha creato Citylights,
il santuario della letteratura. L’architetto Wil-
liam Stout ha creato un santuario analogo: una
libreria dedicata all’architettura. I due luoghi
sono vicini, pochi isolati uno dall’altro. Sono
vicine le menti, le aspirazioni dei due artisti-li-
brai. Sono vicine le espressioni, le immagini, i
ritmi nascosti dentro i rispettivi libri delle due
librerie.
Come in uno specchio l’ architettura e la let-
teratura si guardano a vicenda riconoscendosi
per quanto differiscono e per quanto sono ana-
loghe. Sanno che per ambedue è importante
l’emozione, la struttura, la memoria del passato,
il coraggio del presente, la visione. Sanno che
ognuna cerca qualcosa che appartiene princi-
palmente all’altra: l’architettura del racconto, il
racconto dell’architettura.
4. Seduto sulla “sedia (a dondolo) del poeta” a
ogni oscillazione il corpo si ricarica di poesia,
come un piccolo orologio, un pupazzetto a mol-
la, le boccate d’ossigeno per un sommozzatore.
Una città può darci un’emozione, ispirare un
senso di poesia. Ma anche una semplice se-
dia sembra poterlo fare. Provare per credere.
Venite a San Francisco, entrate a Citylights
Bookstore, salite al piano sopra, sedetevi sulla
“sedia del poeta”. Cosa sentite? Cosa vi viene
indispensabile di dire? Cosa non dire? Provate,
basta solo dondolarsi, senza dir niente, senza
scrivere.
5. Mi sono riproposto di descrivere la città usan-
do solo le parole. Niente disegni o fotografie.
Ma cosa è la città? Sono i suoi spazi, infimi e
infiniti, unici e ripetuti mille volte. E’ il suo tem-
po, quello che dura un secondo e quello di cui
non si può dire la fine. E’ la sua memoria e la
memoria di chi la vive. Il passato e il momento
presente. La città sono i suoi odori, suoni, ru-
mori, i suoi divieti, i suoi peccati, i doveri, le op-
portunità. Essendo tutto questo e ancora di più,
ho cercato di selezionare alcuni punti di vista
da cui focalizzare lo sguardo: i confini restano
vaghi, ma alcune parole possono aiutare a de-
finirli: materia, sensazioni, spazio, architettura,
percorsi, memoria, relazioni, immaginazione.
6. Quando Ferlinghetti morirà sarà la fine della
Beat Generation. Dalla “sedia del poeta” vedo
una fotografia con la faccia sfacciata di Corso,
un’altra con Kerouac e Neal Cassidy. Penso a
Allen Ginsberg, a Gary Snyder, a Bob Kauf-
mann. Quando Lawrence Ferlinghetti morirà
San Francisco sarà un’altra città; basterà solo
un secondo, il secondo dell’ultimo respiro.
di Andrea Ponsi Mappe di percezioneSan Francisco
2127 NOVEMBRE 2017
-“Confermo supremazia States” stop “ Loro
hanno 50 stelle e noi solo 5” stop “Almeno
20 stelle obbiettivo prossima legislatura” stop
“Anche Cina ha 5 stelle” stop “Preparare pro-
testa ufficiale da inviare ad ambasciatore cine-
se” stop” . Con questo sintetico telegramma il
nostro Giggino De Meio ha avvisato il direttivo
grillonzo che era arrivato a Washington, rapida
doccia, fredda, in topaia a 2 stelle, elargizione
del risparmio ottenuto ad agente CIA trave-
stito da clochard, rapida corsa verso la Casa
Bianca. Appena sceso dal taxi, meravigliato
dell’assenza di una adeguata accoglienza, il no-
stro Giggino si faceva quattro passi alla ricerca
del citofono e, non avendolo individuato, con
un inglese alla “totò”, chiedeva lumi ad un po-
lice man : - Noio search voulissimon luccare u’
tricck e tracck for hauses blak end white???- Il
marcantonio in divisa, preoccupato di avere a
che fare con uno squilibrato potenzialmente
pericoloso, dati i tempi, fa intervenire gli addet-
ti ai lavori che immediatamente trasferiscono a
forza il malcapitato Giggino allo Psychiatric
Hospital di Washington. Per fortuna un tem-
pestivo intervento del nostro ambasciatore
riesce a chiarire l’equivoco dopodiché il buon
De Meio, data la sua carica, viene ospitato di-
rettamente presso l’Ambasciata Italiana. Da
ottimo diplomatico e per non lasciar deluso un
probabile futuro Presidente del Consiglio, il
nostro ambasciatore, per organizzare uno strac-
cio di contatto formale, telefona a Mr.Conrad
Tribble, suo amico di antica data e procura
un appuntamento al nostro Giggino, non è il
massimo ma si dovrà accontentare.!! L’incon-
tro, durato più o meno una dozzina di minuti,
in gergo diplomatico è stato catalogato come
“franco e cordiale” il che vuol dire che il diplo-
matico americano non ha ben compreso con
chi avesse avuto l’onore di parlare. Con un po’
di delusione e tanto amaro in bocca, Giggino
de Meio si è portato ai giardinetti pubblici per
meglio meditare sull’accaduto. Mentre era as-
sorto fra i suoi pensieri, si è avvicinato un baldo
ragazzone di colore che, con un hamburger fra
le mani, ha così apostrofato il Giggino naziona-
le : - Ciao, te sei De Meio, ti ho riconosciuto,
tieni, ti offro questo hamburger , è molto buo-
no!! Sai io sei mesi fa sono sbarcato in Italia con
una di quelle navi che tu hai chiamato Taxi del
mare e che volevi fermare, adesso sono qui , la-
voro e mando soldi alla mia famiglia, salutami i
tuoi amici!! - . Averne di Alter Ego così!!!!!
