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Università degli Studi Dipartimento di di Brescia Economia Aziendale Giugno 2004 Paper numero 32 Arnaldo CANZIANI LA NATURA ECONOMICA DELL’IMPRESA

Paper numero 32 Giugno 2004 - Portale di Ateneo · Ordinario di Storia del Pensiero ... all'insegna del disaccordo con molta trattatistica corrente ... -anticipata negli studi di

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Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Giugno 2004

Paper numero 32

Arnaldo CANZIANI

LA NATURA ECONOMICA DELL’IMPRESA

LA NATURA ECONOMICA DELL’IMPRESA

di

Arnaldo CANZIANI Ordinario di Economia Aziendale Università degli Studi di Brescia

con un

COMMENTO

di

ACHILLE AGNATI Ordinario di Storia del Pensiero Economico

Dipartimento di Scienze Economiche Università degli Studi di Padova

comunicazione presentata al VII Convegno dell’ Associazione Italiana per la Storia del Pensiero Economico – A.I.S.P.E.

<The Changing Firm. Contributions from the History of economic Thought> Brescia, Università degli Studî, 20-22 febbraio 2003

20 febbraio 2003, Sessioni parallele 15.00-16.40, Tornata A3

<Arriva la banda arriva la banda arriva la banda coi suonator!

Il capobanda il capobanda il capobanda ha i bottoni d'or,

che rubacuor!

Eccoli qua son tutti qua son lì son là do-re-mi-fa, e coi bottoni a penzolon

giunge il tamburo come un tuon!

E' il Tamburo principal della banda d'Affori,

che comanda 550 pifferi: che passion che emozion

quando fa bum-bum! guarda qua mentre là le oche fan qua-qua.

Le ragazze nel vederlo diventan timide,

lui confonde il Trovator con la Semiramide>

(Il Tamburo della banda d'Affori)

Sommario

Prefazione....................................................................................................... 1

1. Introduzione: descrizioni di comodo e comprensioni husserliane. ............ 5

2. L’impresa sistema economico.................................................................... 8

3. Le teorie altre: giuridiche, sociologiche, organizzative ........................... 10

4. Le teorie d'impresa di Pareto, Marshall, Keynes, Coase e altri. Critica....................................................................................................... 13

4.1. Introduzione ...................................................................................... 13 4.2. Critica di Pareto ............................................................................... 15 4.3. Critica di Marshall............................................................................ 17 4.4. Critica di Keynes............................................................................... 18 4.5. Critica di Coase ................................................................................ 20 4.6. Critica delle teorie comportamentiste............................................... 21

5. L’impresa sistema di trasformazione economica..................................... 22

6. I contributi di Machlup e Baumol ............................................................ 32

7. Conclusioni. ............................................................................................. 35

Appendice .................................................................................................... 37

A. AGNATI

Su “La natura economica dell’impresa” di Arnaldo Canziani ..................... 41

La natura economica dell’impresa

1

PREFAZIONE

Ogni teoria è per sua natura astratta, sia perché nei suoi processi di

investigazione (zeoreo) deve forzosamente ab(s)trahere, sia perché essa non solo contempla ma descrive-definisce-canonizza, e con ciò si allontana progressivamente dall'empiria1.

Ma quando si dice popolarmente <teoria astratta> si intende non un pleonasmo, bensì una teoria che -contrariamente ai propri doveri- ha astratto via via imprecisioni, inesattezze, errori, fantasie.

Per questo motivo le <teorie astratte> -cioè inesatte, errate, vacue- sono dannose, diseducative e censurabili, né per combinazione parla Benedetto Croce di indole immorale dell'errore2.

Queste affermazioni -condivise dall'antichità pre-classica- non sono oggi amate dalla diffusa forma gnoseologica del relativismo, con il quale potremmo certo ammettere che tutti i gatti sono neri, ma soltanto nelle notti senza luce.

Quelle affermazioni, anzi, sono oggi ritenute <poco scientifiche> dalla forma gnoseologica particolare detta pensiero debole, secondo il quale unica forma conoscitiva possibile sarebbe -per dire icasticamente- il <beh boh bah - non si sa>. Ma sostenere dogmaticamente, cioè in modo forte, che unica forma gnoseologica possibile sia la forma debole, è un pensiero che nega sé stesso proprio mentre si pone. Pensiero dunque auto-contraddittorio, anzi anti-logico. E si potrebbe allora interrogare: anti-logico solo per insipienza, o anche per dolo?

Certo, tutte le teorie sono perfettibili, ma dalle distribuzioni gaussiane alla circolazione delle élites molte fra esse sono ormai definitivamente comprovate, e risultano nel contempo assi portanti del mondo speculativo come pure avvenuti punti di svolta nella storia delle scienze. Il problema si pone per il <nuovo> nel senso di ulteriore, con fatti nuovi e sempre nuovi nessi pragmatici: per tali motivi le scienze della natura sono condannate

1 Zeoreo come contemplare, e meglio ancora osservare (Aristotile, Ethica Nicomachea, 1169b33; Politica 1263b25), considerare (Platone, Gorgias, 523e; Aristotile, Metaphysica, 1003b15), esaminare, investigare, paragonare (Isaeus, I.13, D. 18.17), dedurre (Aristotile, Metaphysica, 1029a26, Meteorologica, 353b18), giudicare, astrarre (Philodemus Philosophus, D 3.10), teorizzare (Aristotile, Politica, 1280b28, Metaphysica 1001b14, Analitica Posteriora, 88a19, de Caelo, 304a25, Metaphysica 983a33, 1004b1)(abbreviazioni come in LIDDELL-SCOTT-JONES-McKENZIE) 2 L'indole immorale dell'errore e la critica scientifica e letteraria nella <Critica> (1907), poi in Cultura e vita morale, Bari, Laterza, 1913, pp. 88-94

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all'esperimento (o all'osservazione), le scienze sociali a un'impervia latitudine di confini.

Questo comunque conta nelle teorie: conoscenza esatta del campo, individuazione peculiare del problema, strumenti adeguati e se del caso originali, osservazioni esemplari, analisi rivelative, sintesi di genio.

Peraltro, anche le affermazioni degli ultimi due capoversi possono risultare non-condivisibili all'oggi diffuso (nel mondo anglosassone e nei suoi orecchianti) neo-positivismo logico, teso a squartare dogmaticamente la gnoseologia teorica e applicata sulla base di <semantica> e di <sintassi>. Ahinoi, si tratta non solo di positivismo, ma di un positivismo ingenuo il quale -a parte altre mende-, ignora il valore semantico delle sintassi.

Così pure, anche la distinzione -storica, e non di meno oggettiva- fra Naturwissenschaften e Sozialwissenschaften non piace ai neo-positivisti; ma non basta certo trincerarsi dietro a-priori dogmatici, o considerarla passée, per smentirla. Ahinoi, si tratta qui pure della moderna ipertrofia delle scienze della natura, le quali cercano di gabellare una parte per il tutto; si tratta inoltre, in molti casi, dei drammi del matematismo moderno con le sue ansie monopolistiche sin da Leibnitz e prima3.

Il paper che qui si introduce -esito di una breve comunicazione a un Convegno- è dedicato al concetto di impresa nelle scienze economiche, all'insegna del disaccordo con molta trattatistica corrente -economico-politica, sociologica, giuridica-, ignara del vero essere aziendale dell'impresa, dunque fatalmente ingannevole o infeconda, o distorcente ove eccentrica rispetto al proprio campo husserliano. Quelle impostazioni, sovente interessanti, sono di norma condotte non solo in modo esatto rispetto alle proprie premesse, ma anche elegante e non di rado sofisticato; ma muovono purtroppo da a-priori di scuola o di convenienza, funzionali ai proprî obiettivi e alle proprie competenze altre, non di rado ormai secolari. Significative forse ai proprî tempi, continuare a ripeterle ora è soltanto accademismo retró; e se Schleiermacher (1768-1834)(Sull'università) e Schopenauer (1788-1860)(La filosofia delle Università) già ci hanno ammaestrato sul punto, il tema è peraltro sempiterno, se nel secolo IV a.C. dice Chuang-tzu, a proposito del <cerchio limitato nel quale sono rinchiusi i dialettici>: "I dialettici del genere di Huan Tuan e Gong-sun Long falsano la mentalità della gente e ne alterano le idee. Riescono a tappare loro la bocca ma senza poter ottenere l'adesione del loro spirito."4.

3 Cfr., dell'autore, la prolusione I processi competitivi fra economia e diritto, 2001, paper n. XX di questa Serie 4 ZHUANG-ZI [CHUANG-TZU], Milano, Adelphi, 1982, p.317

La natura economica dell’impresa

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Quel disaccordo si radica d'altra parte nell'Economia aziendale che -anticipata negli studi di Ragioneria e di Tecnica sin dal 1700- si istituzionalizza poi con lo scisma Nicklisch-Zappa 1912-1926. Ed è grazie ai di lei apporti istituzionali e speciali che si rende possibile da un lato riformare nel seguito le teorie inesatte e le loro conseguenze, dall'altro delineare in modo adeguatamente teoretico la natura economica dell'impresa-istituzione, dunque delle imprese di ogni spazio, tempo, settore, proprietà, dimensione.

L'autore ringrazia il prof. Marco Guidi per l'accettazione del paper al Convegno A.I.S.P.E., mentre si scusa con lui se -per ragioni private- non ha potuto onorare nei tempi la generosa proposta di riscriverlo in lingua inglese.

Brescia, Università, 10 maggio 2004

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1. Introduzione: descrizioni di comodo e comprensioni husserliane.

1.1. Quale che sia la gnoseologia di cui si sia consciamente o inconsciamente adepti, la comprensione intrinseca dei fenomeni (intellectio) non è né può essere materiale: essa si svolge infatti -a seconda degli Autori- per convenzione, per sintesi a priori, per partecipazione, e così via.

Nelle scienze, ricostruzione intellettuale della realtà, discrimine introduttivo ancorché non sempre avvertito è allora l’approccio conoscitivo ai fenomeni, siano essi naturali o sociali; e forse per questo Cassirer ha ricostruito la storiografia della speculazione filosofica adottando il momento gnoseologico proprio quale discrimine analitico.

