32
palomar 1 Palomar Numero 4 - Giugno 2018 I Quaderni de La Nuova Tribuna Letteraria Venilia Editrice Morselli Guido Maraini Dacia Verga Giovanni «Il caso ci protegge più di qualunque legge» Trilussa : Yoshimoto Banana Garcia Lorca Federico

Numero 4 - Giugno 2018 Palomar - dmedizioni.it · Stefano Valentini Direttore editoriale natale luzzagni Vicedirettore paSquale matrone collaboratori ... di giuliano federici INCIPIT

Embed Size (px)

Citation preview

palomar 1

PalomarNumero 4 - Giugno 2018

I Quaderni de La Nuova Tribuna Letteraria

Venilia Editrice

MorselliGuido

MarainiDacia

VergaGiovanni

«Il caso ci protegge più

di qualunque legge»

Trilussa:YoshimotoBanana

Garcia LorcaFederico

palomar2

ntlLa Nuova Tribuna LetterariaRivista di Lettere ed Arte fondata da Giacomo Luzzagni

come abbonarsi1) compilare ed inviare il bollettino prestampato allegato alla rivista2) compilare un generico bollettino postale indicando il conto corrente N° 99509820 intestato a Venilia Editrice con la causale “Abb. NTL Anno 2018”3) inviare un assegno non trasferibile intestato a Natale Luzzagni da spedire all’indirizzo: Via Chiesa, 27 - 35034 Lozzo Atestino (PD)

Quanto costa?ORDINARIO: 4 numeri di 64 pagine 45 euroSOSTENITORE: 4 numeri + 1 libro in omaggio 55 euroBENEMERITO: 4 numeri + 2 libri in omaggio da 65 euro

Quando la ricevo?L’abbonamento fa riferimento all’anno solare (da gennaio a dicembre). Riceverete (direttamente a casa vostra) il primo numero a fine gennaio, il secondo a fine aprile, il terzo a fine luglio ed il quarto a fine ottobre. Se, per disguidi postali, non ricevete la rivista, con una pronta segnalazione invieremo immediatamente una nuova copia (gratuitamente). È importante che ci facciate pervenire i vostri dati in una forma leggibile.

di quali servizi gode un abbonato?Gli abbonati, oltre a ricevere la rivista, possono inviarci i loro libri per ottenere (gratuitamente) una recensione da parte della redazione. Possono sottoporre i loro contributi in tema di letteratura, arte e teatro per una eventuale pubblicazione. Ogni abbonato ha, inoltre, la possibilità di trovare spazio all’interno del nostro portale internet www.venilia.it. Può, infine, beneficiare di prezzi agevolati pubblicando con le nostre collane editoriali.

Il valore di un abbonamentoAbbonarsi non significa soltanto godere di un servizio culturale, ma anche sostenere l’editoria minore, promuovere artisti giovani, favorire le attività delle associazioni, dare spazio a tradizioni e dialetti, sostenere voci libere, di ogni orientamento.

I libri in omaggio saranno inviati nel corso dell’anno solareGli abbonamenti scadono improrogabilmente il 31 dicembre di ogni anno. Chi non intenda rinnovare l’abbonamento è pregato di farcene avere notizia in forma scritta.

RedazioneDirettore responsabileStefano ValentiniDirettore editorialenatale luzzagniVicedirettorepaSquale matrone

collaboratorielio andriuoli (Napoli)Sandro angelucci (Rieti)Claudio Bedussi (Brescia)alessandro Cabianca (Pd)franco Campegiani (Roma)Deborah Coron (Grosseto)m.l. Daniele toffanin (Pd)liana De luca (Torino)luigi De rosa (Genova)Corrado Di pietro (Siracusa)alfonso genovese (Losanna)rosa e. giangoia (Genova)francesca luzzio (Palermo)alessio massarini (Milano)Daniela monreale (Firenze)albino palma (Padova)gianluigi peretti (Padova)liliana p. andriuoli (Napoli)enzo ramazzina (Padova)giuseppina rando (Messina)Bruno rombi (Genova)antonino Scuderi (Padova)Domenico turco (Agrigento)maria Valbonesi (Pistoia)anna Vincitorio (Firenze)maria nivea zagarella (Pa)angelo zanellato (Treviso)

La Nuova Tribuna LetterariaPeriodico di Lettere ed Arte

Fondatore: Giacomo Luzzagni

Periodico registrato al Tribunale di Padovail 20/11/1990 - N° 1252

Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 NE/PD

Iscrizione ROC n° 22352 del 18/1/2010

Redazione: Via Chiesa, 27 35034 Lozzo Atestino (PD)

tel. 0429 644414 - 338 [email protected]

www.venilia.itcorrispondenza: Via Chiesa, 27

35034 Lozzo Atestino (PD)C.P. 15 35031 Abano Terme (PD)

PalomarI Quaderni de La Nuova Tribuna Letteraria

come abbonarsiPer abbonarsi a Palomar basta seguire le stesse indicazioni che valgono per

Ntl (vedi sopra). Gli interessati possono scriverci via e-mail ([email protected]) mettendo come oggetto la parola Palomar, oppure telefonare al numero 338.5865311. Il costo annuale per i 7 numeri di Palomar è di 20 € per gli abbonati de La Nuova Tribuna Letteraria e di 30 € per gli altri. Chi deciderà di abbonarsi troverà al proprio indirizzo di posta elettronica tutti i dettagli per ricevere il file pdf di Palomar.

Info: 338 5865311 www.venilia.it

palomar 3

PalomarI Quaderni de La Nuova Tribuna Letteraria

4 - G

iugn

o 20

18

Guido MorselliUn perfetto disadattato

Impaginazine e grafica: Natale Luzzagni

di Davide BanisPERSONAGGIO RISCOPERTO GRAzIE ALLE OPERE ChE hA LASCIATO E ALL’ORIGINALITà DI uNA VITA CONDOTTA IN DISSONANzA COL SuO TEMPO

dacia MarainiTre donnedi maria nivea zagarellaNELL’uLTIMO ROMANzO DELLA CELEBRE AuTRICEè PRESENTE IL TEMA DELL’ASTuzIA STRATEGICA DELLA SCRITTuRA

Giovanni VergaLa stagione di Aci Trezzadi giaime pintoruNA RILETTuRA DE i maLavogLia. DALL’ARTICOLO PuBBLICATO IL 16 DICEMBRE 1939 SuLLA RIVISTA “OGGI”

Banana YoshimotoI trent’anni di Kitchendi giuliano federiciINCIPIT E ALCuNI BRANI TRATTI DAL PRIMO ROMANzO DELLA SCRITTRICE GIAPPONESE uSCITO NEL 1988

Federico Garcia LorcaMalinconiadi Bruno rombiLA MALINCONIA RESTA uN TRATTO DISTINTIVO NELLE OPERE DEL POETA SPAGNOLO FINO A CARATTERIzzARNE LA GRANDEzzA ARTISTICA

Franco campegianiLe visioni di un filosofoa cura di marcello De toniIL LIBRO RibaLTameNTi è uN IMPORTANTE PERCORSO DI RIFLESSIONI SuLLE quALI è POGGIATO uN AFFASCINANTE COSTRuTTO FILOSOFICO

Trilussadieci poesiea cura di guido VasselliDIECI POESIE DEL DISSACRANTE POETA ROMANO IN BILICO TRA L’IRRIVERENzA SFACCIATA E L’ATTENzIONEPER L’uMANA MISERIA

citazione del mese:«Spesso, più che la stima, è la prudenza che ce consija a fa’ la riverenza»

trilussada Le favole, 1935

6

14

18

22

28

30Info: 338 5865311 www.venilia.it

24

palomar4

Palo

mar

338 [email protected] www.venilia.it

Redazione: Via chiesa, 27 - 35034 Lozzo Atestino (Pd)

Modalità di abbonamento a pagina 2

Per abbonarsi a Palomar basta utilizzare le stesse indicazioni che valgono per Ntl a pagina 2. Gli interessati possono scriverci via e-mail ([email protected]) mettendo come oggetto la parola Palomar, oppure telefonare al numero 338.5865311.

Il costo annuale per i 7 numeri di Palomar è di 20 € per gli abbonati de La Nuova Tribuna Letteraria e di 30 € per gli altri. Chi deciderà di abbonarsi troverà al proprio indirizzo di posta elettronica tutti i dettagli per ricevere il file pdf di Palomar.

La bella estate è il titolo di una raccolta di romanzi brevi di Cesare Pavese pub-blicata nel 1949. Si articola in tre testi: La bella estate (scritto nel 1940 e rima-sto inedito fino alla sua comparsa nella raccolta), Il diavolo sulle colline, com-

posto nel 1948, e Tra donne sole, risalente invece al 1949. Grazie a questi tre racconti, racchiusi ne La bella estate, Pavese si aggiudica la vittoria al Premio Strega nel 1950.

Fondamentale testo di Pavese, che rappresenta uno degli ultimi atti della sua produ-zione letteraria, La bella estate non ha goduto di particolare considerazione da parte della critica, soprattutto in tempi recenti. Altre sono infatti le opere dell’autore pie-montese assunte come veri e propri classici.

Tuttavia questo è un libro fondamentale per capire la personalità dello scrittore e forse le tre storie raccolte sono le più significative per quanto riguarda l’immedesima-zione dello stesso autore.

Le tre storie sono diverse tra loro, ma tutte trattano in maniera delicata - e al tem-po stesso ineccepibile - alcuni temi che Pavese sente molto vicini: primo tra tutti il passaggio all’età adulta, l’abbandono doloroso quindi del mondo adolescente a cui si vorrebbe sempre rimanere attaccati. Il rapporto quasi “umano” tra campagna e città, descritte in modo da far emergere proprio due caratteri diversi, si rivolge due mondi distanti che molte volte ti respingono, altre volte ti accolgono.

Nell’invitarvi alla riscoperta del testo e augurandovi un’estate ricca di piacevoli emo-zioni, vi affidiamo l’incipit de La bella estate. Magari servirà a suggerirvi una lettura tra la sabbia ed il sole. Buone vacanze!

«A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte, e tutto era così bello, specialmente di notte, che tor-nando stanche morte speravamo ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline».

La bella estate

palomar 5

DAL 6 LuGLIO AL 4 NOVEMBRE PRESSO IL CENTRO MATTEuCCI DI VIAREGGIO (LuCCA) LA MOSTRA ChE CELEBRA IL PITTORE LIVORNESE, MORTO A FIRENzE NEL 1945.

MOSTRE

«In Italia non c’è nulla, sono stato dappertutto. Non c’è pittura che valga. Sono stato a Venezia, negli stu-di. In Italia, c’è Ghiglia. C’è Oscar Ghiglia e basta».

La nota affermazione di Modigliani, riferita da Anselmo Bucci nei Ricordi parigini (1931), contrasta con il silenzio venutosi a creare attorno a Ghiglia dopo la morte. Condizione riser-vata, come osservava Carlo Ludovico Ragghianti nel 1967 in occasione della mostra Arte Moderna in Italia. 1915-1935, a quell’intera generazione d’artisti penalizzata dal “giudizio ne-gativo sul fascismo”.

È con gli studi di Raffaele Monti e Renato Barilli alla metà degli anni settanta, confluiti in una serie di mostre monografi-che rivelatrici di un grande talento, che il livornese comincia ad essere preso in considerazione, rappresentando un “caso” che incarna, in termini esemplari, la cultura figurativa dei primi decenni del Novecento. Una pittura, la sua, priva di contami-nazioni anche per il tratto umbratile e scontroso del personag-gio, non molto aperto alle relazioni, spesso in contrasto anche con amici vicini, come Giovanni Papini e Amedeo Modigliani.

Se del primo, dopo la condivisione delle idee attraverso la collaborazione con Spadini, Borgese e Prezzolini al Leonardo, mal digerì la svolta futurista, della frattura con il secondo sfug-gono le ragioni. A testimonianza di un sodalizio, che per i ri-flessi sull’opera appare tra i più fertili e intensi dell’arte moder-na, restano le famose cinque lettere inviate, nel 1901, durante il soggiorno a Venezia e Capri, da Modigliani a Ghiglia; il tono è di un giovane che, aprendosi al mondo, intravede nell’artista più maturo il proprio alter ego.