In un arguto libriccino dal titolo ‘Contro l’Ur-
banistica’, l’antropologo della cultura Franco
La Cecla, così definisce la condizione attuale
della disciplina urbanistica, ‘C’è in questa ca-
duta di strumenti, in questa povertà intellet-
tuale, la fine di una disciplina che si è arroccata
dietro a un tecnicismo miope che non ha mai
voluto diventare una scienza umana.’ Pur non
aderendo al tono quasi liquidatorio di La Ce-
cla, è facilmente riscontrabile come oggi la sola
scienza dell’urbanistica, non sia più in grado di
promuovere pianificazioni generali, legate alle
spesso contraddittorie trasformazioni spaziali
delle città. Cosi come sembra mostrare tutta la
propria parzialità, quel processo introduttivo
di registrazione di idee e proposte, come evi-
denziato anche dall’ultima esperienza fiesola-
na, che spesso va trasformandosi in una sorta
di inadeguato quaderno di piccole e grandi
doglianze, che poco hanno a che fare con una
consapevole governance di copianificazione e
ambientalizzazione di istanze e interessi. Quin-
di in questo percorso di definizione del nuovo
Poc di Fiesole e della revisione del suo Piano
Strutturale, che ha visto la pubblicazione di
un bando per l’individuazione di specifiche fi-
gure professionali, l’illustre fantasma, il Godot
di turno, pare assumere proprio le sembianze
dell’attuale Amministrazione di Fiesole. Un
silenzio assordante, che manifesta l’assenza di
una puntuale comprensione e reinterpretazio-
ne creativa dell’attuale realtà storica della no-
stra Città, delegando questo lavoro di esegesi
critica e risemantizzazione degli spazi pubbli-
ci e privati, al solo momento burocratico della
prescrittività urbanistica e al rinnovo degli ade-
guamenti attuativi. Affiora così una voragine
progettuale rispetto ai molti temi irrisolti del
nostro territorio, penso all’area dell’ex ospedale
Sant’Antonino, alle previsioni non attuate e alla
riallocazione delle quantità di superficie previ-
ste, alla quasi forzosa conurbazione dei territori
limitrofi a Firenze, e dei relativi servizi da ri-
pensare alla luce di questo, pare, inarrestabile
processo, la cura del paesaggio che passa anche
dalla riattivazione delle molte convenzioni sti-
pulate con i privati, per la manutenzione delle
aree di loro pertinenza. Però quando si smarri-
sce la dimensione epistemologica dell’indagine
che si conduce, il rischio è quello di procedere
con una pianificazione separata, che tenga solo
conto delle possibili trasformazioni, più o meno
leggere, affidate alla contrattazione caso per
caso, venendo meno a quella coessenzialità che
permette di connettere le singole modificazioni
o conversioni, con il governo delle funzioni e
dei servizi nei singoli settori coinvolti. E que-
sta sfasatura concettuale sembra coinvolgere
anche il bando pubblicato per ‘la valorizza-
zione’ dell’Auditorium, peraltro quantomeno
un utile sondaggio per verificare il potenziale
interesse di soggetti privati, rischiando di tra-
sformarsi da strumento ricognitivo, in informe
contenuto per la gestione futura della struttura,
con un fraintendimento di fondo rispetto alle
politiche culturali da perseguire. Perché pur-
troppo anche questo passaggio, che evidenzia
anche notevoli storture nella compilazione
dello stesso bando, basti pensare alla durata
della possibile concessione o alla mancanza di
una cifra minima riferibile alla locazione, non
è stato calato all’interno di un’analisi più ampia
e approfondita su cosa oggi rappresenti Fiesole
nel panorama dell’offerta culturale regionale e
nazionale. Perché se il bando dovesse andare
deserto, oltre a riproporsi cogentemente il tema
della conclusione dei lavori, (come ricordava
anche nell’ultimo numero di Cultura Comme-
stibile l’ex Sindaco Pesci), potrebbero aprirsi
nuovi scenari gestionali, prevedendo assetti or-
ganizzativi alternativi, promuovendo per esem-
pio una gestione mista tra soggetti pubblici e
partner privati, ma per avviare una nuova fase
occorrono relazioni, strumenti amministrativi e
previsioni in grado di andare oltre l’immanente.
di Tommaso Rossi Fiesole aspetta Godot
di Sergio Favilli
Giggino in America
2227 NOVEMBRE 2017
Per Baudelaire, quando piove, si confondo-
no con il cielo. Hanno molte forme, bomba-
ti o spioventi, armature brillanti o semplici
coperti opachi, e infinite sfumature che
sono variazioni intorno a un solo colore: il
grigio. Da quello chiaro dello zinco a quello
più scuro dell’ardesia e al grigio verdastro
del rame della Madeleine e dell’Opera.
