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L E PROSPETTIVE FI NANZI A RI E U E 2 0 0 7 / 2 0 1 3 QUALI OPPORTUNITÀ PER NAPOLI E LA CAMPANIA Mezzogiorno Dallo squilibrio alla serendipity? Amedeo Lepore " a pag. 8 LUCIANO D’ALESSANDRO FOTOGRAFO NAPOLETANO PELLEGRINO DEL SOLE La scuola come risorsa nella Napoli d’oggi Giorgio Napolitano O gni volta che sono tornato a Napoli da Presidente della Repubblica, e mi sono sentito dire o gridare “fate qualcosa per Napoli”, ho avvertito un senso di grande imbarazzo e preoccupazione, perché forse si pensa che il Presidente della Repubblica abbia chissà quali poteri. " a pag. 52 Il Partito Democratico “Nomen sine re” oppure il futuro d’Italia? Discutiamone Biagio de Giovanni Q uesto articolo è scritto seguendo il metodo delle dispute filosofiche medievali. So che Enrico Morando scriverà a favore della costitu- zione del partito democratico. Io espongo le ragioni che si oppon- gono. E dunque devo essere netto e conseguenziale, allineando uno dopo l’altro gli argomenti contrari. Essi dunque non vogliono avere il valore di una deduzione assoluta, e magari amerebbero di essere smentiti, ma devono mettere plasticamente in evidenza il senso della controversia. Al pubblico, il giudizio. Se il partito democratico è un “nomen sine re”, o il futuro d’Italia. In questa fase, essenziale è discutere. " a pag. 3 Cetti Capuano " a pag. 54 FONDI 2000/2006 G L I EFFE T TI SUL MEZZOGIORNO Caterina Nicolais Q U A D R O P O L I T I C O E NORMATIVO Pasquale Caccavale " a pag. 20 " a pag. 33 La Scuola d’Inverno della Fondazione Mezzogiorno Europa Una nuova classe dirigente per il Mezzogiorno Giulia Velotti " a pag. 17 Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Periodico della FONDAZIONE MEZZOGIORNO EUROPA Novembre/dicembre 2006 Anno VII Numero 6 Direttore ANDREA GEREMICCA Art director LUCIANO PENNINO Sfregio Maresa Galli 57 Un Golfo di miti e di storie Teresa Megale 60 Nel digitale di Dionysos Teresa Megale 61 LIBRI Euronote Andrea Pierucci 64 INFO

Numero 6/2006

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Rivista Mezzogiorno Europa

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L E P R O S P E T T I V EF I N A N Z I A R I E U E2 0 0 7 / 2 0 1 3

Q U A L I O P P O R T U N I T ÀPER NAPOLI E LA CAMPANIA

MezzogiornoDallo squilibrioalla serendipity?Amedeo Lepore " a pag. 8

LUCIANO D’ALESSANDROFOTOGRAFO NAPOLETANO

PELLEGRINO DEL SOLE

La scuola come risorsa nella Napoli d’oggi

Giorgio Napolitano

Ogni volta che sono tornato a Napoli da Presidente della Repubblica, e mi sono sentito dire o gridare “fate qualcosa per Napoli”, ho avvertito un senso di grande imbarazzo e preoccupazione, perché forse si pensa che il Presidente della Repubblica abbia chissà quali poteri. " a pag. 52

Il Partito Democratico

“Nomen sine re” oppure il futuro d’Italia? Discutiamone

Biagio de Giovanni

Questo articolo è scritto seguendo il metodo delle dispute filosofiche medievali. So che Enrico Morando scriverà a favore della costitu-zione del partito democratico. Io espongo le ragioni che si oppon-gono. E dunque devo essere netto e conseguenziale, allineando

uno dopo l’altro gli argomenti contrari. Essi dunque non vogliono avere il valore di una deduzione assoluta, e magari amerebbero di essere smentiti, ma devono mettere plasticamente in evidenza il senso della controversia. Al pubblico, il giudizio. Se il partito democratico è un “nomen sine re”, o il futuro d’Italia. In questa fase, essenziale è discutere. " a pag. 3

Cetti Capuano " a pag. 54

FONDI 2000/2006G L I E F F E T T ISUL MEZZOGIORNO

Caterina Nicolais

Q U A D R OP O L I T I C OE N O R M A T I V O

Pasquale Caccavale

" a pag. 20 " a pag. 33

La Scuola d’Inverno della Fondazione Mezzogiorno Europa

Una nuovaclasse dirigente

per il Mezzogiorno

Giulia Velotti " a pag. 17

Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della FONDAZIONE MEZZOGIORNO EUROPA • Novembre/dicembre 2006 • Anno VII • Numero 6 • Direttore ANDREA GEREMICCA – Art director LUCIANO PENNINO

SfregioMaresa Galli 57

Un Golfo di miti e di storieTeresa Megale 60

Nel digitale di DionysosTeresa Megale 61

LIBRI

EuronoteAndrea Pierucci 64

INFO

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Per me il cuore dei problemi è la questione delle oligarchie:

l’autoconservazione di sè,la cooptazione, il blocco delle frontiere

Biagio de Giovanni

Dalla Prima

Oligarchie frementi per la pro-pria stabilizzazione; celebrazione delle “primarie” come atto di na-scita del nuovo partito, con accenti plebiscitari e strumentali che stra-volgono il senso politico di quella data; iperideologismo assestato intorno all’incontro fra “le grandi tradizioni del riformismo italiano” reso possibile dalla “fine del Nove-cento”; mondo cattolico-sociale e mondo postcomunista (Marghe-rita e Ds) alla ricerca di un nuovo compromesso che questa volta la storia del mondo sembra render possibile; riduzione al minimo di altri contributi, di altri filoni di culture politiche nel frattempo minimizzate ed emarginate e solo assai parzialmente introiettate; discussione sulle forme e sulle regole di convivenza e carenza di specificazione storica sui contenuti di questo nuovo riformismo e sulla sua effettiva funzione nazionale.

Enuncio, all’inizio, non una sentenza apodittica, ma provo a mettere in fila quelli che a me paiono i gravi elementi di preoccu-pazione che modalità e forme del dibattito sulla nascita del partito democratico sembrano mettere in prima evidenza. Mai, che io sappia, per quanto interroghi la storia, un nuovo partito (e anzi, come si prefe-risce dire, un partito nuovo ) è nato così. Dal mescolamento di una data interpretata in modo plebiscitario (alle primarie, il popolo ha parlato e sostanzialmente deciso tutto: estre-mizzo, ma Parisi non ha mai detto nulla di diverso) con un incontro fra gruppi dirigenti consolidati che non hanno certamente brillato per gestione democratica dei partiti che rispettivamente dirigono. Per me, al cuore dei pericoli, è la questione delle oligarchie.

LA Q U E S T I O N EDELLE OLIGARCHIE

Ed è dunque la prima alla qua-le voglio dedicare attenzione. Se il popolo ha già parlato, invocando unità, la classe politica che lo ha percepito è legittimata ad agire e a dirigere nella sua struttura attuale, attraverso una sommatoria desti-nata a consolidare e corroborare gli attuali equilibri. Ma la legge delle oligarchie, enunciata tanto tempo fa da Roberto Michels, è ferrea: è l’autoconservazione di sé, la coop-tazione, il blocco delle frontiere. La somma di più oligarchie, in un tempo per sua natura oligarchico, quando la rottura della dialettica fra partiti e società ha fatto dei pri-mi strutture separate e arroccate intorno alla gestione delle istituzio-ni, è un rischio che l’Italia di centro sinistra (e l’Italia senza ulteriori specificazioni) non può sostenere, ma è un rischio di solare evidenza. La nascita di un nuovo partito, nel mondo moderno, ha comportato sempre lotta politica, dialettica aperta, gruppi sociali in movimen-to, gruppi dirigenti in formazione che nella lotta politica mettevano a rischio se stessi ed emergevano alla fine come legittimati dalla se-rietà dello scontro politico e delle idee che lo sorreggevano. Può un nuovo partito germinare dalla neu-tralizzazione di tutto questo? E non darà un risultato iperoligarchico? E non sarà, quello nuovo, un pun-to di equilibrio bilanciato intorno alle “quantità” che ciascun partito riuscirà ad immettere nel nuovo, nell’eclettismo di provenienze di-verse? Qualcosa che nasce in vitro, in una sorta di nuova calcolistica

intorno alle forze esistenti. Non si lascia amare. Sul campo appaiono burocrazie politiche e sommato-ria di esse. Naturalmente, si può immaginare la più facile delle ob-biezioni: ma perché mai tutto ciò è necessario che avvenga? Non sono gli “oligarchi” i legittimi dirigenti dei partiti che si apprestano a rea-lizzzare scioglimento e ricomposi-zione unitaria? Certo, lo sono. Ma il carattere asfittico della vita de-mocratica dei partiti che intendono unificarsi, la debolezza del dibattito pubblico al loro interno, il conti-nuismo come tratto dei loro gruppi dirigenti, restringe ampiamente il campo di questa legittimità forma-le. E nello stesso tempo ne esalta la dimensione di potere, l’effetto di padronanza sull’insieme del par-tito. Risuonano nella memoria le parole di Max Weber, dedicate alla degenerazione del partito moder-no. “Oggi, i capipartito, per i fedeli servizi loro prestati, distribuiscono cariche di ogni specie nei partiti, nei giornali, nelle associazioni, nel-le casse di malattia, nei comuni e nello stato. Tutte le lotte fra i partiti non avvengono soltanto per fini ob-biettivi, ma soprattutto per il patro-nato degli impieghi. Gli insuccessi nella spartizione degli impieghi vengono risentiti più duramente che non gli smacchi subiti nei fini sostanziali”. Certo, i partiti non sono soltanto questo, una realtà storica complessa non ha mai solo una faccia, ma quella indicata, con la citazione di Weber, è sicuramen-te quella di gran lunga prevalente, e lo è – ecco il vero punto – in parti-colare in questo momento e in vista del partito democratico. Più che a un vero confronto sulle culture po-litiche che vogliono fondersi (dove si parla di questo?), il tema vero che preoccupa è quello delle “tessere” e del sistema di favori legato ai boss delle tessere. I partiti svolgono il loro gioco in un circuito chiuso. La partitocrazia senza partiti è al suo massimo fulgore, e sembra svi-lupparsi ancora di più in vista del partito democratico. Dunque, non è in discussione la legittimità for-male degli organismi che decidono,

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ma l’asfissia democratica che li ca-ratterizza, e siamo dunque nel mo-mento meno adatto per un grande cambiamento giacché, provenendo questo cambiamento tutto dall’alto (con il sostegno del plebiscitarismo delle primarie), i difetti e le pecche non potranno che moltiplicarsi esponenzialmente, ampliarsi con potenza geometrica. La sintesi di oligarchie minori sarà con ogni probabilità una oligarchia più este-sa e più internamente conflittuale in funzione del suo assestamento di potere. Insomma, ne vedremo delle belle, anche in relazione alla situa-zione descritta da Max Weber, ma tanto più carica di eventi generali di potere quanto più la provenienza dei gruppi dirigenti da esperienze e organizzazioni diverse non po-trà non porre in forma di conflitto corporativo fra oligarchie la sparti-zione dei rispettivi pesi politici. La Campania, da questo punto di vista, produce insegnamenti interessanti. Ci troviamo, insomma, anzitutto di fronte a un tema di scienza politica, poi passeremo ad altro; e non per caso, nella condizione iperideolo-gica che caratterizza il “dibattito” sul partito democratico (vedremo fra poco in che senso), è il tema al quale si presta minore attenzione, eppure su di esso gravano più for-temente che su altri le leggi della politica. Si disegna (nel mio pessi-mismo cosmico, dirà qualcuno, ma il bello del dibattito è che ognuno presenta le proprie idee, qualche volta sperando, magari, che siano falsificate dalla realtà) una cappa di piombo a tutto campo, mentre oggi la dialettica è, per forza di cose, un po’ più aperta, e dunque più capace di stimolare possibili autoriforme. Lo scenario della cappa di piombo potrebbe trovar smentita soltanto per il probabile scarso successo elettorale di tale operazione politica, ma in questo caso le conseguenze toccherebbero il destino stesso del centro-sinistra e del paese, e dunque non si sa che cosa preferire: ma anche su questo, più avanti.

Altra obbiezione potrebbe esse-re: ma se le cose stanno così, e se

i partiti di oggi sono ridotti nelle condizioni in cui dici, non è co-munque meglio provare a rompere i loro meccanismi fissati ad oggi, e tentare di instaurare una novità? Ma sono essi oggi a rompere questi meccanismi. Essi, nelle condizioni in cui sono, e si è visto quali dire-zioni prevalgono. E come da 1+1 può sortire tre? Per l’aggiunta degli ulivisti puri, i prodiani? Ma lascia-mo perdere, per non dimenticata carità di patria….E anche qui, per la legge dell’autoconservazione delle oligarchie burocratizzate (Weber-Michels), l’esito è, tendenzialmen-te, quello di moltiplicare i difetti del presente, aggravati, lo ripeto, dalla necessità di trovare un punto di equilibrio fra gruppi dirigenti provenienti da direzioni lontane e dunque costituzionalmente (e sto-ricamente) ostili fra loro. Rispetto alla consistenza e alla storia del proprio partito, invece, si potrebbe-ro immaginare oligarchie (e gruppi dirigenti) più possibiliste sul cam-biamento, più indotte a riaprire i canali di una dialettica politica che avrebbe, almeno, alle sue spalle, la relativa unità di una cultura politi-ca e la relativa comune provenienza dei gruppi dirigenti. Tutto ciò, in presenza dello stimolo di un gover-no comune, ipotizzandosi così una situazione assai più fisiologica. Ma anche su questo, più avanti. E dun-que passo al tema più scottante, che si può formulare nell’interrogativo che apre il paragrafo successivo.

PE R C H É D S E M A R G H E R I T A ?

Perché Ds e Margherita (questi sono i giocatori, non si crei inutile fumosità) si devono unificare in unico partito? Sembra che la ri-sposta più accreditata (Scoppola, Gualtieri, a Orvieto) sia: perché il Novecento è finito, e con esso i con-trasti che opponevano le “grandi tradizioni del riformismo italiano”, i cui protagonisti finalmente oggi, non contenti di governare insieme, possono sposarsi e fondersi in uno, dopo tante traversie. Sembra di as-sistere al finale di quei melodram-

mi dove, dopo molteplici peripezie, basate in parte su esilaranti equivo-ci in parte su più seriosi contrasti, finalmente la scena finale mostra l’abbraccio generale fra tutti i pro-tagonisti, i vari Leporello...Perché dunque anzitutto Ds e Margherita? Gli eredi del Pci e, almeno in par-te prevalente, gli eredi della DC? Perché, si dice, il loro antagonismo e la loro dialettica hanno fatto lar-gamente la storia politica dell’Italia del dopoguerra, DC ed PCI hanno combattuto e hanno collaborato, cattolici e comunisti hanno fatto la costituzione e costruito “in con-cordia discorde”lo Stato sociale e si son dati battaglia sui grandi temi delle scelte generali, oggi obsolete e “divorate” dal divenire della sto-ria. Oggi, finalmente, “finito” quel Novecento conflittuale e protervo, finite le ragioni di quelle opposte scelte generali, che nientemeno im-plicavano il principio stesso della democrazia e della libertà, non c’è più ragione di contrasto. L’Ulivo è precisamente il risultato di questa rappresentazione, e si dimentica di aggiungere che l’Ulivo non è un partito, ma un progetto di governo. L’atteggiamento iperideologico è già in azione. Bisogna andare un po’ a fondo su questa scorciatoia storico-concettuale, perché essa è assai rivelatrice. Intanto, essa libera tutti dalle responsabilità pregresse. Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. L’iperideologi-smo della “fine del Novecento” (di là dagli aspetti indubbi di verità che contiene, che appartengono a un piano diverso), preso come premessa di decisione politica qui consente la dimenticanza della sto-ria, si fonda su essa, impoverendo la consistenza ideale delle forze che intendono unirsi, come se il Novecento fosse stata una brut-ta parentesi, un secolo violento e protervo, con la cui conclusione va in archivio ogni contrasto conte-nuto entro di esso e vanno anche in soffitta le identità che si sono contrapposte ( o nella realtà una identità pensa di fagocitare l’altra, ma si tratta di vedere chi intende fagocitare chi?).

Dalla Prima

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[5]Il Partito Democratico

Dunque, finisce il Novecento e si abolisce il contrasto. Ma la fine del Novecento induce forse a dimenticare proprio quei con-trasti che furono l’aspetto nobile della dialettica politica, due idee di democrazia, due idee di libertà, due idee di capitalismo, due idee di Occidente. Tutto nell’archivio delle dimenticanze? Ma si dice: li possiamo dimenticare perchè non ci dividono più. Ma è proprio così, o il retaggio di quei contrasti viene semplicemente nascosto nelle pie-ghe del nuovo compromesso che rende possibile alla sinistra soprat-tutto di non fare veramente i conti con la propria storia? E non avviene per caso che, eliminati quei con-trasti, l’unità si costruisca sui lati negativi di un compromesso o sull’ ambiguità di un punto d’incontro che smussa angoli senza costruire nuove figure geometriche? Su che cosa, allora, si costruisce l’unità? Sull’incontro dei riformismi (“le grandi tradizioni” etc.), si dice, formula da un lato onnicompren-siva nella sua genericità (non certo risolta dal programma di gover-no, vero ircocervo, comprendente peraltro molte altre adesioni), dall’altro sommamente rivelatri-ce. Perché? Perchè il vero punto d’unità fra la tradizione cattolico-sociale e quella (post)comunista è in quella torsione del rapporto fra uguaglianza e libertà, fra so-lidarietà e diritti, per usare pa-role nobilissime, che ha dato vita alle drammatiche degenerazioni corporative e assistenziali dello Stato sociale italiano. Le grandi tradizioni del riformismo italiano si sono accorpate e hanno trovato accenti comuni in questo orizzonte schiettamente antieuropeo al di là dell’europeismo di facciata (l’enti-tà del debito pubblico italiano, di che cosa è frutto?). Hanno certo contribuito, insieme ad altri, alla modernizzazione dell’Italia e alla sua costituzionalizzazione, ma il ri-sultato che ne è sortito –come oggi in molti riconoscono- ha pagato un prezzo straordinariamente alto a quelle degenerazioni dello Stato di diritto che la rappresentazione

dello Stato sociale ha largamente indotto.

Con quale conseguenza, e frut-to di quale premessa? L’esclusione costante della cultura liberale dal contesto indicato. L’attacco com-patto e comune a ogni tentativo di farla comparire in forma non mino-ritaria, che si prolunga lungo tutta la storia della prima Repubblica, coinvolgendo la DC postdegaspe-riana e il Pci di Togliatti e Berlin-guer, ma anche il PDS di Occhetto. E non è dunque per caso che la cultura liberale è sostanzialmente esclusa dall’accordo di potere in corso. Prima, ho ricordato in modo un po’ tranchant la componente de-gli ulivisti puri e prodiani e il loro avanguardismo sul partito demo-cratico. Torno velocemente sul pun-to. È proprio il collante tardo-dos-settiano di Prodi a costituire prova ulteriore del difficile decollo di una cultura liberale nel costituendo partito democratico, a chiudere in una forbice le (deboli) componenti liberali della Margherita e della Quercia (Ah, Rutelli! Che delusio-ne!). Eppure questo sarebbe il vero nodo da affrontare. Altro che traf-fici di tessere! Altro che bilancino delle regole! Ma perchè non si apre una discussione sul merito? Non è tutto ciò estremamente sospetto? Da questo punto di vista, l’iperi-deologismo di Orvieto non porta pressocchè nessun contributo, con tutto il rispetto per gli Scoppola e i Gualtieri. La difficoltà ad aprire la discussione sta nel fatto che la “concordia discors” con quale si è proceduto alla costruzione dello Stato sociale in Italia ha prodot-to gigantesche concentrazioni di forze, arroccamenti corporativi di gruppi sociali, sindacalizzazioni a tutto campo, énclaves protette e improduttive, pubbliche ammi-nistrazioni incapaci e beffarde, sistemi di clientele oggi anche locali che solo una grandiosa of-fensiva culturale potrebbe mettere in discussione con grandi rischi elettorali. Perché su tutto questo si tace, con poche eccezioni? Per-chè non si lascia intendere che una nuova politica di un nuovo partito

è disposta ad affrontare i rischi necessari per mettere in relazione sviluppo, crescita e cambiamento? Le rivendicazioni di Piero Fassino sono vox clamans in deserto, voce sulla quale Prodi si concede ironie con aria di grande sufficienza. Pe-raltro, quella formulata prima è la stessa inquietante domanda che si è posto in questi giorni Nicola Rossi, sulla cui vicenda non è necessario qui tornare.

PR A T E R I E E L E T T O R A L I

Se il partito democratico do-vesse effettivamente nascere, vere e proprie praterie elettorali si aprirebbero sulla destra e sulla sinistra del nuovo partito. Sulla sinistra: alla sinistra antagonista verrebbe lasciato il testimone di una cultura politica che riuscireb-be ad estendere la propria logica elementare ma efficace in un rife-rimento costante all’ala iperulivi-sta del partito democratico: l’in-tesa Prodi-Bertinotti insegni. Ma soprattutto sul centro, la prateria non avrebbe confini, perdendosi in lontani orizzonti. La ragione è patente, ma va ancora sottolinea-ta. Il partito democratico rischia di essere una “corporazione di sinistra”, privata della forza etico-politica che questa parola ha avuto nella storia italiana ed europea. Per ragioni non solo attinenti ai rapporti di forza, i ds sono realtà assai più consistente della Mar-gherita, che è curioso coacervo di cose diverse, fra le quali alla partita tutta difensiva che sta gio-cando Ciriaco De Mita e all’esile rutellismo si aggiunge lo schietto e dichiarato dossettismo parisian-prodiano. Un coacervo di questo tipo avrà da un lato una influenza determinante per ridurre l’emer-gere di una cultura riformista fra i ds e dall’altro suonerà conferma di una tesi che attraversa il pensie-ro diessino (da Reichlin a Vacca: “da Gramsci al partito democra-tico”,. suona il titolo di un saggio di Vacca) secondo la quale stiamo assistendo all’esito di una vicenda

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al cui centro è la storia del partito comunista italiano. Non mi avven-turo qui nella analisi di questa tesi, che ha gli elementi sconcertanti delle storie a tesi, ma in qualche modo essa ha delle frecce al pro-prio arco. Il partito democratico, per certi aspetti, sembra la rie-dizione –in circostanze talmente diverse da non render la cosa fa-cilmente riconoscibile- dell’intesa fra la cultura dei cattolico-sociali e dei comunisti, del modo in cui i comunisti hanno inteso la pre-senza politica dei cattolici nella storia d’Italia per una sua ricom-posizione (e dunque più Togliatti che Gramsci). Ma la cosa rischia di essere oggi meramente ideolo-gica e priva di sostanziali effetti politici. La conseguenza probabile è che l’intero centro dello schiera-mento italiano rimarrà scoperto: ha ragione Clemente Mastella. Su questo punto, non mi avventuro più di tanto in previsioni assai lon-tane, ma non voglio tacere quella che è una mia netta impressione: a seconda di imprevedibili sviluppi del sistema complessivo, il partito democratico rischia la marginalità da un lato, la tendenza, dall’altro, a raccogliere l’elettorato più con-servatore dello status quo. Certo, la politica è anche l’arte del possi-bile, e qui non intendo “dedurre” la realtà del partito democratico come effettivamente sarà, ma mol-te premesse mi fanno pensare a una forbice fra la relativa margina-lità, esposta a ogni vento elettora-le, e, in caso di successo, la cappa di piombo del conservatorismo sul quadro italiano. Due ipotesi, come si vede, molto diverse, ma quello che proprio non mi riesce di vedere, allo stato degli atti, è il suo ruolo di partito riformista. Il riformismo, oggi, non si può sepa-rare da un visione radicale dei pro-blemi della società italiana e delle sue necessità di cambiamento. Il riformismo oggi deve avere tratti rivoluzionari. Ve la immaginate la prossima direzione del partito democratico, guardata in questa chiave? Il ritorno della politica al posto dello stanco compromesso?

Personalmente, non ci riesco. Vedo Fassino e Rutelli (tutto somma-to, gli unici, o quasi, resistenti”) stretti nell’abbraccio mortale con Prodi, e Prodi occhieggiare verso Bertinotti e company, rinvigoriti come eredi della “vera” sinistra. Non è questa l’Italia che vorrem-mo.

MA A L L O R A , C H E C O S A S I

D O V R E B B E F A R E ? Non il partito democratico, a

mio avviso, e i lettori se ne saran-no accorti. I tempi, anzitutto, non appaiono quelli giusti, e cerco di mostrare perché ormai con una massimo di brevità e quasi per punti veloci.

a) La sua nascita immobilizza la transizione italiana, ancora in cor-so. Coglie la transizione in mezzo al guado e la conduce in una dire-zione forzata, storicamente e poli-ticamente. Approfitta, sbagliando, del fatto che il centro-destra è stato unificato da Berlusconi, e il centro-sinistra dall’antiberlusconismo, senza porsi il problema del “dopo”, in parte già iniziato. Quando si riaprirà veramente la dialettica nel centro-destra, tutto il bipolarismo italiano avrà un sussulto e ridefini-rà la propria fisionomia. Il partito democratico sarà lì, come convitato di pietra di questa riorganizzazio-ne, e germineranno subito la sua crisi e le sue diaspore interne.

b) Ds e Margherita hanno mil-le ragioni per rivendicare identità storicamente diverse. Collaborare in un governo non significa uni-ficare i propri destini, chiudendo le porte a una proficua dialettica. Sintomatica, da questo punto di vi-sta, la questione della collocazione del nuovo partito nel Parlamento europeo: dove? Nel PSE o altrove? Irrisolvibile quesito alle luce del processo in corso. Ma irrisolvibile non per ragioni burocratiche, bensì per grandi ragioni che attengono a quella storia che si vuole dimen-ticare.

c) E infine, la sinistra italiana. Io credo che essa debba ancora

fare i conti con la propria storia, proprio ciò che il partito demo-cratico le impedirà di fare. Molti dicono: ma sarà proprio la nascita del partito democratico a sancire che i conti con quella storia sono stati fatti. L’argomento ha un suo fascino, ma non convince. È un argomento che lascia le maglie troppo aperte, e cade quando esse si stringono. E l’ambiguità della risposta si vede al massimo grado guardando a quelle tesi che vedono il nascente partito come frutto ge-nuino della storia del PCI, del rap-porto storico cattolici-comunisti. Ma è proprio con questa storia che la sinistra deve ancora fare i suoi conti, non tanto, s’intende, con le scelte di fondo per la democrazia politica che sono state fatte, e irre-versibilmente. Insomma, il partito democratico sembra condurre in una direzione esattamente oppo-sta a quella che consentirebbe alla sinistra italiana di fare i conti con la propria storia, che sono, anzi-tutto e ante omnia, i conti con la cultura liberale e liberal-sociali-sta, e con tutto ciò che essa implica in un rapporto innovativo fra pen-siero e azione politica. Fare questi conti, nella mia idea, è tutt’altro che rigettare il proprio passato negli archivi, perché il “Novecen-to è finito”. Questa tesi, da questo punto di vista, è una vera presa in giro tutta ideologica. Gli ultimi esiti del vecchio “nuovismo”. Altri sono i compiti della sinistra italia-na, nella sua autonomia, ma qui si aprirebbe tutt’altro capitolo e non posso approfittare ulteriormente della pazienza dei lettori.

Dalla Prima

Nel dibattitosul Partito

Democratico interverrà

nel prossimo numero Enrico Morando

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Margaret Carlyle, a conclu-sione di un ampio viaggio nelle regioni meridionali, che le aveva consentito

di entrare in contatto sia con le po-polazioni locali che con alcune delle maggiori competenze e personalità italiane, osservava – all’inizio degli anni sessanta del Novecento – che nel Sud: “dopo secoli di oppressione e stagnazione, si stanno finalmen-te verificando grandi cambiamenti nella vita sociale ed economica della popolazione. Vi sono già segnali di un vero risveglio, derivante da un impulso quasi dimenticato di speranza e fiducia, anche se sarà necessario uno sforzo instancabile per far proseguire questa spinta e fornire motivazioni alle nuove attese della popolazione”1. Il “ri-sveglio” del Mezzogiorno era dovuto ad una strategia ideata e propugnata nell’immediato dopoguerra: “una po-litica di sviluppo progettata da quegli italiani che erano interessati non solo a migliorare lo standard di vita dei conta-dini meridionali, ma anche ad elevare il livello economico dell’Italia intera, facendo del Mezzogiorno un partner ragionevolmente prospero nell’eco-nomia italiana, in grado di contribuire ad una ricchezza nazionale stabilmente in crescita, invece di rappresentare un peso che può essere solo considerato con ignominia da un paese dell’Euro-pa occidentale”2. Del resto, traspariva chiaramente – anche dall’analisi di chi si avvicinava all’Italia e al Mezzogiorno attraverso un first-hand study – che lo stimolo verso questa svolta era venuto da figure come quella di Pasquale Sara-ceno3, che, proseguendo e aggiornando l’opera di Francesco Saverio Nitti4, aveva collocato il processo di industria-lizzazione al centro delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno.

L’avvio di una seria e approfondita riconsiderazione della questione me-ridionale, che portò all’affermazione di un indirizzo di pensiero del tutto innovativo rispetto al “meridionalismo classico”, si verificò nella fase imme-diatamente successiva alla liberazione di Roma. Come ha ricordato proprio Pasquale Saraceno: “Il nuovo meridio-nalismo nasce nel 1944 come ricerca di un modello di sviluppo economico del Paese che fosse alternativo a quello che

aveva governato la nostra economia dal sorgere dello Stato unitario, un modello secondo il quale, a nostro avviso, si sarebbe svolta non solo la ricostruzio-ne postbellica, ma anche l’espansione della nostra economia al di là della ricostruzione. […] Già nel dicembre 1946 nascerà così la SVIMEZ; presso di essa si concreterà l’idea di intervento straordinario e, in seguito, una serie di prese di posizione che, condivisibili o non condivisibili, appartengono alla tematica dello sviluppo e non a quella dell’assistenza”5.

Nei primi anni del dopoguerra, quando si puntò a definire le condizioni per la riattivazione dell’industria e furono poste le basi per il successivo sviluppo italiano, si avvertì tutta l’acu-tezza del problema del Mezzogiorno, che non solo aveva patito le maggiori distruzioni belliche, ma era stato ul-teriormente indebolito dall’inflazione provocata dalla circolazione delle am-lire. In quella situazione, caratterizzata pesantemente da un quadro dualistico dell’economia italiana, sembrava dif-ficile individuare soluzioni che non finissero per riproporre la sequenza classica delle vecchie politiche indu-striali, tese a privilegiare l’apparato industriale laddove esisteva e ad affi-dare ad un effetto di traino successivo le sorti dell’economia meridionale. Tuttavia, proprio per rispondere ad un’esigenza profonda di modifica di quel “modello di sviluppo”, che non trovava convenienti gli investimenti per realizzare sviluppo e occupazione nel Mezzogiorno, si avviò l’esperienza del “nuovo meridionalismo”6. Dato che l’incremento del divario tra il

Nord e il Sud avrebbe comportato la destinazione di una parte della spesa pubblica in impieghi assistenziali, anziché produttivi, ci si cominciò ad interrogare sulla possibilità di “fina-lizzare quella spesa al fine di creare quella convenienza ad investire che mancava nel Mezzogiorno”7. Da qui ebbe origine il filone più fecondo del meridionalismo, che si ritrovò ad ope-rare all’interno dell’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzo-giorno, a partire dall’8 novembre 1946, quando l’allora Ministro per l’Industria e Commercio, Rodolfo Morandi, in-vitò ad una riunione preliminare “gli uomini del primo IRI”8, insieme ad altre personalità di rilievo del mana-gement economico-finanziario italiano e, precisamente: Giuseppe Paratore, Donato Menichella, Stefano Siglienti, Cesare Ricciardi, Giuseppe Cenzato, Oscar Sinigaglia, Paolo Albertario, Luigi Morandi, Stefano Brun, Vincenzo Caglioti, Francesco Giordani e Pasquale Saraceno9. Quell’incontro, preparato da precedenti colloqui intercorsi tra Meni-chella, Giordani, Cenzato e Saraceno, non rappresentò, tuttavia, il primo atto del “nuovo meridionalismo”.

Perlomeno altri due eventi rivesti-rono notevole importanza per la nascita della SVIMEZ, avvenuta a Roma il 2 dicembre 194610. Innanzitutto, l’espe-rienza della dirigenza dell’IRI, che era stata chiamata a fronteggiare la crisi dell’industria meridionale, avviando la ristrutturazione delle attività mec-caniche e siderurgiche napoletane già negli anni anteriori alla seconda guerra mondiale, a partire dal 193811. Questa vicenda aveva cementato la convinzio-ne della necessità imprescindibile e, al contempo, della concreta fattibilità di un processo di industrializzazione diffusa del Mezzogiorno, nel quadro di una crescita generale del paese12, permettendo l’avvio di una riflessione su un’iniziativa di questa natura e sugli enti che se ne sarebbero dovuti occu-pare, fin dagli ultimi mesi di vita del regime fascista. L’incontro tra Rodolfo Morandi e Pasquale Saraceno – che nel frattempo aveva lasciato l’IRI – al Ministero dell’Industria, nella fase preparatoria del “Piano di primo aiu-to”13, fu la scintilla che accese il fuoco dell’impulso riformatore. Il “carattere

L a S V I M E Z s i n d a i s u o i primi passi aveva mostrato di saper interpretare il ruolo di centro propulsivo d e l “ n u o v o meridionalismo”

Amedeo Lepore

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pragmatico del nuovo meridionalismo” ebbe origine proprio in riferimento al-l’intervento di salvataggio delle grandi banche, posto in atto nel 1933 grazie all’IRI, che, operando con “struttura e funzioni imprenditoriali”, acquisì “tutte le partecipazioni di comando di imprese, anche se in profitto, che le banche possedevano”14. In altre parole, la scelta dell’IRI aveva consentito il passaggio da un’azione rovinosa nel soccorso alle banche dopo la prima guerra mondiale, ad una strategia mirata, che comportò anche la rior-ganizzazione e la crescita del tessuto industriale nell’area napoletana: “Nella cultura dell’IRI prebellico era dunque presente l’urgente necessità della indu-strializzazione del Mezzogiorno; e ciò non tanto per sollevare le condizioni di vita della popolazione meridionale, che era posizione politica non pertinente a un ente di gestione, quanto di rendere più intenso e comunque più ordinato il progresso industriale del Paese”15. A questo proposito, risulta di grande interesse un documento dell’IRI del 3 settembre 1948, “sull’opera svolta e sul programma per il Mezzogiorno d’Italia”16. Da quella nota, infatti, risulta che le principali partecipazioni dell’IRI in aziende dell’Italia meridionale erano “iniziative, in alcuni casi anche relati-vamente recenti, che investono i settori più importanti, dal siderurgico all’agri-colo, e che hanno richiesto esborsi che, ragguagliati all’attuale valore della lira, possono valutarsi nell’ordine di 100 miliardi di lire, con l’impiego di un numero di dipendenti che ammonta attualmente a 28.000 unità”17. Il nucleo industriale più consistente era, per l’ap-punto, quello napoletano, costituito da aziende meccaniche (Navalmeccanica, Stabilimenti Meccanici di Pozzuoli, Industria Meccanica Napoletana, Me-talmeccanica Meridionale e Fabbrica Macchine), aziende siderurgiche (Ilva di Bagnoli e di Torre Annunziata) e aziende di trasporto (Tirrenia e Circu-mvesuviana)18.

L’altro avvenimento di rilievo, anche se troppo spesso trascurato, fu la formazione di un singolare Centro di studi e di attività, durato poco più di un anno. Il CEIM (Centro Economico Italiano per il Mezzogiorno) era sorto a Napoli nel luglio 1946 per “lo studio e

la realizzazione” di iniziative volte alla risoluzione dei problemi delle regioni meridionali: oltre a Giuseppe Paratore (allora presidente dell’IRI), Emilio Sere-ni, Giovanni Porzio, Giorgio Amendola e Giuseppe Cenzato (amministratore delegato della SME), gli altri protagoni-sti di quella originale esperienza furono Giuseppe Russo, Nicola Rivelli, Manlio Rossi Doria, Ferdinando Isabella, Pa-squale Mazzella, Ivo Vanzi, Cesare Foà, cioè, uomini di spicco dell’imprendi-toria e dell’intellettualità napoletana e meridionale19. La presidenza del Centro fu affidata a Paratore, con Amendola e Porzio vicepresidenti, un giovane Giorgio Napolitano e Giuseppe Russo segretari. L’ispirazione fondamentale del CEIM derivava sicuramente dal “bisogno che il mondo economico na-poletano sentiva […] di poter disporre di una sede da cui far sentire la propria voce in un momento oggettivamente difficile per l’economia italiana e me-ridionale”20. L’iniziativa del Centro fu caratterizzata da un notevole interesse e da un grande impegno – attraverso l’articolazione in una serie di sezioni tecniche (industria, agricoltura, cre-dito e assicurazioni, urbanistica ed edilizia, mare, commercio, comuni-cazioni, artigianato, sanità e società, istruzione professionale)21 –, culminati nella preparazione di tre importanti convegni e nell’elaborazione di progetti molto significativi, che indicavano una prospettiva di sviluppo produttivo per il Sud22, anticipando quella piena ripresa dell’iniziativa meridionalistica, sfociata nella costituzione della SVI-MEZ23. Quindi, dalla sia pur breve, ma intensa, attività del CEIM derivò un forte impulso per affrontare in modo organico la situazione meridionale, nel quadro di politiche volte a promuovere il rinnovamento e il progresso econo-mico del paese. A parere di Giorgio Amendola: “uno dei motivi che spinse uomini come Paratore e Cenzato a promuovere […] la formazione del CEIM fu, dichiaratamente, quello di far valere, in sede di elaborazione dei progetti economici nazionali, le ragioni particolari dell’economia del Mezzo-giorno, che rischiava ancora una volta di fare le spese della ripresa economica generale. […] Su questo terreno poteva verificarsi un incontro tra classe operaia

e gruppi importanti dello stesso capi-talismo. C’era nel capitalismo italiano un contrasto tra le forze che tendevano alla ricostituzione del vecchio sistema autarchico e protezionistico, e quelle che puntavano su un incremento della produttività e una partecipazione del-l’Italia alla competizione economica in-ternazionale”24. L’iniziativa del Centro Economico Italiano per il Mezzogiorno, che si sarebbe potuta generalizzare25, al contrario, non durò che diciotto mesi, e il CEIM “scomparve senza nessun atto pubblico di regolare decesso”26. Tuttavia: “Da quelle prime iniziative restò in vita la SVIMEZ”27.

Secondo Saraceno, il “nuovo me-ridionalismo” si poteva riassumere in alcune caratteristiche di fondo: “a) nessun rilevante problema della società italiana può trovare soluzione, se resta aperta la questione meridionale; b) l’industrializzazione del Mezzogior-no è condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché la questione meridionale sia portata a soluzione; c) industrializzare il Mezzogiorno è quindi obiettivo il cui perseguimento, nell’interesse di tutto il Paese, deve condizionare la soluzione di ogni altro problema del Paese”28. Questi elementi distintivi non erano altro che il frutto di una concezione che guardava all’eli-minazione del divario, non come un tema di carattere regionale, ma come un problema di modifica della struttura dell’intera economia italiana29.

Inoltre, va considerato un altro tratto originale – richiamato molto di rado �, che accompagnò questo nuovo e solido orientamento meridionalista fin dal suo sorgere: la scelta europeista, intesa come la capacità di attrazione nel Mezzogiorno delle opportunità offerte dalla progressiva integrazione dei mer-cati, che non solo non veniva rigettata in nome di un’astratta “protezione”, ma era ritenuta un importante fattore di sviluppo, impiegato, purtroppo, molto debolmente nella fase successiva30.

I temi dell’industria e del mer-cato – quest’ultimo, generalmente sottovalutato nelle indagini storiche, volte a mettere in risalto, soprattutto, il legame tra l’impostazione del “nuo-vo meridionalismo” e l’intervento pubblico – erano già presenti in un te-sto di Rodolfo Morandi del 1° gennaio

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1947, scritto per illustrare l’attività della SVIMEZ: “La ricostruzione della nostra economia, sollevando problemi di com-plessa portata quali possono essere la distribuzione e l’applicazione migliore delle nostre forze, lo sfruttamento più razionale delle nostre risorse, l’ammo-dernamento e rafforzamento del nostro complesso produttivo, ha conferito una nuova attualità alla «questione meridionale». Tutti riconoscono che la ricostruzione non potrebbe mai svolgersi nel senso di ricostituire quella situazione prebellica che aveva tra i suoi dati fondamentali la capitale arretratezza economica del Sud. Tutti avvertono l’utilità di eliminare la causa di uno squilibrio così profondo, che impedirebbe di abbracciare nella rico-struzione quegli orizzonti che ad essa deve assegnare ogni mente che abbia una visione moderna dei problemi economici. La necessità di assicurare un raggio d’azione quanto più ampio possibile alla esplicazione delle forze produttive sfruttando in tutta la sua estensione l’area economicamente unitaria dello Stato; la convenienza di elevare la capacità generale di assor-bimento del mercato; l’opportunità in vista di una riduzione di costi di sfruttare localmente a ciclo pieno de-terminate risorse naturali; il vantaggio infine della favorevole ubicazione dei centri produttivi, tendono di per sé a rimuovere le barriere invisibili che hanno ostacolato, nella storia contem-poranea d’Italia, lo sviluppo economico del Mezzogiorno. Questi naturali moventi, che avrebbero potuto essere forse alquanto lenti a maturare in tempi normali mutamenti sostanziali della nostra struttura economica, devono in ogni caso determinare il cardinale indi-rizzo della ricostruzione nel momento in cui si chiede al Paese, non tanto l’incremento progressivo del sistema esistente, quanto una fondamentale riorganizzazione strutturale di esso. A questo modo l’attivazione economica del Mezzogiorno, che costituisce la fondamentale premessa alla soluzione della questione meridionale, diventa il primo e più grande problema della nostra ricostruzione. Ed è su questo piano di preminente attualità nazio-nale che esso va affrontato dalle forze congiunte di tutto il Paese. Peraltro il

problema economico del Sud è tema e materia di troppo vasta e complessa portata per essere obiettivo diretto di azione. Si tratta piuttosto di un proces-so che soltanto una volta messo in atto può trovare in sé forza di svolgersi, superando una serie di condizioni limitative che al suo compimento ap-paiono frapporsi. Per dar vita a tale processo occorre precisamente inserire nel sistema economico del Mezzo-giorno una forza viva di propulsione che possa agire con pronta efficacia. Questa non può essere che l’industria. Quando si dice l’industria non si vuole intendere il trapianto di unità isolate o una vegetazione forzata di iniziative, ma un complesso di attività trasfor-matrici che abbia vitalità naturale e vigore creativo. Se per vincere certi svantaggi di partenza può essere ne-cessario che lo Stato accordi compensi e facilitazioni, non possono essere questi i puntelli capaci di reggere un edificio che manchi di fondamenta. Si tratta di promuovere industrie che abbiano ragione economica di sorgere o possi-bilità di svilupparsi. Per corrispondere a questo scopo non è propriamente atta la legge e neanche idoneo lo Stato se la selezione non avviene per cura di altri organi che siano espressi dagli stessi fattori della produzione. Con questi intenti e con questo carattere è sorta la «Associazione per lo sviluppo dell’in-dustria nel Mezzogiorno»”31.

