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PACE, CONFLITTI E VIOLENZA Giornale della Società Italiana di Scienze Psicosociali per la Pace Anno II, n. 2, primavera-estate 2005 SISPa – Società Italiana di Scienze Psicosociali per la Pace Presidente: Adriano ZAMPERINI (Padova) Direttivo: Gabriele CHIARI (Firenze), Augusto PALMONARI (Bologna), Marcella RAVENNA (Ferrara), Antonella SAPIO ( Firenze), Saulo SIRIGATTI ( Firenze), Chiara VOLPATO (Milano) Segreteria e sede: SISPa, via Cavour, 64 - 50129 Firenze Per informazioni: tel. 055291338 fax 055290712 e-mail: [email protected] sito internet: http://web.tiscali.it/sispa

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SISPa – Società Italiana di Scienze Psicosociali per la Pace Presidente: Adriano ZAMPERINI (Padova) Direttivo: Gabriele CHIARI (Firenze), Augusto PALMONARI (Bologna), Marcella RAVENNA (Ferrara), Antonella SAPIO ( Firenze), Saulo SIRIGATTI ( Firenze), Chiara VOLPATO (Milano) Segreteria e sede: SISPa, via Cavour, 64 - 50129 Firenze Per informazioni: tel. 055291338 fax 055290712 e-mail: [email protected] sito internet: http://web.tiscali.it/sispa

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EEDDIITTOORRIIAALLEE

Adriano Zamperini, Presidente SISPa

Diversamente dal primo, questo secondo numero del Giornale della Società Italiana di Scienze Psicosociali per la Pace (S.I.S.Pa.) non si apre con il consueto bilancio delle iniziative realizzate e in fase di realizzazione. Simili informazioni appaiono già nel sito web della società. E comunque, nei prossimi numeri, non verremo meno all’impegno di una costante comunicazione in tal senso. Ritengo invece opportuno spendere qualche considerazione in merito a una vicenda troppo frettolosamente archiviata, complice il periodo estivo. Del resto si sa: quando la mente va in vacanza è inopportuno richiamarla alla realtà quotidiana, vorrebbe dire disturbarla dal quietismo dove si è rifugiata. Perché l’argomento è ancora una volta la guerra in Iraq. I primi sommari bilanci di quanto accaduto ai prigionieri in Iraq e Afghanistan sono impressionanti. I detenuti sono stati brutal-mente percossi, le carni bruciate, appesi con corde sino all’asfissia. Sono stati minacciati, sessualmente umiliati, posti in isolamento, a lungo incappucciati e incatenati, esposti a un caldo torrido, al gelo e a rumori assordanti. E ancora: sistematicamente privati del sonno e del cibo. La loro religione è stata denigrata e oltraggiata. I reclusi sono stati costretti a lavorare in aree minate, riportando così gravi ferite. Sebbene abusi verso donne detenute siano meno documentati, esistono elenchi di credibili testimonianze di umiliazioni sessuali e stupri. All'interno di tali contesti, la complicità del personale medico delle truppe nordamericane negli abusi commessi in Iraq, Afghanistan e Guantanamo è stata ampia-mente riscontrata. I documenti disponibili dimostrano che l'apparato medico non solo non ha protetto i diritti umani dei detenuti, addirittura, nella figura dei suoi psichiatri, ha

collaborato nella messa a punto di interroga-tori psicologicamente e fisicamente coercitivi. Violando così linee di condotta e codici deontologici che vincolano principalmente ogni medico alla tutela della salute di chiunque, in tutte le situazioni, incluse quelle belliche. Ma, purtroppo, non è finita. Grazie a una rivista scientifica di grande prestigio, il New England Journal of Medicine, è emerso che le cartelle cliniche dei prigionieri sono a disposizione degli addetti agli interrogatori, i quali godono così di un’ arma in più. Oltre alle pratiche summenzionate, possono conoscere eventuali “punti deboli”, fisici e psicologici, dei dete- nuti e quindi sfruttar- li a loro piacimento. La mente corre im- mediatamente a Win- ston Smith, il prota- gonista del romanzo 1984 di Orwell. Egli ha un punto de- bole: la fobia per i topi. Quando l’ appa- rato poliziesco che lo opprime scopre la sua fobia, lo sottopo- ne a un “trattamento a base di topi”. E Winston crolla: confessa qualsiasi cosa, anche la più assurda. Sicché è stato prontamente coniato il termine di “medici orwelliani”. Ma sono solo medici psichiatri? O bisogna parlare anche di “psicologi orwelliani”? Allo stato attuale non è dato sapere con certezza, ma grande è la preoccupazione che anche degli psicologi siano stati coinvolti in simili pratiche. Fonti giornalistiche nordamericane citano un rapporto interno della Croce Rossa Internazionale da cui risulterebbe un diretto coinvolgimento di psicologi nella messa a

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punto di tecniche di tortura e di modificazione comportamentale per istigare paura e insicurezza nei prigionieri. L’indignazione e l’allarme destati da queste notizie ha indotto all’azione i nostri colleghi

della Divisione di Psicologia della Pace (Divisione 48 dell’American Psychological Association). Attraverso un comunicato diffuso il luglio

scorso (il testo è disponibile sul sito web della società: www.peacepsych.org), viene ribadito il netto rifiuto per qualsiasi forma di tortura e il ruolo importante della psicologia per la promozione e la tutela dei diritti umani. Parimenti, viene condannata qualsiasi con-dotta, diretta e indiretta, da parte di psicologi contraria a questi principi. Poiché la storia ci insegna che viviamo in tempi in cui l’etica è facilmente narcotizzabile, attraverso questo editoriale, raccogliamo l’invito dei colleghi della divisione americana di psicologia della pace e facciamo nostro il loro appello. Nella speranza che il rispetto della dignità umana non sia solo uno slogan episodico, magari buono per una manifestazione della domenica, ma sappia tradursi nelle nostre azioni quotidiane e nella nostra pratica professionale. In un Paese dove certo non manca l’esigenza di tutelare la dignità umana, basti solo pensare a cosa accade nei centri di permanenza temporanea per immigrati. Le foto sono state ricavate dai siti internet:

http://www.arendt-art.de/deutsch/irak/folterung_misshandlungen_im_irak-1.htm

http://news.bbc.co.uk/1/hi/world/americas/2150302.stm http://hostages.vestigatio.com/ http://ilgiorno.quotidiano.net/2005/02/09

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IIll MMeemmoorriiaallee ddii CCaaeenn.. UUnn mmuusseeoo ppeerr llaa ppaaccee

Michele Roccato

Inaugurato il 6 giugno 1988, in occasione del 44° anniversario dello sbarco in Normandia, il Memoriale di Caen è dedicato in parte a tramandare la memoria della II guerra mondiale, e in parte a fare prendere coscienza ai visitatori dell’assurdità, dell’atrocità e dell’insensatezza di ogni guerra. Non si tratta di un museo tradizionale: infatti, sono pochi gli oggetti recuperati nei campi di battaglia (chi fosse interessato a queste collezioni in Normandia non ha che l’imbarazzo della scelta: quasi ogni paese ha infatti un suo museo dedicato ai fatti del 1944); in maniera efficacissima, l’allestimento racconta invece la storia basandosi soprattutto su film, fotografie e documenti. Questo fa sì che la visita sia un’esperienza indimenticabile: si ha certamente occasione di imparare moltissime cose sulle cause scatenanti della II guerra mondiale, sulla vita quotidiana sotto i bombardamenti, sulle strategie e le tattiche dei generali che l’hanno condotta, su ciò che è stato davvero il D-Day, sull’incredibile prezzo pagato dalle popolazioni locali per essere liberate e anche su ciò che è accaduto dopo il 1945, con la guerra fredda e la continua minaccia di una guerra nucleare. Ma la visita al Memoriale è indimenticabile soprattutto dal punto di vista emotivo: difficile non uscire dal Memoriale senza essere stati violentemente scossi dalla visita e senza avere fatto un passo in avanti in direzione della ripulsa assoluta nei confronti della guerra. Non è un caso che il Mausoleo sia stato costruito a Caen, città quasi completamente rasa al suolo nelle operazioni seguite allo sbarco degli alleati, al punto di diventare simbolo della distruzione della guerra. La logica che sta dietro la costruzione del Memoriale può essere rintracciata nella frase di Élie Wiesel, secondo cui “la pace non è un

