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Organo di Informazione Università Popolare di Camponogara Direttore Responsabile: Michele Gregolin oltre OLTRE - Rivista di Storie e Fotografia - Anno 2 N° 7 Giugno 2015

OLTRE - Anno 2, N°7 Giugno 2015

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Rivista di Storie e Fotografia, Università Popolare di Camponogara (VE)

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Organo di Informazione Università Popolare di Camponogara

Direttore Responsabile: Michele Gregolin

oltre

OLTRE - Rivista di Storie e Fotografia - Anno 2 N° 7 Giugno 2015

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oltreeditoriale

Cari amici, quando alcuni mesi fa abbiamo inizia-to questa avventura, lo scopo era semplicemente quello di creare un piccolo prodotto che ci facesse divertire, imparare a scattare meglio, ma soprat-tutto mettesse le nostre idee in discussione, attra-verso un percorso di confronto e di valorizzazione sui contenuti che andavamo mese per mese a rac-contare.Oggi siamo già arrivati al numero sette; sette mesi, molte riunioni di redazione nel cercare di trovare stimoli e storie da raccontare.Di recente ho avuto modo di parlare di “Oltre” durante alcune mie serate; molti hanno capito lo scopo della rivista, molti altri non hanno capito e hanno interpretato “Oltre” come un giornale di fotografia.Piacere a tutti lo sappiamo è molto difficile, oserei dire impossibile, ma questo non deve farci desiste-re né dalla nostra voglia di raccontare né dall’esse-re chiari su cos’è il nostro prodotto editoriale.Non lo possiamo e non lo vogliamo definire un giornale di fotografia, non è nostro interesse con-frontarci con delle testate gloriose e radicate nel tessuto nazionale da molti anni; noi per ora siamo un piccolo giornale online che cerca un proprio pubblico di affezionati, mantenendo salde le mo-tivazioni che ci hanno portato all’avvio di questa avventura, per alcuni versi unica.Per chi ancora non l’avesse capito o semplicemen-te per chi non avesse recepito il nostro messag-gio, “Oltre” nasce come una scuola, con persone comuni che vogliono raccontare e dare spazio a persone e fatti comuni. Un giornale di “storie e fo-tografia”, piccole e grandi storie di persone o fatti

che andiamo a raccontare con le immagini, unico modo con il quale noi ci sappiamo esprimere.In alcuni numeri alterniamo la tecnica fotografica con il racconto di fotografi emergenti e/o profes-sionisti; fotografi che si sono raccontati alle serate di Camponogara Fotografia, giunta alla quarta edi-zione in preparazione già in questi giorni. A partire da novembre, fino a marzo, si alterneranno nuo-vamente sullo scenario dell’aula Consiliare del Co-mune di Camponogara grandi fotografi italiani che racconteranno le loro esperienze, le motivazioni che li hanno spinti a far si che una grande passione diventasse un lavoro.Come avrete visto dal numero scorso diamo spazio ad un concorso foto-letterario, scrittura e fotogra-fia nel vero senso del termine “fotografia, ovvero “scrivere con la luce”; il tema del concorso sarà unico, ma le modalità di espressione diverse; chi interpreterà il tema assegnato con l’inchiostro, chi con la luce; è una nuova sfida che speriamo ven-ga accolta favorevolmente dai lettori di “Oltre”. Colgo l’occasione per ringraziare la docente dei corsi di scrittura dell’Università Popolare di Cam-ponogara, che ci aiuta e ci assiste in questa nuova avventura.

Michele GregolinDirettore Responsabile

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sommariolibreria acqua alta

Testo di Fedele LupisFotografie di Omar Argentin, Fedele Lupis, Mirka Rallo

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il mito del far west 14Testo di Mirka Rallo

Fotografie di Andrea Collodel, Mirka Rallo

special teamTesto di Angela Tacchetto

Fotografie di Cristiano Costanzo, Enrico Gubbati, Roberto Tacchetto

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l'ar tigiano della ferraturaFotografie e Testo di Massimo Bonutto

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museo diocesano

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Testo di Paola Poletto

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scivolare sull'acqua54

richard mosseTesto di Paola Poletto

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scripta manent

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Testo di Paola PolettoFotografie di Michele Gregolin, Paola Poletto

Cliccare sull’icona per approfondire l’argomento trattato nell’articolo.

roberto tronci 64intervista di Michele Gregolin

Fotografie e testo di Martina Pandrin58

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teatramandoTesto di Claudia Puliero

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Fotografie di Paola Poletto, Roberto Tacchetto

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Libreria Acqua Alta: un uomo, un luogo e mil le stor ie

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77Fotografie di Omar Argentin, Fedele Lupis, Mirka Rallo

Testo di Fedele Lupis

Libreria Acqua Alta: un uomo, un luogo e mil le stor ie

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Una gondola originale lunga 11 metri e 50 cm, va-sche da bagno, kayak, barili di legno zeppi di libri, al riparo dall’acqua alta che, quando supera il me-tro e 10 di altezza, invade i locali: altro che ordinati scaffali alla “Libreria Acqua Alta” di Venezia!In questi bizzarri ricoveri trovano posto libri, nuovi e usati, riviste di ogni genere e oggetti tra i più improbabili. Non mancano neppure i guardiani di questa cul-tura e il visitatore viene accolto dal titolare Luigi Frizzo, un pacifico ed affabile omone, gestore di questa famosa e originale libreria e dalle sue quat-tro fidate guardie, quattro “gattoni” dagli occhi scintillanti, che si aggirano pacificamente per i lo-cali, amatissimi dal loro padrone. Il passante occasionale, frettoloso, certo non scorge questa libreria che si trova in una “Vene-zia nascosta”, distante dai flussi turistici ossessivi, ma allo stesso tempo vicino ad una delle più belle chiese di Venezia, la Chiesa di Santa Maria Formo-sa. Aperta una quindicina di anni fa e considerata una fra le dieci più belle librerie del mondo, se-condo la BBC, non per il luogo dove si trova ma bensì per come è concepita, essa è un viaggio nel mondo dei libri internazionali soprattutto dedica-ti a Venezia, ma anche un percorso attraverso il quale si possono scorgere rari e introvabili edizio-ni: raccolte di Corto Maltese, TEX e Zagor, fumetti che fanno emergere piacevoli ricordi d’infanzia, ca-taloghi d’arte, trasposizioni in veneziano o veneto di long seller come “El Principe Picinin”, ossia il Piccolo Principe di Antoine De Saint-Exupery. “Non ci sono best-seller” dice Frizzo; i titoli sono organizzati per argomento o per lingua e ciò con-trasta nettamente con la prima impressione che i visitatori, come noi del resto, hanno entrando in questo bizzarro posto.In un palese disordine dove invece, realmente si trova tutto, si scorgono libri fotografici, cataloghi d’arte, musica, poesia e teatro, vecchie cartoline e tarocchi veneziani, carte da poker e ramino con immagini del canal Grande ed anche, per chi poco pretende e poco vuol spendere, un intero barile di libri ad un solo euro. Prosegue Rizzo: “un anno dopo l’apertura arriva la gondola che cercavo ma, nel frattempo, ho preso delle canoe da competizione, anche biposto, in le-gno, di ex proprietà del Club Querini e non più a norma per le gare di voga professionale”. Mentre ascoltiamo il titolare parlare, lo sguardo volge verso ciò che ci circonda e a cui fa menzio-

ne e, proprio all’interno della gondola, posta a far bella mostra di sé, al centro della libreria, notiamo all’interno rari libri e pubblicazioni sull’arte di far gondole!Incuriositi da ciò che stiamo man mano scoprendo grazie ai coloriti racconti del titolare, chiediamo il perché della presenza di vecchie e logore vasche da bagno, anch’esse destinate a contenere cataste di libri e lui candidamente risponde: “servono a ri-parare i libri dall’acqua alta, che periodicamente invade i locali, entrando da un ingresso seconda-rio rivolto direttamente su un piccolo rio, segnato, pensate, come uscita d’emergenza e dove capeg-gia un disegno con un “omino” che nuota!”Questo è quello che ci racconta Luigi Frizzo, vi-centino di nascita, vissuto in Valle D’Aosta, e figlio adottivo di paesi come la Germania, di paradi-si esotici come Tahiti e nazioni ancor più lontane come Nuova Zelanda e Australia; questo ha fatto prima di dedicarsi ai libri, ha avuto mille altri lavori e mille esperienze, ha girato il mondo su navi da trasporto e da crociera, è stato guardia forestale, croupier, minatore, guida turistica e carrozziere.Poco dopo i quarant’anni si è fermato, aprendo una prima libreria, poi una seconda ed infine que-sta, consolidata e conosciuta in tutto il mondo, che attira curiosi turisti, in cerca di vecchi souvenir. Ancora non convinti lo incalziamo: “ma com’è pos-sibile ricordarsi di tutto quello che è presente in libreria?” e puntuale e deciso risponde che il cata-logo è nella sua mente e in quella del suo collabo-ratore e amico Gianni. Quando le sirene suonano, avvertendo che il livel-lo dall’acqua sale, i libri che stanno più in basso vengono prontamente messi al riparo; nel 2008 e nel 2009 però l’acqua è entrata più velocemente e prepotentemente del consueto e di libri, seppur stipati nelle imbarcazioni, purtroppo, ne ha dovuto buttar via tanti, spiega Frizzo.Ma le singolarità di questa libreria non finiscono; vecchie enciclopedie, che sarebbero finite al ma-cero, sono state sapientemente impilate ed usate per creare una solida scala, a ridosso delle mura di una corte interna che si affaccia sul canale e dal quale si scorge la Corte Sconta, detta anche Ar-cana, luogo dei racconti di Hugo Pratt e del suo personaggio Corto Maltese. Anche qui, in questa corte, a compendio del fumetto e delle sue storie marinare, possiamo notare due timoni a suggello di una tematica che pervade tutta la libreria.Ci siamo quindi qui soffermati per qualche scatto,

