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Quadro conoscitivo preliminare
Relazione di avvio del procedimento. Allegato “B” Inquadramento preliminare delle “Strutture idrogemorfologiche” QC
INDICE
………………………………………………………………………………. 1. INQUADRAMENTO GEOLOGICO DELLE ALPI APUANE .............................................................. 3
1.1. Le Alpi Apuane e l'Appennino Settentrionale .................................................................... 3
1.2. Il Complesso metamorfico delle Alpi Apuane .................................................................... 4
1.2.1. “Unità di Massa” ......................................................................................................... 4
1.2.2. "Autoctono" (Auct.) ..................................................................................................... 5
1.3. Evoluzione tettonica del Complesso metamorfico delle Alpi Apuane ............................... 6
1.3.1. Strutture D1 ................................................................................................................. 8
1.3.2. Strutture D2 ................................................................................................................. 9
1.3.3. Relazioni tra metamorfismo e deformazione ........................................................... 10
1.3.4. Età della deformazione ............................................................................................. 10
2. VARIETA' MERCEOLOGICHE DEI MARMI DELLE ALPI APUANE ................................................ 12
2.1. Origine dei marmi ............................................................................................................. 12
2.2. Storia di deformazione dei marmi .................................................................................... 12
2.3. Origine delle varietà merceologiche ................................................................................ 13
3. GEOLOGIA E TETTONICA DELLA SINCLINALE DEL MONTE ALTISSIMO .................................... 16
3.1. Aspetti geomorfologici e morfotettonica......................................................................... 18
3.2. La tettonica fragile: fratture e faglie, finimenti e "secondi" ............................................ 19
4. PIANI DI SETTORE ................................................................................................................ 21
4.1. P.A.I. Serchio .................................................................................................................... 21
4.1.1. Pericolosità geomorfologica ...................................................................................... 21
4.1.2. Pericolosità idraulica ................................................................................................. 27
4.1.3. Reticolo idraulico e idrografico ................................................................................. 27
4.2. Piano di gestione delle acque del fiume Serchio ............................................................. 30
4.3. P.A.I. Toscana nord ........................................................................................................... 36
4.3.1. Pericolosità geomorfologica ...................................................................................... 38
4.3.2. Pericolosità idraulica ................................................................................................. 42
4.3.3. Reticolo idraulico e idrografico ................................................................................. 42
4.4. Piano di gestione delle acque del bacino Appennino Settentrionale .............................. 44
4.5. Piano di gestione del rischio alluvioni (P.G.R.A.) .............................................................. 45
……………………………………………………………………………….
P.A.B.E. DELLE ALPI APUANE – SCHEDE 12 e 10 Tacca Bianca, Mossa, Monte Altissimo est – Monte Pelato, Retro Altissimo, Canale delle Gobbie ...............................................................................................
........................................... 3 ........................................... All. B - Inquadramento preliminare delle strutture idrogeomorfologiche
1. INQUADRAMENTO GEOLOGICO DELLE ALPI APUANE (Estratto da: Carmignani L. (ed.), 2007 - Relazione Finale per la Carta Giacimentologica dei Marmi delle Alpi Apuane a scala 1:10000 e sua informatizzazione, Convenzione Regione Toscana – Università di Siena, p. 105. San Giovanni Valdarno, Marzo 2007).
1.1. Le Alpi Apuane e l'Appennino Settentrionale L'Appennino settentrionale è una catena a thrust e pieghe formatasi durante il Terziario in conseguenza dell'accavallamento da W verso E delle Unità liguri sui domini esterni toscani e umbro‐marchigiani (fig. 1).
Fig. 1 ‐ Schema tettonico dell'Appennino settentrionale e sezione schematica interpretativa.
Le Unità Liguri, caratterizzate dalla presenza di rocce ofiolitiche e dai sovrastanti sedimenti di mare profondo, rappresentano parte dell'Oceano ligure‐piemontese (o Tetide Alpina), i domini esterni toscani e umbro‐marchigiani costituiscono il margine continentale della microplacca Apula e sono formati da un basamento ercinico e dalla sovrastante copertura Mesozoico‐Terziaria.
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Nell'Oligocene superiore il movimento verso E (rispetto alle coordinate attuali) del Microcontinente brianzonese (in origine appartenente alla Placca europea) determina la sua collisione con il Margine apulo e l'individuazione di un piano di subduzione immergente verso W. Durante l'Oligocene‐Miocene la strutturazione dell'Appennino settentrionale avviene quindi in conseguenza della subduzione della litosfera apula al di sotto del Blocco sardo‐corso. Successivamente, l'arretramento flessurale dello slab in subduzione determina lo sviluppo di bacini di retroarco e la formazione di crosta oceanica nel Bacino algero‐provenzale, prima, e nel Tirreno dopo, contemporaneamente alla migrazione verso E della zona di subduzione e della zona di collisione e deformazione. Le unità che compongono l'Appennino settentrionale hanno subito quindi una complessa evoluzione tettonica nella quale, ad una prima fase di deformazione e metamorfismo, inquadrabile all'interno di un contesto geodinamico di tipo collisionale, segue una seconda fase deformativa che si esplica prevalentemente attraverso lo sviluppo di zone di taglio a basso angolo e faglie normali collegate ad un regime tettonico di tipo distensivo e che determinano sollevamento ed esumazione delle unità strutturali più profonde.
1.2. Il Complesso metamorfico delle Alpi Apuane Il Complesso metamorfico delle Alpi Apuane costituisce uno dei livelli strutturali più profondi (Unità metamorfiche toscane) affioranti nelle porzioni interne dell'Appennino settentrionale e per questo rappresenta un'area chiave per la comprensione dei meccanismi e processi geodinamici che hanno portato alla formazione della catena stessa. In particolare all'interno della finestra tettonica della regione apuana è possibile distinguere due unità tettono‐metamorfiche sovrapposte: l'"Autoctono" auct., in posizione geometricamente inferiore, e la sovrastante Unità di Massa, la quale affiora esclusivamente nella porzione occidentale della finestra tettonica (fig. 1). All'interno delle sequenze metasedimentarie che caratterizzano le due Unità sono presenti, a differenti livelli stratigrafici marmi, metabrecce marmoree e calcescisti dai quali viene estratta la vasta gamma di pietre ornamentali di questa regione.
1.2.1. “Unità di Massa” L'Unità di Massa è caratterizzata da un Basamento paleozoico sul quale poggia in discordanza una spessa sequenza sedimentaria triassica, caratterizzata dalla presenza di metavulcaniti basiche del Trias medio (fig. 5). Le rocce della copertura mesozoica sono costituite da metaconglomerati quarzosi, granulo‐sostenuti, associati a metarenarie, metasiltiti e filladi nere interpretabili come depositi silicoclastici continentali e/o costieri (Conglomerati basali e Filladi nere e quarziti). Verso l'alto seguono livelli di rocce prevalentemente carbonatiche (marmi, metabrecce, calcescisti e filladi carbonatiche: Formazione dei Marmi a crinoidi) derivate da depositi carbonatici di piattaforma ristretta e da successivi depositi neritico‐pelagici con intercalazioni di metabasiti alcaline (Prasiniti e scisti verdi). Quest'ultime testimoniano un vulcanismo basico interplacca legato al rifting medio‐triassico. La successione si chiude con livelli di metaconglomerati a prevalenti clasti di quarzo, quarziti e filladi di origine continentale‐litorale (Filladi sericitiche ed Anageniti). La successione è caratterizzata da un metamorfismo alpino con paragenesi di facies scisti verdi di alta pressione (cianite+cloritoide+fengite), mentre le rocce del basamento paleozoico sono interessate anche da deformazioni e metamorfismo pre‐alpino in facies scisti verdi. Le condizione di pressione e temperatura durante il metamorfismo alpino sono stimate tra 0.6‐0.8 GPa e 420‐500 °C (FRANCESCHELLI M. et alii, 1986; JOLIVET L. et alii, 1998; FRANCESCHELLI M. &
MEMMI I., 1999; MOLLI G. et alii, 2000).
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........................................... 5 ........................................... All. B - Inquadramento preliminare delle strutture idrogeomorfologiche
Fig. 5 ‐ Colonna litostratigrafica dell'Unità di Massa. Basamento ercinico (BAS); Metaconglomerati basali (MGC); Filladi nere e quarziti (FNE); Marmi a Crinoidi e metabrecce a elementi marmorei (MNI); Prasiniti (PRA); Filladi sericitiche ed Anageniti (SRC).
1.2.2. "Autoctono" (Auct.) La successione dell'"Autoctono" Auct. è costituita da un Basamento paleozoico sul quale poggia in discordanza una successione metasedimentaria del Trias sup.‐Oligocene (fig. 3). Le rocce del Basamento paleozoico sono del tutto correlabili con quelle presenti nel basamento dell'Unità di Massa e, analogamente a queste, registrano una deformazione e metamorfismo in facies scisti verdi legato all'Orogenesi ercinica. Le rocce della copertura mesozoica sono rappresentate da metaconglomerati poligenici, metarenarie calcaree e dolomie silicoclastiche con intercalazioni di metabrecce riferibili ad un ambiente deposizionale di tipo transizionale, da continentale a marino costiero (Formazione di Vinca), seguiti dalle dolomie della piattaforma carbonatica tardo‐triassica dei Grezzoni. Verso l'alto seguono i metacalcari micritici fossiliferi dei Calcari e marne di Colonnata (membro della formazione dei Grezzoni) e i marmi più o meno muscovitici della Formazione dei Marmi a Megalodonti, intercalati a metabrecce poligeniche (Brecce di Seravezza) e Scisti a cloritoide. Le metabrecce poligeniche e i livelli di scisti a cloritoide testimoniano episodi d'emersione della piattaforma carbonatica con formazione di livelli lateritico‐bauxitici e deposizione di debris flow ai piedi di scarpate attive di origine tettonica.
Figura 6 Colonna litostratigrafica dell'"Autoctono" Auct.. Filladi Inferiori (FAF) con intercalazioni di metavulcaniti basiche (FAFa); Porfiroidi e scisti porfirici (PRS); Quarziti e filladi superiori (MRQ); Dolomie ad Orthoceras (OTH) con livelli a predominanti filladi grafitiche nere e quarziti scure (OTHa), dolomie cristalline grigio scure (OTHb) e metacalcari rossi nodulari (OTHc); Calcescisti e dolomie scistose (LCS); Formazione di Vinca: filladi e
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metaconglomerati (VINa), dolomie (VINb), marmi (VINc). Grezzoni (GRE), con livelli di dolomie brecciate (GREa) e marmi neri ("Nero di Colonnata") (GREb); Marmi a Megalodonti (MMG); Brecce di Seravezza (BSE) con livelli di filladi a cloritoide (BSEa); Marmi dolomitici (MDD); Marmi (MAA); Marmo Zebrino (MRZ) con livelli di marmi a muscovite e calcescisti (MRZa); Formazione di Arnetola (FAN); Calcari Selciferi (CLF); Calcescisti (CCI); Diaspri (DSD); Calcari Selciferi a Entrochi (ENT); Scisti sericitici (SSR); Cipollini (MCP); Pseudomacigno (PSM).
Marmi più o meno dolomitizzati, dolomie cristalline, marmi e metabrecce monogeniche caratterizzano le sovrastanti formazioni dei Marmi Dolomitici e dei Marmi, le quali rappresentano lo sviluppo di una nuova piattaforma carbonatica successiva quella tardo‐triassica dei Grezzoni. verso l'alto seguono marmi rosati, metacalcari con selci, calcescisti e quarziti (Marmo Zerbino, Calcari Selciferi, Calcescisti e Diaspri) riferibili alle fasi di annegamento della piattaforma carbonatica dei marmi e impostazione di una sedimentazione di tipo emipelagico. In analogia con la successione della Falda toscana (FAZZUOLI M., 1980), possibili sfasamenti cronologici tra i diversi blocchi subsidenti determinano l'istaurarsi di ambienti deposizionali molto diversificati, con successioni lacunose e/o condensate testimoniate dalla presenza di metabrecce poligeniche in prevalente matrice filladica (Formazione di Arnetola). Chiudono la successione metacalcari con liste e noduli di selce, calcescisti, filladi sericitiche e metarenarie quarzo‐feldspatiche (Calcari Selciferi a Entrochi, Cipollini, Scisti sericitici e Pseudomacigno) riferibili a depositi pelagici e di avanfossa precedenti la strutturazione dell'area apuana all'interno della catena appenninica. Il metamorfismo alpino nell'"Autoctono" Auct. è caratterizzato da paragenesi metamorfiche tipiche delle zone a clorite e biotite della facies scisti verdi (GIGLIA G. & RADICATI DI BROZOLO F., 1970; CARMIGNANI L. et alii, 1978) o, basandosi sui silicati di alluminio, della zona a pirofillite + quarzo (FRANCESCHELLI M. et alii, 1986). Le temperature massime sono tra 350‐450 °C e le pressioni di picco del metamorfismo sono comprese tra 0,4‐0,6 GPa (DI PISA G. et alii, 1985; FRANCESCHELLI L. et alii, 1997; MOLLI G. et alii, 2000). Condizioni termiche analoghe sono proposte da JOLIVET L. et alii (1998), accompagnate però da condizioni di pressione di circa 0,8 GPa.
1.3. Evoluzione tettonica del Complesso metamorfico delle Alpi Apuane Le geometrie di deformazione che caratterizzano il Complesso metamorfico delle Alpi Apuane sono il risultato di due principali eventi tettono‐metamorfici (Fasi D1 e D2 di CARMIGNANI &
KLIGFIELD (1990), inquadrabili all'interno di una storia di deformazione progressiva sviluppatasi attraverso gli stadi collisionali e post‐collisionali che hanno caratterizzato l'evoluzione tettonica delle porzioni interne dell'Appennnino Settetrionale. Durante l'evento D1 si ha la messa in posto delle unità tettoniche più superficiali non metamorfiche (Unità liguri s.l. e Falda Toscana), accomapagnata dalla deformazione, underthrusting e iniziale esumazione delle unità tettoniche più profonde. Nella fase D2 le precedenti strutture vengono deformate da differenti generazioni di pieghe alle quali sono associate localizzate zone di taglio ad alta deformazione. Queste strutture determinano sia il progressivo unroofing delle unità metamorfiche che il completamento dei processi di esumazione delle stesse verso livelli strutturali più superficiali. Mentre esiste un sostanziale accordo tra i ricercatori appartenenti a differenti scuole circa il quadro geologico regionale entro cui si colloca il Complesso metamorfico delle Alpi Apuane, differenti e spesso contrastanti opinioni persistono riguardo il significato da attribuire ad alcune strutture presenti all'interno dell'"Autoctono" Auct.. In particolare negli ultimi anni il dibattito si è focalizzato sui possibili meccanismi di esumazione e il loro contesto geodinamico (CARMIGNANI
L. & GIGLIA G., 1977; CARMIGNANI L. et alii, 1978; CARMIGNANI L. & GIGLIA G., 1979; CARMIGNANI L. &
KLIGFIELD R., 1990; JOLIVET L. et alii, 1998; MOLLI G. et alii, 2000; MOLLI G. & VASELLI L., 2006).