Tuttavia, occorre anche ricordare un riferimento essenziale, di carattere internazionale, alla base della nascita della SVIMEZ e dello svolgimento della sua attività. Infatti, l’idea di fondo dello sviluppo industriale del Mezzogiorno non traeva origine solo da Nitti e dai sostenitori della modernizzazione italiana, ma aveva radici molto più estese. Questa nuova elaborazione meridionalistica si collegava, in par-ticolare, alla questione generale – non solo italiana – delle aree depresse (o sottosviluppate) e alle relative teorie: “Lo slargamento dell’orizzonte tema-tico così realizzato valeva di per se stesso a dare […] un’altra dimensione storica e strutturale al problema, ma soprattutto ampliava a nuovi terreni la tecnica di intervento economico e sociale”32. La riflessione sul sottosvi-luppo economico aveva avuto inizio

durante la seconda guerra mondiale33, quando apparve chiaro che i paesi delle parti più arretrate del mondo non avrebbero potuto accettare ancora a lungo un meccanismo economico, capace solo di allungare le distanze che li separavano dai paesi più avanzati34. Tale dualismo si sarebbe aggravato in un sistema nel quale i costi comparati non portavano ad un livellamento delle economie mondiali, ma, al contrario, ad un’accentuazione degli elementi di dipendenza e ritardo delle economie più deboli: lo squilibrio cumulativo a livello internazionale, insieme alle politiche dei paesi avanzati, sarebbe di-ventato così un fattore di vero e proprio sottosviluppo35. La povertà, dunque, era causata dagli squilibri del mercato, che, a loro volta, producevano nuovi divari e nuova miseria, in un circolo vi-zioso destinato a ripetersi di continuo: l’arretratezza generava arretratezza ed era possibile interromperla solo con una politica di intervento esterno, in grado di correggere le chiusure e le rigidità del sistema economico36. In questo contesto, veniva sollecitata l’ini-ziativa delle istituzioni pubbliche, per rimuovere gli impedimenti originari che ostacolavano la diffusione degli investimenti industriali e per favorire uno sviluppo equilibrato37.

In generale, le teorie del sotto-sviluppo individuarono un criterio principale di misurazione del grado di arretratezza di un’economia, attraverso il reddito pro-capite: in questo modo, si indicò la possibilità di valutare quantitativamente i divari di crescita, o meglio, il diverso livello di sviluppo di tutte le aree del mondo. Come ha osser-vato Claudio Napoleoni: “Il problema della definizione di una economia sottosviluppata non è affatto semplice […]. Peraltro, tenendo soprattutto con-to dell’opportunità che la definizione sia tale da permettere una determina-zione quantitativa del sottosviluppo, si assume generalmente che il grado di sviluppo di una certa economia sia identificabile mediante il livello del reddito pro capite”38. In ogni caso, a partire dall’ultima guerra mondiale, “la letteratura sulle economie sottosvilup-pate si è venuta accrescendo in modo imponente”, trattando essenzialmente tre questioni: la “definizione del sot-

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tosviluppo”; l’esame “delle caratteri-stiche fondamentali delle economie sottosviluppate”; l’analisi “dei modi in cui il sottosviluppo è superabile”39. Il “nuovo meridionalismo”, fin dal prin-cipio, ispirò la sua attività a questi temi e a questa visione quantitativa dello sviluppo economico, applicandola al dualismo interno di un singolo paese.

In definitiva, si può concordare con l’osservazione di Giuseppe Ga-lasso, secondo cui: “la Svimez pensò fin dall’inizio che solo una cospicua espansione dell’economia reale, a par-tire dalla base produttiva più potente rappresentata dall’industria in tutta la gamma delle sue espressioni tecniche e produttive, ma soprattutto di quelle ai massimi e più avanzati livelli, avrebbe potuto portare il Mezzogiorno fuori del sottosviluppo e renderlo, in misura sufficiente ancorché eventualmente non totale, soggetto autonomo e au-topropulsivo del suo approdo a una piena modernizzazione del suo siste-ma economico e sociale nel quadro di quello italiano”40.

Naturalmente, a un sessantennio dalla nascita della SVIMEZ, va consi-derato il significato di un’esperienza e di un impegno per il Mezzogiorno nella sua interezza, nei suoi valori fondativi, che distinguevano il “nuovo meridionalismo” da quello “classico”: “il vecchio meridionalismo era nutrito di economia e di statistica pur esso […], mentre il nuovo meridionalismo si nutriva di storia e aveva un animus politico non meno del precedente. La differenza fra i due era nel […] rife-rimento a un quadro generale molto più ampio del quadro nazionale e alle più recenti esperienze e dottrine economiche e sociali dopo le vicende degli anni ’20 e, soprattutto, degli anni ’30 del ’900”41. Tuttavia, non può essere sottovalutato il portato di un approccio innovativo pure dal punto di vista metodologico, con l’affermazione di un’impostazione di tipo statistico-eco-nomico, che soleva “mettere i numeri accanto ai problemi” per analizzare e comprendere in tutti i suoi aspetti la realtà del Mezzogiorno, rappresen-tandola con obiettività e rigore – anche attraverso l’elaborazione dei cosid-detti “indici di depressione”42 – agli ambienti interessati, in primo luogo

le autorità di governo e gli organismi internazionali43. Spingevano in questa direzione i primi numerosi aderenti all’Associazione (Banca d’Italia, IRI, Banca Nazionale del Lavoro, CONIEL, Banco di Roma, Banco di Napoli, Cisa-Viscosa, Innocenti, FIAT, SME, Società Anonima Arenella, Snia-Viscosa, Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano, Finsider, Federconsorzi, Montecatini, Confindustria, IMI, Pirelli)44 e un gruppo dirigente costituito da auto-revoli e indiscusse personalità, molte delle quali formatesi sotto la guida Alberto Beneduce, in continuità con le idee nittiane e del riformismo di inizio Novecento45.

In questo contesto, si andò preci-sando anche il contenuto della missione della SVIMEZ, combattuta inizialmente tra “due anime”: l’una, indirizzata “alla conoscenza e alla ricerca” e l’altra, rivolta “a concrete attività promozionali”46. Infatti, nella seconda metà del 1947, con la creazione della Società per l’Industrializzazione delle Regioni Meridionali (Sudindustria)47, si avviò il trasferimento a quest’ultima dei compiti relativi alle operazioni nel campo commerciale e industriale, conservando all’Associazione le attività di studio, approfondimento e indagi-ne. Anche se l’azione di Sudindustria si presentava circoscritta, tanto da far rilevare – al termine del primo esercizio sociale – che: “è consistita soprattutto nel rilievo dalla Svimez di quelle iniziative che erano già entrate in fase di realizzazione e che, per essere complete su un piano di studio o di ricerche, apparivano ormai mature per una pratica attuazione”48, e anche se era stata fissata una durata limitata della società, con la conclusione della sua operatività nel 1954, v’è da dire che la sua costituzione consentì di distinguere le diverse competenze e di sviluppa-re, così, l’anima della SVIMEZ più coerente con l’obiettivo del progresso produttivo dei territori meridionali. Donato Menichella, alla fine del 1949, indicava chiaramente quello che aveva già rappresentato il terreno privilegiato di iniziativa dell’Associazione e ne compendiava la vocazione autentica: “una azione sistematica di studio, in-quadrata sì in una visione passionale del problema, ma fermamente deter-

minata nella condotta delle indagini tecniche e serie e bene approfondite […], associando ai suoi funzionari limitatissimi, per quanto eletti, una serie numerosa di persone qualificate e competenti che vive la vita delle nostre regioni meridionali, approfondendo tutti gli aspetti dei vari problemi la cui soluzione si presenta come essenziale al risollevamento dell’area depressa del Mezzogiorno”49.

L’Associazione per lo Sviluppo del-l’Industria nel Mezzogiorno, quindi, fin dai suoi primi passi aveva mostrato di saper interpretare il ruolo di centro pro-pulsivo del “nuovo meridionalismo”, incarnando un paradigma innovativo e originale, che intendeva indicare una nuova modalità di pensare e di agire, con consapevolezza e determinazione, sui problemi legati al destino del Mez-zogiorno e dell’Italia, nel loro interesse reciproco. L’obiettivo principale della SVIMEZ era apparso, fin dall’inizio, quello dell’industrializzazione dei territori meridionali.

Nel 1948, Corrado Barbagallo osservava che “si è ben lontani dal poter dire che il Mezzogiorno sia una paese veramente industriale, e che non sia necessario percorrere un lungo cammino perché esso divenga tale”50. Egli rilevava come una delle fondamentali condizioni sfavorevoli per l’industrializzazione delle regioni meridionali fosse rappresentata dalla deficienza di capitali e, in particola-re, dalla “riluttanza dei capitalisti a investire il loro denaro in imprese industriali, che debbano aver sede nel Mezzogiorno”; infatti: “Vi repugnano i capitalisti del sud, ma vi repugnano in misura poco minore i capitalisti italiani in genere e quelli stranieri. Tale contrarietà discende a sua volta dalla convinzione che quaggiù una qualsiasi impresa industriale è costosa, faticosa, probabilmente destinata all’insuccesso per la mancanza di quegli elementi, che con frase oscura gli economisti sogliono denominare fattori agglomerativi”51.

Con una notazione straordinaria-mente attuale, Barbagallo si domanda-va, tuttavia, se “l’elevamento econo-mico, specie industriale, del sud” non costituisse un pericolo per “le fortune del Settentrione”52. La risposta a “questo dubbioso interrogativo”, a suo avviso,

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l’avevano già fornita “ormai da circa un secolo tutte le esperienze, che i paesi eu-ropei fecero dapprima in colonia e, più tardi, nella stessa Europa”; infatti: “Un tempo, l’ideale sommo della politica dei varii Stati, nelle rispettive colonie, era quello di impedire lo sviluppo di queste ultime, nella illusione che ciò avrebbe eliminato il pericolo di una futura concorrenza o, addirittura, di eventuali rivolte. Alla prova dei fatti, risultò che tale metodo non portava che al progressivo impoverimento della colonia, ossia alla riduzione progressiva del suo potere di acquisto […]. Più tardi […], l’esperienza si è spontaneamente ripetuta in Europa. Contro quanto l’opinione volgare sosteneva, i miglio-ri clienti dei paesi industriali si sono dimostrati gli altri paesi industriali, e questo perché ogni nazione si industria-lizza solo per un certo verso, e, siccome man mano che questo processo si in-tensifica, il suo tenore di vita s’innalza, essa è tratta ad acquistare all’estero, e in quantità maggiori, prodotti industriali, che prima non usava […]. La decaden-za e il livello economico del nostro Mezzogiorno hanno portato, invece, a conseguenze opposte, a conseguenze sfavorevoli nel riguardo del Setten-trione, ossia alla formazione di quegli stessi rapporti negativi, fra colonie e metropoli europee, che si rivelarono paurosamente nel secolo XVIII. Onde, del pari, nell’interesse del nostro paese sarà necessario abbandonare i vecchi pregiudizi e rinnovare le proprie opi-nioni […]. Oggi la corrente di scambi più abbondante fra le due parti della Penisola è – orribile a dirsi! – quella dei dileggi, dei rancori, anche degli odii. O l’Italia di domani riuscirà ad arginare questa incalzante marea, o ciò che avevano sognato gli spiriti migliori del nostro Risorgimento dileguerà, come vano sogno, nel nulla”53. Non si tratta, forse, di un messaggio che, in un contesto del tutto nuovo, si tramanda fino a noi?

L’idea di ritrovare i principi co-stitutivi della stagione del “nuovo meridionalismo” non rappresenta il tentativo di riprendere meccanica-mente un percorso interrotto alla fine dell’intervento straordinario e definiti-vamente cancellato negli anni novanta del secolo scorso, né la volontà di ripro-

porre, sic et simpliciter, l’elaborazione di Saraceno e della SVIMEZ per un nuovo intervento “aggiuntivo” da parte dello Stato. Come è stato opportunamente evidenziato: “Certo né il dualismo, né questo carattere complessivo si pro-pongono, dopo sessant’anni di storia repubblicana, negli stessi termini che all’inizio di tale storia. Ma chi ha mai seriamente sostenuto che ci sia un Mez-zogiorno immutato e immobile? Chi ha mai sostenuto che il Mezzogiorno – in-discutibile realtà complessiva di alcune regioni italiane – sia anche una realtà indifferenziata, inarticolata, a pari ve-locità e tendenza al suo interno? Chi ha mai negato che, parlando di un proble-ma complessivo del Mezzogiorno, non si nega affatto e si inquadra, anzi, nel modo migliore e più proprio, la plurali-tà dei problemi meridionali nella molto varia articolazione territoriale della molteplice realtà meridionale? Tutta l’Italia è mutata, ed è mutata profon-damente in un quadro internazionale tutto diverso da quello di sessant’anni fa, e il Mezzogiorno è mutato insieme con l’Italia, ma l’equilibrio interno del paese, per quanto riguarda il Mezzo-giorno, ne è stato ben poco scosso o alterato”54. Quindi, il ritorno ad una fase primigenia vuole significare, molto semplicemente, una verifica di alcuni temi di quell’esperienza tanto fecon-da, per promuovere, ad esempio, una nuova riflessione sul rapporto tra Stato e mercato; o per guardare alla parte più moderna di un pensiero, che assegnava un ruolo fondamentale ai meridionali, per la ripresa del Sud, ma in una cor-nice unitaria dello sviluppo del paese; o, ancora, per operare l’inserimento del “problema meridionale” – che non è mai stato abrogato ed è quanto mai “aperto” – in un contesto di relazioni euro-mediterranee, se non all’interno del più complessivo processo di globa-lizzazione e delle sue sfide competitive. Del resto, il “nuovo meridionalismo” è stato, oltre che un grande contenuto innovativo dello scenario politico ed economico dell’Italia e delle sue regioni meridionali, un potente e infaticabile motore per una strategia di trasforma-zione, un metodo prima ancora che un programma. Chissà che non si possa, a proposito di sviluppo del Mezzogior-no, ripartire proprio da qui.

La prima parte di questo saggio è stata pubbli-cata sul n.4 Anno VII (Luglio/Agosto 2006) di Mezzogiorno Europa.

Note1 M. Carlyle, The Awakening of Southern

Italy, London, Oxford University Press, 1962, p. 1.

2 Ibidem, p. 44.3 Cfr. Ibidem, pp. 54-55.4 Infatti, secondo Saraceno: “Tra i mag-

giori esponenti del meridionalismo classico è forse nel solo Nitti che possono trovarsi in nuce spunti che, in una mutata situazione culturale, saranno poi al centro del nuovo meridionalismo” (P. Saraceno, Il nuovo meridionalismo, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 1986, p. 7).

5 Ibidem, cit., p. 6.6 Come è stato recentemente osservato

da Giuseppe Galasso: “In quel momento i problemi storici e strutturali dello Stato italiano, che non aveva neppure ancora compiuto il primo secolo di vita, si con-giungevano e si sommavano a problemi specifici e immediati della congiuntura post-bellica. Così – per dare solo un’idea, e un’idea davvero esigua, di questo micidiale connubio fra strutture e contingenze – c’era il problema di un’inflazione rovinosa e c’era il problema perdurante di un’ancora parziale modernizzazione del paese; c’era il problema della difficoltà di provvedere addirittura al rifornimento alimentare del paese e c’era il problema annoso, anzi originario, costituito dalla ‘questione me-ridionale’, che ritornava alla più piena e pregnante attualità dopo la lunga pausa di silenzio imposta dal crollato regime fascista. A suo modo, e nei suoi limiti connaturali, la fondazione della Svimez fu allora un evento significativo. Testimoniava, infatti, innanzi-tutto, di una volontà concreta di ripartire, nella vita nazionale, dopo le fratture e le distorsioni dovute alla guerra, e fra i molti problemi e le poche certezze che essa lascia-va, con iniziative e idee nuove” (G. Galasso, SVIMEZ, Mezzogiorno, un sessantennio di storia italiana, dattiloscritto, introduzione all’iniziativa promossa dalla SVIMEZ a sessant’anni dalla propria costituzione, Roma, 12 dicembre 2006, p. 1).

7 P. Saraceno, Il nuovo meridionalismo, cit., p. 5.

8 Ibidem, p. 7; cfr. P. Barucci, Introduzione, in P. Saraceno, Gli anni dello Schema Vanoni, 1953-1959, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 3-6.

9 Nel verbale autonomo dell’8 novem-bre 1946, allegato al volume dei Verbali delle Assemblee della SVIMEZ, era evidenziato che l’idea di Morandi si riassumeva nella

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proposta di dare vita ad un organismo con il compito di: “a) rilevare la situazione attuale dell’industria nel Mezzogiorno e studiare le condizioni atte a favorire lo sviluppo delle attività esistenti e di nuove attività necessarie allo sviluppo industriale del Mezzogiorno d’Italia; b) promuovere ini-ziative industriali tra esponenti di aziende industriali e finanziarie; c) far opera presso le autorità competenti perché siano rimossi gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo di dette iniziative” (SVIMEZ (a cura di), Il Mezzogiorno nelle ricerche della Svimez, 1947-1967, Roma, Giuffrè, 1968, p. 759). Secondo Morandi, tale compito poteva essere assolto da un Ente in grado di raccogliere tutte le più significative espressioni del mondo industriale, scientifico ed economico del paese, dotato di una larga disponibilità di mezzi finanziari e caratterizzato da una struttura agile e flessibile. Le finalità del-l’Associazione furono definite in una lunga riunione, alla quale parteciparono Morandi, il segretario dell’IRI, Chialvo e Saraceno. Il testo dello Statuto, approvato in seguito, all’art. 2 recitava: “L’Associazione ha lo scopo di promuovere, nello spirito di una efficiente solidarietà nazionale e con visione unitaria, lo studio particolareggiato delle condizioni economiche del Mezzogiorno d’Italia, al fine di proporre concreti pro-grammi di azione e di opere intesi a creare ed a sviluppare nelle Regioni meridionali e nelle grandi Isole quelle attività industriali le quali meglio rispondano alle esigenze accertate” (SVIMEZ (a cura di), Il Mezzo-giorno nelle ricerche della Svimez, 1947-1967, cit., p. 764).

10 Come ha ricordato Saraceno: “L’Asso-ciazione venne costituita in data 2 dicembre 1946 e l’8 gennaio 1947 si tenne la prima assemblea, che procedette alla elezione del Consiglio di Amministrazione; ad esso Morandi, che ne fu nominato Presidente, sottopose il testo […] che venne assunto come presentazione delle finalità e del programma dell’Ente. Quanto all’attività effettivamente svolta dall’Associazione, in una prima fase si ritenne che essa po-tesse coprire tutti i tre campi indicati da Morandi nella seduta preparatoria dell’8 novembre 1946, pur essendovi non poche incertezze tra i promotori al punto b), cioè sulla opportunità di assumere iniziative sul piano produttivo e non solo su quello della ricerca industriale. Una prima iniziativa presa in tale direzione mostrò ben presto che le incertezze erano più che giustificate; ci si rese ben presto conto che, in mancanza di determinate condizioni che solo l’azione pubblica poteva determinare, poche sa-rebbero state le iniziative attraibili in quel momento nel Mezzogiorno. Apparve così

ben presto opportuno concentrare tutte le risorse dell’Associazione, in sostanza, nella ricerca di modelli di sviluppo della nostra economia, nei quali l’industrializzazione del Mezzogiorno avesse il ruolo per il cui svolgimento era nata l’Associazione. Mo-randi terrà la presidenza della Svimez solo per il primo triennio: 1947-49; chiederà di esserne dispensato in relazione alla grave tensione politica che si determinò dopo il 18 aprile; si lascerà però convincere ad assumere la carica di Vice Presidente, che manterrà fino alla morte, nel 1955” (P. Sa-raceno, Morandi e il nuovo meridionalismo, in “Apulia”, n. IV, 1981, <http://www.bpp.it/apulia/html/archivio/1981/IV/art/R81IV019.html>).

11 Cfr. P. Saraceno, Gli interventi del primo IRI, in “Banca, borsa e titoli di credito”, 1981, p. 304; P. Saraceno, Intervista sulla Ricostruzione, 1943-1953, a cura di L. Villari, Bari, Laterza, 1977, p. VII.

12 Cfr. A. Del Monte, A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, Bologna, il Mulino, 1978, pp. 120-124.

13 Cfr. P. Saraceno, Il nuovo meridiona-lismo, cit., p. 8. Tuttavia, come ha indicato Nino Novacco, Morandi aveva già avuto oc-casione “di apprezzare le idee di Saraceno” all’interno della Commissione economica del CLNAI (N. Novacco, Per una riflessione sul meridionalismo di Cenzato, in “Rivista Economica del Mezzogiorno”, anno XIV, n. 3, 2000, p. 899).

14 P. Saraceno, Il nuovo meridionalismo, cit., p. 7. Saraceno proseguiva, osservando che: “Analogamente, il nuovo meridiona-lismo intese, con l’intervento straordinario, rendere possibile una politica di sviluppo e far cessare la pratica delle politiche as-sistenziali seguite nel Mezzogiorno dopo l’unificazione”.

15 P. Saraceno, Il nuovo meridionalismo, cit., p. 8.

16 Cfr. Archivio Storico IRI, Numerazio-ne Nera – Pratiche generali, Relazioni e no-tizie IRI, Fascicolo II° (1944-1954), “Attività, situazione attuale e fabbisogno finanziario dell’IRI”, busta 025 – “Appendice: Appunti sull’opera svolta e sul programma dell’IRI per il Mezzogiorno d’Italia”.

17 Ibidem, p. 31.18 Cfr. Ibidem, pp. 32-34. Questo quadro,

senza considerare le partecipazioni di mi-noranza nella SME e nella Società Esercizi Telefonici, nonché quella nelle Terme di Agnano.

19 Cfr. C. Franco, M. Baldari, E. Guar-dascione, Dentro Napoli. Per una Storia dell’Unione degli Industriali della Provincia di Napoli, Napoli, Guida Editori, 1987, pp. 63-64; G. Amendola, Fascismo e Mezzogior-no, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 53-54.

Come ha ricordato Giorgio Amendola: “Fu una esperienza particolare che facemmo partecipando con Sereni al Centro econo-mico italiano per il Mezzogiorno (CEIM). Era una alleanza con esponenti del capitale monopolistico della SME, come Cenzato, che realizzammo noi comunisti scaval-cando i socialisti e persino i democristiani. Pensate che Paratore, il vecchio nittiano fondatore dell’IRI era il presidente, Sereni consigliere delegato, Porzio ed io vicepre-sidenti. Un’alleanza fatta con gli avversari, una esperienza che va collocata in quel momento, che va studiata” (G. Amendola, Gli anni della Repubblica, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 336).

20 N. Novacco, Per una riflessione sul meridionalismo di Cenzato, cit., p. 898. Come Novacco stesso, proseguendo nel suo ri-cordo, ha notato: “tale bisogno si incontrò positivamente con l’aspirazione del PCI di aprire un attivo rapporto con gli interessi e con gli uomini dell’economia, di cui comprendeva il peso e cui non voleva solo contrapporsi politicamente e polemicamen-te, ma con cui sperava anzi di poter avviare […] un dialogo costruttivo”.

21 Cfr. N. Novacco, Per una riflessione sul meridionalismo di Cenzato, cit., p. 898.

22 Come è stato osservato: “In pochi mesi una serie di convegni sulle trasforma-zioni fondiarie, sui trasporti, sull’industria metalmeccanica, permisero di iniziare una ricognizione dei singoli problemi meridionali e di avviare un serio confronto programmatico”; l’avvio del CEIM indicava “l’ampiezza delle alleanze stabilite in quel momento tra il PCI e gruppi importanti del capitalismo italiano” e “queste alleanze si tradussero in concrete iniziative di lavoro e di dibattito, perché avevano trovato un terreno specifico, quello meridionale, con le sue urgenti esigenze” (G. Amendola, Fascismo e Mezzogiorno, cit., p. 54). Il peso degli orientamenti delle forze produttive aveva un grande valore nell’esperienza del CEIM: infatti, in quel periodo, gli im-prenditori napoletani avanzavano richieste molto vicine agli obiettivi del Centro, per “assicurare possibilità di lavoro alle indu-strie meridionali; riattivare l’industria edile privata; ottenere agevolazioni in campo finanziario e fiscale; favorire la ripresa delle industrie tradizionali e della piccola indu-stria; concedere stanziamenti ulteriori per opere pubbliche” (C. Franco, M. Baldari, E. Guardascione, Dentro Napoli. Per una Storia dell’Unione degli Industriali della Provincia di Napoli, cit., p. 65).

23 A questo proposito, Novacco ha rilevato che: “La pur breve esperienza del CEIM – dal luglio 1946 alla primavera del 1948 – merita di essere ricordata sia per la

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sua natura in qualche modo anticipatoria rispetto ad una ripresa ufficiale e formaliz-zata dell’impegno per la crescita economica e per lo sviluppo del Mezzogiorno, sia per la sua ispirazione e collocazione politica” (N. Novacco, Per una riflessione sul meridio-nalismo di Cenzato, cit., p. 898).

24 G. Amendola, Fascismo e Mezzogiorno, cit., pp. 58-59. Va, peraltro, ripresa l’altra parte della valutazione di Amendola, quando ricordava, in quelle stesse pagine, che: “L’esperienza del CEIM merita una attenzione critica […]. Trasparente era […] il motivo della partecipazione all’attività del CEIM degli esponenti più qualificati di gruppi importanti del capitalismo italiano. Questi, evidentemente, si proponevano di ricercare anche una forma di collaborazione con le forze politiche organizzate della clas-se operaia per ottenere una attenuazione delle manifestazioni dello scontro di classe. […] Ma quei gruppi capitalistici si propo-nevano anche di richiedere un particolare indirizzo dell’attività governativa in modo di avviare una ricostruzione dell’economia meridionale, duramente provata dalle vi-cende belliche […]. Ma l’incontro appariva […] importante perché anche la classe ope-raia aveva un suo autonomo interesse a che fosse avviata rapidamente un’opera efficace di ricostruzione e venisse, così, arrestato il processo di disfacimento economico e socia-le che aveva colpito il Mezzogiorno”.

25 Questa notazione è avvalorata da quanto avveniva, in forme diverse, non solo a Napoli, ma anche a Roma e Torino: “Di fronte alla offensiva sferrata dai gruppi monopolistici, che puntarono allora sulla inflazione, la classe operaia tentò […] di realizzare una collaborazione, che sarà tuttavia precaria e provvisoria, con gruppi di borghesia «produttiva». È il momento della presenza di Pesenti nell’IRI, dei ten-tativi di collaborazione con Menichella a Roma, con Valletta a Torino, con Cenzato a Napoli” (G. Amendola, Classe operaia e programmazione democratica, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 224).

26 G. Amendola, Fascismo e Mezzogior-no, cit., p. 55. Infatti, secondo Amendola, “la rottura dell’unità nazionale […] portò alla paralisi e poi alla morte del C.E.I.M.” (G. Amendola, Il Mezzogiorno si muove, in “Rinascita”, n. 4, aprile 1951, p. 170); questo giudizio viene confermato dall’osservazio-ne secondo cui: “La parabola del Ceim fu emblematica. Mutati gli equilibri a livello nazionale con la cosiddetta «svolta del ’47» (i comunisti fuori dal quarto governo De Gasperi), assunta in proprio dalla Dc una funzione catalizzatrice di interessi impren-ditoriali e civili […], sorte altre sigle che operavano nella stessa sfera d’iniziativa del

Ceim, quest’ultimo morì di lenta consunzio-ne” (C. Franco, M. Baldari, E. Guardascione, Dentro Napoli. Per una Storia dell’Unione degli Industriali della Provincia di Napoli, cit., p. 64). Tuttavia, non si può riferire solo al mutamento di una fase, il ripiegamento di questa esperienza, che giunse al termine an-che per motivi legati alla sua impostazione generale e per limiti soggettivi delle forze che l’avevano promossa.

27 G. Amendola, Fascismo e Mezzogiorno, cit., p. 59. Infatti, come si è visto, fu proprio dal sodalizio tra alcuni degli imprenditori che promossero il CEIM e Saraceno, Moran-di, Menichella, Giordani, che nel dicembre 1946 nacque la SVIMEZ (cfr. C. Franco, M. Baldari, E. Guardascione, Dentro Napoli. Per una Storia dell’Unione degli Industriali della Provincia di Napoli, cit., p. 67).

28 P. Saraceno, Morandi e il nuovo meri-dionalismo, cit., <http://www.bpp.it/apu-lia/html/archivio/1981/IV/art/R81IV019.html>. In questo stesso articolo, Saraceno ha sottolineato che “questa concezione è dovuta a Rodolfo Morandi” e che il suo riferimento era “il paragrafo conclusivo della ‘Storia della grande industria in Italia’, che, come è noto, è del 1931”.

29 Infatti: “era l’intero meccanismo di sviluppo del nostro Paese che andava modificato. Non si richiedeva quindi solo che nelle regioni meridionali venisse svolta un’azione di grande portata; occorreva anche che le politiche generali (ad esempio, la politica creditizia o quella fiscale) e le stesse misure rivolte a particolari aree del Centro-Nord (ad esempio, la politica degli incentivi) fossero conformi o quantomeno non in contraddizione con la politica meri-dionalistica” (P. Saraceno, È ancora valida la concezione del meridionalismo apparso nell’ul-timo dopoguerra?, in “Apulia”, n. III, 1975, <http://www.bpp.it/apulia/html/archi-vio/1975/III/art/R75III004.html>).

30 Come ha notato Saraceno: “il meridio-nalismo fu, dal primo momento, europeista, in considerazione del fatto che la minor protezione doganale di cui avrebbe fruito la futura industria meridionale per effetto dell’integrazione sarebbe stata più che com-promessa dall’impulso addizionale dato allo sviluppo italiano da tale integrazione e alla possibilità di localizzarne una quota rilevante nel Mezzogiorno. Come è noto, questo impulso addizionale si verificò; mancò invece, salvo che per la siderurgia e la petrolchimica, una diffusione al Sud dell’industria di nuova localizzazione. È poi da dire che la mancata accettazione all’interno della concezione meridionalista del nostro sviluppo, rese debole la nostra azione a Bruxelles in senso regionalistico; solo con l’ingresso della Gran Bretagna

nella Comunità ebbe un primo avvio, a ben sedici anni dalla firma del Trattato di Roma, la politica regionale comunitaria” (P. Saraceno, È ancora valida la concezione del me-ridionalismo apparso nell’ultimo dopoguerra?, cit., <http://www.bpp.it/apulia/html/ar-chivio/1975/III/art/R75III004.html>).

31 R. Morandi, La ricostruzione italiana e lo sviluppo della economia industriale del Mezzogiorno, in SVIMEZ (a cura di), Il Mez-zogiorno nelle ricerche della Svimez, 1947-1967, cit., pp. 3-4.

32 G. Galasso, SVIMEZ, Mezzogiorno, un sessantennio di storia italiana, cit., p. 3. Peral-tro, va rilevato che il concetto di “area de-pressa” proveniva inizialmente dal mondo anglossassone, che l’aveva elaborato negli anni trenta del secolo scorso, “in relazione agli effetti depressivi sull’attività economi-ca della crisi del 1929”, e faceva riferimento “ad una situazione congiunturale che non poteva certo essere applicata al Mezzogior-no d’Italia senza adattamenti” (V. Negri Zamagni, M. Sanfilippo (a cura di), Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La SVIMEZ dal 1946 al 1950, Bologna, il Muli-no, 1988, p. 33).

33 Nicola Boccella ha ricordato che ”le teorie della crescita economica in senso stretto sono riconducibili agli studi degli anni 1940-50 di Roy F. Harrod, Ragnar Nurkse, Robert M. Solow, che fondavano le proprie radici nelle analisi degli econo-misti classici della rivoluzione industriale”; Charles P. Oman e Ganeshan Wignaraja, a loro volta, hanno segnalato che: “solo dopo la Seconda Guerra Mondiale ricercatori e policy makers si sono occupati in modo approfondito ed esplicito delle cause e delle barriere alla crescita ed allo sviluppo nelle aree «arretrate», successivamente indicate come paesi «sottosviluppati», «meno sviluppati» o del «Terzo Mondo» ed attualmente dette «in via di sviluppo». È comunque importante ricordare che di-versi eventi nel corso della prima metà del secolo e nell’immediato dopoguerra hanno contribuito al grande interesse verso i paesi del Terzo Mondo emerso dopo la guerra. Uno di questi è stato lo sconvolgimento del commercio internazionale durante la Grande Depressione e gli anni della guer-ra, fra il 1914 ed il 1945, che portò ad uno spostamento verso quella che fu chiamata la crescita orientata all’interno e l’industria-lizzazione con sostituzione delle impor-tazioni, in particolare in America Latina. […] Un altro fattore fu la ricompattazione dell’alleanza fra paesi industrializzati e la creazione di organizzazioni internazionali nel periodo successivo alla guerra. […] Importante risultato fu allora la creazione delle Nazioni Unite durante la Conferenza

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di San Francisco del 1945, il cui l’obiettivo era creare un ordine mondiale a favore dello sviluppo economico e sociale. È interessante notare che dei 51 paesi parte-cipanti alla Conferenza, solo 10-12 erano paesi avanzati, mentre la maggioranza degli altri erano paesi latino-americani. […] Un altro fattore da ricordare fu il processo di decolonizzazione e la proclamazione del-l’indipendenza di gran parte dell’Africa e dell’Asia. […] Infine, altro fattore che senza dubbio contribuì alla crescita dell’interesse mondiale per il problema della povertà e della sofferenza umana nei paesi del Terzo Mondo fu la disponibilità di informazioni sulla povertà mondiale. Responsabile di ciò fu da un lato la rivoluzione nelle tecniche di comunicazione e, dall’altro, il lavoro di varie organizzazioni multilaterali ed internazionali che per la prima volta ini-ziarono a raccogliere dati sistematici sulle condizioni economiche del Terzo Mondo all’indomani della guerra” (N. Boccella, Introduzione alla traduzione italiana, e C. P. Oman, G. Wignaraja, Introduzione, in C. P. Oman, G. Wignaraja, Le teorie dello sviluppo economico dal dopoguerra ad oggi, Milano, LED Edizioni Universitarie, 2005, p. 10 e pp. 50-52, ed. orig.: The postwar evolution of development thinking, Macmillan/OECD Development Centre, Paris, 1991). Per un ulteriore approfondimento delle teorie dello sviluppo equilibrato e del sottosvi-luppo, maturate negli anni del secondo dopoguerra: cfr. A. O. Hirschman, La strategia dello sviluppo economico, Firenze, La Nuova Italia, 1968, ed. orig.: The strategy of economic development, New Haven/London, Yale University Press, 1958; H. Myint, L’eco-nomia dei paesi in via di sviluppo, Bologna, il Mulino, 1973, ed. orig.: The economics of the developing countries, London, Hutchinson University Library, 1965; A. N. Agarwala, P. S. Singh (a cura di), L’economia dei paesi sottosviluppati, Milano, Feltrinelli, 1966, ed. orig.: The economic of underdevelopment, London, Oxford University Press, 1960; B. Jossa (a cura di), Economia del sottosviluppo, Bologna, il Mulino, 1973; S. Holland, Capita-lismo e squilibri regionali, Bari, Laterza, 1976, ed. orig.: Capital versus the regions. London, Macmillan, 1976; B. Hettne, Le teorie dello sviluppo e il Terzo Mondo, Roma, ASAL, 1986, ed. orig.: Development theory and the Third World, Stockholm, Swedish Agency for Research Cooperation with Developing Countries, 1982.

34 Il “Supplemento alle ‘Informazioni SVIMEZ’ sui problemi dei paesi econo-micamente sottosviluppati”, pubblicato a Roma dalla SVIMEZ, ha riportato la tra-duzione di diversi articoli relativi a questi temi, oggetto di un dibattito sviluppatosi

fortemente nel corso degli anni cinquanta. In particolare, cfr. P. N. Rosenstein-Rodan, Problemi dell’industrializzazione nell’Europa orientale e sud-orientale, n. 17, aprile 1954; R. Nurske, Problemi della formazione di capitale nei paesi sottosviluppati, n. 4, marzo 1953, n. 5, aprile 1953, n. 25, dicembre 1954; M. Dobb, Alcuni aspetti dello sviluppo economico, n. 10, settembre 1953, n. 11, ottobre 1953.

35 Cfr. G. Myrdal, An american dilemma: the Negro problem and modern democracy, New York/London, Harper & Brothers, 1944; G. Myrdal, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Milano, Feltrinelli, 1959, ed. orig.: Economic theory and underdeveloped regions, London, G. Duckworth, 1957.

36 Cfr. R. Nurske, Problems of capital formation in underdeveloped countries, Ox-ford, Basil Blackwell, 1953; R. Nurske, Equilibrium and growth in the world economy: economic essays, a cura di G. Haberler e R. M. Stern, Cambridge, Harvard University Press, 1961.

37 Cfr. P. N. Rosenstein-Rodan, The inter-national development of economically backward areas, in “International Affairs”, aprile 1944, pp. 157–165; P. N. Rosenstein-Rodan, Notes on the theory of the big push, in H. Ellis e H. C. Wallich (a cura di), Economic development for Latin America, New York, St. Martin’s Press, 1961; P. N. Rosenstein-Rodan (a cura di), Capital formation and economic development, London, Allen & Unwin, 1964.

38 C. Napoleoni, Il pensiero economico del 900, Torino, Einaudi, 1963, p. 167.

39 Ibidem, pp. 166-167.40 G. Galasso, SVIMEZ, Mezzogiorno, un

sessantennio di storia italiana, cit., p. 4. Galas-so prosegue, notando che “il problema dello sviluppo del Mezzogiorno faceva tutt’uno con il problema della possibilità, per l’Italia, di varcare la soglia di una piena e definitiva modernizzazione: il che, supposto quando del ‘miracolo economico italiano’ non si aveva ancora alcun sentore, presentava, naturalmente, un particolare valore”.

41 G. Galasso, SVIMEZ, Mezzogiorno, un sessantennio di storia italiana, cit., pp. 9-10.

42 “Per misurare lo stato di depressio-ne di una zona vengono correntemente formulati degli indici. Tali indici si basano fondamentalmente sul reddito, considerato come la più significativa risultante dello sta-to economico di una zona: di volta in volta sono però aggiunti indici di altri aspetti della vita economica (produzione, consumi, imposte), al fine di meglio qualificare l’in-dice determinato. […] Va dunque definito lo scopo particolare e principale al quale si ispirano gli indici da noi composti. Tale scopo è di possedere dei criteri per potere, nella ipotesi di un intervento pubblico anti-depressione, distribuire tra le regioni inte-

ressate, in base a valutazioni tecniche dello stato economico, la somma disponibile” (N. Novacco, La popolazione come «capitale tecnico» e gli interventi anti-depressione, in “Rivista Italiana di Economia, Demografia e Statistica”, nn. 3-4, 1950, p. 95).

43 Cfr. V. Negri Zamagni, M. Sanfilippo (a cura di), Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La SVIMEZ dal 1946 al 1950, cit., pp. 30-31. Come è stato sottolineato in queste stesse pagine: “Tutto quanto possibile veniva periodicamente analizzato e studiato sistematicamente a cura della SVIMEZ: dal valore aggiunto industriale alla demografia; dalle produzioni agricole ai trasporti; dagli acquedotti all’industria molitoria; dalla climatologia al risparmio; dalle società per azioni all’istruzione; dal-l’emigrazione ai consumi; dall’elettricità alle banche; dalle fognature agli spettacoli; dalla disoccupazione all’attrezzatura alber-ghiera; dal credito peschereccio alla coltura del kaki; dai lavori pubblici alla produzione dei fichi secchi; dai cimiteri ai macelli, ai mattatoi, alla produzione del pelo di capra�, come è agevolmente possibile ri-levare scorrendo i sommari settimanali del bollettino «Informazioni SVIMEZ»”.

44 Cfr. Verbale del 2 dicembre 1946, in Verbali delle Assemblee della SVIMEZ, vol. I, in SVIMEZ (a cura di), Il Mezzogiorno nelle ricerche della Svimez, 1947-1967, cit., p. 760.