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testimoni silenziosi di un continuo flusso di turisti che saliva su e giù per questa singolare struttura, al fine di raggiungere il bordo del muro di cinta della corte, per poi scorgere la vista del canale sotto-stante. Curioso qui è stato notare che l’attrazione per la scala aveva superato la curiosità di ciò che si sarebbe ammirato dalla cima, ossia la veduta sul canale! Un luogo magico, indicato per chi ama fer-marsi a sfogliare una vecchia e polverosa rivista o a leggere un vecchio e ingiallito libro, magari seduti su un vecchio divanetto con vista su un rio le cui acque spesso ne accarezzano le soglie di ingres-so. “Libreria Acqua Alta”, può essere considerata una delle meraviglie di una Venezia nascosta, non a tutti conosciuta, una delle più originali al mondo, una tappa obbligata a pochi passi da Piazza San Marco e punto di partenza per chi vuole conoscere questa meravigliosa città attraverso la miriade di attività individuali e particolari come questa.

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Pantaloni di jeans, camicia a quadri, una cintura or-nata da una fibbia scintillante, meglio se grande e ben visibile, gli immancabili stivali ed il cappello da cowboy. E’ così vestiti che si balla il country. Tacchi che ritmicamente rimbombano decisi sulla pista in legno...ed il gioco è fatto! Country dance, sia! Il ballo country non ha niente a che vedere, come tutti credono, con i vari film western che si vedo-no in televisione; è una cosa totalmente diversa. La musica country chiamata “old country” (per in-tenderci quella presente nei film western) ha ormai lasciato il posto alla musica “new country”, dove sono presenti varie influenze provenienti dalla musica rock e pop. La country dance è un tipico ballo contadino degli Stati Uniti del Sud (Arizona, Tennessee, Texas, New Mexico, ecc…) importato dagli Americani delle basi NATO sparse sul nostro territorio. La maggior diffusione di questo ballo si è avuta nella provincia di Vicenza, grazie anche alla presenza di una delle più importanti basi NATO in Italia. Con la costanza di alcuni appassionati, che nei primi anni giungevano da gran parte dell’Italia del nord a Vicenza, si è creata una certa diffusione di questa musica e di questo strano e divertente modo di ballare in varie provincie. Il tipo di bal-lo che più attira e diverte gli spettatori è la “line dance” o ballo in linea, dove tutti i ballerini sono allineati formando un quadrato ed eseguono gli stessi passi. Siamo andati a visitare la scuola di bal-lo A.S.D. Malibù a Favaro Veneto (VE), diretta da Adriano Tiozzo. Da circa vent’anni si tengono di-versi corsi di ballo, i più frequentati dei quali sono il latino americano,la salsa, la salsa portoricana e na-turalmente il country, i cui corsi sono seguiti dall’in-segnante Maria Massalin. La grande passione per questo ballo, che coltiva da allieva per diversi anni frequentando corsi e partecipando a gare, la porta nel 2007 a seguire i corsi di country al Malibù. “Il ballo country – spiega Maria – è da anni conosciuto in tutto il mondo mentre in Italia è una novità di questi ultimi anni. Sempre più persone lo stanno scegliendo, magari come alternativa ai balli da sala o caraibici. Ci si avvicina a questo ballo perché è divertente, diverso dai soliti latino americani che spesso sono anche difficili e richiedono abilità di ancheggi e velocità che non sono per tutti. Il coun-try invece può essere praticato anche da chi non

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nasce con la danza nel sangue, i passi sono sempli-ci ed essendo un ballo individuale, non serve per forza un partner. Inoltre l’abbigliamento è como-do.” I ballerini di line dance non sono in contatto fisico gli uni con gli altri. Le line dance più vecchie comprendono linee di ballerini che si fronteggiano o, in altri casi, la “linea” è costituita da ballerini in cerchio; o ancora tutti i ballerini seguono un leader in giro per la pista tenendo la mano del ballerino accanto. Un piccolo gruppo può essere costituito da una sola linea ma normalmente ci sono diverse file parallele una dietro l’altra. In questa formazio-ne, i ballerini si muovono in sincrono ma indipen-dentemente gli uni dagli altri. Di solito non ci sono passi che richiedono interazione fra i ballerini oltre ai passi sincronizzati. Generalmente, più è alto il numero dei “count” e più difficile è la coreografia (il “count” corrisponde ai battiti della musica).

Includere sequenze di passi inusuali o poco familia-ri o anche movimenti del corpo oltre ai passi, come gesti delle mani, rende il ballo più impegnativo. Al-cune line dance vengono coreografate per essere eseguite su una musica specifica e in questo caso si definiscono “phrased”. “Tags” (cioè varianti ai passi), “bridges” (salti di coreografia) e passi ripe-tuti sono tutti espedienti che permettono di segui-re la musica. Chi balla queste “phrased” line dance dev’essere più consapevole di come si sviluppa il brano musicale e non ripetere solamente una se-quenza di passi per tutta la durata della canzone.Nei tipici locali “country” dove la sera i “country dancer” si scatenano a suon di tacchi, abbiamo scoperto che le praterie texane non sono più così lontane. Ecco allora qualcosa di diverso dalla solita salsa, merengue o dai classici balli liscio.

Fotografie di Andrea Collodel, Mirka Rallo Testo di Mirka Rallo

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La Compagnia Teatrale Teatramando dell’Universi-tà Popolare di Camponogara inizia con la sua pri-ma rappresentazione al Teatro Dario Fo di Campo-nogara il giorno 08 Marzo 2014 con “Lisistrata - chi fa la guerra non fa l’amore” (liberamente tratta da “Lisistrata” di Aristofane)L’obbiettivo di Teatramando è di realizzare il so-gno a lungo accarezzato dall’Università Popolare di Camponogara e dai partecipanti ai Corsi di Re-citazione (base ed avanzato) coordinati da Filippo Tognazzo. Tale sogno è quello di trasformare l’impegno de-gli ultimi quattro anni in un “Laboratorio Teatrale” che vuole portare sul palcoscenico la passione e l’amore per la recitazione, con la convinzione che ogni spettacolo debba essere soprattutto un mo-mento di svago per il pubblico, lasciando però spa-zio a piccole riflessioni sui problemi che affliggono la nostra società.Ne fanno parte Bonvini Alberto, Danieli Marzia, Favaretto Michele, Gastaldi Catiuscia, Meneghetti Lorenzo, Miozzo Debora, Puliero Claudia, Santi-nello Katia, Signore Mariangela, Stefanato Mara, Spinello Enrico, Zinato Nicoletta.Tutto questo è stato possibile grazie all’Univer-sità popolare di Camponogara per averci dato la possibilità di concretizzare un sogno attraverso un progetto da tempo agognato. Questo ci permet-te di dare sfogo alla nostra passione per il teatro, mettendoci in gioco fino in fondo. Vanno ringraziati gli altri protagonisti di questa pri-ma rappresentazione, che hanno lavorato al fianco di noi attori, e più precisamente il Direttore Artisti-co Filippo Tognazzo e gli scenografi Lorenzo Niz-zolini e Raffaella Stefanato.Teatramando, grazie alla competente regia di Filip-po Tognazzo, ha portato sul palcoscenico di varie rassegne teatrali (Camponogara, Pianiga, Limena ed Abano Terme) “Lisistrata - chi fa la guerra non fa l’amore”, rivisitazione in chiave moderatamente moderna della commedia più celebre di Aristofane “Lisitrata”. Tale spettacolo ha visto la partecipa-zione attiva e divertita del pubblico, raccontando l’avventura di una giovane donna che vuole la pace per il suo popolo, ma soprattutto per le donne sue compagne di sventura. Per raggiungere tale scopo usa l’unico mezzo a sua disposizione, l’astu-

zia. Stanche di vedere i propri mariti partire per la guerra, le donne con a capo Lisistrata decido-no di iniziare una protesta non violenta attraverso l’astensione dal sesso. L’insolito sciopero porterà ben presto ad uno scontro fra sessi che rimetterà in discussione la capacità di governo degli uomini e rivendicherà per le donne un ruolo centrale nella gestione della politica.Un tema che fa riflettere anche nel ruolo della don-na nella società d’oggi, e che viene sottolineato dai tristi fatti di cronaca che riempiono ancora le pagine dei giornali.I componenti della Compagnia si ritrovano alme-no una volta a settimana nelle sedi messe a di-sposizione da Comune e dall’Università Popolare di Camponogara, e grazie ad un’organizzazione interna, gestiscono autonomamente tutte le varie fasi di preparazione dello spettacolo, dai costumi alle scenografie, adattamento dei testi, fotografia. Il tutto finalizzato ad una crescita comune e ad un percorso formativo completo, aspetti della massi-ma importanza per poter proseguire a lungo con questo progetto.Per seguire il lavoro della Compagnia, si può visita-re la pagina Facebook “Compagnia Teatramando” all’interno della quale si possono visionare foto e commenti postati durante le prove e le varie fasi di preparazione degli spettacoli.Contatti: cell. 3913563135mail. [email protected]