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Secondo i primi lavori di geologia strutturale della fine degli anni '70 (CARMIGNANI L. & GIGLIA G., 1977; CARMIGNANI L. et alii, 1978) le pieghe D2 si formano successivamente all'impilamento delle diverse unità tettoniche dell'Appennino Settentrionale in un regime tettonico di tipo compressivo. In particolare esse si sviluppano come risultato del collasso del cuneo orogenetico in risposta all'overthrusting su superfici di rampa profonde e dell'interferenza ad alto angolo tra due sistemi di pieghe. CARMIGNANI L. & GIGLIA G. (1979, 1983) interpretano le strutture D2 come reverse drag fold che si sovrappongono a pieghe fortemente non‐cilindriche (sheath fold ) D1 durante le fasi di riequilibrio isostatico della crosta ispessita. Negli anni novanta CARMIGNANI L. & KLIGFIELD R. (1990) interpretano le Alpi Apuane come una struttura regionale tipo core‐complex , da inserire in un quadro geodinamico di estensione crostale post‐collisionale (fig. 7). In tale contesto la strutturazione delle pieghe D2 avviene all'interno di sistemi coniugati di zone di taglio dirette che accomodano la distensione crostale. Questo schema è presente anche in successivi lavori (CARMIGNANI L. et alii, 1994; CARMIGNANI L. et alii, 2001) ed è stato di recente leggermente modificato (CARMIGNANI L. et alii, 2004) prospettando l'esistenza di una zona di taglio orientata NE‐SW che accomoda il movimento differenziale delle principali faglie dirette poste alla periferia orientale ed occidentale del complesso metamorfico. Secondo JOLIVET L. et alii (1998) le strutture D2 sono ancora da riferirsi ad un contesto tettonico di tipo compressivo dove l'impilamento delle unità tettoniche, secondo una direzione di trasporto orientata in generale verso Est, determina lo sviluppo di zone di taglio antitetiche immergenti verso Ovest (strutture tipo "domino"). Infine, Molli G. & Vaselli L. (2006), interpretando le Alpi Apuane come una " pop‐up structure " connessa a livelli di scollamento crostali profondi, evidenziano come il raccorciamento verticale di un duomo, conseguente al progressivo underplating crostale all'interno del prisma di accrezione, sia in grado di generare pieghe di collasso analoghe a quelle osservate nell'Autoctono Auct..
Figura 7 Schema dell'evoluzione tettonica delle Alpi Apuane, da CARMIGNANI L. & KLIGFIELD R. (1990), modificato. (a)
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geometria pre‐collisionale con le tracce restaurate dei principali accavallementi. (b) Sviluppo del "duplex" apuano (oligocene inferiore). (c) Sviluppo di "antiformal stack" nel Complesso metamorfico delle Alpi Apuane e possibile inizio della tettonica distensiva (Miocene inferiore). (d) Individuazione del "core complex" apuano. Il thrust di base della Falda toscana è riattivato come faglia normale, esso separa settori estesi principalmente mediante faglie listriche e rotazione di blicchi (Falda toscana e Unità liguri) da settori estesi mediante zone di taglio duttile sin‐metamorfiche (Unità di Massa e "Autoctono" Auct.) (Miocene medio‐superiore). (e) esposizione delle metamorfiti per denudazione e sollevamento connessi con ulteriore assottigliamento crostale (Pliocene‐Pleistocene). UM=Unità di Massa, AU="Autoctono" Auct..
1.3.1. Strutture D1 Un'evidente anisotropia planare caratterizza la maggior parte delle rocce del Complesso metamorfico delle Alpi Apuane e rappresenta la foliazione metamorfica principale legata alla fase deformativa D1. Questa foliazione metamorfica risulta essere di piano assiale di pieghe isoclinali fortemente non cilindriche ( sheath fold ), di dimensioni da millimetriche a plurichilometriche, ed è associata ad una lineazione di estensione (L1) interpretata come la principale direzione di trasporto delle unità tettoniche dell'Appennino Settentrionale. Il rovesciamento verso E delle strutture plicative D1, le relazioni angolari tra la foliazione principale e i contatti tettonici di primo ordine, così come la lineazione di estensione L1 costantemente orientata SW‐NE, sono in accordo con il senso di trasporto, da SW verso NE delle varie unità tettoniche. Nell'"Autoctono" Auct. le principale strutture plicative osservabili alla scala dell'intera finestra tettonica (fig. 8) sono, da W verso E: la Sinclinale di Carrara, l'Anticlinale di Vinca‐Forno, la Sinclinale di Orto di Donna ‐ M. Altissimo ‐ M. Corchia e l'Anticlinale di M. Tambura.
Fig. 8 ‐ Schema tettonico delle Alpi Apuane.
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Le due principali antiformi‐anticlinali hanno al proprio nucleo rocce del Basamento paleozoico, mentre le sinclinali presentano al nucleo i termini più giovani della successione metasedimentaria (Scisti Sericitici e Pseudomacigno). Le geometrie di deformazione, la distribuzione dello strain all'interno delle diverse rocce che compongono il Complesso metamorfico delle Alpi Apuane e i dati cinematici disponibili permettono di interpretare la storia deformativa D1 come il risultato di due principali fasi:
Fase di piegamento principale (D1a): sviluppo di pieghe isoclinali coricate di dimensioni chilometriche associate ad una foliazione di piano assiale penetrativa.
Fase di accavallamento e iniziale esumazione (antiformal stack phase, D1b): amplificazione e piegamento delle precedenti strutture D1a e sviluppo di zone di taglio, con senso di movimento "top‐to‐the‐NE", legate ad accavallamenti interni al prisma di accrezione e underplating crostale di elementi strutturali profondi.
1.3.2. Strutture D2 L'evento deformativo D2 è caratterizzato dallo sviluppo di pieghe da aperte a chiuse, di dimensioni da centimetriche a pluriettometriche, variamente non cilindriche ed associate ad un clivaggio di crenulazione di piano assiale generalmente suborizzontale. La variabilità di morfologie ed orientazioni di queste strutture è funzione del contrasto di competenza e posizione strutturale all'interno del multylayer creato dalla tettonica a pieghe isoclinali e delle relazioni spaziali rispetto alle principali strutture D1. In accordo con le classiche interpretazioni (CARMIGNANI L. et alii, 1978; CARMIGNANI L. & GIGLIA G., 1979; CARMIGNANI L. & KLIGFIELD R., 1990); le pieghe D2 deformano i fianchi di una complessa mega‐antiforme di scistosità (con orientazione all'incirca appenninica, N 130° ‐ 170° E) di dimensione pari a quella dell'intera finestra tettonica delle Alpi Apuane e mostrano tipicamente un senso di rovesciamento verso E e verso W, rispettivamente, lungo i fianchi orientali ed occidentali dell'antiforme stessa. Queste pieghe sono legate all'attività delle faglie bordiere del nucleo metamorfico (fig. 9).
Fig. 9 ‐ Schema tettonico dell'Appennino settentrionale; sono evidenziati i principali lineamenti e strutture legate
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all'evoluzione quaternaria dell'area. Da CARMIGNANI L. et alii, 2004.
Gli stadi finali dell'evento D2 sono caratterizzati dallo sviluppo di strutture da semi‐fragili a fragili rappresentate da pieghe aperte o tipo kink con piano assiale sub‐verticale e da faglie dirette a basso e alto angolo. In particolare, in base ad analisi meso e microstrutturali (MOLLI G. & MECCHERI M., 2000; OTTRIA
G. & MOLLI L., 2000) è possibile osservare come le principali strutture fragili presenti nel Complesso metamorfico delle Alpi Apuane siano il risultato di storia deformativa polifasica nella quale, ad un primo stadio caratterizzato dall'interferenza tra sistemi di faglie stike‐slip e normali, segue un secondo in cui predominano faglie dirette orientate all'incirca NW‐SE.
1.3.3. Relazioni tra metamorfismo e deformazione Nel Complesso metamorfico delle Alpi Apuane la presenza in rocce idonee di minerali indice (es: cloritoide e cianite) permette di studiare le relazioni temporali tra la crescita dei minerali metamorfici e lo sviluppo delle principali strutture deformative. Nell'Unità di Massa il cloritoide è osservato crescere in maniera sin‐cinematica allo sviluppo della foliazione principale, mentre solo alcuni campioni suggeriscono la sua crescita durante gli stadi iniziali di nucleazione del clivaggio di crenulazione tardivo. Inoltre crescite post‐cinematiche di cloritoide sulla foliazione tardiva non sono mai state descritte. La cianite è stata osservata sulla foliazione principale dove risulta anche essere inclusa in cristalli di cloritoide. Perciò può essere supposta anche la crescita di cianite sin dai primi stadi di formazione della foliazione principale. Nell'Autoctono Auct. il cloritoide in associazione con pirofillite (FRANCESCHELLI M. et alii, 1997) può essere osservata in relazioni sin‐ e post‐ cinematiche rispetto alla foliazione principale. Nei livelli strutturali più elevati (es: Campo Cecina) il cloritoide in genere pre‐data il clivaggio di crenulazione, mentre nei livelli geometricamente più profondi (es: valle di Forno) esso mostra chiare relazioni sin‐ e post‐cinematiche rispetto alla foliazione tardiva. Questa situazione testimonia come in differenti posizioni geometriche all'interno della stessa unità tettonica sia possibile osservare una diversa storia termica.
1.3.4. Età della deformazione Nelle Alpi Apuane le rocce più giovani coinvolte nei processi deformativi e metamorfici alpini sono rappresentate dalle metarenarie dello Pseudomacigno. Queste rocce sono alternate, nella parte inferiore, a calcareniti caratterizzate da un'associazione a Lepidocycline dell'Oligocene superiore (DALLAN NARDI L., 1976). I dati radiometrici disponibili (K‐Ar e Ar‐Ar) forniscono età comprese tra i 27 e i 20 Ma per le prime fasi deformative D1, mentre, gli stadi precoci della deformazione D2 si sviluppano a temperature superiori ai 250 °C tra gli 11 e 8 Ma (KLIGFIELD R. et alii, 1986; MOLLI G. et alii, 2002). La storia più recente di esumazione del Complesso metamorfico apuano è data dalle tracce di fissione in zirconi (ZFT) e apatite (AFT) e dalle analisi (U‐Th)/He (ZHe) sui minerali stessi (ABBATE E. et alii, 1994; BALESTRIERI M.L. et alii, 2003). Questi dati indicano l'intersezione con l'isograda di 70 °C tra i 5 e i 2 Ma ad una profondità stimabile, in base al gradiente geotermico supposto, ad una profondità di 4‐5 km (fig. 10). Da 2 Ma all'attuale, le Alpi Apuane e le aree circostanti dell'Appennino settentrionale sono oggetto della fase morfogenetica più significativa, caratterizzata da movimenti verticali di importanza regionale che, nella sua articolazione dinamica spazio‐temporale, sono registrati nei record sedimentari dei bacini della Lunigiana, della Garfagnana e della Versilia (BARTOLINI C., 2003; ARGNANI A. et alii, 2003; PERILLI N. et alii, 2005) e nei sistemi carsici apuani (PICCINI L., 1994) dove sono stati recentemente datati speleotemi più vecchi di circa 1 Ma (Zanchetta G. et alii, 2005).
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Fig. 10 ‐ P‐T‐t path nel Complesso metamorfico delle Alpi Apuane. Il percorso per l'Unità di Massa è riportato in grigio, mentre per l'Autoctono Auct. è indicato in nero. Da: MOLLI G. & VASELLI L., 2006; KLIGFIELD R. et alii, 1986; ABBATE E. et alii, 1994; MOLLI G. et alii, 2000; MOLLI G. et alii, 2002; BALESTRIERI M.L. et alii, 2003.
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2. VARIETA' MERCEOLOGICHE DEI MARMI DELLE ALPI APUANE (Estratto da: Carmignani L., Conti P., Fantozzi P., Mancini S., Massa G., Molli G., Vaselli L., 2007 - I Marmi delle Alpi Apuane, Geoitalia, 21, 19-31). La prima rappresentazione moderna dell’attività estrattiva dei marmi delle Alpi Apuane è una carta manoscritta (scala 1/25.000) dell’area di Carrara di D. Zaccagna databile, in base al contenuto e allo stile del disegno, tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo. Solamente verso la metà degli anni ’70, nell’ambito del “Progetto Marmi” promosso dall’ERTAG (Ente Regionale Toscano Assistenza Tecnica e Gestionale), vengono per la prima volta distinti cartograficamente i diversi materiali lapidei presenti all’interno del bacino marmifero apuano. La sintesi di questi studi è riportata nella Carta Geologico‐Strutturale del Complesso Metamorfico delle Alpi Apuane (Foglio Nord, Carmignani, 1985) e nel catalogo delle varietà merceologiche dei marmi apuani (ERTAG, 1980). Successivamente carte di dettaglio sono state realizzate per I bacini marmiferi nord‐orientali di Orto di Donna (Minucciano) e di Boana, per il bacino di Carrara e per quello centro‐orientale del Monte Altissimo (soprattutto a di M. Meccheri e M. Coli). In queste carte le diverse varietà merceologiche vengono descritte e cartografate seguendo criteri geologico‐stratigrafici, ovvero, le differenti tipologie di marmo sono interpretate come variazioni litostratigrafiche primarie collegate a differenti ambienti deposizionali presenti all’interno della piattaforma carbonatica giurassica. I caratteri litologici, mineralogici e stratigrafici delle varietà merceologiche sono quindi considerati non solo a scopo classificativo, ma anche al fine di definire una successione stratigrafica delle stesse. Questo approccio, se pur in linea di principio corretto, mostra nel caso dei marmi apuani dei limiti di applicabilità a causa dei seguenti fattori:
2.1. Origine dei marmi La maggior parte dei materiali lapidei estratti nelle Alpi Apuane, eccezione fatta per alcuni tipi di metabrecce e calcescisti (es: varietà Brecce di Seravezza e Cipollini), derivano da sedimenti di piattaforma carbonatica che caratterizzavano nel Lias inf. il Dominio toscano. Tale assetto geologico‐stratigrafico contraddistingue ad esempio il bacino marmifero di Carrara dove tutte le varietà merceologiche estratte (es: varietà Ordinario, Statuario, Venato, Arabescato ecc) provengono dalla formazione dei Marmi (Lias inf.). In altri bacini marmiferi (es. M. Corchia, Forno, Arni, Arnetola, Orto di Donna ecc) invece sono estratti materiali lapidei, non solo dalla formazione dei Marmi ma anche da formazioni ad essa sopra o sottostanti (formazioni dei Marmi a Megalodonti, dei Marmi dolomitici, Formazione di Arnetola). Quest’ultimi mostrando in molti casi caratteristiche litologiche (es: litotipo, colori, ecc.) del tutto simili a quelli presenti nella formazione dei Marmi, vengono identificati nel commercio con lo stesso nome merceologico, prescindendo quindi dal significato geologico – stratigrafico.