Comunque, si tratti di schemi ricostruttivi, di categorie, dell’intuizione eidetica di Husserl (e nondimeno di Maritain) sono -esse- tutte concettualizzazioni che riprendono, ed esprimono descrittivamente-interpretativamente, la realtà oggetto di indagine.

È chiaro allora che primo dovere dell’avvicinamento concettuale (particolarmente di tipo scientifico), e dei suoi schemi progressivi di tipo descrittivo, ipotetico, interpretativo, e infine davvero comprendente, è di possedere alcune caratteristiche indispensabili:

• risultare esattamente individuativo dell’oggetto nel suo perimetro husserliano;

• risultare connotativo del definiendum secondo profili essenziali dell’oggetto nonché rilevanti dal punto di vista scientifico;

• risultare espressivo di questi in forme estensive che -con nessi prammatici internamente logici e coerenti- ne approfondiscano il potenziale euristico5.

Le forme interpretative devono poi venire indirizzate alla soluzione di <profili problematici> adeguati allo sviluppo storico della scienza nonché delle species fenomenologicamente rilevanti, dunque ad una combinazione

5 <Concettualizzazione comprendente> allude alla recente contesa metodologica specialmente tedesca fra <comprendere> e <spiegare>: cfr. J.MANNINEN, R.TUOMELA, Essay on Explanation and Understanding, Dordrecht, 1975; K.O.APEL, Die Erklären: Vestehenkontroverse in transzendentalpragmatischer Sicht, Frankfurt a/Mein, 1978; M. RIEDEL, Verstehen oder Erklären. Zur Theorie und Geschichte der hermeneutischen Wissenschaften, Stuttgart, 1978 (tradotto per i tipi di Guida, Napoli, 1989), con rinvìo sì a Droysen, Dilthey, Hempel e Oppenheim, v. Wright e altri, ma ancora una volta alle differenti declinazioni del conoscere nelle scienze della natura piuttosto che sociali. Per l'<intuizione eidetica> anche in Maritain cfr. J. MARITAIN, Sept leçons sur l'être, Paris, Seuil, 1934

Arnaldo Canziani

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di analisi-sintesi che risulti fruttuosa di teorie dall’elevata validità spazio-temporale.

Si tratta -in questa o in altra forma- di concetti noti, che si potrebbero

far risalire nella cultura occidentale ad Aristotile (384-322)(e prima)6, nella cultura orientale a Mo Tzu (479-381)7.

Ma per rispettare il diffuso, poco commendevole abbandono della cultura classica indotto dal fanatismo per il nuovo in particolare empirico e naturalista, li esprimeremo più chiaramente per il tramite di due brevi citazioni di Husserl (1.2.) e Croce (1.3.).

Di due impostazioni cioè che -generale la prima, specificamente riferita all’economia la seconda-:

a) sono note in letteratura da ormai più di cent’anni, b) risolvono molte impostazioni inesatte anche successive, ignare appunto

di Husserl e Croce e forse per questo diffuse -anzi dominanti- in larga parte della odierna repubblica delle scienze, specialmente anglosassone.

1.2. Nei Prolegomeni a una logica pura, premessa alle Ricerche

logiche, Husserl formula un'importante distinzione, introduttiva a qualsivoglia indagine scientifica:

“La comprensione degli scopi di una scienza trova invero la sua espressione nella definizione stessa. Non possiamo naturalmente essere dell'opinione che l’adeguata definizione del suo ambito debba precedere l’efficace rielaborazione di una disciplina. Le definizioni di una scienza riflettono via via le tappe del suo sviluppo: con la scienza progredisce la susseguente conoscenza delle caratteristiche concettuali dei suoi oggetti, della delimitazione-definizione e collocazione del suo campo. Nel frattempo il grado di adeguatezza delle definizioni, espresso dalla sua approfondita capacità di comprendere il campo, esercita il proprio riflesso anche sul procedere della scienza, e questo riflesso -a seconda della direzione nella quale le definizioni deviano dalla Verità- può influenzare più o meno largamente la strada dello sviluppo della scienza stessa. Il campo di una scienza è un’unità oggettivamente conchiusa; dove e come noi circoscriviamo i campi di verità non dipende dal nostro arbitrio. Il regno della verità si articola oggettivamente in campi; le ricerche devono

6 Aristotile, Analytica posteriora, 88b30; Ethica Nicomachea, 1139b18; Metaphisica, 981a, 982b21; Ippocrate, Lex, 4; Platone, Politicus, 301b; Res Publica, 422c; Romulus, 477b e segg. (abbreviazioni come in LIDDELL-SCOTT-JONES-McKENZIE) 7 Mo Tzu, Canone, I, II, pp. 414-495, ove anche i sette elementi della conoscenza fra cui la <corrispondenza>, ho (cit. in Fung Yu-lan, A History of chinese Philosophy, Londra, Allen & Unwin, 1952, vol. I, pp. 251-257)

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indirizzarsi a queste unità oggettive e coordinarsi in Scienze. Esiste una scienza dei numeri, una scienza delle figure geometriche, degli esseri animali e così via, ma non scienze particolari dei numeri primi, dei trapezi, dei leoni, oppure addirittura di tutti questi presi insieme. (...) Infinitamente più pericoloso è tuttavia un altro difetto nella delimitazione dei campi, cioè il miscuglio dei campi, la con-fusione dell’eterogeneo fino a una presunta unità di campo, tanto più se essa si fonda sull’integrale fraintendimento dell’oggetto la cui indagine dev’essere obiettivo essenziale della scienza cui tendiamo. Una tanto inavvertita µετάβασις εί̉̉ς ά̉λλο γένος [metàbasis eis allo génos] può comportare gli effetti più nocivi: fissazione di obiettivi implausibili; osservanza di metodi sbagliati per principio, poiché incompatibili con gli oggetti propri della disciplina; scombussolamento dei livelli logici tale che le proposizioni e teorie veramente fondamentali -spesso nel più strano mascheramento- si disperdono fra tutte le più estranee file di pensieri come momenti apparentemente di secondaria importanza oppure come conseguenze casuali; e così via.”8. 1.3. Benedetto Croce, a propria volta, ricorda che -dalla commistione

fra l’Economia politica quale <calcolo economico> e le discussioni filosofiche- derivano tre gruppi “di errori assai comuni e altrettanto gravi”9:

“Il primo consiste nel considerare la Scienza o Calcolo economico come metodo che escluda ogni altro e sia esso solo capace di dare all’uomo tutta la verità che si può mai conseguire intorno alle azioni umane; il secondo, nell’attribuire valore di pensamento universale ai concetti empirici sui quali il calcolo economico si fonda; e il terzo, nel mutare in realtà le finzioni escogitate per lo stabilimento del calcolo.”10. Acclarato dunque che la scienza economica non può occupare

monisticamente tutto il campo delle scienze sociali e che -attualizzando- le concettualizzazioni hanno il dovere di risultare realistiche e spazio-temporalmente definibili, ricordiamo ancora che la scienza economica deve esprimersi nell’armonica combinazione di analisi e di sintesi.

Infatti, ricorda ancora Benedetto Croce che le proposizioni della scienza economica giacciono fra i due estremi:

8 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, t. I, Prolegomena zur reinen Logik, Halle, Max Niemeyer, 1928, ristampa della 2a edizione rielaborata, p. 5 e p. 6 rispettivamente (traduzione dell'autore, cfr. il testo originale in APPENDICE); una traduzione italiana delle Ricerche logiche è per i tipi del Saggiatore, Milano, 1968, 2 volumi 9 B. CROCE, Filosofia della pratica. Economica ed etica, Bari, Laterza, p. 250 10 ibidem

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a) dell’empirismo quale massa ingombrante di proposizioni disgregate (“Questi dati si possono moltiplicare all’infinito, onde nascono infinite proposizioni economiche, l’una distinta dall’altra”11),

b) di “uno schema generalissimo, che talvolta non serba il più piccolo vestigio di quel concetto di azione umana da cui aveva preso le mosse, e si confonde con gli schemi della meccanica, o addirittura con quelli dell’aritmetica, dell’algebra e del calcolo.”12;

mentre occorre invece comprendere che: c) "La sana scienza economica deve, in conformità della sua natura, essere

astratta e empirica insieme, e connettere tra loro e unificare le proposizioni disgregate; ma non deve lasciar perdere nell’unità la distinzione, che le è necessaria quanto l’altra. A calcolare le conseguenze economiche di un fatto sono inetti del pari, benché diversamente, così coloro che non conoscono se non la generalità della scienza, come gli altri che ne conoscono soltanto le particolarità. I primi vedono tutti i fatti come un fatto solo; i secondi, tutti i fatti come diversi, senza nessun ordinamento per simiglianze e gerarchie.”13.

2. L’impresa sistema economico

Data l’<economia> quale sistema di fenomeni sociali espressi ormai da tremila anni in valori monetarî, la ricostruzione intellettuale della stessa è la <scienza economica>; e la distinzione è immediata in altre lingue, ove risulta anche semantica: Economie e Science économique, Economy ed Economics, Wirtschaft e Wirtschaftswissenschaft. E la scienza economica -da Senofonte (430-352 a.C.), e prima ancora dalla propria etimologia- è la scienza delle <leggi di comportamento> degli operatori, tralasciando in questa sede se tale ricostruzione estrinseca di leggi sia (debba essere) meramente sociologica e descrittiva (idiografica), o viceversa anche assiologica e normativa (nomotetica).

(Con il che si rigetta ab imis l’ipotesi -agnostica nelle sue premesse, mistificatoria nei suoi contenuti, sterile nei suoi approdi- del neo-positivismo, secondo cui <scienza> sarebbe -si dica in breve, con questa o altra semantica- un insieme di postulati internamente coerente: valido per le <scienze> in generale giacché valido per la <ricerca scientifica>. Si tratta -per restare a Husserl, cioè ad ormai cent’anni fa- di trattare l’Economia,

11 id., p. 244 12 id., p. 245 13 ibidem

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campo empirico e sociale, pretendendo di ricostruirla dal punto di vista scientifico in modo formale, aprioristico, dimostrativo14).