regalo che Dio fa agli uomini, ma è un regalo che gli uomini fanno a se stessi”. Si tratta allora di visitare il Memoriale, ma anche di portarci i ragazzi delle scuole medie e superiori, affinché possano toccare con mano l’atrocità della guerra, l’insensatezza della distruzione di massa e anche la fragilità della pace; e affinché possano rendersi conto che lavorare per la pace è un’impresa che merita di essere perseguita, pur nelle mille difficoltà che implica. Il Memoriale è strutturato in diverse sezioni. La prima è quella in cui vengono presentati gli eventi storico-politico-economici che hanno portato dalla Prima alla Seconda guerra mondiale. Intitolata Il fallimento della pace, è una sezione scenograficamente buia, cupa, che si arrotola su se stessa scendendo nei piani interrati del Memoriale, corredata di filmati, oggetti, registrazioni della voce di Hitler nei suoi comizi ed esaustivi tabelloni riassuntivi degli eventi. Nella seconda sezione è possibile vedere due film, Il D-Day e La battaglia di Normandia. Uno è un film di montaggio in cui, in uno schermo diviso in due parti, vengono mostrate le sequenze girate il giorno dello sbarco dai tedeschi e dagli alleati. Chi ha visto Salvate il soldato Ryan ed è rimasto choccato dalla scena dello sbarco sappia che questo film è decisamente più choccante, perché oltre a fare vedere e quasi toccare con mano i volti dei combattenti, la loro paura e la loro sofferenza, dà la precisa impressione dell’ampiezza enorme delle operazioni, del numero di persone morte e ferite, della strage tremenda e insensata che è la guerra. Oltretutto, la straziante opportunità di vedere il D-Day anche con gli occhi di chi era dalla parte sbagliata e, da soldato di leva, doveva difendere il nazismo in una guerra ormai quasi perduta è sinceramente indescrivibile, e

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meriterebbe da sola la visita al Mausoleo. Il secondo film mostra invece gli eventi succes-sivi allo sbarco; come in una sorta di Risiko, fa vedere i vari spostamenti delle armate, le battaglie decisive, gli errori tattici e i colpi di genio, gli eroismi e le viltà succedutisi nei 100 giorni successivi al D-Day. Un’altra sezione è dedicata alla storia della II guerra mondiale e alla vita quotidiana in Francia e nell’Europa fra il 1939 e il 1945. E qui – fra filmati ed effetti sonori efficacissimi – si tocca davvero con mano la follia della guerra, fra Auschwitz e i bombardamenti, fra le città rase al suolo e i filmati di propaganda, fra i milioni di vittime civili e gli indicibili sforzi economici per poter proseguire il conflitto, fra le rappresaglie e gli spasmodici tentativi di costruire le armi segrete che avrebbero consentito la vittoria, fra la fame, la sete, lo sporco e le malattie e le fucilazioni di massa, fra l’interiorizzazione dell’inevitabilità della violenza e l’arricchimento dei capitani di industria. E si incontrano anche gesti di coraggio e di inaspettata solidarietà, l’orga-nizzazione delle forze di resistenza in numerosi paesi, l’eroismo quotidiano degli inglesi nella Battaglia di Inghilterra e degli abitanti di Leningrado e Stalingrado. Ma alla II guerra mondiale non segue un periodo di pace: ce lo ricorda con grande efficacia la sezione sulla guerra fredda, che gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno combattuto al fine di tentare di acquisire la supremazia sul mondo in mille modi diversi: dalla promozione di conflitti periferici volti a indebolire il blocco nemico al ricorso all’arma economica, dalla propaganda allo spionaggio, dalla repressione su larga scala al ricorso a operazioni di immagine come la corsa allo spazio. In questa sezione si impara come i due blocchi hanno utilizzato tecniche propagandi-stiche assolutamente speculari nel presentare il blocco nemico, e si tocca con mano la fragilità del Dopoguerra, ricordando con sgomento quanto siamo stati vicini in varie occasioni alla guerra nucleare. Per fare un solo esempio, il discorso televisivo fatto da Kennedy alla popolazione americana all’epo-ca della crisi di Cuba è ancora agghiacciante e dà sul serio l’impressione che c’è mancato davvero pochissimo. Come sono agghiac-

cianti la parte della sezione dedicata alla vita quotidiana nei paesi del patto di Varsavia, ai fatti di Ungheria, alla repressione della Primavera di Praga e quella dedicata ai filmati girati durante i test nucleari negli anni ’50-60, quando l’impressione era che la guerra atomica sarebbe stata il destino quasi inevitabile dell’umanità. Ci sono poi alcune sezioni dedicate esplicitamente alla pace. All’interno del Memoriale c’è un padiglione in cui viene discusso il concetto stesso di pace, critican-done la definizione di assenza di guerra, e vengono presentate sia una serie di culture di pace sviluppate dall’umanità in luoghi e in momenti diversi, sia alcune proposte di azione volte alla costruzione della pace. In questo padiglione ci sono anche alcuni laboratori della pace espressamente dedicati agli stu-denti, che mirano a fare sì che i visitatori prendano coscienza del fatto che tutti noi siamo attori, e non solo spettatori, della guerra e della pace. Collegato a questo padiglione c’è l’anfiteatro in cui si può assistere al film Speranza, curato dall’acclamato attore e regista Jacques Perrin (fra gli altri, autore de Il popolo migratore, candidato all’Oscar come migliore documentario nel 2003): titolo in parte provocatorio, dato che mostra il fallimento dell’Onu come istituzione capace di garantire la pace perpetua fra i popoli, e in parte no, dato che congeda lo spettatore con l’auspicio che, agli inizi del Terzo millennio, si possa scommettere davvero sulla pace. In un sotterraneo collocato nel giardino del Memoriale – dove all’epoca del D-Day si trovava il posto di comando del generale nazista Richter – c’è poi una galleria dei Premi Nobel per la pace… tutti, anche quelli meno difendibili come Kissinger. Ed è curioso notare come nel corso del tempo i criteri per l’assegnazione del Premio siano cambiati, passando dal privilegiare oscuri militanti del movimento pacifista occidentale al premiare grandi personalità, spesso nate nel Secondo o nel Terzo mondo. Si assiste insomma a una sorta di “politicizzazione” del Premio, ormai espressamente conferito a soggetti capaci di attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica sugli eventi più importanti dell’epoca (la democratizzazione

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del blocco sovietico, con i Premi a Sakharov, a Walesa e a Gorbaciov; la fine dell’ apar-theid, con i Premi a Mandela e a De Klerk; il tentativo di portare la pace in Medio oriente, con i Premi a Rabin e ad Arafat). Esiste infine una zona accessibile anche senza biglietto, che comprende, fra l’altro, degli archivi documentaristici (accessibili solo su appuntamento), una mediateca e un giardino d’infanzia. Qualche informazione pratica. Il Memoriale ha un sito internet (http://www.memorial-caen.fr), in francese e in inglese. Il suo indirizzo è Esplanade Eisenhower, BP 6261, 14066 Caen Cedex 4. Il suo telefono è 33 (0) 2 31 060644 (si noti che 06-06-44 è la data del D-Day), la sua email [email protected]). Il Memoriale è aperto tutti i giorni (tranne Natale e i primi 15 giorni dell’anno) fra le 9 e le 19 (le 18 in inverno e le 20 in estate). Dal punto di vista organizzativo, il

consiglio è di dedicare una giornata intera alla visita. Non è però indispensabile arrivare la mattina presto: è infatti consentito tornare il giorno dopo se la visita non è finita il giorno dell’emissione del biglietto. Si possono anche prenotare visite sia al Mausoleo, sia ai luoghi in cui è avvenuto lo sbarco: fra essi, particolarmente interessanti sono Arroman-ches, dove per favorire lo sbarco nel 1944 fu costruito quello che allora era il più grande porto del mondo, i cui detriti sono ancora incagliati al largo del paese e in parte sulla spiaggia; le spiagge dove è avvenuto lo sbarco (Omaha beach fra tutte); e i cimiteri, molto diversi nella loro struttura in base alla nazionalità dei soldati che vi giacciono (magniloquenti e imperiali quelli americani, più dimessi quelli britannici e canadesi, strazianti nel loro essere spogli e pieni di morti senza nome e per la causa sbagliata quelli tedeschi).