2.2. Storia di deformazione dei marmi I marmi apuani nel corso della loro evoluzione tettono‐metamorfica sono stati sottoposti a processi di ricristalizzazione che hanno obliterato gran parte degli originali caratteri sedimentari del protolite. Inoltre essi, in conseguenza dei due principali eventi deformativi D1 e D2, sono caratterizzati da complesse geometrie di deformazione associate a fenomeni di trasposizione dell’originario layering sedimentario, zone a deformazione localizzata e strutture di interferenza tra diversi sistemi di pieghe. A tali assetti geologico‐strutturali possono essere collegate, in alcuni casi, le principali caratteristiche del materiale estratto (es: varietà
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Fantastico, venato, nuvolato).
2.3. Origine delle varietà merceologiche Le varietà merceologiche riconosciute nascono in risposta all’esigenza di identificare le diverse tipologie di marmo immesse sul mercato. I termini utilizzati oggi (es. varietà arabescato, calacatta ecc.) trovano origine nella secolare storia di estrazione e commercio di questi materiali e sono stati codificati indipendentemente da una loro connotazione geologico – stratigrafica. Allo scopo di definire una legenda delle varietà merceologiche di marmo utilizzabile a scala dell’intero bacino marmifero apuano, noi consideriamo una varietà merceologica come una “unità litostratigrafica informale” che rappresenta un corpo roccioso distinguibile e separabile da quelli adiacenti in funzione di una generale omogeneità litologica e anche per la presenza di altri caratteri peculiari, quali per esempio la loro utilità o interesse economico. Una varietà merceologica di marmo può essere quindi completamente descritta e separata da quelle adiacenti in base a caratteri che sono, da un lato, strettamente litologici (es: metacalcare, metabreccia, calcescisto, ecc.), dall’altro propriamente “commerciali‐estetici” (es: colore e disegno), a prescindere dal suo significato stratigrafico. Questo ha come diretta conseguenza che la stessa tipologia di marmo può essere riconosciuta e cartografata in differenti posizioni stratigrafiche all’interno della successione metamorfica apuana. I caratteri litologici presi in considerazione per definire le varietà merceologiche sono frutto di osservazioni a scala dell’affioramento e analisi al microscopio ottico e riguardano: a. il litotipo predominante (es: marmo, marmo impuro, metabreccia mono ‐ o poligenica,
calcescisto etc.); b. la struttura della roccia (es: roccia omogenea o anisotropa); c. la dimensione media dei cristalli di calcite (grana fine < 150 µ m, grana media 150‐350 µm,
grana grossa > 350 µm); d. la composizione mineralogica; e. nel caso di metabrecce, il rapporto tra clasti e matrice (tessiture casto sostenute o matrice
sostenute). I parametri estetici presi in considerazione sono invece rappresentati dal colore e dal disegno. Il colore risulta spesso un fattore discriminante e, nei marmi, è in genere dovuto alla presenza di microcristalli di ematite (colorazione dal rosa al rosso vivo), ossidi di manganese (dal rosso scuro al viola), idrossidi di ferro (dall’arancione al giallo), clorite (toni del verde) ecc., omogeneamente diffusi all’interno della roccia o concentrati nella matrice. Il disegno è definito dalla dimensione, forma, orientazione e disposizione relativa degli elementi che sostituiscono il materiale (es: forma dei clasti di una metabreccia, disposizione spaziale delle venature). In base ai criteri sopra esposti sono 14 le unità litostratigrafiche informali che rappresentano le diverse varietà merceologiche presenti all’interno del bacino marmifero delle Alpi Apuane (tab. 1). Le 14 varietà merceologiche sono state suddivise, in base alle loro caratteristiche generali, in 5 gruppi: marmi bianchi, marmi grigi e venati, marmi brecciati, marmi cipollini e marmi storici.
TIPO DI MARMO VARIETÀ MERCEOLOGICA
BIANCHI
ORDINARIO
STATUARIO
BIANCO
GRIGI E VENATI
GRIGIO
VENATO
ZEBRINO
BRECCIATI ARABESCATO
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CALACATTA
BRECCIA ROSSA
FANTASTICO
CIPOLLINI CIPOLLINO
STORICI
BRECCIA DI SERAVEZZA
ROSSO RUBINO
NERO DI COLONNATA
Tab. 2 – Tipi di marmo e varietà merceologiche dei marmi delle Alpi Apuane. I nomi utilizzati per individuare le varietà merceologiche derivano dai termini comunemente adoperati nel commercio.
MARMI BIANCHI. Con il termine marmi bianchi s’intendono tutti quei litotipi marmorei di composizione estremamente omogenea e colori molto uniformi che variano dal bianco al bianco avorio, dal bianco perlaceo al grigio chiaro. - Ordinario. Si tratta di marmi a grana media, di colore da bianco perlaceo a grigio chiaro in
genere piuttosto uniforme o variamente punteggiato da macchie grigie di dimensioni centimetriche dai limiti sfumati, dovute a presenza di pirite microcristallina. Raramente si osservano irregolari trame di vene di colore grigio chiaro o scuro.
- Statuario. Marmi a grana grossa, di colore bianco‐avorio, a volte tendente al giallo‐beige molto chiaro, e generalmente assai uniforme. Queste colorazioni sono date da tracce di muscovite microcristallina omogeneamente distribuita nella prevalente matrice carbonatica. Localmente sono presenti macchie grigie, dovute a deboli concentrazioni di pirite e fillosilicati, che si possono organizzare in sottili vene anastomizzate.
- Bianco. Marmi a grana fine o media, estremamente omogenei e di colore dal bianco puro al bianco perlaceo. Risultano privi di qualsiasi ornamentazione e solo localmente presentano macchie scure isorientate o piccole vene di calcite.
MARMI GRIGI E VENATI. A questo gruppo appartengono tutti quei materiali caratterizzati da un colore di fondo da bianco a bianco perlaceo e venature grigie e marmi da grigio chiari a grigio scuri con vene più chiare o scure. - Grigio. Marmi a grana fine o media, di colore da grigio chiaro a grigio scuro attraversati da
vene da grigio scuro a bianche. L’ornamentazione risulta estremamente variabile pur rimanendo all’interno di un tipo generale: si può infatti passare da litotipi con aspetto molto eterogeneo e variegato, dato da alternanze più o meno irregolari di livelli da grigi a grigio chiare (Nuvolato), a materiali molto omogenei con colori che vanno dal grigio‐bluastro al grigio scuro con sottili venature più scure (Bardiglio). Il colore scuro più o meno uniforme dell’insieme è dato da pirite microcristallina e/o pigmento carbonioso. Sono talvolta presenti masse e/o strati dolomitici più o meno regolari e continui e livelli ocracei con pirite.
- Venato. Marmi a grana media, di colore da bianco a bianco perlaceo, con venature più scure da molto regolari ad anastomizzate e di spessore in media da millimmetriche a centimetriche. Non sono rare macchie grigie di forma irregolare talvolta caratterizzate da una certa isorientazione. Questa varietà è caratterizzata da un’ampia gamma di ornamentazioni determinata dalla diversa orientazione, frequenza e spessore delle vene e delle macchie grigio scuro.
- Zerbino. Marmi a grana da medio‐fine a medio‐grossa, in genere da bianco‐avorio a beige, caratterizzati dalla presenza di livelli filladici di colore grigio‐verde.
MARMI BRECCIATI. In questo gruppo ricadono gran parte delle metabrecce di composizione prevalentemente carbonatica presenti in diverse posizioni stratigrafiche nella successione metamorfica apuana. In genere sono rappresentate da metabrecce clasto‐sostenute ad elementi di marmo e matrice variamente colorata dal grigio al verde e dal rosso al viola. A causa della deformazione subita, i clasti di queste metabrecce hanno assunto una forma fortemente appiattita e allungata sulla foliazione metamorfica principale, determinando la possibilità da parte di questi materiali di assumere aspetti completamente differenti su tagli di
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cava diversamente orientati. - Arabescato. Metabrecce clasto‐sostenute ad elementi eterometrici di marmo in matrice di
colore da grigio al verde scuro. I clasti sono tipicamente di colore da grigio chiario a bianchi e in funzione della loro taglia, disposizione relativa e rapporto con la matrice circostante, determinano un’ampia gamma di aspetti e ornamentazioni.
- Calacatta. Metabrecce a clasti eterometrici di marmo da bianchi a bianco‐avorio, talora con deboli colorazioni verde‐chiaro in matrice di colore da giallo‐ocra a grigio‐verde. In genere la scarsa percentuale di matrice rende poco evidente la natura clastica del materiale.
- Breccia rossa. Metabrecce poligeniche, da clasto a matricesostenute, a prevalenti clasti di marmo e subordinate selci da grigio chiaro a rosse, con matrice di colore dal rosso scuro al rosso‐violaceo. I clasti di marmo, da bianchi a grigio‐chiari, da giallo‐beige a rosa sono spesso ricchi in articoli di crinoidi e frammenti di belemniti.
- Fantastico. Metabrecce poligeniche a prevalenti clasti di marmo e subordinate selci da grigio chiaro a rosse, con matrice di colore dal rosso scuro al rosso‐violaceo. I clasti di marmo, da bianchi a grigiochiari, da giallo‐beige a rosa si presentano tipicamente piegati e deformati in modo tale da determinare un caratteristico disegno nei blocchi estratti.
MARMI CIPOLLINI. In questo gruppo ricadono i litotipi marmorei impuri, presenti prevalentemente nella parte alta della successione litostratigrafia. In genere si tratta di calcescisti caratterizzati da un’ampia gamma di colorazioni e disegni. - Cipollino. Calcescisti di colore da grigio‐verde a verde o da rosso a rosso‐violaceo con livelli
di filladi carbonatiche e filladi muscovitiche di colore da verde scuro a rosso violaceo. In genere sono presenti numerose vene di calcite variamente deformate e piegate. Le variazioni cromatiche, i differenti rapporti tra le componenti filladica e carbonatica, il diverso disegno determinato dalle vene di calcite e quarzo, determinano per questa varietà un’ampia gamma di aspetti e ornamentazioni di solito molto evidenti nei tagli di cava.
MARMI STORICI. Con il termine “marmi storici” ci si riferisce a marmi con peculiari caratteristiche cromatiche e di disegno oggi non più soggetti a coltivazione, ad eccezione delle Brecce di Seravezza. - Breccia di Seravezza. Metabrecce poligeniche, clasto‐sostenute, a prevalenti elementi di
marmo di colore da bianco a grigio chiaro e subordinati clasti di dolomia da grigia a giallo‐arancio e rare selci. La matrice, di composizione fillosilicatica, mostra un’ampia gamma di colorazioni che vanno dal grigio‐verde al verde scuro, dal rosso mattone al rosso‐violaceo e localmente arricchite in cristalli di cloritoide.
- Rosso rubino. Marmi e marmi dolomitici di colore da rosso scuro a rosso violaceo con sottili livelli filladici verdi di spessore millimetrico. Localmente sono presenti metabrecce clasto‐sostenute con elementi di marmo e/o dolomia da bianchi a giallo‐arancio da rosa a viola e matrice colorata dal giallo al rosso fino al rosso scuro‐viola.
- Nero di Colonnata. Marmi grigio scuri o neri a grana fine caratterizzati da livelli giallo‐arancio di spessore da millimetrico a centimetrico e interstrati di dolomia da grigia a grigia scura.
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3. GEOLOGIA E TETTONICA DELLA SINCLINALE DEL MONTE ALTISSIMO (Estratto da: Lorenzoni V., Mancini S., 2008 – Indagine giacimentologica sui bacini estrattivi “Henraux”) La sinclinale a nucleo di marmo del Monte Altissimo è la terminazione meridionale della sinclinale Orto di Donna–Monte Altissimo, struttura isoclinale, ad andamento N–S, che si estende per circa 15 km dal contatto tra l’Unità Metamorfica Apuana e la Falda Toscana, a nord, ed il territorio di Seravezza, a sud. Nella corrente interpretazione geologica, l’evoluzione strutturale dell’Unità delle Apuane (Complesso Metamorfico, Autoctono s.l.) è inserita in un articolato quadro geodinamico che prevede due principali eventi tettono‐metamorfici (CARMIGNANI & KLIGFIELD, 1990; CARMIGNANI et alii, 1994; MOLLI et alii, 1999, 2000). In particolare nella ricostruzione cinematica del core complex apuano (CARMIGNANI & KLIGFIELD, 1990), la sinclinale del Monte Altissimo e le altre megapieghe di grandezza paragonabile (la sinclinale di Carrara e l’anticlinale di Vinca‐Forno ad ovest; l’anticlinale del Monte Tambura e una serie anticlinali e sinclinali minori nell’area di Arni‐Vagli ad est) si sono sviluppate in seguito alla compressione tettonica che, nell’orogenesi terziaria, ha originato il fold‐and‐thrust belt dell’Appennino Settentrionale (evento D1, Oligocene sup. ‐ Miocene iniz.). Durante la D1, inoltre, si è sviluppata una scistosità di piano assiale (S1), penetrativa a tutte le scale, che ha trasposto l’originaria stratificazione. Pur considerandola sempre il risultato di una deformazione progressiva, MOLLI et alii (2000) facendo ricorso ad analisi microstrutturali hanno riconosciuto all’interno dell’evento di deformazione compressiva D1 due fasi (fig. 3).
Fig. 3. Evoluzione strutturale della finestra tettonica delle Alpi Apuane (modificata da Molli et alii, 2000). Le frecce nere e bianche indicano la direzione di trasporto tettonico rispettivamente durante il primo (D1) ed il secondo (D2) evento deformativo.
a) Fase iniziale dell’evento di deformazione compressiva D1a (Early D1): formazione di pieghe
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isoclinali coricate a grande scala. Dopo la fase D1a, le Alpi Apuane subirono un innalzamento termico in condizioni statiche (annealing).
b) Fase tardiva dell’evento deformativo compressivo D1b (Late D1): formazione dell’antiformal stack. c) Evento di deformazione estensionale D2: sollevamento ed esumazione, formazione di pieghe aperte
e piccole zone di taglio.
Nella prima fase, indicata come main folding phase (fase D1a, Early D1), gli Autori hanno ricondotto la formazione delle pieghe isoclinali coricate a grande scala e della associata scistosità di piano assiale S1. Al termine della D1a il settore crostale apuano ha subito un innalzamento termico che, nei marmi della successione metamorfica, ha provocato la ricristallizzazione della calcite in condizioni statiche (annealing). Allo stadio tardivo dell’evento D1 (fase D1b, Late D1), e successivamente al processo di annealing, sono associati sovrascorrimenti lungo localizzate zone di taglio e l’impilamento di falde con la formazione di duplex a scala crostale (antiformal stack phase). A partire dal Miocene inferiore, le strutture generate durante l’evento D1 sono state interessate da una successiva deformazione D2 determinata dall’instabilità e dal collasso, tettonico e gravitativo, del pacco di falde impilate nell’antiformal stack. Durante questo evento, sviluppato in regime estensionale, le unità tettoniche apuane hanno subito un sollevamento post‐compressione ed una progressiva esumazione verso livelli strutturali sempre più superficiali. Durante l’evento D2, anch’esso plurifasico, si è sviluppata una nuova generazione di strutture, duttili e quindi fragili‐duttili, testimoniata da piccole zone di taglio, da pieghe aperte F2 associate a crenulazioni mediamente sub‐orizzontali e da tardive pieghe F3 osservabili solo localmente (Early D2). Gli stadi più recenti e di più bassa temperatura della fase tettonica tardiva D2 assumono caratteri tipici del regime fragile con la generazione di un diffuso reticolo di fratture e giunti (Late D2) (CARMIGNANI & KLIGFIELD, 1990; MOLLI & MECCHERI, 2000; OTTRIA &
MOLLI, 2000; CORTECCI et alii, 2003; MECCHERI et alii, 2007). Nell’area del Monte Altissimo, sia nel versante meridionale che settentrionale, il principale sistema di fratture ha direzione da SW‐NE ed W‐E, con immersioni pressochè verticali; ad un esame più accurato le fratture si sono talora rivelate vere e proprie faglie trascorrenti sebbene il relativo rigetto, quasi sempre trascurabile a scala cartografica, solo in pochi casi appaia pluridecametrico (fig. 3).