Formatosi nella Firenze “modernista” delle mostre rivoluzio-narie della Promotrice e di Palazzo Corsini, da autodidatta di grande talento Ghiglia si rivela tra i più ricettivi alle nuove

Ghiglia. classico e moderno

La camicia bianca, olio su tela, 1909

istanze cosmopolite, declinanti in una pittura di pura inven-zione, dove classico e moderno idealmente si fondono. A co-gliere in anticipo l’essenza di questo doppio registro è Llewelyn Lloyd che definisce l’arte dell’amico “originalissima non somi-gliante a nessun’altra, che non ha punti di riferimento né coi macchiaioli toscani né con l’impressionismo francese”. Nell’e-strema generosità, il giudizio tralascia, però, i poli essenziali di riferimento: Fattori e Cézanne, dei quali Ghiglia ha percepito l’elevata caratura, rapportandovisi come ad un magistero più che come ad un modello.

Negli oltre quaranta capolavori in mostra tali radici emer-gono inequivocabilmente, sebbene il livornese non abbia mai smesso di guardare al di là delle Alpi. In una lettera a Natali allora a Parigi scrive: «Perché non vai a trovare Rosso? Come italiano e giovine artista tu dovresti farlo (…) Digli che io lo saluto considerandolo una delle più grandi glorie di questo se-colo e che spero di poterlo presto abbracciare. Sono contento che ti piaccia Van Gogh, ma cerca ancora di vedere Cézanne, ti convincerai che il passato, così, è l’avvenire».

A rendere ancor più imperdibile la mostra saranno presenti due celebri opere di Modigliani, L’enfant gras e Tête de femme rousse, eccezionalmente concesse dalla Pinacoteca di Brera e dalla GAM di Torino.Sede Mostra: Centro Matteucci per l’Arte Modernavia D’Annunzio, 28 - Viareggio (LU)tel +39 0584 [email protected] di visita: Martedì-Venerdì 17.30 / 22.30Sabato e Domenica 10.00 / 13.00 e 17.30 / 22.30 Lunedì chiuso

Ugo Ojetti nello studio, olio su tela, 1909-10

palomar6

MorselliGuido

fIguRE

di Davide Banis

palomar 7

di Davide Banis

Un perfetto disadattato

Morselli non è quindi solo (perché in parte lo è, questo è indubbio) un figlio di papà che se ne sta in panciolle o tutt’al più muove i tacchi fuori di

casa giusto per dilapidare un po’ di patrimonio familiare in giro per l’Europa. Morselli lavora. Lavora sodo. Studia con la metodicità del vero forsennato, perfezionando un sistema-tico programma di letture che lo porta sempre a risalire dal particolare all’universale, all’archetipo culturale (come dice al fratello, istruendolo: “Se Croce cita Vico, non lasciare cadere: va’ a fondo su questo Vico”).

Gli italianissimi esempi di Croce e Vico non devono però trarre in inganno. I confini della provincia letteraria italiana sono troppo angusti per Morselli, che sente la necessità di spaziare in altri territori linguistici e temporali, appassionan-dosi a Platone, Plutarco e Sant’Agostino così come ad Aldous Huxley, Arthur C. Clarke e Albert Einstein, senza disdegnare un abbonamento al National Geographic. Il cosmopolitismo intellettuale di Morselli permea la sua scrittura: nel romanzo Il Comunista, ad esempio, si contamina di anglicismi (come ‘complessione’ al posto di ‘carnagione’) trasportando il lettore dalla fanta-emiliana Vimondino alle rive americane del lago Erie, andata e ritorno.

Il paradosso di questi voli intellettuali formato Concorde è che, mano a mano che passa il tempo, Morselli è sempre più isolato, sempre più Uomo che non c’era, invisibile al mon-do editoriale italiano che non ne vuole sapere di pubblicare i suoi romanzi e saggi. Le lettere di rifiuto delle case editrici si accumulano infatti con implacabile costanza. Ma lui conti-

nua comunque a scrivere e ad inviare, alle volte senza crederci troppo (quasi fosse lo Snoopy dei Peanuts, quando placida-mente spedisce i suoi romanzi invariabilmente rifiutati) alle volte scrivendo invece veementi lettere in cui accusa gli editori di essere nient’altro che “stampatori, fabbricanti di libri”. È in questo contesto che vedono la luce opere assolutamente all’avanguardia come Roma senza papa (libro per cui l’agget-tivo “profetico” è stato usato senza parsimonia in seguito alle dimissioni di Benedetto XVI), Contropassato prossimo (un’u-cronia della Prima Guerra Mondiale) o il già citato Il comuni-sta, che - oltre alla satira sulla struttura chiesastica del PCI di allora - contiene una brillante disquisizione sul marxismo alla luce del darwinismo (laddove in Roma senza papa si ibridava-no cattolicesimo e psicoanalisi).

Per il contesto dell’epoca sono tutte opere non etichettabili e spiazzanti, estranee a ogni corrente letteraria in voga. In ogni caso, almeno due sono i fatti inconfutabili - che si potevano notare già allora, senza alcuna particolare competenza lettera-ria - della scrittura di Morselli: la precisione quasi maniacale nel documentarsi (che lo porta a citare nel Comunista l’inven-tore dello sfigmomanometro, l’italiano Scipione Riva-Rocci) e la tenacia e l’ecletticità con cui produce continuamente ma-teriale nuovo, spaziando dal romanzo sperimentale al saggio rigoroso, passando persino per un Dizionarietto dietetico com-pilato con un tal dottor Riva e puntualmente proposto a varie case editrici (e persino alla Buitoni).

Come è possibile che uno scrittore così prolifico e dagli in-teressi così vari sia rimasto sostanzialmente inedito sino alla morte, se si escludono un paio di saggi e la collaborazione con alcuni giornali? La risposta non può che essere sfaccettata, e il caso sicuramente ha giocato la sua parte ma grossomodo si può ribadire quello che, a pubblicazione postuma avvenuta, scrisse Giorgio Manganelli: Morselli era “un perfetto disadat-tato”, troppo diverso rispetto a quella che era la letteratura italiana dell’epoca, impossibile integrarlo.

Se c’è però una criticità sostanziale nell’opera di Morselli, questa è a mio avviso quella che già Italo Calvino rilevava nella sua “celebre” lettera di rifiuto del Comunista, scritta per conto di Einaudi: l’assenza di vita. Morselli, come ogni buon scrit-tore, scrive solo di cose che conosce, anzi che conosce benissi-mo, quasi alla perfezione. Il problema è che è una perfezione di carta. La vita dell’Uomo che non c’era è nel bianco e nero dei caratteri tipografici dei libri, che - se si escludono certe ami-cizie fondamentali come quella con Maria Bruna Bassi - sono

MORSELLI NASCE NEL 1912 A BOLOGNA MA VIVRà LA MAGGIOR PARTE DELLA SuA VITA TRA MILANO E VARESE. DI FAMIGLIA MOLTO BENESTANTE, SI LAuREA IN GIuRISPRuDENzA, MA CON IL BENEPLACITO (E I SOLDI) DEL PADRE Può PERMETTERSI DI DEDICARSI quASI uNICAMENTE ALLE SuE DuE PIù GRANDI PASSIONI: LO STuDIO E LA SCRITTuRA. A MARGINE, SPENDE MOLTO TEMPO A CONTATTO CON LA NATuRA, LAVORANDO IN PRIMA PERSONA NELLE TENuTE DI FAMIGLIA: TANTO ChE SuLLA CARTA D’IDENTITà, ALLA VOCE “PROFESSIONE”, FARà SCRIVERE CON uN CERTO ORGOGLIO “AGRICOLTORE” .

C’è un bel film dei fratelli Coen, L’Uomo che non c’era, in cui Billy Bob Thortnon interpreta Ed Crane, un barbiere silenzioso e isolato, un fantasma che non vede nessuno e nessuno vede. Il film è stato originalmente girato a colori e poi desaturizzato in un bianco e nero che affonda il protagonista in un’atmosfera ovattata, da semi-vita, in cui anche gli eventi più tragici sono accolti freddamente, con una dura rassegnazione che non lascia spazio all’esibizione del dolore. Ecco, dobbiamo immaginare di immergerci anche noi in un’atmosfera simile per entrare nel mondo, all’apparenza così distante e senza niente in comune con un film hollywoodiano, dello scrittore Guido Morselli, uno dei più straordinari autori italiani del dopoguerra. Uno scrittore oggi considerato un classico ma la cui opera è stata pubblicata quasi interamente postuma.

palomar8

sempre di più i suoi unici compagni di conversazione. Emerge così una scrittura dal nitore incredibile, cesellata nei minimi dettagli ma anche, come gli rimprovera Calvino, “fredda, in cui la vita vissuta c’entra fino ad un certo punto”.

Ma al di là di questa apparente freddezza c’è l’uomo, pro-gressivamente stanco di sentirsi invisibile. Così Morselli si sfo-ga nel suo diario nel 1959:

«Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. […] Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. - Tutto è ugualmente inutile».

Sembra una lettera di addio e invece mancano ancora tredi-ci anni alla notte d’estate in cui Morselli deciderà di suicidarsi sparandosi un colpo con “la ragazza dall’occhio nero”, la sua rivoltella. Sono anni che Morselli trascorre prevalentemente nella “Casina Rosa”, un’abitazione da lui stesso progettata all’interno della tenuta familiare di Santa Trinita, vicino a Ga-virate, in provincia di Varese. La Casina Rosa è una sorta di Anti-Vittoriale degli Italiani. Laddove quell’hoarder di D’An-nunzio viveva nell’horror vacui accumulando chincaglierie di ogni genere, Morselli fa dell’horror pleni la sua filosofia di eco-nomia domestica. Tra le tenui mura rosa della Casina, d’in-verno la temperatura non supera mai i 12°, d’estate le vivande stanno al fresco nel bosco, perché di elettrodomestici non ce ne sono. Più che spartano, è uno stile da anacoreta in piena regola. È in questo contesto che Morselli scrive il suo ultimo romanzo, il suo più rappresentativo, nonché probabilmente il più compiuto, il suo capolavoro: Dissipatio H.G. (dove H.G. sta per “Humani Generis”). Il libro perfetto da portare sotto l’ombrellone.

Nel romanzo, un uomo decide di suicidarsi “per un pre-valere del negativo sul positivo”; un negativo calcolato con inquietante precisione essere il “70 per cento”. Quand’ecco che, quando l’uomo sta per uccidersi annegandosi di notte in un laghetto di montagna, è il resto dell’umanità a scomparire, a evaporare, a dissiparsi, in un’Apocalisse silenziosa che lascia intatte le cose e vivi tutti gli esseri non umani. Il protagonista rimane così l’ultimo essere umano presente sulla faccia della Terra, una sorta di anti-Adamo.

Se il limite già citato della scrittura di Morselli è il suo es-sere “poco vissuta”, Dissipatio H.G. fa di questa esperienza di non-vita il suo punto di forza. Il solipsismo (la possibilità filo-sofica che non esista un mondo al di fuori dell’Io) diventa così la premessa ad una serie di apocalissi a ciclo continuo, come scrive anche Anthony Burgess (l’autore di Arancia Meccanica): “Dato che siamo tutti solipsisti, e tutti moriamo, il mondo muore con noi”.

Nonostante la pesantezza dei temi trattati, in Dissipatio la scrittura non lascia spazio a querule o retoriche lamentazioni, ed è sempre tersa ed ironica, come quando fa il verso all’A-pocalisse di Giovanni (“Calcano i glabri pendii del monte Armageddon. […] A piè del monte, due serpi loricate striscia-no sibilando e buttando fuoco. E ognuna sulle scaglie ha una scritta, e su una si legge: Advertising e, sull’altra: Marketing”)

o quando si lascia andare a un liberatorio anti-antropocen-trismo: “Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro”. L’idea che la fine dell’uomo non è la fine del mondo è un altro tema centrale del romanzo.