GGUUEERRRRAA,, TTEERRRROORRIISSMMOO EE BBAAMMBBIINNII

Fausta Fabris

Quotidianamente molti bambini vivono situa-zioni di guerra e terrorismo. Sulla loro esposizione a questi avvenimenti si svolgono, da anni, studi per capirne gli effetti sullo sviluppo e quali aiuti poter fornire. Le variabili da considerare sono numerose, tanto più per quelle indagini che si effettuano sul posto. Infatti gli studi, su situazioni di questo tipo, possono essere fatti solo in periodi di pace, a conflitti terminati, e indagando sul campo le esperienze dei bambini, i loro vissuti, le loro reazioni. Una rassegna dello stato dell’arte della ricerca su guerra e bambini è presentato nel sesto volume della rivista Clinical Child and Family Psychology del dicembre 2003. Di questo proponiamo un breve excursus relativo

agli articoli del quarto numero che affrontano questo tema. L’argomento bambini all’interno di un contesto di guerra o disastro viene accostato a quello di vittima innocente senza approfondi-menti in merito. In quanto vittime possono avere due destini: la morte o la sopravvivenza in un ambiente distrutto, sia nelle strutture fisiche che nei rapporti sociali. I bambini sopravvissuti si trovano ad affrontare tre situazioni particolari: lo stato da rifugiato, la perdita dei propri cari e il rischio di diventare loro stessi dei soldati1.

1 Jon A.Shaw, Children Exposed to War/Terrorism, Clinical Child and Family Psychology, Volume 6, Number 4, December 2003.

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Lo stato da rifugiato: si stima che ci siano circa 22 milioni di rifugiati nel mondo metà dei quali bambini e altri 20 milioni di persone sparse nel proprio paese ma senza la possibilità di ritornare nella propria casa. Ad esempio, secondo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU tra la guerra in Iraq del 1991 e quella del 2003, la complessità delle relazioni internazionali ed i conflitti tra le nazioni hanno imposto enormi sofferenze alla popolazione. Si stima che nei dodici anni di sanzioni imposte agli iracheni, 16 milioni abbiano necessitato di razioni di cibo e che mezzo milione di bambini sia stato malnutrito e sottopeso. Le Nazioni Unite stimano, inoltre, altri seicentomila rifugiati in seguito alla recente guerra in Iraq.

La perdita dei propri cari: nonostante l’ampia letteratura sugli effetti psicologici in seguito alla morte dei propri genitori, sono pochi gli studi sul lutto dei bambini e sulle conseguenze a lungo termine. Gli studi effettuati in tempo di pace mostrano vari gradi di disturbi psicologici, tra i quali depressione e idee suicide. Però un’emergente letteratura sostiene che l’impatto psicologico della morte di un ge-nitore possa essere attenuato dalla disponi-bilità della famiglia allargata e cioè da buoni rapporti del bambino con i familiari rimasti.

Bambini soldato: si stima che trecentomila bambini in tutto il mondo con meno di 18 anni abbiano combattuto in diversi conflitti. Questi bambini sono stati allo stesso tempo vittime di guerra e perpetratori di violenza, in quanto obbligati a commettere atti di violenza per provare la loro fedeltà ad un determinato gruppo di appartenenza. Questa partecipazione a atti di violenza brutale e aggressiva, fornisce al bambino le tecniche per sopravvivere in un tale ambiente, ma allo stesso tempo danneggia il suo senso morale rispetto all’uso della violenza.

Oltre agli studi sulle situazioni vissute in tempo di guerra che permettono di definire parte del contesto in cui vivono i bambini, la maggioranza delle ricerche si sofferma sull’a-nalisi delle reazioni e delle conseguenze.

Le risposte psicologiche dei bambini a questi tipi di trauma sono simili a quelle degli adulti ma, rispetto agli adulti, è necessario qui considerare l’influenza del livello di sviluppo fisico, emotivo e cognitivo raggiunto dal bambino. Nel considerare le diverse tipologie di reazioni alla guerra da parte bambini, gli studi disponibili hanno scelto criteri diversi per descriverle. Non potendo includerle, data la diversità degli approcci utilizzati, si presentano usando la stessa classificazione proposta negli articoli della rivista.

Studi in base all’intensità delle reazioni Nessun effetto o piccole reazioni: è il caso di bambini che reagiscono in modo sorprendente a situazioni di guerra, infatti le risposte che attuano spesso sono meno intense di quelle attese. Questo adatta-mento è più facile se il bambino ha attorno a sé una forte unione sociale, caratterizzata da condivisione di valori, infatti si è visto che il senso di comunità rafforza la capacità di recupero in situazioni di questo tipo.

Reazioni emotive e comportamentali acute: questo tipo di risposta resta la più riscontrata in seguito a eventi di guerra e terrorismo. Tra le sintomatologie più comuni si riscontrano i sintomi del Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), quali il rivivere gli eventi sia mentalmente che fisicamente, una forte tendenza ad evitare tutto quello che ricorda l’esperienza traumatica, situazioni di ipervigilanza o irritabilità e difficoltà a dormire.

Reazioni a lungo termine: ci sono pochi studi sugli effetti psicologici a lungo termine di bambini esposti a situazioni traumatiche. L’impatto dei traumi legati alla guerra è direttamente collegato all’intensità e alla durata degli eventi sull’integrità fisica. L’esposizione acuta e cronica a fattori stressanti durante l’età dello sviluppo aumenta il rischio d’ansia, di disturbi dell’umore, di problemi di controllo dell’aggressività e di malattie. Ad esempio vivere in comunità degradate, con infrastrutture precarie e con spazi di gioco insicuri è un fattore di stress continuo, che si ripercuote sia sulla salute del bambino,

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con una percentuale maggiore di ammalati, che sul rendimento scolastico.

Studi in base all’età2 Nello stesso modo in cui mente e corpo dei bambini cambiano e crescono, alcune reazioni alla guerra si modificano in base all’età e al livello di sviluppo. Le reazioni qui presentate tengono conto delle caratteristiche di ogni tappa evolutiva, determinando il come e il perché compare quel tipo di risposta.

Età prescolare (0-6 anni). Dal punto di vista cognitivo, i bambini sotto i sei anni hanno difficoltà a considerare altre prospettive: prestano attenzione per poco tempo a quello che gli si dice e qualche volta ignorano informazioni importanti. Quando un bambino di questa età vive un evento traumatico, come un bombarda-mento, può erroneamente pensare di essere stato lui la causa, con un ragionamento del tipo “se non avessi fatto capricci e ascoltato la mamma questa cosa brutta non sarebbe successa”. Spesso le informazioni di eventi traumatici, presentati dai media o comunicate dagli adulti, per il bambino di questa età, sono troppo complicate da capire. Se un adulto è sconvolto per un evento traumatico e non controlla le proprie reazioni davanti ad un bambino quest’ultimo può interpretare il comporta-mento dell’adulto come reazione a qualcosa fatta da lui. Inoltre i bambini di questa età non percepiscono la morte come qualcosa di permanente e quindi neanche i relativi rischi di situazioni potenzialmente pericolose. Possono manifestare diverse paure, come la paura di lasciare la casa dei genitori, la paura di andare a dormire o la paura di uscire, che rappresentano il loro modo per comunicare ansia e preoccupa-zione.

Età scolare (7-11 anni). I bambini a questo livello evolutivo hanno acquisito la capacità di considerare altri punti di vista. Il loro pensiero resta, comunque, molto concreto e le esperienze traumatiche

2 Paramjit T. Joshi, Deborah A. O'Donnell,

Consequences of Child Exposure to War and Terrorism, Clinical Child and Family Psychology, Volume 6, Number 4, December 2003.

restano sempre molto difficili da capire completamente. Le loro reazioni tipiche sono confusione, paura, ansia e regressioni a comportamenti infantili come il fare la pipì a letto, il parlare in modo infantile rispetto alla propria età, e la ricerca di un oggetto tranquillizzante come una bambola o un orsetto. Col tempo possono affiorare anche la paura di restare soli e la paura per la propria incolumità. Questi timori possono acutizzarsi in situazioni di guerra o terrorismo prolungate, con stati cronici di allarme e iperattività. E’ importante che i genitori siano sinceri sulle proprie paure e si sforzino di affrontare la situazione per comunicare, così, le giuste strategie al bambino.

Età adolescenziale (12 anni in poi). I ragazzi a questa età hanno sviluppato il pensiero astratto e riescono, quindi, a considerare argomenti come la religione, la morale, l’etica come possibili spiegazioni ad eventi come la guerra e le sue distruzioni. Le possibili risposte adolescen-ziali sono di tre tipi: il nascondere i propri sentimenti e paure con alto rischio di sindromi depressive, l’indifferenza alla situazione, per porre un controllo a ciò che sta accadendo facendo finta che sia tutto a posto, e l’irritabilità con atteggiamenti di sfida che rappresentano un tentativo di controllare ansia e paura.