Disseminati dai tanti comignoli, lucernari
e piccole finestre, sono stati ispirazione per
poeti, pittori, fotografi e registi. Sono il 70%
dei tetti di Parigi, hanno la tonalità dello
stile di vita dei suoi abitanti: freddo, distac-
cato ma avvolgente. Durante la trasforma-
zione della capitale francese, Haussmann
scelse, per ricoprire i tetti dei nuovi edifici
che presero il suo nome, piastre di zinco,
materiale economico, facile da tagliare e
installare che dava un cromatismo nuovo
alla città. Il materiale leggero poteva inoltre
essere montato su una struttura meno spes-
sa di quella tradizionale, permettendo così
di recuperare un maggiore spazio interno
per creare, proprio sotto i tetti, le chambre
de bonne, le stanze della servitù, oggi ambi-
tissimi monolocali dalla vista mozzafiato e
dall’atmosfera unica. Nell’arte, Les toits de
Paris è un quadro di Paul Cézanne dipinto
nel 1881 nel suo atelier al quinto piano di
un immobile di Montparnasse, nel cinema,
Sous les toits de Paris è il titolo di un film di
Renè Clair del 1930 e sui tetti di Parigi la
Duchessa negli Aristogatti portava a spasso
i suoi cuccioli, nell’opera, Puccini ambienta
la Boheme sotto uno di questi tetti nei cieli
bigi guardo fumar dai mille comignoli... e
nella letteratura, Ferdinand Céline in Mor-
te a credito scrive...il bel merletto delle ar-
desie, tutti i riflessi che prende, i colori che
si confondono l’un l’altro... i fumacchi che
giravoltano sui grandi baratri d’ombra...
Ma, forse, l’omaggio più bello a questa lan-
guida caratteristica di Parigi è quello di Bal-
zac: Seduto accanto alla finestra a respirar
l’aria e lasciando scorrere lo sguardo su un
paesaggio di tetti bruni e grigiastri...da pri-
ma quella vista mi apparve monotona ma vi
scoprii ben presto bellezze singolari; talvol-
ta la sera strisce di luce sfuggenti a imposte
mal chiuse sfumavano e animavano le nere
profondità di quell’ originale paesaggio.
Talvolta i pallidi riflessi dei lampadari pro-
iettavano dal basso bagliori giallastri attra-
verso la nebbia, ripetendo debolmente nel-
le strade le ondulazioni dei tetti raccostati,
oceano di onde irrigidite.
Per proteggere la monumentale bellezza
di questo formicaio di forme in una distesa
di grigi disordinati che paiono così vicini a
quel cielo che ha il loro stesso colore, Parigi
ha chiesto nel 2014 all’UNESCO l’ammis-
sione al Patrimonio dell’Umanità.
Intanto sul web si trovano siti che danno in-
formazioni su scale e passaggi segreti attra-
verso i quali è possibile accedere a una pas-
seggiata sui tetti alla ricerca di scorci inediti
e angoli sconosciuti di Parigi vista dall’alto.
Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli
di Simonetta Zanuccoli
2327 NOVEMBRE 2017
E con gli oggetti di oggi Rossano vince l’Oscar
per la Bislaccheria! Grande cartellina cartona-
ta tutta rivestita, sulle copertine e nelle facce
interne, di brevi inserzioni pubblicitarie, at-
tribuirle una data non è facile, in una vignet-
ta che sembra invitarci “Al Fago unito. Caffè
squisito”, accanto al nome del disegnatore “To-
ris”, si legge 1933. Può essere direi. Leggere le
tante iscrizioni evidenzia come i vari negozi,
ristoranti ed attività, tutti assolutamente in Fi-
renze, siano per lo più scomparsi, resistono il
Teatro Verdi, la Buca San Giovanni, davanti
al Battistero, allora ristorante con Orchestra e
Dancing e “prezzi moderati”, oggi squallido
fast food con teglioni di pizze in mostra e l’Ar-
rotino di via della Vigna, unico che mantiene
una interessante esposizione di lame, coltelli
ed affini. Colpiscono però ancora di più il lin-
guaggio e il tipo di prestazioni che vi si propa-
gandano, ad esempio un Istituto di Radiologia
e Terapia Fisica elenca: Radioattività, Prodotti
e Acqua e Fanghi Radioattivi, Bagni di luce e
Acque Originali di Salsomaggiore per le ma-
lattie del Naso, della Gola e dei Bronchi.
Questi ultimi valida alternativa all’inflazio-
nato uso odierno di antibiotici che ne ha fiac-
cato l’efficacia e rinforzato batteri killer. Un
negozio, “primo premio per modelli igienici”,
offre “Busti-Reggiseni-Pancere. Apparire era
importante anche allora quindi, in assenza di
rassodanti infiltrazioni di silicone e chirurgi-
che asportazioni di antiestetici cuscinetti ed
adipe diffusa, ci si arrabattava a stringer vita e
pancia e tirar su le poppe. All’Istituto Del Pe-
rugia vendono e riparano “Strumenti musicali
ed accessori di ogni genere, Macchine Parlanti
ed Apparecchi Radio”. Il Signor Del Rigo, in
piena Piazza Santa Maria Novella, fabbrica
ghiacciaie...”Esclusione dello zinco che si os-
sida. Rivestimento interno in pietra artificiale
refrattaria lavabile”. In alto, nella copertina,
compare la pubblicità a “Il Brivido esteti-
co-sintetico-simpatico” .Trattasi di un famoso
giornaletto satirico fiorentino, fondato da Al-
berto Manetti nel 1925 e chiuso nel 1952. A
pag. 47 del Brivido del 19 nov. del 1939 esor-
dì, appena sedicenne, Benito Jacovitti, la sua
prima striscia aveva un lungo titolo in rima,
“in ogni stanza di ogni casamento/ la radio è
il gran discorso del momento”. La EIAR, RAI
dell’epoca, aveva indetto un concorso, premio
in quattrini sonanti, dedicato a chi era in rego-
la con l’abbonamento. In un palazzone spac-
cato, come una casa di bambola, si vedono gli
inquilini che discutono intorno a questo tema.