In questo senso, Morselli si diverte in gustose descrizioni delle centrali elettriche che erogano per mesi anche senza per-sonale o degli uccelli che riprendono con il loro baccano il controllo della città. Vale la pena di notare che questo genere di esercizi d’immaginazione costituirà il nucleo centrale del bel saggio di Alan Weisman Il mondo senza di noi, pubblicato nel 2007.

Insomma, come già accennavo, Dissipatio H.G. è il libro perfetto da leggere sotto l’ombrellone, immaginando un’ange-licazione in massa dell’umanità in costume nei paraggi. Una liberatoria e materiale riappropriazione della spiaggia, della sabbia finalmente restituita al suo ruolo di deserto. O forse più probabilmente sarà il lettore a sentirsi aspirato verso l’alto, verso gli anaerobici paesaggi su cui Morselli fantastica. Lassù il cielo è limpidissimo ma l’altitudine è tale che l’aria è rarefatta e si fatica a respirare.

(articolo tratto da thesubmarine.it)

palomar 9

palomar10

di natale luzzagni

dalle pagine di “Tanto vale vivere”

Adesso è tardi«Non sono un filosofo.

Sono un agricoltore: vivo della campagna e in campagna...»

palomar 11

«Sono emiliano, autodidatta, vivo solo su un pic-colo pezzo di terra dove faccio un poco di tutto, anche il muratore; politicamente sono in crisi,

con quasi nessuna speranza di uscirne. Non sono un filosofo. Sono un agricoltore: vivo della cam-

pagna e in campagna... (tutt’al più mi spingo a Varese a bor-do della mia vecchia Ardea: una quatto marce, che però va ancora benissimo). Il vino di mia produzione ha riscosso gli elogi della scuola enologica di Alba.

Qui da me, a S. Trìnita, non ho né aspirapolvere né frigori-fero. Non ho nemmeno la TV.

In cambio ho un discreto cavallo da sella, col quale esploro la montagna che incombe subito dietro la mia casetta. Ho potato quest’autunno certi rosseggianti pini di Scozia, i cui rami, ricchi di materie resinose dall’aroma profumato, ho messo da parte da bruciare al caminetto nelle grandi occasio-ni. Lei mi venga a trovare... Si persuaderà che, se l’alienazione marxiana è l’amaro frutto insopprimibile dell’industrialismo, c’è un genere di alienazione... contro la quale l’attaccamento alla terra “dat medicamenta”».

Era con questo genere di presentazioni informali che Gui-do Morselli amava annunciarsi agli editori e agli scrittori fa-mosi. Quella che riporto è la lettera invita ad Italo Calvino nel 1963. Morselli ha poco più di cinquant’anni. Collabora con alcuni periodici locali. Fino ad allora ha pubblicato solo due saggi, uno su La recherche di Proust ed un altro intitolato Realismo e fantasia.

Dal 1947 fino alla sua morte non pubblicherà più nulla.Eppure Morselli scrive tanto, scrive sempre.Raggiunge la collina o batte le strade con la sua bicicletta

per trovare ispirazione. La scrittura è un tramite necessario con il suo fermento di pensieri filosofici e di considerazioni quotidiane. Guido macina idee con la stessa lena delle sue pedalate e dei cilindri della fedele Lancia Ardea. I romanzi sbocciano assieme alle stagioni di quell’angolo di campagna varesina. Morselli li concepisce con laboriosa scrupolosità. Talvolta torna a rielabolarli, a limarne alcune pesantezze, a integrarne la dimensione. Si prodiga nella ricerca di editori disposti a pubblicare i suoi lavori. In casa conserva con cura una cartella denominata Rapporti con gli editori nella qua-le archivia presentazioni, richieste e risposte. Sulla cartella è disegnato a matita un fiasco a rappresentare, forse, una for-ma di dissacrazione o il simbolo di un fallimento personale

SCRISSE GIuLIO NASCIMBENI SuL CoRRieRe deLLa SeRa: «LA PRIMA TENTAzIONE è DI DIRE ChE C’è STATO ANChE uN GATTOPARDO DEL NORD. VIVEVA IN LuOGhI PROFONDAMENTE LOMBARDI, TRA GAVIRATE E VARESE. SCRISSE MIGLIAIA DI PAGINE. SPERò A LuNGO ChE GLI EDITORI SI ACCORGESSERO DI LuI. è MORTO IL 31 LuGLIO DELL’ANNO SCORSO. ADESSO ESCE uN SuO ROMANzO, Roma SeNza PaPa, PuBBLICATO DALLA ADELPhI, E SE NE RESTA ATTONITI, COME DAVANTI A uN FRuTTO RARO E INIMMAGINABILE».

dalle pagine di “Tanto vale vivere” «Soffro, dunque sono»

certificato dall’ostracismo dell’universo editoriale. La vita di campagna permette di raccogliere sapori autentici ed una vasta gamma di soddisfazioni. Ma tutti quei rifiuti e quelle attese inutili sembrano un vero e proprio sabotaggio. Come possono respingere puntualmente ogni ragionevole richiesta? Com’è possibile che non sappiano accogliere l’onesto talento di uno scrittore così volenteroso e tenace?

Dei nove romanzi completati da Morselli nessuno fu pub-blicato durante la vita dello scrittore-agricoltore. L’editoria aveva motivato i propri rifiuti adducendo spiegazioni di vario genere. Qualcuno vide nei suoi testi la pesantezza di certi vezzi filosofici. In altri casi si trattò di sfortunate coincidenze legate al caos delle programmazioni editoriali.

palomar12

Solo alla sua morte iniziò un percorso di rivalutazione che vide la stampa delle sue fatiche letterarie. Il critico Fulvio Panzeri - che si è occupato dell’enigma morselliano - am-mette un certo imbarazzo nel considerare la faccenda: «Resta un mistero sapere se la ragione della mancata pubblicazione delle sue opere sia stato il rifiuto opposto dagli editori, op-pure una solitudine coltivata da Morselli per intrattenere un rapporto privilegiato ed esclusivo tra lui e le parole».

Guido Morselli era un solitario per sua stessa ammissione: «A livelli sia pure superiori al mio, il pensiero è sempre stato solitario, fine a se stesso, asociale... secreto da monadi senza finestra, o che non si curavano di mettersi alla finestra. L’i-dolatria della comunicazione è un vizio recente. E la società, dopotutto, è semplicemente una cattiva abitudine». Dalla campagna varesina ammetteva: «Io in realtà non so uscire dal mio solitario atteggiamento passivo, non prendo iniziative e forse non ne favorisco, ... capire e comunicare domandano applicazione, simpatia intellettuale, attenzione non epider-mica... Non amo la gente espansiva». Il 1963 risulta l’anno in cui Morselli intensifica il lavoro di aggiustamento delle sue opere e la ricerca di un consenso fra i critici. Si sforza di offri-re un’immagine di se stesso ammantata di umiltà. Indirizza le sue lettere a personaggi qualificati come Guido Calogero, Ita-lo Calvino e Vittorio Sereni. A Mario Pannunzio scrive: «Io sono scapolo, vivo solo, non ho molto da offrire, ma alberi, prati, silenzio, un’ampia veduta sui laghi e le Alpi, questi sì, lo posso offrire ai miei amici, e un’assoluta libertà, si fermino tre ore o tre giorni...». Guido è un uomo contemporaneamente determinato ed ingenuo, scrupoloso e fragile. Nel 1955, in una pagina del Diario, aveva annotato: «Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato, ma non ho ottenu-to nulla. Sono stato egoista fino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri». Il 31 luglio del 1973, nella sua casa di Varese, si uccise sparandosi un colpo con la sua Browning 7.65.

Nel 1974 Giulio Nascimbeni scrisse sul Corriere della Sera:«La prima tentazione è di dire che c’è stato anche un Gatto-

pardo del Nord. Viveva in luoghi profondamente lombardi,

tra Gavirate e Varese. Scrisse migliaia di pagine. Sperò a lun-go che gli editori si accorgessero di lui. È morto il 31 luglio dell’anno scorso. Adesso esce un suo romanzo, Roma senza papa, pubblicato dalla Adelphi, e se ne resta attoniti, come davanti a un frutto raro e inimmaginabile».

(da Tanto vale vivere Breve rassegna dei casi di suicidio nel mondo letterario,

a cura di Natale Luzzagni, Venilia Editrice, 2017)

Frasi tratte da “dissipatio H.G.”«Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la

fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La cadu-ta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi».

«A livelli sia pure superiori al mio, il pensiero è sta-to quasi sempre solitario, fine a se stesso, asociale. […] L’idolatria della comunicazione è un vizio recente. E la società, dopotutto, non era che una cattiva abitudine».

«Quello che per ogni altro sarebbe l’oceano della ne-gazione, un orrore totale, io ci galleggio sopra in una barchetta di carta. Costruita con poche, mediocri, qua e là ironiche, idee generali».

«[...] l’aspirazione a possedere materialmente una cosa o una persona, nasconde, con qualche approssimazione, il nostro intento di liberarci di essa, di passare a altro. Quello che abbiamo posseduto, ce lo possiamo mettere dietro le spalle, confinarlo nel passato, nel già-fatto».

(da Dissipatio H.G., Adelphi, Milano, 1977)

palomar 13

Un diario straripante di pensieriquELLI RIPORTATI DI SEGuITO SONO ALCuNI DEI PENSIERI E DELLE RIFLESSIONI LIBERAMENTE TRATTI DAL diaRio DI GuIDO MORSELLI, PuBBLICATO DA ADELPhI NEL 1988, A CuRA DI VALENTINA FORTIChIARI.

«A coloro che vanno cercando una definizione di vita, vorrei proporre la seguente: la materia, quando incomincia a soffrire».

«In tutte le cose, e non solo nel mio lavoro, io mi sono visto opporre pareti scoscese, invalicabili, contro le quali è stato inutile farsi insanguinare e piedi e mani e ginocchia».

«Chi può negare che ci sia qualche cosa di divino nelle cose quando esse si fan vive per noi e ci parlano la stessa lingua arcana del nostro sentimento?». (24 novembre 1943)

«Chi sa “ascoltarsi” vive più vite. Per chi attinge alla propria sensibilità profonda, il passato non è mai morto; non solo, ma la sua vita presente si dilata immensamente di là dai suoi limiti apparenti, ad abbracciare innumerevoli esperienze».

(24 novembre 1943)

«[...] trovo che per chi ha intelletto per pensare da sé, lo studio del pensiero altrui non può servire che a fornirgli la conferma di ciò a cui è giunto in precedenza da solo. Infatti, quando c’imbattiamo in idee nuove, delle due l’una: o sono nuove per noi solo apparentemente, in quanto corrispondo-no a un nostro ordine mentale nel quale erano già, almeno in potenza; o ci sono veramente nuove, ossia estranee, e allora restano più o meno lettera morta».

(14 dicembre 1943)

«Dio è come il mare: sorregge chi gli si abbandona». (14 dicembre 1943)

«Vi è in noi una specie di timore della felicità. Si potrebbe dire che la consuetudine alla noia e al dolore determina da parte nostra una inerzia, una resistenza alla gioia».

(5 gennaio 1944)

«Tutta la nostra esperienza interiore è il gioco di due fattori: la memoria (il passato), l’angoscia (il presente)».

(2 febbraio 1944)

«Calabria: paese dove gli uccelli non cantano, e le campane non suonano». (3-4 maggio 1944)

«Il castigo, in quanto sia sofferenza, è sempre ingiusto per-ché sempre sproporzionato alla colpa. Infatti il piacere che sentiamo commettendo il male, non incide mai profonda-mente come il dolore. Carattere di quello è la labilità, di que-sto, la stabilità. Il piacere non impegna quasi mai l’animo, il dolore, anche fisico, sì. Il piacere sfiora, il dolore si radica».

(12 agosto 1944)

«I nostri rapporti con una donna possono a un certo punto divenire una consuetudine. Forse questo è il punto “cruciale” di ogni amore. Poiché la consuetudine approfondisce l’amo-re, o lo riduce a un involucro di gesti senz’anima».

(30 giugno 1946)

«Dio è il nome di una psicosi, di cui prima o dopo tutti soffriamo». (22 agosto 1955)

«Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pre-gato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ot-tenuto nulla. Sono stato egoista sino a dimenticarmi dell’e-sistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho amato, sino a dimenticarmi di me stesso; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. - Tutto è ugualmente inutile».