45 Cfr. S. Cafiero, Questione meridionale e politica meridionalistica attraverso un qua-rantennio di attività della SVIMEZ, in “Studi SVIMEZ”, nn. 3-4, 1986, p. 396; M. Finoia, Il ruolo di Donato Menichella nella creazione della SVIMEZ e della Cassa per il Mezzogiorno, in AA. VV., Donato Menichella. Testimo-nianze e studi raccolti dalla Banca d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 323-329. Il primo Consiglio di Amministrazione della SVIMEZ, presieduto da Rodolfo Morandi, con Giuseppe Paratore e Giuseppe Cenzato vicepresidenti, Pasquale Saraceno segretario generale, fu composto anche da Vincenzo Caglioti, Pietro Frasca Polara, Giuseppe Lauro, Gerlando Marullo, Filippo Masci, Donato Menichella, Ottorino Pomilio, Paolo Ricca Salerno, Cesare Ricciardi e Stefano Siglienti. Successivamente, a questi consi-glieri si aggiunsero Stefano Brun, Vincenzo Bruno, Francesco Giordani, Ivo Vanzi e Mauro Visentini. Il Collegio dei Revisori fu costituito da Gianfranco Calabresi, Luigi Chialvo e Isidoro Pirelli. Direttore generale dell’Associazione fu nominato Alessandro Molinari (cfr. Verbale dell’8 gennaio 1947, in Verbali delle Assemblee della SVIMEZ, vol. I, in SVIMEZ (a cura di), Il Mezzogiorno nelle ricerche della Svimez, 1947-1967, cit., p. 760).

46 V. Negri Zamagni, M. Sanfilippo (a cura di), Nuovo meridionalismo e intervento

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straordinario. La SVIMEZ dal 1946 al 1950, cit., p. 21.

47 Nel verbale del 22 luglio 1947, in Verbali delle Assemblee della SVIMEZ, vol. I, era stato annotato: “Promossa dalla SVIMEZ e con la partecipazione dei suoi Associati viene costituita la Società per l’industrializzazione delle regioni meridionali – SUDINDUSTRIA S.p.A. Alla società – che svolgerà la sua attività fino al 1954 – viene attribuito il compito di avviare iniziative di carattere sperimentale, tecnico e industriale atte ad individuare concrete possibilità di industrializzazione del Mezzogiorno” (SVIMEZ (a cura di), Il Mezzogiorno nelle ricerche della Svimez, 1947-1967, cit., p. 760). Inoltre, cfr. Archivio Storico IRI, Numerazione Rossa – Pratiche societarie, Società per l’Industrializzazione delle Regioni Meridionali Sudindustria, Faldone 125,3 – “Assemblee: bilanci e relazioni”; F. Dandolo, Southern and Nor-thern Italy in the second post-war period: the Sudindustria role, relazione svolta alla “XV International AISSEC Conference”, “Session 9 – Comparative Development Strategies in Mediterranean Countries”, Castellammare di Stabia (Napoli), 24-25 novembre, 2006.

48 Archivio Storico IRI, Numerazione Rossa – Pratiche societarie, Società per l’In-dustrializzazione delle Regioni Meridionali Sudindustria, Faldone 125,3 – “Assemblee: bilanci e relazioni”, 622 Fascicolo I inserto b, “Verbale dell’Assemblea ordinaria e straordinaria di Sudindustria”, Roma, 2 marzo 1948, p. 2.

49 Verbale del 23 novembre 1949, in Verbali delle Assemblee della SVIMEZ, vol. I, pp. 73-74, riportato in V. Negri Zamagni, M. Sanfilippo (a cura di), Nuovo meridionali-smo e intervento straordinario. La SVIMEZ dal 1946 al 1950, cit., pp. 23-24. Menichella pro-seguiva il suo intervento, affermando: “Ho avuto occasione di leggere e constatare nei miei recenti viaggi in America che parecchi tentativi di collaborazione internazionale a favore di aree sottosviluppate si sono arrestati di fronte alla mancanza assoluta di dati e di conoscenza dei problemi che si do-vevano affrontare […]. Se il capitale estero venisse a noi e non trovasse questa armonia

di studi e di dati, noi dovremmo ancora una volta constatare che buone disposizioni altrui non avrebbero possibilità di realizza-zione. Il problema meridionale è vecchio di ottanta anni, ma dobbiamo riconoscere che alla volontà degli uomini che ne hanno nel passato auspicato la soluzione non ha mai corrisposto lo studio veramente profondo delle condizioni dell’Italia meridionale e quindi delle possibilità che queste condi-zioni fossero modificate con appropriati investimenti di capitali. È assolutamente attraverso l’opera della SVIMEZ che noi cominciamo ad avere la fiducia di vedere chiaro questo problema sia nelle sue linee generali, sia in linee più specifiche”.

50 C. Barbagallo, La questione meridionale, Milano, Garzanti, 1948, p. 188.

51 Ibidem, p. 184. Corrado Barbagallo (pp. 184-185) precisava che: “Si vuole con questo nome designare un complesso di elementi, che è difficile catalogare in rubri-che fisse, ma la cui mancanza incide note-volmente sui costi di produzione. Si tratta della facilità (o difficoltà) di acquistare pezzi di ricambio per macchinari, materiali per le manutenzioni o per le riparazioni, materie ausiliarie dell’industria, che si vor-rebbe impiantare. Si tratta della possibilità di trovare maestranze specializzate o della necessità di far venire da lontano, e stipen-diare lautamente, dei tecnici. Si tratta di de-ficienze nella organizzazione commerciale, nei vari servizi pubblici, che inceppano il procedere dell’industria, aggravandone i costi, o rendono addirittura intollerabile la vita alle maestranze lavoratrici, ai tecnici, ai dirigenti. Si tratta della facilità (o diffi-coltà) di avere a portata di mano i prodotti semilavorati o finiti che occorrono; in una parola, di quell’atmosfera, di quel clima, di cui ogni industria ha bisogno per respirare e per vivere. Sembrerebbe che tutto ciò abbia piccola importanza nella industria-lizzazione di un paese; eppure l’influenza di questi così detti «fattori agglomerativi» è grandissima”.

52 C. Barbagallo, La questione meridionale, cit., p. 291.

53 Ibidem, pp. 291-292.54 G. Galasso, SVIMEZ, Mezzogiorno, un

sessantennio di storia italiana, cit., p. 16.

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È stato un fatto po-litico inedito, davvero insolito nel panorama politico italiano e soprat-tutto meridionale. Nessu-no aveva, sinora, pensato che ci potesse essere tempo e spazio, volontà politica e passione, per mettere insieme e in viaggio 150 giovani e meno giovani in una mescolanza di esperienze e conoscenze, desideri di sapere e proposta politica, speranza e cultura del fare, idee e programmi, progetti e risorse che occorrono per la modernizzazione delle regioni meridionali in Europa e nel Mediterraneo. La scuola d’inverno è stato un successo sul quale si discute, e che deve far riflettere.

Non è facile costruire un momento di approfondimento sui temi del Mez-zogiorno tra Europa e Mediterraneo in una scuola a pagamento di tre giorni, su una idea-forza che è anche una premessa: la necessità di nuova classe dirigente po-litica, amministrativa e imprenditoriale autonoma e colta dal profilo europeista e meridionalista, come ha sottolineato nel suo intervento introduttivo il Presidente della Fondazione Andrea Geremicca.

Dunque: centocinquanta parte-cipanti ammessi (circa quattrocento le richieste di adesione) tra ricercatori universitari, amministratori locali, di-rigenti di associazioni, organizzazioni no profit, dirigenti di partito, studenti, professionisti e imprenditori. Prove-nienti non solo dall’Europa, ma anche dai paesi africani come il Marocco ed il Congo. Più di 50 relatori tra do-centi universitari, deputati nazionali ed europei, funzionari, sindacalisti e imprenditori; 5 workshops tematici, due cene – simposio, presentazioni di libri nonché vari spazi di dibattito e confronto. Questi, in sintesi, i dati della prima Scuola d’inverno promossa dalla Fondazione Mezzogiorno Europa dal titolo “Una nuova classe dirigente per il Mezzogiorno… è l’Europa nel Medi-terraneo”, svoltasi dal 15 al 17 dicembre

nelle sale dell’Hotel San Germano ad Agnano Terme. La scuola strutturata in workshops ha analizzato i modelli di integrazione, innovazione e sviluppo utili ad aumentare la competitività e a rilanciare le nuove politiche per il Mezzogiorno nel quadro strategico eu-romediterraneo. Non solo informazione, ma dibattito e confronto, ciascuno con quel dividersi-congiungendosi di analisi e proposte anche molto accese e ampie, con il Mezzogiorno e il Mediterraneo sempre protagonisti e al centro delle discussioni. Tra questi i caratteri del “dualismo” Nord-Sud, il ruolo che il Mezzogiorno può e deve giocare per il rilancio del Mediterraneo, i rapporti economici ma anche culturali che in-teressano le regioni del Sud dell’Italia e la sponda nord del Mediterraneo, il ruolo che l’Europa gioca nel contesto politico italiano e le conseguenze che l’allargamento a est ha avuto e potrà avere in futuro per le regioni del Mez-zogiorno, l’innovazione e la ricerca come “carte vincenti” delle nuove politiche di sviluppo del Mezzogiorno.

La tre giorni è stata aperta dal messaggio del Presidente della Repub-blica Giorgio Napolitano: “Considero queste iniziative assai utili al fine di favorire un più vasto coinvolgimento dell’opinione pubblica, e in particolare dei giovani, sulle tematiche a me care dell’integrazione europea, delle pro-spettive dell’Europa politica, del futuro dell’unione economica, culturale, civile dell’identità comunitaria”.

Apprezzamenti per l’iniziativa anche dal Ministro degli Affari Esteri

Massimo D’Alema “per questo impor-tante momento di riflessione critica, analisi politica e for-mazione che avete voluto promuovere. Certamente non mancheranno in fu-turo nuove occasioni per lavorare insieme, magari associando

anche le nostre due Fondazioni attorno a iniziative a specifiche da costruire”.

In apertura dei lavori, dopo i saluti delle Istituzioni con gli interventi degli assessori: Andrea Cozzolino per la Regione Campania, Guglielmo Allodi per la Provincia di Napoli ed Enrico Cardillo per il Comune di Napoli, e la relazione introduttiva del Presidente Geremicca, la discussione-formazione è entrata nel vivo.

Bruno Marasà, Umberto Ranieri, Cosimo Risi sono stati alcuni tra i rela-tori del primo panel, che ha affrontato il tema della politica estera italiana e del dialogo con i Paesi del Mediterra-neo e del Medio Oriente. Sul terreno economico e sull’intreccio questione meridionale-questione mediterranea, è intervenuto tra gli altri, nella mattinata della seconda giornata dei lavori, il Presidente della Regione Campania, Antonio Bassolino, affermando che “la sfida sul versante economico è davanti a noi. La vicenda mediterranea e quella meridionale sono così intrecciate che finalmente si può riaprire una prospet-tiva storica per il Mezzogiorno, proprio perché si sta riaprendo una prospettiva mediterranea, fino a pochi anni fa asso-lutamente impensabile”.

Il work shop centrale della scuola, molto dibattuto, è stato “Il Mezzogior-no: Sud d’Europa Nord del Mediterra-neo” con interventi di Filippo Bubbico, Biagio De Giovanni, Enzo Giustino, Amedeo Lepore, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini.

Del Mezzogiorno come piattafor-ma logistica dell’Italia nel Mediterraneo

La Scuola d’Invernodella Fondazione Mezzogiorno Europa

Una nuova classe dirigenteper il Mezzogiorno

Giulia Velotti

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si è discusso nella sessione serale con Enzo Amendola, Cristiana Coppola, Alfredo Mazzei, Vincenzo Lavarra e Gianni Pittella.

«Idee, idee, e ancora idee. Chi si lamenta sempre e dice che non ci sono soldi ha poche idee e pochi progetti. Quando ho fatto l’assessore regionale non avevo a disposizione molti soldi, eppure definendo la mission e poi se-lezionando i progetti abbiamo trovato i finanziamenti e abbiamo realizzato poli di eccellenza nella ricerca che oggi ci invidia tutta l’Italia»: così il Ministro dell’Innovazione e funzione pubblica, Luigi Nicolais ha introdotto il quinto e ultimo workshop. Lo ha detto e ribadito più volte ai giovani delle regioni meridionali che hanno partecipato alla scuola, ponendo l’ac-cento sul motore che muove oggi lo sviluppo e l’economia: la conoscenza, i saperi, l’innovazione. Non a caso il tema della sessione conclusiva della scuola era: “Innovazione e sviluppo, le carte vincenti per il Mezzogior-no”. Hanno partecipato, insieme al Ministro Nicolais, gli eurodeputati Alfonso Andria e Gianni Pittella, del Rettore dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” Pasquale Ciriel-lo, il Presidente della Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati Daniele Capezzone, il Senior Partner di RSO Knowledge Company Bruno Carapella, il Consigliere dele-gato Mezzogiorno di Assocounsult Confindustria Antonio Imbrogno, il presidente dell’Unione Industriali di Napoli Giovanni Lettieri, il Segretario della UIL Campania Anna Rea, il Pre-sidente di Campania Start Up Mario Raffa, il responsabile Relazioni esterne di Fastweb Roberto Scrivo ed il Gover-nment Affairs Manager di Microsoft Italia Franco Spicciariello.

Le scuole di formazione si sa non prevedono conclusioni, e la presenza del Ministro, entusiasta dell’iniziativa e dei dibattiti mai sommari e generici, ma con interventi critici e dettagliati da parte dei partecipanti, ha segnato un punto alto di riferimento e riflessione. Tra i temi del workshop, quello della spesa dei fondi comunitari che secondo Anna Rea “sono stati spesi male e non sono stati indirizzati rispetto a quello che il pubblico può fare”. Per Gianni Pittella occorre rilanciare le politiche di ricerca sviluppo tecnologico ed innovazione che rappresentano tre fattori sui quali pun-tare per sostenere la ripresa economica del Mezzogiorno. Nei prossimi 7 anni, tra Fondi europei e nazionali, saranno circa 100 i milioni di euro stanziati per le regioni meridionali e spetta alla poli-tica, il compito di non frammentare tali risorse ma di concentrarle per finanziare settori che possono realmente rappre-sentare un valore aggiunto per la crescita economica. Sul tema della ricerca si è soffermato Daniele Capezzone, per il quale “i soldi per la ricerca devono essere destinati a borse di studio e incentivi. Non sempre servono più soldi quanto invece è importante che gli investimenti siano rivolti alla valorizzazione di tutte

quelle politiche giovanili”. A scuotere i partecipanti l’intervento di Gianni Lettieri, per il quale “è importante che i giovani siano in prima linea nella guida del paese, l’esempio dei nuovi giovani vertici di Confindustria in Campania è emblematico.”

I lavori si sono chiusi con le parole del Presidente Geremicca, il quale, oltre a rallegrarsi della grande partecipazione della tre giorni di analisi e discussione, ha sottolineato come l’intento vuole essere quello, anche in futuro, “di fare formazione per contribuire alla costru-zione di una nuova classe dirigente che operi in relazione al nuovo ruolo del Mezzogiorno nel contesto del Medi-terraneo. La quantità di adesioni, l’alto numero dei partecipanti al di sotto dei trent’anni, la disponibilità e il livello dei relatori ci incoraggiano a continuare. Arrivederci, allora, alla Scuola d’estate, che è già in preparazione, sulla com-plessa, affascinante questione ”società, politica, partiti e istituzioni!”.

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Camera di Commercio Industria Agricoltura di Napoli

L E P R O S P E T T I V EF I N A N Z I A R I E U E2 0 0 7 / 2 0 1 3

Q U A L I O P P O R T U N I T ÀPER NAPOLI E LA CAMPANIA

Stralci dalla ricerca interamente finanziata dalla Camera di Commercio Industria Agricoltura di Napoli, realizzata dalla Fondazione Mezzogiorno Europa e pubblicata in volume. Nel prossimo numero gli altri tre capitoli.

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Nella v a l u t a z i o n e del contesto p o l i t i c o d a l

quale è scaturito il varo della nuova programmazione dei Fondi strutturali pare opportuno prendere le mosse dal percorso parlamentare che ha condot-to all’approvazione dei cinque nuovi regolamenti.

In particolare, attraverso l’esame dei processi verbali della sessione del Parlamento Europeo tenutasi all’inizio di luglio del 2006, si tenterà di veri-

ficare se e in quale direzione si siano verificate, all’interno dell’assemblea di Strasburgo, delle divisioni in sede di votazione, sia sulla base dell’appar-tenenza politica dei parlamentari, sia sulla base dello stato membro di pro-venienza. Naturalmente, ciò è possibile solo in quei casi nei quali si è proceduto ad una votazione per appello nominale, l’unica per la quale è prevista la regi-strazione dei nominativi dei favorevoli, dei contrari e degli astenuti.

Nel caso specifico, possono essere

esaminate due votazioni: si tratta dell’espressione del ‘parere confor-me’ del PE sul Regolamento recante “Disposizioni generali sui fondi”5 e sul Regolamento che istituisce un Fondo di coesione6, entrambe effettuatesi il 5 luglio del 2006.

Come risulta dal processo verbale della seduta in oggetto,7 le due votazioni si sono concluse con un’approvazione a larghissima maggioranza: 533 voti a favore e 41 contrari nel caso delle disposizioni generali, 567 favorevoli

CONTESTO ISTITUZIONALE E CRONOLOGIA DELLA FASE DI NUOVA PROGRAMMAZIONE

DEI FONDI STRUTTURALI (2007-13)

La fase di nuova program-m a z i o n e

dei Fondi strutturali e della politica di coesione si inserisce in un contesto di policy a livello europeo notevolmente mutato rispetto al ciclo di programma-zione precedente.

Innanzitutto, si tratta della prima riprogrammazione dei Fondi dopo l’allargamento dell’Unione a 25 stati membri: si calcola che circa il 52% delle risorse stanziate per la politica di coesione saranno destinati ai nuovi paesi, al fine di attenuare la disparità economica delle regioni più svantag-giate d’Europa.1

In secondo luogo, essa si inserisce in un contesto di mancato aumento degli stanziamenti previsti, dal momento che le nuove prospettive finanziarie 2007-13 stabiliscono in circa 336 miliardi di euro, più o meno un terzo del comples-sivo bilancio, le risorse disponibili per la coesione, all’incirca confermando percentualmente l’incidenza di tale voce sulla finanza comunitaria.

In terzo luogo, la nuova program-mazione introduce diverse soluzioni di continuità con il passato: innanzitutto, vi è il tentativo di un maggiore collega-mento dei Fondi con gli orientamenti strategici complessivi dell’Unione, in particolare con la strategia di Lisbona. Inoltre, gli interventi saranno focaliz-zati sulle regioni più svantaggiate, per le quali sono stanziate la maggior parte delle risorse, al fine di ridurre effetti-vamente i divari esistenti all’interno dell’Unione, mentre, al tempo stesso, si tenderà ad un maggiore grado di

decentramento nell’attuazione degli interventi.

Infine, la nuova regolamentazione generale presentata dalla Commissione Europea prevede una generale sem-plificazione, sia per quanto riguarda la formulazione degli obiettivi, sia per ciò che concerne gli strumenti finanziari a disposizione: vi saranno, infatti, tre obiettivi fondamentali da perseguire (Convergenza, Competitività regio-nale e occupazionale, Cooperazione territoriale europea), a fronte di tre strumenti finanziari a disposizione (il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, il Fondo Sociale Europeo e il Fondo di Coesione).

La nuova fase di programmazione fu avviata il 14 luglio del 2004, data in cui la Commissione Europea presenta un pacchetto di cinque proposte relati-ve ai Regolamenti dei Fondi strutturali per il periodo 2007-13: si tratta di un Regolamento Generale che definisce norme e principi applicabili ai tre strumenti finanziari, tre regolamenti specifici per ciascuno dei Fondi e, in-fine, un Regolamento che istituisce il Gruppo europeo di cooperazione tran-sfrontaliera (GECT), un nuovo stru-mento giuridico che fornisce un quadro facoltativo per la creazione di autorità europee per l’attuazione di programmi di cooperazione transfrontaliera.

All’incirca un anno dopo, il 6 luglio del 2005, la Commissione adotta le comunicazioni “Linee-guida strate-giche della Comunità sulla politica di coesione 2007-13”, nel quale docu-mento vengono messe in luce le novità fondamentali cui è ispirata la nuova

regolamentazione dei Fondi proposta e che fungono da proposta al Consiglio al fine dell’approvazione degli Orienta-menti strategici.2

Il 15 e il 16 dicembre, il Consiglio Europeo raggiunge un importante com-promesso in tema di Prospettive finan-ziarie 2007-13: decisione che si riper-cuote inevitabilmente sull’impostazione della politica di coesione in quanto ne delimita complessivamente il budget e consente, quindi, il passaggio alla fase operativa di programmazione.

Così, nel mese di luglio del 2006 si giunge all’approvazione, secondo le ri-spettive procedure previste per ognuno di essi,3 dei cinque nuovi Regolamenti da parte del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione, la cui pubbli-cazione viene effettuata il successivo 31 luglio.

Si arriva, infine al 4 agosto 2006, data in cui la Commissione adotta una decisione sui criteri per l’allocazione dei Fondi e sulle regioni che ad essi potranno accedere, successivamente pubblicata il 6 settembre del 2006.

Nel frattempo, parallelamente, alla fase di programmazione europea, anche sul piano nazionale erano state avviate le attività di negoziazione, con le Regioni e gli Enti Locali, volte alla definizione del Quadro Strategico Na-zionale,4 documento che traduce, sul piano nazionale appunto, gli indirizzi della politica europea di coesione: in tal modo le autorità nazionali hanno proceduto all’elaborazione di una bozza tecnico-amministrativa del Quadro sulla base della quale viene elaborata la versione definitiva.

CONTESTO POLITICO RELATIVO ALL’APPROVAZIONE DEI NUOVI REGOLAMENTI

P A R T E P R I M AQ U A D R O P O L I T I C O E N O R M A T I V O E U R O P E O

Pasquale Caccavale

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e 29 contrari nel caso del Fondo di Coesione: una prima considerazione che può essere svolta, dunque, è re-lativa al fatto che la programmazione dei Fondi strutturali fa parte di quelle materie per le quali prevale una logica di tipo consensualistico all’interno del PE, volta alla ricerca del più ampio consenso possibile, dal momento che si tratta di una policy che coinvolge rilevanti interessi nazionali.

Un secondo passo, a questo punto, deve essere fatto nella direzione della ricerca di coloro che si sono opposti al-l’approvazione dei due regolamenti in oggetto, al fine di individuare eventuali soggetti politici scontenti dell’impo-stazione della fase di nuova program-mazione dei Fondi strutturali.

Nel caso del Regolamento sulle disposizioni generali, comuni a tutti i Fondi, si può rilevare come tra i 41 voti contrari e i 53 astenuti siano identificabili due gruppi ben distinti. Il primo è quello dei parlamentari della Sinistra Unita Europea/Sinistra Verde Nordica (GUE/NGL), rappresentativo della sinistra radicale nel PE, i cui membri si suddividono tra i contrari e gli astenuti: si tratta, in questo caso, di un dissenso di tipo ideologico-pro-grammatico, giustificabile, appunto, su tale piano.

Il secondo gruppo è quello dei con-servatori britannici facenti parte del gruppo dei popolari (PPE-DE) i quali hanno votato compattamente contro il regolamento: e si tratta, in questo caso, di un dissenso evidentemente motivabile sul piano dell’interesse nazionale, ascrivibile ad una mancata

condivisione dei criteri per l’attri-buzione dei Fondi alle varie regioni. Nel caso, invece, del parere conforme sul Regolamento istitutivo del Fondo di Coesione, il dissenso si riduce ul-teriormente: non sono riscontrabili dissensi giustificabili sulla base della nazionalità, mentre si conferma il dato relativo al gruppo GUE/NGL, la cui maggioranza ha preferito astenersi, mentre alcuni di essi hanno votato a favore del regolamento. Da segnalare, in questa circostanza, anche un dissen-so, sebbene non unanime, proveniente ‘da destra’, con alcuni membri del gruppo euroscettico di Indipendenza e Democrazia (IND/DEM) ed altri de-putati di partiti di destra appartenenti al Gruppo dei Non Iscritti (NI) (tra cui Alessandra Mussolini e Jean Marie Le Pen) che hanno votato contro l’istitu-zione del nuovo Fondo di Coesione.

In definitiva, da quest’analisi necessariamente parziale dei lavori parlamentari sui Fondi Strutturali, emerge un quadro largamente con-sensuale entro il quale si è proceduto alla riforma, con, in particolare, i tre maggiori partiti rappresentati al Par-lamento Europeo, popolari, liberali e socialisti, che hanno votato compatta-mente a favore dei regolamenti.

Il dissenso della sinistra radica-le, come appare dagli interventi nel corso della discussione a Strasburgo, è motivato sulla base di diverse argo-mentazioni: in primo luogo, il mancato aumento del peso totale dei Fondi strutturali sul bilancio dell’UE; in secondo luogo la subordinazione della politica di coesione a quella che viene

definita la ‘neoliberista’ “strategia di Lisbona”; infine, si lamenta una de-terminazione ‘dirigistica’ delle regole comuni, senza il necessario coinvolgi-mento delle comunità locali e dei loro organi democraticamente eletti.8

Per quanto riguarda, invece, il dis-senso dei conservatori britannici, esso ha una motivazione piuttosto partico-lare: la politica di coesione, infatti, è strutturata in modo tale da far affluire fondi alla Repubblica di Irlanda, senza che lo stesso si possa dire per l’Irlanda del Nord. Si tratta di una posizione portata avanti da lungo tempo dai conservatori britannici, i quali più volte, in passato, hanno chiesto che i fondi della politica di coesione fossero attribuiti anche alla arte di Irlanda facente parte del Regno Unito.9

Piena soddisfazione, rispetto alla nuova regolamentazione approvata, viene espressa dai tre principali gruppi politici del Parlamento Europeo, e cioè popolari, socialisti e liberali: tra le mo-tivazioni della piena approvazione dei regolamenti approvati si citano, tra le altre ragioni, l’incremento, in termini assoluti, delle risorse stanziate, l’intro-duzione di un criterio di valutazione ambientale degli investimenti rea-lizzati, il rafforzamento del principio del partenariato, l’introduzione di un criterio di valutazione dell’accessibi-lità degli investimenti per i disabili, la concentrazione degli obiettivi sui quali spendere le risorse, la semplifi-cazione delle procedure burocratiche e la decentralizzazione delle decisioni di intervento, con un maggiore coinvolgi-mento delle autorità locali.10

PREMESSA

Le premesse dell’attuale stagio-ne di riforma dei regolamen-ti e degli orientamenti relati-

vi ai Fondi Strutturali sono contenute nell’analisi dell’andamento della poli-tica di coesione negli anni precedenti: in particolare, sembra abbia giocato un ruolo davvero rilevante nell’ispirazione della nuova disciplina la pubblicazione del terzo Rapporto sulla Coesione, nel febbraio del 2004.11

In tale rapporto, infatti, si possono apprezzare quegli orientamenti della Commissione che, successivamente, sono diventati i principi ispiratori della nuova disciplina: accento sulla coesione, nel senso di una concentrazione delle

risorse sull’obiettivo “convergenza”, sul partenariato, nel senso di una de-centralizzazione nella gestione degli interventi, semplificazione delle fasi che scandiscono la nuova stagione program-matoria, individuazione analitica dei tre obiettivi che dovranno essere perseguiti attraverso i Fondi strutturali.

Nel luglio del 2006, attraverso diversi passaggi e coerentemente con queste premesse, si è giunti all’appro-vazione dei nuovi Regolamenti recanti la nuova disciplina dei Fondi Strutturali per ciò che concerne il periodo 2007-2013. Nel dettaglio, si tratta:✔ del Regolamento (CE) n. 1083/2006

dell’11 luglio 2006, recante “Dispo-sizioni generali sul Fondo europeo

di sviluppo regionale, sul Fondo sociale europeo e sul Fondo di coe-sione”, che abroga il Regolamento (CE) n. 1260/99;

✔ del Regolamento (CE) n. 1080/2006 del 5 luglio 2006, del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativo al Fondo Europeo di Sviluppo Re-gionale e recante abrogazione del Regolamento (CE) n. 1783/99;

✔ Regolamento (CE) n. 1081/2006 del 5 luglio 2006, del Parlamento Europeo e del Consiglio, relativo al Fondo Sociale Europeo e recante abrogazione del Regolamento (CE) n. 1784/1999;

✔ Regolamento (CE) n. 1084/2006 dell’11 luglio 2006, del Consiglio,

ANALISI NORMATIVA DEI REGOLAMENTI APPROVATI: LE NOVITÀ DELLA POLITICA DI COESIONE 2007-13

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che istituisce un Fondo di Coesione e abroga il Regolamento (CE) n. 1164/1994;

✔ Regolamento (CE) n. 1082/2006 del 5 luglio 2006, del Parlamento Eu-ropeo e del Consiglio, relativo a un Gruppo Europeo di Cooperazione Territoriale (GECT).

Tali regolamenti vanno a costituire l’impalcatura sulla quale poggerà la politica regionale dell’Unione Europea per i prossimi sei anni. Una prima, fondamentale novità rispetto al pas-sato riguarda il fatto che saranno tre i Fondi che finanzieranno gli interventi previsti:

✔ il FESR, che dovrà promuovere gli investimenti pubblici e privati al fine di rimuovere gli squilibri regionali presenti nell’UE;

✔ il FSE, volto ad accrescere l’adatta-bilità dei lavoratori e delle imprese, migliorare l’accesso all’occupazione e alla partecipazione al mercato del lavoro e rafforzare l’inclusione sociale;

✔ il Fondo di Coesione, che contri-buisce a interventi nei settori del-l’ambiente e delle reti di trasporti transeuropee nei paesi con reddito nazionale lordo (RNL) inferiore al 90% della media comunitaria.

Al fine di una migliore definizione dei tipi di interventi finanziabili at-traverso i Fondi Strutturali, vengono definiti dettagliatamente i tre obiettivi che dovranno essere perseguiti dai nuovi Fondi:

✔ in primo luogo, la convergenza, obiettivo finanziato da tutti e tre i fondi e che assorbe circa l’81,5% del totale delle risorse stanziate, diretto agli Stati e alle regioni in ritardo di sviluppo;

✔ il secondo obiettivo è quello della competitività regionale e occupa-zione, che interessa tutte le regioni che non rientrano nell’obiettivo “convergenza”: attraverso di esso si intende rafforzare la competitività, attrattività e l’occupazione a livello regionale, in particolare tramite l’innovazione e la promozione della società della conoscenza, l’imprenditorialità, la protezione dell’ambiente, l’adattamento della forza lavoro e l’investimento nelle risorse umane. Tale obiettivo è finanziato dal FESR e dal FSE, per

un totale di 49,13 miliardi di euro, pari a circa il 16% del totale delle risorse stanziate;

✔ il terzo obiettivo è quello della cooperazione territoriale europea, volta a rafforzare la cooperazione transfrontaliera e transnazionale, tramite iniziative congiunte a livello regionale e nazionale e la coopera-zione e lo scambio di esperienze a li-vello interregionale. Tale obiettivo è finanziato dal FESR e dal FSE su di esso si concentreranno, tra l’altro, le azioni attualmente finanziate dai programmi Interreg, Leader, Equal e Urban, per un totale di risorse pari a circa il 2,5% del totale.

I NUOVI REGOLAMENTINEI LAVORI PREPARATORI

Scendendo nel dettaglio di ogni singolo regolamento, appare opportu-no fare un riferimento alle Relazioni attraverso le quali ognuno di essi è stato presentato all’assemblea di Strasbur-go: l’esame di tali lavori preparatori, infatti, mette in luce proprio le novità della nuova programmazione dei fondi strutturali.

La Relazione Hatzidakis (PPE-DE),12 relativa al Regolamento “Dispo-sizioni generali” che stabilisce le norme comuni per tutti i fondi, sottolinea, in-nanzitutto, il rafforzamento dell’aspetto ambientale e dello sviluppo sostenibile nella gestione dei fondi strutturali e di coesione, attraverso l’introduzione di un nuovo articolo, che garantisce, ap-punto, la presa in considerazione di tale aspetto nell’attuazione dei fondi.

In secondo luogo, è stata ottenuta una menzione specifica riguardo al fatto che i fondi strutturali e di coesione debbano sostenere il miglioramento e la promozione dell’accessibilità dei disabili.

In terzo luogo, è stato rafforzato il principio del partenariato, attra-verso la previsione della possibilità di partecipazione ai negoziati di organi rappresentativi della società civile, di associazioni ambientali-ste, di organizzazioni non governa-tive e di quelle responsabili della promozione della parità di genere. La relazione, inoltre, punta l’indice sul fatto che il Consiglio ha respin-to una proposta, precedentemen-te abbozzata in una dichiarazione comune con la Commissione e il Parlamento, volta a favorire l’asse-gnazione delle risorse non utilizzate

ai fondi, piuttosto che riposizio-narle nel complessivo bilancio UE. La Relazione Fava (PSE) riferisce al Parlamento per ciò che concerne il FESR, anche qui mettendo in luce le principali novità nella regolamentazio-ne di tale fondo. L’accento è posto, in particolare sul finanziamento:

✔ di investimenti produttivi che contribuiscono alla creazione e al mantenimento di posti di lavoro stabili, in primo luogo attraverso aiuti diretti agli investimenti prin-cipalmente nelle piccole e medie imprese (PMI);

✔ di investimenti in infrastrutture e dello sviluppo di potenziale endoge-no attraverso misure che sostengano lo sviluppo regionale e locale.

Tali attività includono il sostegno e i servizi alle imprese, in particolare alle PMI, la creazione e lo sviluppo di nuovi strumenti finanziari, la messa in rete, la cooperazione e gli scambi di esperienze tra regioni, città e ope-ratori sociali, economici e ambientali interessati.

La Relazione Peneda (PPE-DE), relativa al FSE, mette in luce come la nuova stagione del fondo debba essere orientata a sostenere le politiche de-gli Stati membri intese a conseguire la piena occupazione, la qualità e la produttività sul lavoro, a promuovere l’inclusione sociale, compreso l’accesso all’occupazione delle persone svantag-giate, a ridurre le disparità occupa-zionali a livello nazionale, regionale e locale.

In particolare, il Fondo deve fornire sostegno alle azioni in linea con le mi-sure prese dagli Stati membri sulla base degli orientamenti adottati nell’ambito della Strategia europea per l’occupazio-ne, definita a Lisbona.

Infine, la Relazione Andria (PPE-DE), relativa al Fondo di Coesione, focalizza l’attenzione, innanzitutto, sul fatto che è stata aumentata la dotazione finanziaria fino a oltre 61 miliardi di euro: ciò, considerato che solo Spagna, Portogallo e Grecia, tra i Quindici, usu-fruivano di tale Fondo e che dal gennaio 2007 nemmeno più la Spagna rispette-rà i requisiti per accedere ad esso, farà si che tale strumento avrà un maggiore impatto per il perseguimento del suo fine istituzionale, che è il riequilibrio delle condizioni economico-sociali tra tutti gli stati membri, tenuto conto del fatto che sono proprio i paesi nuovi en-

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tranti a presentare un livello di sviluppo economico di gran lunga inferiore alla media UE.

Un’altra novità introdotta dal relati-vo regolamento, sottolinea la Relazione, consiste nel potenziamento del contri-buto dato dal Fondo alla sostenibilità dello sviluppo economico, attraverso il finanziamento di reti transeuropee, di progetti nel settore dei trasporti ferroviari, delle vie navigabili fluviali e marittime, di programmi di trasporto urbano sostenibile e di incentivi e pro-getti che promuovano l’efficienza e la rinnovabilità delle fonti energetiche.

IL DETTAGLIO DEI NUOVI OBIETTIVI

Pare opportuno, a questo punto, andare nel dettaglio di ogni obiettivo, dal momento che la ridefinizione di essi ap-pare una delle chiavi di lettura principali della nuova fase di programmazione.13

L’ Obiettivo 1 (Convergenza), allo scopo di migliorare le condizioni di crescita e di occupazione nelle regioni meno sviluppate dell’Europa, definisce i seguenti settori di intervento: qualità degli investimenti in capitale fisico e umano, sviluppo dell’innovazione e della società basata sulla conoscenza, adattabilità ai cambiamenti economici e sociali, tutela dell’ambiente, efficienza amministrativa.

Tale obiettivo, come detto, assor-be gran parte delle risorse destinate, complessivamente, alla politica di coesione: in particolare, all’interno della quota stanziata per esso, oltre i due terzi andranno alle regioni con PIL pro capite inferiore al 75% della media comunitaria, mentre appena l’8,4% del totale andrà a quelle regioni che sono passate al di sopra del dato del 75% a causa dell’allargamento.

In tali casi, si è ritenuto opportuno ammettere queste regioni all’accesso ad un aiuto specifico, transitorio e de-crescente, dal momento che non sono migliorate le condizioni relative alla crescita ed occupazione ma, semplice-mente, si è prodotta un’ “illusione sta-tistica” a causa dell’ingresso, nel 2004, di nuovi Stati membri con regioni dal reddito pro capite molto basso.

Infine, la restante, minima percen-tuale di risorse destinate a questo obiet-tivo è finanziato dal fondo di Coesione ed è destinato agli stati membri con PIL pro capite al di sotto del 90% della me-dia comunitaria che attuino programmi di convergenza economica: tali risorse devono contribuire alla sostenibilità

dello sviluppo e al rafforzamento della capacità istituzionali e dell’efficienza della Pubblica Amministrazione.

Con la disciplina regolamentare sono posti anche dei massimali di finanziamento attraverso le risorse europee: le soglie sono posizionate, a seconda dei casi, al 75, all’80 o all’85% per gli interventi finanziati dal FESR o dal FSE e al 75% per gli interventi finan-ziati dal fondo di Coesione: si tratta, in questo caso, di una specificazione del principio della ‘addizionalità’.

L’Obiettivo 2 (Competitività re-gionale e occupazione) non è rivolto, come già detto, alle regioni in ritardo di sviluppo ed è finalizzato a rafforzare la competitività e l’attrattività delle regioni europee, anticipando i cambia-menti socio-economici, promuovendo l’innovazione, l’imprenditorialità, la tutela dell’ambiente, l’adattabilità dei lavoratori e lo sviluppo di mercati del lavoro che favoriscano l’inserimento.

Le regioni che usufruiscono dei finanziamenti stanziati per tale obiet-tivo sono:

✔ quelle che, nel periodo 2000-06, accedevano all’obiettivo 1, ma che ora non soddisfano più i requisiti previsti;

✔ in generale, tutte le altre regioni che non usufruiscono degli aiuti dell’obiettivo convergenza.

I 57,9 miliardi di euro destinati a tale obiettivo provengono sia dal FESR che dal FSE: il massimale di finanzia-mento con fondi europei è del 50%. Per quanto riguarda i finanziamenti provenienti dal FSE, si è stabilito che gli interventi debbano rispettare la Strategia europea per l’occupazione (SEO) e, cioè, devono essere rivolti a: accrescere l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese, potenziare l’accesso all’occupazione, rafforzare l’inserimen-to sociale e avviare riforme nel settore dell’occupazione e dell’inserimento.

L’Obiettivo 3 (Cooperazione terri-toriale europea) è di nuova definizione ed è volto a rafforzare la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e inter-regionale, basandosi sul vecchio pro-gramma ‘Interreg’: l’azione, finanziata dal FESR, mira a promuovere la ricerca di soluzioni congiunte a problemi co-muni tra le autorità confinanti, come lo sviluppo urbano, rurale e costiero e la creazione di relazioni economiche e reti di PMI. La cooperazione è orientata su ricerca, sviluppo, società dell’informa-

zione, ambiente, prevenzione dei rischi e gestione integrata delle acque.

Sono ammissibili a tali finanzia-menti le regioni di livello NUTS III, situate lungo le frontiere terrestri in-terne e talune frontiere esterne, nonché alcune frontiere marittime adiacenti, separate da un massimo di 150 chi-lometri: la Commissione adotterà, a tal proposito, un elenco delle regioni selezionate. Non vi sono esclusioni territoriali nella Comunità per l’accesso ai finanziamenti per il sostegno alle reti per la cooperazione interregionale e lo scambio di esperienze. Il massimale di cofinanziamento, nel caso dell’Obiet-tivo 3, raggiunge il 75% della spesa pubblica.

Nell’ambito dei tre obiettivi, i principi d’intervento, generalmente definiti, sono: la complementarietà, la coerenza, la programmazione plu-riennale, l’intervento sussidiario e proporzionale, la gestione condivisa, l’addizionalità, la parità tra uomini e donne, il partenariato con le autorità pubbliche competenti, con le forze economico-sociali e con qualsiasi altro organismo rappresentativo.

LA SEMPLIFICAZIONE DELLE FASI DI PROGRAMMAZIONE

Al di là delle questioni relative allo stanziamento del totale delle risorse utilizzabili, alla definizione degli stru-menti e all’individuazione degli obiet-tivi perseguibili, l’altro capisaldo che caratterizza la nuova stagione dei Fondi strutturali è quello della semplificazio-ne delle fasi di programmazione.

La linearità di essa è apprezzabile a partire dall’atto con il quale viene avviata, e cioè l’adozione, da parte della Commissione, degli Orientamenti Strategici per la coesione, in sostanza delle linee-guida contenenti i principi e le priorità che le autorità nazionali e regionali devono seguire nella redazio-ne dei documenti di programmazione dell’utilizzo dei Fondi. Tali orienta-menti della Commissione assumono il valore di una proposta al Consiglio che, successivamente, deve provvedere alla loro approvazione.14

Sulla base degli orientamenti stra-tegici così definiti, e tenendo nel dovuto conto la disciplina di merito posta direttamente dai Regolamenti, le autorità statali devono provvedere alla redazione del Quadro Strategico Nazionale (QSN), in sostituzione del sistema degli Documenti unici di pro-

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grammazione (DOCUP), nel quale la strategia comunitaria è specificata ed adattata ai contesti nazionali.

Il QSN, successivamente, costituisce l’ulteriore punto di riferimento per la re-dazione, a livello nazionale e regionale, di programmi operativi, appunto, nazionali (PON) e regionali (POR), contenenti la definizione delle priorità, le disposizioni prettamente attuative e il quadro finan-ziario di riferimento. Tali programmi operativi devono essere approvati, al fine della valutazione della coerenza con gli obiettivi definiti a livello comunitario, attraverso una decisione della Com-missione Europea. L’approvazione dei programmi operativi dà il via alla fase finale operativa, di selezione e di gestione degli interventi da porre in essere.