Studi su quadri psichiatrici Altri studi si sono concentrati nel rilevare determinati disturbi di origine psicologica, classificati nei manuali psichiatrici.

Disturbo Post-Traumatico da Stess (PTSD): l’incidenza del PTSD sui bambini è ancora oggetto di dibattito, c’è chi sostiene con alcune ricerche che i bambini maltrattati sviluppino PTDS e chi vede i vari sintomi come difficoltà comportamen-tali ed emotive piuttosto che un chiaro quadro di disturbo post-traumatico.

Depressione: sono stati studiati i sintomi depressivi su bambini rifugiati trovando che il livello di depressione non dipendeva dal numero di traumi subiti ma dalla situazione familiare, dall’età del bambino, e dalle capacità di reagire dell’individuo. La rottura di un buon legame e

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comunicazione con la madre sono risultati molto legati allo sviluppo di questi sintomi.

Stati disocciativi: è stato riscontrato anche questo tipo di comportamento in alcuni bambini. Si tratta di una difesa verso un trauma a cui non ci si può ribellare fisicamente, quindi ci si allontana mental-mente. La dissociazione è un fattore protettivo che permette al bambino di salvarsi, a livello psicologico, dal trauma. I rischi di questa reazione provengono dagli adulti, i quali possono interpretare questo sintomo come segnale di altri disturbi gravi, estranei al trauma del bambino, come ad esempio disturbi dell’attenzione o disturbi psicotici.

Disturbi del comportamento: l’aggressività è un’altra risposta rilevata nei ragazzi in seguito all’esposizione ad esperienze di violenza; inoltre queste esperienze, se ripetute nel tempo, forniscono un modello di comportamento che può portare i ragazzi a un’identificazione con l’aggres-sore adottando gli stessi comportamenti.

Uso di sostanze e alcol: studi su bambini traumatizzati dimostrano che questi sono più inclini all’abuso di sostanze. In particolare abusano di l’alcol, perché riduce l’ansia, di oppiacei, perché favoriscono stati dissociativi, e di cocaina, per il suo effetto stimolante.

Studi sui fattori che possono mitigare le risposte Ci sono studi che hanno rilevato, inoltre, i vari tipi di contesti e situazioni (variabili mediatrici) che influiscono sul modo di reagire di un bambino ad un evento traumatico.

Tipo e grado di esposizione all’evento: la prossimità fisica è determinante rispetto alle reazioni che vengono messe in atto. Maggiore è la vicinanza e l’intensità dell’evento, maggiori sono i disagi a livello psicologico per il bambino. Comunque si è rilevato che la non presenza fisica sul luogo dell’evento non significa assenza di disturbi, ma solamente una percentuale inferiore. Ciò fa supporre che anche un’esposizione di tipo indiretto può con-durre a importanti problemi, ma gli studi

su questo aspetto, finora, sono molto limitati.

Il sostegno della famiglia o degli adulti che lo circondano: questo tipo di aiuto permette al bambino, osservando il com-portamento degli adulti, di imparare come gestire l’ansia e la paura del momento. Per questo motivo è importante, secondo questi studi, che gli adulti non nascondano le loro reazioni facendo finta di nulla rispetto all’accaduto, evitando però di mostrarsi nei momenti di disperazione poiché un adulto in panico, oltre a creare molta ansia nel bambino, diviene modello negativo quando invece dovrebbe insegnargli a reagire.

Predisposizioni naturali: un altro aspetto fondamentale, e quasi straordinario, ri-guarda le risorse inaspettate che alcuni bambini, anche molto piccoli, sanno attuare in risposta ad una situazione di grande stress: abilità come saper auto-controllarsi o riuscire a chiedere sostegno agli altri. Queste capacità dipendono sia dal temperamento dell’individuo sia dall’ambiente in cui è cresciuto.

Questioni ancora aperte3 Naturalmente, restano ancora molte cose da indagare. Si ritiene così opportuno terminare questa rassegna evidenziando questi punti, in quanto rappresentano le tappe future del lavoro di ricerca:

esposizione diretta e indiretta alla violenza, la natura della violenza, le relazioni del bambino con il contesto sociale della violenza.

Esposizione primaria (osservata diretta-mente) e secondaria (presentata dai media) alla violenza causata da guerra, terrorismo o catastrofi naturali.

Conseguenze primarie e secondarie dell’esposizione a guerra, terrorismo e catastrofi naturali.

Effetti biologici e neurologici sull’ indivi-duo.

Come influiscono la povertà, la cultura, l’etnicità, sulle risposte della comunità.

3 Margaret M. Feerick, Ronald J. Prinz, Next Steps in Research on Children Exposed to Community Violence or War/Terrorism, Clinical Child and Family Psychology, Volume 6, Number 4, December 2003.

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Quali sono le condizioni preesistenti che permettono lo sviluppo della violenza.

Come la scuola e la comunità possono aiutare i bambini che hanno vissuto esperienze di guerra e terrorismo.

Quali fattori aiutano i bambini ad affron-tare la guerra e il terrorismo.

Come favorire la capacità di recupero. Quali strategie di coping e adattamento favoriscono la capacità di recupero.

Come creare interventi efficaci a livello individuale, familiare, e di comunità.

Determinare i trattamenti più validi per i bambini esposti a guerra.

Formare persone in grado di dare sostegno a questi bambini.

Migliorare la comunicazione sociale, identificando prima le caratteristiche dell’audience a cui ci si rivolge.

Valutare l’influenza dei genitori sui sintomi dei bambini, e promuovere inter-

venti di sostegno per i genitori sopravvis-suti.

Focalizzarsi sulle prospettive di sviluppo del bambino, cercando di far intervenire i parenti sopravissuti agli interventi.

Valutare, tra i vari interventi, i tempi migliori, le persone più adatte (sia a ricevere che a fare l’intervento) e le mi-gliori tecniche da usare.

Studiare gli interventi nei diversi contesti. Promuovere strategie di prevenzione. Valutare costi e benefici dei diversi approcci.

Effettuare studi longitudinali. Naturalmente questo elenco vuole essere soprattutto un invito a continuare le ricerche, che restano la via principale per conoscere, capire e aiutare bambini e famiglie in contesti così difficili e tragici, con interventi sempre più integrati ed efficaci.

AAIIUUTTII UUMMAANNIITTAARRII IINN ZZOONNEE DDII GGUUEERRRRAA UUnnaa tteessttiimmoonniiaannzzaa

Chiara Giacco

L'aiuto umanitario discende dai principi etici espressi dalla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 ed ha come obiettivo il soccorso, l'assistenza e la protezione delle popolazioni (in particolare di quelle più vulnerabili), vittime di eventi catastrofici, siano tali eventi di origine naturale (uragani, terremoti) o umana (guerre, conflitti politici, crisi econo-miche o alterazioni dell'ambiente). Compito dell'aiuto umanitario è la prevenzione e l'attenuazione della sofferenza umana, senza alcuna discriminazione razziale, etnica, religiosa, di sesso, di età, di nazionalità o di appartenenza politica. Nello specifico l’azione umanitaria si svi-luppa in cinque settori:

l'aiuto umanitario generico, che prevede l'assistenza alle vittime di situazioni strutturali di penuria, successive a crisi economiche prolungate od a conflitti persistenti;

l'aiuto umanitario d'urgenza, che si attiva con forniture massicce di beni e servizi indispensabili a garantire la sopravvivenza delle popolazioni colpite da calamità;

l'aiuto alimentare urgente, che si attua con l'invio mirato di generi alimentari, destinati alle popolazioni minacciate dalle carestie o da gravi penurie, qualunque ne sia stata l'origine;

l'aiuto ai rifugiati ed ai profughi, inteso ad organizzare sia l'accoglienza nei paesi

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ospitanti che il rimpatrio delle persone sfollate;

la prevenzione dei disastri, che prevede l'attivazione di sistemi informativi e di preallarme nelle area a rischio, coadiuvati da dispositivi atti a contenere e ad attenuare gli effetti di una calamità.

Con questo concetto inoltre si intende un intervento di organizzazioni private o ufficiali avente lo scopo di fornire mezzi economici e tecnici a gruppi, organizzazioni o governi che presentano bisogni economici che non sono in grado di soddisfare da sé. Gli aiuti internazionali inoltre possono essere distinti in:

aiuti di emergenza, che vengono attuati in occasione di gravi eventi naturali, economici, sociali, di elevato impatto sulle condizioni di vita della popolazione; essi hanno una dimensione e una durata predefinita in relazione al tipo di evento che ha colpito la popolazione;

aiuti strutturali, che vengono attuati in relazione a problemi economici e sociali permanenti, per i quali gli aiuti devono tendenzialmente favorire una soluzione stabile e definitiva.