(6 novembre 1959)

«Dopo la morte, per gli scettici c’è il nulla. Per le anime religiose, dopo la morte c’è Dio, ossia il tutto. Ma sparire nel nulla o nel tutto, non è la stessa cosa?».

(26 dicembre 1958)

«La provvidenza non trascura proprio nessuna delle sue creature. Leggo (in un articolo sul Corriere del 19 settembre ’62) che anche le libere, graziose, festose (e innocenti) farfalle sono colpite dalla malattia che quando visita noi, chiamiamo: cancro.

Non c’è nemmeno un angolo del creato in cui non si mo-stri la grandezza e la bontà del creatore».

(1 ottobre 1962)

«Come la poesia, così la filosofia deve crescere in margine alla vita, e cioè essere riflessione sulla vita, la saggezza che affiora sull’esperienza. Questo è il significato dell’adagio “pri-mum vivere” (che gli uomini pratici hanno svisato come se significasse che il riflettere è una faccenda di seconda - o di nessuna - importanza)».

(3 maggio 1963)

«A coloro che vanno cercando una definizione della vita (biologi, per es.), vorrei proporre la seguente: “la materia quando incomincia a soffrire”».

(5 novembre 1966)

«Fede (religiosa) significa: prestare a Dio, supplire a Dio, perdonare a Dio».

(21 febbraio 1970)

Frasi tratte da “dissipatio H.G.”

palomar14

MarainiDacia

ROMANzI

di maria nivea zagarella

Tre donne

palomar 15

di maria nivea zagarella

L’astuzia strategica della scrittura

L’ultimo romanzo di Dacia Maraini, Tre donne, fa della “astuzia” strategica della scrittura il tessuto connettivo del te-sto. Non solo sul piano strettamente tecnico della narrazione, ma anche come proiezione “ideale” oltre gli eventi tragici, as-surdi o comuni dell’esistenza. Convinzione di Maria infatti, la madre, una delle protagoniste della vicenda, raffinata tradut-trice e sognatrice, è che i libri fanno fiorire il cervello, mettono radici profonde che poi si gonfiano di linfa e buttano fiori ariosi e profumati utili a dare un poco d’aria a una testa che puzza di chiuso. Tecnicamente risalta l’abilità (collaudata) con cui la scrittrice, usando varianti del modulo diaristico (diario su quaderno la diciassettenne Lori, un piccolo registratore la ses-santenne Gesuina, lettere la quarantenne Maria), realizza, al-ternandoli nelle pagine, tre diversi “stili” di esprimersi e co-municare secondo i differenti caratteri delle tre donne e la specifica temperie generazionale (nipote, nonna, madre). Più libere nelle azioni e nel linguaggio nonna e nipote: audace e impenitente nel gioco leggero d’amore la prima, ex attrice e maga delle iniezioni nel quartiere; con punte topiche di rab-bia, di confusa sperimentazione esistenziale e atteggiata pre-sunzione giovanile Lori (mamma - scrive - sei innamorata come una cucuzza, tu e il tuo francese mi fate ridere con le vostre sman-cerie). Illusa e con la testa tra le nuvole Maria che mantiene con le sue faticate e appassionate traduzioni dal francese il piccolo nucleo familiare tutto al femminile (le due donne sono vedove da anni), occupata dalla cura integrale della casa, dai suoi libri e vocabolario Larousse, e dalle lettere a Francois, l’amante che vive a Lille e lavora nel mondo della finanza, ma è interessato anch’egli alla letteratura, e con il quale si incontra

solo nelle ferie contate di lui, partendo subito insieme per viaggi intellettuali e d’amore. Quando partono - annota Lori - si riempiono le valigie di libri, due matti, poi magari gli man-cano i calzini di ricambio. Sullo sfondo i temi cari alla Maraini: la ribellione al privilegio sessuale maschile attivo anche a 80 anni (mentre noi donne - protesta Gesuina - non dobbiamo ne-anche guardare un bel corpo che diventiamo subito streghe, put-tane, poco di buono, assatanate), lo spirito autonomistico (co-nosco i miei desideri e ce la metto tutta per esaudirli - dice anco-ra Gesuina) e la libertà sessuale della donna, esemplificati tutti negli amoreggiamenti attardati della nonna e con ragazzi e con uomini più giovani di lei (dal muscoloso fornaio del quartiere Simone, impotente, ma formidabile baciatore, agli innamorati virtuali, menzogneri o ossessivi, contattati tramite la rete o whatsapp come il giovanotto forse falso trentenne o il commerciante di caffè sposato Filippo). Una nonna vitale, al-legra (sono sana, sono fresca - afferma Gesuina - mi piace diver-tirmi), versata nelle sofisticherie tecnologiche quanto l’eman-cipata nipote che, attrezzata di motorino, piercing vari, drago sbuffante tatuato sulla schiena, fa regolarmente l’amore col compagno di scuola Tulù nel monolocale di quello, specie nei giorni pallosi e senza sorprese. Un contesto familiare e sociale quello visto fin qui nel quale Maria rappresenta “l’archeolo-gia” dei sentimenti e della comunicazione: scrive a mano e su carta (e con la stilografica) le lettere all’innamorato, perché - spiega invano a Lori - in un tempo di sciatte velocità il grande privilegio è proprio la lentezza: la lentezza del pensiero, la len-tezza della parola, la lentezza della scrittura; Maria che leggen-do, scrivendo, traducendo, viaggiando riflette sul sentimento di libertà, sulle caratteristiche e tipologie del pensiero, sulle contraddizioni di Flaubert, sulla pittura di Van Gogh, sul “tempo” cosmico e umano, sulla poesia quale strategia estre-ma di sopravvivenza in un luogo di tortura e di morte come un lager nazista…; Maria, alla quale piace la lettera cartacea, e non le mail, perché su quella ha posato le mani Francois, e vi sente l’odore della pelle di lui, del cui amore non dubita. Tre solitudini in realtà descrive la Maraini nel romanzo, riempite dalla “rincorsa” all’Amore, o meglio a ciò che ognuna delle tre donne percepisce come tale, fra meccanismi cogenti dell’istin-to, eccitanti attese/appagamenti, gratificanti immaginazioni (Di baci ci si può saziare - dice Gesuina nel suo rapporto col trentenne impotente e poi sposato Simone - di baci si può in-grassare l’immaginazione sensuale, di baci sfinirsi). Un amore in cui i sensi e il corpo (corpo maschile in questa vicenda) fanno da padroni: braccia tatuate (come quelle dell’infermiere Ange-

COME SI Può RACCONTARE OGGI L’AMORE? quALI SONO I PERCORSI NASCOSTI E GLI EquILIBRI IMPOSSIBILI ChE SPINGONO DuE DESTINI A INCROCIARSI? è LA VOCE DI DACIA MARAINI A RISPONDERCI, ATTRAVERSO quESTE STORIE ChE SONO uNA FOTOGRAFIA DELLE PIù IMPREVEDIBILI SFuMATuRE DEL DESIDERIO, VISSuTO NELLE DIVERSE ETà DELLA VITA. RACCONTI ChE SONO LA TESTIMONIANzA DI uNA DONNA ChE NON hA MAI SMESSO DI LOTTARE PER DIFENDERE LA FORMA PIù PuRA DI AMORE, quELLO PER LA LIBERTà. PERChé SOLO ChI hA VISSuTO CENTO ESISTENzE IN uNA, ATTRAVERSANDO IL MARE IN TEMPESTA DEL NOVECENTO, Può RICORDARCI ChE L’AMORE è LA SOLA BELLEzzA A CuI NON POSSIAMO RINuNCIARE..

Tre donne

«dovrei difendere con più forza la libertà dell’amore che non

conosce età, che si fa sudore, fiato, respiro, eccitazione, tutto per

via del piacere del gioco amoroso»

palomar16

lo) o non; collo sudato o abbronzato; polsi pelosi, mani, pelle; labbra, rotondette o carnose; culo morbido e sodo da mangiare a morsi come quello di Tulù; caviglie bianche e senza peli; lingue intrecciate, lingue che si conoscono, si carezzano, il fiato nel fiato; corpi che si cercano, aderiscono, si accoppiano. Una carnalità non mistificata, ma soprattutto un feticismo del “maschio”, dell’amore, dei sensi che suona eccessivo forse in una scrittrice che dice di essere dalla parte delle donne e che in passato si è innalzata a una “eroina del femminile” come Ma-rianna Ucrìa. Ma la vita ha di questi squallori rappresentabili, come gli “amori”, nella parte finale del libro, dell’infermiere Angelo (sposato e con quattro figli) con l’infermiera Alessia proprio accanto al letto di Maria suicida in coma da mesi, e non mancano nella trita quotidianità i più prosaici, o inaspet-tati, tradimenti fra donne amiche e in famiglia, o fra amanti teneri e verbosi. L’acme del “corpo” sarà nel romanzo la con-templazione/possesso del bellissimo Francois venuto a trascor-rere il Natale a casa delle tre donne, corpo da maschio palestrato per la nonna, bello come il sole per Lori la quale, priva di palet-ti di autocontrollo (quelli che la nonna gufo saggio sa a tempo e luogo esercitare, e che chiama consapevolezza, responsabilità, sublimazione), obbedisce alla gran voglia di mangiarsi in un boccone il bellissimo Francois, di assaggiare quel meraviglioso frutto maturo… quella polpa dolcissima, una voglia d’altra par-te condivisa dallo stesso Francois: è bastato uno sguardo per capirci, confessa Lori alla nonna e altrove, per autogiustificar-si, afferma: i soli che lo volevano (il coito) erano i nostri corpi. La confessione della verità alla madre, con la notizia che la figlia è incinta di Francois, fa tentare a Maria il suicidio col sonnife-ro, rimanendo poi allettata e in stato vegetativo per mesi. Di-venta l’intellettuale Maria per malizioso contrappasso la bella addormentata nel bosco in attesa del bacio di un principe che la risvegli, un bosco metafora dei nodi della vita, ma che si contamina della tragedia del bosco reale che circonda la città, che va all’improvviso in fiamme per l’incoscienza di tre ragaz-zi che per divertirsi - dicono - hanno cosparso di benzina un gatto, gettandolo poi tra le piante secche del bosco. Un ro-manzo totalmente triste Tre donne, e anche banale a prima vista, costruito come è su esperienze sensuali e sessuali di ordi-naria amministrazione (anche il sesso comprato con ragazzi “sempre al verde”) e su un tradimento grave, ma scontato. Tuttavia c’è un sapiente dosaggio di registri espressivi diversi-ficati e soprattutto di alcuni elementi della nostra sbalestrata contemporaneità, quali una gioventù deresponsabilizzata e/o demotivata alla scuola (Lori, Tulù) e senza certezze di lavoro in loco (Tulù), le menzogne istituzionalizzate da web (parole e fotografie bugiarde con relativi inesistenti amori virtuali) che fanno il paio con gli altrettanto volgari o bugiardi amori e le illusioni cadute della vita reale (il bellissimo Francois presto di-leguatosi e totalmente estraneo sin dall’inizio a suo figlio e a Lori, o i già citati Angelo e Alessia) in una sequela di giornate sempre “povere” e vuote. Elementi che strutturano un quadro del vivere che la scrittrice significativamente pone fra la reatti-vità nulla all’esistenza - tra resa e indifferenza - della barbona Dorata (con cui ha fatto amicizia Lori), che si è confinata nel-la sua pace/libertà eremitica in giardinetti abbandonati fra le immondizie di una città sporca, confusa e priva di controlli, e l’attesa del “risveglio” di Maria dal formidabile colpo sulla te-