GESTIONE, SORVEGLIANZA, CONTROLLO

La sorveglianza e il controllo dei pro-grammi sono assicurati, innanzitutto, da un’ Autorità di gestione, responsabile dell’attuazione del programma opera-tivo in maniera efficiente, efficace e corretta. Essa trasmette annualmente alla Commissione, entro il 30 giugno, una relazione annuale, ed entro il 30 giugno 2016 una relazione finale di esecuzione.

Accanto all’autorità di gestione, vie-ne creata un’ Autorità di certificazione, incaricata di elaborare e trasmettere alla Commissione le dichiarazioni certificate delle spese e le domande di pagamento. Essa deve inoltre certifi-care l’esattezza e la conformità delle spese alle norme nazionali e comuni-tarie, tenere la contabilità e garantire il recupero dei finanziamenti comunitari in caso di irregolarità.

Inoltre, i regolamenti prescrivono la designazione, da parte di ogni stato, di un’ Autorità di audit operativamente indipendente per ciascun programma operativo, la quale garantisce che i

controlli vengano svolti sulla base di un campione adeguato, redige le relazioni annuali di controllo, formula un parere sull’esecuzione degli audit.

Vengono definiti, poi, ulteriori or-ganismi di garanzia e controllo:

✔ un organismo abilitato a ricevere i pagamenti, designato dallo Stato membro;

✔ uno o più organismi responsabili dell’esecuzione dei pagamenti ai beneficiari;

✔ un Comitato di sorveglianza, isti-tuito a livello statale per ciascun programma operativo, presieduto da un rappresentante dello Stato o dell’autorità di gestione, la cui composizione include i partner economici e sociali e regionali: esso assicura la sorveglianza dei programmi operativi, volta a ga-rantire l’efficacia e la qualità del-l’attuazione.

I regolamenti introducono una nuo-va disciplina anche per ciò che concerne i criteri per la modulazione della par-tecipazione dei fondi al finanziamento di ogni singolo intervento. Tali criteri sono i seguenti:

✔ la gravità dei problemi specifici;✔ l’importanza di ciascuna priorità ai

fini del conseguimento degli obiet-tivi comunitari;

✔ la tutela e il miglioramento dell’am-biente;

✔ il tasso di mobilitazione del finan-ziamento privato.

La partecipazione dei Fondi per ciascuna priorità non può essere in-feriore al 20% della spesa pubblica; inoltre, ciascuna priorità e ciascuna operazione può ricevere il sostegno soltanto da un fondo alla volta e nel-l’ambito di un programma per volta. Per gli aiuti alle imprese, gli importi

delle sovvenzioni pubbliche devono rispettare il massimale stabilito in materia di aiuti di Stato. Infine, una spesa cofinanziata dai Fondi non può ricevere aiuti da un altro strumento comunitario.

In tema di limiti temporali, è con-siderata finanziabile ogni spesa effet-tivamente sostenuta dal beneficiario per la realizzazione di un’operazione tra il 1 gennaio 2007 e il 31 dicembre 2015; inoltre, le operazioni cofinanziate non devono essere state ultimate pri-ma della data di inizio del periodo di riferimento. Norme più specifiche in tema di ammissibilità ai finanziamenti sono fissate a livello nazionale, fatte salve, in ogni caso, le norme previste direttamente dai regolamenti per cia-scun Fondo.

Per quanto riguarda la gestione fi-nanziaria dei Fondi, la nuova disciplina specifica che gli impegni sono effettuati per quote annuali e per fondi, con riferi-mento alle priorità di intervento e non più alle specifiche misure.

I pagamenti effettuati sulla base degli impegni sono suddivisi secondo una tripartizione temporale:

✔ il cd. ‘prefinanziamento’, effet-tuato all’atto della presentazione di una domanda di pagamento;

✔ i pagamenti intermedi, che si ef-fettuano periodicamente, all’atto della trasmissione di un’apposita domanda di pagamento e, generalmente, tre volte all’anno, a patto che il beneficiario ri-spetti alcune condizioni fondamentali, tra cui quella della trasmissione di pe-riodiche relazioni relative all’attuazione dell’intervento;

✔ il pagamento del saldo, che deve essere effettuato entro il 30 giugno 2016, dopo che la Commissione avrà approvato la domanda di pagamento finale, la certificazione delle spese e la relazione finale relativa all’intervento effettuato.

Se i Regolamenti costitui-scono le fondamenta della politica di coesio-

ne, gli Orientamenti Strategici costi-tuiscono il necessario trait d’union tra il livello comunitario e il livello statale e regionale del processo di program-mazione: essi costituiscono, infatti, le linee-guida che devono essere seguite

dalle autorità statali, ragionali, locali, nella redazione dei piani operativi sulla base dei quali definire gli interventi finanziabili attraverso i Fondi.

Nello specifico dell’attuale processo di programmazione, gli orientamenti strategici sono stati adottati attraverso una Decisione del Consiglio del 6 otto-bre 2006 (2006/702/CE),15 su proposta

della Commissione, con parere confor-me del Parlamento europeo e dopo la ricezione dei pareri del Comitato Eco-nomico e Sociale e del Comitato delle Regioni: nel preambolo di tale atto, inoltre, si evidenzia come, ai sensi del-l’art. 25 Regolamento (CE) 1083/2006, la base giuridica della decisione, sia opportuno stabilire “orientamenti

LA DECISIONE DEL CONSIGLIO DEL 6 OTTOBRE 2006SUGLI ORIENTAMENTI STRATEGICI COMUNITARI

IN MATERIA DI COESIONE

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strategici per la coesione economica, territoriale e sociale, in modo tale da definire un contesto indicativo di in-tervento” per i Fondi.

Ancora nel preambolo della deci-sione, parte nella quale sono indicati i presupposti di fatto e di diritto della stessa, sono contenute altre due affer-mazioni di principio interessanti: la prima è relativa alla maggiore necessità di una politica per la coesione a seguito dell’allargamento, con il quale le dispa-rità tra le varie regioni d’Europa sono aumentate (numero 3 nel testo della decisione); la seconda è relativa alla strumentalità dell’intervento dei Fondi rispetto all’attuazione della Strategia di Lisbona per la competitività, l’occupa-zione e la crescita sostenibile (numeri da 4 a 7).

Altre affermazioni significative contenute nel preambolo sono:

✔ la necessità di tener conto di tutte le aree, sia urbane che rurali, della Comunità al fine di un loro equili-brato sviluppo (numero 12);

✔ l’importanza dell’obiettivo tutela dell’ambiente nella predisposizione degli interventi (numero 14);

✔ il divieto di discriminazione fondata sul sesso, sulla razza, sulla religione, sulle convinzioni personali, sull’età, sulla disabilità devono essere alla base di ogni approccio strategico in materia di coesione (numero 15);

✔ infine, il rafforzamento del principio di un partenariato di ampio respiro e dell’efficienza nell’azione della Pubblica Amministrazione nell’at-tuazione della politica di coesione.

Successivamente, nell’allegato alla decisione contenente, appunto, gli orientamenti strategici in materia di coesione, sono contenuti, innanzitut-to, i principi fondamentali entro cui deve essere mantenuta tale politica. Nell’introduzione si fa riferimento esplicitamente alla strategia di Lisbona e alla necessità, dunque, che la politica di coesione debba incentrarsi maggior-mente sulla ricerca, sulla conoscenza, sull’innovazione e sulla formazione del capitale umano. In secondo luogo, si sottolinea ancora una volta il perse-guimento dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile attraverso le opportune sinergie tra dimensione economica e ambientale.

Il primo orientamento delineato nel documento punta a “rendere l’Europa e le sue regioni più attraenti per gli

investimenti e l’occupazione”, attraver-so una significativa promozione delle infrastrutture, soprattutto nelle regioni più arretrate, finanziate non soltanto con sovvenzioni pubbliche ma anche con capitali privati: si fa riferimento, innanzitutto, alle infrastrutture nel campo dei trasporti, con particolare attenzione ai progetti di interesse europeo e ai collegamenti transfron-talieri. Altre direttive nel campo dei trasporti sono quelle della promozione della sostenibilità del trasporto urbano, l’incentivazione del sistema ferroviario, l’attenzione nei confronti delle regioni insulari o ultraperiferiche, lo sviluppo delle cd. “autostrade del mare”.

In secondo luogo, l’attrattività delle regioni europee deve essere sostenuta attraverso interventi che garantiscano la sinergia tra crescita economica e sostenibilità ambientale: la valutazione della sostenibilità, infatti, è funzionale alla crescita nel senso che riduce le esternalità ambientali negative per le imprese, stimola le innovazioni e favorisce la creazione di posti di lavoro altamente qualificati.

In terzo luogo, quale condizione necessaria per aumentare la compe-titività europea nel suo complesso viene indicata la necessità di ridurre la dipendenza dalle fonti tradizionali di energia: si raccomanda, in particolare, la diffusione di modelli di sviluppo a bassa intensità di energia, l’uso delle energie rinnovabili e alternative in modo tale da assicurare che, entro il 2010, il 21% dell’elettricità provenga da tale tipo di fonti, come stabilito dalla Strategia di Lisbona.

Il secondo orientamento fonda-mentale enucleato nel documento è “promuovere la conoscenza e l’in-novazione a favore della crescita”, indicando come obiettivo prioritario quello del 3% nel rapporto tra spesa per la ricerca e lo sviluppo tecnologico (RST) e il PIL europeo nel suo comples-so, attualmente essendo pari all’1,9% circa: in particolare, l’accento è posto sul fatto che le regioni europee svilup-pino la capacità di fornire, attraverso il settore pubblico e quello privato, quelle conoscenze tecnologico-scientifiche utili alla crescita del sistema impren-ditoriale. Per tale ragione le attività di RST devono essere concentrate in poli di eccellenza e, geograficamente, devo-no essere vicine ai distretti industriali o ai luoghi dove si svolgono le attività imprenditoriali: viene posto l’accento, dunque, sulla interazione tra attività di

ricerca, pubblica e privata, e il sistema imprenditoriale delle piccole e medie imprese (PMI), con particolare atten-zione agli investimenti da effettuarsi nel campo delle telecomunicazioni e nei processi di qualificazione del capitale umano.

Nel documento viene riservato un apposito paragrafo anche alla promo-zione dell’imprenditorialità attraverso il miglioramento delle condizioni di accesso al capitale di credito, la sempli-ficazione burocratica e la creazione di una rete di sportelli unici che fungano da interfaccia tra il cittadino-impren-ditore e la Pubblica Amministrazione ed, infine, attraverso la promozione dell’imprenditorialità nelle scuole. Particolare attenzione, infine, viene riservata, nell’ambito di questo secondo orientamento, alla promozione della società dell’informazione ed alla diffu-sione delle telecomunicazioni (TLC), sia per ciò che concerne le imprese che per le famiglie.

L’orientamento 1.3 della decisione del Consiglio riguarda i “posti di lavoro migliori e più numerosi”: anche qui viene sottolineata la complementarietà dell’azione svolta nell’ambito della po-litica di coesione con gli obiettivi fissati dall’Agenda di Lisbona.

In primo luogo, nell’ambito di tale orientamento, si fa riferimento all’obiettivo della piena occupazione e del miglioramento della qualità e della produttività del lavoro, facendo in modo che l’offerta si adatti alla do-manda, rendendo conveniente, per i disoccupati e gli inattivi, la prospettiva di un posto di lavoro e facendo si, infine, che il mercato risulti inclusivo per le donne e per le persone svantaggiate o a rischio di emarginazione sociale.

In secondo luogo, viene posto l’accento sulla adattabilità dei lavo-ratori e delle imprese nel contesto della globalizzazione e sulla necessità di rendere più flessibile il mercato, riducendone la segmentazione e fa-cendo si che l’andamento del costo del lavoro e i meccanismi di fissazione dei salari contribuiscano a promuovere l’occupazione.

In terzo luogo, si sottolinea come il raggiungimento dell’obiettivo posto dall’orientamento sia condizionato ad una maggiore capacità di investire nel capitale umano e nell’adeguamento dei sistemi di istruzione e formazione in funzione delle nuove competenze richieste dal mercato.

In quarto luogo, viene indicato

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come obiettivo fondamentale della politica occupazionale quella volta al mantenimento in buona salute della popolazione attiva: gli interventi, dunque, nel campo sanitario possono rientrare nell’ambito dei finanziamenti distribuiti dai Fondi, soprattutto nelle regioni più arretrate.

Il documento si chiude con delle ulteriori considerazioni che, seppur non denominate formalmente ‘orien-tamenti’, ne hanno pressoché il mede-simo valore di indirizzo. Ci si riferisce, in particolare, all’accento posto sulle politiche urbane, dal momento che più del 60% della popolazione dell’UE vive, appunto, in tali aree: l’attenzione, oltre che sulla qualità della vita, è concentra-ta sulla necessità di rendere più compe-

titivi i sistemi urbani e sulla possibilità di garantire una rete completa di servizi per i cittadini-utenti.

Ulteriori considerazioni sono svol-te, in chiusura di documento, in materia di cooperazione transfrontaliera, inter-regionale e transnazionale, come una sorta di clausola di chiusura dell’intera strategia delineata per la politica di coesione.

In definitiva, a commento finale della lettura dell’intero documento, appare evidente il fatto che la politica di coesione risenta fortemente dello sviluppo della cooperazione europea in altre politiche: ci si riferisce, in partico-lare, alla strategia delineata a Lisbona per quanto riguarda la competitività, la crescita e l’occupazione. L’impressione

che si ricava dal documento è quella di una sostanziale volontà di coeren-za complessiva con le altre politiche dell’Unione, seppur nell’ottica di una maggiore attenzione agli obiettivi di riequilibrio economico tra le diverse regioni europee, proprie di una politica di coesione. Certamente tale coerenza è da valutare positivamente, nel senso dell’attivazione di una sinergia tra i diversi settori di policy di cui l’Unione Europea si occupa.

Dall’esame del documento, tutta-via, se ne ricava, in alcuni passaggi, un’impressione di eccessivo dettaglio e onnicomprensività degli obiettivi delineati: ciò, in taluni casi, potrebbe andare a scapito dell’incisività dell’azio-ne proposta nei diversi campi.

Il nuovo Regolamen-to sulle di-sposizioni

generali sui Fondi prevede, tra le altre cose, un approccio programmatico di tipo strategico e un raccordo organico della politica di coesione con le strate-gie nazionali degli stati membri. Per questa ragione, si analizzerà, di seguito, il processo di programmazione attivato a livello nazionale,16 al fine di metterne in luce le previsioni più strettamente legate alle novità introdotte, a livello comunitario, dalla nuova stagione della politica di coesione.

Un primo passo della programma-zione a livello nazionale è stato compiu-to con le “Linee guida per l’elaborazione del Quadro strategico nazionale (QSN) per la politica di coesione 2007-2013”, approvate in base all’intesa del 3 febbraio 2005, raggiunta in seno alla Conferenza Unificata Stato, Regioni, Città e Autonomie Locali. In tale documento, al di là degli specifici con-tenuti programmatici che ritroveremo nell’esame delle disposizioni del QSN, si ritrovano alcuni indirizzi procedurali che sottolineano la forte partecipazio-ne di Regioni ed Autonomie Locali al processo di programmazione. Sono previste, in particolare, tre fasi del processo di programmazione (punto 5 dell’Intesa):

✔ La fase I, Estrapolazione e visione strategica, consiste nella prepara-zione da parte di ogni Regione e del complesso delle amministrazioni centrali coinvolte, di un proprio

Documento strategico prelimina-re, con il coinvolgimento di Enti Locali e parti sociali, nel quale vengono descritte e motivate le priorità strategiche relativamente ai cinque profili strategici delineati nella stessa intesa, sulla base di una rilettura del sistema di accordi di programma quadro esistenti (la scansione temporale prevedeva la conclusione di tale fase entro il settembre del 2005);

✔ La fase II, Confronto Strategico Centro-Regioni, avviene sulla base dei documenti strategici prelimina-ri predisposti e degli Orientamenti Strategici nel frattempo definiti a livello comunitario: essa mira a individuare eventuali obiettivi multiregionali il cui perseguimento possa consentire ‘l’interregionaliz-zazione’ delle strategie, al fine di consentire un adeguato raccordo tra i vari interventi portati avanti dalla diverse regioni (l’intesa prevedeva la conclusione di tale fase entro la fine dell’anno 2005);

✔ La fase III, Stesura del Quadro Strategico Nazionale, provvede alla definizione del QSN in modo tale da tener conto e comporre i diversi indirizzi strategici maturati presso i diversi livelli di governo, contemporaneamente definendo uno schema programmatico finan-ziario integrato tra finanza comu-nitaria e finanza nazionale. Il QSN così definito, secondo l’intesa, deve essere approvato dal Comi-tato Interministeriale per la Pro-

grammazione Economica (CIPE), sentita la Conferenza Unificata, il cui parere consentirà, all’atto della decisione, la contemporaneità e l’integrazione tra definizione del QSN e redazione dei singoli Pro-grammi operativi che lo attuano (la tempistica prevista indicava il termine di febbraio 2006 per la predisposizione della bozza di QSN e quello del giugno 2006 per l’invio alla Commissione Europea della versione definitiva e dei sin-goli Programmi operativi).

Tale nuova articolazione delle fasi, in definitiva, mette in luce come, al livello del processo di programmazione nazionale, si sia ampiamente tenuto conto della necessità, espressa in sede comunitaria, di coinvolgere Regioni ed enti sub-regionali nella definizione del Quadro Strategico, in un ottica di partenariato interistituzionale e di cooperazione tra le diverse Pubbliche Amministrazioni che saranno chiamate ad attuare la politica di coesione nel periodo 2007-2013.

Passando ora al Quadro Strategi-co Nazionale, definito sulla base del percorso appena delineato, occorre premettere, innanzitutto, che nel presente capitolo, dedicato alla nuo-va programmazione della politica di coesione a livello comunitario, sarà dato risalto esclusivamente ai profili di esso che mettono in luce, da un lato, le discontinuità rispetto alla stagione 2000-2006, dall’altro, la coerenza rispetto agli Orientamenti Strategici

NUOVA POLITICA DI COESIONEE QUADRO STRATEGICO NAZIONALE

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elaborati a livello comunitario per il periodo 2007-2013.

Sotto il primo profilo, la valutazione dell’esperienza 2000-2006, nell’iden-tificare le criticità, ha consentito di individuare soluzioni di continuità da introdurre nel prossimo ciclo di programmazione, relative all’impianto del programma e a singole linee di in-tervento. In particolare, si tratta di:

✔ Dare centralità all’obiettivo ulti-mo di migliorare il benessere dei cittadini. Nella programmazione 2000-2006, alla visibilità degli obiettivi intermedi e all’impegno per conseguirli non si è accom-pagnata altrettanta tensione e mobilitazione sull’obiettivo fina-le, rappresentato dall’effettivo innalzamento del livello di be-nessere dei cittadini attraverso la competitività delle imprese e dei territori;

✔ Fissare obiettivi di servizio. Nel 2000-2006 sono stati specificati sia obiettivi generali (in termini di Pil, occupazione, etc.), sia obiettivi specifici (in termini di indicatori selezionati e misurati), ma l’attenzione del processo poli-tico per questa seconda categoria è stata modesta e ciò ha fatto spesso fatto perdere di vista alle decisioni di intervento e di spesa le loro ultime finalità. È quindi necessario che nel 2007-2013 gli indicatori che accompagnano gli obiettivi e i relativi targets diven-gano parte centrale del confronto politico e partenariale. Sarà inoltre utile, per le Regioni dell’obiettivo ‘Convergenza’ e in riferimento a un ristretto numero di servizi ritenuti essenziali, fissare obiettivi di servizio tramite la definizione di indicatori e l’individuazione di valori-target vincolanti, sul cui raggiungimento, collegato a meccanismi di incentivazione, le Amministrazioni scommettono la credibilità della propria politica;

✔ Accrescere selettività delle priorità e degli interventi. Nel 2000-2006, nonostante i progressi, l’efficacia della politica regionale è stata indebolita da scelte strategiche spesso generiche e, in fase di attua-zione, dalla tendenza a disperdere risorse sul territorio. Ne scaturi-sce, per il 2007-2013, la necessità già nella programmazione strate-gica e operativa di effettuare una

selezione forte delle priorità. È poi necessario che le Amministrazioni attuatrici esercitino forte capacità di scelta e pratica di valutazione, diffusa e partecipata, con la defi-nizione dei criteri di selezione e la riqualificazione del ruolo del par-tenariato economico e sociale;

✔ Promuovere un ruolo più impor-tante del mercato dei capitali. Senza la leva del mercato dei capitali non vi può essere ripresa dello sviluppo nel Centro Nord e, soprattutto, accelerazione nel Mezzogiorno. Rispetto al 2000-2006, è necessario un maggiore coinvolgimento strategico e ope-rativo delle istituzioni finanziarie nella politica regionale;

✔ Integrare politica ordinaria e politica regionale. La strategia di sviluppo e il riequilibrio dei divari territoriali può essere attuata con successo soltanto se si aggiunge in maniera complementare a una politica ordinaria caratterizzata da chiari indirizzi strategici, certezza e trasparenza del quadro nor-mativo e del quadro finanziario, oltre che da continuità di azione. In presenza di politiche ordinarie di profilo incerto, non capaci di attuare processi di riforma o di liberalizzazione, dotate di copertu-ra finanziaria inadeguata rispetto ai fabbisogni, o caratterizzate da mutamenti frequenti di indirizzo strategico e da provvedimenti una tantum, a poco o a nulla potrà servire l’effetto meramente sostitutivo della politica regiona-le, se non a coprire situazioni di emergenza;

✔ Tutelare l’aggiuntività finan-ziaria della politica regionale. Nel 2000-2006 l’addizionalità finanziaria della politica regionale è stata messa a repentaglio dalla cattiva capacità di prevedere la spesa da parte delle Ammini-strazioni attuatrici, dalla scorsa cogenza del vincolo di destina-zione territoriale, dal mancato isolamento degli obiettivi di spesa dagli interventi emergenziali di finanza pubblica. Nel 2007-2013 su questi profili sono necessari decisi progressi;

✔ Dare dimensione interregionale e extra-nazionale alla program-mazione degli interventi. In rife-rimento ad alcuni specifici ambiti di intervento, riconducibili ad

esempio alle politiche per ricerca, logistica, sicurezza, energia, la lezione appresa dall’esperienza suggerisce che la condivisione fra le regioni delle opzioni strategiche e la modalità di programmazione operativa di natura interregionale sono indispensabili per dare effica-cia agli interventi; esse devono as-sicurare coordinamento ad azioni che necessariamente travalicano i confini regionali, valorizzando vantaggi comparati ed economie di scala.

Il QSN, d’altra parte, si preoccupa anche di giustificare le previsioni in esso contenute sulla base del loro grado di coerenza con gli Orientamenti stra-tegici, definiti a livello comunitario, per la politica di coesione 2007-2013: nel paragrafo II.3, infatti, vengono delinea-te le seguenti dieci priorità tematiche che vanno a costituire il panorama esaustivo delle finalità perseguite con la programmazione 2007-2013. Esse sono:

✔ Miglioramento e valorizzazione delle risorse umane;

✔ Promozione, valorizzazione e diffu-sione della Ricerca e dell’ innova-zione per la competitività;

✔ Uso sostenibile ed efficiente delle risorse ambientali per lo sviluppo;

✔ Valorizzazione delle risorse naturali e culturali per l’attrattività per lo sviluppo;

✔ Inclusione sociale e servizi per la qualità della vita e l’attrattività territoriale;

✔ Reti e collegamenti per la mobilità;✔ Competitività dei sistemi produttivi

e occupazione;✔ Competitività e attrattività delle

città e dei sistemi urbani;✔ Apertura internazionale e attrazione

di investimenti, consumi e risorse;✔ Governance, capacità istituzionali e

mercati concorrenziali e efficaci.

Il successivo paragrafo II.7 del QSN afferma testualmente che tali dieci priorità individuate dal livello naziona-le “riflettono la dimensione strategica della politica di coesione comunitaria e una forte sinergia con le politiche di Lisbona […] In particolare, è utile ritrovare il loro esplicito contributo all’attuazione delle tre grandi priorità strategiche fissate dalla politica di coe-sione comunitaria e dagli orientamenti strategici”.17

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Punto di partenza necessario per analiz-

zare l’impatto che la nuova program-mazione dei Fondi potrà avere sul riequilibrio regionale a favore del Mez-zogiorno è, senz’altro, la valutazione critica di quanto avvenuto nei periodi precedenti.

In quest’ottica, certamente si deve dire, innanzitutto, che sia nel periodo 1994-99 che in quello 2000-06, la per-centuale complessiva di utilizzazione dei fondi ha sfiorato il 100%, evitando che si attivasse il meccanismo automa-tico di disimpegno: quest’ultimo preve-de che le risorse impegnate debbano essere necessariamente utilizzate entro il biennio successivo, pena il ritiro dei fondi stessi.18

Un’analisi, questa, confermata anche dal Commissario europeo per lo Sviluppo Regionale, Danuta Hubner, secondo cui “in termini finanziari i risultati delle regioni italiane ‘Obiettivo 1’ possano essere considerati soddisfa-centi, visto che per il Fondo europeo di sviluppo regionale non vi è stato alcun disimpegno dei fondi, mentre per il Fondo sociale europeo si sono verificate solo lievi perdite […] [Se parliamo di tassi di crescita, tuttavia] La zona interessata dall’Obiettivo 1 nel suo complesso non è riuscita a conse-guire un tasso significativamente più elevato rispetto alla media UE, dopo la tendenza alla convergenza registrata dal Mezzogiorno nel decennio com-preso tra i primi anni 90 e i primi anni 2000”.19

Se dal punto di vista dell’utilizzo la valutazione può essere soddisfacente, dunque, non si può non riscontrare una sproporzione fra le risorse investite e i risultati ottenuti: il dubbio è che vi sia stato, in generale, un difetto di alloca-zione efficiente delle risorse, che può essere dovuto, almeno parzialmente, alle incongruenze della regolamenta-zione europea.

Tra gli analisti non mancano le valutazioni critiche della politica regio-nale europea:20 essa, probabilmente, ha giocato un ruolo importante nella pre-venzione di fenomeni di divergenza ul-teriore tra le regioni dell’Unione. Tutta-via, i fondi avevano in origine ben altra ambizione, e cioè quella di indurre una maggiore coesione economica e sociale e favorire fenomeni di convergenza: “Se valutata rispetto a questi obiettivi,

la performance dei fondi strutturali è apparsa incapace di attivare una cre-scita sostenibile e di ridurre le distanze tra il centro e la periferia dell’Unione […] È probabile, in altre parole, che le politiche dell’Unione Europea abbiano consentito alle regioni periferiche di partecipare, senza costi eccessivi, al processo di integrazione […] senza incidere sui potenziali di crescita delle singole regioni”.21 Ciò è accaduto nel Mezzogiorno, differentemente da altri paesi, tra cui Irlanda e Portogallo, nei quali l’utilizzo dei Fondi strutturali è servito effettivamente a collocare la crescita su livelli più elevati.

La spiegazione di tale scarso impat-to risiederebbe nella scarsa attenzione alla qualità della spesa, a differenza di altri approcci che vedono, invece, nella insufficiente quantità di risorse destinate al Mezzogiorno la causa del mancato sviluppo economico.22 Bisogna riflettere, in altre parole, sul fatto che i fondi europei che affluiscono al Mezzo-giorno servono a finanziare progetti che dovrebbero essere coperti con risorse ordinarie: “Rimane da capire come e perché, arrivati alla magica soglia del 45% della spesa nazionale in conto capitale, l’inefficienza dovrebbe conver-tirsi in efficienza, le fontane dovrebbero tramutarsi in ponti, i rifacimenti delle piazze dovrebbero prendere la forma di sistemazioni di strade e autostrade e così via”.23

Un primo problema, dunque, è relativo alla reale addizionalità e stra-tegicità dei finanziamenti comunitari, i quali devono aggiungersi ai fondi delle politiche nazionali e non sostituirli, devono essere utilizzati per la realizza-zione di opere realmente strategiche e non per interventi che dovrebbero far parte dell’ordinaria amministrazione.

Un secondo problema, eviden-temente legato al primo, è riferito al controllo degli interventi posti in essere dalle pubbliche amministrazioni: biso-gna cioè chiedersi se esse sono tenute a certificare alle istituzioni comunitarie l’effettiva realizzazione degli interventi e a motivare la scelta in punto di reale strategicità. In particolare, bisogna guardare a come la nuova program-mazione affronta il problema delle ‘premialità’: il Quadro Comunitario di Sostegno (QCS) 2000-2006 distri-buiva il 10% delle risorse a seconda dei comportamenti virtuosi e delle migliori esperienze poste in essere dalle

Pubbliche Amministrazioni. Tuttavia, tali premialità scattavano, in passato, nel momento di approvazione di atti formali, di attivazione di percorsi istitu-zionali, di creazione di organismi e non nel momento di effettiva realizzazione di un intervento e di soddisfacimento dei bisogni dei cittadini.

Una terza criticità da esaminare, infine, è quella dell’eccessivo localismo delle scelte operate dal livello nazionale nella redazione del Quadro Strategico, a causa di una sorta di ‘eccesso’ di partecipazione che impedirebbe la compiuta definizione di una strategia unica nazionale e declasserebbe il momento di programmazione a sem-plice “giustificazione ex post di scelte compiute a livello locale”.24 Su tale lunghezza d’onda si pone anche Isaia Sales quando individua “nell’eccessiva frammentazione delle risorse fra i vari Comuni della Campania, che sono ben 551, il peccato originale di questa non ottima qualità […] si dovrebbe ridurre l’accesso dei Comuni ai benefici comu-nitari”.25

Occorre ora chiedersi in che manie-ra l’attuale processo di programmazio-ne fa fronte a tali problemi, riferendosi a quegli aspetti, rinvenibili nei Regola-menti, negli Orientamenti Strategici, nel Quadro Strategico Nazionale, che segnano una reale discontinuità nella politica di coesione, correggendone i difetti principali.

Sotto il profilo della mancata addi-zionalità e della strategicità dei fondi europei, innanzitutto, si può notare con una certa soddisfazione, e al di là di un eccessivo dettaglio nella specificazione degli obiettivi, il fatto che un ‘filo rosso’ percorra la nuova programmazione dei Fondi: si tratta della chiara indivi-duazione delle priorità della politica di coesione attraverso l’esplicitazione del suo legame indissolubile con la Strate-gia di Lisbona.

In particolare, come detto, nel QSN viene dato risalto, nell’elencare le discontinuità rispetto al ciclo program-matorio precedente, alla necessità, da un lato, di ‘integrare le politiche ordina-rie con la politica regionale’, dall’altro, all’ ‘accrescimento della selettività e della priorità degli interventi’.

Tale coerenza complessiva del pro-cesso di programmazione contribuisce alla chiarificazione degli obiettivi da perseguire: e, certamente, l’univocità della direttrice di riferimento è la prima

IL MEZZOGIORNO NELLA NUOVA PROGRAMMAZIONE DEI FONDI

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garanzia utile affinché gli interventi effettuati siano realmente strategici.

Il secondo problema evidenziato era relativo al controllo, a livello europeo, dell’utilizzo dei fondi: da questo punto di vista, occorre sottolineare come, in linea di principio, tra le discontinuità necessarie vengono citate espressa-mente la necessità di completamento delle opere progettate o iniziate, la sor-veglianza sull’utilizzo dei fondi europei per obiettivi che non siano di ordinaria amministrazione e la tutela dell’addizio-nalità della spesa.

Soprattutto, ad un livello concreto e procedurale, si può accogliere favo-revolmente la novità della tripartizione temporale delle fasi di pagamento, in-trodotta dai nuovi Regolamenti, secon-do cui i pagamenti intermedi saranno effettuati in ragione delle relazioni che le amministrazioni invieranno alla Commissione sugli interventi realizzati, mentre il saldo sarà effettuato solo dopo che la Commissione avrà approvato la domanda di pagamento finale, la certi-ficazione delle spese e la relazione finale relativa all’intervento effettuato.26

Coerentemente, lo stesso sistema delle ‘Autorità’, descritte nel paragrafo 3, e l’istituzione di un ‘Comitato di sor-veglianza’, sembrano andare proprio nella direzione di una maggiore con-trollo, a livello europeo, dell’erogazione dei pagamenti, della rendicontazione degli interventi effettuati, della valuta-zione della coerenza complessiva degli interventi.

Per quanto riguarda, infine, il pro-blema della governance del processo di programmazione a livello nazionale e dell’eccessivo localismo indotto dai meccanismi di negoziazione delle scelte, se, da un lato, il complesso normativo a livello europeo delinea un certo grado di unitarietà strategica che dovrebbe ri-percuotersi sulla coerenza complessiva degli interventi effettuati, dall’altro le tre fasi27 in cui si arriva alla definizione del QSN non sono del tutto convincenti. Viene confermata, cioè, la sequenza del tipo bottom up, in attuazione del princi-pio del coinvolgimento delle pubbliche amministrazioni e degli organismi sociali, ma in contrasto “con le stesse riserve formulate nei documenti ufficiali sugli esiti delle scelte programmatorie di questi anni ma anche e soprattutto con l’impostazione che in sede euro-pea si è voluto dare alle politiche di coesione e al loro inscindibile rapporto con le politiche di rafforzamento della competitività”.28

CONCLUSIONI

Le criticità e le problematicità della politica di coesione a livello europeo erano ben note già nel corso del periodo di programmazione 2000-06. Già verso la fine del 2003, infatti, ci si interrogava circa la notevole percentuale di fondi europei impegnati e non spesi, nono-stante si volgesse verso la fase finale del periodo di programmazione: una delle cause di tale ritardo veniva identificata nelle lungaggini delle procedure di programmazione e nella macchinosità delle procedure di esecuzione.29

L’andamento successivo della spesa ha dimostrato, tuttavia, che, general-mente, le regioni europee, e quelle italiane in particolare, stanno riuscen-do ad utilizzare la gran parte dei fondi europei. Tuttavia, ciò potrebbe essere stato semplicemente il frutto degli espedienti noti con il nome di ‘progetti sponda’:30 da un lato, tali progetti non danno alcuna garanzia di strategicità funzionale ad una politica di coesio-ne dinamica e creatrice di risorse. Dall’altro, non vi è nessuna garanzia che i fondi statali e regionali liberati attraverso tale espediente contabile si sommino effettivamente a quelli comu-nitari, potendo determinare in tal modo una violazione palese del principio di addizionalità.

Gli echi di tale dibattito sulla man-canza di strategicità arrivano fino al momento in cui si scrive, con partico-lare riguardo all’utilizzazione dei fondi in Campania: una recente inchiesta portata avanti da “Il Mattino”31 tende a dimostrare dati alla mano come gli interventi attuati siano per la gran parte ‘dequalificati’ e corrispondano alla fisionomia dei ‘progetti-sponda’: tale inchiesta ha provocato la risposta decisa della Regione Campania, che ha sottolineato con Isaia Sales come si tratti in realtà di progetti ‘coeren-ti’, ampiamente utilizzati da tutte le regioni europee, ponendo l’accento, al contempo, sull’obiettivo quasi rag-giunto dell’utilizzo della totalità dei fondi disponibili.32

Allo stesso tempo, era altrettanto chiara, prima dell’avvio della nuova programmazione, la necessità di legare la politica di coesione a livello europeo alla Strategia di Lisbona, cioè all’obiet-tivo di rendere l’economia europea più dinamica in tema di ricerca e di applicazione delle nuove tecnologie, più attenta alla formazione del capitale umano, nel quadro di uno sviluppo

‘sostenibile’, proprio nel momento del delicato passaggio ad un’Unione a 25, per ciò stessa ancora meno ‘coesa’ che in passato.33

Con la nuova programmazione dei Fondi Strutturali 2007-2013 sembra aprirsi una nuova stagione per la politica di coesione a livello europeo. L’approvazione dei nuovi Regolamenti, in un clima politico, come abbiamo visto, largamente consensuale e quasi unanime, e la definizione di nuovi orientamenti strategici, con la relativa redazione di Quadri strategici nazionali coerenti, stanno segnando diverse so-luzioni di continuità rispetto al recente passato.

Certo non mancano gli aspetti della nuova programmazione che destano preoccupazione: in particolare, la perdita di ‘peso’ del Mezzogiorno nel-l’ambito dell’Europa a 25, il mancato aumento delle risorse destinate alla politica di coesione nel quadro delle Prospettive Finanziarie 2007-2013, la stessa incongruenza insita nella con-siderazione esclusiva del dato relativo al PIL pro capite quale criterio per la distribuzione delle risorse.34

Ciononostante, esiste la concreta possibilità che si sia aperta una nuova fase della politica regionale volta a su-perare la logica della semplice redistri-buzione tra ricchi e poveri, mirata a fa-vorire un reale processo di convergenza tra gli standards economico-sociali delle diverse regioni europee, grazie alle novità messe in luce nel paragrafo precedente.35

“Abbiamo preferito puntare – scri-ve il parlamentare europeo Claudio Fava, relatore del Regolamento sul FESR – soprattutto sulla qualità della spesa e su obiettivi mirati: più innova-zione, più ricerca e più formazione […] La sfida da Bruxelles è partita: spetterà ora alle nostre regioni raccoglierla adeguatamente, dimostrando di saper spendere bene e in fretta le risorse a loro destinate, come spesso non è accaduto in passato”.36

In particolare, “l’auspicabile scelta da parte dell’Unione europea di im-pegnarsi a concorrere al sostegno di iniziative e strategie, infrastrutturali e produttive, aventi carattere strut-turale, potrebbe consentire di meglio articolare le politiche sia degli Stati sia dell’Unione europea, rendendole più funzionali alle esigenze di coesione delle regioni […] Una tale scelta rispon-derebbe meglio alla definizione degli strumenti europei e non più ad azioni

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ed iniziative aventi talvolta caratteri e finalità congiunturali o di ordinaria amministrazione”.37

La conferma del meccanismo del disimpegno automatico dei fondi e l’at-tenzione posta sulla qualità della spesa costituiscono, insomma, dei buoni pre-supposti per determinare un’inversione

di tendenza: “Accanto all’impegno sulla quantità delle risorse da assegnare alla nostre regioni – scrive Gianni Pittella, europarlamentare e relatore all’Assem-blea di Strasburgo delle Prospettive Finanziarie 2007-2013 – abbiamo sostenuto la necessità di assicurare una programmazione di qualità de-

nunciando a più riprese l’operato di alcune regioni che si ergevano paladine di un livello di esecuzione degli stanzia-menti pari al 100%, in violazione del rispetto del principio di addizionalità, minando lo spirito e la sostanza della programmazione e sacrificando le vere priorità per lo sviluppo”.38

ARTICOLI E MONOGRAFIE

F. Boccia, I Mezzogiorni d’Europa. Verso la riforma dei Fondi Strutturali, Il Mulino, Bologna, 2003

D’Aroma, C., Ripensare la poli-tica di coesione, tratto dalla rivista “Mezzogiorno Europa”, Anno V, n. 3, Maggio/Giugno 2004

Esposito, M., Fondi UE, in Campa-nia investimenti al palo, tratto da “Il Mattino” del 22 novembre 2006

Esposito M., Sales: ‘Entro due anni avremo speso tutto e bene’, tratto da “Il Mattino” del 23 novembre 2006

F. Kostoris, T. Padoa Schioppa (a cura di), Rapporto annuale sullo stato dell’Unione Europea, I, 2001

Intervista a Danuta Hubner, fondi

UE, risultati deludenti, tratta da “Il Denaro” del 13 ottobre 2006

G. Pittella, Fondi strutturali tra quantità e qualità – il PE approva la risoluzione presentata da Gianni Pittella sulla evoluzione della spesa e del fabbisogno per il 2004, dalla rivista “Mezzogiorno Europa”, Anno IV, n. 5, Settembre/Ottobre 2003, pp. 19 e ssgg.

Resoconto del Convegno sulla nuo-va programmazione dei Fondi svoltosi a Napoli, Hotel Oriente, il 19 ottobre 2006, Sales al Governo: giù le mani dai fondi UE, da “Il Corriere del Mez-zogiorno” del 20 ottobre 2006

N. Rossi , Mediterraneo del Nord – Un’altra idea del Mezzogiorno, Saggi Tascabili Laterza, 2005

Simonetti, L., Dal riequilibrio alla coesione: l’evoluzione delle politiche territoriali dell’Unione Europea, tratto da “Rivista Giuridica del Mezzogiorno, Svimez, n. 2-3/2006

Svimez, La coesione del Sud, ma-croregione ‘debole’ con le aree ‘forti’ dell’Italia e dell’Europa, Quaderno Svimez n. 5, aprile 2005

Terzo Rapporto sulla coesione, Convergenza, competitività, coopera-zione, Commissione Europea, 2005

G. Viesti, Le politiche regionali dell’Unione Europea, Il Mulino, Bo-logna, 2004

G. Viesti, Poche e grandi scelte per il Mezzogiorno, in “Il Mulino”, 2/2005.

SITI INTERNET

www.alde.eu

www.delegazionepse.it

www.epp-ed.eu,

www.europa.formez.it/Fondi_strutturali_2007-2013

www.europarl.eu.int

www.socialistgroup.org.