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Testo di Claudia Puliero

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Fotografie e Testo di Massimo Bonutto

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Forse non molti conoscono la figura del maniscal-co, uno dei lavori manuali più duri. Il lavoro di un uomo, curvo nel tentativo di addomesticare il ferro arroventato nella sua bottega. Quest’uomo passa la sua vita tra incudine e martel-lo, usando punteruolo, tenaglie, lime e raspe, mol-te volte anneriti dai morsi della fiamma. Un tempo l’infanzia era breve e la vita ti portava a lavorare fin da molto giovane. Si frequentavano le botteghe come apprendisti e si cercava di imparare dai ma-estri, dove avevi cominciato a portare i cavalli. Una gavetta dura: talvolta si rimaneva anche per anni presso la stessa mascalcia, per imparare un mestie-re fatto di tante piccole attenzioni. Qui non si può sbagliare: una manovra errata e si può rendere un cavallo zoppo. Il maniscalco osserva il cavallo, lo fa camminare per verificarne l’andatura e lo controlla per dare perfezione al suo lavoro. Il piede del cavallo è difatti la parte più delicata e vitale dell’animale: far sì che lo zoccolo sia pro-tetto significa garantire e preservare la sua impor-tanza vitale sia nelle gare, sia nei traini o in qualsi-asi altro modo s’intenda far lavorare l’animale. La professionalità qui è assoluta, non si può sbagliare! Ciò significherebbe rovinare per sempre l’animale. Un’importante fase della ferratura è il pareggio, che consiste nella rimozione dell’eccessiva cresci-ta delle varie parti dello zoccolo, rivolte verso il suolo.Far combaciare perfettamente i bordi dello zoc-colo con la parte superiore del ferro, appoggiato ancora rovente sul piede dell’animale, comporta un’operazione di grande bravura: non si possono difatti provocare scottature difficili da rimarginare. Si può optare per l’operazione “a freddo” dove la maestria del maniscalco sta nell’adattare il ferro allo zoccolo, per dare all’animale stabilità nel pas-so. Noi, di “Oltre”, abbiamo avuto la fortuna di conoscere una di queste persone speciali.Bruno abita nella periferia di Mirano, in una delle tante strade che si intersecano tra Pianiga e Santa Maria di Sala (nella provincia di Venezia).Ci accoglie nella sua casa, dove ha adibito una parte del garage a laboratorio da maniscalco e nel terreno adiacente alla casa ha realizzato una stalla con i suoi due amati cavalli e un recinto per farli correre. Ci dice subito: “Oggi giornata di ferratu-ra, preparo gli attrezzi e vado a prendere il cavallo. É prima mattina, l’ideale per lavorare, sia per il ca-vallo, un animale molto estroso, sia perché non fa ancora troppo caldo”.

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E qui comincia la sua storia:“La mia, diciamo, è stata una vita a cavallo fin da quando ero piccolo. Una famiglia di contadini, con-tadino mio padre ed anche mio nonno. Uno dei miei doveri di ragazzino era quello di salire a ca-vallo e portarlo in paese, dove c’era un maniscalco dal quale cominciai ad apprendere l’arte della ma-scalcia. Quando finivo i lavori in campagna, anda-vo alla bottega. Non c’era una scuola per questo mestiere, perciò bisognava non perdere mai un secondo di lavoro. Con i soldi messi da parte mi comprai un cavallo e, da quel momento non me ne sono mai separato. Da contadino, decisi che il mio futuro era di fare il maniscalco e ho sempre cercato di imparare cose nuove nel mio lavoro. Dopo aver passato ore nella bottega, mi ritrovavo alla sera a studiare sui libri di anatomia. Negli anni ’60 comin-ciai a lavorare alle corse dei cavalli come aiutante maniscalco. Ho lavorato per le migliori scuderie, ferrando cavalli poi diventati campioni. Andai a Padova e Bologna a scuola da Tassinari, uno dei

migliori maniscalchi del momento. Da questo poi, passai a lavorare per i maneggi di Albarella e suc-cessivamente venni contattato dai Biasuzzi, dove ottenni un contratto per cinque anni. Per me è il lavoro più interessante del mondo! E’ la passione che ti spinge a continuare e per farlo bene devi essere libero. Non smetterei per nulla al mondo, anche se ho già chiuso l’attività operativa, perché questo è un lavoro molto faticoso e logorante. Sei sempre chino sul lavoro e continui solo se hai for-za: alla fine della giornata sei esausto!”.Finita la chiacchierata e finita la ferratura, il cavallo viene prontamente rilasciato nel recinto per sfoga-re la sua pazientata manutenzione.Salutiamo Bruno con la promessa di andare a tro-varlo a Rosolina, luogo in cui si trova il suo piccolo maneggio dove usa portare i cavalli nel fuori sta-gione balneare.

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Testo di: Massimo BonuttoFotografie di: Massimo Bonutto , Enrico Gubbati

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Fotografie di Michele Gregolin, Paola PolettoTesto di Paola Poletto

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Cosa rende un libro degno di esser considerato un bene culturale da tutelare e conservare?I concetti di rarità e pregio sono oggi concetti ampi e determinati da vari parametri, soggettivi e variabili nel tempo. Le considerazioni valgono sia per i manoscritti, importanti nella loro unicità, sia per i libri a stampa, nonostante considerati oggetti seriali. Nel 1967 veniva proposta per la prima volta la definizione di patrimonio culturale che avrebbe portato a un nuovo modo di pensare e operare nella conservazione e nel restauro anche del bene librario, considerato alla stregua dei beni artistici, archeologici, architettonici e paesaggistici. Ma è già nella millenaria tradizione benedettina che si inserisce l’attività di restauro del libro, attuato con tecniche empiriche di recupero e conservazione. La radice dell’iconografia classica del monaco, se-duto nella penombra di un chiostro con un libro aperto sulle ginocchia, è da ricercare nella Regola di San Benedetto, che lo indicava come colui che cerca il contenuto e il messaggio del libro e il libro stesso diventa lo strumento della sua formazione culturale e spirituale. Prima dell’invenzione dei caratteri a stampa ver-so la metà del XV secolo non era facile procurarsi un libro da lettura e la grande editoria fu costitu-ita proprio dagli scriptoria dei monasteri. Queste scuole, regolate da una severa disciplina nella qua-le si osservava il silenzio, si comunicava con segni e si lavorava sei ore al giorno e solo con la luce naturale, richiesero ben presto la presenza di co-pisti per ricopiare i codici necessari all’istruzione. I manoscritti prodotti erano poi conservati nella biblioteca, che diventava così centro propulsore della vita intellettuale e culturale del territorio. L’immensa produzione di codici nel corso dei secoli venne mano a mano raccolta in collezioni librarie di pregio, ma nella seconda metà del XX secolo que-ste andavano subendo una situazione di deteriora-mento, causata dall’inadatta conservazione in luo-ghi di protezione antiaerea e dalle dannose azioni sofferte da fuoco, acqua e seppellimento sotto le macerie. In un clima di fervore per la ricostruzio-ne, che accompagnava l’immediato dopo guerra e che aveva come fine anche il recupero dell’immen-so patrimonio librario del nostro paese, sorsero in Italia almeno sedici laboratori di restauro del libro, in altrettanti monasteri benedettini sparsi un po’ ovunque nel territorio nazionale. Tra questi, uno dei primi, è il Laboratorio del Restauro del Libro dell’Abbazia di Praglia, una fiorente abbazia fon-