sta che le ha dato la vita. Risveglio atteso da Lori, che non ha voluto abortire ed è molto affezionata al piccolo figlio Prome-teo, e da Gesuina che, lasciati i giochi d’amore che le scaldavano la giornata, con coraggio da leone ha preso sulle spalle tutto il peso della conduzione della casa e della famiglia (Lori, il lat-tante Prometeo, la figlia semimorta divenuta un itinerario di tubi e tubicini) svolgendo il lavoro di infermiera a domicilio nel quartiere. E il risveglio lentamente e flebilmente avverrà, propiziato dalle cure e dalla paziente lettura che la madre ver-rà facendo alla figlia inerte della bella traduzione da lei compi-lata della Madame Bovary di Flaubert (In certi momenti ho l’impressione - dice a se stessa Gesuina per rinfrancarsi - che qualcosa del suono delle parole le arrivi al cervello passando come un’acqua vaporosa dalle orecchie chiuse) fino alla recita intensa di una poesia di Baudelaire, tanto amata da Maria, sulla vita che incalza danzando spudorata e rumorosa sotto una luce grigia. Poesia che in versione originale francese troviamo quasi ad apertura di romanzo, chiudendolo infine circolarmente in versione italiana. Allo stesso modo lo aprono e lo chiudono i riferimenti a Flaubert, autore nel quale anche i suoni delle pa-role hanno un senso preciso, quasi carnale diceva Maria. Casuali coincidenze o c’è un significato “altro” da cercare? Così come nel ritorno a più riprese fra le pieghe delle vicende del mito di Prometeo anch’esso caro a Maria, e che rivive prima nel nome dato da Lori alla sua cagnetta e poi nel nome di suo figlio che - afferma Lori - ha voluto nascere per forza, rubare il fuoco alla morte e aggrapparsi alla vita, e che appena nato - precisa Gesu-ina - ha subito urlato la sua voglia di vivere mostrando di avere polmoni ampi e potenti. L’eroe Prometeo ha a che vedere con la forza del pensiero e con i fondamenti primi della civiltà e del progresso, un pensiero non disgiungibile per la scrittrice dalle “parole” della letteratura (prosa/poesia), da quella “lentezza” di cui si diceva all’inizio, linfa di conoscenza, dubbio critico/metodico, speranza da cui si può sempre ricominciare (pur sotto la persistente luce grigia baudelairiana) contro ogni sciat-teria, menzogna, velocità, “liquidità” di relazioni umane e di idee. Un romanzo, dunque, Tre donne, che si muove tra rac-conto realistico e allegoria.

Dacia MarainiTre donne. Una storia d’amore e disamore

Rizzoli, 2017

palomar 17

palomar18

VergaGiovanni

I Malavoglia visti da Giaime PintorlETTuRE

palomar 19

di giaime pintor

I Malavoglia visti da Giaime Pintor

Si è sempre insistito sulla sorte di Verga, autore mal compreso, autore che ogni nuova critica ha voluto spogliare di soprastrutture e pregiudizi anteriori per

porre finalmente in una luce onesta e definitiva. Questo lavoro generoso anche se spesso illusorio e la convinzione dei critici piú autorevoli degli ultimi trent’anni hanno costruito ormai intorno al romanziere siciliano un muro di fama intoccabile. Scaduto il tempo della sua piú umile popolarità, quella delle opere giovanili, Verga è passato alle antologie scolastiche e al freddo decoro delle commemorazioni senza un conforto di letture estese e intelligenti, senza cioè una riconoscenza (che è cosa diversa dal riconoscimento o forse del riconoscimento è la forma piú ingenua e diffusa). Ora, questo accade per tutti e sarebbe assurdo rammaricarsene (si pensi a D’Annunzio e alle diverse maschere che la sua opera ancora sopporta). Ma forse per Verga esistono ragioni più gravi di distanza, di ostilità. Certo egli sopravvisse ai suoi anni, fu confuso poi con altri vicini a lui per coincidenza di date e d’interessi piú che per la loro natura letteraria, e accomunato nel rifiuto di una poetica cosí fiera di velleità e di pretese come la verista.

Da parte del pubblico il rifiuto naturalmente è disinteresse e fastidio; per la storia letteraria, Verga non poteva sparire e

in fondo mantenne sempre il rispetto dei lettori piú consa-pevoli. Attento ad altre voci, in tempi d’inquietudine, Serra diede quel giudizio un po’ distante: «Passano gli anni e la sua figura non diminuisce; il maestro del verismo si perde, ma lo scrittore grandeggia». Il grande scrittore: era già l’esilio del romanziere vivente fra i maestri non letti. La stessa severità dell’opera, la sua durezza dovevano respingere sempre piú un pubblico conquistato ai fulgidi romanzi dannunziani e a quel-la che si chiamava arte spiritualista contro il tenace positivi-smo verghiano.

Ora sorprende ritrovare I Malavoglia in una nuova edizione (Mondadori, 1939), romanzo destinato a larghe letture, ac-canto a opere assai più facili e d’interesse immediato, legate al cinema e a un costume americano cosí diverso da quello della remota Italia di Verga. E forse è utile rileggerlo disinteressa-tamente, come se fosse libero da una storia di decenni, per scoprirne ancora la ricchezza di suggerimenti spontanei e il poco caduto, artificio o polemica.

«Non volli fare opera polemica ma opera d’arte», aveva scritto già Verga in quella breve pagina che precede la pri-ma edizione. Ma queste sono parole comuni e si sa come egli fosse legato a una dottrina e come ogni formula mantenga un contenuto polemico: piú una formula come quella dei ve-risti che accoglieva accanto ai motivi tecnici e alla naturale predilezione per una materia circoscritta addirittura motivi extraletterari di critica e di testimonianza sociale. Certo Verga fu lontano da qualunque concessione a esigenze temporali, fu naturalmente protetto dal suo sicuro animo letterario. E in lui erano impossibili quei risultati deteriori che diede certo natu-ralismo tedesco o l’opera piú clamorosa di un Blasco Ibañez. Ma il freddo di «una educazione poetica» sussiste in altre pa-gine, sussiste anche nei Malavoglia che sono probabilmente l’opera piú sorvegliata e matura.

Il disegno, prima di tutto. Da altri si vide nell’ampio svol-gimento una misura di umanità. A noi questa umanità non giova ora; interessa solo l’altra umanità, la vita letteraria dei personaggi, e i limiti che a questi personaggi possono venire da qualsiasi rigidezza. Lo sforzo di un programma era già nella idea iniziale: i cinque romanzi collegati da richiami esteriori, ma uniti nel comune significato zoliano di documento socia-le. Poi gli ultimi non furono scritti e I Malavoglia e Mastro don Gesualdo rimangono come risultati autonomi, quasi liberi da ogni peso sensibile. Del resto quel piano dell’opera non era che uno schema esteriore la cui traccia letteraria sarebbe stata probabilmente assai debole.

Il disegno invece ritorna nel corpo dei Malavoglia per oscu-

i maLavogLia Fu PuBBLICATO A MILANO DALL’EDITORE TREVES NEL 1881. PRESSO IL PAESE DI ACI TREzzA, NEL CATANESE, VIVE LA LABORIOSA FAMIGLIA TOSCANO, SOPRANNOMINATA maLavogLia PER ANTIFRASI SECONDO LA TRADIzIONE DELLA ‘NgiuRia (uNA PARTICOLARE FORMA DI APPELLATIVO). IL PATRIARCA DELLA FAMIGLIA è L’ANzIANO PESCATORE PADRON ‘NTONI, VEDOVO, ChE VIVE PRESSO LA “CASA DEL NESPOLO” . IN quESTO ARTICOLO DEL 1939, IL VENTENNE GIAIME PINTOR (1919-1943) OFFRE uNA SuA LETTuRA DEL CAPOLAVORO DI GIOVANNI VERGA, EVIDENzIANDONE LIMITI E PREGI ANChE IN RELAzIONE AI GuSTI E ALLE TENDENzE LETTERARIE DEL SuO TEMPO.

La stagione di Aci Trezza

Quella di Giaime Pintor è una figura resa leggendaria dalla fine precocissima, ma è assai probabile che - se avesse vissuto - sarebbe stato un protagonista del nostro Novecen-to letterario. Nato a Roma nel 1919, morì ad appena ven-tiquattro anni, nel dicembre 1943, ucciso da una mina sul Volturno mentre cercava di attraversare le linee nemiche per unirsi alla Resistenza contro i nazisti. Fratello del cele-bre Luigi, che fonderà il quotidiano Il Manifesto, Giaime - uno dei primi collaboratori, assieme a Leone Ginzburg e Cesare Pavese, della casa editrice Einaudi - fu raffinato traduttore di poesia (nello specifico da Rilke), saggista e critico acuto: tra le sue opere, inevitabilmente poche, ri-mane la raccolta Il sangue d’Europa, pubblicata postuma da Einaudi nel 1950 e ristampata nel 1975. Oggi fuori ca-talogo e reperibile solo sul mercato antiquario, raccoglie alcune decine di saggi brevi, interventi e recensioni. Pro-poniamo ai lettori l’articolo dedicato all’opera di Giovanni Verga, originariamente apparso sul periodico Oggi del 16 dicembre 1939.

palomar20

rarne la solenne libertà, e precisamente in quell’addensarsi di conclusioni che, secondo noi, vizia la seconda parte. (Si accet-tino queste note a un momento dell’opera soprattutto come mezzo per chiarirne la piú giusta grandezza e insieme come segno di una divergenza dal giudizio comune).

A tutti i personaggi nel risolversi del racconto è assegnata una sorte: uomini e donne che in principio vivevano della loro libertà non sfuggono a una definizione e a una sentenza. Assumono cioè la loro parte, secondo il proposito dell’autore e i suggerimenti della dottrina: entrano a costituire il quadro sociale. Sono anche le pagine in cui Verga cede di piú al colo-re, quel colore meridionale e sanguigno, scenario inevitabile della nostra prosa verista, che in opere assai meno ricche come i romanzi della Serao e in parte i bozzetti di Di Giacomo, doveva prevalere sul dramma o avviarlo a soluzioni facili. Qui indebolisce solo il dramma di ’Ntoni, in cui altri vide il cen-tro dell’opera come quello in cui l’umanità di queste creature pone più evidenti i suoi problemi; che per noi invece segna già la deriva del racconto. Con la malavita di ’Ntoni e quella sua coltellata, con la caduta di Lia declina a un’avventura carnale e romanzesca il fato terrestre dei Malavoglia.

Si è detto fato, e quest’accenno al declino potrebbe autoriz-zare interpretazioni mitiche molto lontane dal nostro pensie-ro. I richiami alla tragedia greca, come quelli al mondo lette-rario russo, hanno qui il solito debole valore di suggestione critica. Il fato dei Malavoglia è solo la dura traccia della loro vita, la necessità della loro esistenza e, letterariamente, la ra-gione dell’opera. Anzi, occorre insistere sull’aggettivo «terre-stre».

Fino da principio la sorte si annuncia ai Malavoglia in una sua esemplare materializzazione: il carico dei lupini. E i lupini torneranno nel discorso e nell’azione come una guida ineso-rabile alla vita dei protagonisti. Poi questi elementi terrestri si ripeteranno, saranno come i nodi dell’azione, quasi idoli per i personaggi, e per noi simboli letterari di una straordinaria evidenza (i lupini, la chiusa della Vespa, la barca). La casa è forse il piú gentile di questi simboli e il piú ricco, quella casa del nespolo che il distacco e l’amore dei Malavoglia rendono a una umana presenza.

Sulla felicità non casuale di certi nomi che disegnano le im-magini piú care (la casa del nespolo, la Mena detta Sant’Aga-ta), ci si potrebbe fermare per misurarne il difficile peso. Cosí un altro elemento non trascurabile sono le sentenze che ricor-rono fino all’ultimo. Sembrano faticosi e inutili, quei prover-bi, o se mai debolmente pittoreschi. Ma la loro funzione di architettura nel povero mondo logico dei pescatori si precisa quando padron ’Ntoni infermo e sfinito non sa piú parlare che attraverso un parossismo di proverbi, e il rompersi delle frasi nei detti consueti segna barlumi di pensiero e disperati tentativi di aggrapparsi alla vita di prima.