Fig. 4. La faglia di Vincarella, una delle strutture trasversali tardive meglio esposte del versante meridionale del
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Monte Altissimo, tra la tecchia della cava Mossa, a sinistra, e la cava Vincarella, a destra.
Le strutture polideformate si sono realizzate in condizioni metamorfiche in facies scisti verdi (0,4 ÷ 0,6 Gpa; 350 ÷ 450°C; MOLLI et alii, 2000); le associazioni mineralogiche mostrano, generalmente, caratteri progradi sin‐D1 e retrogradi sin‐D2. La geologia della sinclinale dell’Altissimo è stata descritta in diverse pubblicazioni. Fra queste, i lavori di ZACCAGNA (1932) e GIGLIA (1967) sono, senza dubbio, i più importanti. Negli ultimi venti anni la conoscenza litostratigrafica e tettonica della terminazione meridionale della sinclinale del Monte Altissimo è migliorata grazie agli studi di campagna condotti per alcune Tesi di Laurea (LORENZONI, 1984; CONTI, 1987; VIETTI, 1987; BELLAGOTTI, 2002; GALMACCI, 2002; BERRETTI, 2005), i cui risultati scientifici sono stati riassunti ed organizzati in alcuni articoli e poster da MECCHERI et alii (2004, 2005a, 2005b, 2007) (tav. 1, fuori testo).
3.1. Aspetti geomorfologici e morfotettonica Dal punto di vista geografico il versante meridionale del Monte Altissimo, con la sua ampia falcatura e le pareti pressochè brulle e verticali che degradano in poco spazio dai 1589 m della vetta ai circa 600 m di altitudine presso la località Mortigliani, limita verso nord il bacino del Torrente Serra, breve corso originato e alimentato dalla sorgente perenne de’ la Polla, che all’altezza di Seravezza si riunisce al Vezza per formare il Fiume Versilia. L’arcuata cresta del Monte Altissimo sfila in direzione NW‐SE collegando la Cresta degli Uncini (1401 m), ad ovest, con il rialzo morfologico delle Cervajole (1283 m), ad est; in pianta, la forma di tale cresta disegna due semiarchi, aperti verso SW, separati dallo sperone di quota 1466 m (contrafforte della Tacca Bianca) che, a sua volta, individua i due bacini idrografici minori del Canale di Griffaia (W) e del Vaso Tondo ‐ Polla (E). Le quote altimetriche del crinale, che costituisce localmente la linea di spartiacque principale del massiccio apuano separando i bacini minori che scaricano direttamente le loro acque nel mare Tirreno dai bacini tributari del Fiume Serchio, non scendono mai al di sotto dei 1300 m fatta eccezione del ribasso della Foce di Falcovaja (1189 m), ad est, che divide gli alti topografici del Monte delle Tavole (1463 m) e delle Cervaiole. Per la sua estensione, laterale e verticale, e per la quasi ortogonale disposizione rispetto alla direzione degli assi strutturali, il versante meridionale costituisce una sezione naturale della sinclinale del Monte Altissimo, come già aveva osservato Zaccagna nella sua Descrizione geologica delle Alpi Apuane. Qui le rocce affioranti, dalla Cresta degli Uncini alla Foce di Falcovaia, sono principalmente carbonatiche. Da ovest verso est si distinguono i grezzoni, dolomie del Trias superiore che poggiano in discordanza sulle formazioni del basamento ercinico localmente con l’interposizione di litologie verrucane, a cui succedono, in alternanza, livelli di marmi a Megalodonti associati a brecce di Seravezza (Retico). Ai Megalodonti seguono i marmi dolomitici (Lias basale) che fanno da transizione alla formazione dei marmi s.s. (Hettangiano, Lias inferiore), al nucleo della sinclinale del Monte Altissimo, i quali, a loro volta, affiorano con continuità da quota 1522 m (circa 300 m ad ovest della vetta) fino nei pressi della Foce di Falcovaja, (fig. 4). L’aspetto geometrico della sinclinale può essere ricostruito visivamente, almeno per quanto riguarda il settore occidentale, grazie alla curvatura degli strati di grezzone ed al contatto tra questi ed i marmi a Megalodonti. L’assetto che ne risulta è quello di una sinclinale a vergenza orientale, con il fianco ovest che tende a rovesciarsi all’altezza della Cresta degli Uncini, e una cerniera, dalla geometria complicata e probabilmente disarticolata dalla tettonica trasversale fragile tardiva, che chiude nei pressi della sorgente della Polla. Al fianco orientale della sinclinale, anch’esso disturbato da una tettonica trasversale e maggiormente sviluppato nella zona del Retro Altissimo, sono da assegnare, principalmente, gli affioramenti di marmo del Monte delle Tavole fino alla Foce di
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Falcovaia. La traccia del piano assiale della struttura ha direzione circa da NNW‐SSE; l’asse principale della passa in prossimità della vetta del Monte Altissimo.
Fig. 5. L’imponente versante meridionale del Monte Altissimo visto dalla pianura versiliese. Si riconoscono, da sinistra verso destra (W‐E), i grezzoni della frastagliata Cresta degli Uncini, il complesso degli affioramenti dei marmi a Megalodonti, brecce di Seravezza e marmi dolomitici che presentano un distinguibile layering subverticale, e la massa dei marmi s.s. che dal settore ad ovest della vetta si snodano con continuità fino al rialzo del Monte delle Tavole. La parete verticale è intersecata dal contrafforte della Tacca Bianca, che si snoda da quota 1466 m e separa il Canale del Vaso Tondo – Polla (in primo piano) da quello di Griffaia (in secondo), e dallo sperone che discende dal Monte delle Tavole in direzione SW che, a sua volta, divide il Canale del Vaso Tondo da quello di Falcovaia.
La parete meridionale del Monte Altissimo è un autentico “laboratorio” naturale idoneo per esaminare gli stretti rapporti ed i condizionamenti tra le strutture geologiche e le morfologie del paesaggio. La verticalità e l’ampiezza del taglio naturale, l’esposizione pressochè continua delle diverse formazioni, la mancanza di una continua copertura vegetale, consentono di studiare, infatti, con sufficiente dettaglio la geomorfologia dell’area che, qui, appare fortemente controllata da fattori strutturali e litologici. Se osservato più in dettaglio, il versante sud del Monte Altissimo è il risultato e della coalescenza di pendii “minori” controllati dalla disposizione della stratificazione‐scistosità della sinclinale (subverticale, direzione appenninica) e delle superfici e fasce di fratturazione fragili tardive (ad alto angolo o subverticali, di direzione antiappenninica ed appenninica). L’interferenza e l’inviluppo di tali superfici strutturali conferisce ai versanti, nell’insieme, un andamento circa W ‐ E.
3.2. La tettonica fragile: fratture e faglie, finimenti e "secondi" A partire dagli anni ’70 le ricerche di tipo geologico‐strutturale si sono concentrate principalmente sulla descrizione e comprensione delle strutture sinmetamorfiche (foliazioni, pieghe e sistemi di interferenza) e sulla loro evoluzione spazio‐temporale (CARMIGNANI & GIGLIA, 1975a, 1975b; BOCCALETTI & GOSSO, 1980). Al contrario, le strutture fragili originatesi durante gli stadi più recenti dell’evoluzione geologica delle Alpi Apuane, rappresentano l’aspetto meno studiato. Strutture fragili sono riportate in COLI (1989) e MOLLI & MECCHERI (2000), ma solo negli ultimi anni è stato affrontato organicamente lo studio dei sistemi di faglie ad alto angolo, la cui analisi geometrica e cinematica ha fornito una prima ricostruzione del campo di deformazione fragile nelle Alpi Apuane (OTTRIA & MOLLI, 2000). La definizione del campo di deformazione e della possibile orientazione/tipo dell’ellissoide dello stress a cui le strutture possono essere associate può rivestire un ruolo fondamentale nella pianificazione e nell’operatività delle attività estrattive in particolare per quello che riguarda la comprensione dello stato tensionale residuo degli ammassi marmorei.
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In generale la deformazione “naturale” fragile di un volume di roccia, interessato da un campo di stress, si manifesta in modo discontinuo secondo sistemi di fratturazione. L’analisi di questi sistemi può consentire, attraverso metodi grafici o numerici conosciuti come metodi d’inversione (ANGELIER, 1990), di ottenere il tensore dello stress a cui le strutture possono essere collegate. Questo tipo di analisi (conosciuta con il nome di analisi dinamica) è basato su diverse assunzioni, di seguito riportate: - lo scivolamento sulle faglie analizzate avviene secondo direzioni parallele allo sforzo di taglio
massimo sul piano di movimento (criterio di Wallace‐Bott). Questo assunto richiede come corollario che, al fine di definire il carattere del paleostress, siano presenti in una certa area strutture con orientazione variabile;
- le strutture analizzate devono essere state attivate in risposta ad uno stesso campo di stress, cioè, in altre parole, il campo di stress regionale deve esser rimasto invariato durante lo sviluppo delle strutture;
- l’attività di una certa struttura analizzata deve risultare libera ed indipendente rispetto alla deformazione in strutture adiacenti.
Nel quadro geologico dell’Appennino Settentrionale, le Alpi Apuane rappresentano per storia di deformazione fragile un domino omogeneo di bassa deformazione relativa, delimitato ad ovest e ad est da faglie principali (faglie “bordiere”), che separano le stesse Apuane dalle antistanti depressioni tettoniche della bassa Lunigiana/Versilia e della Garfagnana (OTTRIA & MOLLI, 2000). Questo quadro strutturale è classicamente accettato [FEDERICI, 1973; RAGGI, 1985] e recentemente ben documentato da: 1. dati termocronometrici (tracce di fissione su Zr, Ap, HeZr e HeAp) omogenei alla scala di
tutte le Alpi Apuane (ABBATE et alii, 1994, FELLIN et alii, 2004; MOLLI, 2006; MOLLI & VASELLI, 2006);
2. organizzazione poco evoluta dei sistemi di faglie all’interno del massiccio che mostra un grado di interconnessione molto basso tra le singole strutture;
3. rigetto limitato (da metrico a pluridecametrico) delle singole strutture (ragione per la quale nella maggioranza delle carte geologiche pubblicate le strutture fragili sono trascurate o non cartografate).
In queste condizioni regionali di contorno, i criteri d’impiego dei metodi d’inversione, rivolti a definire il campo di stress associabile ad un campo di deformazione fragile (campo di deformazione finita), risultano appropriati, in particolare, per stabilire se esista oppure no una relazione tra il campo di deformazione fragile e lo stato di stress in situ. In un ammasso roccioso, lo stato di stress in situ è il risultato di varie componenti collegabili a: - forze di gravità; - stress termoelastici e residuali; - stress d’origine tettonica. Gli stress residuali e quelli d’origine tettonica sono associabili sia a fattori intrinseci del volume di roccia investigato (tipo di roccia analizzato e caratteristiche microstrutturali), sia agli assetti deformativi fragili (entità e distribuzione della fratturazione); da qui deriva la necessità di effettuare uno studio geologico‐strutturale del campo di deformazione fragile, il quale analizzi geometria, distribuzione spaziale e cinematica delle discontinuità.
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4. PIANI DI SETTORE (Piano Asseto Idrogeologico del Fiume Serchio, Piano di Gestione delle Acque del Fiume Serchio, Piano Asseto Idrogeologico Toscana nord, Piano di Gestione delle Acque dell’Appennino Settentrionale, )
4.1. P.A.I. Serchio Il Piano di Assetto Idrogeologico (P.A.I.) del Bacino (pilota) del fiume Serchio definisce il quadro di riferimento sovraordinato geomorfologico e idraulico sull'intero bacino del fiume Serchio. In particolare ai sensi dell’articolo 65 del D.Lgs. 152 /2006 il Piano di bacino “ha valore di piano territoriale di settore ed è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d’uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo ed alla corretta utilizzazione delle acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato”. Il riferimento attuale è costituito dal “Piano di Bacino, stralcio Assetto Idrogeologico del Fiume Serchio” approvato con D.C.R. n. 20 del 01.02.2005 e alla variante al P.A.I. del 2005, denominata “Piano di Bacino, stralcio Assetto Idrogeologico del fiume Serchio. 1° Aggiornamento, approvata con D.P.C.M. del 26 luglio 2013”. In data 17/12/2015 con delibera del Comitato Istituzionale n. 180, è stato adottato il “Progetto di Piano di bacino, Stralcio Assetto Idrogeologico del fiume Serchio (P.A.I.) II Aggiornamento”. Tale ulteriore aggiornamento ha consentito di apportare alcune modifiche agli elaborati cartografici sia per quanto riguarda la pericolosità geomorfologica sia per quella idraulica. Nelle aree oggetto di modifica dal 17/12/2015, data di adozione da parte del Comitato Istituzionale del “Progetto di Piano – II Aggiornamento”, sono immediatamente efficaci quali misure di salvaguardia, ai sensi dell’art. 65 comma 7 del D.Lgs. 152/2006, le disposizioni di cui agli articoli 7, 9, 23, 25, 25 bis, 40, 46, le disposizioni di cui alla Direttiva n° 10 e alla Direttiva n° 13 delle Norme del Progetto di Piano di bacino e le perimetrazioni delle aree a pericolosità da frana e idraulica rappresentate nelle tavole del Progetto di Piano, con esclusione della Tav. 10. Accertato che le aree ricomprese nei limiti dei bacini estrattivi individuati come ACC del Parco delle Alpi Apuane oggetto dei P.A.B.E. non sono state oggetto di modifiche relative al succitato II aggiornamento, non trovano applicazione quindi le suddette misure di salvaguardia. Il Piano di Bacino, stralcio Assetto Idrogeologico del Fiume Serchio si apre con un ampio Quadro Conoscitivo che analizza e descrive il territorio di riferimento, quindi illustra le attività di analisi per l'individuazione delle aree interessate da pericolosità da frana e per quella delle aree interessate da pericolosità idraulica; si chiude infine con una sintesi delle condizioni di pericolosità e con la descrizione degli strumenti di intervento per la riduzione dei rischi.