data tra l’XI e il XII secolo ai piedi dei colli Euganei, inaugurato il 24 settembre 1951. L’attività svolta dal laboratorio si inserisce perfettamente nella tradizione culturale benedettina e vuole far rivive-re proprio l’antica passione per la cultura e per il libro, grazie al lavoro paziente e competente del personale. La notizia dell’apertura del laboratorio venne accolta con soddisfazione da moltissimi enti statali e non, biblioteche, privati e istituti bancari. Numerosi sono stati i codici, libri rari, documenti antichi di famiglia, collezioni di stampe e incisioni, disegni su carta o pergamena e tanto altro mate-riale documentario o di archivio bisognosi di inter-vento che i committenti desideravano conservare e restaurare. Il laboratorio di Praglia possiede le attrezzature e i materiali adatti e proporzionati a tutti gli interven-ti necessari e vanta operatori qualificati sia per lo studio culturale classico, medievale e umanistico, sia per l’esperienza acquisita da anni di lavoro. Nel corso degli anni le tecniche si sono adeguate alle innovazioni più recenti, pur mantenendo la manua-lità e l’abilità artigianale che questo tipo di lavoro richiede.Le materie scrittorie delle quali è composto un libro sono fragili e il suo degrado è causato da diversi fattori; per potersi conservare in buona salute ha bisogno di un ambiente e di un clima adatto, dove umidità, temperatura, areazione e luminosità raggiungono e mantengono valori otti-mali. È sufficiente che uno di questi venga alterato per creare alterazioni morfologiche o strutturali come per esempio la modificazione dei tessuti, il distacco delle fibre, le macchie, l’ingiallimento, la diluzione o acidificazione dell’inchiostro, processi microbici, diffusione di muffe e di microorganismi.Il libro sottoposto a intervento deve essere stu-diato e valutato in tutti i suoi minimi particolari. Prima di ogni decisione è necessaria una verifica e uno studio dello stato del bene, un’analisi della struttura e dei materiali costitutivi che aiutano a ricostruire la sua storia e i suoi cambiamenti. Tra gli interventi preliminari vengono eseguiti il con-trollo della sequenza delle carte, dell’integrità del manufatto e lo smontaggio totale (se necessario); si procede poi alla delicata rimozione dello sporco superficiale con pennelli o gomme adeguati, aiu-tandosi con tamponcini di cotone imbevuti di solu-zioni idroalcoliche quando lo sporco e le macchie sono particolarmente difficili da eliminare. Succes-sivamente si decidono gli interventi in base allo

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stato del libro: la velatura degli inchiostri con velo precollato, il consolidamento delle mediazioni gra-fiche e dei pigmenti, l’ammorbidimento e il succes-sivo tensionamento dei fogli membranacei su un telaio, i rattoppi e le suture, il consolidamento e la cucitura dei capitelli, l’indorsatura. Il restauro è un insieme vario e articolato di operazioni; è un mo-mento di conoscenza del bene librario dal punto di vista sia storico che scientifico. L’attenzione degli operatori si focalizza non solo sulla prevenzione ma anche sulla manutenzione del libro, attraverso gli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene e al mantenimento dell’integrità, dell’ef-ficienza funzionale e dell’identità del libro e delle sue parti. Dall’archivio del Laboratorio di Praglia si stimano circa 27.000 interventi effettuati dalla fondazione ad oggi: dal codice membranaceo in onciale di Lat-tanzio (sec. VI-VII), alla più antica Carta Geografica d’Italia, a Bolle di Papi e di Imperatori, a Lettere con autografi illustri (Galileo Galilei, San Gregorio Barbarigo, Alessandro Manzoni, Giuseppe Ga-ribaldi solo per citarne alcuni), tutto trattato con attenzione unica. Va sicuramente ricordato il recu-pero dei volumi danneggiati dallo straripamento dell’Arno del 1966 a Firenze e contemporanea-mente dall’acqua alta a Venezia. A testimoniare l’alta professionalità del laboratorio è il recentissi-mo e significativo intervento di restauro eseguito su tredici manoscritti (del XIII-XV secolo) appar-tenenti al Fondo antico comunale di Assisi, con-servati nella biblioteca del Sacro Convento della città, tra cui la versione più antica del Cantico delle Creature, il frammento della Vita prima di Tomma-so da Celano e i fondamenti più antichi e veri del francescanesimo, come la Legenda maior e la mi-nor di Bonaventura da Bagnoregio (terminato il re-stauro, i manoscritti di Assisi sono stati esposti alla mostra “Friar Francis: traces, words and images” al Palazzo di Vetro e alla Brooklyn Borough Hall di New York).Il patrimonio librario è un documento del nostro passato ed ecco perché merita di essere tutelato e valorizzato, per tramandarne le radici della nostra storia, la testimonianza della nostra civiltà, cultura e arte.L’attenzione dei monaci amanuensi benedettini nel trasmettere il sapere continua oggi nell’operato del laboratorio dell’Abbazia di Praglia e nelle per-sone che si dedicano con passione all’affascinante arte del restauro del libro.

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E’ il momento più atteso di tutta la settimana…il giorno di allenamento. Ce lo racconta Sara, una dei due allenatori. “I ra-gazzi hanno creato un gruppo su Whatsapp. Nei giorni di allenamento si scrivono dalle 8.00 di mat-tina. Partecipo per cercare di mediare e mettere un freno a quello che altrimenti sarebbe un mes-saggio continuo”.Due volte a settimana presso la Società Vis Pa-tavium di Pontevigodarzere si allena lo Special Team. Una squadra di calcio formata da 16 ragazzi dotati di una forza d’animo fenomenale e di una passione comune per il calcio.Questi ragazzi sono in maggior parte affetti da sindrome di Down, alcuni da autismo, ma grazie all’iniziativa di alcuni genitori, alla disponibilità del-la società, all’impegno di allenatori e collaboratori possono esprimere al meglio le loro capacità nel mondo dello sport.Circa 6 anni fa l’idea di un allenatore della società, Michele... che portava suo figlio down a vedere gli allenamenti, di dare anche a lui la possibilità di praticare il suo sport preferito.Nasce così il progetto “Integrare con lo sport, contro ogni barriera”. Un progetto ambizioso e di non facile attuazione ma che ha trovato piena adesione presso la so-cietà ASD Vis Patavium grazie alla quale questi atleti possono allenarsi come una vera squadra.Ciò a cui punta questo progetto è dare la possi-bilità di svolgere uno sport in modo organizzato e continuativo, così da formare i caratteri come solo la disciplina dello sport sa fare. A pari passo con lo spirito sportivo vi è anche la volontà che queste situazioni di condivisione e di gestione in circostanze nuove possano essere per i ragazzi un’esperienza di autonomia in cui dimostrare il proprio valore.Inizialmente avevano aderito tre ragazzi ma dopo poco, grazie alla serietà e all’organizzazione del progetto, la squadra si è allargata fino ad arrivare oggi a 16 atleti di diverse età, ognuno seguito con particolare attenzione in base alle esigenze e alle caratteristiche caratteriali.Tra di loro però…nessuna differenza. Si cercano. Insieme si sentono parte di una grande famiglia. Gliela leggi negli occhi la voglia di dare il loro con-

tributo, di essere utili alla squadra, di lottare in-sieme per un obiettivo comune, di sostenere un compagno in difficoltà…perché queste sono le sensazioni che ti fa vivere lo sport. Ad ogni età. In qualsiasi condizione.Lo Special Team oltre ad allenarsi con costan-za, partecipa a molti eventi sportivi organizzati nel territorio del Triveneto tra i quali “Le Special Olympics”, competizioni a livello regionale, nazio-nale e internazionale per ragazzi con disabilità in-tellettive.Le selezioni per queste competizioni puntano mol-to sulle capacità tecniche dimostrate in campo dai ragazzi così che si possano creare delle squadre equilibrate per poter avere delle partite quanto più competitive possibili. Altro discorso invece è da fare per tornei più prestigiosi come le Olim-piadi e i mondiali. La possibilità di partecipare a queste gare lontane da casa viene valutata, oltre che dal livello tecnico, anche dall’autonomia e dal-la gestione che i ragazzi riescono ad avere senza il sostegno quotidiano della famiglia. Per tutti sono opportunità irripetibili e uniche che permettono di crescere e di avvicinarsi ad una realtà sociale che a molti di loro resterebbe sconosciuta.A fianco a queste iniziative, che hanno un impor-tante peso sportivo, lo Special Team partecipa a tornei e amichevoli nel territorio. Una tra le più ri-levanti resta quella disputata allo Stadio Appiani contro il Calcio Padova.Gli allenatori portano ancora nel cuore i sorrisi e la gioia dei loro ragazzi nell’affrontare giocatori pro-fessionisti in uno stadio vero. Perché in fondo oltre a tutti gli obiettivi posti, al percorso da seguire e alle finalità da raggiungere, questo progetto ha già fatto goal. Ha creato un gruppo di amici veri.Ve lo raccontiamo in queste foto…“… che io possa vincere ma se non ci riuscissi che io possa tentare con tutte le mie forze..”