È anche difficile riconoscere la simpatia verghiana, l’amo-re ai personaggi nella loro astrazione e quindi nella lettera. L’unica vicenda narrata con amore è quella di Alfio e Mena, e ai due giovani viene come una casta nobiltà: sono senza col-pa, ma nessuna piega di simpatia li accompagna. Del resto i Malavoglia si possono chiamare i veri uomini del romanzo perché i loro motivi costanti sono la povertà e il dolore; gli

altri vivono solo in funzione di sentimenti inferiori e preci-si. Fu la grande paura del preteso verismo: cedere a effusioni benevole; per cui, se Verga accettò inconsciamente formule negative, si tenne sempre lontano nel tempo della maturità da ogni possibile indulgenza di maniera. Fu anche, questo, piú volgarmente, il suo pessimismo.

Si sa che in questo libro poco zoliano mancano le descrizio-ni. L’unica nel senso tradizionale è quella della tempesta che in verità non conta tra le pagine migliori. (Invece le poche so-ste in cui si accenna alla natura hanno da questa loro rara pre-senza una strana freschezza: orti e giardini nel paese di mare, i campi, le strade siciliane). Ma il racconto incalza sempre con la sua necessità. Di solito i «fatti» decisivi sono riferiti in fretta, senza una dichiarata attenzione. E si è detto prima del decadere degli ultimi capitoli perché essi appunto contrastano con la misurata intelligenza di questa introduzione. Contro il precipitare della vicenda dei Malavoglia nel clamore del pro-cesso e nelle luci piú fosche sta l’origine della loro disgrazia, quel naufragio appena ricordato e la decisione dei due compa-ri di agire contro la famiglia. Qui, nell’incerto muoversi della sorte, la pretesa d’imparzialità, trasfigurata e resa concreta, ha quasi una sua reale giustificazione. O almeno si ha di fronte uno degli esempi piú persuasivi della funzione del narratore rispetto all’opera (e si pensa a Manzoni, qui come altrove).

palomar 21

Così, spoglia di ogni eccesso di sentimento è la morte della Maruzza, momento dell’opera tragica, non incontro di spunti emotivi. E l’annunzio è introdotto tranquillamente con uno di quei brevi racconti che servono anche in altre pagine: «Ma ella non sapeva che doveva partire anche lei... che doveva la-sciarli per via tutti quelli cui voleva bene e che gli erano at-taccati al cuore e glielo strappavano a pezzetti ora l’uno ora l’altro». È la conclusione di una lunga scena fra la madre e il figlio e nella sua indifferenza dice l’ora piú dolorosa dei Ma-lavoglia. Ma in questo annullare i fatti alla sola dignità lette-raria del racconto, nella piena vittoria del testo sulla cronaca, è forse il merito più grande di Verga narratore, è anche per noi la sua vera modernità. Padrone poi Scarfoglio di dire che Verga non aveva portato nulla alla tecnica del racconto, se per tecnica intendeva, come ancora s’intende, un giuoco di buoni accorgimenti.

Forse l’intelligenza dei motivi esteriori prevale in certe scene bellissime, come quella dell’annunzio di Lissa, che del resto giovano a distendere la forza del racconto, e riposano, come riposa sempre il breve e aspro umorismo verghiano. (In autori meno tenuti a un disegno o addirittura vaganti come Proust, la stessa necessità di riposo e di esercizio porta a quei lunghi

intermezzi ironici che in Proust, appunto per la loro autono-mia, hanno un valore quasi di «cadenza»).

Certo nessun accorgimento avrebbe potuto aggiungere no-biltà alle parole che salutano la partenza dalla casa: «Maruzza guardava la porta del cortile dalla quale erano usciti Luca e Bastianuccio e la stradicciola per la quale il figlio suo se n’era andato coi calzoni rimboccati mentre pioveva e non l’aveva visto più sotto il paracqua d’incerata». È una sosta appena vo-luta fra due riprese del racconto, ma quel ragazzo nella pioggia sotto il paracqua d’incerata porta su di sé tutta la stremata poesia dei Malavoglia.

Si è detto in principio della minore intensità dell’ultima parte, al declinare della vicenda. Che ha poi un esito felice, perché l’impallidire dei personaggi, quel chiudersi di ciascuno nella propria maschera, segna veramente il congedo. E benché il romanzo volutamente abbia la sua fine in un giorno come tutti gli altri («Ma il primo di tutti a cominciare la sua giorna-ta è stato Rocco Spatu»), si sente che la stagione di Aci Trez-za è trascorsa, che quegli uomini e quelle donne sono partiti come Padron ’Ntoni per il loro viaggio, piú lontano di Trieste e di Alessandria d’Egitto.

«Il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole»

palomar22

L’esordio del 1988

YoshimotoBanana

a cura di giuliano federici

Kitchen

ESTRATTI

palomar 23

La «normalità profonda»

Il segreto per comprendere e amare Banana Yoshimoto è cogliere, nella leggerezza della sua scrittura, la profondi-tà di ogni singola parola. Il tutto unito ad un linguaggio

fresco e originale che ha fatto parlare di un legame con lo sti-le dei manga. Caratteristica fondamentale di questi fumetti giapponesi, infatti, è l’abile costruzione di storie a prima vista semplici ma cariche di significato, storie in cui solitamen-te anche temi forti e difficili vengono affrontati con estrema delicatezza e leggerezza. È questo che commuove e appassio-na gli amanti del genere, la cui fortuna, iniziata negli anni cinquanta, ha toccato l’apice negli anni ottanta con manga (soprattutto nel genere degli shōjo, letteralmente “manga per ragazze”) di grande livello artistico e tematico. Il manga si impone come genere letterario a tutti gli effetti, amato so-prattutto da un pubblico femminile e realizzato per lo più da mangaka donne (per quanto non manchino eccezionali mangaka uomini). Il manga unisce la maestria del disegno all’originalità di storie sempre più ricercate e per nulla scon-tate dal punto di vista narrativo e tematico. A volte il manga affronta vicende caratterizzate da una complessa trama nar-rativa. I protagonisti sono per lo più adolescenti che devono fare i conti col dolore, la morte, l’amore, complessi rapporti familiari, la solitudine e il disagio adolescenziale.

È questo il clima da cui prende la mosse Kitchen, il primo lavoro di Yoshimoto e anche quello che le è valso il successo internazionale e l’ha posta all’attenzione di critica e pubblico.

Come si può conoscere l’animo umano nella sua profon-da complessità? Attraverso la cucina. È questa l’idea centrale dell’opera che l’autrice non esita ad esprimere chiaramente già nell’incipit:

Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene. Se possibile le preferisco funzionali e vissute. Magari con tantissimi strofinacci asciutti e puliti e le piastrelle bianche che scin-tillano. Anche le cucine incredibilmente sporche mi piac-ciono da morire. […] Siamo rimaste solo io e la cucina. Mi sembra un po’ meglio che pensare che sono rimasta proprio sola.

Per la giovane Mikage la cucina è tutto. È l’inizio e la fine di ogni cosa, il fulcro della sua solitaria esistenza, rifugio e protezione.

KiTCheN è IL PRIMO ROMANzO SCRITTO DALL’AuTRICE GIAPPONESE BANANA YOShIMOTO NEL 1988 E TRADOTTO IN ITALIANO IN PRIMA VERSIONE MONDIALE NEL 1991. IL TITOLO DERIVA DALL’OSSESSIONE DELLA PROTAGONISTA PER LA CuCINA. IL ROMANzO TRATTA DELLA PERDITA DELLA FAMIGLIA E DELLA POSSIBILITà DI RICOSTRuIRSENE uNA, SCEGLIENDOLA. MA NON SI PENSI ALLA FAMIGLIA TRADIzIONALE: MIkAGE (LA PROTAGONISTA) SCEGLIE DI VIVERE IN uNA FAMIGLIA DOVE LA MADRE è IN REALTà IL PADRE.

Penso che quando verrà il momento di morire, vorrei che fosse in cucina. Che io mi trovi da sola in un posto freddo, o al caldo insieme a qualcuno, mi piacerebbe affrontare tutto senza paura. Magari fosse in cucina! Prima che i Tanabe mi prendessero con loro, dormivo sempre in cucina. […] Mi chiamo Mikage Sakurai. I miei genitori sono morti tutti e due giovani. Perciò sono stata allevata dai nonni. Il nonno è morto quando ho cominciato le medie. Da allora io e la nonna abbiamo vissuto da sole. Pochi giorni fa all’improv-viso è morta la nonna. Sono rimasta di stucco.

È cosi, con straordinaria semplicità, in poche battute iniziali e alla maniera dei migliori manga, che Yoshimoto ci presenta la sua protagonista. Con la stessa semplicità ci dice che non ha mai avuto una famiglia tradizionale e che dopo la morte della nonna è rimasta sola al mondo, trovandosi a fare i conti con una realtà dolorosa e devastante (difficile e insopportabile per chiunque), con una solitudine che solo la cucina riesce a rendere meno pesante, quasi personificandosi in madre che custodisce e protegge come in un grembo.

Solo più avanti nel testo la scrittrice condensa in poche ri-ghe la sofferenza di Mikage.

Trascinandomi dietro quella vaga sonnolenza che accom-pagna la tristezza più cupa e senza lacrime, stesi il futon nella cucina silenziosa e splendente. […]

Volevo solo dormire alla luce delle stelle. Volevo svegliami nella luce del mattino. A parte questo, tutto il resto mi era completamente indifferente. Ma non potevo andare avanti cosi per sempre. È incredibile, la realtà.

Si noti la straordinaria “normalità”, a tratti infantile, con cui l’io narrante racconta tutto ciò. È questa la cifra del manga e la chiave per comprendere l’opera di Yoshimoto: la “normali-tà profonda”. Come afferma Giorgio Amitrano nel poscritto di Kitchen «è come se in lei l’istinto avesse assunto l’aspetto dell’esperienza e guidasse con mano sicura la scelta dei tempi, il disegno dei personaggi, il grado della temperatura emotiva, mentre l’atteggiamento verso la vita conserva ancora qualcosa di infantile, il tentativo di familiarizzarsi con la realtà attraver-so la fiction, come fanno i bambini con le fiabe».

Banana Yoshimoto, Kitchen, traduzione di Giorgio Amitrano, Feltrinelli, 1991

palomar24

Garcia LorcaFederico

RIcORDI

di Bruno rombi

Il volto della grandezza

«Un libro di poesieè un autunno morto»

palomar 25

Poeta nonostante se stesso

La sera del 16 luglio 1936 Federico Garcia Lorca sale sul wagon-lit dell’espresso dell’Andalusia che lo por-terà da Madrid a Granada per festeggiare, il 18 luglio,

coi genitori e altri famigliari (fra cui la sorella Concha, moglie del sindaco socialista della città, e i tre nipotini), la giornata di San Federico.

Il 12 luglio Carlo Sotelo, capo dell’opposizione di destra, viene assassinato mentre la situazione politica precipita.

Garcia Lorca può scegliere se fare un viaggio in Messico o restare in patria. Decide di partire per Granada.

Non iscritto a nessun partito, coltiva l’illusione che il suo atteggiamento possa essere inteso unicamente come una scel-ta culturale. Peraltro dalla sinistra è considerato soltanto un compagno di strada, mentre il peso politico effettivo, al di là di ogni sua supposizione, sta nelle sue idee, nei suoi scritti, nelle conferenze e interviste pubbliche in cui non si esime dal manifestare chiaramente il suo pensiero.

Scoppiata la rivoluzione si rifugia prima in campagna e poi presso i Rosales, i suoi amici falangisti, tra cui Miguel Luis, anch’egli poeta. Ma è nella lista nera. Nel febbraio preceden-te ha contribuito a fondare, con Rafael Alberti e Bergamin, l’Associazione degli Intellettuali Antifascisti e il 19 giugno ha terminato La casa di Bernarda Alba.

Molte sono le ipotesi su chi l’abbia tradito e fatto cattura-re. Si parlò di un intervento del papa Pio XI, che accusò di odio satanico verso Dio i repubblicani al potere in Spagna, ma qualcuno avanzò addirittura il dubbio che a tradirlo fossero stati i suoi parenti per liberarsi dello scandalo che suscitava col suo comportamento.