Riguardo ai mezzi con cui si attuano ci possono essere differenti modalità di aiuti umanitari:

in natura, come derrate alimentari, indumenti, sementi, e tutto ciò che può essere immediatamente utilizzato dai destinatari; si tratta di mezzi tipici degli aiuti di emergenza.

Tecnico-scientifici, come macchinari, impianti, personale tecnico e scientifico, istruttori, insegnanti, e tutto ciò che può essere utilizzato dai destinatari, da soli o insieme ai donatori, per avviare attività economiche; sono mezzi tipici degli aiuti strutturali.

Finanziari, cioè prestiti o donazioni che i destinatari possono utilizzare per effettuare spese su progetti economici propri o concordati coi donatori; gli aiuti finanziari sono generalmente legati a problemi strutturali, ma possono intervenire anche in occasioni di emergenza.

Infine trattiamo dei soggetti coinvolti in questo processo: sono denominati donatori coloro che organizzano le attività e, benefi-

ciari, le popolazioni locali che ricevono gli aiuti, privati o ufficiali. Generalmente i primi sono organizzati in forma di cooperativa o di organizzazioni non governative; mentre nel caso degli aiuti ufficiali si parla di aiuti bilaterali se essi sono effettuati direttamente dal governo donatore al governo destinatario e, di aiuti multilaterali, se essi giungono al governo destinatario tramite organizzazioni economiche internazionali. Negli ultimi anni, anche in seguito alla gravità delle numerose guerre e catastrofi naturali verificatesi, il settore degli aiuti umanitari è decisamente in crescita e sviluppo. Probabil-mente è anche per questo stato delle cose che spesso sono state sollevate non poche critiche riguardo alle modalità di realizzazione degli aiuti stessi. C’è infatti chi sostiene che in molti casi gli aiuti siano inutili ed inadeguati, perché l’introduzione di grandi risorse economiche e materiali alimenta la corruzione e forme di organizzazioni mafiose locali e non. In alcuni casi inoltre si ritiene che il fornire aiuti alimentari fondamentalmente non faccia altro che alimentare solo un’ulteriore dipendenza dei Paesi del Sud del mondo nei confronti di quelli del Nord, un processo che viene chiamato “seconda colonizzazione”. In molti Paesi inoltre accade che questo tipo di sussidi vengano intercettati dai signori della guerra e utilizzati per dare sostentamento agli apparati militari delle varie guerriglie locali. Concreta-mente gli aiuti vengono rivenduti al mercato nero delle popolazioni locali assediate, e con il ricavato si acquistano ulteriori armi; dunque nei fatti si alimenta la guerra e si prolungano le situazioni di violenza. Infine si ritiene che nel medio e lungo periodo gli aiuti umanitari abbiano solitamente un impatto economico e sociale devastante; in quanto non stimolano affatto le risorse locali, ma al contrario contribuiscono a indebolire le forme di responsabilità politica democratica e rendono più fragili i sistemi locali in termini di produzione, socialità e sostenibilità. Memore di tutto ciò ho sentito comunque l’esigenza di cercare di capire e vedere più da vicino quale fosse la reale condizione di certe zone del mondo e soprattutto cosa realmente

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pensasse la popolazione locale di tutto questo “grande carrozzone” chiamato cooperazione. Per questo motivo, dopo varie esperienze di lavoro per progetti umanitari realizzati in Africa, India e nei Balcani, tra luglio e dicembre del 2003 ho vissuto a Kabul (Afghanistan) collaborando con due ONG italiane (il COOPI di Milano ed il GVC di Bologna). Mio principale obbiettivo è stato quello di dare la definizione e quindi la dimostrazione pratica di un concetto, quello della coopera-zione informale, che da tempo stavo cercando di maturare. Con il termine cooperazione informale mi riferisco in parallelo alla definizione di economia informale prospettata da Latouche4 come una nebulosa ancora difficile da definirsi completamente, da non ridurre al solo settore economico, ma alla vita sociale e ad un’autentica cultura della povertà. L’espressione informale infatti apparve in economia nel corso degli anni Settanta a proposito dell’Africa Nera, prima di diffondersi in America Latina e poi nel resto del Sud del mondo.5 L’informale quindi non designa unicamente una realtà economica atipica, invisibile, ma anche una società indecifrabile, in rapporti problematici con la modernità, che non si può definire né legale, né illegale, alla lettera è altrove, al di fuori dei quadri di riferimento e dei valori dominanti. Inoltre prevede strategie globali alle sfide poste dalla vita ed è indissociabile dall’insieme del contesto sociale, cioè dai rapporti tribali o “neoclanici”, di una identità culturale residuale o reinventata. Secondo Philippe Hugon le attività informali devono “apparire non come sopravvivenze ma come

4 Serge Latouche, L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino 1993. 5 Sembra che K. Hart si è servito per la prima volta dell’espressione “informal sector” in occasione di una conferenza presso l’Università del Sussex nel settembre 1971: Informal Income Opportunities and Urban Employment in Ghana, poi in Journal of Modern African Studies, 11°, pp. 61-69. L’espressione sarà ripresa dal BIT nello studio Emplois, revenus et egalité. Stratégie pour accroître l’emploi productif au Kenya, Ginevra 1974.

creazioni moderne che reinterpretano i vecchi rapporti sociali o ne inventano di nuovi”6. Lo sviluppo “spontaneo” è perciò presentato come un processo che manifesta la vitalità, la creatività di società nuove, diverse, fatte di collettività tradizionali trasformate dallo schock della modernità. In Afghanistan mi è stata offerta l’occasione di analizzare proprio una società di questo tipo. Infatti in seguito al fallimento, all’inesistenza delle istituzioni politiche e alla mancanza di mezzi tecnici, finanziari e di fronte alla minaccia della propria scomparsa dalla realtà sociale, le donne afgane hanno inventato soluzioni originali, mettendo in opera una vera e propria “via alternativa” indipendente. Queste ultime lo hanno fatto spontaneamente, con estremo coraggio dando prova di un’autentica capacità di risolvere alcuni dei loro problemi, sulla base di rapporti sociali diversi (salariato atipico, solidarietà etnica, nuovi rapporti comunitari). Visto in questa ottica l’informale per P. Harrison “costituisce la maggiore riserva di adattamento e d’invenzione che esista nei paesi in via di sviluppo” 7. Ai fini del mio lavoro è importante anche considerare che per ora questa “altra forma” di sviluppo è una mistificazione, che si gioca sulla confusione tra il fine e i mezzi, perché l’obbiettivo anche da parte della popolazione locale, resta comunque lo sviluppo inteso in senso classico. La differenza tra la cooperazione internazionale e quella infor-male ritengo comunque possa essere accettabile per ciò che riguarda i mezzi e le modalità utilizzati. L’informale in questa ottica non è portatore in se stesso di un progetto di sviluppo, caratteristico dell’appartenenza alla società occidentale, ma è, viceversa, portatore e promotore di un’altra società, in cui la solidarietà appare come una forma di ricchezza autentica. Una società dotata di una elasticità infinitamente superiore a quella

6 I. Deble e Ph. Hugon, Vivre et survivre dans les villes africaines, PUF, Paris 1983, pp.161 sg. 7 P. Harrisson, Inside the Third World, Penguins Books, Harmondsworth 1979.