4.1.1. Pericolosità geomorfologica La sezione di riferimento del Piano nel settore della pericolosità geomorfologica è la "Carta della franosità" del bacino del Serchio. Le cartografie individuano la perimetrazione delle aree a diverse pericolosità di frana e le conseguenti prescrizioni definite ed indicate nelle norme del piano. Le tavole che interessano l'area delle cave del comune di Seravezza sono i quadranti 249110, 249120, 249150, 249160. Nelle aree dei bacini estrattivi che fanno riferimento al bacino del Serchio, relativamente alla classificazione utilizzata dal Piano di Assetto Idrogeologico, sono individuate le seguenti tipologie di casi: - Aree instabili ‐ Frane quiescenti: area di accumulo e nicchia di distacco (art.13) - Aree con instabilità potenziale elevata per caratteristiche morfologiche ‐ Aree soggette a
franosità in terreni detritici attivi (art.13)
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- Aree con instabilità potenziale elevata per caratteristiche morfologiche ‐ Aree soggette a franosità in terreni prevalentemente argillitici acclivi e/o con situazioni morfologiche locali che ne favoriscano l’imbibizione (art.13)
- Aree potenzialmente franose per caratteristiche litologiche (art. 13 e art.15) - Aree di media stabilità e aree stabili (art.15) Tali aree sono disciplinate dai relativi articoli delle Norme di Piano, i cui contenuti sono riportati di seguito. Le tipologie di aree di cui si tratta all'art.13 appartengono tutte alla classe di pericolosità di frana elevata P3. In esse "le nuove utilizzazioni dei suoli, le nuove opere e infrastrutture pubbliche o di interesse pubblico, nonché i nuovi fabbricati sono condizionati alla realizzazione di opere di mitigazione locale del rischio da frana e non devono aggravare il rischio delle aree limitrofe. A tale scopo le previsioni dei suddetti interventi, all’interno degli strumenti di governo del territorio, devono garantire il rispetto delle condizioni di cui all’art. 11 (Disposizioni generali per le aree a pericolosità da frana e per la formazione degli strumenti urbanistici nelle medesime aree). Per dare efficacia ai principi di difesa del suolo contenuti nel PAI, gli strumenti della pianificazione di dettaglio inerenti le previsioni di nuove utilizzazioni dei suoli, di nuove opere e infrastrutture pubbliche o di interesse pubblico, nonché di nuovi fabbricati, unitamente al progetto delle opere di mitigazione del rischio da frana, sono sottoposti al parere favorevole vincolante dell’Autorità di bacino, che valuta gli interventi anche facendo riferimento alle condizioni di fragilità delle aree a rischio adiacenti. Tutti gli interventi edilizi in aree a pericolosità da frana non dovranno aumentare la vulnerabilità degli edifici esistenti, indurre peggioramento del grado di stabilità del versante e non dovranno impedire o limitare la possibilità di realizzare definitive opere di miglioramento della medesima stabilità del versante. (...) Le nuove utilizzazioni dei suoli e la realizzazione di nuove opere ed infrastrutture pubbliche o di interesse pubblico, riferite a servizi essenziali, nonché di nuovi fabbricati, sono subordinati a: a. indagine geologica, geotecnica, sismica e/o idraulica, redatta da tecnico abilitato, estesa all’intera area di trasformazione e ad un ambito territoriale geomorfologicamente significativo, atta a: - accertare la sussistenza di caratteristiche geologiche, geomorfologiche, idrogeologiche,
geotecniche e sismiche dell’area tali da consentire l’attuazione degli interventi senza recare pregiudizio alla stabilità del versante e senza aggravare la vulnerabilità del limitrofo patrimonio edilizio esistente;
- valutare la stabilità complessiva del versante, anche in relazione ad una possibile evoluzione del movimento franoso;
b. individuazione e contestuale realizzazione di adeguate opere di mitigazione locale del rischio in relazione alla stabilità del versante; c. parere favorevole vincolante dell’Autorità di bacino. Sono ammissibili interventi sul patrimonio edilizio ed infrastrutturale esistente che non comportino aumenti di superficie coperta, né di volume, né di esposizione al rischio, nonché interventi di adeguamento di fabbricati esistenti necessari alla messa a norma di strutture ed impianti in ottemperanza ad obblighi derivanti da norme vigenti in materia igienico‐sanitaria, di sicurezza sull’ambiente di lavoro, di superamento delle barriere architettoniche, di adeguamento antisismico, di adeguamento alla normativa acustica e per il risparmio energetico. È altresì ammissibile la realizzazione di tettoie aperte sui lati, di volumi tecnici e accessori di fabbricati esistenti e di recinzioni.
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Sono altresì ammissibili gli interventi finalizzati alla riduzione della vulnerabilità di fabbricati esistenti nel caso in cui tali interventi non peggiorino le condizioni di stabilità del versante interessato e la pericolosità delle aree limitrofe. Previa indagine geologica, geotecnica e/o idraulica, e contestualmente alla realizzazione degli interventi di mitigazione locale del rischio, sono altresì consentiti: a. gli interventi edificatori di ampliamento di fabbricati esistenti che comportino aumento di volume sino ad un massimo una tantum del 30% dell’esistente, con il limite di 300 mc; b. gli interventi edificatori di ampliamento di fabbricati esistenti che comportino aumento di volume eccedente il limite di cui alla lettera precedente, previo parere dell’Autorità di Bacino e realizzazione di adeguate opere di mitigazione del rischio in relazione alla stabilità del versante; c. interventi di demolizione e ricostruzione di fabbricati esistenti, previo parere dell’Autorità di bacino; d. interventi di cambio d’uso dei fabbricati esistenti comportanti aumento di esposizione al rischio, previo parere favorevole vincolante dell’Autorità di bacino; d.bis interventi di frazionamento dei fabbricati esistenti comportanti aumento di esposizione al rischio, previo parere dell’Autorità di bacino; e. la realizzazione di pertinenze nonché di annessi agricoli risultanti indispensabili alla conduzione del fondo e con destinazione agricola vincolata e, se di volumetria superiore a 300 mc, previo parere dell’Autorità di bacino; f. impianti fotovoltaici ed eolici destinati alla produzione di energie rinnovabili, nonché nuove antenne per le telecomunicazioni. Tali impianti sono subordinati al parere favorevole vincolante dell’ Autorità di Bacino. Sono sempre ammessi interventi strutturali di bonifica e di sistemazione dei movimenti franosi atti a migliorare le condizioni di stabilità dei versanti, interventi individuati sulla base di specifici studi geologico‐tecnici e da sottoporre al parere favorevole vincolante dell’Autorità di bacino. (...) Tutti gli interventi che comportano modifiche significative al sistema di regimazione delle acque e/o variazioni morfologiche significative, anche a fini agricoli, e/o scavi di volumi e spazi interrati (es: cantine, piscine), ancorché ammessi dal presente articolo, sono subordinati alla redazione di adeguata indagine geologica e geotecnica e/o idraulica, alla realizzazione di adeguati interventi di mitigazione locale del rischio e all’acquisizione del parere favorevole vincolante dell’Autorità di bacino. Sempreché non concorrano ad incrementare le fragilità geomorfologiche, sono consentite utilizzazioni delle aree per finalità ambientali e ricreative, con esclusione di nuovi volumi edilizi, purché siano compatibili con gli interventi per la riduzione del rischio e purché siano approvati piani di sicurezza che contemplino l’esclusione di rischi per la pubblica incolumità. E’ altresì consentita l’installazione di strutture mobili temporanee stagionali per il tempo libero a condizione che sia comunque garantita l’incolumità pubblica. Sono ammessi interventi di adeguamento o restauro delle infrastrutture pubbliche, o di interesse pubblico, previa realizzazione di opere di mitigazione locale del rischio e parere favorevole vincolante dell’Autorità di bacino; tali interventi devono essere realizzati senza aggravare le condizioni di instabilità del versante, senza compromettere la possibilità di realizzare più ampie e ulteriori opere strutturali di bonifica e devono essere coerenti con la pianificazione degli interventi di protezione civile". Per le aree di media stabilità e stabili vale invece quanto disposto all'art.15 delle Norme di Piano, ovvero: " l’edificabilità è condizionata ai vincoli esistenti sul territorio ed alla esecuzione di indagine geologica e geotecnica nei casi previsti dalla normativa vigente e/o dallo Strumento Urbanistico". Le cartografie del P.A.I. oltre ad evidenziare il rischio da frana e a determinare specifici vincoli nell'uso del territorio e nel potere di gestione e pianificazione delle previsioni degli interventi edilizi, forniscono anche dati geologici di base per la rappresentazione delle carte di pericolosità
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da redigersi nell’ambito delle indagini geologico ‐ tecniche di supporto ai piani urbanistici (comunque denominati). BACINO MONTE PELATO All’interno del Bacino Monte Pelato vengono individuate aree con instabilità potenziale elevata per caratteristiche morfologiche ed in particolare aree soggette a franosità in terreni detritici acclivi (Norma art. 13). Tali aree vengono grossolanamente indicate in corrispondenza di tutti gli accumuli detritici antropici derivati dall’attività di cava a prescindere dal loro reale grado di acclività. Infatti oltre ad i ravaneti esistenti comprensibilmente classificati come acclivi, vengono inglobate in tale classe aree relative ad accumuli detritici interni alle cave e comunque non in condizioni di acclività. Da segnalare la presenza all’interno della cava Vestito di un area soggetta all’art. 13 delle Norme di Piano ma che ad oggi risulta sgombra da qualsiasi accumulo detritico a seguito di intervento di bonifica eseguito a partire dall’anno 2007. Sono state cartografate anche due tipologie di aree potenzialmente franose per caratteristiche litologiche ed in particolare l’accumulo di origine morenica in corrispondenza dell’uscita della galleria del Vestito, a pericolosità alta, e gli affioramenti relativi a litologie differenti dai marmi, quali Marmi dolomitici (md), Marmi a Megalodonti (mM), Brecce di Seravezza (bse) e Grezzoni (gr), a pericolosità bassa. BACINO RETRO ALTISSIMO All’interno del Bacino Retro Altissimo vengono individuate aree con instabilità potenziale elevata per caratteristiche morfologiche ed in particolare aree soggette a franosità in terreni detritici acclivi (Norma art. 13). Tali aree vengono grossolanamente indicate in corrispondenza di tutti gli accumuli detritici antropici derivati dall’attività di cava a prescindere dal loro reale grado di acclività. Infatti oltre ad i ravaneti esistenti comprensibilmente classificati come acclivi, vengono inglobate in tale classe aree relative ad accumuli detritici interni alle cave e comunque non in condizioni di acclività. E’ stata cartografata anche una tipologia di aree potenzialmente franose per caratteristiche litologiche ed in particolare corrispondente agli affioramenti relativi a litologie differenti dai marmi, quali Marmi dolomitici (md), Marmi a Megalodonti (mM), Brecce di Seravezza (bse) e Grezzoni (gr), classificate con un grado di pericolosità basso.
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BACINO CANALE DELLE GOBBIE All’interno del Bacino Canale delle Gobbie vengono individuate due tipologie di aree con instabilità potenziale elevata per caratteristiche morfologiche ed in particolare aree soggette a franosità in terreni prevalentemente argillitici acclivi e/o con situazioni morfologiche locali che ne favoriscono l’imbibizione (Norma art. 13) e aree soggette a franosità in terreni detritici acclivi (Norma art. 13). Le prime corrispondono alle porzioni più acclivi degli affioramenti di Scisti sericitici presenti nella parte nord orientale del bacino, le seconde vengono grossolanamente indicate in corrispondenza di tutti gli accumuli detritici antropici derivati dall’attività di cava a prescindere dal loro reale grado di acclività. Infatti oltre ad i ravaneti esistenti comprensibilmente classificati come acclivi, vengono inglobate in tale classe aree relative ad accumuli detritici interni alle cave e comunque non in condizioni di acclività. Sono state cartografate anche due tipologie di aree potenzialmente franose per caratteristiche litologiche ed in particolare sempre gli affioramenti degli Scisti sericitici, a pericolosità alta, e parte degli accumuli detritici classificati come ravaneti (rv) e gli affioramenti di Pseudomacigno (pmg), a pericolosità bassa. Nella parte occidentale del bacino è stata cartografata anche un’area instabile ad alta pericolosità relativa ad una frana quiescente.
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4.1.2. Pericolosità idraulica La sezione di riferimento del Piano nel settore della pericolosità idraulica è la “Carta di del rischio idraulico” che individua la perimetrazione delle aree a diverse pericolosità idraulica, la vincolistica, la perimetrazione delle aree da destinare ai principali interventi idraulici e le conseguenti prescrizioni definite ed indicate nelle norme del piano. Si evidenzia che le aree dei bacini estrattivi in oggetto che fanno riferimento al bacino del fiume Serchio, relativamente alla classificazione utilizzata dal P.A.I., non sono interessate da specifiche aree di rischio e previsioni di interventi idraulici.
4.1.3. Reticolo idraulico e idrografico Nella tavola 9 del suddetto piano “Carta di riferimento del reticolo idraulico e idrografico” vengono riportati i corsi d’acqua per i quali, ai sensi del comma 6 dell’art. 21 delle Norme di piano, è individuata una fascia di rispetto minima per parte, misurata a partire dal ciglio di sponda , pari a 10 metri. “Nel territorio del bacino del fiume Serchio, per le aste prive di argini, ancorché tombate, del reticolo rappresentato nella Tav. 9, “Carta di riferimento del reticolo idraulico e idrografico” è individuata una fascia di rispetto minima per parte, misurata a partire dal ciglio di sponda, pari a ml. 10. L’ampiezza di tale fascia di rispetto potrà essere modificata previo parere vincolante dell’Autorità di bacino che verifica, sulla base del quadro conoscitivo disponibile ovvero sulla base di indagini di approfondimento, le condizioni di funzionalità idraulica del corso d’acqua interessato. All’interno di tale fascia di rispetto, qualora questa ricada in aree di tessuto edificato, sono inibiti interventi di nuova costruzione. All’interno della sopraindicata fascia di rispetto, qualora invece questa non ricada in aree di tessuto edificato, si applicano le disposizioni di cui al presente articolo, relative alle aree P1 Tali disposizioni si sovrappongono agli eventuali altri vincoli previsti dal PAI.”
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Con Deliberazione del Consiglio regionale n°101 del 21 dicembre 2016 sono state approvate alcune modifiche al reticolo idrografico e di gestione di cui alla L.R. 79/2012, già approvato con Deliberazione del Consiglio Regionale n°9/2015. Tali variazioni non hanno però interessato le aree corrispondenti ai bacini estrattivi in oggetto. BACINO MONTE PELATO Nel Bacino Monte Pelato il vincolo derivato dal comma 6 dell’art. 21 delle Norme di piano, è individuato per il tratto del Canale del Buro che costeggia il bacino verso est e per il tratto del Fosso delle Gobbie che costeggia il bacino lungo il limite sud est.
BACINO CANALE DELLE GOBBIE Nel Bacino Canale delle Gobbie il vincolo derivato dal comma 6 dell’art. 21 delle Norme di piano, è individuato per il tratto del Canale delle Gobbie che attraversa l’intero bacino da ovest verso est e per il tratto del Canale dell’Acquerolo/inizio Torrente Turrite Secca che costeggia il bacino lungo il limite sud est.