Jac, detto “lisca di pesce” per la stazza lunga e
sottile, divenne poi molto noto, chi non ricor-
di Cristina Pucci
Il Brivido
da i suoi fumetti strapieni di gente nasuta e i
salami che spuntano qua e là? o il DiarioVitt,
o CoccoBill, cowboy bevitore compulsivo di
Camomilla? Una romantica curiosità, dopo
appena sei ore dalla sua morte morì anche la
moglie, conosciuta alla scuola d’Arte di Firen-
ze 48 anni prima... Rossanino ha scovato due
rari Brividi, uno del ‘40 e uno del ‘43, alcu-
ne vignette non sono comprensibili, altre, in
quello del ‘43, alludono alla mancanza di cibo,
sapone o legna tipiche del tempo. Un fondo a
cura di tal Fiorenzino ci illumina sulla peren-
ne attitudine alla critica dei nostri concittadini
“ ci piace parecchio criticare e siccome nella
mia amata città c’è sempre qualcosa da dire
è parecchio difficile tener la lingua a posto...”
e giù a infamare il restauro del Battistero, “..
cornici di marmo nuovo verde ponsò ...”( in
realtà una tonalità di rosso) e “mestolate di ce-
mento a tappare i buchi”. Nella pagina dedi-
cata al “Giornale Tranviario Fiorentino” c’è il
delizioso racconto di una nevicata, il tram, per
permettere ai viaggiatori di goderne lo splen-
dore, si è bloccato! Nella vignetta annessa lo si
mostra munito di un bel paio di sci!!!!
Bizzarria deglioggetti
Dalla collezione di Rossano
2427 NOVEMBRE 2017
parte cambiati dopo l’uscita dal dominio sovie-
tico e il nuovo nome non sempre è conosciuto.
La grande piazza principale che oggi la cartina
riporta come piazza Gengis Khan, è in realtà
conosciuta come Sukhbaatar (eroe mongolo
dei tempi della rivoluzione bolscevica).
Ci muoviamo in taxi. Quelli ufficiali sono po-
chi. Generalmente il portiere dell’albergo va
per strada e chiede agli automobilisti se qual-
cuno è disposto a portarti dove vuoi andare.
Velocemente si trova qualcuno che incrementa
così i propri guadagni. Una sorta di Uber popo-
lare ma senza organizzazione e controllo. Que-
sto modo di spostarsi, sconsigliato dalle guide
turistiche, può generare qualche avventura.
Come una sera quando, dopo aver mangiato
in un ristorante lontano dal centro, abbiamo
utilizzato questo mezzo per tornare all’albergo.
L’autista non si orientava per nulla sulla carta
che mostravamo, né il nome di Gengis Khan
lo aiutava. Incominciammo a girare a vuoto e
finimmo in un vicolo dove quasi non si riusciva
a passare. Ma viaggiare significa un po’ anche
affidarsi… Alla fine arrivammo alla piazza e
l’autista improvvisato era così dispiaciuto che
non avrebbe voluto essere pagato.
Pensavamo un paese chiuso, un ambiente
ostile. Invece i mongoli ci appaiono gentili e
ospitali. La persone che parlano o cercano di
parlare inglese sono più numerose di quelle
che avevamo incontrato in Siberia. Si ha l’im-
pressione di un paese che vuole aprirsi.
Avevamo deciso di completare una delle rot-
te della Transiberiana, la ferrovia che collega
Mosca a Vladivostok (o a Pechino con la va-
riante “transmongolica”). L’anno scorso, par-
tendo da Mosca, eravamo arrivati a Irkustk e al
lago Baikal. Quest’anno abbiamo preso il treno
a Irkutsk per raggiungere Pechino attraverso la
Mongolia.
Un viaggio è sempre un incontro fra cose im-
maginate (lette o raccontate da altri) e cose
viste direttamente. Sulla Mongolia, le cose
immaginate non erano molte. Poche immagini,
pochi racconti. Ci aspettavamo un paese gran-
de e selvaggio, isolato dal mondo e dalla storia.
La Mongolia è un paese immenso (grande 6
volte l’Italia) e pochissimo popolato: solo 3 mi-
lioni di abitanti. Quasi la metà abitano a Ulan
Bator, la capitale, nel nord del paese. La più
bassa concentrazione di persone al mondo
-recita Wikipedia. Un paese vuoto si potrebbe
dire, almeno di umani.
Dal treno ci appare come un’immensa prateria
ondulata solcata ogni tanto da fiumi e qualche
rilievo roccioso. La presenza dell’uomo è rara;
si vedono le loro tende mobili (le gher). In que-
ste immagini che potrebbero avere centinaia di
anni ogni tanto il progresso fa capolino: gli uo-
mini guidano le mandrie a cavallo di una moto,
oppure si vede un pannello foto voltaico vicino
alla tenda: serve a far funzionare la televisione
o a riscaldare l’acqua.
Arriviamo a Ulan Bator. Ci si accorge di avvi-
cinarsi alla città perché il terreno incomincia
a essere rinchiuso da grandi cancellate. Con
all’interno niente, o magari una tenda. Poi
iniziano costruzioni senza uno stile preciso.
Case apparentemente finite insieme a case in
costruzione e case in degrado. Qualche villa
“neoclassica”.
Non avevamo nessuna idea di questa città e
nessuna particolare aspettativa. Un po’ la te-
mevamo: la guida la descrive come la seconda
città più inquinata al mondo. Non per le fab-
briche (non moltissime) o il traffico urbano,
sicuramente caotico. La causa è il riscaldamen-
to e la povertà. L’inverno è rigido, molti gradi
sotto zero e il riscaldamento si basa sul carbone
bruciato in stufe familiari primitive. Fortuna-
tamente questo vale per l’inverno non per fine
agosto quando siamo passati noi, che, invece,
abbiamo trovato un clima gradevole e un’aria
respirabile. Nel centro della città edifici ultra-
moderni e rare vestigia del passato.