BIBLIOGRAFIA

1 Tali dati quantitativi, come quelli suc-cessivamente citati nel presente paragrafo, sono tratti dal sito www.europa.formez.it/Fondi_strutturali_2007-2013.2 Vedi, infra, il paragrafo 4 del presente ca-pitolo per una descrizione del contenuto dell’atto cui si fa riferimento.3 Dei cinque regolamenti approvati, due sono stati approvati attraverso la procedura di codecisione e tre attraverso quella del parere conforme: in ogni caso,

entrambe prevedono un decisivo inter-vento del Parlamento Europeo ai fini dell’approvazione.4 Per il significato e il contenuto del QSN, vedi, infra, il paragrafo 5 del presente capitolo.5 Si tratta della votazione sulla Relazione del parlamentare cipriota Kostantinos Hatzidakis, proposta n. A6-0224/2006.6 Si tratta della votazione effettuata sulla Relazione del parlamentare ita-

liano Alfonso Andria, proposta n. A6-0226/2006.7 Tutti i dati relativi all’esito delle vo-tazioni e alle opzioni dei votanti sono tratti dal sito ufficiale del Parlamento europeo www.europarl.eu.int, facendo riferimento alla sezione del sito relativa alle attività parlamentari e ai processi verbali ufficiali.8 Vedi, per tutte, la posizione espressa dal gruppo attraverso il comunicato stampa

NOTE

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del 4/07/2006, EU should ‘steel a different tack’on structural funding to tackle dispa-rities, tratto dal sito ufficiale del gruppo www.guengl.org.9 Tale posizione è stata ricostruita at-traverso i documenti pubblicati dal sito ufficiale dei conservatori britannici www.conservatives.com.10 Anche in questo caso si è fatto riferi-mento ai tre siti ufficiali dei gruppi citati, e cioè: www.epp-ed.eu, www.socialistgroup.org e www.alde.eu.11 Si tratta di una atto presentato dalla Commissione Europea che fa il punto sull’andamento della politica di coesione e pone le basi per il periodo di program-mazione successivo. Particolarmente significativo il titolo dato al rapporto citato per la sua capacità di sintetizzare le direttrici per il 2007-2013: “Convergenza, competitività, cooperazione”.12 Le relazioni citate nel testo, in quanto proposte al Parlamento Europeo, sono contrassegnate dalle seguenti numera-zioni ufficiali: Proposte n. A6-0224, A6-0225, A6-0220 e A6-0226/2006.13 La ricostruzione degli obiettivi nel presente paragrafo e in quelli imme-diatamente successivi è stata effettuata attraverso l’analisi diretta dei regolamenti citata, oltre che avvalendosi delle risorse web indicate in apertura di capitolo.14 Per tale ragione, nel paragrafo 4, si farà riferimento direttamente agli orienta-menti strategici nel testo approvato dal Consiglio dell’Unione.15 La ricostruzione del contenuto della decisione in oggetto è stata effettuata at-traverso l’esame diretto delle disposizioni in essa contenute nella versione riportata dal sito www.europa.formez.it.16 Anche per il presente paragrafo la rico-struzione proposta scaturisce dall’esame diretto dei documenti in esso richiamati.17 La frase riportata è tratta dal documen-to Quadro Strategico Nazionale – Bozza tecnico-amministrativa, tratto dal sito www.europa.formez.it.18 N. Rossi, Mediterraneo del Nord – Un’al-tra idea del Mezzogiorno, Saggi Tascabili Laterza, 2005, pp. 41-2.19 Intervista al Commissario europeo Danuta Hubner, fondi UE, risultati delu-

denti, tratta da “Il Denaro” del 13 ottobre 2006, rubrica “Mezzogiorno e sviluppo”. Il Commissario, tra l’altro, specifica come “la crescita nelle regioni Obiettivo 1 è di 5 punti percentuali, invece dei 13,7 ipotizzati nella valutazione ex ante ef-fettuata nel 1999 […] In base alle stime del contributo del Quadro comunitario di sostegno avrebbe fruttato un modesto più 0,25 per cento medio annuo rispetto allo scenario base”.20 Vedi, a titolo esemplificativo, le posi-zioni dei seguenti autori: F. Kostoris, T. Padoa Schioppa (a cura di), Rapporto annuale sullo stato dell ’Unione Europea, I, 2001; F. Boccia, I Mezzogiorni d’Europa. Verso la riforma dei Fondi Strutturali, Il Mulino, Bologna, 2003; G. Viesti, Le politiche regionali dell ’Unione Europea, Il Mulino, Bologna, 2004.21 N. Rossi, op. cit., pp. 46-7.22 Vedi, tra gli altri, G. Viesti, Poche e grandi scelte per il Mezzogiorno, in “Il Mulino”, 2/2005, pp. 263-4.23 N. Rossi, op. cit., p. 57.24 Ibidem, p. 106.25 Resoconto del Convegno sulla nuova programmazione dei Fondi svoltosi a Napoli, Hotel Oriente, il 19 ottobre 2006, Sales al Governo: giù le mani dai fondi UE, da “Il Corriere del Mezzogiorno” del 20 ottobre 2006. Il titolo dell’articolo si spiega con il fatto che il consigliere economico di Bassolino, pur avendo criticato per un ver-so l’eccessiva frammentazione della spesa presso i Comuni, dall’altro critica l’idea del Sottosegretario allo Sviluppo Economico, Filippo Bubbico, di aumentare la per-centuale di risorse che le regioni devono al Governo nell’ambito del Programma Operativo Nazionale (PON): da un lato, quindi, si critica l’eccessivo localismo, dall’altro si combatte l’idea di rafforza-mento della strategia nazionale attraverso il conferimento ad essa di una maggiore percentuale dei fondi a disposizione.26 Sia per le descrizione delle fasi di erogazione dei pagamenti che per l’in-dividuazione del sistema delle autorità, si rimanda al paragrafo 3 del presente capitolo, in particolare al sottoparagrafo “Gestione, sorveglianza, controllo”.27 Per la descrizione di tali fasi si rimanda al paragrafo 5 del presente capitolo.

28 N. Rossi, op. cit., p. 105.29 Tale passaggio e la successiva consi-derazione sui cd. ‘progetti-sponda’ sono tratti dall’articolo Fondi strutturali tra quantità e qualità – il PE approva la riso-luzione presentata da Gianni Pittella sulla evoluzione della spesa e del fabbisogno per il 2004, dalla rivista “Mezzogiorno Europa”, Anno IV, n. 5, Settembre/Ottobre 2003, pp. 19 e ssgg.30 Si tratta, in sostanza, di progetti finan-ziati con altri fondi e poi trasferiti, da un punto di vista contabile, al POR, una pratica che avrebbe dovuto essere autoriz-zata solo nella prima fase del periodo di programmazione e a condizione che tali progetti fossero comunque coerenti con la strategia generale di sviluppo.31 Ci si riferisce all’articolo di Esposito, M., Fondi UE, in Campania investi-menti al palo, tratto da “Il Mattino” del 22 novembre 2006, con tanto di tabella indicante i dati quantitativi.32 Ci si riferisce all’articolo di Esposito M., Sales: ‘Entro due anni avremo speso tutto e bene’, tratto da “Il Mattino” del 23 novembre 2006.33 Tale esigenza è espressa chiaramente, ad esempio, nell’articolo di D’Aroma, C., Ripensare la politica di coesione, tratto dalla rivista “Mezzogiorno Europa”, Anno V, n. 3, Maggio/Giugno 2004, pp. 15 e ssgg.34 Tali considerazioni sono svolte nel volume La coesione del Sud, macroregione ‘debole’ con le aree ‘forti’ dell ’Italia e dell ’Eu-ropa, Quaderno Svimez n. 5, aprile 2005, contenente il verbale di un’audizione par-lamentare richiesta alla stessa Svimez.35 Si veda su tale punto Simonetti, L., Dal riequilibrio alla coesione: l ’evoluzione delle politiche territoriali dell ’Unione Eu-ropea, tratto da “Rivista Giuridica del Mezzogiorno, Svimez, n. 2-3/2006, pp. 415-434.36 La citazione è tratta dall’articolo È la stagione dei nuovi fondi, del 7 luglio 2006, tratto dal sito www.delegazionepse.it.37 Tratto da Quaderno Svimez n.5, op. cit., p. 17.38 La citazione è tratta dall’articolo Non ripetere gli errori del passato, dell’1 settembre 2006, tratto dal sito www.delegazionepse.it.

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LA POLITICA REGIONALE DELL’UNIONE EUROPEA

Dopo aver dedi-cato grandi sforzi per la

creazione del mercato unico prima e dell’unione economica e monetaria dopo, l’Unione europea ha iniziato a concentrare la sua attenzione su temi di carattere sociale. Tra questi, la creazione di una politica di coesione economica e sociale all’interno del territorio comunitario è divenuta una delle priorità di azione dell’Unione e ne orienta sempre più interventi e decisioni con il fine ultimo di eliminare progressivamente le disuguaglianze economiche, sociali e di sviluppo all’in-terno del territorio europeo. Il recente allargamento a 25 Stati membri, e con l’adesione di Bulgaria e Romania nel 2007, ha aumentato enormemente il divario tra i livelli di sviluppo dell’UE. Come risulta dalla Terza relazione in-termedia sulla coesione, l’allargamento dell’Unione a 25 Stati membri, e suc-cessivamente a 27 o più, rappresenta una sfida senza precedenti per la sua competitività e la sua coesione interna. In effetti la politica di coesione a soste-gno della crescita e dell’occupazione si basa sull’idea che “l’Europa deve rinnovare le basi della sua competi-tività, aumentare il suo potenziale di crescita e la sua produttività e raf-forzare la coesione sociale, puntando principalmente sulla conoscenza, l’innovazione e la valorizzazione del capitale umano. Per raggiungere tali obiettivi, l’Unione deve mobilitare maggiormente tutti i mezzi nazionali e comunitari appropriati – compresa la politica di coesione – nelle tre dimen-sioni economica, sociale e ambientale della strategia per utilizzarne meglio le sinergie in un contesto generale di sviluppo sostenibile”.

In linea con gli obiettivi del trat-tato, specie per quanto riguarda la promozione di una convergenza reale, gli interventi finanziati mediante le ri-sorse limitate di cui dispone la politica di coesione dovrebbero promuovere in via prioritaria la crescita, la competi-tività e l’occupazione, come indicato nella nuova strategia di Lisbona. Il suc-cesso della politica di coesione richiede ovviamente stabilità macroeconomica, riforme strutturali e altre condizioni propizie agli investimenti (applica-zione effettiva del mercato unico, riforme amministrative, buon governo, contesto favorevole all’attività delle

imprese, disponibilità di una forza lavoro altamente qualificata, ecc.). La programmazione dei Fondi Struttu-rali 2000-2006 riguarda obiettivi di coesione economica e sociale e consi-ste in un processo di organizzazione, decisione e finanziamento effettuato per fasi successive e volto ad attuare, su base pluriennale, l’azione congiunta della Comunità Europea e degli Stati membri. Il periodo di programmazione 2000-2006 si basa sulla disciplina di riforma dei Fondi Strutturali introdot-ta nel 1999. Con tale riforma sono state modificate la strategia e le priorità di intervento dei Fondi nonché le proce-dure di programmazione, gestione e controllo per migliorarne l’efficacia. Gli interventi di programmazione per il settennio 2000-2006 sono caratte-rizzati dalla maggiore concentrazione delle risorse e da una ripartizione più chiara delle competenze e delle respon-sabilità tra i partner istituzionali. La Commissione europea rimane garante delle priorità strategiche, mentre la gestione dei programmi viene mag-giormente decentrata, semplificata e rafforzata nei controlli e nella pro-mozione di una maggiore efficacia ed efficienza. La gestione dei programmi è di competenza degli Stati membri che designano, per ciascuno di essi, una Autorità di Gestione responsabile della sua realizzazione, regolarità ed efficacia. L’ accesso ai finanziamenti dei Fondi Strutturali è regolato da tre tipi di documenti di programmazione:

Quadro Comunitario di Soste-gno (QCS)1;

Programma Operativo (PO) distinto in Programma Operativo Na-zionale (PON) e Programma Operativo Regionale (POR);

Documento Unico di Pro-grammazione (DOCUP).

La programmazione pluriennale è stata uno dei maggiori successi del me-todo dei Fondi Strutturali e i benefici di questo approccio sono diventati più chiari con l’andar del tempo, conte-stualmente allo sviluppo della capacità di pianificazione programmatica da parte degli Stati membri. Dal punto di vista finanziario, la programma-zione pluriennale, rispetto al bilancio annuale, genera un grado più elevato di certezza e stabilità riguardo alla disponibilità dei finanziamenti. Ciò è particolarmente importante nel conte-sto dei cospicui investimenti per infra-strutture il cui completamento richiede anni. La difficile sfida per la politica di

coesione consiste nel trovare il giusto equilibrio tra la necessità di trasparen-za e responsabilità dei programmi (che richiedono informazioni più dettagliate e meccanismi di controllo), di flessibi-lità all’interno dei programmi stessi e un partenariato con la Commissione che deve essere trasformato in un esercizio strategico anziché limitarsi a una semplice micro-gestione.

Un fattore determinante per l’ef-ficacia della politica di coesione è la qualità del partenariato tra tutti co-loro che sono coinvolti, anche a livello regionale e locale, nella preparazione e nell’attuazione dei programmi. Un solido partenariato tra Commissione e Stati membri, inoltre, è fondamentale per definire la strategia di coesione e attuarla attraverso il programma operativo. Elaborando progetti inno-vativi, promuovendo la partecipazione della società civile alla definizione e all’attuazione delle politiche pubbli-che e migliorando l’interazione tra le comunità e al loro interno si contri-buirà alla creazione di capitale umano e sociale onde promuovere in modo duraturo l’occupazione, la crescita, la competitività e la coesione sociale. In tale contesto, è importante che tutti i principali interlocutori a livello nazio-nale, regionale e locale si impegnino ad attuare il programma di riforme di modo che le risorse siano destinate in via prioritaria agli obiettivi preposti, anche creando a tal fine le necessarie reti di partenariato.

Le regioni vengono incoraggiate a definire strategie di sviluppo soste-nibile al loro livello concordando gli obiettivi da raggiungere mediante un dialogo regolare e sistematico con i principali interlocutori. Il partena-riato, di fondamentale importanza per l’elaborazione e l’attuazione delle strategie di sviluppo, si basa sulla con-sultazione e sul coinvolgimento delle parti interessate (autorità competenti, partner economici, parti sociali e espo-nenti della società civile, comprese le organizzazioni non governative). Ciò garantisce apertura e trasparenza nella preparazione e nella realizzazione dei programmi.

In particolare i partenariati pub-blico-privato (PPP) possono essere un modo efficace di finanziare gli investimenti quando esistano buone possibilità di coinvolgere il settore pri-vato, soprattutto nei settori dove non sia né fattibile né opportuno tagliare

P A R T E S E C O N D AFONDI STRUTTURALI 2000-2006 GLI EFFETTI SUL MEZZOGIORNO

Caterina Nicolais

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P A R T E S E C O N D AFONDI STRUTTURALI 2000-2006 GLI EFFETTI SUL MEZZOGIORNOC a t e r i n a N i c o l a i s

fuori il settore pubblico o basarsi esclu-sivamente sul mercato. Oltre ad avere un effetto leva in termini finanziari, i partenariati

pubblico-privato migliorano quali-tativamente l’esecuzione e la successiva gestione dei progetti. La politica di coesione ha contribuito effettivamente all’attuazione della strategia di Lisbo-na. Questo tipo di approccio ha avuto un impatto macroeconomico conside-revole, soprattutto nelle regioni meno sviluppate, con effetti moltiplicatori per l’intera UE.

Mobilitando il potenziale di crescita che esiste in tutte le regioni, la poli-tica di coesione2 migliora l’equilibrio geografico dello sviluppo economico e innalza il tasso potenziale di crescita nell’Unione considerata globalmente. In effetti l’Unione europea con i suoi finanziamenti si è praticamente affian-cata agli Stati membri nell’assistenza alle regioni a sviluppo ritardato o interessate da profondi fenomeni di riconversione industriale o attraversate da crisi strutturali di lungo periodo. Gli interventi di sostegno della Comunità hanno assunto nel corso degli anni diverse formulazioni e sono state og-getto di numerose modifiche. I settori di intervento sono stati e sono ancora praticamente tutti, dall’educazione alla cultura, dalla ricerca tecnologica ai tra-sporti, dalla produzione industriale al-l’ambiente. Per la loro attuazione sono stati predisposti numerosi strumenti operativi che col passare del tempo hanno profondamente modificato le modalità di intervento per lo sviluppo territoriale negli Stati membri fino a diventare preziosissime risorse per la crescita economica e sociale di ogni singola regione del territorio comunita-rio. Con il periodo di programmazione 2000-2006, meglio conosciuto attra-verso il documento della Commissione Agenda 20003, l’Unione cercato di fare dell’Europa “l’economia della cono-scenza più competitiva del mondo”. Gli strumenti a disposizione della Comuni-tà attraverso cui l’Unione europea cerca di rimediare ai gap strutturali esistenti tra i vari Stati membri sono molti e di vario genere, a grandi linee si possono distinguere in due categorie:✔ Finanziamenti gestiti direttamente

dall’Unione europea (iniziative comunitarie)

✔ Finanziamenti erogati dall’Unione europea agli Stati membri all’interno di programmi di sviluppo plurienna-li (iniziative attraverso obiettivi)

Il fondamento giuridico della poli-tica di coesione4 economica e sociale e dei fondi strutturali si rintraccia nell’ Atto Unico europeo del 1986 che ha aggiunto al Trattato un nuovo titolo (artt. 158-162) relativo alla coesione economica e sociale5. Nell’art. 158 in particolare si rinviene l’esplicito rico-noscimento e fondamento giuridico della politica regionale comunitaria: “la Comunità mira a ridurre il diva-rio tra i vari livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite o insulari comprese le zone rurali”. Il successivo Trattato di Maastricht ha apportato alcune novità, per esempio: ha esplicitamente men-zionato le zone rurali fra quelle meno favorite; ha promosso la coesione economica e sociale, rendendo esplici-ta la sua azione all’art. 2; ha previsto una ridefinizione degli obiettivi e degli interventi dei fondi già operanti; ha creato un nuovo strumento finanziario di intervento, il Fondo di coesione; ha associato il Comitato delle regioni nella gestione della politica regionale comu-nitaria. Gli strumenti finanziari con cui concretamente l’Unione europea cerca di raggiungere gli obiettivi enunciati nei Trattati sono fondamentalmente:1. i Fondi strutturali (compreso il

fondo di coesione)2. la Banca europea per gli investi-

menti 3. i prestiti e le garanzie dell’Eu-

ratomI fondi strutturali sono lo strumen-

to più importante a disposizione degli Stati membri per intervenire nelle aree depresse o a forte declino economico. Sono in particolare volti a: promuovere lo sviluppo e l’adeguamento strutturale delle regioni, riconvertire le aree a declino industriale, facilitare l’inseri-mento professionale dei giovani e acce-lerare la riforma del sistema agrario. I Fondi strutturali operano sulla base di periodi di programmazione predefiniti. La struttura della programmazione e dell’utilizzo dei Fondi strutturali comprende un’articolazione sia in in-terventi attraverso obiettivi (interventi strutturali) sia in interventi attraverso iniziative comunitarie, come ricordato sopra. La differenza oltre che nominale è profondamente sostanziale con inci-denza sia sul fronte programmatorio che su quello finanziario. Gli interventi strutturali permettono margini di ma-novra e libertà di scelta più ampie agli Stati membri, (stessa cosa purtroppo non si può dire per le diverse articola-

zioni territoriali, Regioni, Province e Comuni) e hanno beneficiato general-mente di una ben più elevata dotazione finanziaria rispetto agli interventi attraverso iniziative comunitarie. La programmazione 2000-2006 ha ridot-to da sei a tre gli Obiettivi prioritari sia per ragioni di migliore coordinazione e controllo che per una razionalizzazione degli interventi sulla base di politiche integrate e meglio gestite a livello na-zionale. I fondi strutturali operativi nel periodo in questione sono:1. il FESR, Fondo europeo di sviluppo

regionale2. il FSE, Fondo sociale europeo3. il FEOGA, Fondo europeo di orien-

tamento e garanzia agricolo4. lo SFOP, Strumento finanziario di

orientamento della pesca5. il Fondo di coesione (che riguarda

solo la Spagna, la Grecia, il Porto-gallo e l’Irlanda).Il FESR è il principale strumento

di attuazione della politica comuni-taria regionale. Esso è stato istituito con regolamento del Consiglio n. 724 del 18 marzo 1975. Lo scopo del FESR è di correggere i principali squilibri regionali e partecipare allo sviluppo e alla riconversione delle Regioni al fine di promuovere la coesione economica e sociale. I settori che vengono maggior-mente sostenuti dal FESR sono:1. l’ambiente produttivo sia interno

che esterno alle imprese2. la ricerca e lo sviluppo tecnologico3. lo sviluppo della società dell’infor-

mazione4. lo sviluppo del turismo e degli

investimenti culturali5. la protezione e il miglioramento

dell’ambiente6. la cooperazione transnazionale,

transfrontaliera e interregionale nel settore dello sviluppo regionale e locale duraturoTra i programmi obiettivo a valere

attraverso iniziative comunitarie finan-ziabili attraverso il FESR va ricordato il progetto Interreg III il cui scopo è di rafforzare la cooperazione a beneficio reciproco delle zone frontaliere di tutta l’Unione. Ciò al fine di evitare che i confini nazionali ostacolino lo sviluppo equilibrato e l’integrazione del territorio europeo alla luce del recente all’allargamento europeo.

Il FSE è stato creato nel 1958 per risolvere i problemi di occupazione scaturiti dalla stessa integrazione europea. I campi di applicazione del FSE sono finalizzati al sostegno e al

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completamento delle attività degli Stati membri in materia di mercato del lavoro e di risorse umane, in linea con i rispettivi Piani nazionali di azione per l’occupazione.

Il FEOGA è lo strumento finan-ziario istituito nel 1962 per finan-ziare la politica agricola comune. È articolato in due sezioni: la prima si occupa del finanziamento delle misure di sostegno dei prezzi e di stabilizza-zione dei mercati (Sezione garanzia), l’altra contribuisce al finanziamento dei progetti pubblici di miglioramento delle strutture di produzione, di tra-sformazione e di vendita dei prodotti agricoli (Sezione orientamento). Il FEOGA è il fondo più complesso tra quelli strutturali comunitari, esso infatti non ha una esclusiva missione strutturale come i precedenti fondi ma è articolato attraverso diverse modalità di intervento e regolato da differenti regolamenti attuativi. L’obiettivo ge-nerale è quello di attuare una politica integrata di sviluppo rurale sostenibile servendosi di un solo strumento giuri-dico che assicuri una migliore coerenza fra lo sviluppo rurale e la politica dei prezzi e dei mercati della Pac.

Lo SFOP si occupa delle politiche di sostegno della pesca e dei prodotti ittici in generale.

L’Agenda 2000, inoltre, costituisce il progetto che si pone l’obiettivo di de-scrivere le linee di sviluppo dell’Unione e del rafforzamento delle sue politiche nella prospettiva dell’allargamento, offrendo un conseguente e coerente quadro finanziario. Essa è la risposta alle sfide poste dall’allargamento ad Est dell’Unione del 2004 e dalla ne-cessità di rivedere programmazione e ripartizione dei fondi comunitari per gli anni a venire.

Il processo decisionale, iniziato con il Consiglio europeo di Madrid del dicembre 1995, che ha portato alla programmazione dei Fondi strutturali 2000-2006 è giunto alla sua concreta realizzazione con l’adozione dei princi-pali regolamenti di attuazione.

I regolamenti prevedono la conti-nuazione dell’intervento dei Fondi nelle aree non confermate in obiettivo 1 e 2 a titolo transitorio e in misura decre-scente nel tempo, queste aree vengono dette in “phasing out”. In questo modo si è cercato di non privare di importanti risorse per lo sviluppo aree che lenta-mente stanno recuperando margini di competitività e che ancora necessitano di particolari forme di sostegno.

I fondi strutturali rappresentano un’importante fonte di finanziamento per i programmi delle Regioni in ritar-do di sviluppo (obiettivo 1) e delle zone con problemi strutturali (obiettivo 2), nonché per le politiche di occupazione e formazione (obiettivo 3). I pro-grammi predisposti da ciascun paese sono finanziati in parte con risorse comunitarie e in parte con risorse na-zionali. A questo proposito si parla di cofinanziamento. Per quanto riguarda l’Italia, le iniziative di maggior rilievo riguardano le Regioni in ritardo di sviluppo (Mezzogiorno). I regola-menti comunitari prevedono alcuni meccanismi di sanzione e di premio per favorire un efficiente utilizzo dei fondi. Il sistema di penalità è gestito direttamente dalla Commissione euro-pea e riguarda i tempi di realizzazione della spesa. Se gli impegni assunti in un determinato esercizio non si tradu-cono in pagamenti (o in domande di pagamento ammissibili) nei due anni successivi la Commissione procede ad un automatico disimpegno con conse-guente perdita definitiva di risorse per i singoli programmi dello Stato membro. Questa regola è nota come “n+2”. La Commissione è chiaramente interes-sata al profilo dell’efficienza finanziaria della spesa, considerata come una precondizione affinché gli interventi programmati producano gli effetti previsti. Infatti, ritardi nell’esecuzione della spesa modificano il bilancio dei costi e dei benefici e alterano quindi i risultati che si intendono conseguire con i finanziamenti concessi.

L’Italia è un paese a rischio di per-dita di fondi a causa dei ritardi accu-mulati da alcuni programmi operativi. Lo Stato membro non può esercitare alcuna influenza sui meccanismi che regolano il disimpegno automatico, salvo promuovere la mobilitazione delle amministrazioni ai fini di una accelerazione dei pagamenti eseguiti o in corso di esecuzione. Più complessa è l’articolazione del sistema di incen-tivi da attuarsi tramite la cosiddetta riserva di efficacia ed efficienza, ossia un accantonamento pari al 4 per cento degli stanziamenti destinati a ogni programma operativo. A tale proposito, la Commissione ha fornito solo alcune indicazioni generali, richiedendo la va-lutazione dell’efficacia e dell’efficienza di ciascun programma sulla base di indicatori (definiti dallo Stato membro in accordo con la Commissione) che misurino i risultati intermedi raggiunti

e che rif lettano l’andamento della gestione e dell’attuazione finanziaria. L’intera procedura è gestita dallo Stato membro che è responsabile di una cor-retta applicazione di detti indicatori. La regola premiale ha chiaramente lo scopo di offrire alle amministrazioni un incentivo a migliorare la qualità del-la spesa (risultati conseguiti, modalità di gestione, ecc.), dopo aver accertato che siano stati rispettati i tempi di erogazione della stessa (quantità della spesa).

A proposito dei nuovi indicatori di sviluppo territoriale si suggerisce da più parti di adottare criteri diversi da quelli economici, quali ad esempio gli handicap territoriali specifici, la dota-zione di infrastrutture e trasporti, il li-vello di attività nel settore della ricerca, dell’innovazione, dell’istruzione e della formazione. Quest’indicazione consen-tirebbe di dare un’“anima sociale” agli “strumenti finanziari”. In Europa le Regioni sono strumento di riequilibro nello sviluppo economico e sociale. Si va verso una nuova visione della poli-tica comunitaria di coesione che pone al centro non i Paesi complessivamente considerati, ma le loro articolazioni territoriali, per affrontare “dal basso” il tema degli squilibri esistenti fra gli Stati e negli Stati stessi.

Comincia ad emergere un assetto normativo in virtù del quale lo Stato è tenuto ad un forte coinvolgimento delle Regioni nella programmazione della finanza pubblica, alla luce della riforma del titolo V della Costituzione, ma al contempo lo spazio di governo almeno normativo lasciato alle Regioni è costantemente interpretato in chiave restrittiva, con un rilancio delle politi-che centralistiche. È un assetto dunque ancora da definire coerentemente.

GESTIONE E FINALITÀ

Esistono ancora alcune difficoltà nel misurare le conseguenze degli in-terventi, a causa della mancata raccolta di dati sistematici da parte dei sistemi di monitoraggio. La maggior parte degli effetti della politica di coesione, tuttavia, non può essere valutata sem-plicemente in termini quantitativi. Al di là del suo impatto sul PIL o sul-l’occupazione, il valore aggiunto della politica di coesione è associato ad altre considerazioni, come il contributo dato allo sviluppo regionale da fattori quali la pianificazione strategica, le politiche di sviluppo integrato, i partenariati, la

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valutazione e lo scambio di esperienza, conoscenza e prassi positive tra Regio-ni. L’efficacia degli interventi dipende dalle condizioni favorevoli che si rea-lizzano a livello locale, specialmente per quanto riguarda:✔ un panorama economico solido e

stabile;✔ una scelta giudiziosa delle priorità

strategiche;✔ il tasso di assorbimento finanziario,

che dipende dalla capacità ammi-nistrativa e istituzionale;

✔ la qualità dei progetti, che implica sistemi di selezione e attuazione efficaci.

I trasferimenti finanziari aiutano gli Stati membri a raggiungere nelle regioni in ritardo di sviluppo livelli di investimento in capitale umano e fisico maggiori di quelli altrimenti possibili, contribuendo così a migliorare la loro competitività a lungo termine. Il re-quisito che prevede il cofinanziamento da fonti nazionali delle sovvenzioni comunitarie (secondo alcune verifiche ampiamente rispettato), permette di accrescere l’entità dei finanziamenti da destinare agli investimenti contribuen-do all’effetto leva sullo sviluppo. Anche la Banca europea per gli investimenti (BEI) ha più che raddoppiato i prestiti destinati allo sviluppo regionale negli ultimi 15 anni. Nel periodo 2000-02, tali prestiti sono stati mediamente di circa 20 miliardi di euro all’anno, mentre le somme erogate ai paesi prossimi all’adesione hanno totalizzato circa 3 miliardi di euro annui. Oltre il 50% delle erogazioni a favore delle aree assistite dell’UE durante questo periodo è stato destinato a regioni del-l’Obiettivo 1, incluse quelle che ricevono un’assistenza transitoria. Il 35% circa dei prestiti individuali ha interessato il settore dei trasporti, che è il prin-cipale beneficiario di finanziamenti nelle regioni dell’Obiettivo 1, mentre approssimativamente il 16% è stato destinato ad aziende private nel com-parto industriale, terziario e agricolo, e la rimanente quota è stata ripartita tra i settori energia, telecomunicazioni, am-biente, sanità e istruzione. Nonostante la modesta entità della quota stanziata a favore dell’investimento in capitale umano, attraverso prestiti al settore sanitario e all’istruzione, l’ammontare è cresciuto significativamente tra il 2000 e il 2002, contribuendo così a ridurre le disparità nell’offerta di istruzione e formazione nelle aree assistite.

La BEI, inoltre, è stata coinvolta nell’esecuzione degli obiettivi della strategia di Lisbona, in particolare con prestiti a favore degli investimenti per l’istruzione e l’alta tecnologia, specie nei paesi prossimi all’adesione, aiutan-do così a ridurre le disparità regionali in termini di competenze e di capacità innovativa, oltre a migliorare l’attrat-tiva delle regioni come aree d’investi-mento per le aziende. In particolare i Fondi strutturali hanno contribuito al miglioramento dell’accessibilità soste-nendo lo sviluppo delle reti transeuro-pee di trasporto (TEN-T) nelle regioni dell’Obiettivo 1 e nei paesi beneficiari del Fondo di coesione. L’utilizzo dei Fondi Strutturali a favore delle reti TEN-T si basa su un approccio a lungo termine che integra in una strategia coerente sia i trasporti sia lo sviluppo regionale complessivo. Ciò permette di avere una strategia coordinata con altre misure e con lo sviluppo di reti secon-darie, e permette altresì di mettere in evidenza l’interconnettività tra modi di trasporto e modi alternativi alla strada, nell’interesse di uno sviluppo sostenibile. Il valore aggiunto dato dal sostegno comunitario al settore dei tra-sporti potrebbe potenzialmente essere più importante, se fossero coordinate meglio le priorità e se fossero maggiori i finanziamenti ai programmi come INTERREG, che applicano il principio della pianificazione tra le aree di confi-ne, evitando in tal modo l’interruzione delle reti transeuropee quando queste raggiungono i confini nazionali.

Nell’ultimo decennio, le politiche strutturali hanno contribuito anche al rafforzamento dello spazio euro-peo della ricerca specialmente nelle regioni dell’Obiettivo 1. Per il periodo 2000-06, sono stati stanziati circa 1,2 miliardi di euro annui per finanziare programmi d’innovazione e di R&S. Il valore aggiunto dei Fondi Strutturali è il contributo al potenziamento di nuova capacità di ricerca nelle regioni in ritar-do di sviluppo, che ha migliorato le loro prospettive di crescita sostenuta.

I Fondi Strutturali erogano finan-ziamenti per circa 700 milioni di euro annui, poco meno del 4% del totale, anche a favore dello sviluppo della società dell’informazione nelle regioni dell’Obiettivo 1, riflettendo la priorità data a questo traguardo dalle autorità nazionali e regionali e contribuendo alla realizzazione degli obiettivi di Li-sbona e dell’iniziativa eEurope. L’entità della spesa proveniente dai Fondi e

destinata a quest’area è determinata da fattori quali il grado di maturità nel mercato della tecnologia dell’informa-zione e della comunicazione (ICT), la densità demografica, la disponibilità di competenze in grado di usare la tecnologia e la capacità di pianificare tale sviluppo.

Nel periodo di programmazione 2000-06, circa 9 miliardi di euro ven-gono stanziati per lo sviluppo del capi-tale umano e lo stimolo dell’occupazio-ne attraverso il Fondo sociale europeo (FSE). Di questo importo, poco più della metà (4,5 miliardi di euro annui) è destinato a regioni dell’Obiettivo 1. Le misure includono l’assistenza per il miglioramento dei sistemi nazionali d’istruzione e formazione e dei servizi pubblici del lavoro. Anche la sosteni-bilità ambientale è un fattore critico per il mantenimento dello sviluppo regionale nel lungo termine. Gli inter-venti dei Fondi includono l’ambiente come priorità orizzontale e tengono esplicitamente conto delle considera-zioni ambientali nel perseguimento degli obiettivi di coesione economica e sociale. Una parte rilevante dei Fondi Strutturali, quindi, è stata stanziata per finanziare gli investimenti nell’in-frastruttura ambientale, in particolare a favore dello smaltimento dei rifiuti e della gestione delle acque reflue, specie nel meridione dell’Unione.

Le economie europee stanno diven-tando maggiormente integrate, come dimostrano l’aumento degli scambi e i flussi degli investimenti tra paesi. Con il sostegno delle politiche di coesione che hanno stimolato il commercio e influenzato la localizzazione dell’attivi-tà economica la maggiore integrazione ha comportato una diminuzione delle disparità tra le economie. Gli scambi tra i paesi della coesione e il resto dell’Unione sono più che raddoppiati nell’ultimo decennio. Una parte del-l’incremento riflette i vantaggi che altri paesi hanno ottenuto grazie agli aiuti strutturali alle regioni meno favorite. Circa un quarto della spesa strutturale genera un ritorno nel resto dell’Unione sotto forma di maggiori esportazioni, in particolare di macchinari e attrezza-ture, grazie all’aumento del PIL e degli investimenti.

Le capacità di attuazione dei pro-grammi dei Fondi Strutturali sono cresciute con il maturare dell’esperien-za. Raggiungere il giusto equilibrio tra una gestione rigorosa, considerando i costi amministrativi ad essa associati,

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da un lato, e l’efficacia dei programmi, dall’altro, è una delle maggiori sfide per il futuro. Le disposizioni in mate-ria di amministrazione finanziaria e controllo sono state considerevolmente rafforzate nel tempo. La spesa com-plessiva per gli interventi strutturali è aumentata notevolmente. Ciò sembra rif lettere, per il periodo 2000–06, l’effetto congiunto della disciplina finanziaria imposta dalla regola ‘n+2’, delle misure di semplificazione intro-dotte e dell’avvio reale dei programmi a livello locale. La spesa in rapporto agli impegni è stata massima per quanto riguarda il Fondo di coesione, speso al 100%, e il FESR, speso al 96,5%.

Ad eccezione di quelli di grandi dimensioni (del costo totale di oltre 50 milioni di euro nel periodo 2000–06), la selezione dei progetti compete allo Stato membro o alla regione interessa-ti. Le procedure di selezione dei pro-getti sono state generalmente giudicate formali ma solide, corredate di validi sistemi competitivi e di graduatorie. Nonostante il miglioramento dei para-metri di gestione dei fondi pubblici, c’è ancora spazio per ulteriori progressi, specialmente in relazione alla selezione e attuazione di grandi progetti d’inve-stimento. Sebbene il controllo sia una componente vitale del sistema, l’espe-rienza suggerisce che l’attenzione dei comitati di monitoraggio sia focalizzata in modo preponderante su questioni di gestione finanziaria e, in particolare, sul tentativo di assicurare l’assorbi-mento delle risorse dei Fondi Struttu-rali, anziché sulla gestione strategica. Lo sviluppo di un ruolo più strategico per i comitati di monitoraggio è una delle sfide per migliorare il funziona-mento della politica di coesione.

La valutazione dei programmi dei Fondi Strutturali si è sviluppata e am-pliata durante gli anni ’90, dando luogo a una maggiore trasparenza e respon-sabilità nella gestione dei Fondi. Tutti i programmi dei Fondi Strutturali nel periodo 2000–06 sono stati sottoposti a una valutazione intermedia.

La riserva di efficacia e efficienza riunisce in sé numerosi aspetti di pras-si amministrative positive, specifica-mente il controllo finanziario, l’efficacia dell’attuazione, il monitoraggio e la va-lutazione. Tale riserva è un’innovazione in base alla quale, il 4% delle risorse dei Fondi Strutturali viene trattenuto per essere stanziato successivamente sulla base del conseguimento degli obiettivi definiti inizialmente nei documenti di

programmazione. Gli obiettivi riguar-dano l’efficacia (prodotto e risultati realizzati), le questioni finanziarie e la gestione dei programmi. Si tratta di un primo passo verso una modalità di ge-stione per obiettivi, che introduce per la prima volta un incentivo finanziario alla buona gestione, un traguardo che Stati membri e regioni hanno ovvia-mente interesse a raggiungere.

Attualmente le regioni dell’Obiet-tivo 1 comprendono circa il 25% della popolazione totale dell’Unione, pari a circa 92 milioni di individui. Si tratta ti-picamente di ampie aree, generalmente concentrate nelle zone periferiche del-l’Unione, che soffrono in particolare, di una dotazione infrastrutturale relati-vamente modesta e una forza lavoro con livelli di competenze professionali comparativamente minori, in aggiun-ta alle carenze istituzionali. Queste regioni hanno per definizione i livelli più bassi di PIL pro capite e di pro-duttività in generale sostanzialmente inferiore al livello registrato nel resto dell’Unione. Il tasso di occupazione è stato anch’esso notevolmente inferiore a quello osservato nelle altre aree del-l’Unione. La struttura occupazionale prevalente nelle regioni dell’Obiettivo 1, tuttavia, non è molto diversa da quel-la che si osserva nel resto dell’Unione. L’occupazione nel settore secondario (industria e costruzioni) rappresenta in entrambi i casi circa il 30% del-l’occupazione totale. La principale differenza è costituita dal persistere di un’elevata occupazione in agricoltura nelle regioni dell’Obiettivo 1. Inoltre le regioni dell’Obiettivo 1 hanno anche una bassa quota di occupazione nei servizi, sebbene questi rappresentino sempre, come nel resto dell’Unione, il settore dominante, con una quota del 60% di tutti i posti di lavoro.

Tuttavia dall’analisi risulta che vi è stato un progresso significativo in mol-te delle regioni assistite dalle politiche strutturali dell’Unione. Nelle regioni prioritarie dell’Obiettivo 1, il PIL pro capite, che è il principale punto focale della politica in questo settore, ha mo-strato la tendenza a convergere verso la media dell’Unione praticamente in tutti i casi. Si è registrato un minore progresso, tuttavia, per quanto ri-guarda la disoccupazione, per la quale il divario rispetto al resto dell’Unione si è lievemente ampliato durante que-sto periodo. Ciò riflette il fatto che le politiche strutturali sembrano avere prodotto i principali effetti sulla

produttività, o PIL per occupato, che era generalmente di molto inferiore a quella nel resto dell’Unione e costituiva una ragione importante del ritardo nello sviluppo delle aree interessate. Pertanto, la competitività di queste regioni è migliorata, il che dovrebbe favorire la creazione di impieghi nel lungo termine, accrescendo la capa-cità in queste aree di conseguire una crescita autosostenibile.

LA SITUAZIONE NEL MEZZOGIORNO

La situazione nel Mezzogiorno d’Italia risulta controversa6. Negli anni 1999-2003, in una fase di rallentamen-to dell’economia italiana ed europea, il Mezzogiorno è cresciuto più del resto del paese7, nello specifico, il Sud si è sviluppato in media dell’1,7% per anno, contro l’1,4 del resto d’Italia. Questo differenziale di crescita è significativo, sebbene ancora modesto, prolungato nel tempo come mai è avvenuto nella storia del dopoguerra, atipico in un’Eu-ropa dove nell’ultimo quinquennio sono aumentati i divari infra-nazionali. In questo contesto, vanno sottolineati i numerosi segnali di miglioramento nella qualità e nell’efficacia dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione a cittadini e imprese meridionali. Tutto ciò emerge dal Rapporto annuale 2003, pubblicato dal Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione, dove si ricavano alcune prime risposte alle nuove politiche comunitarie che si sono concentrate nella realizzazione di inve-stimenti rivolti a migliorare i servizi al Sud. Da tale Rapporto risulta che la carenza di servizi idrici, di trasporto, di telecomunicazione, di smaltimento dei rifiuti, di accesso al patrimonio natura-le e culturale, di ricerca, rappresentano ancora oggi il principale “freno” per lo sviluppo dell’area. Le modifiche rispet-to al passato ci sono. La svolta sembra essere legata all’accresciuta capacità delle amministrazioni, specie locali, di imparare a spendere. Ha pesato assai positivamente il nuovo sistema di premi e sanzioni per l’operato della pubblica amministrazione.