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BACINO RETRO ALTISSIMO
Nel Bacino Retro ALtissimo il vincolo derivato dal comma 6 dell’art. 21 delle Norme di piano, è individuato per il tratto del Canale del Fondone localizzato nella parte orientale del bacino.
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4.2. Piano di gestione delle acque del fiume Serchio Il Piano di gestione delle acque del Bacino del Fiume Serchio è vigente dal 2010 (adottato dal Comitato Istituzionale dell'Autorità di Bacino nella seduta del 24 Febbraio 2010 con delibera n. 164, e approvato definitivamente con D.P.C.M. dell’8 febbraio 2013) e redatto ai sensi di quanto stabilito dalla Direttiva 2000/60/CE del Parlamento europeo e del consiglio del 23 ottobre 2000 che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque, entrata in
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vigore il 22 dicembre 2000 con la sua pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. Il piano di gestione attribuisce alla risorsa acqua valore di patrimonio da proteggere, difendere e trattare, e costituisce un quadro di riferimento per la protezione delle acque superficiali interne, delle acque di transizione, delle acque costiere e sotterranee, che:
a) impedisca un ulteriore deterioramento, protegga e migliori lo stato degli ecosistemi acquatici e degli ecosistemi terrestri e delle zone umide direttamente dipendenti da gli ecosistemi acquatici sotto il profilo del fabbisogno idrico;
b) agevoli un utilizzo idrico sostenibile fondato sulla protezione a lungo termine delle risorse idriche disponibili;
c) miri alla protezione rafforzata e al miglioramento dell'ambiente acquatico, anche attraverso misure specifiche per la graduale riduzione degli scarichi, delle emissioni e delle perdite di sostanze prioritarie e
d) l'arresto o la graduale eliminazione degli scarichi, delle emissioni e delle perdite di sostanze pericolose prioritarie;
e) assicuri la graduale riduzione dell'inquinamento delle acque sotterranee e ne impedisca l'aumento, e
f) contribuisca a mitigare gli effetti delle inondazioni e della Siccità (articolo 1). Il piano è stato sottoposto a V.A.S. conclusasi positivamente con il giudizio di compatibilità ambientale (decreto DVA‐DEC 2010‐76 del 01/04/2010 e successivi pareri di ottemperanza alle prescrizioni V.A.S. resi dalla Commissione tecnica di Verifica dell’impatto Ambientale (parere n. 922 del 11/05/2012). Nel 2014 è stato avviato processo di aggiornamento del piano a seguito dell'emanazione della Direttiva 2014/101/UE, entrata in vigore il 20 novembre 2014 che va a modificare la prima direttiva in particolare in merito ai metodi impiegati per il monitoraggio dei parametri delle acque. Con DPCM del 27 ottobre 2016 è stato approvato il “Piano di gestione delle acque – 1° aggiornamento”, che ha parzialmente modificato il precedente. I dati utilizzati sono propri del P.d.G. del 2010 ed aggiornati con quelli attribuiti successivamente dalla Regione Toscana sulla base dell’attività di monitoraggio “operativo” effettuata da ARPAT negli anni 2010/2011/2012 sui corpi idrici. Il Piano è articolato nelle seguenti sezioni:
1. Presentazione del Piano 2. Descrizione del distretto idrografico del fiume Serchio 3. Identificazione dei corpi idrici 4. Pressioni e impatti significativi 5. Registro delle aree protette 6. Reti e programmi di monitoraggio 7. Obiettivi di Piano, stati di qualità e deroghe 8. Analisi economica sull'utilizzo idrico 9. Sintesi delle misure di Piano 10. Processo partecipativo aggiornamento del piano 11. Rapporto ambientale ‐ aspetti pertinenti lo stato attuale dell’ambiente 12. Rapporto ambientale 13. Rapporto dei contenuti e degli obiettivi del piano di gestione delle acque con altri
pertinenti piani o programmi 14. Rapporto ambientale ‐ valutazione degli effetti e valutazione di incidenza 15. Rapporto ambientale sintesi non tecnica 16. Modifiche al progetto di piano di gestione e la "dichiarazione di sintesi"
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17. Appendice: norme tecniche relative ai metodi di classificazione dello stato delle acque superficiali
La prima parte del Piano consiste nella descrizione e nell'inquadramento del distretto idrografico di interesse. Il bacino del Serchio è suddiviso in microregioni, e nel nostro caso la microregione di riferimento è quella della Garfagnana o Alta Valle del Serchio. Segue la parte relativa all'individuazione dei corpi idrici: definiti i “corpi idrici” come “unità” a cui fare riferimento per riportare ed accertare la conformità con gli obiettivi ambientali, i criteri (indicati dal DM 131/2008) per l’identificazione degli stessi tengono conto principalmente delle differenze dello stato di qualità, delle pressioni esistenti sul territorio e dell’estensione delle aree protette. Il suddetto testo legislativo sottolinea che la corretta identificazione dei corpi idrici è di particolare importanza in quanto gli obiettivi ambientali e le misure necessarie per raggiungerli si applicano in base alle caratteristiche e alle criticità dei singoli corpi idrici. I corpi idrici assunti dal Piano di Gestione sono stati individuati al seguito di verifiche compiute con le strutture tecniche regionali e in recepimento della Deliberazione di Giunta Regionale n° 939 del 26/10/2009. L’Autorità di bacino del fiume Serchio ha pertanto compiuto una propria valutazione, sia dei corpi idrici sia in merito alle pressioni antropiche esercitanti impatti sullo stato delle acque. L’analisi delle pressioni e la valutazione della significatività delle stesse è stata compiuta dall’ Autorità sulla base delle risultanze della pregressa pianificazione di bacino ed in considerazione dei monitoraggi ambientali del Piano di Tutela delle acque regionale, scegliendo di non individuare criteri matematici e valori soglia, bensì utilizzando il giudizio maturato dalla Segreteria tecnico – operativa dell’Autorità sulle tematiche che costituiscono l’operato istituzionale dell’ente. Sulla base di tali conoscenze l’Autorità di bacino ha fornito il proprio contributo alla valutazione regionale circa lo stato di rischio di ogni corpo idrico di raggiungere gli obiettivi di qualità in funzione delle pressioni cui è soggetto, secondo quanto stabilito dai punti C.1 e C.2.2 del citato DM 131/2008. In particolare la sezione 4 "Pressioni e impatti significativi" presenta la ricognizione di dettaglio delle pressioni esercitate dall’attività antropica sullo stato dei corpi idrici, basata sulla conoscenza diretta ed accurata del territorio e sui quadri conoscitivi degli atti pregressi della pianificazione di bacino. La ricognizione si articola nei seguenti argomenti: - Acque superficiali ‐ sorgenti puntuali di inquinamento, ovvero: Principali impianti di
depurazione (Piano qualità delle acque del bacino del fiume Serchio); Cave (Piano cave del bacino del fiume Serchio); Impianti di trattamento inerti (Azione strategica per la mitigazione del rischio idraulico dovuto ad impianti di lavorazione inerti ubicati in aree di golena e di pertinenza fluviale);
- Acque superficiali ‐ sorgenti diffuse di inquinamento, ovvero: zone prive di fognature; zone vulnerabili ai nitrati di origine agricola; aree agricole; discariche e siti contaminati;
- Acque superficiali ‐ captazioni significative - Acque superficiali ‐ regolazioni di flusso significative e alterazioni morfologiche - Acque superficiali ‐ altre pressioni ‐ intrusione salina - Acque sotterranee ‐ sorgenti puntuali di inquinamento, ovvero le cave, discariche e siti
contaminati - Acque sotterranee ‐ sorgenti diffuse di inquinamento - Acque sotterranee ‐ captazioni significative - Acque sotterranee ‐ alterazioni antropiche del livello delle acque sotterranee - Acque sotterranee ‐ intrusioni saline Le cave sono riconosciute come una criticità sia dal punto di vista della qualità delle acque superficiali sia da quello delle acque sotterranee. Il Piano riporta riguardo a tale tema le
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considerazioni che richiamiamo di seguito. Le cave sono trattate nello specifico nelle Tavole 4.3 e 4.12 del Piano. Nel bacino del Serchio sono presenti numerose cave, anche inattive. Il Piano fa riferimento al quadro conoscitivo fornito dal “Progetto di Piano stralcio Attività Estrattive", adottato con delibera del Comitato Istituzionale del bacino del fiume Serchio n. 83 del 14/10/1998. Rispetto alle numerose cave censite in tale Piano quelle che assumono significatività di pressione sui corpi idrici superficiali sono state individuate in base ai seguenti criteri: - tutte le cave, attive ed inattive, collocate in una fascia di 500 metri dalle sponde dei corpi
idrici superficiali, ritenute in grado di influenzare il corso d’acqua con le acque di dilavamento;
- tutte le cave, attive ed inattive, che, anche se a distanza dal corso d’acqua superiore a 500 metri, sono collocate in impluvi di diretta pertinenza del corso idrico, caratterizzati da rapida corrivazione.
Per quanto riguarda le acque sotterranee sono state considerate come pressioni significative sulle acque sotterranee tutte le cave, attive ed inattive, ubicate su corpi idrici sotterranei ad elevata permeabilità e consistente circolazione idrica (Corpo idrico alluvionale della pianura di Lucca; Corpo idrico carbonatico della serie toscana non metamorfica destra Serchio; Corpo idrico carbonatico della serie toscana metamorfica, Corpo idrico della pianura costiera). La sezione 9 riporta una sintesi delle misure previste dal Piano per mitigare le criticità individuate nel bacino. Il Piano individua le "misure di base" (per lo più derivanti dall’attuazione della normativa comunitaria, nazionale e regionale vigenti) e le "misure supplementari" (misure addizionali oltre alle misure di base, qualora queste ultime non risultino sufficienti al conseguimento degli obiettivi ambientali) adottate per attuare la normativa comunitaria sulla protezione delle acque e per ottemperare alle richieste di cui ai Punti 7.1‐7.11 dell'Allegato VII alla direttiva2000/60/CE. Per alcune delle misure supplementari il Piano di gestione dettaglia, in apposite Schede Norma, le loro modalità applicative, che assumono valore vincolante per enti pubblici e soggetti privati. Non sono state redatte schede riguardanti in maniera specifica le attività estrattive. Tuttavia, fra quelle individuate come "altre misure opportune", troviamo riferimento alle attività estrattive: a tale riguardo il Piano prevede la valutazione, da parte della Regione Toscana, della necessità di predisporre indagini specifiche, nell’ambito del programma di monitoraggio ai sensi della Direttiva 2000/60/CE, al fine di individuare gli effetti indotti dalla presenza di cave miniere e ravaneti sui seguenti corpi idrici superficiali: - Torrente Acqua Bianca - Torrente Corfino - Torrente Pedogna - Rio Guappero - Torrente Turrite Secca - Torrente Celetra - Fosso di Gragnana - Canale Burlamacca - Lago di Massaciuccoli - Canale Farabola - Torrente Serchio di Gramolazzo - Fosso Lussia - Fosso Tambura - Torrente Lima - Lago di Vagli - Fosso delle Cavine e sui seguenti corpi idrici sotterranei:
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- Corpo idrico carbonatico metamorfico delle Alpi Apuane - Corpo idrico carbonatico non metamorfico delle Alpi Apuane - Corpo idrico della Versilia e Riviera Apuana - E sui seguenti corpi idrici sotterranei: - Corpo idrico carbonatico metamorfico delle Alpi Apuane - Corpo idrico carbonatico non metamorfico delle Alpi Apuane - Corpo idrico della Versilia e Riviera Apuana Aree protette (sezione 5) Nel distretto idrografico è attribuita una protezione speciale alle aree protette in base alla specifica normativa comunitaria al fine di proteggere le acque superficiali e sotterranee ivi contenute o di conservarne gli habitat e le specie presenti che dipendono direttamente dall'ambiente acquatico. Il registro contiene i corpi idrici individuati destinati all’estrazione di acque potabili, e tutte le aree protette: - aree designate per l'estrazione di acque destinate al consumo umano; - aree designate per la protezione di specie acquatiche significative dal punto di vista
economico; - corpi idrici intesi a scopo ricreativo, comprese le aree designate come acque di balneazione; - aree sensibili rispetto ai nutrienti, comprese quelle designate come zone vulnerabili; - aree designate per la protezione degli habitat e delle specie, nelle quali mantenere o
migliorare lo stato delle acque è importante per la loro protezione, compresi i siti pertinenti della rete Natura 2000.
La aree designate per la protezione di specie acquatiche significative, ovvero le acque destinate alla vita dei pesci, non hanno subito modifiche rispetto a quanto già individuato nel primo Piano di Gestione delle Acque. Monitoraggio - per il monitoraggio delle acque superficiali il piano individua una rete di monitoraggio dello
stato ecologico e chimico progettata in modo da fornire una panoramica coerente e complessiva dei due stati all'interno di ciascun bacino idrografico e permettere la classificazione dei corpi idrici in cinque classi (elevato, buono, sufficiente, scarso, cattivo). Viene definito per ciascun periodo cui si applica il piano di gestione dei bacini idrografici, un programma di monitoraggio di sorveglianza e un programma di monitoraggio operativo e in alcuni casi anche programmi di monitoraggio d'indagine.
- per le acque sotterranee il piano individua: - monitoraggio chimico suddiviso in monitoraggio di sorveglianza e operativo, oggetto di
revisione da parte della Regione Toscana sulla base dello “stato di rischio” definitivo individuato con la DGRT 937/2012.
- monitoraggio quantitativo: la rete di monitoraggio ha l'obiettivo di fornire una stima affidabile dello stato quantitativo di tutti i corpi idrici sotterranei individuati dalla D.G.R.T. 937/2012, compresa la stima delle risorse idriche disponibili. Con riferimento a tale delibera regionale, che distingue i corpi idrici contenuti nei “depositi alluvionali e formazioni detritiche” da quelli contenuti nelle “formazioni rocciose carbonatiche e vulcanitiche”, è prevista una rete di monitoraggio differente per le due tipologie di corpi idrici sotterranei, caratterizzata dall'utilizzo rispettivamente di freatimetri (per corpi idrici alluvionali) e di misuratori di portata (per corpi idrici in roccia).