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occidentale nella quale “arrangiarsi è la regola”. In questi casi la creatività e l’ingegnosità sono esercitate al servizio di una socialità ricostruita e non stentano a trovare o a dominare le tecniche di cui questa ha bisogno. Durante la mia permanenza a Kabul ho avuto l’onore di intervistare donne che, in particolare sotto il regime talebano, hanno realmente concretizzato quello che intendo con il concetto di cooperazione informale. Molte di loro in quegli anni si sono “autorganizzate” in scuole segrete, cliniche per donne o qualunque tipo di sostegno ed assistenza vietati alle donne. Le afgane infatti erano state letteralmente cancellate dalla realtà sociale del paese, essendo state loro proibite moltissime cose tra le quali la frequenza delle scuole e di tutti i luoghi della vita pubblico-sociale. Alcune tra loro hanno spesso messo a rischio le proprie vite, partecipando a queste attività di resistenza pacifica. Latifa mi racconta: “Per evitare ogni rischio avevamo affittato un’altra casa dove organizzare i corsi. Molte persone venivano da me, ma una alla volta, a turno, per non attirare l’attenzione, perché appena più donne entravano in una casa, subito arrivavano i Talebani che volevano sapere perché quelle donne erano lì, chi erano, cosa facevano e che tipo di relazione avessimo. Ad esempio quando l’ingegnere che collaborava con noi veniva a casa mia, se arrivava la polizia islamica, ogni volta dicevamo che era un amico di mio padre o di mio fratello, perché se no sarebbe stato molto rischioso. Avevamo detto a tutti i nostri alunni di dire che partecipavano a dei corsi sul Corano, in maniera da evitare ogni pericolo. I Talebani sono venuti per tre volte nella nostra casa. Un giorno mentre insegnavo matematica c’è stata un’irruzione e mi hanno vista, immediata-mente ho cercato di chiuderli fuori, ma continuavano a bussare alla porta dicendo che volevano entrare. Ho tentato di allontanarli sostenendo che in quel luogo erano presenti solo donne e loro non potevano vederle. Erano in tanti e la gente si era radunata là fuori. In seguito è arrivata mia madre e ha

detto loro che stavamo studiando il Corano e così se ne sono andati. Un po’ di tempo dopo hanno inviato due donne del Ministero per controllare che tutto fosse vero e non hanno trovato niente, perché io avevo fatto nascon-dere ogni cosa. In altre occasioni i Talebani hanno chiuso i miei corsi, ma io cercavo comunque di parlare con loro per convincerli che non insegnavo “niente di pericoloso”. Tutto ciò si verificava perché il regime aveva paura che le donne imparassero ad usare il computer, a parlare inglese, la fisica… Secondo loro le uniche cose da studiare erano il Corano, l’Islam e il ricamo. Per mantenere i contatti tra noi preferivamo sempre la comunicazione scritta, soprattutto tramite l’ingegnere che, essendo uomo, poteva viaggiare tranquillamente nel Paese; quando dovevamo trasmetterci documenti scritti li affidavamo comunque a persone estremamente fidate”. Condividere con loro i racconti delle sensazioni, delle paure provate è stata un’occasione davvero emozionante, ed ho anche percepito una forte carica e voglia di ricominciare, di rimettersi in gioco. Queste donne, consapevoli della fortuna che hanno avuto ricevendo un’educazione, ora vogliono aiutare le afgane che si trovano in condizioni misere, spesso vedove e senza nessuno su cui poter far riferimento. Difficile invece è stato cercare di capire quanto realmente possano fare gli aiuti umanitari in certe situazioni. Senza dubbio molto dipende dagli espatriati che lavorano sul campo, dai contesti dei Paesi in cui ci si trova a lavorare, ma soprattutto dalla popola-zione locale, alla quale ritengo tuttavia non si faccia ancora troppa attenzione. Diventa perciò fondamentale che i paesi del Sud del mondo si riapproprino concretamente dei loro problemi, al di là di ogni aiuto umanitario. Infatti quando gli si lascia la responsabilità delle proprie sorti, il contadino africano, come l’artigiano della bidonville o, nel nostro caso, le donne afgane danno prova di una creatività miracolosa.

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IInniizziiaattiivvee ssuull tteerrrriittoorriioo

A.p.s. CENTRO CAPTA onlus di Vicenza

CENTRO CAPTA onlus via gen. A. Chinotto, 24

36100 Vicenza tel. 0444542806 tel. 3489138529

[email protected] www.centrocapta.it

Il CENTRO CAPTA L’associazione di promozione sociale CENTRO CAPTA è un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale sorta grazie all’iniziativa di un gruppo di persone unite da obiettivi sociali e professionali per cercare di dar vita a un nuovo spazio di riflessione e di azione. Il CENTRO si fa promotore nella realtà veneta di progetti che permettano di unire l’approfondimento teorico, la ricerca e la fattiva realizzazione di interventi in ambito psico-sociale. Muovendo da una visione sistemica e costruttivista considera la rela-zione agita e significata nei concreti contesti di vita, il punto di partenza per condividere il cambiamento e la trasformazione delle realtà che producono disagio sociale, psicologico e relazionale. Due le direzioni intraprese: favorire la crescita e lo sviluppo delle potenzialità inespresse e, contemporaneamente, affrontare i disagi, i problemi e le difficoltà presenti a livello personale, interpersonale, di gruppo o di comunità. Il CENTRO CAPTA propone iniziative e progetti diretti a gruppi, scuole, istituzioni, centri di accoglienza, tesi a promuovere e sostenere una relazione umana e sociale, solidale e empatica, valorizzando le molte

diversità umane e culturali perché possano divenire elemento centrale e fondante una comune ricerca di nuove strategie di azione. Inoltre propone iniziative mirate ad affrontare il disagio psicologico e relazionale, il disagio familiare e di comunità, il disagio psichico e la malattia mentale, il conflitto personale, interpersonale e tra gruppi, il dialogo tra culture diverse. Il CENTRO CAPTA organizza e promuove sia momenti culturali e formativi, per riflettere e approfondire le tematiche affron-tate, sia interventi attuati in autonomia o in collaborazione con altre associazioni, enti o agenzie formative, quali l’Università e la scuola. Ambiti di azione

Convivenza sociale, intercultura, comu-nicazione interculturale

Prevenzione del disagio sociale Mediazione e gestione dei conflitti Crescita della persona e della comunità Sviluppo della creatività e delle compe-tenze nella comunicazione e nelle relazioni interpersonali

Promozione dell’autonomia di persone in condizione di marginalità sociale, relazio-nale, psico-fisica.

Modalità di intervento

Ideazione, supervisione, valutazione di progetti di intervento

Ricerca in ambito psicologico, sociale, educativo

Attività culturali: conferenze, promozione artistica, cineforum, incontri teatrali, ecc.

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Counselling Formazione in ambito psicologico, sociale, educativo (corsi, workshop, seminari)

Attività culturali: conferenze, promozione artistica, cineforum, incontri teatrali

A chi sono diretti gli interventi Scuole e agenzie formative Enti pubblici e privati Centri di accoglienza e centri diurni Comunità e centri residenziali Gruppi e associazioni Famiglie e persone della comunità

C.I.R.S.S.I. Centro Interdipartimentale di Ricerca e Servizi per gli Studi Interculturali dell’Università di Padova

presso il Dipartimento di Psicologia Generale Via Venezia, 8 - 35131 Padova tel. 049 827 7455 - 049 827 4651 [email protected] www.cirssi.unipd.it Il Centro Interdipartimentale di Ricerca e Servizi per gli Studi Interculturali dell’ Università di Padova (C.I.R.S.S.I.) nasce su iniziativa di studiosi provenienti da ambiti disciplinari diversi accomunati dal fatto di lavorare nel campo dell’intercultura. Obiettivi L’obiettivo del Centro è quello di promuovere nuove forme di comprensione e di pratica dei processi sociali connessi ai fenomeni migra-tori nella consapevolezza del fatto che i modelli di riferimento teorici e pratici correnti non si mostrano pienamente adeguati alla situazione che abbiamo di fronte. Punto di forza del Centro è il fatto di operare con studiosi aventi competenze diversificate. Interessi Il Centro è interessato ad operare in collaborazione con le diverse realtà, istituzio-nali e non, presenti nel territorio e intende dare vita a gruppi di ricerca che siano interculturali anche per quanto riguarda la provenienza dei membri. Si propone sia come promotore di iniziative che come centro di documentazione e luogo di coordinamento delle attività già presenti sul territorio. Esso costituirà inoltre il luogo di riflessione sulle

categorie concettuali che orientano l’agire interculturale; il contesto di progettazione dei connessi interventi operativi; l’ambito di attuazione delle proposte ideato in forma partecipata con il territorio. Attività In riferimento a tali linee di fondo, il Centro ha in programma la realizzazione di:

momenti di riflessione teorica (seminari, convegni, scritti)

progetti di ricerca (dall’analisi di casi ai monitoraggi su vasta scala)

percorsi formativi (rivolti a chi, a diverso titolo, opera in ambito sociale, politico, educativo)

centro di documentazione (coordinamento, raccolta di dati, di informazioni, di progetti)

progetti di intervento (nell’ottica della progettazione partecipata)

partecipazione a reti nazionali ed internazionali

Comitato tecnico-scientifico Adone Brandalise (direttore), Giuseppe Mantovani (condirettore), Silvana Collodo, Silvia Failli, Giuseppe Milan, Vicenzo Pace, Paolo Scarpi. Dipartimenti coinvolti Dipartimento di Discipline Linguistiche Co-municative e dello Spettacolo, Dipartimento di Filosofia, Dipartimento di Geografia, Dipartimento di Italianistica, Dipartimento di Psicologia Generale, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, Dipartimento di Scienze dell’Educazione.