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito: http://www.gregorense.com/special-team/

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Fotografie di Cristiano Costanzo, Enrico Gubbati, Roberto Tacchetto Testo di Angela Tacchetto

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All’interno del Museo Diocesano di Vicenza è ospi-tata una singolare ma straordinaria collezione et-nograficacostituita da circa cinque mila oggetti, generosa-mente lasciata da mons. Pietro Giacomo Nonis (1927-2014), vescovo della Diocesi vicentina. Il museo diocesano stesso è stato da lui fortemente voluto e inaugurato nel 2005 dal suo successore Cesare Nosiglia.All’interno del panorama museale italiano, questa collezione è un unicum nella sua particolarità, non aperta al singolo visitatore, ma fruibile con inizia-tive appropriate, visite guidate e percorsi didattici per i ragazzi (in particolare nel mese di settembre si svolgono dei sabati dedicati alla scoperta di questa raccolta).Mons. Nonis è sempre stato un appassionato ricer-catore e raccoglitore di reperti e forme artistiche provenienti da tutto il mondo; ha iniziato la col-lezione fin da giovanissimo, negli anni Cinquanta,

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acquistando i manufatti nei mercati all’aperto di Parigi, Roma, Londra e in luoghi diversi dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia, visitati in occasione di viaggi personali e pastorali. Molte altre opere invece gli sono state inviate da missionari e amici che abitavano nelle terre di missione, accompa-gnate da lettere e missive preziose per l’individua-zione della provenienza, dell’etnia di appartenen-za e del loro specifico uso.La raccolta nel corso di lunghi decenni non si è for-mata seguendo criteri scientifici ma piuttosto come collezione privata, definita dallo stesso mons. No-nis, “di carattere dilettantesco, non precisamente professionale, fortemente soggettiva e piuttosto onnivora”. L’intento del vescovo era proprio quel-lo di raccogliere oggetti che rappresentassero tut-te le diverse culture popolari, oggetti quotidiani, anche non esteticamente belli, ma che avessero un’importanza tipica per quella determinata cultu-ra, in particolar modo per il lavoro femminile. Tutto

Fotografie di Paola Poletto, Roberto Tacchetto Testo di Paola Poletto

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il materiale raccolto, testimone di numerose epo-che e forme culturali, prima di esser collocato nei locali del piano attico del Palazzo Vescovile, che un tempo ospitava l’archivio storico (ecco spiegata la suddivisione dello spazio in piccole stanze), era esposto un po’ alla rinfusa nel Vescovado, appeso alle pareti, appoggiato per terra, senza un ordine ben preciso. Per poter collocare al giusto posto ogni singolo pezzo è stato necessario un paziente ed enorme lavoro di individuazione del paese di provenienza, e in particolar modo della propria et-nia. Nell’allestimento di questa singolare collezio-ne etnografica si è seguita l’idea della wunderkam-mer, quel fenomeno tipico del Cinquecento, che si sviluppò per tutto il Seicento e si protrasse fino al Settecento, favorito dall’amore per le curiosità scientifiche, proprio dell’Illuminismo; lo scopo del collezionista era quello di riuscire ad impossessarsi di mirabilia, oggetti straordinari e che suscitassero meraviglia, particolari per la loro originalità ed uni-

cità, fatti con tecniche complicate o segrete e pro-venienti da ogni parte del mondo. Questo aspetto sconvolge un po’ il visitatore che per la prima volta scopre la collezione di mons. Nonis, trovandosi da-vanti ad una sovrabbondanza di opere particolari, correndo il rischio di non cogliere il significato e la particolarità di ogni singolo pezzo, ma è costretto quindi a tnare più volte per cogliere quel qualcosa che si era perso la volta precedente. Ogni visita alla collezione è una sorpresa!La collezione è suddivisa in aree geografiche, rac-colte ciascuna in una propria stanza.Interessanti e numerosi sono i manufatti, le sta-tue, le maschere appartenenti alle diverse civilità africane, in particolare provenienti dall’Africa Nera subsahariana. Attirano la curiosità del visitato-re i feticci (nkondi o nkonde, al plurale minkondi o minkisi), figure diffuse in gran parte dell’Africa centrale, nel bacino del Congo, dal potere spiri-tuale, ancora molto presenti nelle culture bakongo

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e songye. Si tratta di statue magiche trafitte da chiodi o frecce con funzione curativa, divinatoria, o propiziatoria (per esempio, per il successo nella caccia, nel commercio, in amore, ecc.) che fungono da intermediari con gli spiriti e ogni chiodo o frec-cia corrisponde ad una richiesta. Le sculture della collezione vicentina hanno forma umana e alcune presentano una nicchia all’altezza del ventre, poi-chè nella cultura congolese è il luogo del corpo che contiene lo spirito vitale, con all’interno uova e denti, elementi dotati di potere magico. Altro oggetto interessante qui esposto è la maschera dei Salampasu, un popolo di circa 60.000 individui che vive nella Repubblica Democratica del Congo, considerata particolarmente potente e spavento-sa, e la sua manipolazione, come pure la loro dan-za, sono un privilegio riservato a confraternite se-grete, accessibili solo attraverso un’iniziazione, un apprendistato o azioni straordinarie.Sempre restando nella sezione africana, caratteri-stiche sono le maschere Chiwara (o Tiwara), dei co-pricapi rituali che rappresentano un’antilope, usati dal popolo Bambara, un gruppo etnico del Mali, in associazione a danze e rituali connessi principal-mente all’agricoltura, e pertanto all’idea di fertili-tà, fecondità ed alla semina; le cerimonie chiwara si svolgono principalmente all’inizio della stagione delle piogge, dopo che i campi sono stati semina-ti, e la danza viene ballata in serata, nei campi e nei villaggi, dopo una faticosa giornata di lavoro. Altre tipologie di maschere provenienti dal Mali raccolte da mons. Nonis sono quelle dei Dogon, usate durante cerimonie e danze rituali. Alla loro cultura appartiene una mitologia particolarmente complessa, al centro della quale vi è il culto degli antenati, intimamente connesso alla celebrazione dei riti. Una delle maschere più caratteristiche dei Dogon è quella chiamata Kanaga, relativa ai miti della creazione che vengono rivelati progressiva-mente agli iniziati, usate anche nei riti funebri; tra le più caratteristiche invece è l’iminana, la Grande Maschera a forma di serpente, che può raggiunge-re i dieci metri. Ma la collezione non documenta soli aspetti della cultura africana. Sono ampiamente documentate anche testimonianze della cultura materiale delle popolazioni tribali della Thailandia nord-orientale, di tribù del Guatemala, dell’India, della Nuova Gui-nea. A differenza delle maschere africane, ancora prodotte e usate nei riti tribali, quelle provenienti dalla Melanesia, qui appese, testimoniano oggetti

rituali primitivi non più prodotti né usati da molto tempo, se non nelle esibizioni destinate all’intrat-tenimento dei turisti. In questa sezione è esposta anche una serie di statuine in roccia vulcanica, presentate come del-le Maternità dolorose, anche se in realtà non ci è dato saperlo con sicurezza poiché provengono da un luogo che non è mai stato visitato dal mons. Nonis (e chi le ha a lui cedute sosteneva prove-nissero dalle isole marchesi, nell’oceano pacifico). Sono figure accovacciate che si toccano orecchie, occhi, ventre e altre varie parti del corpo, proba-bilmente con il compito di vanificare il dolore su quel punto.Altre maschere caratteristiche sono esposte nel-la sezione indiana e sono le maschere dei Naga, una moltitudine di popolazioni tribali di razza in-do-mongolica che vive lungo il confine nord orien-tale dell’India con la Birmania (il Nagaland), carat-terizzate ciascuna da costumi, monili e perle usate come ornamenti.Infine, negli spazi dedicati all’America Latina fanno da padroni i tessuti di singolare varietà e ricchez-za, manufatti testimoni dell’esemplare laboriosità e del gusto rilevabile delle donne di quei paesi; così comegli oggetti in terracotta delle popolazioni preco-lombiane (tra i più antichi della collezione), nonchè i rari e autentici frammenti di terracotta figurata provenienti dall’isola brasiliana di Marajò.E’ ancora in fase di allestimento la sezione che ospiterà alcuni rotoli liturgici e delle croci astili e processionali copte, quasi tutte in argento, alcune risalenti al 1400, appartenenti ai cristiani che vivo-no in alcune zone del Nord Africa, in particolare in Egitto.La grande raccolta etnografica del vescovo Nonis si pone come testimone della vocazione e della creatività propria degli esseri umani, qualunque sia la loro storia e la loro collocazione geografica; creatività che rende omaggio alla bellezza, alla semplice eleganza e anche alla manifattura di og-getti-strumento tanto umili quanto utili alla sussi-stenza quotidiana.