Nel comune non risultano presenti punti di monitoraggio afferenti al bacino del Serchio. A seguire una tabella riassuntiva dell'attribuzione degli stati di qualità:
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Corpo idrico
Stato chimico Stato quantitativo
Stato complessivo
"Corpo idrico della Versilia e Riviera Apuana"
scarso scarso scarso
"Gruppo dei corpi idrici arenacei ‐corpo idrico di avanfossa della toscana nord‐orientale, Zona monti dell'Oltreserchio"
buono
buono buono
"Gruppo di corpi idrici apuani ‐ Corpo idrico carbonatico non metamorfico delle Alpi Apuane".
buono
buono buono
Obiettivi di piano, stati di qualita' e deroghe A seguito del recepimento degli obiettivi della direttiva 2000/60/CE sono individuati gli obiettivi per i singoli corpi idrici sulla base di : - stato ecologico dei fiumi - stato chimico dei fiumi Gli obiettivi specifici del Piano di Gestione sono dunque: I bacini estrattivi in oggetto insistono sul corpo idrico sotterraneo denominato “Gruppo di Corpi Idrici Apuani – Corpo Idrico Carbonatico Metamorfico delle Alpi Apuane”, classificato nel succitato 1° aggiornamento del Piano di Gestione delle Acque in stato di qualità ”buono”, sia per quanto concerne lo stato chimico sia per quello quantitativo, con l’obiettivo del mantenimento di tale stato “buono” e “non a rischio” sotto l’aspetto quantitativo, ma classificato “a rischio” per quanto attiene l’aspetto chimico a causa delle pressioni insistenti sullo stesso anche per la presenza di cave e discariche. La rete idrografica della zona fa capo al Torrente Turrite Secca, classificato dallo stesso 1° aggiornamento del Piano di Gestione delle Acque come “a rischio”, in stato di qualità “scarso” per quanto concerne lo stato ecologico e “non definito” per quanto concerne lo stato chimico,
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con l’obiettivo del raggiungimento al 2021 dello stato “buono” relativamente sia allo stato ecologico sia allo stato chimico e “non a rischio”. I bacini estrattivi in oggetto ricadono nel “Registro delle Aree Protette” del 1° aggiornamento del Piano di Gestione delle Acque (Tav. 5.06 – Aree protette – Aree designate per la protezione degli habitat e delle specie, nelle quali mantenere o migliorare lo stato delle acque è importante per la loro protezione, compresi i siti pertinenti della Rete Natura 2000 istituiti a norma della direttiva 92/43/CEE e della direttiva 79/409/CEE – Aree Naturali Protette), in quanto ricadenti nel Parco Regionale delle Alpi Apuane. I bacini estrattivi in oggetto ricadono in prossimità del S.I.R.‐S.I.C. n. 18 “Valle del Serra ‐ Monte Altissimo” (IT5120010) per i Bacini Monte Pelato, Retro Altissimo, del S.I.R.‐S.I.C. n.21 “Monte Tambura‐Monte Serra” (IT5120013) per il solo bacino Monte Pelato, e della ZPS “Praterie primarie e secondarie delle Alpi Apuane” (IT5120015), individuate nel Registro delle Aree Protette del Piano di Gestione delle Acque (Tav. 5.05 – Aree protette – Aree designate per la protezione degli habitat e delle specie, nelle quali mantenere o migliorare lo stato delle acque è importante per la loro protezione, compresi i siti pertinenti della Rete Natura 2000 istituiti a norma della direttiva 92/43/CEE e della direttiva 79/409/CEE – Rete ecologica Natura 2000). La Scheda norma n°86 del Piano di Gestione delle Acque ed in particolare il punto 4 – “Disposizioni per singole azioni di trasformazione permanente del territorio e delle risorse naturali acqua, suolo e sottosuolo. Le azioni di trasformazione del territorio, ivi comprese quelle urbanistico ‐ edilizio e le attività di cava, ovvero le modifiche dell’utilizzo del territorio, non possono determinare effetti negativi sullo stato qualitativo e quantitativo delle acque superficiali e sotterranee. A tale scopo, gli enti competenti all’autorizzazione di tali azioni e/o modifiche, devono garantire la messa in opera di tutti gli accorgimenti tecnico‐costruttivi necessari a tale fine. I pareri o contributi dell’Autorità di bacino, previsti dalla legislazione statale e regionale, valuteranno anche la coerenza con i contenuti del presente Piano di Gestione delle Acque, e parteciperanno alla definizione delle eventuali misure volte a non deteriorare lo stato qualitativo e quantitativo dei corpi idrici superficiali e sotterranei”.
4.3. P.A.I. Toscana nord Il Piano di assetto idrogeologico (P.A.I.) del bacino regionale Toscana Nord è il piano territoriale di settore che definisce criteri, indirizzi, prescrizioni, vincoli, norme e interventi finalizzati alla conservazione e gestione del bacino di riferimento rispetto agli eventi idrogeologici. La normativa di riferimento è la Legge n° 183/1989, il D.L. n° 180/1998 convertito con Legge n° 267/1998, la Legge n° 365/2000 e L.R. n° 91/1998 modificata dalla L.R. n° 1/1999. Il Piano è stato approvato con deliberazione n. 11 del 25 gennaio 2005, ed ha lo scopo di assicurare la difesa del suolo (il territorio, il suolo, il sottosuolo, gli abitati, le opere infrastrutturali), pertanto le attività di programmazione, pianificazione e attuazione degli interventi devono provvedere alle seguenti azioni di: - sistemazione, conservazione e recupero del suolo nel bacino idrografico, con interventi
idrogeologici, idraulici, idraulico‐forestali, idraulico‐agrari, silvo‐pastorali, di forestazione e di bonifica, anche attraverso processi di recupero naturalistico, botanico e faunistico;
- difesa ed consolidamento dei versanti e delle aree instabili, nonché alla difesa degli abitati e delle infrastrutture contro i movimenti franosi ed altri fenomeni di dissesto;
- riordino del vincolo idrogeologico; - difesa, sistemazione e regolazione dei corsi d’acqua; - moderazione delle piene, anche mediante vasche di laminazione, casse di espansione od
altro, per la difesa dalle inondazioni e dagli allagamenti;
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- svolgimento funzionale dei servizi di polizia idraulica, di pronto intervento idraulico, nonché della gestione degli impianti;
- manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere idrauliche e di sistemazione montana; - disciplina delle attività estrattive, al fine di prevenire il dissesto del territorio, inclusi
erosione ed abbassamento degli alvei e delle coste; - regolamentazione dei territori interessati dagli interventi ai fini della loro tutela ambientale,
anche mediante la determinazione dei criteri per la salvaguardia e la conservazione delle aree demaniali e la costituzione di parchi fluviali e lacuali e di aree protette;
- individuazione degli scenari del rischio ai fini dell’attività di prevenzione e di allerta svolta dagli Enti periferici operanti sul territorio.
- equilibrio costiero tramite azioni di contenimento dei fenomeni di subsidenza del suolo e di risalita delle acque marine lungo i fiumi e nelle falde idriche, anche mediante azioni non strutturali finalizzate al recupero delle preesistenti condizioni di equilibrio delle falde sotterranee.
Il P.A.I. si articola in più fasi correlate: Fase conoscitiva: acquisizione degli elementi relativi alla conoscenza del territorio, e di vincoli vigenti. In questa fase sono raccolte le conoscenze esistenti sul bacino necessarie per il P.A.I.. - ambiente fisiografico - individuazione del bacino; - morfologia, geologia, idrogeologia del bacino, uso del suolo; - climatologia ed idrologia; - sedimentologia e trasporto solido. - normative e caratterizzazione delle ripartizioni amministrative: - individuazione dei soggetti giuridici ed amministrativi che svolgono attività di pianificazione; - censimento degli strumenti di pianificazione; - descrizione dell’ambiente antropico e dell’utilizzazione dei suoli: - identificazione dell’uso del territorio e delle attività economiche interessanti il Piano. - dati sulla individuazioni delle principali risorse idriche superficiali e sotterranee; - censimento delle opere di difesa del territorio in: - opere di difesa idraulica; - sistemazioni aree in frana; - protezione dall’erosione costiera. - stato di manutenzione ed efficienza delle opere. - aggiornamento del quadro conoscitivo successivamente all’adozione del progetto di P.A.I. Fase valutativa: individuazione degli squilibri territoriali e valutazione della rischio (idraulico, da frane). In questa fase si individuano gli squilibri relativamente a: - situazioni di rischio idraulico. - situazioni di rischio frana. - situazioni di propensione alla subsidenza. Fase propositiva: definizione degli obiettivi specifici. - implementazione del quadro conoscitivo; - individuazione delle aree vincolate; - definizione delle misure di salvaguardia; - piano degli interventi di mitigazione; - norme di attuazione; - in questa fase si determinano le azioni propositive individuando: - obiettivi; - proposte di interventi.
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La sezione di riferimento per l’applicazione delle norme tecniche di attuazione è la "Carta di Tutela del Territorio " redatta in scala 1:10.000 nella quale sono individuate: - aree a pericolosità idraulica molto elevata (P.I.M.E.), di cui all’art. 5 delle N.T.A.; - aree a pericolosità idraulica elevata (P.I.E), di cui all’art. 6 delle N.T.A.; - aree strategiche per interventi di prevenzione (A.S.I.P.), di cui all’art. 10 delle N.T.A.; - aree a pericolosità geomorfologica molto elevata (P.F.M.E.), di cui all’art. 13 delle N.T.A.; - aree a pericolosità geomorfologica elevata (P.F.E.); di cui all’art. 5 delle N.T.A..
Per il Comune di Seravezza le tavole di riferimento sono le tavole 21, 22 e 24.
4.3.1. Pericolosità geomorfologica Nelle aree dei bacini estrattivi che fanno riferimento al bacino Toscana nord, relativamente alla classificazione utilizzata dal Piano di Assetto Idrogeologico, sono individuate le seguenti tipologie di casi: - aree a pericolosità geomorfologica molto elevata (P.F.M.E.) articolo 13.
1. Nelle aree P.F.M.E sono consentiti gli interventi di consolidamento, bonifica, protezione, sistemazione dei fenomeni franosi, nonché quelli atti a controllare e mitigare i processi geomorfologici che determinano le condizioni di pericolosità molto elevata, approvati dall'Ente competente, tenuto conto del presente Piano di Assetto Idrogeologico. Gli interventi dovranno essere tali da non pregiudicare le condizioni di stabilità nelle aree adiacenti, da non limitare la possibilità di realizzare interventi definitivi di stabilizzazione dei fenomeni franosi, da consentire la manutenzione delle opere di messa in sicurezza. I progetti preliminari degli interventi sono sottoposti al parere del competente Bacino che si esprime in merito alla coerenza degli stessi rispetto agli obiettivi del presente Piano e alle previsioni generali di messa in sicurezza dell'area.
2. Tali aree potranno essere oggetto di atti di pianificazione territoriale per previsioni edificatorie non diversamente localizzabili, subordinando l'attuazione delle stesse alla preventiva esecuzione di interventi di consolidamento, bonifica, protezione e sistemazione. Gli interventi, definiti sulla base di idonei studi geologici, idrogeologici e geotecnici, che documentano la dinamica complessiva del versante e l’areale potenzialmente coinvolgibile, dovranno essere tali da non pregiudicare le condizioni di stabilità nelle aree adiacenti, da non limitare la possibilità di realizzare interventi definitivi di stabilizzazione dei fenomeni franosi, da consentire la manutenzione delle opere di messa in sicurezza.
3. Gli studi di cui al comma 2 devono attenersi ai criteri definiti dal Bacino il quale si esprime sulla coerenza degli stessi con gli obiettivi e gli indirizzi del PAI e dei propri atti di pianificazione e, ove positivamente valutati, costituiscono implementazione del quadro conoscitivo del presente Piano.
4. Nelle aree P.F.M.E il Bacino si esprime sugli atti di pianificazione di cui alla L.R. 5/95 in relazione alla coerenza degli stessi rispetto al presente Piano, nonché alla coerenza con il complesso degli strumenti di pianificazione di bacino delle valutazioni sugli effetti ambientali riferiti alle risorse acqua e suolo.
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I pareri di cui sopra si intendono espressi in senso favorevole decorsi 90 giorni dalla presentazione della relativa istanza istruttoria in assenza di determinazioni o di comunicazioni da parte del Bacino.
5. La realizzazione di nuovi interventi pubblici o privati, previsti dai vigenti strumenti di governo del territorio alla data di entrata in vigore del presente Piano è subordinata alla preventiva realizzazione degli interventi di messa in sicurezza. Gli interventi, definiti sulla base di idonei studi geologici, idrogeologici e geotecnici, che documentano la dinamica complessiva del versante e l’areale potenzialmente coinvolgibile, essere tali da non pregiudicare le condizioni di stabilità nelle aree adiacenti, da non limitare la possibilità di realizzare interventi definitivi di stabilizzazione dei fenomeni franosi, da consentire la manutenzione delle opere di messa in sicurezza. I progetti preliminari degli interventi sono sottoposti al parere del competente Bacino che si esprime in merito alla coerenza degli stessi rispetto agli obiettivi del presente Piano e alle previsioni generali di messa in sicurezza dell'area.
6. Il soggetto attuatore, pubblico o privato, degli interventi di messa in sicurezza di cui sopra è tenuto a trasmettere al Comune ed al Bacino dichiarazione, a firma di tecnico abilitato, relativa agli effetti conseguiti con la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza, all’eventuale sistema individuato per il monitoraggio ed alla delimitazione delle aree risultanti in sicurezza. Quanto sopra costituisce implementazione del quadro conoscitivo del presente Piano.
7. Nelle aree P.F.M.E., sono consentiti i seguenti interventi: a) gli interventi di demolizione senza ricostruzione, gli interventi sul patrimonio
edilizio di manutenzione ordinaria, straordinaria, restauro, risanamento conservativo, così come definiti alle lettere a), b) e c) dell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 e successive modifiche e integrazioni e nelle leggi regionali vigenti in materia;
b) interventi di ristrutturazione edilizia così come definiti alla lettera d) dell’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001 e successive modifiche e integrazioni e nelle leggi regionali vigenti in materia che non comportino aumento di superficie o di volume, purchè siano realizzati senza aggravare le condizioni di instabilità e non compromettano la possibilità di realizzare il consolidamento del movimento franoso e la manutenzione delle opere di consolidamento;
c) gli interventi strettamente necessari a ridurre la vulnerabilità degli edifici esistenti e a migliorare la tutela della pubblica incolumità, senza aumenti di superficie e volume;
d) gli interventi sul patrimonio edilizio per adeguamenti minimi necessari alla messa a norma delle strutture e degli impianti relativamente a quanto previsto dalle norme in materia igienicosanitaria, di sicurezza ed igiene sul lavoro, di superamento delle barriere architettoniche;
e) gli interventi di ampliamento e di adeguamento di opere e infrastrutture pubbliche o di interesse pubblico, non delocalizzabili, purché siano realizzati senza aggravare le condizioni di stabilità delle aree adiacenti e non compromettano la possibilità di realizzare la bonifica del movimento franoso, previo parere del Bacino sulla compatibilità degli interventi con gli obiettivi della pianificazione di bacino;
f) nuove opere e infrastrutture pubbliche o di interesse pubblico non diversamente localizzabili, a condizione che venga dimostrato il non aumento del rischio nelle aree adiacenti, previa realizzazione delle opere funzionali alla messa in sicurezza. Queste ultime devono essere supportate da idonei studi geologici, geotecnici ed idrogeologici; il Bacino si esprime sulla coerenza degli studi e del progetto
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preliminare delle suddette opere con gli obiettivi e gli indirizzi del presente Piano e dei propri atti di pianificazione.