L’aumento della spesa pubblica in conto capitale destinata al Sud è stato continuo negli ultimi anni, fino a su-perare quella robusta del Centro Nord. Tra il 1999 e il 2001, a fronte di una crescita di circa il 14% nel Centro Nord, l’aumento della spesa pubblica in conto capitale del settore pubblico allargato nel Sud ha superato il 19%. L’addizio-

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nalità delle risorse comunitarie rispetto alle risorse nazionali è stata garantita. La verifica intermedia ha dimostrato che la spesa pubblica nazionale nelle regioni dell’Obiettivo 1 durante il periodo 2000-2002 ha rispettato le aspettative. Il rispetto del principio di addizionalità segnala la robustezza del percorso avviato e la solidità dell’impe-gno assunto con l’Unione europea. La quota di investimenti in infrastrutture materiali e immateriali sul totale del conto capitale della P.A. è cresciuta in modo assai forte, aumentando di 10 punti (dal 47,9% del 1998 al 57,7% del 2001) rispetto a quella della spesa in incentivi, sussidi e aiuti (che scende dal 52,1% al 42,3%). Le politiche intraprese negli anni recenti volte a ridurre il peso dei trasferimenti a favore della spesa per infrastrutture stanno quindi aven-do successo. La spesa ha badato alla qualità delle iniziative e dei progetti. Lo si rileva sia dal crescente ricorso a criteri valutativi, anche con lo sviluppo della capacità valutativa autonoma delle autorità locali, sia dal fatto che alla capacità di ricorrere ai cosiddetti progetti-sponda (cioè il finanziamen-to di progetti già realizzati o in via di realizzazione, spesso necessario per non perdere risorse), si è accompagnato l’impegno cogente a impiegare i “fondi liberati” in progetti nuovi e coerenti con gli obiettivi definiti. Nel Rapporto an-nuale del Dipartimento per le politiche di sviluppo del Ministero dell’economia e delle finanze, emergono risultati contrastanti, sintetizzati con la consi-derazione che c’è crescita nelle aree più deboli del paese, ma questa crescita è “frenata”. Alcune delle azioni di politica economica messe in atto funzionano, e cominciano a produrre i primi risultati (fra cui, importanti, i processi di mo-dernizzazione delle amministrazioni regionali). Altre funzionano meno, e non danno risultati. Il punto è che complessivamente le politiche non han-no ancora indotto quei cambiamenti tangibili nei contesti, nelle istituzioni, nella qualità della vita tali da determi-nare a loro volta un cambiamento nelle aspettative e nei comportamenti degli operatori (interni ed esterni a quelle aree), e tali dunque da innescare un circuito virtuoso di “crescita endogena”. Le politiche di sviluppo territoriali non possono avere alcun successo se non in un quadro di coerenti politiche per la crescita nazionale. Da questo punto di vista, l’intero paese appare incapace di affrontare una crisi strutturale di com-

petitività, attraverso incisive politiche di ridisegno dell’intervento pubblico, di rafforzamento delle reti infrastruttura-li, di potenziamento del capitale umano e della ricerca. Il Mezzogiorno non è più oggi un’area omogeneamente in ri-tardo di sviluppo e presenta specificità regionali e subregionali anche molto accentuate8. Dalla metà degli anni ’90 un numero crescente di osservatori ha individuato nell’economia e nella socie-tà del Mezzogiorno l’emergere di spinte endogene verso un deciso cambiamento e segnali di potenziale accelerazione nel processo di sviluppo9. In parte, ciò si è effettivamente riflesso negli anni successivi in un recupero di capacità di crescita che, per la prima volta dal dopoguerra, è stata per un periodo sostenuto di tempo superiore a quella del Centro-Nord. A ciò si sono affiancati segnali interessanti di vitalità econo-mica in specifiche aree, importanti avanzamenti nella capacità di diverse amministrazioni e una discreta parteci-pazione dell’area ai processi di diffusio-ne delle nuove tecnologie. Nondimeno, il Mezzogiorno nel suo complesso non appare ancora avviato su un percorso di sviluppo proporzionale alle proprie potenzialità e non ha ancora mostrato chiari e generalizzati segnali di recu-pero di capacità di azione collettiva, sia dal lato dell’operatore pubblico, sia da quello della società civile e produt-tiva. Nella fase più recente, l’area ha anche probabilmente sofferto, oltre ché dei ritardi accumulati nel passato (particolarmente visibili nel perma-nere di un differenziale sfavorevole nella dotazione delle infrastrutture e nella disponibilità di servizi) e che hanno comunque attenuato l’impatto potenziale delle tendenze positive emerse nella seconda metà degli anni ’90, dell’evidente disorientamento che ha investito il sistema italiano nel suo complesso di fronte alle modificazioni del contesto e della concorrenza inter-nazionale. Tali modificazioni hanno portato alla luce fragilità dal lato della capacità innovativa e resistenze alla trasformazione nell’organizzazione di impresa, della società, della politica e dei mercati che già caratterizzano da tempo il Paese.

GLI INDICATORI DI SVILUPPOCerchiamo tuttavia di fotografare la

situazione nel Mezzogiorno attraverso alcuni indicatori di sviluppo, per verifi-care se l’impatto delle politiche struttu-rali è stato positivo, negativo o nullo.

Secondo il recente Rapporto SVI-MEZ 2006 sull’economia del Mezzo-giorno risulta che nel 2005 l’economia italiana non è cresciuta, rispetto al modesto incremento (1,3%) realizzato nell’anno precedente. Il PIL del Mez-zogiorno è calato dello 0,3%, a fronte di un aumento dello 0,7% dell’anno precedente e di un incremento nullo nel resto del Paese. Il ritmo di sviluppo del Mezzogiorno è stato quindi per il secondo anno consecutivo inferiore a quello del Centro-Nord, un risultato che negli scorsi dieci anni si era regi-strato solo nel 2000.

Il settore agricolo è calato nel Mezzogiorno di oltre il 3%, a fronte del -1,9% nel resto del Paese, dopo la crescita straordinaria di oltre il 10% del 2004, risentendo in misura maggiore degli effetti negativi della stagione e degli interventi della PAC. Anche la flessione del prodotto dell’industria in senso stretto è risultata maggiore al Sud rispetto al Centro-Nord (-3,1 rispetto al -1,9%), e nelle regioni meri-dionali il calo si è aggiunto a quelli già registrati nel 2003 e 2004 (-0,4 e -1,7% rispettivamente), mentre nel Centro-Nord la variazione nel 2004 era stata positiva (0,7%).

Un forte rallentamento della cre-scita del prodotto è segnalato nel 2005 anche nel settore dell’edilizia, dopo il ciclo positivo registrato nel biennio precedente anche a causa di politiche di sostegno dell’attività edile privata e pubblica. In entrambe le ripartizioni il settore delle costruzioni è aumen-tato dello 0,8%, dopo l’incremento registrato l’anno precedente del 3,5% al Sud e del 2,4% nel Centro – Nord. In una fase sfavorevole del ciclo, il contributo dei settori terziari è stato positivo, con un aumento del valore aggiunto sia nel Mezzogiorno (0,4%, confermando la crescita del 2004), sia nel Centro-Nord (1%, in lieve flessione rispetto a quello registrato nell’anno precedente, pari all’1,4%). Insieme all’edilizia, i servizi sono stati gli unici settori che, in aggregato, hanno dato un apporto positivo al PIL. Modifiche strutturali nel modo di produrre e consumare sono alla base del positivo andamento del settore degli alberghi, ristorazione, trasporti e comunica-zioni, che è cresciuto al Sud del 2,5%, sebbene con un ritmo inferiore a quel-lo registrato nel Centro-Nord, pari al 4,4%, l’aumento più elevato dall’inizio del decennio.

Ai processi di ristrutturazione,

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sommati alla flessione nella domanda di consumi delle famiglie, è da impu-tare il calo nel settore del commercio (-0,4%, rispetto alla stagnazione regi-strata nel Centro-Nord). Un andamen-to solo lievemente positivo è segnalato, nel Mezzogiorno, nel settore del credito e dell’intermediazione finanziaria e immobiliare (0,3%), mentre rimane fermo il settore composito dei servizi alle imprese e alle famiglie e della P.A., che ha risentito anche della stagnazio-ne della produzione manifatturiera in tutto il Paese e della flessione dei redditi delle famiglie, che si è riflessa sul loro consumo.

L’input di lavoro, misurato nel-la contabilità nazionale dalle unità standard di lavoro, ha registrato una dinamica negativa in entrambe le ripartizioni, ma con diversa intensità. Nel Mezzogiorno l’input di lavoro è diminuito per il terzo anno consecu-tivo (- 0,7%), con una flessione ben più ampia di quella già registrata nel 2004 (-0,2%) e nel 2003 (-0,1%), e con una perdita di oltre 48.000 posizioni lavorative (-72000 se confrontate col 2002). Oltre che essere collegato al ciclo negativo, il calo degli addetti appare anche il risultato di processi di razionalizzazione in atto prevalente-mente nel settore industriale e in quello commerciale, collegati alla riduzione di inefficienze e all’espulsione di operatori marginali dal mercato.

Il 2005 risulta quindi essere un anno di arresto del processo in atto ormai da un quinquennio di recupero delle differenze di produttività da parte del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese.

Nel 2005 il PIL per abitante del Mezzogiorno è risultato pari a 16.272 euro. In termini relativi, tale valore equivale al 60,3% del prodotto pro capite del Centro-Nord, pari a 26.985 euro: era dalla seconda metà degli anni ’80 che il gap con il resto del Paese non risultava inferiore ai qua-ranta punti percentuali. In termini monetari, d’altronde, il divario medio rimane superiore ai 10.000 euro. A fronte quindi di una diminuzione del gap di sviluppo di circa cinque punti dalla seconda metà degli anni ’90, il divario rimane ancora assai ampio, e segnala differenze profonde nella ca-pacità di utilizzare i fattori produttivi e di produrre ricchezza nelle due aree. Nel decennio 1995-2005 il prodotto pro capite è cresciuto cumulativamente di oltre 11 punti percentuali in più nel

Mezzogiorno. Alla riduzione del diva-rio ha contribuito sia una maggiore crescita del prodotto nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, valutata, ai prezzi di mercato, in circa 3 punti cu-mulati, sia una dinamica demografica inferiore (0,5%, a fronte del 5% nel Centro-Nord).

L’andamento dei consumi finali è risultato differente nelle due riparti-zioni: infatti, sebbene i consumi finali totali abbiano mostrato per entrambe nel 2005 un andamento simile (0,1% al Sud, 0,2% nel resto del Paese), esso è la risultante di una diversa dinamica della spesa delle famiglie, in flessione nel Mezzogiorno (-0,3%), stagnante nel resto del Paese. In entrambe le ripartizioni la spesa delle amministra-zioni pubbliche è aumentata dell’1,1%, sebbene rispetto all’anno precedente l’incremento della crescita sia stato più elevato nel Centro-Nord (era pari allo 0,5% nel 2004) che al Sud (1% nell’anno precedente). Nel 2005 la f lessione degli investimenti è stata maggiore nel Mezzogiorno che nel resto del Paese: -0,9% nel Sud, quasi il doppio del calo registrato nel Centro-Nord (-0,5%), sebbene entrambe le ripartizioni provenissero da un anno di crescita analoga dell’accumulazione di capitale (rispettivamente 2,2% e 2,1% nel 2004). Nel Mezzogiorno la diffe-renza di dinamica tra la componente delle costruzioni e quella relativa a macchinari e mezzi di trasporto è stata particolarmente netta: la prima è cresciuta nel 2005 dell’1,3%, con un rallentamento rispetto al 2004 (2,3%) ma comunque a un tasso superiore a quello medio del periodo 1996-2005 (1,1%). Gli investimenti in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto sono invece diminuiti del -2,8%, dopo essere aumentati del 2,2% l’anno precedente. Nel resto del Paese il divario fra le dina-miche delle diverse componenti è meno definito: gli investimenti in costruzioni sono cresciuti dello 0,2%, la metà del tasso di crescita registrato l’anno pre-cedente, mentre quelli in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto sono calati del -1,1%, meno della metà della flessione registrata al Sud. La dinamica degli investimenti fissi lordi nell’ultimo decennio (1996-2005) risulta simile nelle due aree, con un tasso di crescita medio annuo pari al 2,5% nel Centro-Nord e 2,4% nel Mezzogiorno. La cre-scita degli investimenti in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto nel Sud è stata d’altronde sensibilmente

più veloce (3,7%) che nel resto del Paese (2,6%). Al contrario, la crescita degli investimenti in costruzioni è stata nel decennio nel Centro-Nord doppia di quella al Sud (rispettivamente 2,2% e 1,1% il tasso medio annuo nelle due aree). Nel 2005, la dinamica delle esportazioni nelle due ripartizioni è risultata differenziata: le esporta-zioni del Mezzogiorno sono cresciute dell’11,3%, quelle del resto del Paese del 3,4%. Le esportazioni sono aumentate soprattutto verso i paesi extra Ue, con una crescita per il Mezzogiorno (14,7%) più che doppia di quella registrata nel Centro-Nord (6,7%). Nei paesi dell’Ue, dove l’Italia risente maggiormente della perdita di competitività, le espor-tazioni sono aumentate del 9,1% al Sud, solo dell’1,1% nel resto del Paese. Le esportazioni hanno presentato nel 2005 una dinamica positiva in tutte le regioni del Mezzogiorno tranne Basili-cata (-13,1%) e Calabria (-10,5%). Parti-colarmente positivi sono stati i risultati in Sicilia (31,2%) e Sardegna (34,2%), specialmente a causa delle vendite di prodotti energetici. Ottimo anche il risultato del Molise (13,3%), che segna una crescita nei mercati extra Ue del 33%. Per le altre regioni meridionali i risultati sono positivi ma con una mi-nore crescita. Nel complesso, la quota delle esportazioni del Mezzogiorno sul totale nazionale è risultata essere pari all’11,6%, in aumento rispetto allo scor-so anno ma ancora notevolmente infe-riore al contributo produttivo dell’area, che conferma la sua minore apertura al commercio internazionale. Nel 2005 la fase congiunturale negativa è stata av-vertita dalla maggioranza delle regioni italiane, che hanno presentato tassi di crescita negativi del prodotto. Nel Mezzogiorno, solo Abruzzo (2,1%, dopo un biennio di f lessione produttiva), Sicilia (2,8%) e Sardegna (0,9%) han-no incrementato il proprio prodotto, soprattutto a causa, per le ultime due, del contributo dei settori energetici. Una contrazione della produzione è stata registrata nelle altre regioni meri-dionali, particolarmente accentuata in Calabria (-2,7%), e Puglia (-2,1%), che hanno risentito anche della cattiva an-nata agricola. La Basilicata ha mostrato per il terzo anno consecutivo un calo di prodotto (-1,4%) collegato anche alle difficoltà del settore automobilistico. Il calo produttivo in Campania (-1,9%) segue il biennio 2003-2004 di crescita moderata (0,7%). I processi di tenden-ziale lieve diminuzione del divario

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con il resto del Paese, registrati dalle regioni del Mezzogiorno dalla metà degli anni ’90, non hanno modificato la struttura dell’economia italiana, che continua a caratterizzarsi come nettamente “dualistica”. Tutte le regioni del Mezzogiorno mostrano nel 2005 un livello di prodotto pro capite inferiore a quello medio italiano, mentre nel Centro-Nord questo avviene solo per Umbria e Marche. In particolare, la regione meridionale con le maggiori performances, ovvero l’Abruzzo, ha un reddito pro capite pari solo all’84% di quello medio italiano; quella con le per-formances peggiori, ovvero la Calabria, non arriva al 65%. Campania, Puglia e Basilicata non superano il 70%.

Dopo un 2004 caratterizzato da ri-sultati particolarmente positivi e da au-menti in termini reali della produzione e del valore aggiunto rispettivamente dell’8,5% e del 10,8%, il 2005 ha fatto registrare per l’agricoltura meridio-nale un andamento negativo con una flessione del 3,3% nella produzione e del 4,2% nel valore aggiunto. Tale ri-sultato è legato, oltre che ad una situa-zione economica generale non positiva, anche alla particolare performance del settore nell’annata precedente, nella quale si erano verificati aumenti produttivi più o meno diffusi e risultati molto elevati per alcune colture quali i pomodori, il grano duro e l’olio di oliva. Alla riduzione rispetto ad una situa-zione che era stata molto favorevole in comparti fortemente rappresentati nelle regioni meridionali, va in parte imputata la performance del settore primario peggiore di quella realizzatasi nel Centro-Nord dove, in termini reali, la produzione è diminuita solo del -1,9% e il valore aggiunto del -1,6%. La dina-mica negativa rilevata nel 2005 per il settore primario nel suo complesso è la sintesi di quanto si è verificato nelle singole regioni meridionali, per le quali non si rilevano sostanziali differenze. Tra di esse è tuttavia possibile indi-viduare sostanzialmente due gruppi. Al primo appartengono regioni, quali l’Abruzzo, la Campania e la Sicilia, in cui la produzione e il valore aggiunto hanno registrato decrementi molto lie-vi, mostrando una sostanziale stabilità rispetto all’anno precedente. Al secon-do gruppo appartengono le rimanenti regioni dove la performance è stata più marcatamente negativa come, in particolare, il Molise e la Puglia. La riduzione della produzione agricola rilevata per il 2005 nel Mezzogiorno

non è dovuta ad una caduta dei prezzi, ma piuttosto ad una riduzione delle quantità prodotte. In generale, a li-vello italiano si è avuto un andamento negativo dei prezzi in diversi comparti, con le riduzioni principali rilevate nei prezzi dei cereali (- 17,5%), del vino (-20,6%), dei suini (-6,5%), della frutta e degli agrumi (-8,1%) e delle colture industriali (-5%). Fra i comparti per i quali si sono, invece, registrati i rialzi più significativi vi sono quelli dell’olio di oliva (17,1%) e degli ortaggi (5,1%). Il 2005 ha fatto registrare un significativo incremento delle esportazioni rispetto all’anno precedente. L’aumento, pari al 7,5% a livello italiano, è stato più contenuto per il Mezzogiorno, dove si è attestato sul 3,3% a fronte del 9,3% nel Centro-Nord10. Molto diversificata è la situazione a livello regionale. Dal lato delle esportazioni, l’Abruzzo, il Molise e la Campania hanno fatto registrare nel 2005 decrementi particolarmente rile-vanti. Andamenti relativamente meno sfavorevoli, si rilevano per la Calabria, la Sardegna e la Sicilia. Una dinamica positiva si è registrata solo per la Ba-silicata (2,9%) e, segnatamente, per la Puglia (21,7%).

Nel 2005 la caduta del prodotto nell’industria in senso stretto è risul-tata nettamente più accentuata nel Mezzogiorno (-3,1%) rispetto a quanto osservato nel Centro-Nord (-1,9%). In generale, nel 2005, la dinamica del pro-dotto industriale meridionale è stata sfavorevolmente influenzata dalla più accentuata contrazione sperimentata dalla specifica componente della do-manda – i consumi delle famiglie – che esercita, nel Sud, gli effetti propulsivi relativamente maggiori. Le uniche due branche dell’industria meridionale che, nel 2005, hanno conosciuto un risultato positivo – di entità, inoltre, in forte controtendenza rispetto al valore medio – sono state quella dei minerali non metalliferi (+12,1%) e la fabbricazione di prodotti in metallo (+7,3%). Nel 2005 le esportazioni manifatturiere, a prezzi correnti, sono aumentate dell’11,3% nel Mezzogiorno e del 3,3% nel Centro-Nord. Va tuttavia rilevato che il dato meridionale, in con-siderazione dell’incidenza struttural-mente maggiore rivestita dall’export di prodotti energetici, è stato fortemente influenzato dall’ampio rialzo verifica-tosi nel prezzo del petrolio. Nel 2005, le esportazioni meridionali dei soli prodotti energetici sono aumentate, in valore, del 55,7%. Al netto di questi,

l’export meridionale di merci ha fatto registrare un progresso del 3,1%, valore non dissimile da quello riscontrato nel resto del Paese. Tuttavia nel 2005, la produttività del lavoro nell’industria in senso stretto, misurata dal valore ag-giunto per unità di lavoro, è diminuita dell’1,3% nel Mezzogiorno e dello 0,4% nel Centro-Nord. Nel medio periodo la produttività ha evidenziato, in en-trambe le ripartizioni, una tendenza declinante. Dopo un primo triennio, 1997-2000, nel quale la produttività del lavoro del comparto manifatturiero è cresciuta, in entrambe le ripartizioni, dell’1% medio annuo, nella prima metà del nuovo decennio (2001-2005) vi è stato un calo commisuratosi, rispetti-vamente, in sei e sette decimi di punto percentuale medio annuo nel Mezzo-giorno e nel Centro-Nord.

Il mancato sviluppo della produt-tività pesa sulla competitività delle imprese manifatturiere di ambedue le macro-aree. Con riferimento al-l’ultimo quinquennio (2001-2005), risulta piuttosto evidente come, sia nel Mezzogiorno che nel resto del Paese, l’insoddisfacente evoluzione della produttività trovi origine nel risultato di prodotto complessiva-mente conseguito nello stesso periodo (-0,7% medio annuo nella prima area e –1,1% medio annuo nella seconda). Nel 2005, la sfavorevole evoluzione del prodotto si è pienamente riflessa sulla dinamica dell’input di lavoro: le unità di lavoro totali nell’industria in senso stretto meridionale sono diminuite dell’1,8% nel Mezzogiorno e dell’1,5% nel Centro-Nord. Con riferimento al solo comparto manifatturiero, la dina-mica occupazionale, nello stesso anno, non si è discostata da quella dell’intera industria; con cali, rispettivamente, dell’1,9% nel Mezzogiorno e dell’1,5% nel resto del Paese.

Per il terzo anno consecutivo la crescita del valore aggiunto dei servizi nel Mezzogiorno (0,4%) è risultata inferiore a quella registrata nel Cen-tro-Nord (1%). Alla debole crescita del valore aggiunto ha fatto seguito nel 2005 la stagnazione dell’occupazione nel settore dei servizi in Italia: il nu-mero di unità di lavoro impiegate nel-l’anno è stato simile a quello dell’anno precedente, con un incremento nullo, a fronte di un aumento dello 0,9% nel 2004. D’altronde, tra i grandi settori dell’economia, il terziario è il solo ad aver contribuito, in modo non negativo, al sostegno dell’occupazione nell’anno,

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in presenza, invece, di dinamiche sfa-vorevoli sia nel settore agricolo

(-57%) che in quello industriale (-0,4%). Nel 2005 la dinamica dell’oc-cupazione terziaria nel Mezzogiorno è risultata negativa: le unità di lavoro oc-cupate si sono ridotte dello 0,5%, dopo una prima lieve flessione (0,1%) nel 2004. Una diminuzione di tali dimen-sioni non si registrava nel settore dalla recessione dei primi anni ’90. La caduta dell’occupazione nel Mezzogiorno ri-sulta concentrata tra gli indipendenti, il cui numero si è ridotto nell’anno del 4,2%, in presenza invece di un aumento dello 0,9% tra i dipendenti. Solo nel settore dell’intermediazione finanzia-ria e immobiliare crescono, sebbene di poco, sia i dipendenti (1,3%) che gli indipendenti (0,1%).

Nel 2005 la crescita della popola-zione ha mostrato un deciso rallenta-mento in entrambe le ripartizioni del Paese, con una particolare accentua-zione nel Mezzogiorno. La popolazione meridionale è infatti cresciuta nel 2005 di appena 24 mila unità rispetto all’anno precedente, attestandosi alla fine dell’anno sui 20,7 milioni di resi-denti, pari a poco più di un terzo della popolazione nazionale (il 35,3%). Dal 2003 al 2005 i residenti nelle regioni del Sud sono aumentati di poco meno di 110 mila unità a fronte di quasi 770 mila unità, nuovi residenti centro-set-tentrionali. La causa del diverso ritmo di incremento delle due macro-aree del Paese è imputabile all’andamento delle diverse componenti della dina-mica demografica. Nel Mezzogiorno si è ormai prossimi alla decrescita della popolazione sia a causa della bassa natalità sia del progressivo invecchia-mento della popolazione – che pur con-tinuando a essere problemi nazionali, nel recente passato interessavano in modo particolare soprattutto le regioni centro-settentrionali mentre oggi sono diventati problemi anche meridiona-li – sia per la sua scarsa capacità di attrarre e di contenere i flussi migratori internazionali. Tra le regioni del Sud, oltre alla Campania soltanto la Puglia continua a far registrare un livello di incremento naturale superiore a quello medio ripartizionale, e ciò unicamente grazie a una mortalità più bassa, che nell’ultimo anno è risultata inferiore di circa un punto a quella del Mezzo-giorno nel suo insieme. Le altre regioni demograficamente più grandi come la Sicilia e la Calabria sono invece molto prossime alla crescita zero delle loro

popolazioni, mentre, viceversa, quelle più piccole esibiscono già da qualche anno saldi naturali negativi come il Molise e la Sardegna. Le tendenze demografiche segnalano inoltre che, anche nel Mezzogiorno, come nel resto del Paese, è in atto un relativamente rapido processo di invecchiamento della popolazione.

Passando ai f lussi migratori in-ternazionali, si può osservare come il Mezzogiorno continui ad esercitare una scarsissima capacità di attrazione della popolazione straniera migrante. Soltanto il 13% dei circa 295 mila nuovi iscritti dall’estero sceglie un comune del Sud come luogo dove fissare la propria residenza. Ancora una volta è la Cam-pania a costituire la meta principale dei flussi migratori internazionali (con 12,7 mila nuovi residenti), seguita dalla Sicilia (6,5 mila), dalla Puglia (5,7 mila) e dall’Abruzzo (5,5 mila), che è anche la regione con la maggiore incidenza di nuovi immigrati sulla popolazione. La presenza di stranieri residenti nel Mezzogiorno era pari, secondo i dati del Censimento 2001, a circa 176.000 unità, con un’incidenza dello 0,8% sul-la popolazione totale della ripartizione, inferiore alla corrispondente incidenza a livello nazionale (2,3%). Secondo gli aggiornamenti anagrafici al 1.1.2004 la popolazione straniera nel Sud era salita a oltre 253.000 unità, pari a un’inci-denza dell’1,3% (3,4 in Italia).

Con riferimento all’ultimo decen-nio va rilevato che la ripresa della mobilità residenziale è da ricondurre soprattutto ai persistenti squilibri del mercato del lavoro del Mezzogiorno. Rispetto alle grandi migrazioni degli anni ’50 e ’60 che modificarono ra-dicalmente la geografia demografica del Paese, la migrazioni nella fase più recente presentano forti differenze strutturali, oltre che in termini di dimensioni, anche nelle destinazioni e nelle caratteristiche degli stessi migranti. Il fenomeno migratorio nel-l’ultimo decennio interessa prevalen-temente la componente giovanile più scolarizzata, mentre è ridotto il peso delle altre componenti – giovanissimi e ultra quarantenni – ampiamente inte-ressate dalle migrazioni di massa degli anni ’50 e ’60. Diversa risulta inoltre, anche la geografia delle migrazioni. I flussi migratori si dirigono ancora in maggioranza verso la Lombardia ma è fortemente aumentata l’attrattività di alcune regioni del Nord-Est, prima fra tutte l’Emilia Romagna. Nel passato

decennio è da registrare una notevole ripresa delle migrazioni interne tra Mezzogiorno e Centro-Nord, che hanno riguardato soprattutto i cittadini italia-ni, con incrementi significativi soprat-tutto tra 1995 e 2000 delle emigrazioni, rimaste peraltro consistenti (attorno alle 120.000 unità) anche successi-vamente e che hanno, nei saldi netti (attorno a -60.000 unità nella media 1998-2002), interessato soprattutto la componente più giovane e scolarizzata (tra i 20 e i 35 anni) della popolazione. Questo fenomeno è considerato con preoccupazione dagli analisti, poiché, al di là del segnale di meccanismi di riequilibro in atto e di una maggiore integrazione del mercato del lavoro a livello nazionale che esso comunque rappresenta, ne derivano implicazioni di depauperamento dell’area dal punto di vista delle migliori energie e del capi-tale umano. Si va peraltro rapidamente accrescendo, anche nel Mezzogiorno, la presenza della popolazione straniera, anche se ancora molto inferiore a quella nazionale.

Si conferma nell’ultimo anno la tendenza ad un aumento dei tassi di partecipazione al sistema scolastico e dei livelli medi di istruzione. In parti-colare le regioni meridionali registrano un significativo incremento di tutti gli indicatori che contribuisce ad avvici-nare, e, in alcuni casi a sopravanzare, la situazione dei giovani meridionali a quella delle altre regioni italiane e dei principali paesi industriali. La parteci-pazione alla scuola materna e a quella dell’obbligo risulta ormai pressoché to-tale mentre aumentano decisamente il tasso di scolarità superiore e il tasso di iscrizione all’università. In particolare, il tasso di scolarità nella scuola secon-daria superiore (che costituisce l’indi-catore più significativo), sale ancora tra il 2003-04 e il 2004-05 portandosi, a livello nazionale, al 92,6% con valori sostanzialmente simili nelle due ripar-tizioni del Paese: rispettivamente 92% e 93,0% nel Mezzogiorno nel Centro-Nord. In lieve flessione risulta invece il tasso di conseguimento del diploma che passa dall’85,3% del 2003-04 all’83,1% probabilmente per effetto del forte aumento nelle iscrizioni cui non sempre corrispondono programmi di portare a termine il ciclo di studi. È notevole il flusso di giovani meridionali che studiano al Centro-Nord nonostan-te la graduale espansione degli atenei meridionali. Ciò se per un verso è un dato positivo per l’altro verso è un’ulte-

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riore occasione per la “fuga di cervelli” dal Mezzogiorno.

Risultati negativi sul versante occupazionale non si rif lettono in sempre maggiori tassi di disoccupa-zione ma, viceversa si combinano con tassi di disoccupazione in tendenziale discesa. Tali andamenti sono in parte ascrivibili al tendenziale aumento della partecipazione al sistema scolastico e formativo ma sottendono soprattutto un effetto di scoraggiamento legato alle crescenti difficoltà di trovare oppor-tunità di lavoro soddisfacenti. Inoltre, l’aumento dell’inattività coinvolge in misura rilevante le classi di età più giovani e le donne. Nel Mezzogiorno è invece diffusa e persistente anche tra i giovani un’inattività di natura diversa, per cui la rinuncia a presen-tarsi sul mercato del lavoro si associa alla contemporanea alienazione dal circuito dell’istruzione. In quest’area territoriale il numero di persone tra 15 e 29 anni che non studiano e che non partecipano al mercato del lavoro sale nel 2005 di 5 mila unità. L’inattività rispetto sia allo studio sia al lavoro si configura peraltro come un fenomeno prettamente meridionale. Nel Mez-zogiorno circa due giovani su tre tra 15 e 29 anni che non studiano e non lavorano sono infatti donne.

Nel nostro Paese, dal dopoguerra ad oggi il è decisamente aumenta-to, passando da 4,5 ad 11,5 anni di istruzione; si è verificata, inoltre, una rapida convergenza fra il Sud ed in Nord-Italia. In termini quantitativi il Mezzogiorno evidenzia una presenza e dotazione di capitale umano sostan-zialmente in linea con il dato nazionale. Si registrano, infatti, anche significa-tivi movimenti migratori Nord-Sud intorno alle 60.000 unità l’anno nel periodo 1998-2002. Ciò che, invece, il sistema scolastico italiano non riesce ad assicurare è una soddisfacente mo-bilità intergenerazionale nei livelli di istruzione, poiché l’istruzione dei figli dipende ancora fortemente dai titoli di studio dei genitori.

Secondo i dati più recenti sui tassi di istruzione secondaria, avanzata e scientifica, i valori del Sud non si discostano, se non di poco, da quelli nazionali. Il tasso di partecipazione nell’istruzione secondaria superiore, nell’anno 2003-2004, è stato pari al Sud al 91,4% (media nazionale 92,1%) con punte di eccellenza in Basilicata, Molise e Abruzzo. La percentuale di giovani laureati nel Mezzogiorno mi-

surata nel 2001-2002 era pari al 17,8 (19,7 in Italia), con Abruzzo, Molise, Basilicata e Sardegna che superano la media nazionale. Anche la proporzio-ne dei laureati in materie scientifiche (32,5%) è sostanzialmente in linea con il valore nazionale (33,8%); in questo caso il Molise evidenzia una percen-tuale però molto più bassa (4,2%), mentre Basilicata, Abruzzo, Sardegna e Calabria superano la soglia nazionale. Un deficit di accumulazione di capitale umano si verifica al Mezzogiorno, invece, per una inferiore qualità delle competenze acquisite nel sistema sco-lastico, e, successivamente, per effetto di un basso coinvolgimento sia dei la-voratori, sia degli adulti non occupati nelle attività di formazione e per una non piena capacità dell’area di fornire occupazione anche agli individui più scolarizzati. Tuttavia la probabilità di trovare un’occupazione per i giovani laureati è inferiore alla media nazio-nale. Nell’ultima indagine dell’ISTAT sullo stato occupazionale dei laureati nel 2004 a tre anni dal conseguimento del titolo, nel Mezzogiorno risulta oc-cupato circa il 60%, contro quasi l’83% del Nord e il 75% del Centro.

Il livello di istruzione di coloro che nel 2003 (ultimo anno per il quale si dispone di informazioni statistiche) hanno lasciato il Mezzogiorno per una regione del Centro-Nord, circa la metà (48,8%) aveva un titolo di studio medio-alto (diploma il 35,9% e laurea il 12,9%). Questa caratteristica è co-mune a tutte le regioni meridionali e raggiunge livelli decisamente elevati in Abruzzo (60%), Molise (59,7%), Calabria (55,3%) e Basilicata (54,3%). Tra coloro che lasciano il Molise e la Ca-labria, almeno uno su cinque possiede una laurea, solo in Sicilia la quota dei laureati scende sotto il 10%. Tra il 1999 ed il 2003 i laureati costituiscono la componente più dinamica tra tutti gli emigranti; nel 1999 solo l’8,6% posse-deva un titolo di studio universitario, nel 2003 quasi il 13%. Il fenomeno della mobilità dei laureati ha interes-sato tutte le regioni meridionali e, al contrario delle altre componenti, non mostra alcun segno di rallentamento nell’ultimo triennio.

Il dato medio relativo al 2005 conferma, per il terzo anno consecu-tivo, una profonda divaricazione negli andamenti dell’occupazione tra Mez-zogiorno e Centro- Nord che in larga parte rispecchia e amplifica i divari nella dinamica produttiva. Il numero

delle persone occupate è aumentato, nel Centro-Nord, di 179 mila unità, pari all’1,1%, mentre si è ridotto di circa 20 mila unità nel Sud (-0,3%). Il Mezzo-giorno, dopo aver creato nel corso del triennio 2000-2002 un’espansione dell’occupazione con ben 350 mila posti di lavoro aggiuntivi, evidenzia nell’ultimo triennio difficoltà nel man-tenere lo stock di occupazione creato nella fase precedente: tra il 2002 e il 2005 gli occupati calano di 69 mila unità. Va rilevato che nello stesso pe-riodo nel Centro-Nord l’occupazione è aumentata di oltre 700 mila unità; tale dato, peraltro, risente con maggiore intensità dell’effetto nel 2004 e 2005 della regolarizzazione dei lavoratori immigrati. Il progressivo appesanti-mento della situazione del mercato del lavoro meridionale è confermato dalla sensibilmente ridotta propensione a partecipare al mercato del lavoro: la riduzione degli occupati si combina con una significativa contrazione delle persone in cerca di occupazione determinando un calo di circa due punti nel tasso di attività. Nel corso del 2005 si è ulteriormente consolidata la tendenza, già evidenziatasi nel biennio precedente, ad una riduzione della forza di lavoro nel Sud (circa 265 mila unità in meno rispetto al 2002, pari al -1,2% all’anno) segnale evidente di un diffuso effetto di scoraggiamento che ha indotto soprattutto le fasce più deboli dell’offerta di lavoro (giovani e donne) a non partecipare più alla ricerca di lavoro o a rifugiarsi nel la-voro sommerso o, infine, a scegliere la strada dell’emigrazione verso le regioni del Centro-Nord. Nel 2005 la crescita dell’occupazione a livello nazionale è interamente ascrivibile alla componen-te cosiddetta “atipica” (a tempo parziale ed a termine) capovolgendo il risultato dello scorso anno. Nel complesso gli ”atipici” registrano un incremento del 3,7% pari a 162 mila unità. In particola-re, le posizioni dipendenti a tempo de-terminato full time aumentano di 107 mila unità (+7,2%) mentre i lavoratori a tempo parziale aumentano di 56 mila unità (+2,0%). L’analisi a livello terri-toriale evidenzia il ruolo determinante in entrambe le circoscrizioni delle componenti atipiche nella dinamica dell’occupazione. Nel Mezzogiorno, in particolare, l’incremento delle forme contrattuali non standard (+ 1,2% pari a 16 mila unità) compensa anche se solo parzialmente la flessione (-0,7% pari a 36 mila unità) dell’occupazione tipica.

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Nel Mezzogiorno è il quarto anno con-secutivo che l’occupazione part time si riduce. Si accentuano le distanze tra il mercato del lavoro meridionale e quello dei Paesi dell’Ue. Il Mezzogiorno infatti si caratterizza per una quota più elevata di lavoro a tempo determinato e una minore percentuale di occupati part-time a dimostrazione di una concreta diffusione delle tipologie contrattuali che accentuano la precarietà del si-stema (le diverse forme di contratti temporanei) e una minore diffusione di forme, quali il part-time, maggiormen-te correlate alle esigenze di segmenti dell’offerta di lavoro (le donne in primo luogo) che al Mezzogiorno rimangono fuori dal mercato del lavoro.

Secondo le valutazioni della SVI-MEZ nel 2005 in Italia il 13,4% (pari a 3,26 milioni di unità) delle unità di lavoro totali sarebbe rappresentato da lavoro non regolare. Una conferma del dualismo del mercato del lavoro italiano è evidente da un’analisi del tasso di irregolarità (quota delle unità di lavoro irregolari sul totale delle unità di lavoro del settore) per area geografi-ca: nel Mezzogiorno risulta irregolare più di un lavoratore su 4 (23%), nel Centro-Nord tale quota è pari a meno della metà (10%). Nel Mezzogiorno, nel 2005, la leggera riduzione nel numero delle unità di lavoro irregolari impie-gate (-4 mila) è risultata inferiore alla contemporanea riduzione anche delle unità di lavoro regolari con l’effetto di un ulteriore incremento dell’irrego-larità. La riduzione dell’occupazione e l’incremento della quota di lavoro sommerso rappresentano le due facce della crisi del mercato del lavoro meri-dionale. Ma è con riferimento al medio periodo che emerge con maggiore chia-rezza il fallimento delle strategie poste in atto dai diversi governi nella lotta al sommerso. Nel periodo 1996-2005, nel Mezzogiorno, già tradizionalmente interessato da tassi di irregolarità assai più elevati, le unità di lavoro irregolari sono cresciute del 17,8%, pari ad un incremento in valore assoluto di 232 mila unità. Nel Centro-Nord il tasso di irregolarità che era del 12,1% nel 2001 è sceso al 10% nel 2005. A livello regionale, la quota più elevata di unità di lavoro irregolari su quelle totali si riscontra in Calabria, dove, nel 2005, più di 3 unità di lavoro su dieci sono irregolari. La Calabria presenta tassi di irregolarità più alti di quelli delle altre regioni italiane in tutti i settori produttivi, tranne i servizi dove è

sopravanzata dalla Sicilia: particolar-mente alti sono i livelli che raggiunge il lavoro sommerso in agricoltura e nelle costruzioni. Un tasso superiore alla media della ripartizione riguarda anche la Sicilia (27%), dove, tra il 1995 e il 2003 si è registrato uno dei mag-giori tassi di incremento del fenomeno. Particolarmente elevata rispetto alle altre regioni del Sud risulta la dif-fusione del sommerso nell’industria siciliana (26%, 10 punti in più della media Mezzogiorno). La Campania è l’unica regione meridionale che, pur presentando una dimensione piuttosto rilevante del fenomeno del sommerso (22,3% nel 2005), mostra una signi-ficativa tendenza alla sua riduzione accentuatasi in particolare nel corso del 2005. Nella regione, per effetto di un grande città come Napoli, si rileva una forte concentrazione delle attività sommerse nel settore terziario, al cui interno quasi un lavoratore su quattro è irregolare. Puglia e Basilicata presen-tano un livello di irregolarità di poco superiore al 20%, sostanzialmente allineato a quello medio dell’area. In Basilicata, in particolare, va sot-tolineato la quota particolarmente elevata di lavoro irregolare nel settore industriale: 25,6%, a fronte del 17% medio del Sud. La quota meno elevata di lavoro irregolare tra le regioni me-ridionali, anche se sempre superiore al valore medio del Centro-Nord, si registra in Abruzzo: 12% delle unità totali, con punte del 27% in agricoltura e del 18,% nelle costruzioni.

Anche se il lavoro non regolare non è presente solo nel Mezzogiorno, nell’area continua a mostrare valori molto più elevati che, per molti versi, costituiscono la manifestazione più concreta di più complesse dinamiche economiche e sociali che segnalano il perdurare di difficoltà dell’area nell’instaurare un rapporto fiduciario tra Stato e società. Inoltre nelle ultime stime dell’ISTAT sulla povertà delle fa-miglie, relative al 2004, il Mezzogiorno mostra un peggioramento rispetto al biennio precedente, che aveva segna-lato lievi miglioramenti. Le famiglie povere costituiscono nel 2004 il 25% del totale; in considerazione della maggiore dimensione delle famiglie povere, nel Mezzogiorno quasi il 27% della popolazione vive in famiglie statisticamente povere. Anche se le dif-ferenze tra le regioni del Mezzogiorno sono significative, nessuna regione si trova in una situazione comparabile

con il Centro-Nord dove la quota di popolazione interessata dal fenomeno è pari al 5,7%. L’indice di povertà economica misurata sui consumi delle famiglie assume maggiore gravità se si considera il fatto che esso è correlato con più generali situazioni di disagio, non solo collegate alla condizione economica della famiglia, ma anche a maggiori difficoltà nell’accesso ai ser-vizi, anche pubblici (come ad esempio i servizi sanitari). In generale tutti gli indicatori che approssimano situazioni di disagio (dalla situazione abitativa alla dispersione scolastica) risultano nell’area sistematicamente più elevati che nel resto del Paese.