Fra gli oggetti della scienza economica è l'impresa. Ove la si voglia

studiare -quindi dal punto di vista economico-dinamico- occorrerà allora effettuare:

a) una selezione dei caratteri rappresentativi della stessa; b) selezione che risulti conforme all'oggetto nonché rilevante per la

scienza; c) e sia infine combinabile-sintetizzabile in teorie dall’elevata validità

spazio-temporale.

Per tali motivi, ove si voglia studiare l’impresa -e quindi dettarne le leggi di comportamento, che ne normano a) l'equilibrio, b) lo sviluppo- risulta qui pure indispensabile coglierne gli aspetti rilevanti, anzi essenziali, cioè connotativi dal punto di vista contenutistico (cfr. § 1.).

E poiché si sta parlando di scienza economica, si tratterà dei profili d’impresa connotativi dal punto di vista appunto economico, evitando di spacciare per tali i profili -quand'anche verisimili- organizzativi o giuridici o sociologici; l'interpretazione economica inoltre, riferendosi a un fenomeno dinamico, dovrà inglobare in sé anche la variabile-tempo15.

Ora, per quanto riguarda l’impresa, essa è l’unico operatore economico

che -dall’antichità pre-fenicia a oggi, dalla pesca del pesce (Samuelson, 1948)16 alle trasmissioni satellitari-:

1. aggreghi fattori produttivi anche impersonali, 2. per scelta originale di imprenditori propensi al rischio e alla ricerca di

lucri differenziali, 3. produttivo in serie di beni economici dal vario grado di materialità, 4. da classare nei mercati attraverso processi di concorrenza, 5. con l’obiettivo che, nello spazio e nel tempo, i ricavi consentano il

recupero dei costi dei fattori a fecondità e semplice e ripetuta, compresi in quelli il costo del capitale,

6. e consentano inoltre la riproposizione in forma finanziario-monetaria degli investimenti effettuati.

14 E. HUSSERL, Logische Untersuchungen, op. e loc. cit., p. 7 15 A. MONTESANO, La nozione di economia dinamica, <Giornale degli Economisti>, marzo-aprile 1972, pp. 185-228 16 P.A. SAMUELSON, Economics, New York, 1948

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Occorrerà dunque una definizione che, sintetizzandone caratteristiche operative a propria volta satisfattive delle condizioni ricordate, risulti contenutistica ed insieme dinamica.

Se scientifica, tale definizione dovrà:

• possedere una elevata validità spazio-temporale (si tratta, modernamente, delle condizioni di Hempel-Oppenheim), vigere quindi per tutte le imprese, dalla mercanzia fenicia alle produzioni di chips della Silicon Valley,

• ricomprendere in sé l’economia dinamica delle imprese di tutti i tipi: a) di trasformazione primaria, b) industriali (fra cui le manufatturiere), c) bancarie, d) assicuratrici, e) commerciali, f) di servizî.

3. Le teorie altre: giuridiche, sociologiche, organizzative

Alla luce di quanto precede occorre allora dalle scienze economiche escludere -per quanto importanti, e interessanti, nonché fruttuose di eventuali contributi laterali o complementari-: le interpretazioni:

A. giuridiche, B. sociologiche, C. organizzative.

Esse infatti, funzionalizzate alla costruzione di scienze altre (o

all'estensione delle stesse), quand’anche esatte e pertinenti selezionano comunque caratteri non specificamente economici, e traslate nel campo economico racchiuderebbero dunque <campi husserliani> malposti e confusi, o malamente indagati.

A) L’esclusione delle teorie giuridiche risulta naturale poiché, a meno

che non si voglia dar vita a impostazioni eclettiche, occorre ricordare che quelle riguardano di norma non l’impresa, bensì: a) l’azienda, b) le società aventi personalità giuridica.

Esse tendono a definire, almeno nell’ordinamento italiano, l’azienda quale statico <insieme di beni> -palese è il rilievo patrimoniale e romanista del concetto-, animato dall’imprenditore-demiurgo che, agente dinamico, appunto dinamicizzandola dà vita all’impresa. Misterioso rimane quindi l’agire propriamente economico di questa, rinviato alle scelte (e agli interessi) dell’<imprenditore>, con il diritto che giustamente si limita a studiare gli effetti giuridici delle azioni di questo, dello svolgersi di quello.

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Certo, già cinquant'anni fa si poteva autorevolmente impostare una panoramica di posizioni giuridiche ulteriori, che da Mossa a Santoro-Passarelli a Rotondi tendevano a compatibilizzarsi con il momento economico, in particolare della gestione dell'impresa17. Ma il dramma rimaneva, e nonostante i tentativi ulteriori rimane, esso derivando dall'obbligo per il giurista di radicarsi nell'ordinamento, dall'impossibilità -o dall'aleatorietà- di fondarsi su elementi economici non tradotti in norma positiva, infine dal desiderio oggi talora ipertrofico di giuridicizzare le leggi dell'economia.

(Del resto, se di <leggi> si tratta …. E non può non venire alla mente, al riguardo, quel Ministro del Re il quale, giacché durante una certa guerra i prezzi aumentavano, si rarefacevano i beni, e si diffondeva in alcune regioni la <borsa nera> la quale -pur certo illecita- rispondeva tuttavia, gli dissero, alla <legge della domanda e dell'offerta>, tuonò imperioso: "Aboliremo questa legge - con un Decreto Reale!").

Così, anche gli studi fondamentali originariamente marxisti che hanno trattato il tema del governo delle imprese, dei gruppi, delle società a catena e così via (da Hilferding, 1911, a Berle e Bonbright, 1932, Berle e Means, 1932, 1933, 1967)18, sono in nuce studi di sociologia economico-giuridica; e se potentemente concorrono a spiegare la dinamica del <potere capitalistico>, i processi di crescita esterna delle imprese (acquisizioni, fusioni), i problemi del vario equilibrio fra maggioranze e minoranze azionarie (compresovi il caso delle minoranze di controllo che sbancano allegramente maggioranze disgregate), purtuttavia non trattano il ruolo essenziale e costitutivo dell'impresa, sibbene gli equilibrî appunto societarî della Società per Azioni.

In queste, il sistema di garanzie e di tutele venendo ristretto al patrimonio sociale, il problema degli effetti giuridici delle azioni economiche, e della responsabilità dei gestori divengono vieppiù rilevanti. Esse teorie, comunque, rimangono per così dire al margine (o estranee) alla natura economica dell’impresa, per quanto certo pur fruttuose di confronti, paralleli, ispirazioni ed eventualmente integrazioni, specialmente nei campi dell'economia dei settori (Industrial Economics) e della Business History. Esse paiono rilevanti -e tecnicamente indispensabili- solo nel campo speciale della limitazione della responsabilità, il crinale congiunto economia-diritto in tema di Società per Azioni, e dunque di governo delle imprese e dei gruppi.

17 A. VANZETTI, Trent'anni di studi sull'azienda, <Rivista del Diritto Commerciale>, nn. 1-2 e 3-4/1958; poi anche Milano, Vallardi, 1958 18 Rispettivamente Das Finanzkapital; The Holding Company: its public Significance and its Regulation; The modern Corporation and private Property

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B) Paiono poi doversi escludere, nel medesimo senso e con i medesimi

intenti (ed effetti), le teorie sociologiche, tese a variamente analizzare:

a) la società (e la struttura sociale) nelle loro componenti e partizioni, b) le relazione e rapporti fra forze, ceti e valori sociali anche nelle

istituzioni in cui essi trovano aggregazione, le quali per conver-so tanto contribuiscono alla formazione-diffusione-modificazione dei valori stessi.

Si tratta di una letteratura specialmente statunitense relativa all’operato della <grande impresa> (Big Business), letteratura diffusa già prima di Berle e Means e in fondo dalle polemiche di fine '800 sui robber Barons.

Essa si declina in contributi rilevanti dal punto di vista: a) politico e dell’interazione fra poteri (anche nel senso del lobbysm), b) dell’influsso sui mercati e sulle forme di concorrenza, c) del comportamento relativo agli investimenti e all’R&D, d) del comportamento finanziario e dell’assorbimento indiretto e diretto di risparmio anche tramite Borse-Valori, fino alla costituzione di “società a catena” eventualmente patologiche, e) lato sensu culturale di influsso sui comportamenti organizzativi, sindacali, di consumo, nonché di adozione di tecniche gestionali innovative.

Rilevante dunque tale letteratura, e indispensabile, ma pur sempre tesa ad indagini solo indirettamente economiche, ogni volta parziali (giacché appunto speciali); non di rado -inoltre- in un quadro di descrittivismo che non riesce a proporsi quale teoria generale proprio per il predominio -certo in quella sede giustificabile- dell'empito sociologico degli <equilibrî di potere>.

C) Altrettanto avviene per le pur rilevanti teorie organizzative, tese a

descrivere in seno all'azienda -e modernamente anche a misurare- i comportamenti individuali e di gruppo, i processi organizzativo-gestionali, le relazioni fra gruppi e funzioni, il ‘potere’ organizzativo, le culture aziendali (fino ai “miti e riti” di Mintzberg). Esse risentono, in questo, del sociologismo descrittivista di stampo statunitense, o in tono minore della precettistica degli how-to-do-books: progressivamente lontane quindi dalla sintesi propriamente amministrativa che ne funzionalizzerebbe gli studi -con la gestione, e la rilevazione- alla conduzione economica ottima d'impresa nel tempo e nello spazio.

Inoltre, nella speculazione contemporanea alcune correnti organizzative estendono senza limiti il proprio campo husserliano; ed equivocando sul lessema <organizzazione>, reputano che le teorie <organizzative> possano riguardare l'interpretazione (ed anche la normazione?) della struttura

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dinamica delle imprese, dei settori, dei sistemi economici, conducendo i momenti analitico-normativi tramite modelli iper-semplificati, e proprio per questo meccanicamente cogenti quando non imperiosi.