BACINO TACCA BIANCA Per il Bacino Tacca Bianca l’area cartografata come P.F.M.E. corrisponde alla parte inferiore del vecchio ravaneto delle cave della Tela e Onda. BACINO MOSSA Per il Bacino Mossa l’area cartografata come P.F.M.E. corrisponde alla parte del vecchio ravaneto della cava Mossa a partire dal piano altimetricamente inferiore della cava fino all’area della sorgente Polla. BACINO MONTE ALTISSIMO EST Per il Bacino Monte Altissimo Est le aree cartografate come P.F.M.E. corrispondono al ravaneto della Cabina Nera, al ravaneto del Palazzo e a tutto il ravaneto del Giardino, comprendendo parte del fronte roccioso sottostante la cava Cervaiole.
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Nella tavola 6 “Carta inventario fenomeni franosi” viene cartografata una frana attiva in corrispondenza del Canale del Giardino al di sotto della Cava Cervaiole.
4.3.2. Pericolosità idraulica La sezione di riferimento del Piano nel settore della pericolosità idraulica è la “Carta della pericolosità idraulica” che individua la perimetrazione delle aree a diverse pericolosità idraulica, la vincolistica, la perimetrazione delle aree da destinare ai principali interventi idraulici e le conseguenti prescrizioni definite ed indicate nelle norme del piano. Si evidenzia che le aree dei bacini estrattivi in oggetto che fanno riferimento al bacino Toscana Nord, relativamente alla classificazione utilizzata dal P.A.I., non sono interessate da specifiche aree di rischio e previsioni di interventi idraulici.
4.3.3. Reticolo idraulico e idrografico I bacini estrattivi Tacca Bianca, Mossa e Monte Altissimo est sono interessati dall’individuazione del reticolo idrografico e di gestione di cui alla L.R. 79/2012, già approvato con Deliberazione del Consiglio Regionale n°9/2015. BACINO TACCA BIANCA La parte occidentale del bacino estrattivo è interessata dal tratto del Fosso della Griffaia.
BACINO MOSSA Il bacino è attraversato da due affluenti del Torrente Serra che confluiscono nello stesso in località Polla.
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BACINO MONTE ALTISSIMO EST Il bacino è interessato dal tratto superiore del Torrente Serra, che scorre in corrispondenza del ravaneto della Cabina Nera, dal Fosso del Palazzo che scorre in corrispondenza del ravaneto del Palazzo e dal tratto superiore del Canale del Giardino che scorre in corrispondenza del ravaneto del Giardino.
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4.4. Piano di gestione delle acque del bacino Appennino Settentrionale
Il primo piano di gestione (in seguito anche PdG) del distretto idrografico dell'Appennino Settentrionale, previsto all'art. 13 della direttiva 2000/60/CE e all'art. 117 del d.lgs. 152/2006, è stato adottato, ai sensi dell'art. 1 comma 3‐bis del decreto‐legge 30 dicembre 2008, n. 208, convertito con modificazioni dalla legge 27 febbraio 2009, n. 13, con la deliberazione n. 206 del 24 febbraio 2010 del Comitato Istituzionale dell'Autorità di bacino del fiume Arno, integrato da componenti designati dalle regioni, il cui territorio ricade nel Distretto idrografico al quale si riferisce il piano, non già rappresentate nel medesimo Comitato. L'approvazione definitiva è avvenuta con d.p.c.m. 21 novembre 2013, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 147 del 27 giugno 2014. Nella Gazzetta Ufficiale n. 25 del 31 gennaio 2017 è stato pubblicato il DPCM per l’approvazione dell’aggiornamento del Piano di Gestione delle Acque dell’Appennino settentrionale, successivo all’approvazione avvenuta nel Comitato Istituzionale Integrato del 3 marzo 2016 (precedentemente adottato nel Comitato Istituzionale integrato del 17 dicembre 2015).
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I bacini estrattivi in oggetto insistono sul corpo idrico sotterraneo denominato “Gruppo di Corpi Idrici Apuani – Corpo Idrico Carbonatico Metamorfico delle Alpi Apuane”, classificato in stato di qualità ”buono”, sia per quanto concerne lo stato chimico sia per quello quantitativo. La rete idrografica dei bacini Tacca Bianca e Mossa fa capo al Torrente Serra, mentre il bacino Monte Altissimo Est fa capo in parte sempre al Torrente Serra e in parte al Canale del Giardino entrambi classificati in stato di qualità “buono” sia per quanto concerne lo stato ecologico sia per quello stato chimico.
4.5. Piano di gestione del rischio alluvioni (P.G.R.A.) Il Piano di gestione del rischio alluvioni (P.G.R.A.) del Distretto Appennino Settentrionale è stato adottato dal Comitato Istituzionale dell'Autorità di Bacino del Fiume Arno integrato da componenti designati dalle regioni il cui territorio ricade nel distretto idrografico, con deliberazione n. 231 del 17 dicembre 2015 e definitivamente approvato con delibera del Comitato Istituzionale n. 235 del 3 marzo 2016. Il P.G.R.A. è redatto ai sensi della Direttiva 2007/60/CE relativa alla valutazione e alla gestione del rischio di alluvioni, recepita nell'ordinamento italiano con il D.Legs. n. 49/2010; quest'ultimo decreto pone l'obiettivo, agli enti competenti in materia di difesa del suolo, di ridurre le conseguenze negative, derivanti dalle alluvioni, per la salute umana, per il territorio, per i beni, per l'ambiente, per il patrimonio culturale e per le attività economiche e sociali. La Direttiva e il D.lgs. 49/2010 disciplinano le attività di valutazione e di gestione dei rischi articolandole in più fasi: - Fase 1 ‐ Valutazione preliminare del rischio di alluvioni (entro il 22 settembre 2011); - Fase 2 ‐ Elaborazione di mappe della pericolosità e del rischio di alluvione (entro il 22 giugno
2013); - Fase 3 ‐ Predisposizione ed attuazione di piani di gestione del rischio di alluvioni (entro il 22
giugno 2015); - Fasi successive ‐ Aggiornamenti del Piano di gestione (2018, 2019, 2021). Il distretto dell’Appennino Settentrionale è costituito da 11 sistemi idrografici, per ognuno dei quali (bacino e/o insieme di bacini di ridotte dimensioni) è competente per la redazione del piano una “unit of management” – U.o.M. ‐ (o unità di gestione) che corrisponde alle ex Autorità di bacino di rilievo nazionale, interregionale e regionale già individuate dalla legge 183/1989. Seguendo le indicazioni della direttiva “alluvioni” e del decreto di recepimento n° 49/2010, con il coordinamento dell’Autorità di Bacino del Fiume Arno, le autorità di bacino nazionali, interregionali e regionali in qualità di U.O.M. insieme alle regioni del distretto, hanno predisposto i piani di gestione che risultano costituiti da due parti distinte: una di competenza delle Autorità di Bacino nazionali, interregionali e regionali e una di competenza del sistema di Protezione Civile nazionale e regionale. Per il distretto dell’Appennino Settentrionale l’attività di coordinamento per la formazione dei piani di gestione è stata svolta dall’Autorità di Bacino del Fiume Arno che ha definito una strategia quanto più possibile comune, specialmente in termini di definizione di obiettivi generali e di misure di carattere generale, valide per ogni singola U.o.M.. Nello specifico dei P.A.B,.E. si evidenzia che il territorio comunale di Seravezza ricade all'interno dell'U.o.M. “Toscana Nord"”. Il P.G.R.A. integra e sostituisce, per la parte idraulica, i P.A.I. vigenti a seguito dell'emanazione da parte della Regione Toscana degli atti diretti a dare applicazione alle disposizioni del medesimo piano nel settore urbanistico. Le cartografie del P.G.R.A. (della pericolosità e del rischio di alluvione) determinano vincoli nell'uso del territorio e nel potere di gestione e pianificazione degli interventi edilizi; forniscono
P.A.B.E. DELLE ALPI APUANE – SCHEDE 12 e 10 Tacca Bianca, Mossa, Monte Altissimo est – Monte Pelato, Retro Altissimo, Canale delle Gobbie ...............................................................................................
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anche dati per la rappresentazione delle carte di pericolosità da redigersi nell’ambito delle indagini geologico‐tecniche di supporto agli strumenti della pianificazione territoriale ed urbanistica. Le cartografie si originano dal quadro conoscitivo del P.A.I. continuamente aggiornato anche sulla base degli studi che le varie amministrazioni hanno redatto ai fini dell’adeguamento dei propri strumenti di governo del territorio al P.A.I. stesso. Il P.G.R.A., per quanto riguarda in particolare l’U.o.M. Toscana Nord, rileva come il territorio sia stato fortemente influenzato dall’attività di cava che ha comportato e comporta una continua modificazione del paesaggio influenzando in particolare l’andamento dei corsi d’acqua. I corsi d’acqua sono potenzialmente caratterizzati da un trasporto solido naturale relativamente modesto in funzione delle caratteristiche geologiche dei bacini contribuenti, dove non sono percentualmente elevate le coperture detritiche. In passato è stato elevato il trasporto solido artificiale connesso alla lavorazione delle pietre ornamentali sia per gli apporti del materiale di scarto riversato nei ravaneti sia di quello di segagione (frazioni fini). Allo stato attuale, essendo in pratica scomparso l’apporto fine artificiale per l’attivazione dei sistemi di raccolta e smaltimento, il trasporto solido è rappresentato sostanzialmente dagli apporti naturali. Il materiale fine di origine naturale comunque non arriva al mare a causa della presenza di sbarramenti e briglie. Si assiste infatti a marcati fenomeni di erosione delle spiagge influenzati, non solo dai manufatti a mare che modificano le locali correnti marine, ma anche dalla scarsità di materiale solido trasportato dai fiumi in mare. La particolare morfologia che caratterizza il territorio del Bacino Regionale Toscana Nord provoca l’intercettazione, da parte della catena montuosa delle Apuane, delle correnti umide provenienti dall’area mediterranea ed atlantica, determinando condizioni di elevata piovosità media annua. Tale peculiarità, unita alla forte acclività dei bacini montani, alla marcata presenza di coperture detritiche ed alla forte antropizzazione, determina generalizzate condizioni di dissesto e rischio idrogeologico. Dall'analisi della pericolosità e della distribuzione degli elementi a rischio, l'unità di gestione del bacino toscana nord ha individuato essenzialmente di cinque tipi di criticità: 1. criticità connesse con alluvioni fluviali (Allagamento per esondazione) derivanti da eventi di
precipitazione distribuita e continua nel bacino che provocano esondazione delle aste principali e secondarie essenzialmente del fondovalle (provocando talvolta il cedimento del sistema arginale) con coinvolgimento principale di locali centri abitati e delle colture agricole;
2. criticità associate ad episodi molto intensi di pioggia con le acque meteoriche che dilavano e allagano aree di fondovalle e di pianura, senza raggiungere il reticolo di drenaggio (Allagamento diretto da precipitazioni); l’impatto si rivela spesso notevole, in particolare nei confronti del tessuto socio‐economico e dal punto di vista dell’incolumità delle persone;
3. criticità connesse con allagamenti di tipo flash‐flood (Dinamica d’alveo e di trasporto solido) connesse al verificarsi di precipitazioni intense e concentrate, che possono risultare particolarmente gravose nei bacini pedecollinari e nei tratti montani;
4. criticità legate alla presenza di insediamenti e di tratti di infrastrutture lineari (strade, ferrovie, linee di sottoservizi) nelle aree golenali dei corsi principali o e nelle altre aree di stretta pertinenza fluviale del bacino, soggette ad inondazione in caso di piena ordinaria (Transito dei volumi idrici di piena);
5. criticità legate a forti mareggiate che interessano i tratti costieri lungo tutto il litorale. In base alle valutazioni fatte per l'area omogenea Toscana Nord, gli obiettivi specifici, che derivano dagli obiettivi generali, sono definiti in base alla tipologia di evento. In base alle valutazioni fatte per l'area omogenea Toscana Nord, gli obiettivi specifici, che derivano dagli obiettivi generali, sono definiti in base alla tipologia di evento.
P.A.B.E. DELLE ALPI APUANE – SCHEDE 12 e 10 Tacca Bianca, Mossa, Monte Altissimo est – Monte Pelato, Retro Altissimo, Canale delle Gobbie ...............................................................................................
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In base agli obiettivi specifici, per l’area omogenea sono state individuate 8 misure di prevenzione, 33 di protezione, 10 di preparazione e 3 misure inerenti alle attività di ricostruzione e valutazione post evento. Gli obiettivi generali sono: Obiettivi per la salute umana - riduzione del rischio per la vita e la salute umana; - mitigazione dei danni ai sistemi che assicurano la sussistenza (reti elettriche, idropotabili,
etc.) e l'operatività dei sistemi strategici (ospedali e strutture sanitarie, scuole, etc.). Obiettivi per l'ambiente - riduzione del rischio per le aree protette dagli effetti negativi dovuti a possibile
inquinamento in caso di eventi alluvionali; - mitigazione degli effetti negativi per lo stato ecologico dei corpi idrici dovuti a possibile
inquinamento in caso di eventi alluvionali, con riguardo al raggiungimento degli obiettivi ambientali di cui alla direttiva 2000/60/CE.
Obiettivi per il patrimonio culturale o riduzione del rischio per i beni culturali, storici ed architettonici esistenti; - mitigazione dei possibili danni dovuti ad eventi alluvionali sul sistema del paesaggio. Obiettivi per le attività economiche - mitigazione dei danni alla rete infrastrutturale primaria (ferrovie, autostrade, SGC, strade
regionali, impianti di trattamento, etc.); - mitigazione dei danni al sistema economico e produttivo (pubblico e privato); - mitigazione dei danni alle proprietà immobiliari; - mitigazione dei danni ai sistemi che consentono il mantenimento delle attività economiche
(reti elettriche, idropotabili, etc.). Gli obiettivi sopra indicati, di carattere generale per tutto il distretto, vengono perseguiti tramite l'applicazione di misure definite anch'esse in via generale, ovvero valide per tutto il bacino/distretto e riconducibili a: - misure inerenti alle attività di prevenzione; - misure inerenti alle attività di protezione; - misure inerenti alle attività di preparazione; - misure inerenti alle attività di risposta e ripristino. Si evidenzia che le aree dei bacini estrattivi in oggetto che fanno riferimento ai bacini Toscana Nord e Serchio, relativamente alla classificazione utilizzata dal P.G.R.A., non sono interessate da specifiche aree di pericolosità, rischio e previsioni di interventi idraulici.
Soc. HENRAUX spa A.D. Paolo Carli
Gruppo di lavoro ……………………………………………………………………………….
Coordinamento istituzionale e Responsabile del procedimento
Andrea Tenerini (Comune di Seravezza)
Garante dell’informazione e della partecipazione
Sara Benvenuto (Comune di Seravezza)
Coordinamento Scientifico
UNIVERSITA’ DI CAMERINO Massimo Sargolini
Coordinamento tecnico
quadro progettuale e valutativo Soc. TERRE.IT srl Fabrizio Cinquini
Michela Biagi Paolo Perna
Quadro conoscitivo
Strutture idrogeomorfologiche Nicola Landucci
Quadro conoscitivo
Strutture ecosistemiche Andrea Catorci
Federico Tardella Danilo Procaccini
Quadro conoscitivo Strutture antropiche Francesca Fascione
Valeria Dini
Profili giuridici Enrico Amante
Cristiana Carcelli
Supporto tecnico e sul campo Soc. HENRAUX spa
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