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Fotografie e testo di Martina Pandrin

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Cecilia pratica il canottaggio, uno sport che è fatica e sudore, velocità e resistenza.E’ abbronzata, di quel colorito dorato e sano che solo il sole e l’aria aperta donano alla pelle e ha gli occhi di un grigio blu penetrante che parlano prepotente-mente di lei, timida, ma tenace.Le sue giornate sono allenamento e studio. Il sonno mattutino, che sorprendentemente affligge anche gli atleti, è sconfitto dal primo allenamento. Abitare a Venezia, in quel verdeggiante quartiere-giardino ai confini del centro storico che è S. Elena, ha il van-taggio di avere la splendida spiaggia del Lido a due passi.Canotta, calzoncini, scarpe da ginnastica dai colori fluo ed immancabili occhiali a specchio, musica alle orecchie per motivare ed isolare dal mondo ed è pronta per partire. La diga di San Nicolò come una pi-sta da corsa contornata dal mare a destra e a sinistra, il faro ad indicare la meta e il vento incessante che di volta in volta spinge o frena. Si ha l’impressione di correre in mezzo al mare, con la musica a dare il tem-po. La corsa è un allenamento che consente libertà, il pensiero è libero di vagare, nonostante l’impegno agonistico. Così capita di pensare alle avversarie di sempre, a cosa stanno facendo in quel preciso mo-mento. O capita di ripensare ad altre fasi di prepa-razione, ad altre grandi fatiche, come gli allenamenti estivi in bicicletta in montagna, quando ogni cartello stradale della salita diventa un nuovo traguardo da raggiungere e quando la fatica per arrivare a Case-ra Razzo, fra le montagne del Cadore, è così intensa che, arrivati in cima, si ha la sensazione di avere vinto una tappa del giro d’Italia e si alzano le braccia al cielo in segno di vittoria pedalando davanti ad un tra-guardo e ad un pubblico immaginari.La motivazione è la spinta che muove ogni atleta, la voglia di vincere che giustifica sacrificio e fatica. E’ uno stimolo innato, con cui si nasce e con cui si cresce e Cecilia ha questo stimolo fin dai primi approcci allo sport, quando ancora bambina, correva nei giardini di Sant’Elena e chiedeva ai piccoli amici e a sua mamma “Ma questa è una gara?”.Per lei lo sport è sempre stato una competizione, non è mai stato solo un gioco o un semplice passatempo.Dopo l’allenamento mattutino ci sono le lezioni all’u-niversità. La facoltà di Design Industriale, dopo il liceo artistico, una scelta in linea con la sua personalità, un percorso che abbraccia la creatività, ma porta verso un risultato concreto, un oggetto, la costruzione di qualcosa. Risultati al primo posto, sempre.Il viaggio in treno, le aule studio, il ritorno a Venezia e, lasciati i libri, riprende la strada del Lido per il se-condo allenamento, quello in barca.

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Vedendola prepararsi, si ha la percezione del legame molto personale ed intimo con la barca, diventata una estensione del suo corpo. Il rito comincia in remiera, dove si trova lo skiff, la barca snella e leggera usata nel canottaggio: solo pochi chilogrammi di peso, fat-ta su misura per il fisico e la potenza di chi la utilizza.L’approccio con la barca è di assoluto rispetto, come con l’amico di sempre e c’è quella visibile intimità e complicità che di solito si riserva ad un amante.Con gesti sicuri sposta dal suo supporto e appoggia in acqua la barca e quando sale a bordo, nel canale che costeggia Malamocco, le onde increspano l’ac-qua, ma come per magia, corpo e barca si muovono all’unisono, in perfetto equilibrio.L’allenamento in barca è tecnica pura, nessuna di-strazione è consentita. Avere talento non basta: le naturali doti fisiche e la tenuta mentale non sono sufficienti in uno sport come il canottaggio dove la parola chiave è sensibilità: bisogna saper far scorrere la barca sull’acqua, imprimere la forza giusta per dare armonia e continuità al movimento del remo e con-sentire lo scivolamento senza frenate. Il canottiere prova il vero appagamento quando sente che la bar-ca è fluida sull’acqua, consapevole che si tratta di una situazione assolutamente precaria: basta una distra-zione per perdere la sensibilità e rallentare la corsa.Allenarsi a Venezia, in solitaria, è molto difficile. La laguna non offre condizioni ottimali di allenamento considerato il pericoloso moto ondoso causato dai natanti che circolano. E’ necessaria sempre una asso-luta concentrazione e tanta motivazione.Gli allenamenti con la squadra al lago di Piediluco, sede del Centro Nazionale Federale di Canottag-gio ed eccellente campo di allenamento e di gara, invece, consentono il confronto con gli altri atleti e la presenza di altre barche come riferimenti da rag-giungere. Sono allenamenti di preparazione alle gare in cui si simula la competizione ed è importante poter lavorare su questo aspetto.La preparazione fisica e mentale si costruiscono gior-no dopo giorno, allenamento dopo allenamento, sa-crificio dopo sacrificio, perché la regola dello sport a livello agonistico è “No pain, no gain”.La tenacia a volte ti fa scontrare con tutti, allenato-ri compresi. Ma è necessaria per sopravvivere in un mondo così competitivo come quello dello sport a livello nazionale ed internazionale. Devi imparare ad affrontare la sconfitta e la vittoria. Lo sport, come sempre, maestro di vita: non si può imparare ad ac-cettare la sconfitta, ma si può imparare a reggere mentalmente la pressione di una sconfitta. Dopo il crollo e l’ira, c’è la reazione, ossia ancora allenamenti, ancora lavoro su obiettivi ben precisi: convocazioni

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per competizioni nazionali ed internazionali, campio-nati italiani, europei, mondiali.La vittoria, invece, è semplicemente il momento della vita, la concretizzazione di tanti sforzi e Cecilia, come ogni atleta, si nutre di vittorie.E nasce ovviamente l’esigenza di organizzare la pro-pria vita di atleta con quella di studentessa e di gio-vane donna cercando di armonizzare obiettivi diversi, ma in egual misura importanti: lo sport e lo studio, perché il canottaggio è il presente, ma dopo il canot-taggio ci dovrà essere altro, perché la vita agonistica ha un termine.Intanto le remate di susseguono e la barca fila via a filo d’acqua, anche se barchini e tope di ritorno dalle spiagge sfrecciano incuranti di produrre onde. Sem-bra davvero impossibile che rimanga in perfetto equi-librio e proceda così dritta, senza sbavature. E guar-dandola remare si capisce perfettamente il rapporto speciale che ha con la barca e con l’acqua: rema ad occhi chiusi. Il suo corpo si carica e si distende a im-porre il movimento del remo che spinge nell’acqua e nel suo viso si susseguono espressioni di sforzo e di distensione. Ma sempre la massima concentrazione e quegli occhi chiusi, come di chi è pienamente consa-pevole delle proprie capacità e conosce ogni reazio-ne della barca ad ogni suo movimento.Lo sforzo non è percepito, anche se evidentemente è sostenuto. Guardandola si avverte il controllo e la concentrazione di chi in un anno, non passa giorno senza allenarsi. Anche questo la rende una donna speciale, questa sua totale abnegazione verso il suo sport, abituata a non avere un vita sociale fin da bam-bina, circondata sempre da altri canottieri, perché è davvero molto difficile comprendere le scelte di un atleta per chi non lo è e non fa questo tipo di vita. Gli amici che sono anche i compagni di allenamento, per-sone con cui condividere questa idea che restando fermi sei inutile, perché sei stato educato a seguire il tuo inossidabile senso di responsabilità, sei stato educato al fare.Sulla laguna il sole sta per tramontare andando a na-scondersi dietro lo skyline di Porto Marghera. Con un gesto elegante e leggero Cecilia scende dalla barca e dal pontile e poi, riposto il suo skiff sul piedistallo, lo addolcisce dall’acqua salata.Ultimo gesto d’amore.