Si tratta dunque di indagini le quali, quand’anche risultassero fondate, tralasciano il momento economico fino ad occultarlo, oppure lo convenzionalizzano in forme o giuridiche o organizzative, quasi dimentiche della effettiva natura economica dell’impresa. D'altra parte da ciò deriva la loro odierna, ampia pervasività la quale -rispetto e.g. a Functions of the Executives di Chester Barnard (1938)- ne estende l'ampiezza apparente (o pretesa) a qualsivoglia coacervo super-individuale, anche associativo o involontario, appunto inteso quale “organizzazione”.

La fondatezza di tale approccio richiama alla mente un pensiero di Kant, fatto proprio da Husserl nelle stesse pagine di prima: "Non è incremento ma rovina della scienza quando si confondono i suoi confini".

4. Le teorie d'impresa di Pareto, Marshall, Keynes, Coase e altri. Critica

4.1. Introduzione Si parla diffusamente, in letteratura, di impresa (non solo neo-classica)

quale black box, a sintetizzare l’ombra di mistero che ancor la connota specie negli studi di Economia politica. E tale misteriosa essenza deriva dal fatto che essa non è mai stata oggetto di indagine in quanto tale: le <teorie dell’impresa> sono in realtà non teorie dell’impresa, ma usualmente teorie del comportamento dell’imprenditore (o, come visto, della compagine direttiva).

Per quanto concerne le teorie proposte dall’Economia politica, occorre allora vagliare in primo luogo l’effettivo potenziale euristico di tutte quelle fondate -anche per primitivismo, o per visione soltanto parziale- sull’<imprenditore> e su una folla di homines oeconomici, le cui caratteristiche -più o meno psicologizzate, generalizzate, astratte, presunte- vengono trasformate in caratteristiche a) standard dell'imprenditore quale tipo-ideale, b) di un diverso soggetto, l’impresa. In un contesto, nel contempo, ove sempre poi si combinano (fino agli anni '60, e nei textbooks anche oltre) due soli fattori, inoltre perfettamente divisibili e sostituibili.

Fermo anche qui quanto detto sub. 3 relativamente alla fecondità speculativa di connessioni e rapporti -la quale risiede peraltro non in quelle concettualizzazioni, ma nel rinnovamento che se ne può estensivamente derivare-, si tratta in sostanza di impostazioni naturalistiche nel senso di

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mutuate dalle Naturwissenschaften, e dunque -proprio perché <perfette>- in realtà viceversa fuori luogo e imperfette seppure seducenti per molti.

Occorre poi, in secondo luogo, circoscrivere tutte le teorie che parlano di impresa fondandosi su premesse talmente anti-realistiche da risultare assurde: premesse dunque non solo variamente a-temporali, ma anche assolutiste e onniscienti si tratti di volta in volta di:

• beni fungibili, • mercati perfetti, • informazioni trasparenti, • operatori razionali.

Occorre in terzo luogo interrogarsi sulla fondatezza dell’apriorismo delle ottimizzazioni sistematiche -del consumatore, dell'imprenditore, e ormai da quasi cinquant'anni anche dei mercati finanziari-, con il loro vario corredo analitico (minimizzazioni, massimizzazioni -assolute, relative o vincolate- e da quando s'è scoperta la teoria dei giochi anche maxmin e minimax).

Quell'apriorismo è di norma adottato:

a) poiché consente di arredare elegantemente il proprio cervello prescindendo dall'indagine empirica di tipo analitico-sintetico;

b) poiché, analiticamente trattabile in forma elementare, consente di individuare facilmente -e imporre anche normativamente- le <posizioni di equilibrio>;

c) poiché riconduce all’<efficienza paretiana>19 (eppure, e a prescindere dal resto, dopo tanti anni di dubbî già Simon aveva definitivamente chiarito -1947, 1956, 1958, 1960- che l'impresa non possiede né le informazioni né le capacità analitiche che le consentano di massimizzare)20.

Occorre infine vagliare le altre teorie che, pur con modifiche e integrazioni dovute anche all'intercorso temporale, si fondino tuttavia cripticamente -in modo più o meno ampio- sulle premesse di cui sopra (o su alcune di esse), o su premesse, se altre, però altrettanto modellizzate in senso anti-realistico.

Si accennerà nel seguito a cinque fra le impostazioni dei tipi che precedono, dandole largamente per note giacchè studiate anche sui textbooks ormai da decenni, e riprendendendole tuttavia in via critica. Il che 19 Data per nota la bibliografia, cfr. comunque O. HART, On the optimality of equilibrium when the market structure is incomplete, <Journal of Economic Theory>, n. 11-1975, pp. 418-443 20 H.A. SIMON, Administrative Behavior, New York, 1947; Models of Man, New York, 1956; Organizations, New York, 1958 (con J.G. March); New Science of Management Decision, New York, 1960

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non sarebbe necessario -è già stato fatto, e autorevolmente; e poi occorre lasciare che i morti seppelliscano i morti-; non sarebbe necessario se non fosse che esse tuttora dominano -direttamente e indirettamente- nella vulgata, nel libri di testo, nella Weltanschauung conscia e inconscia di gran parte dei docenti di Economia politica vecchi e giovani, italiani e stranieri.

4.2. Critica di Pareto Il Pareto economista -che tanta parte di sé (con Menger, Walras,

Marshall ed altri) ha lasciato negli sviluppi moderni e persino contemporanei dell'Economia Politica- è un Pareto ancora giovane e meccanicista (l'economia pura come la meccanica razionale), eppure tanto fallito nei suoi pur brillanti approdi che più tardi, insoddisfatto degli stessi, si trasformerà nel Pareto sociologo.

Ma quando ancora, nella ricerca di sé, applicava quel metodo ai fatti economici, conscio a sprazzi dei limiti del proprio approccio (e pur argomentando poi à contre sens), lo definiva brevemente “economia matematica”:

"Come in tutti gli studi di applicazione della matematica, abbiamo nell'economia matematica due problemi distinti: a) un problema esclusivamente matematico, che trae le conseguenze da

taluni presupposti; b) un problema di adattamento dei presupposti e delle conseguenze teoriche

ai casi concreti della pratica. Il nostro studio comprende una parte statica e una parte dinamica; ci occuperemo quasi esclusivamente della prima."21. La proiezione intellettuale secondo cui gli esseri agiscono -in media-

secondo leggi di natura matematica, precostituisce dunque in Pareto le vie che addurranno agli sviluppi noti dell'economia pura (e del resto Menger aveva parlato di <indirizzo teoretico esatto> già nel 1882).

Questi sono i pregi e i drammi dell'impostazione paretiana: essa dà vita a una trattazione che, concependo “l’ordine economico … della stessa natura di quello che regge i fatti della natura fisica” sviluppa la scienza economica 21 V. PARETO, L'économie mathématique, in Encyclopédie des sciences mathématiques pures et appliquées, Paris, Gautiers, Villars, 1911, t. IV, sez. 4a, p. 591. Sul tema cfr. AA.VV., Convegno Internazionale su Vilfredo Pareto, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1975 (ove il dibattito SPIRITO-DEMARIA), e inoltre U. SPIRITO, Vilfredo Pareto, Roma, Cadmo, 1978. Cfr. infine V. PARETO, Scritti teorici, raccolti e con prefazione di Giovanni Demaria, Milano, Malfasi, 1952 (la Prefazione alle pp. VII-XXX)

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quale “scienza naturalistica [che] assumerà una struttura identica a quella delle discipline naturalistiche, costituendosi come organismo di leggi necessarie e di determinazioni matematiche.”22.

L’approccio paretiano si declina in eleganti stilizzazioni, apparentemente esatte semplici e nette, in realtà anti-realistiche. Per dire diversamente, esso adotta una logica formale: conduce pertanto una scienza empirica (ancorché sociale) in modo formalizzato, i.e. altamente astratto, fondandosi dunque su assiomi (ipotesi) largamente non-empirici (pur se -usualmente- internamente coerenti) e su regole procedurali logico-matematiche. Con il che rimane imprigionato -quell'approccio- da un lato nella natura degli a-priori, dall’altro nelle proprietà algoritmiche degli operatori utilizzati. I primi sono già stati accennati sub 4.1., e sono in generale tipici del marginalismo, pur internamente variegato, di Walras-Pareto e di altri. Essi (beni fungibili, operatori razionali, informazioni trasparenti, mercati perfetti), pur così anti-realistici, sono d'altra parte indispensabili per poter applicare gli operatori prescelti -di norma equazioni lineari di primo o di secondo grado, pur poi integrate, e differenziate anche parzialmente- in luogo della geometria degli iperspazî (Demaria): e nelle ulteriori proprietà (e limiti) di quelle si rimane poi imprigionati intellettualmente e praticamente.

Come mai allora la diffusione dell'approccio paretiano (oggi in realtà simil-paretiano nel tramonto degli ofelimi)? Essa è dovuta a una serie di fattori che non ne colmano certo le insufficienze speculative, e che risultano tuttavia comprensibili anche nel loro potente operare; fra essi:

a) la coerenza dei nessi pragmatici e l’assolutezza elementare ma incontrovertibile delle conclusioni, ambedue tranquillizzanti per gli studiosi in cerca di certezze e per i professori nelle loro funzioni didattiche ed esaminatrici;

b) la nettezza procedurale, argomentativamente naturale ed esteticamente affascinante per chi vi si sia formato, e ignori la metodologia propria dei campi cui va ad applicarla,

c) il medesimo successo intercontinentale dell'equilibrio generale, questo sogno ultra-logico nonché vulgata piuttosto falsa, eppure da tempo trasformatasi in dogma, in diffusa Weltanschauung di pochi apostoli e di molti abitudinari.

22 N. ABBAGNANO, Essenza dell’ordine economico, in AA.VV., ATTI del XIII Congresso Nazionale di Filosofia, Bologna, Zanichelli, 1940, Primo tema, Economia e filosofia, pp. 21-30 (la citazione, con l’omissione di un capoverso, è dalle pp. 21-22)

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4.3. Critica di Marshall Marshall -ricordava Umberto Ricci- compie il grande progresso di

studiare non più l'<equilibrio generale>, bensì gli equilibrî parziali. Egli distingue, per l'impresa, un equilibrio momentaneo, quando l'offerta

è fissa; ma poi soprattutto un <breve> e un <lungo> periodo secondo una differenziazione normalmente ancora in uso in Economia politica. Nel breve i fattori, specialmente il fattor-capitale, sono dati, e l'impresa può aumentare l'offerta ma solo fino al massimo della capacità produttiva; nel lungo periodo tutti i fattori sono invece variabili: non solo l'impresa investe, ma si verificano anche entrate (e uscite) di imprese dai settori produttivi.