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LLiibbrrii

a cura di Roberta Radich

Recensioni Dora Capozza e Chiara Volpato, Le intuizioni psicosociali di Hitler: Un'analisi del Mein Kampf, Bologna, Patron, 2005, € 7,50

Il libro di Dora Ca-pozza e Chiara Vol-pato conduce una in-teressante analisi sulle pragmaticamente raf-finate intuizioni psi-cosociali di Hitler, e-sperto di sterminio di massa. Le autrici hanno con-dotto uno studio del Mein Kampf ricer-cando, in questo best

seller degli anni ’20 del secolo scorso (10 milioni di copie solo in Germania, tradotto in 16 lingue), quali leve psicologiche e psico-sociali sono state utilizzate da Hitler per fomentare l’odio vissuto e agito dei tedeschi. La prospettiva psico-sociale non ha impedito alle autrici di affiancare all’indagine dei processi psicologici, una analisi dei fattori storico-sociali che hanno creato un campo fertile alla germinazione dell’odio razzista contro gli ebrei in primis ma, anche, contro tutti i non-ariani. In particolare gli obiettivi dello studio di Capozza e Volpato consiste-vano nell’analisi dell'ideologia hitleriana usando le tecniche della psicologia sociale (analisi del contenuto e analisi delle corrispondenze) e nel tentativo di spiegare l'adesione al nazismo, unendo ragioni storiche e ragioni psicosociali.

Punto di partenza del lavoro è l’idea che, da un punto di vista psicologico, il fenomeno dell'adesione all’hitlerismo sia interamente spiegabile come fenomeno collettivo, conse-guente all'identità di bisogni e processi in individui legati dalla stessa appartenenza. Dal punto di vista storico, le gravi difficoltà socio-economiche, la scelta politica dei poteri forti, forze armate e oligarchie capitalistiche, di appoggiare il movimento anticomunista, le radicate credenze antisemite e nazionaliste del popolo tedesco, sono state spinta e ricettacolo per il potente seme dell’odio nazista. Ma perché l’ideologia hitleriana è stata così potente? Quali processi ha attivato e quali meccanismi ha utilizzato? Attraverso l’analisi del contenuto e l’analisi delle corrispondenze all’interno del Mein Kampf le autrici hanno affrontato l’analisi delle razze e l’analisi dei gruppi etnici, nazionali, politici, dalle quali risulta: 1) l’estremo etnocentrismo: razza superiore

ariana e razze inferiori; 2) il concetto centrale è la razza ebraica, gli

altri concetti dipendono da essa; è definita ricorrendo al secolare antisemitismo europeo; gli Ebrei sono "l'altro" per eccellenza, minacciosi sia per i tratti positivi sia per i tratti negativi quali, cospirazione, pericolo, minaccia; deuma-nizzazione attraverso le metafore animali;

3) la scissione tra Ariani e Tedeschi, Ariani visti come ideale e Tedeschi come prototipo degenerato.

L’analisi dei gruppi evidenzia la supremazia del Partito Nazional Socialista (forte, sicuro, nuovo, giovane, sa persuadere, antisemitismo, vicinanza alle masse, gerarchia, nazionalismo,

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primato tedesco) rispetto ai partiti Borghesi e Marxisti (vecchi, deboli, incapaci, i primi, grandi nemici, comunanza con gli Ebrei, teoria dell'uguaglianza, cosmopolitismo, internazionalismo, i secondi). Ma ciò che più stupisce, come afferma Severino nella recensione al libro apparsa nel Corriere della Sera del 17 agosto 2005, sono le qualità positive attribuite agli ebrei, utilizzate per suscitare antisemitismo. La grande capacità del popolo ebreo di coesione, solidarietà, omogeneità contro l’eccessivo individualismo e la debolezza dei tedeschi, ben distinti dagli ariani, sono elementi di pericolo che suscita paura e preoccupazione nella popolazione tedesca allo sbando. Presentando gli ebrei superiori ai tedeschi e, parallelamente, come causa dei fallimenti tedeschi e minacciosi per la distintività dell'ingroup, Hitler ha saputo sfruttare a favore della macchina dello sterminio, quei meccanismi descritti dalla teoria delle rappresentazioni sociali, dalla teoria del conflitto oggettivo e, soprattutto, dalla teoria dell'identità sociale. Tre sono le idee di fondo del Mein Kampf: il darwinismo sociale, il principio etnocentrico e il principio della personalità. Non si può non essere d’accordo con Severino quando afferma che queste idee non sono solo alla base del pensiero hitleriano ma anche della storia degli ultimi due secoli dell’Occidente e, non si può non concludere, osservandone l’estrema attualità nella cronaca sociale e politica del nostro presente. Jean Hatzfeld, A colpi di machete. La parola agli esecutori del genocidio in Ruanda, Milano, Bompiani, 2004, € 17,00

Ruanda 1994. Nel silenzio assordante del mondo intero ancora una volta si compie un genocidio del quale non si può dire: uno sterminio senza precedenti. Da quando si sono aperti i cancelli dei

lager nazisti ci si continua a chiedere perché, ci si interroga senza fine e senza requie rispetto a una domanda che non potrà mai avere completa risposta. Questa domanda continua ad percorrere, senza trovare vera soddisfazione, anche le pagine angosciose e angoscianti del libro di Jean Hatzfeld A colpi di machete (Prix Femina 2003 per la saggistica). Il giornalista francese di Libération, corris-pondente di guerra, in particolare del conflitto nella ex Jugoslavia e in Ruanda, dopo aver pubblicato nel 2000 Dans le nu de la vie, Récits des marais rwandais (Seuil, Parigi 2000, vincitore del premio Prix France-Culture 2001) dove riportava le sue interviste ai tutsi sopravvissuti al massacro, sente ora la necessità di ascoltare, di interrogare, di scrutare da vicino i massacratori. Per questo nuovo reportage si è recato nelle carceri ruandesi, nella zona di Nyamata, per incontrare gli assassini di massa hutu. Dice Hatzfeld in una intervista: “Ogni giorno, vedevo due del gruppo. Al massimo per tre ore. Non ero in grado di restare più a lungo ad ascoltare. C’era qualcosa che mi metteva troppo a disagio. E non era quello che raccontavano, ma il modo in cui lo facevano. Come se si fosse trattato di normali giornate di lavoro e non di massacri. Ogni volta era come se l’uomo che avevo davanti mi presentasse due volti. C’era il Fulgence o il Jean-Baptiste che aveva fatto il maestro o l’agricoltore, giocato coi figli e coccolato la moglie. Ed era vero. E poi c’era quello che aveva fatto a pezzi venti o trenta persone con il machete. Ed era vero anche quello. Parlavano tutti con la stessa voce monotona, monocorde, non si arrabbiavano mai, non piangevano mai, non si alzavano mai per andarsene. Come privi di qualsiasi emotività. Questo era insopportabile”. Questa insopportabile sensazione di dolore misto a fastidio si comunica e si amplifica durante la lettura di questo reportage nella memoria dei massacratori, le cui parole si depositano con un peso sempre più intollera-bile man mano che i particolari, le immagini, i flashback, i volti di vittime e carnefici si fanno meno sfumati e più concreti.

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Anche qui emerge la banalità del male. Un gruppo di ragazzotti di campagna, amici d’infanzia, destinati a fare i contadini, un giorno, costruito e intessuto lentamente nel tempo in giochi locali e internazionali in un tempo parallelamente imbevuto di propagan-da abilmente martellante (una voce per tutti quella di “Radio mille colline” inneggiante alla disinfestazione dei scarafaggi-tutsi), un giorno, quindi, questo gruppetto di ragazzi di campagna si trasforma in una macchina da massacro, efficiente, forse, come non sarebbe mai stata nella coltivazione della canna sa zucchero. La lettura dei loro racconti ci fa toccare con mano come la costruzione di una realtà assurda e raggelante che li ha portati a massacrare donne, bambini, vecchi, uomini, sia ancora ben viva e come, probabilmente, rimarrà per sempre la loro realtà. Si percepisce tra le righe quasi il loro stupore, il loro “ma perché tutto questo interesse, perché questa condanna?”, quasi il sentirsi traditi e smarriti al risveglio da un sogno, questo, crudelmente reale. Dice Alphonse: “Alcuni malfattori vanno dicendo che ci eravamo trasformati in animali selvaggi, che eravamo accecati dalla ferocia, che ci eravamo allontanati dalla civiltà… bè, è una balla per sviare la verità… al di fuori delle paludi la nostra vita era assolutamente normale. Canticchiavamo lungo il sentiero, beve-vamo…, parlavamo della gran fortuna che avevamo, lavavamo via le macchie di sangue dalla bacinella, aspiravamo felici i buoni odori che mandavano le pentole. (…) Alla fine di quella stagione delle paludi, la delusione per aver fallito era troppo grande. Eravamo troppo avviliti al pensiero di tutto quello che stavamo per perdere, troppo