Un giornata con Cecilia Bellatispecialista del quattro di coppiaha partecipato a:18 campionati italiani (oro nel doppio nel 2012 - argento nel singolo nel 2014 -argento nel singolo under 23 nel 2015)1 campionato europeo6 campionati mondiali

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Testo di Paola PolettoRichard Mosseo l t re s c a t t o

Richard Mosse (irlandese di nascita, Kilkenny, classe 1980) vive e lavora tra New York e Berlino. Si è laureato in letteratura inglese presso il King College di Londra nel 2001, dove ha conseguito anche un diploma di spe-cializzazione in arte orafa alla Goldsmiths University nel 2005 e successivamente ha ottenuto un MFA presso la Yale School of Art nel 2008. Le tragedie che fanno da sfondo ai suoi scatti non sono affrontate direttamente, ma di riflesso, attraverso argu-te metafore concettuali. In “Airside”, Mosse studia la tragedia dei disastri aerei, fotografando la simulazione degli stessi e costruisce scene che giocano sulla dico-tomia tra realismo e finzione, per soffermarsi sul lato spettacolare e voyeuristico del disastro. Nella serie “Breach”, il conflitto in Iraq viene raccontato mediante le immagini dei palazzi imperiali di Saddam Hussein con-vertiti in alloggi temporanei per l’esercito statunitense, dove i soldati sono ritratti in atteggiamenti di riposo. In “Nomads”, Mosse si concentra sulle auto distrutte lasciate abbandonate sul campo di battaglia, cadaveri scultorei avvolti nelle tempeste di polvere del deserto che evocano l’assenza delle vittime umane. Ma è conosciuto soprattutto per il suo reportage Infra (2010-2011), una lucida e inquietante serie fotografica realizzata con la tecnica dell’infrarosso che racconta la guerra civile nella Repubblica Democratica del Congo, attraverso immagini, cariche di un rosa saturo che insce-nano una sorta di terra fantastica e irreale piuttosto che una popolazione martoriata dalla guerra civile, dai mas-sacri e dalle difficili vicende politiche, una terra priva di leggi dove vige un’anarchia assoluta e che coinvolge più di venti diversi gruppi di ribelli in costante conflitto. Nel 2013 Richard ha rappresentato l’Irlanda alla Biennale di Venezia con il film-documentario sulla vita di un gruppo di ribelli del Congo The Enclave (2012-2013), una vide-oinstallazione “immersiva “ a sei canali su una pellicola 16 mm ancora a raggi infrarossi, con il quale ha vinto il Deutsche Börse Photography Prize nel 2014. Tra il 2010 e il 2013 Richard si reca più volte in Congo per documentare la reale situazione del paese e per at-tirare l’attenzione su quanto accade laggiù. Per la realiz-zazione del suo progetto decide di utilizzare una Kodak Aerochrome, ossia una pellicola a colori falsi sensibile agli infrarossi usata per diverse discipline scientifiche ed industriali come la cartografia, l’astronomia infrarossa e scopi militari (originariamente infatti era utilizzata dai soldati della Seconda Guerra Mondiale per le foto aeree poiché permetteva loro di ricavare informazioni sulla ve-getazione e sulla composizione del suolo e di individuare i soldati nascosti con le mimetiche nelle zone di guerra). Questa particolare pellicola usata da Richard rende le di-verse sfumature del verde in viola e rosa acceso, mentre il marrone si trasforma in azzurro. La particolarità degli scatti così realizzati in Congo sta proprio nei paesaggi sbalorditivi dai colori surreali, dove la lussureggiante fo-resta tropicale congolese diventa un paesaggio onirico color magenta, porpora e rosa acceso. “Ho scelto Aero-

chrome perché pensavo che mi avrebbe fornito un’unica finestra attraverso la quale avrei potuto ispezionare il campo di battaglia del Congo orientale. Questa pellicola mi ha dato l’opportunità di pensare dal mio punto di vista di uomo bianco e di fotografare il Congo con una telecamera in legno enorme. Mi ha por-tato a valutare le regole del fotogiornalismo, quale fosse il mio compito nel rappresentare i conflitti e il come avrei voluto affrontare tutto ciò a modo mio”. L’infrarosso ha infatti la peculiarità di rendere visibile una luce altrimen-ti impossibile da percepire per l’occhio umano. Ed è proprio questo aspetto che Mosse, cerca di adottare e sfruttare nel suo reportage, rendere visibile l’invisibile: amalgamare il reportage giornalistico all’immaginazio-ne, portando l’osservatore a un livello superiore. “Non è un modo di fare la guerra tradizionale e per questo ho scelto di trattarlo in maniera diversa, perché credo che il classico stile in bianco e nero granuloso alla Robert Capa forse non sia più capace di rendere l’idea di queste tra-

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gedie. La gente non le vede più”. Richard reinterpreta la fotografia di guerra e decide di rappresentare la violen-za attraverso un nuovo modo per coinvolgere e interes-sare lo spettatore, combinando la potenzialità dell’arte nel raffigurare storie dolorose e difficili da esprimere at-traverso le parole con la capacità della fotografia di do-cumentare le tragedie e di raccontarle al mondo. Duran-te un’intervista al The British Journal of Photography ha dichiarato: “Volevo adattare questa tecnologia ad una situazione difficile, estremizzare le abituali convenzioni dei resoconti dei mass media ormai calcificati e sfida-re così il modo tradizionale col quale si rappresentano questi conflitti dimenticati. Ho voluto fare un parallelo tra questa tecnologia di ricognizione militare e il suo uso nella fotografia per riflettere sul modo in cui la fotogra-fia viene realizzata”. Il risultato ottenuto dal mescolare tutte le varie tonalità di rosso, rosa e lavanda con le im-magini di una situazione così dura e aspra di un conflitto armato è una sorta di metafora sugli eventi assurdi e sur-

reali che la guerra comporta. La dicotomia che si crea tra le svaria-te tonalità di rosa del paesaggio e la disperazione delle scene di guerra, vive, reali e violente, che si compiono in quella stessa cor-nice è destabilizzante, ma al tem-po stesso capace di imprimersi realmente nella memoria di chi guarda, di restituire una sorta di consapevolezza e aprire le menti alla riflessione su quanto accade. “E’ la tensione tra etica ed este-tica, che cerco di far pesare sullo spettatore” ha cercato di spie-gare Richard stesso, sostenendo che la bellezza è un elemento di primaria importanza perché cat-tura l’attenzione delle persone; ma se si rappresenta con la bel-lezza qualcosa che deriva dalla sofferenza umana si crea un pro-blema etico nella mente dello spettatore che viene così spinto a riflettere. “Nel lavoro congole-se” spiega Mosse, “non ho nem-meno utilizzato la bellezza ma semplicemente un colore, il rosa. La gente è così offesa dal colore rosa... è solo un colore. Onesta-mente quanto è più costruita una fotografia rosa rispetto ad una fo-tografia in bianco e nero? Robert Capa usava il bianco e nero, ma noi non vediamo in bianco e nero. Eppure ci sembra più vicino alla verità. In sostanza, si tratta di uti-lizzare veramente le potenzialità

dell’arte contemporanea, la capacità di rendere visibile ciò che è oltre il limite del linguaggio e di portarlo al limite etico e del documentario”.Per decenni la guerra moderna si è servita dell’obietti-vo dei fotografi e siamo stati portati a credere che un fotografo potesse catturare l’autentica verità di un mo-mento storico senza manipolarlo. La costruzione sceni-ca e la bellezza delle immagini di Richard diventano gli strumenti per amplificare la potenza comunicativa. Le tragedie che fanno da sfondo ai suoi scatti non sono affrontate direttamente, ma di riflesso e danno vita a fotografie che non possono essere viste con freddo di-stacco; l’estetica diventa il mezzo per recuperare l’etica, per fare parlare di una tragedia invisibile e dimenticata.

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Intervista di Michele Gregolino l t rei l f o t o g r a f o

r o b e r t o t r o n c i

Roberto Tronci nasce a Cagliari nel 1969; da anni si è specializzato in fotografia sportiva, seguendo le manifestazioni nel territorio sardo, in particolar modo il Cagliari calcio.

Che cosa vuol dire fare il fotografo in Sardegna?

Fare il fotografo in Sardegna ha un significato spe-ciale, perché vivendo in un’ isola i confini geografi-ci non ti permettono una collocazione precisa nella fotografia. La prima grande problematica è rappre-sentata dal fatto che non abbiamo dei grandi ma-estri con cui confrontarci ed imparare. Io ho avuto la fortuna di conoscere fotografi della penisola che mi hanno permesso di apprendere i fondamentali della fotografia; al contrario molti miei colleghi in Sardegna si dedicano alla fotografia di cerimonie o paesaggi grazie al fatto che abbiamo un territorio ricco di spunti a cui dedicarci in qualsiasi periodo dell’anno;io ho deciso di intraprendere da anni un settore ben preciso, la fotografia sportiva .Qual è stato il tuo inizio con la fotografia?Fin da piccolo ho avuto una macchina fotografica tra le mani e ricordo con grande entusiasmo la mia prima Kodak Istamatic, con la quale ho iniziato a sperimentare questa magnifica arte; poi negli anni successivi ho avuto modo di continuare il percorso formativo con diverse fotocamere, fintanto che nel 1991 sono riuscito a pubblicare alcune mie foto, e questo mi ha fatto entrare in una dimensione nuo-va, permettendomi di far diventare un hobby un mestiere.Già durante gli anni del liceo ero appassionato del-lo sport, in particolare del calcio e seguivo foto-graficamente il Cagliari calcio durante le partite di campionato.