Questa distinzione convenzionale, pur pionieristica (1890), è però inaccettabile ove riferita all'impresa, la quale è per principio assolutamente flessibile nel convertire ad nutum il <breve> nel <lungo> periodo -e viceversa-, e per la quale dunque la distinzione stessa pare priva di senso.

Legge standard di comportamento delle imprese è infatti il mutamento continuo -sviluppo per dire con la Penrose-, l'adattamento assiduo e ininterrotto ai prezzi, ai mercati, alla tecnologia, alla concorrenza, effettuato tramite scelte di gestione ordinaria (compresi gli accordi inter-aziendali) e straordinaria (investimenti e dis-investimenti). Fattori <dati> e fattori <mutevoli> in senso marshalliano è, dunque, solo l'ennesima riformulazione idealistica, utile -nel caso- per poter cancellare la variabilità del mondo e ricondursi ai soliti schemi walrasiani, semplici ma anti-realistici.

Applicandoli, il <breve periodo marshalliano>: a) distingue costi fissi (tipicamente del capitale) e variabili (tipicamente del lavoro); b) studia la dinamica dei costi per differenti volumi operativi (anche in assenza di coefficienti costanti); c) infine individua le condizioni di equilibrio dell'impresa che attui una produzione omogenea e operi in mercati perfetti (o dell'impresa che pur abbia produzioni differenziate, giacché essa le classa sul mercato grazie a connessioni speciali con i clienti). Nel breve periodo l’impresa marshalliana eguaglia così il costo marginale al ricavo marginale, e minimizza quello sostituendo via via fattori produttivi (principio di sostituzione).

Una sorta di equilibrio walrasiano (il Walras del 1874) sembra reggere anche la teoria marshalliana del <lungo> periodo, peraltro costruita sull'estensione della teoria ricardiana della rendita (rendita, si ricorda, quale redditività superiore al costo-opportunità). Può sussistere infatti nel <breve> periodo una quasi-rendita dovuta all'incremento della domanda del prodotto dell'impresa, ma essa tenderà a scomparire nel lungo periodo: se c'è più domanda altre imprese entreranno, la produzione aumenterà, i prezzi diminuiranno -si tornerà ai prezzi "normali"-, la quasi-rendita scomparirà: non per niente i mercati sono perfetti!

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Questo bel mondo di bucoliche omogeneità marshalliane (il perfetto equilibrio d'impresa di breve periodo, il perfetto equilibrio di settore di lungo periodo) si estende anche agli equilibrî di settore nel tempo, grazie alle caratteristiche dell'<impresa rappresentativa>.

Vige infatti nelle <industrie> un <ciclo di vita (finito) delle imprese>, dovuto ai fattori seguenti:

• si realizzano economie interne di scala, e se il settore cresce anche economie esterne (i ricavi devono consentire la sostituzione del fattore-lavoro e dei capitali fissi), ma con discesa dei prezzi-ricavo medî di lungo periodo;

• tale dinamica della redditività consente così il firms replacement; • la dimensione d'azienda muta dunque con il settore, e cresce dapprima

per poi fatalmente declinare: la distribuzione delle imprese per età risulta costante;

• e per ciascuna di esse, l’equilibrio è negativo a inizio-vita e positivo a fine-vita, con risultato dunque sostanzialmente compensato.

Si ha qui un mondo di simmetrie che si combinano in un sistema di equilibrî sì parziali, ma così co-determinati da risultare in un'iper-armonia arcadica certo assai ben congegnata, ma che da un lato rivela il determinismo biologico dell’autore, dall'altro nulla consente di apprendere sulle imprese, i mercati e i settori economici quali essi si svolgono nella realtà.

4.4. Critica di Keynes Diligente allievo di Marshall -la Robinson diceva che l'aveva succhiato

col latte-, a riguardo dell'impresa John M. Keynes presenta: a) due o tre differenti modelli della trasformazione economica che essa

attua nel capitolo 6° della Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta (The definition of income, saving and investment),

b) le motivanti degli investimenti nel capitolo 11° (The marginal efficiency of capital).

I modelli citati paiono eminentemente finalizzati alla costruzione equazionale dei <grandi aggregati>23: per questo forse non importa che essi

23 J.M. KEYNES, The general theory of employment, interest and money, Royal Economic Society Edition, London and Basingstoke, Macmillan, 1973, pp. 52-57 e 66-69. Il profondo radicamento degli errori keynesiani -poi solo in parte corretti- è palese nella prima versione del capitolo 6° del Teoria Generale, in particolare nel § I: cfr. ora J.M. KEYNES, Variorum of drafts of the General Theory, in id., The General Theory and after. Part II.

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risultino sostanzialmente inconciliabili, e dal punto di vista empirico sostanzialmente non-veri.

Ci si limita dunque ad esporre nel seguito solo il meno inverisimile fra tutti, l'identità secondo cui è:

Investimenti = fatturato – costi d’uso – acquisti [1]24,

che non richiede critica in questa sede. Essa infatti impone che l'impresa investa ogni anno importi pari alle quote di ammortamento, il che può risultare empiricamente tanto vero quanto falso (statisticamente è piuttosto falso), e dunque assai discutibile data la natura di identità dogmatica della [1].

L’<efficienza marginale del capitale> viene poi definita come il tasso di sconto che eguaglia i rendimenti attesi di un bene-capitale e il suo costo attuale di produzione25: per definizione (ovviamente solo di Keynes) essa diminuisce al crescere degli investimenti, mentre gli investimenti verrebbero sospinti finché l’EMC eguagli il saggio di interesse corrente o di mercato26, al di sotto del quale non può scendere27.

Torna qui pure, certo più sofisticata, la manìa marshalliana per le inverisimili armonie tipiche dell'accademismo. Quell'ipotesi significa infatti:

a) immaginare che i beni-capitali d’impresa abbiano ciascuno un rendimento proprio e specifico, il che è assurdo prima ancora che non-misurabile;

b) estraniarsi dalle valutazioni di convenienza dell’impresa, usualmente riferite alle combinazioni esistenti, alla varia modalità d'uso delle stesse anche per via di accordi e alleanze, all’inserzione in quelle di nuovi investimenti;

c) immaginare l’assenza di economie di scala e di rendimenti crescenti; d) infingersi l’usuale equilibrio simil-paretiano fra domanda e offerta

(questa volta di finanziamenti-investimenti), mentre è noto che gli investimenti d’impresa vengono effettuati anche alla luce degli equilibrî settoriali e aziendali, e con fonti di finanziamento complesse (mezzi proprî, autofinanziamento sia da utili sia da operazioni straordinarie, indebitamento in differenziate forme tecniche);

Defence and Development, London and Basingstoke, Macmillan for the Royal Economic Society, 1973, pp. 351-512, specialmente alle pp. 398-404 24 id., pp. 52-65 25 id., p. 135 26 id., pp. 136-137 27 id., pp. 212-213

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e) ignorare le alternanze della redditività (anche inferiore a zero) delle imprese e dei settori;

f) tornare a imporre i rendimenti decrescenti marshalliani ma vincolarli a EMC > (i) (e anche questo può risultare falso);

g) immaginare che gli imprenditori valutino in funzione di sole quantità presenti (sic), e tuttavia quali ottimizzatori perfetti.

4.5. Critica di Coase Coase è stato -negli ultimi vent'anni- ripreso e rilanciato da

O.E.Williamson. Ma nonostante l’abbondare odierno di citazioni, The Nature of the Firm di Coase (1937)28 rimane il pur brillante esito di un ventunenne affascinato da Frank Knight e Philip Wicksteed: l’impresa nascerebbe -in luogo di un nesso diretto (di tipo artigianale) lavoratore-mercato- a causa dei “costi di gestione del mercato”, in particolare derivanti dalla funzione di <scoperta dei prezzi>.

L’<agente centrale> di tipo <impresa> sorge allora, secondo Coase, al fine di centralizzare indagini e trattative; e la dimensione ottima di essa si situa all’incrocio fra il costo implicito di gestione del mercato e il costo marginale dell’organizzazione interna e delle decisioni inesatte.

In realtà, pur non trascurando il profilo informativo, l’impresa nasce per combinare sistematicamente fattori in scala tale che il singolo artigiano non potrebbe: ciò che gli fa difetto di norma non è certo la <conoscenza del mercato>, anzi; né la <centralizzazione informativa> pare il discrimine fondativo (in nuce essa è presente già nelle proto-imprese).

All'imprenditore che converte pensiero in azione, difetta semmai la disponibilità dei fattori (fra cui specialmente il fattor-capitale), la divisibilità opportuna o desiderata degli stessi, la possibilità di aggregarli per <ottimi dimensionali parziali>, e ancora le capacità organizzative e gestionali; e rispetto a questo i “costi di gestione del mercato” sono parte (assai) marginale.

La funzione di <scoperta dei prezzi>, inoltre, avviene di norma a) in via graduale -per stratificazione dinamica- implicitamente o traslativamente rispetto a prodotti eguali-simili, b) oppure proprio proponendo prodotti nuovi al mercato, e valutandone le reazioni, da parte dell'impresa già avviata.

Non è dunque difficile o misterioso o gravoso tale compito; lo sono semmai:

a) l’aggregazione di fattori molteplici e differenziati, 28 R.H. COASE, "Economica", 4-1937, pp. 386-405

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b) l’abilità di forgiare tale aggregazione in modo innovativo (Schumpeter, 1911)29, dunque fruttuoso di lucro -e di lucro differenziale- nei processi di concorrenza di mercato;

c) infine, i compiti organizzativi esterni e interni nella dinamica spazio-temporale, compresi in quelli le scelte di crescita e di sviluppo (Penrose, 1959; cfr. § 5.9.).

In conclusione -come già noto nella letteratura tecnica italiana dell'Ottocento-, senz'altro l'impresa nasce per <centralizzare>; ma come si vedrà la centralizzazione informativa è solo una fra le tante delle sue funzioni, né la principale (cfr. § 5.).