impauriti dalla sfortuna e dalla vendetta che ci aspettavano a braccia aperte. Ma in fondo non c’eravamo stufati di niente”. Eppure in tutta questo l’assenza spicca ancor più della più assordante presenza. Fulcence, sacrestano, afferma che durante le carneficine aveva sospeso di pregare Dio perché pensava non fosse giusto “immi-schiarlo in quella storia”. Tra gli uomini di Dio, i preti bianchi erano fuggiti, i preti neri o erano morti o erano divenuti massacratori, come dice Ignace, specialista in massacro, “Dio rimaneva in silenzio”. Questo libro racconta di un silenzio: il silenzio della coscienza, il silenzio di voci contro, il silenzio della comunità internazio-nale e, il più straziante, il silenzio delle vittime. Dice Pio, un altro massacratore: “Nelle paludi non si sentivano piangere i bambini e nemmeno piagnucolare. Aspettava-no nel fango, in silenzio. Quella sì che era una cosa incredibile! Se scovavamo una donna con un neonato al collo, il piccolo non emetteva alcun suono per la paura. Come dire, era quasi miracoloso… Era veramente strano, c’era qualcosa di soprannaturale. Persino gli animali, che non sanno niente della pietà… gridano terribilmente quando ricevono il colpo fatale”. Il racconto dei genocidiaries a cui si alternano le riflessioni dell'autore, documenta aspetti non ancora noti della strage, rievocazioni della “prima volta” da massacratore, il tirocinio, lo spirito di gruppo, la vita parallela che scorre normale, le feste, vicini massacrati e molti particolareggiati aspetti che solo la concretezza dei racconti può, solo lontanamente, evocare.

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Schede Bibliografiche

Antoine Garapon, Crimini che non si possono ne' punire ne' perdonare, Bologna, Il Mulino, 2005, € 15,00.

In questo libro An-toine Garapon, coor-dinatore dell’Institut des hautes études sur la justice e autore di altri studi sull’argo-mento, si domanda se il processo di Norim-berga è stato l'ultimo atto di guerra di un conflitto mondiale o la pietra miliare di una giustizia interna-

zionale? Dopo il processo di Tokyo e il processo Eichmann, con la fine della guerra fredda, le iniziative per sottoporre a giudizio i crimini di guerra e contro l'umanità si sono moltiplicate: Pinochet è stato portato di fronte a un tribunale inglese su istanza di un giudice spagnolo, due tribunali ad hoc sono stati creati per la ex Jugoslavia e il Ruanda e, finalmente, il 1° luglio 2002 è entrata in funzione la Corte penale internazionale dell'Aia. Seguendo una via diversa, in Sudafrica è stata istituita una Commissione per la verità e la riconciliazione nazionale e nello stesso Ruanda, accanto al tribunale penale, sono sorti dei "tribunali di villaggio" che si rifanno ad antiche tradizioni locali. La giurisdizione penale internazionale pone problemi inediti sotto il profilo giuridico, etico e politico, che l'autore discute nel volume discostandosi sia dal "fondamen-talismo" giuridico, sia da quanti, machiavel-licamente, credono nei soli rapporti di forza tra Stati. Secondo Garapon, una giustizia internazionale che non sia solo repressiva, ma anche ricostitutiva del legame sociale spezzato deve rispondere ad alcune domande di fondo: i processi guariscono le vittime? I giudici scrivono una buona storia? Che ruolo ha la giustizia nel ricostruire la pace e nell'impedire future guerre?

Gilda Sensales, Rappresentazioni della "po-litica". Ricerche in psicologia sociale della politica, Milano, Franco Angeli, 2005, € 22,00. Quest’opera di Gilda Sensales , professore associato presso la Facoltà di Psicologia2 dell'Università "La Sapienza" di Roma, è introdotto da alcune considerazioni storico-critiche sull'articolazione del campo della psicologia sociale della politica e presenta contributi di ricerche empiriche volte ad indagare diverse possibili rappresentazioni della politica, agite e comunicate da attori sociali differentemente implicati nel campo. I soggetti delle indagini vanno infatti dai semplici cittadini, giovani studenti o utenti di internet, dei primi due studi che compongono il volume, ai giovani militanti dei diversi schieramenti politici, del terzo contributo, ai parlamentari del centro-sinistra, della penul-tima ricerca, a due fra i principali leader dello schieramento di centro-destra e di centro-sinistra, Berlusconi e Rutelli, dell'ultima ricerca. Le rilevazioni coprono un periodo, dal 1997 al 2003, denso di mutamenti, sia del quadro politico nazionale che internazionale. Le prospettive teoriche e metodologiche e talvolta persino il contesto indagato (per esempio la comunicazione nei newsgroup), sono situate in terreni di "frontiera" della psicologia sociale. Esse appartengono alla tradizione critica, come nel caso delle rappresentazioni sociali esplorate con la tecnica delle libere associazioni a parole-stimolo, o dell'analisi del discorso e della comunicazione non verbale, ma anche a quella mainstream, come nel caso dell'esplo-razione del ruolo di costrutti quali il "bisogno di struttura", i tratti di personalità dei "big five", i "sistemi valoriali". Questa attenzione non ha tuttavia impedito di sondare aspetti che nella psicologia politica vantano una lunga tradizione di ricerca quali quelli relativi all'ideologia, all'autoritarismo, alle attribu-zioni causali.

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Nell'insieme, presentando un ampio ventaglio di temi e metodi di analisi, testimonianza della ricchezza e vitalità del campo, ci si vuole rivolgere a tutti coloro che sono interessati alla psicologia e alla comunica-zione politica, quali luoghi d'incontro di competenze diversificate, in grado di rendere conto della complessità dell'oggetto di studio. Rithy Pahn e Christine Chaumeau, S-21 La macchina di morte dei khmer rossi, Milano, o barra o edizioni, 2004, € 16,00.

Rithy Panh è il regista cambogiano noto per la sua coraggiosa atti-vità volta a testi-moniare del genocidio avvenuto in Cambogia per mano dei khmer rossi. Persa gran parte della famiglia, cattura-to e internato dai khmer rossi in un cam-po di detenzione per essere “rieducato”, nel

1979, all’età di quindici anni, riesce a scappare dalla Thailandia e a raggiungere la Francia, dove si diploma a Parigi presso l’Institut des Hautes Etudes Cinématographi-ques (IDHEC) e ove tuttora risiede. Il suo film La terre des âmes errantes ha ricevuto ben quindici premi e l lavoro di tre anni per il documentario S-21, la machine de

mort kmère rouge è sfociato nell’elaborazione di questo libro, aiutato dalla giornalista Christine Chaumeau, vissuta per più di tre anni in Cambogia. Il 17 aprile 1975 i khmer rossi prendono il potere in Cambogia. Evacuazione forzata dalle città, campi di lavoro, carestia, terrore, esecuzioni ... Fra il 1975 e il 1979 muoiono circa due milioni di persone, un cambogiano su quattro è vittima di esecuzioni o di privazioni. S-21, il principale "ufficio di sicurezza" del regime di Pol Pot, situato a Phnom Penh in un ex liceo nel quartiere Tuol Sleng, fu in realtà centro di sterminio dove migliaia di persone furono torturate e distrutte. Per circa tre anni, Rithy Panh e la sua équipe hanno cercato i sopravvissuti e i loro torturatori. Li hanno convinti a rincon-trarsi a S-21, oggi Museo del Genocidio, per confrontare le testimonianze rivivendo la memoria dei gesti e dei corpi. Attraverso il coraggioso e drammatico confronto tra vit-time e aguzzini che questo libro testimonia e scandisce, l'autore cerca di comprendere come l'Angkar (l'Organizzazione) abbia saputo svuotare l'uomo, attuare la sua politica d'an-nientamento sistematico, gestire come prassi amministrativa, burocratica, quotidiana il meccanismo della macchina di morte. Gli autori con potente determinazione e delicato distacco, invitano a scoperchiare il recente terribile passato perché un nuovo intreccio delle memorie apra la via per la riconcilia-zione e dischiuda la porta, ora serrata, a un futuro accettabile.

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