Molto noto grazie ai suoi scritti, non è improbabile che suo peccato capitale possa essere stato considerato il disprezzo per la Reconquista del 1492 (la caduta della Granada araba nelle mani dei sovrani fanatici Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia), per la cacciata degli ebrei, la distruzione di una civiltà impareggiabile e la creazione di “una terra desolata, po-polata dalla più squallida borghesia”, ossia il disprezzo per il fondamento della tradizione di grandezza e identità in nome della quale è avvenuto l’alzamiento di Franco.

E proprio il giorno dell’onomastico di Lorca il generalissi-mo Francisco Franco attua il golpe che sconvolgerà la vita de-gli spagnoli. Le colonne di nazionalisti, sbarcate dal Marocco, avanzano su Granada, Cordoba e Toledo, per puntare sulla capitale e fare i conti definitivi con la “canaglia marxista”. Il 16 agosto, di pomeriggio, un gruppo di falangisti si reca dai Rosales con un mandato di cattura per Federico Garcia Lorca, “agente russo”.

Che cosa sia accaduto al poeta tra il 16 e il 18 agosto resta ancora un mistero. Nella notte tra il 18 e il 19 un’auto lo pre-leva dalla sede del governatorato. Portato poco fuori Granada, a Fuente Grande, insieme ad altri tre compagni di sventura, all’alba del 19 viene fucilato a Viznar.

Muore così, misteriosamente, uno dei più grandi poeti che la Spagna abbia mai avuto.

Nato a Fuentevaqueros (provincia di Granada) il 5 giugno 1898 dall’agiato agricoltore Federico Garcia Rodriguez e da Vicenta Lorca Romero, maestra elementare, inizia gli studi sotto la guida materna per proseguirli poi nel collegio di Al-meria dove entra nel 1908. Costretto da una malattia a torna-re a casa, l’anno dopo si trasferisce con la famiglia a Granada dove inizia gli studi liceali al Collegio del Sacro Cuore.

Nel 1914 si iscrive alla Facoltà di Lettere e, per accontentare il padre, anche a quella di Giurisprudenza, non trascurando la musica (la madre gli aveva insegnato il solfeggio e la zia Isabel a suonare la chitarra).

Sotto la guida di un allievo di Verdi, don Antonio Segura, inizia lo studio del pianoforte e della composizione, mentre comincia ad interessarsi di folklore. Le prime poesie sono del 1916 quando, prendendo parte ad una spedizione archeologi-ca in Andalusia, incontra a Baeza Antonio Machado.

Del 1917, anno in cui compie molti viaggi attraverso la Spagna, è un suo articolo sul poeta romantico José de Zorrilla.

Costretto a rinunciare alla musica, per il cui perfezionamen-to intendeva trasferirsi a Parigi, sceglie la letteratura mentre stringe profonda amicizia col musicista Manuel de Falla e con il suo insegnante di diritto Fernando de los Rios, uno dei diri-genti più importanti del socialismo spagnolo. Nel 1918 pub-blica il suo primo libro Impresiones y paisajes, mentre nel ’19, stabilitosi a Madrid alla Residencia de Estudiantes, conosce, oltre a Salvador Dalì e Luis Buñuel, i poeti José Moreno Villa, Rafael Alberti, José Guillén, Pedro Salinas, Gerardo Diego: praticamente tutta la generazione degli anni ’20.

Nel 1919 pubblica la sua prima poesia, Balada de la placeta e nel 1920 viene rappresentata a Madrid, per una sola serata, la sua prima opera drammatica: El maleficio de la mariposa.

Nel 1921 inizia a collaborare alla rivista “Indice” di Juan Ramon Jimenez e pubblica il suo primo Libro de poemas, da cui mi piace citare la lirica del 1919 La sombre de mi alma (L’ombra dell’anima mia): L’ombra dell’anima mia/ fugge in un tramonto d’alfabeti,/ nebbia di libri/ e di parole. // L’ombra dell’anima mia! // Sono giunto alla linea dove cessa/ la nostalgia/e la goccia di pianto si trasforma / alabastro di spirito. // (L’ombra dell’anima mia!)//Il fiocco del dolore/ finisce, ma resta la ragione

SPOGLIATOSI A MANO A MANO DELL’IMPETO GIOVANILE, GARCIA LORCA hA ACquISITO IL SENSO PROFONDO DELLA MALINCONIA, quELLA MALINCONIA ChE, PRELuDIO AL SuO SPICCATO SENSO DELLA MORTE, GLI hA CONSENTITO DI ENTRARE, GIOVANISSIMO, NEL SuO REGNO, DOVE AVREBBE TROVATO IL VOLTO DELLA PROPRIA GRANDEzzA.

palomar26

e la sostanza/ del mio vecchio mezzogiorno di labbra/ del mio vecchio mezzogiorno/ di sguardi. // Un torbido labirinto/ di stelle affumicate/ imprigiona le mie illusioni/ quasi appassite. // L’om-bra dell’anima mia!// È un’allucinazione/ munge gli sguardi. / Vedo la parola amore/ sgretolarsi. //Mio usignolo! Usignolo!/ Can-ti ancora?

Nel luglio del 1922, con Manuel de Falla, organizza la fe-sta del “cante jondo”, il canto zingaresco della Spagna me-ridionale e comincia a lavorare alle poesie che avranno tale titolo. Il giorno dell’Epifania mette in scena, nella sua casa di Granada, un grande spettacolo di marionette con la col-laborazione musicale di De Falla. Nel febbraio si laurea in giurisprudenza ed è sempre nel 1922 che il generale Primo de Rivera instaura in Spagna la dittatura.

Nella primavera del 1925 è ospite dei fratelli Dalí a Cada-qués, in Catalogna e nell’aprile dell’anno successivo pubbli-ca, sulla “Revista de Occidente” l’Ode a Salvador Dalí con la scenografia del quale prepara la rappresentazione di Mariana Pineda che andrà in scena nel giugno del 1927.

Nel dicembre è ospite, a Siviglia, del grande torero Ignacio Sanchez Mejias, insieme a Guillén, Alonso, Alberti, Berga-min, e nel frattempo licenzia con le edizioni Litoral di Mala-ga le Canciones, da cui estrapoliamo Baldanza (Bilancia): La notte quieta, sempre. / Il giorno va e viene. //La notte morta e alta. / Il giorno con un’ala. // La notte sopra specchi/ e il giorno sotto il vento e la notissima Es verdad (È vero): Ah, che fatica mi costa/ amarti come ti amo! // Per il tuo amore mi duole l’aria,/ il cuore/ e il cappello. // Chi mi comprerà/ questo cordone che ho/ e questa tristezza di filo/ bianco per fazzoletti? // Ah, che fatica mi costa/ amarti come ti amo!

Nella primavera del 1928 pubblica a Granada due numeri della rivista “Il Gallo” che riscuotono un grande successo e, ai primi d’agosto, Romancero gitano, una raccolta in cui l’anima del poeta si manifesta con tutta la sua passione e con tutta la convinzione di gitano. In una delle confessioni del 1931 così afferma: “Credo che l’essere di Granada mi porti alla com-prensione simpatica dei perseguitati. Del negro, del gitano, dell’ebreo... del moro che tutti portiamo dentro. Granada sa di mistero, di cose che non possono essere e che tuttavia esi-stono. Che non esistono ma hanno importanza. O che con-tano precisamente per il fatto di non esistere, che perdono il corpo e tuttavia aumentano la forza del loro profumo”.

Basterebbe citare, a questo proposito, Preciosa y el aire (Bel-la e il vento) con quell’incipit fantasticamente incisivo: La sua luna di pergamena/ Bella suonando viene,/ per un anfibio sentiero/ di cristalli e d’allori. /Il silenzio senza stelle/ fuggendo la cantilena/ cade dove il mare batte e canta/ la sua notte piena di pesci... Oppure La casada infiel (La sposa infedele): E io che la portai al fiume/ credendo che fosse ragazza,/ invece aveva marito... con quel che segue.

Alla fine di giugno del 1929 parte per New York, passando per Parigi, Londra, Oxford. Durante il soggiorno come stu-dente alla Columbia University fa amicizia con Léon Felipe che gli fa leggere Whitman. In agosto va nel Vermont dove frequenta i quartieri degli emigranti e dei negri, affascinato dal jazz.

Nella primavera del 1930 accetta l’invito dell’Associazione Ispano-Americana di Cultura e si reca a Cuba per un ciclo di

conferenze. Alla fine dell’estate è ancora in Spagna dove il 24 dicembre viene rappresentata al Teatro Español di Madrid La zapatera prodigiosa.

Poema del cante jondo è il volume che esce l’anno dopo per i tipi delle “Ediciones Ulises”, mentre compaiono sulla “Re-vista de Occidente” le prime poesie nuovaiorchesi, dove il suo sentimento di fraternità per coloro che soffrono acquista accenti più forti, unitamente a una nota ironica che sconfina nel grottesco: Con un cucchiaio/ strappava gli occhi ai cocco-drilli/ e batteva il sedere alle scimmie/ con un cucchiaio...(Ode al re di Harlem).

Prepara intanto la raccolta di poesie El divan del Tamarit che sarà pubblicato cinque anni dopo dall’Università di Gra-nada. Nel 1932 organizza una sorta di Carro di Tespi con cui porta i classici verso un vasto pubblico. Nasce così “La Barraca” con cui Lorca percorre diversi paesi della Castiglia.

Nel 1933 la compagnia di Josefina Díaz de Antigas met-te in scena Bodas de sangre. La morte del suo grande amico Ignacio Sánchez Mejías, il più famoso torero dell’epoca, gli ispira il famoso Llanto, che così inizia nel primo dei quattro tempi (Il cozzo e la morte) in cui il poema è diviso: Alle cinque della sera. / Eran le cinque in punto della sera. / Un bambino portò il lenzuolo bianco/ alle cinque della sera./Una sporta di calce già pronta/alle cinque della sera./Il resto era morte e solo morte/ alle cinque della sera...

Dopo un ciclo di circa sei mesi di conferenze, rappresen-tazioni teatrali e letture delle sue poesie in Argentina e Uru-guay, tornato in Spagna, trova il suo paese in preda a grandi disordini. Lo sciopero dei minatori delle Asturie dell’ottobre 1934 preannuncia il calvario spagnolo. Del 1935 sono le rap-presentazioni di Yerma a Madrid e di Doña Rosita la soletera a Barcellona. Ma la Spagna è sconvolta dal franchismo che durerà anni e durante il quale il poeta troverà la morte per mano di ignoti.

Ci rimangono le tante sue liriche, che compongono un monumento unico della poesia mondiale, perché Federico Garcia Lorca fu un innovatore e della sua ispirazione si ali-mentarono i poeti della sua generazione e di quelle che se-guirono.

Lorca, in definitiva, era un poeta nonostante se stesso: era soltanto un poeta con un fuoco interiore che ha finito per fondere e amalgamare l’intera sua opera, tassello del tutto particolare dell’affresco lirico spagnolo del Novecento.

Personaggio senza regole, esterno anche ai canoni della poe-sia della sua epoca, ha tuttavia contribuito, con l’apporto della sua arte, a far sì che la letteratura spagnola perdesse quel senso di solitudine che lamentava Unamuno.

Spogliatosi a mano a mano dell’impeto giovanile, Garcia Lorca ha acquisito il senso profondo della malinconia, quella malinconia che, preludio al suo spiccato senso della morte, gli ha consentito di entrare, giovanissimo, nel suo regno, dove avrebbe trovato il volto della propria grandezza.

Basti a confermarlo il senso di lapidaria sintesi dei versi del-la lirica Raggi, tratta dalla Suite de los espejos con cui vogliamo concludere questo nostro breve contributo alla sua migliore conoscenza.

Tutto è ventaglio. / Fratello: apri le braccia,/ Dio è il punto.

palomar 27

Oltre 170 film.Foto di scena, locandine, schede.

Prenotatelo!

palomar28

campegiani

Le visioni di un filosofolIBRI

Franco

di marcello De toni

Ribaltamenti

palomar 29

campegiani

Ribaltamenti

Ecco alcuni commenti al saggio Ribaltamenti da parte di autorevoli critici.