4.6. Critica delle teorie comportamentiste Un brevissimo accenno, infine, alle teorie comportamentiste

(behavioral), a base variamente March-Simon-Cohen-Cyert et al. e sviluppate intorno agli anni '60 del secolo XX30.

Nate all’incrocio dell’evoluzione post-marginalista con gli studî organizzativi, esse traslavano le “massimizzazioni” dell’imprenditore-soggetto nelle “ottimizzazioni” delle compagini direttive (la satisficing behavior di Simon): si trattava in fondo di marginalismi integrati e corretti, già più realistici e dunque plausibili, e tuttavia sempre rifusi nel crogiuolo dei <massimi vincolati> et sim.

Soprattutto, si trattava sì di comportamenti d’impresa -ponderati tramite la struttura organizzativa, la concorrenza ed il rischio- e dunque risultante del comportamento dei suoi direttori; sempre però con riferimento a fini-obiettivi anche parametrati, ove non di rado i maxima non potevano venire raggiunti per carenze informative, o per comportamento ‘avverso al rischio’, o per esiti della voting theory (questi fatalmente indeterminati), o per dissidio interno, o per altro ancora.

Si trattava dunque di impostazioni le quali, pur cercando di innestare elementi di realismo nel marginalismo, ne mantenevano tuttavia il fondo meccanicista soltanto modificandolo, o giustamente probabilizzandolo sulla base di componenti psicologiche e organizzative. Costituirono certo, all'epoca, un grande progresso, sia critico sia innovativo; esse inoltre, pur in 29 J.A. SCHUMPETER, Die Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, 1911; e inoltre i saggi in lingua tedesca raccolti, a cura di A. SPIETHOFF, E. SCHNEIDER, in Aufsätze zur ökonomischen Theorie, Tubinga, 1952 30 Cfr. ad es. R. MARRIS, The economic Theory of 'managerial' Capitalism, London, 1964, come pure il ritorno sul punto ad opera del medesimo J.G. MARCH, Bounded Rationality, Ambiguity, and the Engineering of Choice, "The Bell Journal of Economics", 9-1978, pp. 587-610, con le relative bibliografie

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sé concluse, risultavano anche collegabili a teorie di comportamenti altri dell’impresa (del comportamento competitivo, delle politiche di investimento, della propensione all’innovazione o al rischio, e così via dalla Robinson alla Penrose): ne derivò dunque un fervore che rinnovò profondamente -o rese finalmente discutibili- le <esattezze> tradizionali delle vulgatae walras-paretiana, marshalliana, keynesiana.

Eppure, al pari delle altre proposte teoriche (compresi Williamson e Coase) esse lasciavano ancora insoddisfatta e priva di risposta la domanda di sempre: qual è la funzione economica dell’impresa?

5. L’impresa sistema di trasformazione economica.

5.1. Secondo la dottrina economico-aziendale -nelle sue costituzioni tedesche e italiane e nei suoi svolgimenti ormai secolari (Nicklisch, Die Betriebswirtschaftslehre, 1912; Schmalenbach, Dynamische Bilanz, 1914; Zappa, Il reddito, 1920-1929; Le produzioni nell'economia delle imprese, 1956-60; Giannessi, Corso di Economia Aziendale, 1960 ss.; P. Onida, Economia d'azienda, 1971-II; Masini, Lavoro e risparmio, 1980-II; Azzini, Economia aziendale, 1978)- l’impresa è <l’unità economica che sistematicamente produce redditi e capitali>.

Tale definizione fa riferimento:

1. all’attività economica di scambio esercitata in via sistematica nella dinamica esogena;

2. con l’obiettivo di produrre redditi, cioè con la condizione R – C > 0; 3. e con l’obiettivo congiunto di <mobilizzare i capitali fissi>, di ottenere

cioè il ritorno monetario-finanziario dei fattori aventi fecondità ripetuta (Broglia, L'azienda industriale, 1920).

In realtà, i nn. 2. e 3., così distintamente descritti in letteratura come disgiuntamente misurabili dalla Ragioneria, precipitano -negli svolgimenti d’impresa- in un plesso unitario.

Per esporre didatticamente, si può allora immaginare lo svolgersi ideale della gestione d’impresa come congiuntamente attuativo della produzione di redditi e della ri-produzione di capitali:

• se i prezzi-costo esprimono il concorso dei fattori a fecondità semplice e, pro quota, dei fattori a fecondità ripetuta;

• se i prezzi-ricavo li reintegrano, • allora i risultati lordi esprimono a) il reddito netto prodotto dalla

gestione, b) le risorse generate dalla “mobilizzazione dei capitali fissi” (in ipotesi semplificate pari al valore delle quote di ammortamento).

La natura economica dell’impresa

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5.2. L’attività economica, quantitativamente sintetizzata nella differenza

R – C > 0 [2],

è in realtà assai più complessa, e l’Economia aziendale appunto: a) la esprime in via sì quantitativa ma sistematica, b) la descrive, prima ancora, dal punto di vista dei processi di gestione che

a quelle quantità danno origine.

• A riguardo del primo punto occorre riflettere ai molteplici, variegati sotto-insiemi di costi (e di ricavi) che vengono poi formalizzati in R – C = 0. Si tratta di raggruppamenti di valori in categorie rese contabilmente “omogenee" (ciascuna nella propria dispersione contrattuale, temporale, spaziale), poi tutte racchiuse in sotto-sistemi di costi e ricavi sì contrapposti dal punto di vista quantitativo, ma fra loro riuniti in sistema dal punto di vista economico: si sostengono prezzi-costo con l’obiettivo di conseguire prezzi-ricavo, si sostituiscono alcuni costi ad altri, e tutti li si converte poi in speranze di ricavi. Si tratta dunque di plessi reddituali formati <nella simultaneità e nella successione>, definibili come coordinazioni lucrative (Zappa, La tecnica amministrativa delle imprese industriali, 1919; Il Reddito, 1920-29; Le produzioni, 1956-60).

A riguardo di queste, l’impresa è talora talora datrice e talora prenditrice di prezzi, in dipendenza dal proprio vario <potere di mercato>, dal differenziale di potere negoziale-contrattuale con fornitori e clienti, dalle leggi e dai regolamenti, dalle singole scelte gestionali. Ancora, l’impresa negozia di norma prima i costi e successivamente i ricavi, ancorché accada non di rado l’inverso (e.g. polizze assicurative, aggiudicazioni per appalto, et al.).

• L’impresa in sostanza negozia prezzi-costo dei fattori, trasforma gli stessi, e ri-negozia -successivamente, contemporaneamente, anticipatamente (appunto “nella simultaneità e nella successione” che Zappa deriva da Stuart Mill)- prezzi-ricavo. In tal modo, essa fa precipitare nelle citate <coordinazioni lucrative> le modalità stesse del proprio acquistare, trasformare, vendere, cioè trasforma in prezzi-costo e prezzi-ricavo le operazioni-processi-combinazioni di ciascun ramo della propria gestione (acquisti, trasformazione, vendite, finanziaria). Le coordinazioni lucrative sono in sostanza lo specchio reddituale delle combinazioni produttive, i.e. dell’insieme di operazioni-processi-combinazioni omogenee tramite cui l'impresa produce redditi e ri-produce capitali (tutte le imprese dunque <producono>, e svolgono <combinazioni produttive>, comprese le bancarie, le assicuratrici, le turistiche et al.).

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• Nella combinazione e ri-combinazione sistematica delle <coordinazioni lucrative> nello spazio e nel tempo, e delle <combinazioni produttive> che alle stesse danno origine, l’impresa stessa “ottimizza”. Ma a tal fine occorrerà precisare -smentendo sulla base del realismo la diffusa accezione apodittica- che essa ottimizza (Machlup, Marginal analysis, 1946, 1947; Baumol, Oligopoly, 1958, Expansion, 1962; Onida, Economia d'azienda, 1967; Simon, opp. citt.)31: a) ex ante, b) soggettivamente, c) con ignoranza parziale dei dati, d) con variegato atteggiamento verso i rischi speciali, nonché verso il

rischio generale d’impresa, e) con differenziato orizzonte temporale, f) con declinazioni differenziate a seconda del ‘principio della

risultante’ in senso organizzativo, g) con riferimento a variabili molteplici mutuamente compatibilizzate

(equilibrio economico quale equilibrio reddituale, finanziario-monetario, patrimoniale; sviluppo; espansione e tasso di crescita; quota di mercato; stabilità del gruppo di controllo; armonia organizzativa; struttura competitiva; posizione concorrenziale; e così via).

Occorre infine presentare un ultimo punto, sempre per chiarire il concetto

di azienda di produzione <sistema di capitali e di redditi> la quale appunto sui primi si basa per produrre i secondi, e che sistematicamente -mentre produce redditi- ri-produce capitali.

Si è infatti generalmente portati a ritenere che il capitale investito -cioè le strutture produttive materiali e immateriali- “causino” il reddito: ne siano l’origine e il fattore genetico, e che dunque rilevi nell'economia delle imprese il fattor-capitale.

E’ questo un pensiero ottocentesco che si rivela -dopo le rivoluzioni scientifiche di Schmalenbach e Zappa (1914-1920)- profano e profondamente errato, non importa se ancor oggi sostenuto dalla gran parte degli autori anglosassoni e dei loro imitatori e seguaci, specialmente europei.

Corre pertanto l’obbligo di correggerlo riflettendo a due concetti auto-esplicativi riferiti: a) alla rilevanza della gestione, b) al rilievo dei flussi reddituali nel tempo.

31 Cfr. le nn. (43)-(46)

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a) Rilevanza della gestione. Il capitale -in assenza di una gestione che lo utilizzi, movimenti, modifichi- è assolutamente statico, inattivo, improduttivo. Origine e fattore genetico del reddito è, tramite il capitale, la gestione, ed è ben la qualità della stessa a far sì che il reddito sia del tipo

R – C > 0 = utile [3].