Il passo che mi ha fatto entrare nel professionismo è avvenuto quasi per caso, conoscendo durante un avvenimento sportivo un giornalista di un quo-tidiano locale che mi ha chiesto di seguire per la testata l’intero avvenimento, e da lì tutto è iniziato.Una collaborazione con l’Unione, uno dei maggio-ri quotidiani sardi.Anni duri, difficili, ma estremamente interessanti che mi hanno portato piano piano a migliorarmi fotograficamente, fino ad ottenere, nel 1998, l’i-scrizione all’Albo dei giornalisti, pubblicisti.Le foto, la passione, l’interesse per questo mestie-re aumentavano e con loro anche le pubblicazioni sia sui quotidiani che sui settimanali nazionali, fino a riuscire a collaborare con la maggiore Agenzia giornalistica italiana, l’Ansa, che mi ha dato una visibilità al di fuori del mio territorio.Questa colla-borazione mi ha permesso di crescere fotografica-mente cominciando ad investire in strumentazioni per realizzare scatti sempre più interessanti.Avendo collaborato per molto tempo per un quo-tidiano sardo, e attualmente con l’agenzia Ansa

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per lo sport, come vedi l’editoria in Italia al giorno d’oggi ?Tutti noi sappiamo il momento critico che l’editoria italiana, e non solo, sta vivendo, portando anche il settore fotografia-sportiva ad un calo superiore al previsto nonostante in Italia il calcio rappresenti lo sport più seguito; io continuo a crederci e, do-menica dopo domenica, metto tutta la mia forza di volontà per poter inviare fotografie che rappre-sentino l’istante giusto, per poi vederle pubblicate nelle testate sportive perché sono convinto che l’editoria cartacea non verrà sostituita dal fiorente mercato online almeno per i prossimi anni.Perché ti sei specializzato in foto sportive viven-do in una città dove lo sport non è certo ai mas-simi livelli, tolto il calcio Cagliari che comunque quest’anno è anche retrocesso?La scelta è nata parlando con un rivenditore di ma-teriale fotografico; secondo l’opinione del nego-ziante era e sarà sempre più fondamentale avere una specializzazione in un settore ben preciso della fotografia; considerando l’ allora poco conoscenza tecnica in materia di fotografia da studio, ho de-

ciso di iniziare una attenta specializzazione nello sport che a mio parere mi sembrava più facile da attuare. Con gli anni di esperienza posso dire che la foto sportiva ha delle difficoltà, non solo tecni-che, ma oggi, con l’avvento del digitale, anche e soprattutto di gestione nell’invio delle immagini.Hai un ricordo di una tua foto che ti ha reso felice nel farla?Ricordo con piacere ed entusiasmo una mia foto apparsa in un importante giornale francese; rap-presentava un’ azione di basket fotografata con una macchina a canestro, ovvero installata dietro il vetro, e scatta con dei telecomandi a distanza, fatto importante visto che in quel periodo era una foto insolita da vedere.Un’altra foto che ricordo con emozione rappresen-ta un fatto di cronaca, quando lavoravo per l’U-nione; mi recai con un collega in un posto isolato della Sardegna, per un caso di morte bianca, una morte sul lavoro che mi raccapricciò non solo per la durezza dell’ accaduto ma perché avvenne a soli due giorni dalla festa del Natale; in quell’istante mi immedesimai nel dolore della famiglia e dei cono-

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o l t rei l f o t o g r a f o

scenti di questo povero giovane ragazzo, proprio perché avvenuta a ridosso di quella che è per an-tonomasia la festa della famiglia; lo ricordo ancor oggi nonostante siano passati diversi anni, con un pizzico di tristezza.Ed invece una foto che avresti voluto fare ma che che per molte ragioni ti è scappata?Durante la visita del santo padre Giovanni Paolo II nel 1985, venne organizzato un pool di fotografi per seguire la visita del Pontefice all’interno di una miniera; purtroppo io non fui inserito in quel pool ristretto di professionisti ma avrei voluto esserci a documentare questo importante avvenimento per me storico, prima di tutto perché sono sardo e il

lavoro delle miniere in Sardegna è un lavoro che ci accompagna dalla nascita e quindi rappresenta una realtà importante per il nostro territorio.Tu credi che ci siano delle possibilità di sviluppo nella tua terra da un punto di vista fotografico, al-meno per quanto riguarda il fotoreportage?Il territorio sardo è senza dubbio conosciuto a li-vello mondiale; molte personalità del mondo della politica, dello spettacolo e dell’arte passano o sog-giornano in diversi periodi dell’anno in Sardegna e credo che, a parte le “paparazzate”, si potrebbero raccontare storie di persone che interessano ad un mercato nazionale e internazionale della fotogra-fia. Ovviamente questo richiederebbe un investi-mento sia di tempo che economico e purtroppo le nuove generazioni di fotografi vogliono “tutto e subito”; ciò non rappresenta il modo esatto per affrontare e iniziare questa magnifica professione.Hai mai pensato di sfruttare le bellezze naturalisti-che della tua terra per poter sviluppare un proget-to, anche a lunga durata?La Sardegna è ancora caratterizzata da luoghi an-cora sconosciuti, spesso a causa della difficoltà nel raggiungere certi posti, e perché questi posti

bisogna conoscerli.Il mio progetto, in fase di attuazione, vuole racconta-re aspetti del territorio, anche attraverso la visione di immagine con il “drone”, per dare la possibilità ad eventuali persone interessate di potersi recare esat-tamente nel luogo tramite coordinate gps; insomma una specie di guida molto dettagliata di ciò che la Sardegna offre e che spesso non viene visto, poiché spesso ci ferma alle bellissime spiagge e ad un mare incantevole. Come ti vedi fra qualche anno fotogra-ficamente parlando, o per meglio dire qual è il tuo sogno nel cassetto? Ricordando i miei inizi fotogra-fici, le difficoltà nell’apprendere nozioni, nel cercare di avere informazioni da fotografi professionisti, oggi vorrei intraprendere un percorso di foto in studio, vi-sto non solo come un nuovo percorso lavorativo, ma come luogo di incontri, luogo polivalente per far co-noscere ai giovani talentuosi fotografi il mondo della fotografia, mettendo a disposizione la mia esperien-za nel settore per essere “semplicemente” racconta-ta e condivisa.

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concorsofoto grafia-

Modalità di partecipazioneLe fotografie devono essere in formato digitale e con la più alta risoluzione possibile, inviandole in formato.jpg. Possono essere a Colori, Bianco e Nero, non elaborate con programmi di fotoritocco.Non è necessario che siano inedite. Ogni fotografia dovrà essere accompagnata dal file pdf, scaricabi-le da questa pagina, “scheda di iscrizione” che ne attesti la proprietà dell’opera, compilata in tutte le sue parti.Da inviare entro e non oltre la mezzanotte del 29 giugno 2015.

Modalità di partecipazioneSi concorre inviando un solo racconto inedito in lingua italiana. La lunghezza del racconto va da un minimo di 1 ad un massimo di 3 cartelle. Per cartella si intende un testo della lunghezza di 1800 battu-te, spazi inclusi. Il racconto partecipante va inviato entro la mezzanotte del 29 giugno 2015 esclusiva-mente via mail all’indirizzo come allegato (forma-to ammessi: .doc, .docx, .odt, .rtf). Oltre al file del racconto, nella stessa mail va allegato un file con una breve biografia, di massimo 1000 battute spazi inclusi. Nell’oggetto della mail dovranno essere indicati:- nome dell’autore e titolo dell’opera Nel corpo della mail dovranno essere indicati:- generalità dell’autore (nome, cognome, data di na-scita, indirizzo, recapito telefonico, e-mail);- dichiarazione di paternità intellettuale e di autoriz-zazione al trattamento dei dati personali.

OLTRE Concorso di Foto - GRAFIADescrivi il tuo concetto di “Oltre” con un racconto o una fotografia. Continua il concorso per racconti e foto, partendo dal titolo del giornale. Segui le indi-cazioni e inviaci il tuo lavoro entro il 29 Giugno 2015!

Per partecipare al concorso invia le tue foto o il tuo romanzo, accompagnato dal file pdf a:

[email protected] entro il 29 giugno 2015

Scheda di iscrizione Scarica il file pdf da allegare al romanzoRegolamento del concorso

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La rivista in pdf può essere scaricata gratuitamente collegandosi al sito :

http://www.unpocorsofoto.blogspot.it/

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Michele GregolinDocente di fotografia Direttore Responsabile

Photo Editor: Martina PandrinResponsabile Comunicazione: Paola Poletto

Redazione: Omar Argentin, Massimo Bonutto, Andrea Collodel, Francesco Dori, Lucia Finotello, Luisella Golfetto, Enrico Gubbati, Alessandro Pagnin, Martina Pandrin, Paola Poletto, Mirka Rallo, Roberto Tacchetto, Marta Toso, Riccardo Vincenzi.

Collaboratori esterni: Francesca Belluzzo, Cristiano Costanzo, Fedele Lupis, Silvia Maniero, Claudia Pu-liero, Angela Tacchetto.

mail: [email protected]

Foto di copertina © Mirka Rallo

Impaginazione e grafica: Michele Gregolin, Martina Pandrin

“OLTRE” progetto editoriale del Corso di Fotogra-fia dell’Università Popolare di Camponogara Laboratorio Fotografia & Comunicazione

http://www.unipopcamponogara.it

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