Muoversi dentro Ulan Bator è un po’complica-
to. Le cartine con alfabeto occidentale (e non
in cirillico-mongolo) in genere non vengono
capite anche perché i nomi delle strade sono in
di Marco Zappa e Rossella Seniori
PassaggioinMongolia
1
2527 NOVEMBRE 2017
Sono definitivamente abbassate le saracinesche
della «Trattoria di’Sordo» in via Gioberti. Una
trattoria popolare aperta da decenni nel locale
che gestori e lavoratori hanno dovuto abbando-
nare a causa dello sfratto esecutivo che è stato
messo in atto. E’ una vicenda che non è passata
sotto silenzio. Ne hanno parlato i giornali citta-
dini e le radio. Lunedì, nella serata di chiusura,
il locale era pieno. I clienti volevano manife-
stare affetto e vicinanza. Non c’era tristezza. E
risaltava la dignità di chi svolgeva il suo compi-
to, cucinava e serviva ai tavoli come se quello
fosse un giorno come un altro. Non è stato un
addio. C’è voglia di ricominciare, da parte dei
lavoratori della Trattoria. Che vorrebbero ria-
prire presto, in un locale diverso, possibilmente
nella stessa zona in cui in cui si sono guadagna-
ti una meritata considerazione (con i loro piatti
semplici e buoni, sempre quelli: una garanzia) .
Quella della «Trattoria di’ Sordo» non era una
realtà in crisi. E’ un aspetto che i gestori hanno
teso a sottolineare: la chiusura si è resa inelut-
tabile non per scarso rendimento, ma (come ha
titolato efficacemente «La Nazione») a causa
degli affitti indigesti. Accanto al “Sordo”, da
mesi, per la stessa ragione, ha chiuso il vinaio
“Gottino”. Quest’angolo di via Gioberti dà il
senso della corrosione del tessuto della città,
che, mutando, si impoverisce. «Da 2200 €, che
pagavamo prima, a scadenza contratto, qualche
anno fa, i proprietari sono passati a chiederce-
ne 8000. Una cifra per noi insostenibile »,
dice Paolo Nepi, uno dei gestori. Poi le cose si
sono logorate e, al di là della ricostruzione de-
gli aspetti legali della questione, alla chiusura
dei battenti si è inevitabilmente dovuti arriva-
re. Ma l’esito della vicenda, che certamente
ha provocato grande amarezza (perché chiude
uno storico riferimento del quartiere e perché
cinque persone restano senza lavoro), non è
stato vissuto con rassegnazione. I lavoratori del
“Sordo”, come dicevamo, cercano un nuovo lo-
cale, in zona, per non sradicarsi dal quartiere.
Chi può, tenda le orecchie e passi voce per dar
loro una mano. E’ un «caso» specifico, quella
del «Sordo», ma anche fortemente emblema-
tico. A due passi da lì, in piazza Beccaria, ha
chiuso l’edicola, ha chiuso il Cinema «Astra»,
ha chiuso il frequentatissimo «Goal Bar». La
Piazza è popolata adesso solo da banche che
più sono impopolari più si diffondono come
funghi. Firenze si va privando delle sue realtà
artigianali più tipiche e popolari e si va riem-
piendo di attività uguali a quelle di ogni altra
città del mondo, che continuamente aprono e
velocemente chiudono. Non è un discorso solo
di carattere commerciale, ma anche di tipo cul-
turale e umano. Forse c’è qualcosa di profondo
da ripensare. Sarebbe importante poterne di-
scutere con gli amministratori e con il sindaco
della nostra città. E sarebbe bello (posso osare
un invito e formulare un auspicio?) parlarne
presto in una rinata «Trattoria di’ Sordo» da-
vanti a un piatto di pici e ad un buon bicchiere
di Chianti «gallo nero».
Situata dove oggi sorge Torre Annunziata, a cir-
ca 1 km. e mezzo da Pompei, Oplontis appare
in mezzo a uno spazio piuttosto sassoso, con un
imponente colonnato che, a prima vista, sem-
brerebbe l’ingresso principale della villa. Inve-
ce si tratta del dietro dell’edificio che dava sul
viridarium, ossia sul giardino, mentre l’ingres-
so principale s’affacciava sul lato mare, come
nelle altre ville della zona di epoca imperiale.
Sembra appartenuta a Poppea, seconda moglie
di Nerone, come ormai convengono quasi tutti
gli studiosi; o comunque alla sua famiglia che
aveva beni nel territorio. Fu seppellita, come
Pompei, dall’eruzione del Vesuvio e riscoperta,
casualmente, durante alcune canalizzazioni or-
dinate dai Borboni, e poi scavata a cominciare
dal 1839 sotto la direzione di Michele Rusca.
Ma gli scavi, condotti con criteri moderni, fu-
rono ripresi solo nel 1964. Secondo la testimo-
nianza di Plinio il Giovane, Oplontis fu seppel-
lita da una pioggia di cenere, lapilli e fango per
uno spessore di almeno 7 metri. Ci sono ancora
altri edifici da scavare, ma quello che importa è
che gli scavi già completati hanno portato alla
luce stupefacenti pitture murali e strutture ar-
chitettoniche che rappresentano l’esempio più
grandioso di villa suburbana in area vesuviana.