Anzi, è ben la gestione che consente la rappresentazione della redditività delle imprese su una normale o gaussiana, quindi con distribuzione (altamente) asimmetrica delle singole redditività: è la storia sempiterna delle imprese leader, medie, marginali. Certo, in casi di congiuntura generalmente favorevole (o depressa) la gaussiana risulterà skewed, ma qui pure con variazioni ulteriormente asimmetriche, giacché è proprio nei periodi di successo, e ancor più di crisi (generali, e specialmente di settore) che si modifica rispetto a prima la graduatoria delle imprese secondo la redditività, e ciò ancora una volta per la varia efficacia ed efficienza della gestione. E’ la gestione insomma che sceglie in via previa quale tipo di capitale costituire, e poi in qual modo utilizzarlo; per questo lo stesso art. 2555 C.C. in precedenza citato deve ben riconoscere che l’ “insieme di beni” è “organizzato dall’imprenditore”: si tratta del momento organizzativo -cioè di declinazione gestionale- prima accennato, e del quale annotava Asquini negli anni ’50 la relativa trascuratezza da parte dei giuristi. Il capitale d'impresa in assenza di gestione sarebbe amorfo: per questo viene anche correntemente denominato <capitale di funzionamento>.

b) Rilievo dei flussi reddituali nel tempo. Non solo -come si diceva- il

capitale postula la gestione, e a questa vanno riferite le <produzioni di ricchezza> che usualmente l'Economia politica imputa al capitale: da sempre si sa -e da Schmalenbach (1914) è stato anche formalmente chiarito- che il valore del capitale dipende dai flussi di reddito futuro che esso -in unione appunto alla gestione- è in grado di generare. Imprese con capitali ingenti possono -per congiunture avverse, disavventure di mercato, lotte concorrenziali, gestione insipiente o mera mala gestio- incontrare disequilibrî economici ampî, ripetuti, crescenti, e infine devastanti fino alla crisi, all’insolvenza, al fallimento. Queste perdite decrementano progressivamente il capitale fino a condurre, appunto, a) all’incapacità di far fronte alle proprie obbligazioni (insolvenza); b) alla liquidazione a stralcio, anche in asta pubblica, dei

Arnaldo Canziani

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beni aziendali che costituivano il capitale di funzionamento (fallimento). Fino a condurre, dunque, all’annullamento del valore dell’impresa. Imprese con capitali anche ridotti possono viceversa -per congiunture favorevoli, per fortune di mercato, per assente o ridotta concorrenza, per superiori capacità innovative e gestionali- ottenere utili larghi, crescenti, fuori-norma. Questi utili incrementano progressivamente il capitale consentendo sia la remunerazione dello stesso sia processi di espansione per crescita interna oppure esterna (acquisizioni), fino a condurre l’impresa a dimensioni rilevanti nel proprio settore, e talora nel sistema economico di riferimento. Fino a condurre, dunque, alla crescita -ex ante indicibile- del suo valore. Ne consegue che non il capitale “dà valore” al reddito, bensì che i flussi di reddito -nella loro quantità e qualità anche temporale e monetaria- attribuiscono valore al capitale, e più ampiamente all’intera impresa.

5.3. Peraltro, l’Idealtyp di impresa quale <unità economica che

sistematicamente produce redditi e ri-produce capitali> comporta anche la considerazione fenomenica di tutti i casi in cui tale produzione risulti non-massima, oppure non-sistematica in via vuoi temporanea (disequilibrio) vuoi definitiva (insolvenza, fallimento).

Occorre allora, a tal fine, unire a quella definizione idealtipica la descrizione -tratta dall’esperienza pratica scientificamente selezionata- del comportamento gestionale come (cfr. 5.2.):

• incompletamente fondato dal punto di vista informativo; • variamente ottimo -ma anche mediano o pessimo- nel tempo, e ciò in

dipendenza delle differenziate capacità degli operatori (ricercare e valutare informazioni; combinarle con le scelte di capacità produttiva; gestire quest’ultima interattivamente e inter-temporalmente; rinnovarla nella dinamica esogena permanente ed entelechiana);

• volutamente non-ottimo, per via dei motivi citati sub 6.2. in fine. 5.4. L’impresa è anche -infatti- un insieme di persone, strutture

organizzative formali, processi di gestione, valori spirituali avvinti in <configurazione organizzativa>. L’impresa è cioè un sistema organizzato -variamente disciplinato e regolato, finalizzato, euristico, autocorrettivo-, il quale sistematicamente trasforma:

1. fattori produttivi in beni economici, dunque prezzi-costo in prezzi-ricavo;

2. ricavi di vendita in remunerazioni categoriche (salarî e stipendî, costi dei fattori materiali e immateriali, oneri finanziarî, tributi, dividendi);

La natura economica dell’impresa

27

3. informazioni e previsioni in decisioni; 4. finanziamenti in investimenti; 5. rischî speciali (di mercato, di cambio, di interesse) nell’unitario <rischio

di gestione>.

Il sistema-azienda -infatti- organizza sistematicamente il nuovo sottoscrivendo rischî generali e speciali: l'impresa ‘endogenizza’ variabili esogene che, trasformate e combinate con l’imprenditorialità schumpeteriana, determinano la successiva ‘esogenizzazione’ di variabili endogene.

Quel sistema, infine, non produce certo “beni e servizî”, ma sempre e soltanto beni economici -<economici> in quanto destinati allo scambio di mercato-, caratterizzati da un vario grado di materialità (dai beni-merce ai beni immateriali).

5.5. Merita allora breve menzione il concetto di <impresa sistema di

decisioni>. L’attività dell’impresa si svolge infatti -quotidianamente- per il tramite di scelte fra alternative, scelte che si traslano in decisioni.

Queste possono risultare viariamente frequenti, ripetute, differenziate; esse vengono assunte -con campi più ristretti o più ampî- a qualsivoglia livello dell’impresa, e hanno ovviamente ad oggetto l’attività della stessa e le sue funzioni.

E siccome il modello è verisimile ma convenzionalizzato (l’impresa “sistema di decisioni”), si potrà poi -altrettanto convenzionalmente- asserire che il sistema di decisioni riguarda principalmente:

a) i fattori produttivi da aggregare e trasformare in beni economici, b) i prezzi-costo e i prezzi-ricavo, c) gli investimenti che si desiderano realizzare e i finanziamenti tramite i

quali alimentarli; d) il sistema di rischi che si accetta di sottoscrivere in funzione della varia

propensione al rischio d’impresa; e) le strutture, i processi, i <valori organizzativi> tramite i quali si desidera

operare. La scansione standard sul tema è ancora dovuta ad Ansoff (1965)32, il

quale distinse, non solo convenzionalmente, tre tipologìe di decisioni che prendono atto nell’impresa e ne determinano l’attività.

A livello fondativo, e del resto iniziale, si situano le decisioni strategiche, intese quali scelte che costituiscono o variano la capacità produttiva di tipo

32 I. ANSOFF, Corporate strategy, New York, 1965

Arnaldo Canziani

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economico: esse riguardano il campo d’azione prescelto (ad esempio le assicurazioni-vita o danni, i trasporti su rotaia o su gomma, ad unum il settore merceologico e i relativi comparti di esso), la localizzazione, la tecnologia prescelta, la capacità produttiva fisico-tecnica installata nella sua dimensione e tipologia (per le imprese industriali tipicamente l’impianto), e così via.

Le decisioni strategiche determinano allora -e consentono- le susseguenti scelte di prodotto e di mercato, e risultano influenti per lunghi archi temporali: fino a che non siano stati appunto realizzati, ri-prodotti, mobilizzati gli investimenti “in attesa di realizzo” attuati. Esse sono dunque irreversibili, o difficilmente reversibili, o facilmente reversibili ma a patto di sostenerne i relativi costi (derivanti dalle quote non ancor <realizzate>, i.e. ri-prodotte).

La seconda tipologia comprende le decisioni amministrative nel senso di gestionali, relative cioè alle grandi linee di utilizzazione della capacità produttiva: scelte economico-tecniche (quali beni produrre per tempi e quantità), commerciali (quali politiche di prezzi, di sconti, di pubblicità), organizzative interne (relative al sistema informativo, o ai processi di programmazione e controllo, e così via), et al. Le decisioni amministrative sono inoltre: a) scelte di disposizione-attuazione dei piani e programmi connessi alla

capacità produttiva installata, ma sono nondimeno (o dovrebbero essere) b) scelte di controllo dei risultati e del raggiungimento degli obiettivi

preposti (obiettivi di redditività, di quota di mercato, di crescita dimensionale),

infine c) scelte di riformulazione di piani e programmi.

In tale ambito, ruolo di rilievo -ancorché non sempre riconosciuto empiricamente, e tantomeno nella repubblica delle scienze- manifestano in particolare le decisioni relative all'architettura dei flussi informativi, in particolare di reporting generale d'azienda o speciale di attività. Al di là allora degli appellativi anglofili, si tratta del ruolo sempiterno:

a) della Ragioneria generale (contabilità, bilancio d'esercizio), b) delle Ragionerie speciali, in particolare:

• la Ragioneria Applicata dell'analisi dei costi, dei ricavi, dei calcoli di convenienza in ipotesi sia <statiche> sia <dinamiche> (cioè a parità o con variazione della capacità produttiva installata),

• l'Analisi e la programmazione finanziarie.

La terza tipologia di scelte concerne le decisioni operative (quotidiane, tattiche, routinarie), cioè l’insieme di micro-decisioni giornaliere nelle quali

La natura economica dell’impresa

29

prendono atto le categorie precedenti, le decisioni strategiche e le amministrativo-gestionali. Micro-decisioni le quali hanno comunque il dovere -non semplice, e solo in apparenza conseguente- di declinare efficacemente le decisioni amministrative, di coordinarsi fra loro, di misurare il proprio grado di efficienza, e di risalire proceduralmente nei canali informativi ai processi di programmazione e controllo.

Il modello dell’impresa “sistema di decisioni” consente inoltre di

definirla come un sistema di durata lunga e indefinita, nel quale cioè prende atto la continua formulazione-correzione-riformulazione delle scelte strate-giche ma soprattutto amministrativo-gestionali.