«Un libro di filosofia che si pone, in realtà, “contro” la fi-losofia. Il pensiero è percorso interiore dell’Uomo, insito in lui, fin dall’infanzia, da tempo immemorabile; ed è preceden-te all’avvento di qualsiasi società civilizzata e di qualsivoglia codificato sistema filosofico. L’autore non vuole convincere nessuno, né - a sua volta - creare una nuova filosofia, poiché entrerebbe in contraddizione con quanto lui stesso intende sostenere. Ama comunicare ad altri le sue riflessioni, sempli-cemente, senza luci di ribalta o plauso di platee. Non desidera spiegare né insegnare nulla, “ma ragionar, per isfogar la men-te”, per dirla con un verso del sommo poeta… Bellissimo, tra gli altri, il capitolo intitolato “Discorso sul Mito”. Un vero e proprio saggio dentro il saggio. Magnifico libro!».

Marina Caracciolo

«Ribaltamenti non è soltanto un testo letterario ma anche, e soprattutto, un’esperienza di vita, un percorso spirituale. Quest’opera di pensiero nasce dalla necessità dell’autore di un dialogo interiore ostinato, alla ricerca del proprio pensiero profondo, puro, non contaminato dai convenzionalismi, li-bero dalle sovrastrutture sociali e culturali. Un impegno non da poco, teso a contattare il “pensiero che ci pensa”, come egli

dice, quell’”alterego ultrafisico”, quella “scintilla divina”, quel nucleo di energia cosmica individuale, esterna alla materia ce-rebrale, la cui esistenza alcuni ricercatori sono giunti a postu-lare anche in base alle ultime scoperte della fisica quantistica e delle neuroscienze. Un lavoro non soltanto teoretico, ma so-prattutto pratico, perché comprendere quelle leggi non basta: bisogna sperimentarle nel vissuto quotidiano quelle norme, mentre noi temiamo il contatto con la nostra saggezza arcana allineata con le leggi dell’Equilibrio. Per questo la civiltà ha abbandonato il sacro (anche se il sacro non ha abbandonato l’umano). Il motivo è semplice: il sacro chiede di fare cose sproporzionate alla nostra pigrizia, chiede di metterci in gioco continuamente e di essere liberi. Di essere umani soprattutto, e per la maggior parte di noi questo è troppo. Sorprende la densità dei contenuti, il rigore argomentativo, spesso mitigato da una rara grazia espositiva, che si avvale dell’immagine poe-tica, della metafora, dell’ossimoro. Sono centosettanta pagine fitte di riflessioni e suggestioni, raccolte lungo il corso di anni di costante esercizio, quasi un compendio del pensiero dell’u-manità, dalla notte dei tempi ai giorni nostri. Emerge il con-tinuo confrontarsi dell’autore con l’evoluzione, o involuzione, del pensiero più rappresentativo. Con uno sguardo asciutto e neutrale, secondo un metodo originale d’indagine, l’autore restituisce un modello filosofico “visivo”, quasi tangibile, uti-lizzando una forma letteraria accessibile al pubblico più vasto. Questo è il frutto di una pratica costante volta alla conoscen-za - autoconoscenza - e di una grande capacità comunicativa maturata con gli anni. Altra caratteristica di questo testo è che non richiede necessariamente una lettura consequenziale, procedendo come si fa generalmente dalla prima all’ultima pagina. Si può aprire il libro a caso e leggere senza avvertire disorientamenti. Ci si trova sempre nel pieno di avventurose speculazioni».

Pio Ciuffarella

«Mi sono trovato di fronte ad un importante percorso di ri-flessioni sulle quali è poggiato un costrutto filosofico che riesce ad affascinare per profondità, per capacità espositiva, per linea-rità pur nel complicato intreccio di asserzioni e considerazioni. Ribaltamenti, a mio giudizio, andrebbe proposto nelle scuole, non solo per quanto dice (tutto è opinabile!) ma per l’estrema cura del linguaggio attraverso la quale credo sia possibile avvi-cinare i giovani agli argomenti filosofici e discuterli».

Eugenio Rebecchi

Ribaltamenti. Democrazia dell’arché e assolutismi della dea ragione,

David and Matthaus, 2017

dialogare con sé stessiIL SAGGIO, EDITO DA DAVID AND MATThAuS, è uSCITO LO SCORSO ANNO ED hA RACCOLTO uN NuMERO RAGGuARDEVOLE DI SuCCESSI E RICONOSCIMENTI. FRANCO CAMPEGIANI è NATO NEL 1946 E VIVE A MARINO (ROMA). POETA, CRITICO, SAGGISTA E ACuTO CONOSCITORE DEL MONDO DELL’ARTE, RIVELA uNA RARA CAPACITà ANALITICA ChE quESTO uLTIMO LIBRO TESTIMONIA ChIARAMENTE.

È l’autore stesso a spiegare il senso del suo saggio filosofico. «Di quale ribaltamento si parla in que-ste pagine? Potremmo dire di un ribaltamento

del ribaltato, quindi di un ritorno alle leggi di equilibrio del creato. In pratica, un rovesciamento dello sguardo da un’angolazione esteriore e superficiale ad una prospettiva interiore profonda, non certo per restare reclusi nei recinti dell’io (sarebbe intimismo), ma per tornare in superficie con maggiore equilibrio e migliore lucidità. Fondamenta-le l’autocritica, che non è una scuola iniziatica riservata a pochi eletti, bensì una facoltà di cui siamo tutti indistin-tamente dotati. Purtroppo usiamo raramente tale facoltà, ma se per pura ipotesi decidessimo di utilizzarla nel senso più pieno, tutti i problemi da cui siamo afflitti svanireb-bero nel giro di ventiquattr’ore. È utopistico pensarlo, ma non c’è dubbio che una diffusa autodisciplina riuscirebbe a migliorare notevolmente la situazione. Purtroppo noi abbiamo reso difficile ciò che è semplice e che persino un bambino conosce benissimo, ponendolo in atto con disin-volta spontaneità. Cosa fa infatti il bambino? si sdoppia e dialoga con se stesso per carpire le proprie voci interiori, le proprie verità».

palomar30

vERSI Il Senator Trilussa

AVARIzzIA

Ho conosciuto un vecchioavaro, ma avaro: avaro a un punto taleche guarda li quatrini ne lo specchiope’ vede raddoppiato er capitale.

Allora dice: quelli li do viaperché ce faccio la beneficenza;ma questi me li tengo pe’ prudenza...E li ripone ne la scrivania.

ACCIDIA

In un giardino, un vagabonno dormeaccucciato per terra, arinnicchiato,che manco se distingueno le forme.

Passa una guardia: - Alò! - dice - Cammina! -Quello se smucchia e j’arisponne: - Bravo! Me sveji propio a tempo! M’insognavoche stavo a lavorà ne l’officina!

Il 26 ottobre del 1871 nasceva a Roma il poeta e scrittore Trilussa, pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Salustri (salustri - trilussa), celebre per i suoi versi in dia-

letto romanesco e per lo stile satirico e dissacrante degli usi e dei costumi della borghesia e critico nei confronti dei titolari del potere nella sua epoca.

Le prime pubblicazioni di Trilussa, prevalentemente sonet-ti, risalgono agli anni intorno al 1890, soprattutto sul quoti-diano romano Il Messaggero, col quale collaborerà per lungo tempo. La prima pubblicazione libraria è del 1889: Stelle de Roma. Versi romaneschi. Seguiranno poi moltissime raccolte tra cui Quaranta sonetti romaneschi (1894), Favole romanesche (1901), Sonetti romaneschi (1909), Omini e bestie (1914) e il celebre poemetto La vispa Teresa (1917). Durante gli anni del fascismo Trilussa non solo non prese mai la tessera del partito, ma riuscì a non subire conseguenze per il fatto di definirsi sempre non-fascista (pure se mai si dichiarò esplicitamente antifascista) e pur non mancando mai tuttavia, neanche du-rante il regime, di continuare a satireggiare il potere così come la cieca obbedienza del popolo.

Trilussa morì nel 1950, poco dopo essere stato insignito del titolo di senatore a vita dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Ma, non godendo di buona salute, pare che il commento al prestigioso riconoscimento, sempre nel suo irrinunciabile stile sardonico, sia stato: “Mi hanno nominato senatore a morte”.

Per ricordare insieme la grandezza di Trilussa vi proponiamo una selezione di dieci poesie molto brevi ma che sintetizza-no efficacemente la capacità dell’autore di individuare, anche solo in poche righe fulminanti, ipocrisie e meschinità non solo borghesi, ma più universalmente umane.

palomar 31

LA LUCCIOLA

La Luna piena minchionò la Lucciola:- Sarà l’effetto de l’economia,ma quer lume che porti è deboluccio...- Sì - disse quella - ma la luce è mia!

CARItà CRIStIANA

Er Chirichetto d’una sacrestiasfasciò l’ombrello su la groppa a un gattope’ castigallo d’una porcheria.- Che fai? - je strillò er Prete ner vedello

- Ce vò un coraccio nero come er tuope’ menaje in quer modo... Poverello!...- Che? - fece er Chirichetto - er gatto è suo? -Er Prete disse: - No... ma è mio l’ombrello! -

LA tARtARUGA

Mentre una notte se n’annava a spasso,la vecchia tartaruga fece er passo più lungo de la gamba e cascò giùcò la casa vortata sottoinsù.

Un rospo je strillò: “Scema che sei!Queste sò scappatelle che costeno la pelle...”- lo so - rispose lei - ma prima de morì,vedo le stelle.

ER SOMARO E EL LEONE

Un Somaro diceva: - Anticamente,quanno nun c’era la democrazzia,la classe nostra nun valeva gnente.Mi’ nonno, infatti, per avé raggionese coprì co’ la pelle d’un Leonee fu trattato rispettosamente. - So’ cambiati li tempi, amico caro:- fece el Leone - ormai la pelle mianun serve più nemmeno da riparo.Oggi, purtroppo, ho perso l’infruenza,e ogni tanto so’ io che pe’ prudenzame copro co’ la pelle de somaro!

BONSENSO PRAtICO

Quanno, de notte, sparsero la voceche un Fantasma girava sur castello,tutta la folla corse e, ner vedello,cascò in ginocchio co’ le braccia in croce.Ma un vecchio restò in piedi, e francamentevoleva dije che nun c’era gnente. Poi ripensò: “Sarebbe una pazzia.Io, senza dubbio, vede ch’è un lenzolo:

ma, più che di’ la verità da solo,preferisco sbajamme in compagnia.Dunque è un Fantasma, senza discussione”.E pure lui se mise a pecorone.

A ChI tANtO E A ChI GNENtE!

Da quanno che dà segni de pazzia,povero Meo! fa pena! È diventatopallido, secco secco, allampanato,robba che se lo vedi scappi via!

Er dottore m’ha detto: - È ’na maniache nun se pò guarì: lui s’è affissatod’esse un poeta, d’esse un letterato,ch’è la cosa più peggio che ce sia!

Dice ch’er gran talento è stato quelloche j’ha scombussolato un po’ la mentepe’ via de lo sviluppo der cervello...Povero Meo! Se invece d’esse mattofosse rimasto scemo solamente,chi sa che nome se sarebbe fatto!

LA StAtIStICA

Sai ched’è la statistica? È na’ cosache serve pe fà un conto in generalede la gente che nasce, che sta male,che more, che va in carcere e che spósa.

Ma pè me la statistica curiosaè dove c’entra la percentuale,pè via che, lì, la media è sempre egualepuro co’ la persona bisognosa.

Me spiego: da li conti che se fannoseconno le statistiche d’adessorisurta che te tocca un pollo all’anno: e, se nun entra nelle spese tue,t’entra ne la statistica lo stessoperch’è c’è un antro che ne magna due.

LI NUMMERI

Conterò poco, è vero:- diceva l’Uno ar Zero -- ma tu che vali? Gnente: propio gnentesia ne l’azzione come ner pensierorimani un coso vôto e inconcrudente.

Io, invece, se me metto a capofilade cinque zeri tale e quale a te,lo sai quanto divento? Centomila.

È questione de nummeri. A un dipressoè quello che succede ar dittatoreche cresce de potenza e de valorepiù so’ li zeri che je vanno appresso.

palomar32

«Vederti nuda è ricordare la terra»

Fede

rico

Ga

rcia

Lorc

a