Le ville erano anche fattorie, oltre che residen-
ze padronali, con abitazioni per gli schiavi, o
liberti, agricoltori. Ma al momento dell’eru-
zione la villa era disabitata, forse in attesa di
ristrutturazione, come sembrerebbe dai mate-
riali edili ritrovati. Comunque, tutta la villa è
decoratissima. Nell’atrio, intorno al gran bassin
per la raccolta dell’acqua piovana, secondo la
tradizione delle case romane, le pareti sono illu-
strate con finte porte o finte finestre che si affac-
ciano su giardini, veri o dipinti, con scenografie
complesse. Nella sontuosa dimora di Oplontis
,tutte le decorazioni sono del secondo o terzo
stile pompeiano, per un periodo che oscilla da
l’80 a. C. al 65 circa d. C. . L’elemento predo-
minante del secondo stile pompeiano, perché
è da Pompei che si sono classificati gli stili, è
caratterizzato dalla riproduzione di strutture
architettoniche illusionistiche, dove lo spazio
sembra scandito da colonnati aldilà dei quali si
intravedono altri colonnati e paesaggi ideali. Il
terzo stile, che si afferma a cavallo dell’era cri-
stiana, è caratterizzato da una grande profusio-
ne di colori, con l’introduzione, nelle eleganti
architetture, di medaglioni, ghirlande e scene
di vita quotidiana, molto simili a quelle della
Villa dei Misteri di Pompei e di Boscoreale, tan-
to da ipotizzare, secondo alcuni studiosi, un’u-
nica scuola di pittura. Nella villa erano distinti
i vari locali secondo le funzioni; e dalla qualità
delle decorazioni sono evidenti quelli padrona-
li, che si allargano a destra e sinistra dell’atrium,
da quelli servili, come la cucina; o di comodo,
come le latrine, ecc. . Una parte evidentemente
importante riguarda la zona destinata alle ter-
me, decorate con soggetti mitologici. Uscendo
dalle terme ci s’immette in una zona destinata
a giardino, con fontana al centro e decorazioni
a soggetto floreale. Assai sofisticate sono le tec-
niche idrauliche nella cucina, come nelle latri-
ne, che permettevano la separazione di acque
e rifiuti. In tutti gli ambienti il richiamo alla
musica ,con strumenti dipinti, o al teatro, con
maschere decorative, nonché alle delizie della
natura, non erano certo inferiori ad una villa
‘schifanoia’ di epoca rinascimentale.
di Annamaria M.Piccinini
La villa sommersa di Poppea
di Severino Saccardi
Addio al Sordo
2627 NOVEMBRE 2017
dei media, pronti a divorare qualunque preda
venga loro offerta in pasto e anche il senso di
oppressione della comunità chiusa ,controlla-
ta da una confraternita religiosa che, fuori dal
controllo delle gerarchie ecclesiastiche, sfiora i
tratti ossessivi della setta. Però la seconda par-
te del film si perde davvero nella nebbia, nel
senso che la narrazione filmica, a differenza di
quella scritta (il libro, pubblicato nel 2015, ha
venduto 3 milioni di copie nel mondo), è così
confusa che lascia incerti sullo scioglimento
finale la grande maggioranza degli spettatori,
come si vede anche dalle loro recensioni. E
non bastano per farne un film di tensione e
d’atmosfera le notevoli interpretazioni degli at-
tori protagonisti, perché i personaggi non sono
solo ambigui e giustamente combattuti tra il
bene e il male, mancano proprio di identità e di
definizione il che nel libro ha un peso minore
perché l’ingranaggio del giallo, a differenza che
nel film, risulta chiaro e perfettamente diabo-
lico. Siamo lontani anni luce da maestri come
Patricia Highsmith e Albert Hitchcock. Tut-
to sommato, meglio come romanzo che come
sceneggiatura, o forse è vero che il peccato più
sciocco è la vanità e bisognerebbe non preten-
dere di dominare diversi tipi di linguaggio per
non incorrere nell’improvvisazione.
“La ragazza nella nebbia” è un film di Dona-
to Carrisi, presentato al festival del cinema di
Roma 2017, tratto da un romanzo noir dello
stesso Donato Carrisi che nasce come sceneg-
giatura e che contiene tra le linee d’orizzonte
fondamentali una critica spietata al ruolo
giudicante dei media nelle vicende di crona-
ca criminale, il che già costituisce un indizio
su alcune contraddizioni tra linguaggi diversi
e tra linguaggio e metalinguaggio che hanno
un peso non indifferente nella struttura della
narrazione. Il cast di notevole rilievo, con Toni
Servillo e Alessio Boni eccellenti coprotagoni-
sti e un Jean Renau, perfettamente calato in un
ruolo apparentemente quieto e marginale, ol-
tre alla felice ambientazione in un isolato paese
di montagna, che ricorda non a caso nei diora-
ma esibiti i plastici di Cogne delle trasmissioni
di Vespa, contribuiscono ad una prima parte
del film caratterizzata da un buon ritmo ed un
interessante approccio alla vicenda. Il film si
apre sul colloquio dell’agente speciale Vogel,
Toni Servillo, reduce da un incidente d’auto
e con la camicia macchiata di sangue non suo
e lo psichiatra Flores; una magistrata attende
l’esito del colloquio per poter procedere all’ar-
resto dello stesso poliziotto Vogel. Una serie
di flashback che in parte si sovrappongono
rivelano che la vicenda parte dalla sparizione
di una ragazzina di sedici anni, ancora appa-
rentemente una bambina, con i capelli rossi e
le lentiggini che vive in una comunità chiusa
e dominata da una confraternita religiosa cat-
tolica di cui i genitori e lei stessa fanno parte;
della vicenda si è occupato appunto l’agente
speciale Vogel, più che investigatore uomo di