L’indicatore sintetico sulla crimi-nalità mostra come dopo i progressi registrati nella prima metà degli anni ’90, nel Mezzogiorno i fenomeni aper-tamente criminosi abbiano ripreso a crescere, peraltro in un contesto di peggioramento su tutto il territorio nazionale. Peraltro nel Mezzogiorno è particolarmente elevata, rispetto a quella complessiva, l’incidenza di alcune tipologie di delitti connesse a fenomeni di criminalità organizzata e collegati a ottenere controllo sulle attività economi-che attraverso meccanismi intimidatori, come ad esempio gli attentati dinamitar-di o incendiari (nel 2003 oltre il 90% di tali delitti denunciati dalle Forze del-l’ordine è commesso nel Mezzogiorno; il 77% nelle sole quattro regioni a più alta presenza di associazioni criminali: Campania, Calabria, Sicilia e Puglia).

Dai dati sulla spesa pubblica a livello territoriale elaborati dal Dipar-timento per le Politiche di Sviluppo emerge come tra il 1998 e il 2003 la quota della spesa in conto capitale effettuata nel Mezzogiorno sul totale nazionale non abbia mai raggiunto il 30%, quota obiettivo indicata nei documenti governativi: le prime antici-pazioni disponibili per il 2004 indicano nel 26,1% la percentuale riferita a tale anno, rispetto al 27,8% risultante per il 2003. Anche la spesa aggiuntiva per le aree sottoutilizzate mostra una ripar-tizione Nord-Sud che si discosta dal-l’indicazione programmatica, decisa in sede di Conferenza Stato-Regioni, che prevede la destinazione delle risorse per l’85% al Mezzogiorno e per il 15% alle aree sottoutilizzate del Centro-Nord. Tale percentuale è stata superata solo nel 2002 ma in coincidenza con una forte riduzione della spesa aggiuntiva totale: nel 2004 sarebbe scesa all’80,7% dall’83,3% dell’anno precedente. Que-

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sta spesa ha svolto di fatto la funzione di compensazione dell’insufficiente apporto della spesa ordinaria. Nel periodo 1998- 2004, la spesa in conto capitale complessiva è cresciuta in linea con la crescita economica del Paese: l’incidenza di tale spesa sul PIL nazio-nale risulta infatti relativamente stabile intorno al 4%, con una percentuale leggermente superiore (4,2-4,3%) negli ultimi anni. Nel Documento Strategico Mezzogiorno, presentato alla fine del 2005 si formula l’auspicio di mantene-re stabilizzata tale quota nei prossimi anni: prevale la preoccupazione di evitare che il contenimento della spesa pubblica abbia luogo attraverso tagli alle spese in conto capitale11.

Nel Mezzogiorno gli investimenti in opere pubbliche, in base alle stime di contabilità economica effettuate dalla SVIMEZ, hanno registrato nel periodo 1996-2005 un andamento peggiore rispetto a quello del Centro-Nord. Il li-vello delle opere pubbliche alla fine del 2005 risulta nel Mezzogiorno di oltre 17 punti percentuali inferiore a quello del 1995; nel Centro-Nord, invece, nello stesso arco di tempo, gli investimenti sono aumentati di oltre il 50%.

La portualità nel Mezzogiorno ri-sulta notevolmente superiore a quella del Centro-Nord, sia nel numero dei porti (190,7 contro 49,6), sia nel nu-mero degli accosti (158,2 contro 67,7) che nella loro superficie (151 contro 71,7). La portualità meridionale, pur essendo notevole e diffusa, è in larga parte basata su un’infrastrutturazione prevalentemente di piccole dimensioni, fortemente orientata al traffico passeg-geri e non ancora in grado di sfruttare appieno le potenzialità del traffico merci. Le infrastrutture portuali di più grandi dimensioni sono invece orientate prevalentemente al transhi-pment, cioè alla movimentazione di merci e container provenienti da grandi porti internazionali da trasbordare su navi per il cabotaggio interno e me-diterraneo. In sostanza, si tratta di una dotazione infrastrutturale quasi esclusivamente dedicata al “transito” e meno alla movimentazione e ancor meno alla manipolazione delle merci. Il Mezzogiorno presenta un accettabile livello di dotazione di infrastrutture aeroportuali, sia nel numero di im-pianti (103,5), sia nel numero di piste (101,6), nonostante il fatto che due regioni (Molise e Basilicata) ne siano completamente sprovviste.

La dotazione di reti idriche di

adduzione risulta particolarmente ca-rente nel Mezzogiorno (58,9) rispetto al dato medio del Centro-Nord (141,9). Nelle reti di distribuzione, la sottodo-tazione del Mezzogiorno risulta solo relativamente meno accentuata (72,2). Sostanzialmente allineata tra le due ripartizioni è, invece, la dotazione di reti fognarie (99,7 nel Mezzogiorno e 100,2 nel Centro-Nord). La dotazione di infrastrutture di depurazione nel Mezzogiorno risulta ancor più defici-taria che per le risorse idriche in com-plesso (56,8). In tutta l’area risultano particolarmente sviluppati solo gli impianti di discarica, con un indice complessivo di infrastrutturazione pari a 116,4. L’indice sintetico di dotazione di infrastrutture energetiche mostra per il Sud un valore molto distante (64,3) dalla media nazionale. Le reti di trasmissione dell’energia elettrica, sia a media sia ad alta tensione, presentano un deficit di dotazione pari a circa un 1/4 rispetto alla media nazionale e quelle di distribuzione del gas hanno una dotazione pari al 44,6% della me-dia nazionale.

Una insufficiente dotazione e qua-lità di infrastrutture e servizi in-frastrutturali per ambiti rilevanti è sovente richiamata come uno dei prin-cipali e storici deficit dell’area e come elemento aggiuntivo di difficoltà per lo sviluppo delle attività economiche. Pur nelle difficoltà di misurazione e con problematiche concettuali complesse, gli studi disponibili mostrano in ge-nerale situazioni problematiche per il Paese nel suo complesso e persistenti maggiori carenze in quasi tutti gli ambiti per il Mezzogiorno che però, a seconda delle dimensioni considerate, non presenta situazioni omogenee tra le diverse regioni. Negli ultimi anni sono visibili progressi dal lato della pianificazione degli investimenti, men-tre meno significativi o comunque non tali da modificare i differenziali con il Centro-Nord appaiono i miglioramenti in termini di servizi disponibili per l’utenza. Per quanto riguarda i tra-sporti, gli indici sintetici pubblicati dalla SVIMEZ nel 2005 – che consi-derano anche alcune caratteristiche delle diverse infrastrutture e non solo la loro numerosità – restituiscono un quadro in cui il Mezzogiorno nel suo complesso mostra quasi sempre un dif-ferenziale negativo con il Centro-Nord, con l’eccezione dell’indice sintetico relativo alle infrastrutture stradali (superiore in tutte le regioni a quello

del Centro-Nord tranne che per Sicilia e Basilicata). Tra le regioni, valori migliori della media del Centro-Nord si evidenziano peraltro in Campania per le infrastrutture ferroviarie; in Calabria e Sardegna per quelle por-tuali. Valori particolarmente elevati assumono anche gli indici relativi alle infrastrutture aeroportuali in Calabria, Sicilia e Sardegna. Particolarmente basso, senza eccezioni tra regioni, è invece l’indice relativo alla dotazione di infrastrutture interportuali a conferma di un deficit di servizi per la logistica in tutte le regioni meridionali.

Critica, tranne che in Abruzzo, Molise e Sardegna, è la situazione delle infrastrutture di depurazione. In base ai dati APAT del 2003, il grado di conformità agli standard dei sistemi di depurazione delle acque reflue urbane a servizio di agglomerati con carico nominale maggiore di 15.000 abitanti equivalenti è ancora pari al 75% a livel-lo nazionale e al 53% nel Mezzogiorno, con una notevole variabilità regionale: agli estremi si trovano Campania e Sicilia, con grado di conformità pari a 0 e 8% rispettivamente, e Basilicata e Puglia, con grado di conformità pari a 100% e 86% rispettivamente. Il sistema impiantistico per la gestione dei rifiuti mostra ancora notevoli ritardi nel Mezzogiorno, nonostante i progressi registrati nel periodo 2000-2004. Il recupero energetico da trattamento dei rifiuti è sostanzialmente assente. La discarica risulta essere ancora l’op-zione di smaltimento principale, anche se in progressiva riduzione (al 2004 è pari al 73% contro il 93% del 2000). Nel 2004 vi è stata un’ulteriore riduzione del numero di impianti di discarica, con la chiusura di 63 impianti nel Sud, di cui 9 in Campania e Calabria, 15 in Basilicata e 16 in Sicilia. La progressiva diminuzione delle quantità smaltite in discarica si evidenzia soprattutto al Nord, coerentemente con i tassi di rac-colta differenziata più elevati e con una dotazione impiantistica maggiormente in grado di trattare i rifiuti a monte e a valle, mentre è meno consistente nelle regioni del Mezzogiorno. Nel 2004 la Sicilia e la Puglia ancora smaltivano oltre il 90% dei rifiuti urbani prodotti in discarica. La percentuale più bassa di rifiuti smaltiti in discarica si registra in Campania (38%), regione con la maggiore riduzione dello smaltimento in discarica negli ultimi anni, anche dovuto all’impossibilità di utilizzare le infrastrutture esistenti, perché sature

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e con un forte incremento nei quanti-tativi di rifiuti avviati negli impianti di trattamento meccanico biologico e stoccati, in attesa di essere poi smal-titi in altre regioni o all’estero. Poco uniforme è la rete del gas (ancora non presente in Sardegna) e in generale gli indicatori relativi alla rete elettrica.

Tuttavia il funzionamento del servizio elettrico appare in generale miglioramento. Inoltre, nel periodo 2000-2004 le Regioni del Mezzogiorno hanno fatto registrare un incremento dal 13,6% al 18,3% della quota di poten-za efficiente lorda delle fonti rinnovabi-li sulla potenza efficiente lorda totale, a fronte di una riduzione di un punto percentuale al Centro-Nord. Tuttavia, la quota di energia effettivamente prodotta da fonti rinnovabili nel Mez-zogiorno è aumentata solo dall’8,2% al 10,7% nello stesso periodo. A fronte di una notevole ricchezza di risorse natu-rali e ambientali (oltre che culturali), il Mezzogiorno ha sempre dimostrato difficoltà nel porre in atto sistemi per la valorizzazione e la tutela. In parti-colare, la pianificazione e gestione del territorio si è rivelata inadeguata ad affrontare problematiche territoriali, quali ad esempio il rischio idrogeolo-gico e i diffusi fenomeni di criminalità ambientale (discariche illegali, abusivi-smo edilizio). L’approccio è stato quello di sanare danni già prodotti piuttosto che prevenirli (questione peraltro co-mune a tutto il territorio nazionale). Inoltre, la presenza di industrie pesanti e a relativamente basso valore aggiunto ha determinato forti fenomeni di in-quinamento atmosferico localizzato, insieme ad inquinamento idrico e dei suoli. È mancata la necessaria opera di infrastrutturazione volta a mitigare gli impatti ambientali dei poli industriali (depurazione, sistemi di gestione dei rifiuti speciali). Critica è anche la situa-zione ambientale nei maggiori centri urbani, connessa soprattutto all’uso dei mezzi privati di trasporto, sia per l’au-mento del tenore di vita (componente peraltro valida per l’intero Paese) sia per la carenza di alternative alla mo-bilità privata. Il rischio idrogeologico in Italia assume dimensioni rilevanti in termini di potenziali danni al ter-ritorio, alle persone ed ai manufatti. Le cause sono da ricercare sia nelle caratteristiche geomorfologiche, sia nell’inadeguatezza della gestione e del controllo del territorio. Al riguardo, la pianificazione territoriale risulta tuttora insufficiente ed incapace di

evitare l’espansione urbanistica in aree a rischio e l’abbandono di vasti territori coltivati, con la conseguente diminu-zione dell’ordinaria manutenzione dei versanti. La Campania è la regione del Mezzogiorno con la maggiore presenza di aree a rischio potenziale in rapporto alla superficie totale (18,4%). In Basi-licata e Calabria il 100% dei Comuni ricade in aree a rischio idrogeologico molto elevato.

Analizzando la quota di addetti alla Ricerca e Sviluppo si evidenzia un dato (1,6 per mille abitanti) pari a meno della metà del valore del Cen-tro-Nord (3,6). La Calabria mostra addirittura una quota di 0,71 addetti su mille alla R&S. Molto modesta è del resto la spesa in R&S e inferiore alla pur assai contenuta media italiana. Ne consegue la quasi trascurabile quantità che il Mezzogiorno produce in brevetti (13 brevetti ogni milione di abitanti), a fronte di una media nazionale co-munque bassa (76) rispetto ai valori europei. Seriamente in difficoltà sul fronte dell’innovazione appaiono so-prattutto la Calabria (7), la Sardegna (7) e la Puglia (9). Negli ultimi anni l’uso delle tecnologie dell’informa-zione, nelle famiglie, nelle imprese e nelle istituzioni, si è rapidamente accresciuto nell’intero Paese. A questo processo ha partecipato anche il Mez-zogiorno, dove per gli indicatori che approssimano la diffusione di internet tra le famiglie al 2004 in alcune regioni (Abruzzo, Basilicata e Sardegna) si registrano valori anche superiori alla media nazionale (34,5%), che peraltro mantiene un differenziale negativo con la media europea. Un maggiore distacco si registra invece nell’utilizzo delle tecnologie dell’informazione per le imprese dell’area: al 2004 il 40% delle imprese di industria e servizi con oltre dieci addetti dispone di un sito web, contro il 51,6% del Centro-Nord. Il processo di informatizzazione delle amministrazioni procede anch’esso molto rapidamente.

Per quel che riguarda l’export l’eco-nomia del Mezzogiorno mantiene una bassa apertura internazionale (sia negli scambi commerciali, esportazioni ed importazioni, sia nella capacità di at-trarre e generare investimenti, diretti e di portafoglio), malgrado i relativi progressi realizzati nell’ultimo decen-nio che ha visto triplicare il valore del-l’export, la quota sul totale nazionale rimane modesta (attorno all’11% nel 2004). Invece nel Mezzogiorno l’inter-

nazionalizzazione della domanda turi-stica è crescente: la quota di stranieri passa dal 22% del 1995 al 27% nel 2003, anche se ancora molto al di sotto rispet-to alla media italiana (dove la quota di presenze straniere è pari al 40% circa delle presenze turistiche totali). Il Sud è stato solo marginalmente toccato dai flussi turistici a medio raggio e tuttora rimane modestamente interessato dal-la domanda intraeuropea. Il turismo di massa che negli ultimi decenni ha investito le coste del Nord Italia (in par-ticolar modo quelle adriatiche) e le aree alpine e non si è riversato sulle risorse primarie del Mezzogiorno. Nell’area si sono però comunque realizzate forme di vacanza massificate, dovute alla domanda interna – soprattutto interna alla stessa area – che hanno prodotto effetti spesso pesanti sul sistema pae-saggistico e ambientale, ma incapaci di attivare circuiti virtuosi e uno sviluppo di una moderna industria turistica. Inoltre, la maggiore presenza (relati-vamente al resto del Paese) di villaggi turistici o di unità operative alberghie-re appartenenti a catene nazionali e internazionali (esito di iniziative ester-ne) non sempre ha favorito il consoli-damento di un tessuto imprenditoriale autoctono, capace di dare autonomia e radicamento ai percorsi di sviluppo. La più forte presenza di turisti stranieri si registra in Campania e Sicilia (nel 2003, rispettivamente con il 40,7% e il 37,9% di turisti stranieri sul totale delle presenze). Una tendenza netta-mente crescente dei turisti stranieri si rileva in Sardegna e Puglia. Finora il Mezzogiorno non ha saputo sfruttare le risorse disponibili e ha beneficiato solo in parte delle opportunità offerte dalle dinamiche internazionali del turismo, anche se si osserva qualche debole se-gnale di crescita del settore in rapporto a quanto sta avvenendo in altre aree del Paese. L’immagine turistica del Sud non appare comunque compromessa e, nonostante prevalga come meta di turismo balneare, la distribuzione territoriale e le caratteristiche dei flussi mostrano l’esistenza di una realtà più variegata, dove iniziano a prendere cor-po sistemi d’offerta più articolati, con un forte ancoraggio storico-culturale e con la presenza di fattori attrattivi che vanno oltre l’offerta balneare. La destinazione turistica Mezzogiorno va comunque letta nel quadro dei muta-menti che stanno caratterizzando la geografia mondiale del turismo.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

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L’efficace funzionamento delle am-ministrazioni pubbliche, come capacità di fornire servizi ai cittadini e come capacità di governo del territorio e delle politiche è centrale per lo sviluppo12. L’onere dei servizi pubblici che non sono forniti dallo Stato o che sono for-niti a livelli qualitativi troppo bassi o in condizioni di sostanziale ineguaglianza ricade sui cittadini e sulle imprese. Alla centralità del problema ha determinato, nel decennio trascorso, una grande quantità di interventi, dagli interventi di riforma della amministrazione pubblica (le c.d. leggi Bassanini), alle riforme di alcune funzioni di governo del territorio o di fornitura di servizi ai cittadini (ad esempio servizi per l’impiego e sportelli unici). Nell’ambito delle politiche regionali di sviluppo sono state promosse alcune innovazioni. In primo luogo, l’adozione sistematica di un metodo di partenariato istituzionale tra livello centrale e Regioni fondato sulla consultazione tecnica e politica e sull’individuazione condivisa degli obiettivi. In secondo luogo, è stato progressivamente implementato il raccordo, basato sulla condivisione di regole, criteri di selezione, attività di monitoraggio e valutazione tra le due fonti di finanziamento delle politiche regionali (Fondi aggiuntivi naziona-li – ora FAS – e Fondi Strutturali). L’architettura stessa del QCS Ob.1 e alcune delle sue scelte di base ne hanno fatto un programma di cambiamento nella Pubblica Amministrazione. Infine, l’attribuzione di maggiori responsabilità ai livelli regionali di governo è stata sostenuta attraverso azioni dirette, mi-rate al rafforzamento dell’efficienza complessiva del sistema amministrativo e della capacità di programmazione e attuazione delle strutture regionali. Uno sforzo significativo è stato compiuto per rafforzare le strutture di programmazio-ne e facilitare la creazione di un sistema di assunzione delle decisioni basato sulla conoscenza, attraverso la diffu-sione di metodi e criteri di selezione dei progetti, valutazione degli interventi e responsabilizzazione dei dirigenti sog-getti a sistemi di controllo di gestione ed a valutazioni. Si è incentivata la predisposizione di studi di fattibilità, la costruzione di sistemi di osservazione degli interventi e di migliori statistiche con dettaglio territoriale e, con l’istitu-zione dei Nuclei di valutazione presso tutte le Amministrazioni Centrali e Regionali coinvolte nelle politiche di sviluppo, si è inteso rafforzare la capaci-

tà dell’amministrazione pubblica di so-stenere processi decisionali informati. Si è inoltre promossa la diffusione degli strumenti telematici e informatici.

Le politiche regionali di sviluppo sono finanziate con risorse per investi-menti in senso stretto (in infrastrutture e acquisizione di beni e servizi materiali e immateriali) e trasferimenti alle im-prese (incentivi), che si aggiungono alle risorse ordinarie in conto capitale, e sono rivolte specificatamente alle aree del Paese caratterizzate da ritardo di sviluppo, per favorire il superamento dei ritardi strutturali, finanziare azioni di promozione diretta dell’attività eco-nomica e elevare il livello dei servizi disponibili sul territorio per i cittadini e le imprese. Due sono oggi le fonti di fi-nanziamento per tali politiche: le risorse nazionali che vengono destinate al Fon-do per le aree sottoutilizzate – stanziate annualmente dalla legge Finanziaria e ripartite con Delibere del Cipe – e le risorse comunitarie dei fondi strutturali con il relativo cofinanziamento naziona-le (legge 183/1987).

Per i fondi strutturali la quota di competenza delle Amministrazioni centrali è pari a circa il 30% delle ri-sorse complessive ed è concentrata nei programmi operativi nazionali (PON) promossi all’interno del QCS Ob. 1 2000-2006 nei settori sviluppo locale, sicurezza, istruzione, ricerca, trasporti, pesca e assistenza tecnica.

L’analisi per il complesso delle politiche aggiuntive nel Mezzogiorno offre numerosi spunti di riflessione. Le evidenze disponibili testimoniano una progressiva modernizzazione dell’im-pianto: regole più chiare nelle assegna-zioni, nella definizione degli interventi e maggiore disponibilità di strumenti di monitoraggio, rendendo più trasparenti impegni e responsabilità, dovrebbero poter favorire una maggiore capacità di realizzazione grazie a un aumento della pressione reciproca dei numerosi attori coinvolti. I dati segnalano inoltre che, pur dovendosi evitare procedure ecces-sivamente farraginose, l’introduzione di regole procedurali che incoraggiano il rispetto di tempistiche prestabilite è rilevante nel migliorare alcune fasi cruciali dell’azione di policy.

I dati disponibili segnalano che il Mezzogiorno, nell’ultimo decennio, ha lievemente ridotto la sua distanza dal Centro-Nord grazie alla maggior crescita del PIL (1996-2003), ma che nel periodo più recente (dal 2004) tale tendenza appare essersi interrotta. La

maggior parte degli indicatori dedicati a rappresentare l’evoluzione del contesto del Mezzogiorno non mostra ancora miglioramenti sufficienti, ovvero, laddove i miglioramenti sono visibili, il Mezzogiorno ancora non migliora di più. Un giudizio complessivamente non positivo sulle politiche regionali aggiun-tive in corso è stato talora espresso. Ed evidenzia la necessità di migliorare la comprensione e la discussione allar-gata sull’effettivo funzionamento delle politiche, nonché l’importanza della percezione da parte degli osservatori di un effettivo commitment nei confronti della politica di sviluppo da parte delle sedi decisionali di maggior rilievo. Dall’altro, rimarca che le politiche di sviluppo devono per legittimarsi (ma anche per rinnovare le energie lungo i loro faticosi percorsi di realizzazione), essere in grado di esibire risultati tan-gibili e comprensibili anche nel breve periodo, e che quindi non possono essere definiti solo in termini di crescita economica, che pure deve mantenere il rango di obiettivo generale dell’azione di policy. L’aspettativa di ottenere risultati precoci in termini di maggior crescita, che certamente il QCS originariamente conteneva, era legata all’ipotesi che l’impostazione di policy (agire con determinazione sul contesto generale in cui vivono i cittadini e operano le imprese e promuovere azioni dirette per valorizzare i vantaggi comparati esistenti) fosse così solida e credibile da spingere il settore privato – che all’epoca appariva in forte ripresa di iniziativa – a comportamenti anticipa-tori (con conseguenti “rotture” positive nell’insoddisfacente modello di funzio-namento dell’economia del Mezzogior-no). La storia recente ha indicato che quella sequenza non si è realizzata nella modalità prevista. La maggiore crescita del Mezzogiorno è, infatti, rimasta al di sotto degli ambiziosi obiettivi fissati nel QCS, pur segnalando una composizione interna molto migliore (con maggiori esportazioni e investimenti) di quella realizzata nei decenni precedenti. Va però ricordato che sembrano ancora trascurarsi nel dibattito alcuni impor-tanti risultati raggiunti in termini di condizioni per una migliore riuscita della politica di sviluppo (che possiamo considerare come obiettivi intermedi), che mancavano a inizio programma-zione. Passi avanti significativi si sono, infatti, compiuti – anche grazie alle pre-visioni del QCS – nella predisposizione dei necessari piani e strategie di settore

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per la realizzazione di investimenti di migliore qualità (piani di ambito per il servizio idrico integrato; piani sulle bonifiche dei siti; definizione delle aree parco; piani nazionali e regionali dei trasporti; strategie regionali per la ricerca e la società dell’informazione; eccetera). La predisposizione di piani e strategie anche se forse in parte da migliorare e ancora da completare, ha assai ridotto le distanze in termini di strumentazione tra Centro-Nord e Mezzogiorno (e in qualche caso hanno addirittura condotto a invertire la si-tuazione). L’esperienza realizzata con i meccanismi di attribuzione premiale di risorse nel QCS e l’introduzione di meccanismi di condizionalità nella spesa che hanno stimolato e accompa-gnato avanzamenti in alcuni processi di riforma di settore e nell’organizzazione delle responsabilità dell’amministrazio-ne (di programmazione, di attuazione e di valutazione), va considerata, oltre che un traguardo in sé, anche un rilevante indicatore di maggiore disponibilità alla modernizzazione nell’azione pubblica. In alcune regioni si sono inoltre messe a punto procedure più efficienti – in diversi ambiti tra cui quello della deli-cata fase di trasferimento delle risorse dai bilanci regionali alle responsabilità di attuazione degli interventi sul terri-torio o per l’accompagnamento della progettazione – che, seppure costruite talora in modo episodico per far fronte a specifiche difficoltà, costituiscono un bagaglio di pratiche amministrative che, se adeguatamente diffuso e gene-ralizzato, può costituire un importante strumento di accelerazione delle realiz-zazioni da compiere.

Rimane ovviamente compito speci-fico delle politiche di sviluppo l’adegua-mento dell’armatura infrastrutturale (nella dotazione e nei servizi) per il Mez-zogiorno. Le modalità con cui impostare la politica può però oggi essere molto migliorata. Anche nella prospettiva di unificare la programmazione delle risorse aggiuntive (nazionali del FAS e comunitarie), è necessario valorizzare quell’acquisizione concreta della pro-grammazione in corso che è il ruolo dei “piani” di lungo periodo (in particolare per gli interventi infrastrutturali, ma non solo), integrando più esplicitamen-te i piani nella programmazione e nei meccanismi di sorveglianza sulla sua attuazione. Ci condurrebbe a una mag-giore visibilità dei progressi compiuti.

In generale per lo sviluppo del Mezzogiorno l’azione pubblica per lo

sviluppo, sul solco delle conclusioni dei Consigli europei di Lisbona, Goteborg e Nizza in cui si è progressivamente arricchita l’ispirazione comune delle politiche europee degli ultimi anni, va orientata verso i seguenti fondamentali obiettivi:

✔ la promozione ed il consolidamento di un tessuto imprenditoriale in-novativo e competitivo sui mercati globali;

✔ la coesione, la promozione dell’in-clusione sociale e la riduzione del disagio sociale;

✔ la sostenibilità ambientale; ✔ la promozione di nuovi e migliori

posti di lavoro e l’investimento sulle risorse umane;

✔ la promozione della società della conoscenza e dei suoi benefici dif-fusi.

Nessuno di questi obiettivi è, però, ottenibile in modo diretto attraverso la sola azione pubblica. Il loro rag-giungimento dipende dall’innescarsi di sequenze virtuose.

È importante ritrovare una ispira-zione comune di tutte le Regioni del Mezzogiorno e di tutte le Amministra-zioni che si occupano di politiche di sviluppo del Mezzogiorno nelle azioni per migliorare ulteriormente la capa-cità amministrativa.

Nel prossimo futuro la comunica-zione trasparente occuperà un ruolo strategico, perché costituisce un anel-lo decisivo nella catena procedurale degli interventi in quanto facilita la mobilitazione dei potenziali beneficiari e alimenta i basilari livelli di concor-renza; alimenta la fiducia reciproca nell’ambito dei processi partenariali e inclusivi, permettendo a tutti i soggetti di partecipare sulla base di una posizio-ne informata.

Perché migliori la cooperazione istituzionale è necessaria quindi an-che una riflessione sulla missione del centro, delle strutture, dei processi operativi, affinché possano svilup-parsi adeguate funzioni federali. In generale si richiedono al centro azioni di sistema e comunque interventi connessi all’interesse nazionale e alla tutela omogenea dei cittadini e degli utenti, per sostenere miglioramenti diffusi e non consolidare i differenziali esistenti (a questo scopo agli strumenti premiali, assai efficaci, vanno aggiunti e perfezionati strumenti di sostegno). Qualificate azioni di sistema si richie-

dono comunque anche alle Regioni nei confronti degli Enti locali.

L’allargamento dello scenario eco-nomico e la fase di rapida e diffusa espansione dell’economia mondiale, sostenuta soprattutto dalla forza del modello di sviluppo asiatico, costitui-scono le condizioni attuali del contesto internazionale. Dunque, maggiore com-petizione ma anche maggiori opportu-nità di crescita. Si tratta di sfide decisive soprattutto per le aree deboli, come il nostro Mezzogiorno, in quanto è in que-ste aree che vi sono i maggiori margini di crescita derivanti dalla disponibilità di risorse inutilizzate. Occorre quindi analizzare le condizioni che si richie-dono affinché l’economia italiana possa uscire dalle difficoltà in cui attualmente versa e, all’interno di tale missione, verificare quale possa essere il ruolo del Mezzogiorno. Al riguardo, l’esperienza dell’ultimo decennio ha mostrato che solo il raggiungimento di adeguati livelli di competitività nei settori concorren-ziali può consentire al nostro sistema produttivo, da un lato, di non essere spiazzato sui mercati interni dai nuovi competitors e, dall’altro, di partecipare alla crescita della domanda mondiale. Il quadro sinteticamente richiamato pone in evidenza criticità del modello di sviluppo nazionale che divengono vere e proprie patologie nel Mezzogiorno. È dalla soluzione di questi nodi strutturali che dipende la possibilità per il Paese e per il Mezzogiorno di riagganciare la ripresa mondiale e di proseguire in un percorso di adeguamento strutturale che, riavviatosi nell’ultimo decennio, dopo la crisi dei primi anni ’90, sem-bra di nuovo entrare in crisi di fronte al rapido mutamento delle condizione del contesto economico e competitivo internazionale.

Le Regioni paiono chiamate a la-vorare su due fronti. Il primo è quello delle filiere locali o interregionali, ed è certamente parte di un orizzonte di breve periodo. Il secondo è quello delle città, autentico perno dello sviluppo, soprattutto in questa fase di straordi-naria e intensa trasformazione delle modalità di produrre e di consumare. Il Mezzogiorno è però terra di città; città storiche, cariche di problemi ma anche di cultura e creatività, in cui possono svilupparsi moderni insediamenti in-dustriali, nuovi snodi logistici, grandi strutture di distribuzione. È questo l’ultimo, ma non il meno importante, tassello di un pieno recupero della politica in Italia.

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P A R T E S E C O N D AFONDI STRUTTURALI 2000-2006 GLI EFFETTI SUL MEZZOGIORNOC a t e r i n a N i c o l a i s

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C. Virno, I fondi strutturali: gli adattamenti italiani alle regole co-munitarie, www.lavoce.it 2003.

C. Virno, I fondi strutturali: le regole europee, www.lavoce.it 2003.

C. Virno, Le mezze verità sul Mezzogiorno, www.lavoce.it 2004.

Comitato Mezzogiorno di Confin-dustria con la collaborazione dell’IPI (Istituto per la Promozione Indu-striale), Dossier check up Mezzogior-no, 2005.

Comunicazione della commissione al consiglio e al parlamento europeo COM(2004), Costruire il nostro avve-nire comune: Sfide e mezzi finanziari dell’Unione allargata 2007-2013, Bruxelles 2004.

Comunicazione della commissione

delle comunità europee COM(2005) 299, Politica di coesione a sostegno della crescita e dell’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013, Bruxelles, 2005.

Comunicazione della commissione delle comunità europee COM(2005) 533, Relazione della Commissione 16° relazione annuale sull’attua-zione dei fondi strutturali nel 2004 SEC(2005)1348, Bruxelles, 2005.

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G. Viesti, È tempo di scelte per il Sud, www.lavoce.it 2005.

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L. Zoppoli e M. Delfino, Fondi europei tra coesione e devolution, il denaro 2005.

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Terza relazione sulla coesione eco-nomica e sociale.

www.dps.mef.gov.it.www.unioncamere.it.

1 L’Obiettivo 1 interessa le aree del Mez-zogiorno ed è diretto a promuovere la crescita economica aumentando la com-petitività di lungo periodo attraverso l’accesso pieno e libero al lavoro, la tutela del patrimonio ambientale e le politiche per le pari opportunità. Il QCS Obiet-tivo 1 definisce strategie d’intervento condivise tra Autorità nazionali e Com-missione Europea ed indica il quadro di massima entro cui collocare i Program-mi Operativi. Le tematiche che il QCS affronta sono articolate in 6 Assi Prio-ritari: Risorse Naturali, Risorse Cultu-rali, Risorse Umane, Sistemi locali di sviluppo, Città, Reti e nodi di servizio, ciascuno dei quali è formulato sulla base di 5 aspetti fondamentali: analisi dei bi-sogni e delle priorità, strategia, quanti-ficazione degli obiettivi specifici, linee di intervento e criteri e indirizzi per l’attuazione. Il QCS Obiettivo 1 viene attuato in Italia attraverso 7 Programmi Operativi Regionali (POR) e 7 Pro-grammi Operativi Nazionali (PON) gestiti dalle Amministrazioni centrali. Il livello di attuazione complessivo al 30/06/2006 degli Interventi comunita-

ri nel Mezzogiorno è pari al 54,7% de-gli stanziamenti complessivi. In valori assoluti, nelle aree dell’Obiettivo 1 ri-sultano essere stati spesi al 30/06/2006 circa 25,2 miliardi di euro, a fronte di oltre 39,3 miliardi di impegni giuridi-camente vincolanti assunti entro tale data. Tra gli Assi Prioritari di inter-vento del Quadro Comunitario di So-stegno quello che manifesta la migliore performance attuativa è l’asse 6 “Reti e nodi di servizio” con pagamenti per oltre 6,3 miliardi di euro che rappresen-tano il 68% del contributo totale 2000-2006. Per quanto riguarda l’attuazione dei Programmi a titolarità regionale (POR), si rilevano al 30/06/2006 paga-menti pari al 46% del contributo totale, con situazioni diversificate in merito ai pagamenti effettuati: il “POR Molise” mostra la migliore capacità realizza-tiva, con pagamenti pari al 55,8% del contributo totale 2000-2006. I Pro-grammi Operativi Nazionali (PON), al 30/06/2006 vedono notevolmente accresciuta la performance, balzando a pagamenti complessivi pari al 74,4 del contributo totale, rispetto al 67,4% del

30/04/06. La migliore performance a livello di pagamenti effettuati sul costo programmato risulta essere stata rea-lizzata dal “PON Sviluppo Imprendi-toriale Locale ”, che al 30/06/2006 ha utilizzato risorse pari al 88,7%. Per ciò che concerne l’analisi dell’andamento finanziario per Fondo Strutturale è da segnalare che il FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e che rappresenta il 71,5% dell’intero QCS) mostra per la prima volta in questa programmazione il migliore avanzamento (55,8% rispet-to al 49,1% della passata rilevazione) con un ammontare di pagamenti di 18,3 miliardi di euro. L’avanzamento del QCS rispetto al II bimestre del 2006 mostra un importante progresso nei pagamenti (+3,2%) pari a circa 1,5 mi-liardi di euro. Tale incremento è in gran parte derivato dall’attuazione del PON Trasporti che incrementa del 17,8% la sua performance con un incremento dei pagamenti superiore a 0,8 miliardi di euro. Le realtà regionali non mostrano incrementi molto diversificati ad ecce-zione del POR Campania” che registra una crescita del 2,6% dei pagamenti.

BIBLIOGRAFIA

NOTE

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P A R T E S E C O N D AFONDI STRUTTURALI 2000-2006 GLI EFFETTI SUL MEZZOGIORNOC a t e r i n a N i c o l a i s

2 Comunicazione della commissione delle comunità europee COM(2005) 299, Politica di coesione a sostegno della crescita e dell ’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013, Bruxelles, 20053 A. Barreca, Fondi strutturali e svilup-po locale: le nuove opportunità di Agen-da 2000 per gli attori pubblici e privati, www.lavoce.info, 20054 Parlamento Europeo, Comunicazione per lo sviluppo regionale, Vademecum sulla politica regionale e la politica di coe-sione, 20045 G. Viesti, F. Prota, Le politiche regionali dell ’Unione Europea, Il Mulino 20046 Comitato Mezzogiorno di Confin-dustria con la collaborazione dell’IPI (Istituto per la promozione industriale), Dossier check up Mezzogiorno, 20057 G. Pellegrini, M. Volpe, Il Sud cresce, www.lavoce.info, 20048 C. Virno, Le mezze verità sul Mezzo-giorno, www.lavoce.it 20049 G. Viesti, È tempo di scelte per il Sud, www.lavoce.it 200510 È da notare, in proposito che elevate quote di prodotti freschi del Sud, come frutta e ortaggi, vengono veicolate verso destinazioni estere attraverso piattafor-me distributive localizzate nel Nord del Paese e conseguentemente questi vengo-no considerati come esportazioni della regione da dove avviene la spedizione.11 In alcune esperienze di succes-so dei paesi in ritardo – e non so-

lo – dell’Unione europea, come, per esempio quelle di Irlanda e Spagna, il ricorso ad agevolazioni di natura fisca-le combinato, peraltro, a più fattori, è stato finalizzato all’attrazione degli investimenti esteri. Se poi si allarga lo sguardo all’insieme dei paesi del-l’Unione allargata, la progressiva ridu-zione delle aliquote si configura come una tendenza generalizzata. Uno dei casi di maggior successo nell’applica-zione di politiche fiscali agevolate è co-stituito dall’Irlanda, un Paese che, fino all’inizio degli anni ’80, presentava un tessuto socio economico assimilabile in gran parte a quello del Mezzogior-no e che in pochi anni, come è noto, è riuscito a colmare il gap economico e tecnologico esistente con gli altri paesi della Comunità europea. Hanno con-tribuito allo sviluppo economico irlan-dese la bassa inflazione, i contributi agli investimenti, la disponibilità di aree e servizi utilizzabili dalle imprese, la di-sponibilità di manodopera giovane e a basso costo orientata verso l’industria del software; ma, ciò che ha determi-nato una trasformazione radicale del-l’economia è stata proprio l’adozione di una politica fiscale aggressiva, con una diminuzione costante dell’imposizio-ne gravante sulle imprese e sul lavoro e un’aliquota fiscale ridotta sui profitti delle imprese straniere. Altra esperien-za di successo è quella delle “Enterpri-ses zones” inglesi: le aziende ivi ubicate beneficiano di semplificazioni in am-bito doganale, fiscale e previdenziale, anche se sono tenute a rinunciare, nel contempo, a ulteriori forme di finan-ziamento pubblico. Molto significativo è poi l’uso della politica fiscale agevo-

lata a favore delle PMI e delle imprese in difficoltà che ha adottato la Francia. Nelle “Zone franche urbane” (ZFU), localizzate nelle periferie depresse, sono previste rilevanti esenzioni fisca-li per le aziende che effettuano nuovi investimenti o incrementano la base occupazionale. Alle 41 ZFU autoriz-zate dalla Commissione europea nel 2003 si affiancano le 44 già istituite nel 1997. In Italia, il Governo ha chiesto per la prima volta nel 1998 un parere preliminare sull’attuazione di sgravi fiscali per le aziende che intendevano operare nel Mezzogiorno e, successi-vamente, nel 1999 e nel 2001 è stata avanzata la richiesta di adottare regimi fiscali differenziati tra le imprese del Sud e quelle del Centro-Nord. Questi tentativi di introdurre una fiscalità di compensazione hanno però trovato la ferma opposizione da parte dell’Unio-ne europea. 12 Comunicazione della commissione al consiglio e al parlamento europeo COM(2004), Costruire il nostro av-venire comune: Sfide e mezzi finanzia-ri dell ’Unione allargata 2007-2013, Bruxelles 2004; Comunicazione della commissione delle comunità europee COM(2005) 299, Politica di coesione a sostegno della crescita e dell ’occupazione: linee guida della strategia comunitaria per il periodo 2007-2013, Bruxelles, 2005;

Comunicazione della commissione del-le comunità europee COM(2005) 533, Relazione della Commissione 16° relazione annuale sull ’attuazione dei fondi struttu-rali nel 2004 SEC(2005)1348, Bruxel-les, 2005.

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La scuolacome risorsa nella Napoli

d’oggiGiorgio Napolitano

" dalla Prima

Il Capo dello Sta-to non ha poteri magici e neanche

troppi poteri esecutivi. Ha delle re-sponsabilità morali e ha il dovere di rappresentare l’unità della nazione. E allora, che cosa posso fare? Posso innanzitutto ascoltare. E ho ascoltato, oggi, perché credo che questo sia il mio più importante impegno in risposta alle sollecitazioni che ricevo. Posso fare anche qualche altra cosa, ma lo dirò più avanti.

Intanto, posso contribuire a far venire in luce quello che si fa e non si sa a Napoli (ed è qualcosa di molto importante!); quello che fanno le istituzioni e quello che fanno tanti napoletani; tutto quello che si muove, di vivo, di sano, di valido in questa città e in questa area metropolitana. I giornali e le televisioni ne parlano poco: questo lo sappiamo e ne sof-friamo. Le importanti realizzazioni del governo regionale, del governo cittadino, del governo provinciale, di tante amministrazioni comunali, così come la straordinaria ricchezza – che oggi voi avete documentato – di pro-getti per iniziativa della scuola e dei giovani, tutto questo è a rischio se e quando arriva un’ondata di violenza e di degrado che sommerge l’imma-gine che tutto il paese ha di Napoli. Possiamo e dobbiamo sentirci feriti, e ci sentiamo spesso colpiti da certi reportage e certi servizi che danno una rappresentazione ingiusta, uni-laterale e tendenziosa sia dell’attività delle istituzioni sia del modo in cui si muovono e operano i napoletani; ma per quanto feriti possiamo sentirci che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo stringere i denti; dobbiamo anche ingoiare bocconi amari; dobbiamo, soprattutto, dimostrare che si può vincere la violenza e il degrado: di-mostrare che si può vincere facendo di più e sforzandoci in ogni modo di farlo sapere. Sì, prendiamo sotto braccio, e qualche volta tiriamo per un braccio, quelli che parlano o scri-

vono, o possono parlare e scrivere, di Napoli: facciamogli vedere quello che non vedono, facciamogli sapere quello che non sanno. Facciamogli sa-pere quello che, qui, ci hanno detto il Sindaco e il Presidente della Regione; ciò che fanno concretamente le nostre amministrazioni per risolvere i pro-blemi gravi e complessi cui è legato il futuro di Napoli. Ma, soprattutto, facciamo sapere quello che avete detto voi.