potere e soprattutto di spettacolo, interessato
prevalentemente a manovrare i media per la
propria carriera. La prima parte del film, fino
all’apparire del secondo protagonista e presun-
to colpevole, il professor Martini, Alessio Boni,
ha un buon ritmo e riesce a tenere ben desta
l’attenzione del pubblico, ottime le sovrap-
posizioni d’immagine dei paesaggi montani
e dei relativi diorama, calzante la descrizione
filmica della comunità chiusa e asfissiante at-
traversata da una religiosità ossessiva e dove il
denaro ha stabilito , con la scoperta di un giaci-
mento di fluorite, nuove gerarchie che hanno
sconvolto la stratificazione sociale precedente
fondata sulla vocazione montanara e turistica
della zona. Diverse le chiavi di lettura: “il pec-
cato più sciocco del diavolo è la vanità “ e poi
“ognuno di noi ha una crepa dentro”, “sono i
cattivi che fanno la storia” e , infine, “la prima
regola di ogni romanzo è copiare”; sicuramen-
te riuscita è la rappresentazione mefistofelica
di Mariangela Arnavas
La ragazza nella nebbia
Nell’ambito delle iniziative promosse in occa-
sione del decennale della scomparsa di Giu-
seppe Chiari, sabato 2 dicembre 2017, dalle
ore 11 alle 20 (con concerto conclusivo dalle
h 21 presso Frittelli Arte contemporanea), a
Firenze e Prato, avrà luogo la mostra “Penta-
Chiari - cinque gallerie d’arte celebrano si-
multaneamente l’opera di Giuseppe Chiari -”,
a cura di Bruno Corà. Le Galleria promotrici
dell’evento sono: Galleria Santo Ficara, Fi-
renze; Frittelli Arte contemporanea, Firenze;
Galleria Armanda Gori Arte, Prato; Galleria
Il Ponte, Firenze; Galleria Tornabuoni Arte,
Firenze.
Cinque gallerie d’arte celebrano Giuseppe Chiari
2727 NOVEMBRE 2017
tà, altra cultura.
Firenze in questo momento ha bisogno di
altro, subisce un uso dissennato del suo
ambiente, provocato dal turismo di massa,
ma anche da alcune discutibili scelte politi-
co-amministrative estranee a qualsiasi indi-
rizzo culturale quale il non porre un limite
alla distribuzione alimentare nel centro sto-
rico, esempi significativi sono via de’ Neri,
Borgo Albizi e sulla stessa strada si stanno
orientando velocemente anche Borgo San
Frediano e via di S. Agostino; non avremmo
voluto che il negletto Oltrarno, assurgesse
ai titoli della cronaca per omologarsi al resto
delle vie del fast food. Altra scelta forse non
sufficientemente meditata visti i risultati è
stata quella di riempire di biciclette un am-
biente che dovrebbe essere goduto con len-
tezza per avere la percezione dello spazio
storico circostante.
Solo alcuni anni fa un problema di Firenze
erano le bancarelle degli ambulanti, ormai
acquisite all’immagine urbana, non se ne
parla quasi più; anni fa un problema era
sulla legittimità dell’autorizzare la giostra
in piazza della Repubblica una questione
che oggi, ma sinceramente anche allora, fa
sorridere.
Sconcerta l’Aventino culturale su cui si
è arroccata la città e i suoi più alti rappre-
sentanti, si sente la necessità di un dibattito
culturale sul destino di Firenze che coinvol-
ga anche l’organo cittadino territorialmen-
te preposto alla tutela e al turismo, ovvero
quella Soprintendenza che in anni in cui
non veniva considerata esclusivamente
come ostacolo ha contribuito e collaborato
per competenza alle scelte cittadine a volte
difficili, prima tra tutte la realizzazione del-
la tramvia.
I problemi di Firenze sono gli stessi di altre
città turistiche, ogni decisione anche in ap-
parenza la più semplice va meditata e ana-
lizzata nei possibili risultati, non si poteva
non essere consapevoli del punto in cui si
sarebbe arrivati aprendo dissennatamente
le strade ai dehors prima e al fast food in
generale poi, nel chiudere al traffico e pedo-
nalizzare alcuni luoghi: Oltrarno ne ha su-
bito pesantemente le conseguenze, la fuga
degli artigiani, l’apertura dei ristoranti, la
chiusura dei negozi di quartiere provocan-
do il completo stravolgimento della realtà
locale. Firenze ha quasi completamente
perso la sua identità, l’aumento del turismo,
l’impossibilità del cittadino di vivere la sua
città sta portando all’abbandono del centro
storico per lasciare spazio ad un turismo più
volte definito “mordi e fuggi” che identifica
la città con panini, bancarelle, borse taroc-
cate e i suoi feticci: Uffizi, Ponte Vecchio, il
David di Michelangelo.
È una deriva preoccupante dalla quale dif-
ficilmente si potrà tornare indietro.
La presentazione, lunedì 20 novembre,
del volume “Architettura Contemporanea
e Ambiente Storico” a cura di Francesco
Guerrieri, è stata occasione di alcune ri-
flessioni. Dopo la presentazione di Cristina
Donati ed alcuni perdibili interventi, Gur-
rieri ha riportato su più stimolanti e corretti
binari una illustrazione che avremmo volu-
to invitasse a una più ampia discussione, ma
purtroppo non era né il luogo né il momen-
to, anche se molti tra i presenti ne sentivano
l’esigenza.
Da tempo infatti a Firenze non si sente
parlare di architettura, né storica né con-
temporanea, ancora meno si sente parlare
di restauro, inteso come elaborazione pro-
gettuale e non come semplice conservazio-
ne dei materiali, disciplina questa ormai
lasciata in mano a restauratori che, seppur
eccellenti operatori, hanno il limite di con-
siderare la materia avulsa dal contesto ar-
chitettonico cui appartiene.
Sempre più lo studio, la ricerca, il dibattito
culturale sono considerati da molti perdita
di tempo. Le soluzioni sono ritenute valide
solamente se immediate.
Durante la presentazione Alessandro Gioli
ha evocato architetti di fama cui affidare in-
terventi in contesti storicizzati; Gurrieri da
parte sua ha invece ricordato positivamente
il “riempimento delle lacune” causate dalle
mine tedesche in via Por Santa Maria, via
Guicciardini e le vie vicine: i progettisti eb-
bero la capacità di ricompattare il tessuto
urbano e l’immagine storicizzata del conte-
sto, evitando inserimenti fuori scala o l’uso
di materiali diversi da quelli locali.
In tanti anni di esperienza al MiBACT mi
sono spesso trovata di fronte a proposte pro-
gettuali avanzate da notissimi architetti sia
italiani che stranieri e nessuno di loro è sta-
to in grado di capire la realtà storica con la
quale si trovava ad interagire. Un architet-
to, solo perché di fama, non è esperto nelle
diverse discipline e sovente non possiede la
capacità di valutare i suoi limiti e la consa-
pevolezza della diversità tra tipologie pro-
gettuali, in particolare l’approfondimento
necessario per avvicinarsi al restauro archi-
tettonico o, ancora più impegnativo, ad un
intervento di progettazione in un ambito
storicizzato.
Non si deve, ogni volta che si pensa a qual-
che intervento contemporaneo per Firenze,
fare il paragone con quello che viene realiz-
zato in altre città europee con altre storie,
altre tradizioni, altre dimensioni, altre real-
di Paola Grifoni
Il silenzio dell’architetto
2827 NOVEMBRE 2017
Rosa aveva sognato tutta la vita l’abito bian-
co. Aveva trent’anni e non era fidanzata. A
quei tempi, a quell’età si era già zitella. Spo-
sarsi voleva dire uscire di casa e diventare
indipendenti (anche se spesso non era così).
Voleva dire uscire dalle quattro mura dome-
stiche. Mentre china sull’orlo accarezzava
l’abito bianco che stava confezionando per
la sorella, sorrideva tra sé. Lieve la mano
scivolava tra le pieghe e gli occhi lucidi,
denunciavano il desiderio mal represso di
voler cucire anche per sé un abito nuziale.
In casa non poteva dedicarsi molto tempo.
La famiglia era numerosa e lei doveva ba-
dare ai fratelli. A
volte diceva che era
come se già si fosse
sposata perché do-
potutto una fami-
glia l’aveva cresciu-
ta (quattro fratelli
era un nucleo nu-
meroso). Man mano
poi la casa cominciò
a svuotarsi, ognu-
no cercava altrove
la propria strada
e si allontanava
per lavoro. E passava anche il tempo della
sua vita. Un giorno Rosa si recò a far visi-
ta a uno dei fratelli. Sul treno incontrò un
uomo che intrecciò subito un discorso. Era
timorosa per la poca esperienza di vita ma
quell’incontro fu per lei come l’aprirsi di un
orizzonte. L’uomo l’affascinò e un giorno si
presentò a casa sua con la promessa del ma-
trimonio. Rosa, dapprima timida e impac-
ciata, cambiò. Gli occhi le si illuminarono.
Sentì dentro di sé una grande gioia. Si sentì
donna. Era felice! E già pensava ai prepa-
rativi. Avrebbe confezionato anche per sè
l’abito da sposa a lungo sognato. L’uomo le
fece mille promesse…che l’avrebbe portata
lontano!. Si fece comprare abiti con questa
chimera. Ma alla sera del terzo giorno tutto
cambiò. Non più amore ma freddezza e fa-
stidio annullarono ogni speranza. La matti-
na, l’uomo ripartì in treno portandosi via gli
abiti nuovi per una destinazione sconosciu-
ta, segnando la fine di ogni promessa. Rosa
lo seguì sulla soglia ma nel commiato ebbe
solo una stretta di mano e non seppe più
nulla di lui.
La violenza era stata troppo forte. Per la pri-
ma volta Rosa aveva provato un sentimento,
ma era stata violentata in modo atroce con
l’annientamento di ogni speranza. Fu allo-
ra che cominciò a
morire. Piano, len-
tamente, senza un
lamento, senza che
trasparisse la sua
angoscia. Riprese a
lavorare ma i lun-
ghi silenzi erano
eloquenti. La casa
si era svuotata e lei
era sola col suo ri-
cordo. Incominciò
a non mangiare più
sufficientemente. Il
male si stava già impadronendo di lei. Era
ormai diventata l’ombra di sé stessa. La spi-
na nel cuore la lacerava più di una lama o
di un colpo di arma letale e gli occhi si spe-
gnevano lentamente. Ogni cura fu inutile.
La violenza subita l’aveva lacerata dentro
e ormai non si accorgeva nemmeno più di
avere un cuore. Il male diagnosticato fu
inesorabile come l’uomo che l’aveva illusa e
abbandonata per sempre. Morì in un giorno
caldo di giugno mentre il giardino profuma-
va di rose. Andò via col suo candore, la sua
innocenza e una parvenza d’amore, adorna-
ta di rose profumate come il suo nome.
La violenza non è solo una ferita da coltello
Storia di Rosa
di Anna Lanzetta
2927 NOVEMBRE 2017
di Carlo Cantini
Il Diverso FemminileNegli anni ’70 il mondo femminile scese nelle piazze per
reclamare il desiderio di cambiamento. In quella occasione
realizzai questo lavoro fotografico per dare un significato a
questi eventi per rafforzare l’evoluzione della donna.