Sono stato veramente colpito – ho preso tanti appunti per mia conoscen-za e per mio approfondimento – dalla varietà e dalla ricchezza dei progetti, delle idee, delle iniziative che vengo-no dal basso per vostro conto. Avete affrontato i problemi della scuola, i problemi dei quartieri, i problemi del-la città. E io voglio insistere sul ruolo della scuola, dell’associazionismo, della partecipazione. A Valentina che chiede “Come dobbiamo agire noi giovani?”, rispondo che dovete agire mettendovi insieme, partorendo idee, assumendo iniziative. Qui sono state presentate proposte concrete che credo debbano essere raccolte, che ritengo utili anche per creare dap-pertutto centri di aggregazione e di vita culturale e sociale, in particolare dove ci sono le condizioni più gravi, più penose, in quelle periferie di cui ha parlato don Antonio, che sono diventate epicentri di degrado e di regressione, e sono da ridisegnare e da reinventare.

Bisogna fare tutto questo, e biso-gna puntare molto a valorizzare la scuola lottando contro la dispersione e l’abbandono. È stato giusto sottoli-neare che quel che è grave non è solo la dispersione, ma è anche comincia-re ad andare a scuola e poi lasciare: bisogna fare di tutto per recuperare, bisogna fare di tutto per riportare

dentro la scuola quelli che l’hanno abbandonata. Sappiamo che la cul-tura e la formazione sono essenziali anche per avere più lavoro. Bassolino diceva “Scuola e lavoro”: più lavoro per Napoli, più lavoro per i giovani, anche perché non debbano andar via. Uno di voi, mi pare Alberto, ha chiesto: “Che possiamo fare noi per Napoli se siamo obbligati ad andar-cene?” Spero che possiate fare tanto! Mi auguro che non siate costretti ad andarvene, proprio per poter conti-nuare a dare il vostro contributo lavo-rando, operando utilmente perché – e lo dico senza retorica – voi ragazze e ragazzi, e voi insegnanti, siete la più grande fonte di energia pulita di cui disponga Napoli. Siete una straordinaria fonte di energia pulita che bisogna far valere innanzitutto nella lotta contro la negazione della cultura, che è la violenza, e anche contro l’assuefazione, contro la rasse-gnazione, contro l’indifferenza.

Penso che qui, oggi, si siano dette delle cose molto belle, delle cose par-ticolarmente importanti. Sono state dette da parte dell’imprenditrice su come sia possibile resistere al ricatto, alla minaccia, all’estorsione. Ha detto delle cose importanti il Presidente del Consiglio comunale: “non bisogna mollare”, ma bisogna rispondere con coraggio all’offensiva penetrante e dissolutrice della violenza e del culto della violenza. Sì, anche con coraggio, come quello che ha avuto la nostra imprenditrice, e hanno tutti gli altri che stanno facendo aumentare le de-nunce dei casi di estorsione da parte della camorra.

Credo che bisogna fare tutto que-sto, che bisogna anche apprezzare il coraggio della madre che ci ha parlato con commozione del proprio figlio che aveva sbagliato, che poteva perdersi e che, grazie alla scuola, non si è perso.

Spero che di questa assemblea, ma soprattutto delle cose che si sono dette qui, e di tante altre cose che a Napoli si fanno dall’alto e dal basso, prima o poi parlino i giornali.

Dalla Prima

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[53]Istituzioni

Ho detto che io posso essen-zialmente ascoltare e contribuire a mettere in luce quel che si muove in positivo e di sano a Napoli. Posso an-che cercare – e credo che faccia parte delle mie competenze e responsabi-lità – di dare qualche scossa.

Un mese fa, il 31 ottobre, di fronte a ciò che accadeva a Napoli – erano giorni molto duri e molto angosciosi anche per me – ho lanciato un appello il cui significato e il cui fine erano molto chiari: impegnare il governo nazionale a fare di più, ad intervenire subito, a dare delle risposte concrete. Avendo dato questa scossa, posso dire che oggi ci sono dei risultati: è venuto a Napoli il Presidente del Consiglio, ed è stato sottoscritto un accordo, oramai operativo, per dar vita – scusate se le parole sono un po’ strane – a una “unità speciale di concertazione per lo sviluppo economico dell’area metropolitana di Napoli”. Ma dietro queste parole un po’ burocratiche c’è l’impegno del governo nazionale, di concerto con il governo regionale e con i governi locali, ad agire perché si portino avanti le politiche comuni e si metta-

no a disposizione di Napoli le risorse indispensabili, anche per la massima valorizzazione della scuola.

Sarà qui, tra qualche giorno, il Mi-nistro della Pubblica Istruzione, che raccoglie idealmente il testimone da Rosa Russo Jervolino. Verrà qui, Fio-roni, a parlare di un protocollo della legalità, sottoscritto dagli studenti, a partire da Palermo, nel ricordo della strage di Capaci e delle altre terribili stragi di mafia. Si parlerà anche di un accordo concreto per riuscire a tenere aperte tutto il giorno il più gran numero possibile di scuole e di istituti nei quartieri.

È venuto il Ministro dell’Interno e ha firmato con le autorità locali un patto per la sicurezza di Napoli: della città e della provincia. Sono stati messi a disposizione più mezzi per lottare contro la criminalità, per garantire più sicurezza ed è partico-larmente importante che si sia impe-gnato a venire ogni mese il Ministro dell’Interno per verificare che le cose vadano avanti.

Ebbene, qualche volta sento dire: ricominciamo? Quante volte abbia-mo tentato di fare cose significative

per la sicurezza, per il lavoro, per lo sviluppo? La risposta è che non bisogna mai stancarsi di ricomin-ciare. Si, bisogna ricominciare se già si è cominciato e poi ci si è fermati. Bisogna ricominciare e non bisogna fermarsi. Non fermarsi, grazie alla vostra spinta, con il vostro contributo e anche con una piena assunzione di responsabilità di chi ha la guida del governo nazionale.

Vi ho detto le cose che si sanno facendo, proprio perché vorrei che ci fosse da parte vostra un tono di fiducia, non solo di speranza. Non vi sto facendo l’elogio del governo, per-ché, poi, se il governo mantiene o no i suoi impegni, spetterà a voi giudi-carlo: a voi napoletani, a voi giovani e, domani, anche come elettori. Sto soltanto dicendo che degli impegni sono stati presi e sta a tutti noi farli marciare, farli andare avanti. Con la vostra spinta, con le vostre energie, con la vostra passione.

Appunti dall’intervento del Pre-sidente della Repubblica nell’incontro con gli studenti napoletani. Città della Scienza, 25 Novembre 2006.

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[54]

Negli anni ’70 il settimanale L’Espresso diede il titolo “I pellegrini del sole” ad un articolo che raccontava di quei fotografi italiani che giravano il mondo “armati”

della mitica Leica a telemetro, eredi ideali dei fotografi ambulanti che in-ventarono, tra fine Ottocento e inizio Novecento, il “realismo sociale”. Lucia-no D’Alessandro, giornalista e fotografo napoletano, è uno di qui pellegrini, ed al suo straordinario lavoro di fotoreporter l’Accademia di Francia ha dedicato una bella mostra, “Fotografie. 1952-2002”, inaugurata il 7 novembre scorso, come la prima di un ciclo di esposizioni fo-tografiche che Incontri Internazionali d’Arte ha in programma per il prestigio-so Atelier di Villa Medici a Roma.

Nato a Napoli nel 1933, D’Alessandro ha iniziato a fotografare sin da ragazzo, stimolato dall’esperienza tecnica del padre fotoamatore e, successivamente, dai “racconti fotografici” del critico d’arte Paolo Ricci, che lo spinsero ben presto ad ampliare il proprio orizzonte. Il periodo storico in cui egli iniziò la pro-pria attività era quello del dopoguerra, e dovunque, dalle campagne abbando-nate alle città in via di ricostruzione, si incrociavano volti, storie e situazioni da raccontare e testimoniare. Erano gli anni del neorealismo, e D’Alessandro cominciò a fotografare quello che Pavese e Zavattini scrivevano, e che De Sica e Rossellini “giravano”. Naturalmente fotografava in bianco e nero, le tinte del neorealismo e del post – neorealismo. Più tardi, nel corso della sua carriera di “fotogiornalista”, come lui stesso ama definirsi, egli avrebbe collaborato con le maggiori testate nazionali e interna-zionali, da L’Espresso al Time, da Life a Stern, dal Corriere della Sera al Daily Telegraph e poi Die Zeit, Le Monde, Ri-

nascita, L’Unità, e sarebbe stato autore di numerose campagne fotografiche in Francia, negli Stati Uniti, a Cuba, in Russia e in tutta Italia. Oggi le sue fotografie sono presenti nelle collezioni di numerose fondazioni, istituzioni e musei italiani e stranieri, tra cui il Mu-seo d’Arte Moderna di New York, la Bi-blioteca Nazionale di Parigi, la Galleria Nazionale delle Arti Estetiche di Pechi-no, la Biblioteca Nazionale di Napoli, il Dipartimento di Documentazione della Cultura Audiovisiva dell’Università di Puebla in Messico, la Maison Européen-nes de la Photographie di Parigi. Il tema della condizione umana costituisce da sempre il centro della sua ricerca, con una particolare attenzione rivolta all’indagine dei temi sociali. Il motivo trainante è la voglia di conoscere il mon-do e di testimoniarlo alla sua maniera, e cioè “politicamente”, attraverso la macchina fotografica, espansione attiva del suo sguardo che diviene anch’essa strumento “politico”. Nell’atto di fer-mare l’attimo, D’Alessandro non cerca effetti, sottolineature, fuochi d’artificio, e usa pochissimo la metafora, cercando di rendere la realtà per quello che è. Per questo motivo non si considera un artista, e se gli si obietta che come tale è largamente conosciuto e riconosciuto, si schermisce dicendo che lo etichettano così per il suo temperamento solitario e stravagante. In questo modo D’Alessan-dro rivela quello che è il suo pensiero sulla fotografia, da lui considerata non come un’ arte, ma solo come tecnica applicata ad un certo talento estetico. Da sempre critico verso il mercato

F O T O G R A F O N A P O L E T A N O

La Società Operaria e La Piazza. Capri, 1979.

Il disoccupato. Gragnano (Napoli), 1956.

Cimitero dello sbarco in Normandia. Saint Laurent, 1994.

Luciano D’Alessandro

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dell’arte fotografica, egli limita il ruolo del fotografo a quello di “testimone critico” della vita dell’uomo e della sua attività sociale. Questo ruolo ha trovato in lui la perfetta esplicazione, anche attraverso un’intensa attività espositiva internazionale e nella pubblicazione di numerosi libri fotografici, tra cui “Vedi Napoli” (Genova 1974), “Dentro le case” (Milano 1978), “Dentro il Lavoro” (Mila-no 1979), “Tra la mia gente” (Bari 1981), “Vivere Capri” (Napoli 1986). Un posto a parte, nella sua produzione, va riservato a “Gli Esclusi” (Milano 1969), reportage realizzato nell’Ospedale psichiatrico Materdomini di Nocera Superiore, pri-mo “racconto fotografico” della realtà dei manicomi.

La Mostra di Villa Medici rappresen-ta un tributo all’opera e all’esperienza di Luciano D’Alessandro. Accompagnata da un catalogo, edito da Peliti Asso-ciati, con testo critico di Achille Bonito Oliva ed interventi di Richard Peduzzi, presidente dell’Accademia di Francia a Roma, Graziella Lonardi Buontempo, presidente di Incontri Internazionali d’Arte, e dello stesso Luciano D’Ales-sandro, la mostra si articola attraverso una sequenza di 93 fotografie in bianco e nero, dal formato classico 30x40, ideata da Giuseppe Alario, seguendo un ordine “anarchico” che trova il suo filo conduttore nell’assonanza tra le singole foto, piuttosto che in una logica spazio-temporale. Un percorso tra la gente che va dalle folle anonime delle grandi ma-nifestazioni politiche o sportive, a Na-poli come a Mosca, alle realtà rurali che hanno le medesime atmosfere e quasi gli

stessi volti, a Kiev come nel Campidano, a Capri come nel Cilento. Gente che vive e si muove nel suo ambiente, che sia il blasonato Palazzo Odescalchi a Roma, una sala del MOMA di New York, o un vicolo di Tunisi. Solo la realtà del ma-nicomio è lasciata a sé, a chiusura della mostra (e del catalogo che ne ripete la sequenza), quasi a voler sottolineare la dissonanza della pazzia rispetto a tutte le altre umane manifestazioni. Tra le diverse fotografie spicca una Capri inedita, “luogo dell’anima” per D’Alessandro che per anni vi ha anche abitato, fatta di scorci rurali e di volti di operai e lavoratori. Una Capri che pure esiste, all’ombra delle “passerelle” della jet society, e che lui sa molto bene dove andarsi a cercare.

Nonostante fosse abituato ai rico-noscimenti e al confronto col pubblico, la mostra romana ha rappresentato per D’Alessandro un banco di prova impor-tante, poiché si tratta di un’esposizione antologica che interessa praticamente tutto l’arco della sua vita di fotografo professionista. Il grande successo di pubblico che l’esposizione ha riscosso lo ha “letteralmente scioccato”, come lui stesso afferma, soprattutto perché attraverso gli occhi degli altri ha potuto nuovamente “vedere” fotografie che da tanti anni ormai si limitava a guardare in maniera abitudinaria.

Il periodo temporale interessato dall’esposizione si ferma non a caso al 2002: a partire da quella data, infatti, D’Alessandro ha abbandonato la pelli-cola ed ha intrapreso la strada della spe-rimentazione attraverso la fotografia

digitale, affascinato dalle opportunità espressive che essa offre, soprattutto ri-guardo al colore. “Sono molto fiducioso dello sviluppo della fotografia digitale. Quando fotografo in digitale viene fuori quasi un altro fotografo, e questo mi incuriosisce molto” dice. Ad impressio-narlo positivamente è soprattutto la co-stanza del risultato rispetto al sistema analogico, dove invece molto è affidato a delle variabili imprevedibili, quali l’età della pellicola e la temperatura alla quale viene sviluppata la foto. Non c’è, tra le foto in mostra, un’immagine alla quale egli sia particolarmente legato, è piuttosto il mestiere del fotografo ad affascinarlo ancora adesso. La sede del-l’Accademia di Francia è la prima tappa di questa mostra itinerante, destinata ad altre sedi in diverse città europee, e per quest’evento, Rai International ha inoltre preparato un documentario di 50 minuti su D’Alessandro e il suo lavo-ro. Proiettato nel corso della mostra, il documentario andrà in onda anche sul canale satellitare.

Chiusa la stagione del fotogiorna-lismo, in questi ultimi anni Luciano D’Alessandro porta avanti soprattutto progetti editoriali, nel convincimento che valga sempre la pena dedicarsi alla fotografia. Il suo lavoro non l’ha mai deluso. Un po’ deludente invece, nei con-fronti di questo appassionato fotografo, appare l’atteggiamento della sua città, Napoli, che si è lasciata battere sul tempo da Roma nell’organizzare una mostra così bella e interessante. Ma, come si dice, nessuno è profeta in patria.

Cetti Capuano

Autoritratto. Capri anni ’60.Festival nazionale de L’Unità. Napoli, Mostra D’Oltremare, 1976.

Luciano D’Alessandro

P E L L E G R I N O D E L S O L E

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Una città che si interroga – Napoli, con le sue “strade della violenza”, la sua “Gomorra”, le sue camorre e i suoi cittadini onesti, che si ribellano. Napoli e criminalità sono raccontate dallo sguardo lucido e appassionato di Francesco De Filippo nel suo romanzo “Sfregio”, edito da Mondadori. Giorna-lista dell’Ansa, nato a Napoli, l’autore vive a Roma da dieci anni. Ha esordito come narratore con “Una storia anche d’amore” (Rizzoli), seguita da “L’af-fondatore di gommoni” (Mondadori), sul traffico di clandestini albanesi. Di nuovo un romanzo di impegno sociale, duro da far male, eppure piacevole da togliere il fiato, capace di creare l’ansia di giungere alla fine, pur assaporando ogni capitolo, ogni pagina. L’autore dedica “Sfregio” al suo amico e maestro Andrea Camilleri e alla sua città che può farcela, proprio come Gennarino Sorrentino, il protagonista del roman-zo. Gennarino, appena ventitreenne, incarna perfettamente lo stereotipo di chi eleva l’arte di arrangiarsi a sistema di vita. Una moglie, l’adorata Pame-luccia, due bambini da mantenere, il passaggio che sembra obbligato all’il-lecito, sinonimo di sopravvivenza. La sua vita, dedita a piccoli, improvvisati mestieri, incrocia quella del boss don Rafele, e da quel momento inizia la sua discesa agli Inferi. Una spirale di violenza, di criminalità sempre più spietata lo risucchierà suo malgrado. Da semplice manovale del crimine, Gennarino viene “promosso” a ruoli più importanti che lo coinvolgono nel traffico internazionale della droga, nel giro della prostituzione e di delitti efferati. Pian piano tutto ciò che aveva valore per lui – gli affetti familiari – si perde. La moglie va via e porta con sé i figli. La scelta è radicale: lasciarsi sopraffare dal mondo marcio del cri-mine e dei grandi affari illeciti, con la paura di essere ucciso o scomparire

in qualunque momento, o ribellarsi e cercare di ricominciare.

Un passo che merita pagine di storia di critica letteraria: “Mi rigirai e di nuovo cadette tutto il silenzio, di nuovo cadette la notte ‘ncuollo a mme. La notte di chi riposava, di chi si pre-parava a domani. Alla notte che non doveva per forza essere notte e guerra. Ce puteva stà pure la pace… da qualche parte ce stava. Da là sopra non si vede-vano i quartieri dove vivevo io, dove viveva Paolino, dove si nascondeva don Rafele. Non se vedevano i palazzi scuncecati, che se ne cadevano a pezzi, tenuti ancorati con le catene, con perni grossi come toraci, nun se vedevano i guaglioni che venivano da fuori a cercare la droga, già con le siringhe pronte, gli dovevi solo far vedere la roba che tenevi dint’ ‘e bustine e chili erano pronti a tutto. […] Però non è solo che da llà non si vedeva ‘o quartiere nostro. Era pure dal quartiere nostro che nun se vedeva il resto della città. Perché noi non vedevamo ‘a ggente, nun vedevamo ‘e famiglie, nun vedevamo gli occhi. Gli occhi di chi lavorava dint’ ‘a polizia o faticava in una banca, in uno studio di ragioniere o di architetto e non arrub-bava, non ammazzava. Gli occhi di chi insegnava ed era contento; contento di tornare ‘a sera a casa e di stare davanti ‘a televisione. E nun vedevamo i sogni e nun vedevamo i sorrisi. Noi nun vedevamo niente”. E particolarmente efficaci, crudeli, le scene di torture e omicidi, regolamenti di conti, violenze sulle donne e sugli uomini che hanno “sgarrato”, scene tristemente uguali, come per un copione di morte, quello che assurge ai disonori della cronaca nera quotidiana. “Mi sentivo – pensa Gennarino – comme se na forza mi tirava sotto, dinto a nu lago ‘e mmerda, e io cercavo di restare sopra, colla capa fuori, ma non sempre ci riuscivo, anzi, quasi mai”. C’è un riscatto alla fine

del romanzo, dedicato alla Napoli che non si arrende, a quella dei tanti che si oppongono alla barbarie con la forza della civiltà, del rispetto delle regole, del proprio onesto lavoro. Il lavoro, è questo il dramma di oggi.

“Il problema è economico – ci spiega Francesco De Filippo. È la mancanza di lavoro, la necessità di dar da mangiare alla sua famiglia che porta Gennarino a fare scelte sbagliate. Sembra perso, ma poi riesce a dare una svolta alla sua vita. Riesce a dire ‘no’ nonostante tutto”…

“Io racconto una parte di Napoli, come dire, quella del bubbone, del cancro, del sistema o come vogliamo chiamarlo – chiarisce l’autore. Il libro è dedicato a quella Napoli che s’impegna, fatta di gente che lavora dieci, dodici ore al giorno, alla parte sana di Napoli che rispetto ad altri cittadini, del Nord, per esempio, ha a che fare con più problemi”. La mia città – afferma – è straordinaria, è eccessiva, sia in senso negativo che positivo, perciò l’amo. Ha un ritmo ciclico. Nel suo andamento s’intravedono menti illuminate, anche se nel mio libro narro la sua anima nera, cattiva e violenta. Non voglio indulgere a facili raccapricci, ma rac-contare la camorra non solo come una organizzazione che macina tutto intorno a sé, ma anche come possibile obiettivo da sconfiggere”.

Il romanzo coinvolge più a fondo del racconto cronachistico che si raf-fredda nel momento stesso nel quale viene enunciato. “Mentre la saggistica va appresa – spiega De Filippo – il ro-manzo va bevuto; mentre per il saggio occorre istruirsi, il romanzo si legge con rilassatezza, e ci colpisce di più, naturalmente se sa toccare le corde giu-ste”. Tanto più è positivo il messaggio quanto più è intriso di efferatezza, e va letto in termini salvifici, escatologici. Negli ultimi venticinque anni Napoli

“SFREGIO” UN LIBRO

DI FRANCESCO DE FILIPPO

Maresa Galli

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ha perso numerose aziende, pari ad 80.000 posti di lavoro. Bisogna fare i conti con questo tessuto economico e sociale, che tradotto, significa depaupe-ramento economico e morale, si legge disperazione. Le misure da attuare, secondo De Filippo, devono essere di carattere economico e culturale, cioè creare lavoro e investire nella forma-zione, nell’istruzione, creando punti di riferimento.

Negli anni ’80 l’industria a parteci-pazione pubblica, era la realtà del Sud che ha subito, con la perdita di migliaia di posti, un danno immenso. Nessuna città avrebbe potuto sostenere un’onda d’urto così forte. Basti pensare al dram-ma dell’Italsider, al suo indotto, ai cas-sintegrati, alle altre aziende dimesse. “Parte di mano d’opera fuoriuscita dalle fabbriche è finita così nelle mani della camorra che si impossessa, manu mili-tari, di alcuni quartieri. Napoli è senza dubbio una città vivissima dal punto di vista artistico, culturale – prosegue De Filippo – ciò purtroppo non si trasforma in volano di sviluppo; arte, cultura, rimangono piccoli iceberg, piccole scintille che però non fanno luce. In tutta Italia vi è ancora una dif-fusa sottocultura per cui tanti giovani, napoletani come milanesi, sognano di diventare veline e calciatori piuttosto che ingegneri o insegnanti; per il quin-dicenne di Scampia che non ha studiato il modello è quello del boss che possiede soldi, auto, donne”. Le piccole illegalità di tutti sono il passaggio alle grandi e questo innesca una spirale pericolosa.

Alcuni episodi di “Sfregio”sono

veri, raccontati all’autore da Gennaro De Falco e Roberto Ormanni. Pier Antonio Toma afferma che il 2006 sarà ricordato, nella letteratura, come l’anno dedicato alla camorra, con un florilegio di volumi sull’argomento affrontato da autori, in primis, napoletani, italiani e anche americani – una lente diversa per uno spaccato complesso del feno-meno. Napoli metropoli, con le sue luci ed ombre, Napoli come New York, Rio de Janeiro, Tokio. Uno studio a sé merita la ricca lingua inventata da De Filippo – un napoletano di uso quoti-diano, popolare, frammisto di italiano; più che meticcia, è quasi una terza lingua nata dalla commistione di due linguaggi, tanto forte da essere idonea alla descrizione delle crudeltà e insieme delle bellezze raccontate dal libro. Un omaggio alla lingua di Montalbano, al grande Eduardo, ma anche al genere noir mediterraneo di stile quasi crona-chistico, vicino al genere dell’inchiesta. Precedenti illustri nell’impiego della lingua italiana frammista a dialetto (ad esempio, “Orcynus Orca” di Stefa-no D’Arrigo, “Quer pasticciaccio brutto di via Merulana” di Gadda) rimandano alla letteratura contemporanea, pas-sando attraverso il presente narrativo di lanzettiana memoria. Muta l’univer-so di riferimento: da un mondo popo-lare/sottoproletario vivianeo o piccolo borghese di eduardiana memoria ad uno degradato, senza altri valori o rife-rimenti che non la quelli della violenza e della sopraffazione. È uno spaccato di certa parte della Napoli di oggi, ma po-trebbe appartenere a qualunque altra

metropoli contemporanea. Diego De Silva, Roberto Saviano, Bruno De Ste-fano, Isaia Sales e Marcello Ravveduto, Oliva e Scanni, Iannuzzo, Marrazzo, Morabito, Mastriani, nella ristampa de “I vermi”, Savio e Venditti, Gemelli e Fiorenza, Rivieccio e Marrone, spie-gano gli intrecci di camorra, le sue differenze con la mafia, élite criminale meno frammentata e dunque meno pe-ricolosa della camorra, secondo Sales, ex sottosegretario al Tesoro nel primo governo Prodi, consigliere economico del governatore Bassolino, da anni attento ai fenomeni di sviluppo del Mezzogiorno. Eppure, il romanzo di De Filippo non segue il mainstream, non si colloca nella schiera dei Gomorra o di Napoli criminale. Eccellenza narra-tiva per il suo romanzo più maturo che sposa felicemente lo stile e la trama, la fantasia creativa. Un altro livello di lettura del romanzo è la fuga, salvifica, dalla città, dalla camorra. Diverse de-scrizioni sono talmente crude da fare male, da far provare lo stesso disgusto che assale Gennarino costretto ad assistere a crimini efferati, a violenze d’ogni sorta. Tuttavia, per il contenuto e la finalità escatologica, potrebbe es-sere consigliato agli istituti superiori, ai giovani, affinché abbandonino i falsi paradisi del tutto e subito, del denaro facile, del piacere fine a se stesso. La Napoli di domani non può essere quella affondata da Giorgio Bocca; la città possiede gli anticorpi per curare la parte ammalata, può farcela nel ciclo vichiano di ritorno all’età della ragione.

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Pochi territori, come quello campa-no, possono vantare tracce di un pas-sato storico di grande prestigio. Pochi golfi, come quello di Napoli, sono stati lo scenario naturale e metaforico dove meglio e più che altrove si sono svolte alcune fra le principali vicende della storia romana. L’importanza strategica di questo tratto del Mediterraneo è ora documentata con dovizia di fonti stori-che e letterarie da Christoff Neumeister nel recente volume Il golfo di Napoli, apparso nella collana «Guide illustra-te» della Salerno editrice di Roma nella traduzione di Adriano Ardovino, dopo essere uscito nel 2005 presso la Verlag C.H. Beck Ohg di Monaco con il titolo Der Golf von Neapel in der Antike ein Literarischer Reisef�hrer. Libro pre-zioso per quanti siano desiderosi di conoscere il ruolo decisivo del territorio campano nell’antichità greco-romana, in cui l’autore si giova delle innumere-voli descrizioni desunte per lo più dagli storici del periodo imperiale e le com-para agli scritti letterari, nel tentativo di ripristinare i segni dell’antico splendore e di riannodare la contemporaneità con il suo indelebile passato.

Nello scegliere un criterio topo-grafico, l’autore realizza una guida immaginaria condotta sulla scorta di innumerevoli testimonianze letterarie e storiche, che senza alcuna sovrap-posizione artificiosa, servono tutte a ricreare la vita economica, politica, culturale del territorio. Il cammino del lettore, che si suppone provenga da Roma, ha inizio da Pozzuoli, per secoli il porto più importante dell’Urbs, per proseguire con la regione settentrionale

del Golfo ed approdare a Capri. Da qui, seguendo la costa, il viaggio continua a Napoli, poi a Ercolano, a Pompei e a Sorrento, per poi spingersi fino al-l’estremità occidentale della penisola sorrentina, nel punto in cui, di fronte a Capri, sorgeva l’Athenaion, l’antichis-simo tempio di Atena, eretto – secondo la tradizione – da Odisseo. Da qui il lettore si sposta a Capo Miseno, ultima tappa del viaggio, dedicata all’osser-vazione dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.

Grazie a Stazio si documenta la costruzione della strada da Sinuessa a Pozzuoli, voluta da Domiziano, così come grazie a Svetonio si narra della permanenza di Ottaviano Augusto a Capri e di Tiberio nell’altissima e im-ponente Villa Iovis, una delle dodici residenze capresi dell’imperatore, a strapiombo sul mare. Alle parole di Se-neca e di Strabone si deve la descrizione della crypta neapolitana, la galleria costruita sotto la collina di Posillipo; a Virgilio la toponomastica di luoghi che acquistano rilievo (a partire dai cele-berrimi Miseno e Palinuro), lo sbarco di Enea a Cuma, l’incontro con la Sibilla e la discesa nell’ade dell’eroe troiano.

In un’epoca assediata dal virtuale, Neumeister conduce il lettore-turista per i luoghi del golfo, carichi di storia e di mitologia, ed in tal modo propone un viaggio mentale attraverso le voci di te-stimoni plurimi. I massimi responsabili della storia e della mitopoiesi del golfo di Napoli, siano essi poeti o storici, letterari o filosofi, sono così uno ad uno esaminati, letti e commentati con stile piacevole e godibile.

UN GOLFO DI MITIE DI STORIE

Teresa MegaleCHRISTOFF

NEUMEISTER,“Il golfo di Napoli.

Scene dall’Antichità”, Roma, Salerno editrice,

2006, pp. 296,€ 21.00.

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L’informatica applicata ai beni cul-turali è una frontiera e – talvolta – una iterata scommessa della nostra contem-poraneità, dalla quale ci si aspettano possibilità inedite di conoscenza e, soprattutto, di diffusione e condivisione di conoscenza e di saperi. Le discipline storico-spettacolari in Italia sono state molto precocemente interessate dalle nuove opportunità offerte dalle tecno-logie informatiche, perché desiderose di trovare criteri unitari di organiz-zazione dei propri multiformi oggetti di studio, ma anche di sperimentare reti di relazioni concettuali, di appro-fondire e di tutelare le proprie risorse documentarie, di fissare – almeno sub specie digitale – momenti e tracce di espressioni artistiche ontologicamente legati all’effimero e all’evanescenza. Sulla scorta di tali necessità e urgenze è nato Dionysos, l’accattivante nome di un ricco archivio digitale di icono-grafia teatrale – il primo del genere -, composto da ventunomila immagini e realizzato in un decennio di ricerche e di studi compiuti da un gruppo di ricercatori dell’Università degli Studi di Firenze, ed esteso alla collaborazione degli atenei pisano e senese. Sotto la guida e la direzione di Cesare Molinari e di Renzo Guardenti sono stati schedati, valorizzati e resi consultabili documenti iconografici appartenenti al teatro eu-ropeo dall’Antichità classica fino alla metà del Novecento.

Frutto maturo di una scuola che guarda all’iconografia con metodologie sempre più affinate e che pone al centro della propria indagine scientifica la critica delle fonti figurative, Dionysos è una banca dati, contenuta in un DVD-Rom pubblicato dalle edizioni Titivul-lus di Corazzano (Pisa), che dimostra quale immenso patrimonio sia legato alle discipline storico-spettacolari, e come le arti dello spettacolo siano

inscindibilmente legate anche alle fonti iconografiche.

Ogni immagine, sia essa una cera-mica greca, una miniatura, un’incisione, un dipinto o una fotografia, è corredata da una scheda esplicativa contenente dapprima i dati storico-artistici, dai quali si desumono le tipologie e le scuole artistiche di appartenenza, poi quelli storico- spettacolari, seguiti dalla messa in evidenza delle informazioni relative all’eventuale messinscena. Una “maschera di ricerca” – secondo il gergo informatico – rende possibile ogni libera interrogazione, per nome di attore, di autore o di personaggio, per luogo, per fenomeno, per nome del teatro, per compagnia. Nello sce-gliere deliberatamente di “cliccare” le capitali europee, si scopre che Parigi ricorre in Dionysos 4.749 volte, seguita da Londra (3.939) e da Roma (2.081), mentre Madrid e Berlino compiano rispettivamente 882 e 631 volte. Il fenomeno della Commedia dell’Arte ha 1.881 occorrenze; il grande dram-maturgo Carlo Goldoni ne registra 815. Ben 468 immagini si riferiscono al personaggio di Amleto, tante quante sono quelle relative alla maschera di Pulcinella, presente in Dionysos con 461 documenti iconografici.

Uno strumento di consultazione di-gitale rapida ed efficace, concepito con modalità tecnologiche semplici, tali da consentire un’accessibilità immediata e facile sia per il più vasto pubblico di lettori-utenti, che per gli esperti del set-tore. L’eccezionale mappatura icono-grafica di Dionysos è destinata eviden-temente a continuare. Il DVD-ROM è per ora distribuito esclusivamente a ricercatori, istituti universitari, enti culturali, teatri, musei e biblioteche. La cessione dell’archivio ha carattere no-profit; il ricavato sarà destinato alla prosecuzione della ricerca.

NEL DIGITALEDI DIONYSOS

Teresa Megale

Libri

“Dionysos. Archivio di

iconografia teatrale”, dvd-rom,

Titivillus edizioni, Corazzano (Pisa),

€ 380.

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EURONOTE di Andrea Pierucci

Ventisette

Le procedure per l’adesione della Bulgaria e della Romania sono terminate. Il Parlamento europeo ha approvato la nomina dei Commissari dei due paesi ed ha entusiasticamente salutato la loro adesione (anche se ha approvato una risoluzione per innalzare un po’ l’asticella per il salto nell’Unione degli altri candidati col concetto secondo il quale l’Unione deve ampliarsi solo se ha specifiche capacità d’integrazione, in termini economici, politici ed istituzionali di ciascun candidato. Mi sembra abbastanza logico ed è sempre stato così. Si capisce però che questo ragionamento valga per la Turchia, in particolare perché si trova in un’area geo-grafica che esige una politica estera e militare comune abbastanza consolidata). La gestione dell’Unione sarà forse un po’ più complessa (ma con le complessità esistenti, il detto contadino “dove ce n’è per due ce n’è anche per tre” mi sembra che illustri la situazione) poiché ci saranno due Commissari in più, due membri del Consiglio in più, un po’ di membri supplementari per il Comitato delle Regioni e per il Comitato Econo-mico e Sociale Europeo – 37 – e, fino al 2009 almeno un certo numero di parlamentari in più. D’altra parte, l’adesione dovrebbe accelerare le riforme in quei paesi e migliorare complessivamente la situazione.

Europa potenza? Perché no!

L’Europa esce dalla crisi: ormai più che una notizia è una constatazione. La lista dei risultati dall’estate ad oggi è abbastanza lunga, tanto in materia economica quanto in materia propriamente politica: Libano, REACH (100.000 prodotti chimici sotto controllo), una strategia almeno parziale per i servizi d’interesse generale, i nuovi programmi strutturali e via così! Para-dossalmente lo sblocco della situazione è stato dato in primo luogo sull’accordo sulle prospettive finanziarie, anzi, si badi, su alcune briciole del bilancio. In secondo luogo, c’è stato l’annuncio di Angela MERKEL circa la volontà di aggredire il problema costituzionale a parti-re dalla Dichiarazione sul cinquantesimo anniversario dei Trattati che avrà luogo a Berlino in marzo. Inoltre, alcuni governi sono cambiati e sono ora meno nazio-

nalisti (Italia e Spagna in primo luogo). Certo restano i problemi posti dai referendum, il problema britannico, specie dopo la dichiarazione di Tony BLAIR che prima o poi lascia, nonché il nodo di classi politiche sempre in difficoltà nell’esprimere una prospettiva di grande vigore, nel timore di giocarsi quell’1% che fa il risultato elettorale. Quel che sorprende è che lo slancio va al di là della stessa aspirazione del presidente della Com-missione europea BARROSO, che puntava sui risultati essenzialmente per recuperare il consenso mancante dei cittadini europei.

In effetti – e le preoccupazioni del Ministro AMA-TO espresse recentemente su La Repubblica, secondo me, lo provano – l’Europa ha un po’ invertito la sua rotta tradizionale. Oggi è lecito parlare di un’Unione che tende a rappresentarsi non più solo come collabo-razione buonista fra gli Stati su alcuni aspetti anche importantissimi, ma propriamente come una struttura che, tanto in politica estera come in politica interna vuol essere “potenza”. Citerò tre aspetti (ma se ne potrebbero esaminare anche diversi altri chiaramente convergenti). Il primo riguarda la politica militare. Certo il Consiglio “difesa” che in estate ha preso deci-sioni circa la ridistribuzione delle truppe a disposizione dell’Unione nei diversi scacchieri, ha probabilmente impiegato espressioni non esattamente realistiche; tuttavia, l’Europa ha deciso, a maggioranza in realtà, di ritirare le truppe dal Congo dopo le elezioni ed ha preso alcune altre decisioni che sono poi diventate operative. Si potrebbe arguire (ma non c’è neanche bisogno di tanta arguzia) che l’Unione ed i suoi Stati membri non vedono più le questioni d’intervento di peace keeping come incidenti puntuali, magari seguen-do pedissequamente la posizione americana, ma come elementi d’una –certo frammentaria – strategia.

Un secondo aspetto di definizione di strategie politi-che riguarda l’ampliamento, nel modo nel quale è stato trattato dal Consiglio europeo del 15 e 16 dicembre. La questione della “capacità d’integrazione” come condi-zione per l’ampliamento sbandierata al fine di riportare all’ovile i voti negativi dei referendum costituzionali, si è trasformata in una valutazione dell’opportunità per l’Unione di ammettere o no gli ampliamenti a seconda della una possibilità di restare efficiente (o di diventarlo di più). Finiti i ragionamenti di “dovere morale” (pur

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importanti) si passa all’interesse politico dell’Unione come condizione di adesione. Se si aggiungono a ciò il rafforzamento dell’integrazione fra la PESC e le altre politiche esterne, sviluppo compreso, nonché la politica di vicinato che funziona, insieme alla politica comune verso la Russia, si ha un quadro strategico impressionante; verrebbe quasi (ben inteso, il quasi è di rigore) da pensare ad un orientamento generale di politica estera dell’Unione, addirittura a proprie autonome mire di politica internazionale.

Un terzo riguarda la politica interna. Penso ai nuovi regolamenti sui fondi strutturali, che escono definitiva-mente dall’ideologia del semplice aiuto per inserire gli interventi in una precisa strategia di politica economica e monetaria (Strategia di Lisbona, Grandi Orientamenti di Politica Economica e simili). Anche qui l’Europa non si presenta come la “fatina buona” che porta i soldini, ma come parte essenziale della potenza pubblica che agisce per realizzare i propri obiettivi. D’altra parte, questo cambiamento si associa ad una definizione più sussidiaria delle modalità d’azione, perché infine si è riconosciuta l’esistenza delle Costituzioni nazionali, ci-tate ad ogni piè sospinto come strumenti di ripartizione delle competenze interne. Con una piccola digressione, direi che credo che questi aspetti istituzionali dei fondi meriterebbero un’analisi approfondita.

Ciò detto, non credo affatto che siamo alla fine delle nostre fatiche; ci mancherebbe altro! Oppure, peggio, che ormai l’Europa è una potenza consolidata da tutti i punti di vista. Dico solo che le sfide da affrontare sul piano della costruzione europea stanno progressiva-mente cambiando. Benché io sia assolutamente convin-to che un’Europa potenza non sia obbligatoriamente una potenza nemica degli Stati Uniti (l’intervento in Libano, per esempio, ha salvato tutti, USA in primo luogo, da un’ennesima figuraccia regionale – ed è stata concordata con gli USA) trovo adeguato, ma anche rivelatore, l’affrontare il tema delle future relazioni fra “potenze”, USA, Cina e, perbacco!, Unione europea. Così come, invece, trovo preoccupante il silenzio sul “modello europeo”, una carta d’identità indispensa-bile per andare sul mercato della politica mondiale e che va ben al di là della sciocca (pardon!) diatriba sulla ripartizione delle spese sociali eventualmente fra assegni familiari ed asili nido, allorché l’importante è che tutti riconosciamo la necessità di aiutare la ma-

ternità e la paternità. Allo stesso modo, credo che la questione istituzionale non sia risolta col progetto di Costituzione. Come si era detto, all’eccezione di qual-che dirigente socialista francese un po’, come dire?, agitato, la Costituzione non è il “risultato finale”, la scelta immutabile. Ma figuriamoci! La Costituzione è importante e sarebbe bene che fosse ratificata, ma, intendiamoci per fortuna nasce, come tutti i trattati dell’Unione, vecchia e bisognosa di riforme. Per capire questo, ma è discorso ben più lungo, si dovrebbe de-finitivamente rinunciare al sogno (incubo?) statalista: l’Unione europea non è uno stato minore, è un’altra cosa, realizzata per fini diversi dalla statualità. Infine mi preoccupa il fatto che le discussioni accademiche e politiche, vergognose dei risultati raggiunti, celino la realtà di un’Europa potenza, eventualmente, come dice Mario TELO’, civile.

Questo comporta due svantaggi. Il primo riguarda l’imbroglio che perpetriamo contro i cittadini che, al livello nazionale o europeo, vanno a votare senza sapere per che cosa. Il secondo riguarda la mancanza di chiarificazione delle prospettive della costruzione europea. Questa disgraziatissima tendenza, iniziata nella notte 17/18 giugno 1997, consiste nel vantare i risultati specifici dell’Unione, evitando accuratamente di spiegare il perché (all’epoca quest’accordo riguardò soprattutto la politica sociale ed il pudore in questo senso del pur laburista BLAIR); a forza di cancellare il senso della costruzione europea, i cittadini hanno, a giusto titolo, perso ogni aspirazione ideale per quel che concerne l’Unione. E se cominciassimo a dirci la verità? O si tratta di una visione estremista?

Nuovi scenarial Parlamento europeo

La sessione plenaria del Paramento europeo di di-cembre ha visto all’ordine del giorno diverse questioni importanti, fra i quali il citato REACH, la “televisione senza frontiere” e la firma definitiva della direttiva servizi (la troppo vituperata BOLKENSTEIN) da parte dei Presidenti del Parlamento e del Consiglio.

Il Parlamento rinnoverà a gennaio i propri vertici, nonché le presidenze delle commissioni parlamen-tari.

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[67]LA RIVISTA

Periodico della FondazioneMezzogiorno Europa

N. 6 – Anno VII – Novembre/dicembre 2006Registrazione al Tribunale di Napoli

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