L’impresa cioè, una volta costituita la capacità produttiva (decisioni strategiche), e pur assodato che quotidianamente attuerà una folla di micro-decisioni (scelte operative), sviluppa scelte di prodotto, di mercato, di tecnologia, di prezzi-costo e prezzi-ricavo, di investimento-disinvestimento, di pubblicità, di indebitamento et al., cercando nel tempo di adattarsi alle tendenze macroeconomiche e di mercato, alle azioni della concorrenza, alle esigenze dei clienti nonché ai gusti dei consumatori.

Essa cerca così di adattare gli effetti delle scelte strategiche assunte ex-ante e i vincoli relativi (fra i quali le durate del ciclo produttivo) alla continua ricerca dell’equilibrio economico dinamico.

5.6. Menzione merita infine -pure qui brevemente- il concetto di

impresa sistema di rischi. La tecnica assicurativa distingue, in generale, fra rischi <assicurabili> e

<non-assicurabili>. I primi -semplificando assai- possono derivare da eventi dannosi variamente incidenti sulle persone o sulle cose (sinistri), e trovano <mercato di copertura assicurativa>, cioè operatori i quali contro pagamento di importi dati (premî) accettano di addossarsi, a condizioni prestabilite, le conseguenze economiche negative derivanti dall’eventuale manifestarsi effettivo del sinistro.

Le imprese sopportano, e quotidianamente, una quantità di rischi assicurabili: basti pensare per l’impresa industriale ai rischi di incidenti sul lavoro, di incendî, di guasti impiantistici et al., per l’impresa commerciale ai rischi di furto, per l’impresa bancaria ai rischi di ammanco o rapina, per le imprese di trasporto ai rischi di incidente, di ritardo, di sospensione del servizio; e così via.

Peraltro, proprio perché si tratta di <rischi assicurabili>, e poiché l’impresa è ben libera di scegliere il proprio <grado di copertura assicurativa> (con i costi conseguenti), non è questo il senso secondo cui si dice dell’impresa <sistema di rischi>. L’impresa è viceversa definibile

Arnaldo Canziani

30

quale <sistema di rischi> con riferimento ai rischi non-assicurabili, tipicamente il rischio di gestione (Sassi, 1940)33.

L’impresa -si è visto ripetutamente- sceglie fattori produttivi da trasformare in prodotti, negozia prezzi-costo per negoziare prezzi-ricavo, investe capitali per produrre beni economici e poi riprodurre i capitali stessi, decide oggi dando vita a scelte non solo concrete nell’immediato ma anche durevoli nel futuro (talora per decenni, si pensi alle scelte localizzative).

<Rischio di gestione> rappresenta allora l’eventualità che la gestione non si svolga in equilibrio, e dunque che i costi si trasformino in ricavi non remunerativi (i.e. insufficienti), che i beni economici prodotti non trovino sufficiente gradimento di mercato, che i capitali consumati non si riesca a riconvertirli-riprodurli integralmente, infine che le scelte frutto delle decisioni si rivelino imperfette o inadeguate o addirittura perniciose anche per lunghi archi temporali.

<Rischio di gestione> significa in sostanza effettuare investimenti in attesa di realizzo avendo fatto ricorso a capitali di socî e di finanziatori; avere questo capitale di funzionamento da gestire nel tempo nei suoi elementi materiali e immateriali (e.g. l’impianto, la flotta, i diritti dell’ingegno), declinandolo come si diceva in a) combinazioni produttive, b) coordinazioni lucrative.

Significa dunque essere esposti al rischio che, appunto in questo stesso tempo, le combinazioni produttive non riescano a tradursi in coordinazioni lucrative in equilibrio. In sostanza che, per scelte imperfette o avventate, per inasprirsi del confronto concorrenziale, per l’introduzione di nuovi beni, per eventi esogeni imprevisti non si raggiunga l’economicità, oppure la si perda senza riuscire a recuperarla34.

5.7. Date tutte queste premesse -generalmente valide quale modello

identificativo della essenziale natura economica dell’impresa-, e rammentate le coessenziali traslazioni spaziale e temporale, occorre poi delineare le trasformazioni economiche speciali -tutte diverse fra loro- tramite le quali l’impresa nei differenti settori realizza le ricordate produzioni di redditi e ri-produzioni di capitali.

Occorre cioè definire le trasformazioni economiche tipiche -di volta in volta caratteristiche, e nel contempo esclusive- delle imprese primaria, industriale, bancaria, assicurativa, commerciale e di servizî. Quelle -intese

33 S. SASSI, Il sistema dei rischi d'impresa, Milano, 1940 34 Cfr., dell'autore, Osservazioni sui processi generatori di rischi aziendali, in AA.VV., Studi in onore di Francesco Brambilla, Milano, Bocconi Comunicazione, 1986, vol. I, pp. 95-108

La natura economica dell’impresa

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come modalità tecniche connotative delle varie famiglie di imprese-, possono dunque venire definite quali trasformazioni economiche speciali.

La dottrina economico-aziendale italiana le ha diffusamente descritte, comprese e normate in modo peculiare -e di norma ineccepibile- talora sin dagli anni '10 del secolo XX. Più specificamente, essa ha definitivamente interpretato35:

• l’azienda di trasformazione primaria, che trasforma risorse e forze della natura in beni economici materiali (Giannessi, 1960)36;

• l’impresa industriale, che trasforma dal punto di vista fisico-tecnico materie prime e beni fisici in beni economici materiali, manufatti o no (Zappa 1919, Broglia, 1920, Ferrer Pacces, 1935)37;

• l’impresa bancaria, che trasforma debiti in crediti, debiti e crediti in moneta bancaria, crediti in circolazione monetaria e depositi (Garrone, 1942; Caprara, 1946; Corsani, 1946; Saraceno, 1949; Dell'Amore, 1951)38;

• l’azienda assicuratrice, che trasforma i rischi individuali in collettivi, e li trasferisce sistematicamente grazie alla normalizzazione degli stessi (Fazzi, 1942; Amaduzzi, 1965)39;

• l’impresa commerciale, che trasforma spazialmente le varietà merceologiche specializzandole o aggregandole (Garrone 1912; Dell'Amore, 1938-42; Spranzi, 1969)40;

• l’impresa di servizî, che trasforma risorse materiali, informative e personali in beni immateriali (Pivato, 1939)41.

35 Cfr., dell'autore, Le discipline italiane da tecnica a scienza, in AA.VV., Atti del II Convegno Nazionale di Storia della Ragioneria, L'evoluzione degli Studi di Ragioneria dalla fine del XVIII secolo, Pisa, 1996, pp. 43-64 36 E. GIANNESSI, Corso di Economia Aziendale, vol. I, Le aziende di produzione originaria. Le aziende agricole, Pisa, C. Cursi, 1960 37 G. ZAPPA, Tecnica amministrativa, op. cit.; G. BROGLIA, L'azienda industriale, Torino, 1920; F.M. FERRER PACCES, già in L'azienda e il metodo, Torino, I.A.I., 1935, e poi nei noti lavori del dopoguerra 38 N. GARRONE, Gli istituti speciali di credito, Roma, 1942; U. CAPRARA, La banca, Milano, Giuffré, 1946; G. CORSANI, Le banche ordinarie, 1946; P. SARACENO, La banca di credito ordinario, Milano, 1949; G. DELL'AMORE, I depositi nell'economia delle aziende di credito, Milano, 1951 39 R. FAZZI, Il trasferimento dei rischi e l'organizzazione, Firenze, 1942; A.AMADUZZI, Economia e finanza delle imprese di assicurazioni, Torino, UTET, 1965 40 N. GARRONE, La scienza del commercio, Bari, 1912-13; G. DELL'AMORE, Il commercio dei prodotti agrari, Milano, 1938-42; A.SPRANZI, L'efficienza della distribuzione commerciale, Milano, ETAS-Kompass, 1969, I rapporti industria-distribuzione, Parma, Studium Parmense, 1972 41 G. PIVATO, Le imprese di servizi pubblici, Milano, 1939

Arnaldo Canziani

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5.8. Quale che sia poi lo specifico settore in cui prende attuazione

l'attività economica dell'impresa, essenziali risultano -nella gestione della stessa- a) l' equilibrio, b) lo sviluppo dinamici.

L’impresa risulta in equilibrio economico (reddituale, finanziario-monetario, patrimoniale) ove vengano soddisfatte, delle coordinazioni economiche e lucrative, le condizioni tecniche anche parametriche note in letteratura. E dal punto di vista delle combinazioni produttive ove essa si situi -dal punto di vista del prodotto, della distribuzione, dei costi, et al.- nel baricentro dell’offerta competitiva.

Nella dinamica esogena, poi, l’impresa sempre deve adeguare le proprie combinazioni produttive e coordinazioni lucrative alle condizioni almeno medie del settore (o dell’ambito competitivo). L’impresa deve cioè sempre schumpeterianamente innovare il prodotto, la tecnologia, gli impianti, la distribuzione, l’organizzazione, e soddisfare le condizioni sempre nuove dei vincoli di produttività, efficacia, efficienza, finanziamento, et al.: sono queste le scelte di sviluppo (Penrose, 1959) 42.

L’impresa può infine decidere di crescere più della crescita media del settore: si tratta allora di progettare-attuare l’aumento dimensionale, che significa incremento della capacità-potenza produttiva e distributiva, effettuazione di investimenti, reperimento equilibrato di nuovi finanziamenti, riconfigurazioni organizzative, calibrando tempi di attuazione e profili di rischio (e inoltre le nuove forme delle combinazioni produttive e delle coordinazioni lucrative). Ciò avviene secondo vie esse pure note in letteratura: sono queste le scelte di crescita (Penrose, 1959).

6. I contributi di Machlup e Baumol

6.1. Eppure per così dire da sempre comparvero anche in Economia politica contributi, seppure non organicamente composti, tuttavia espressivi nel senso di cui al § 5. antecedente.

E per limitarci solo ad alcuni di quelli, e restare al periodo 1947-1967 -fra i più fecondi, quando le scuole interpretavano l’incombente modernità in modo, se originale, però superbamente classico- si possono ricordare i contributi, rispettivamente, di Machlup e di Baumol.

Fritz Machlup, nel 1967 inconsapevolmente crociano (<To confuse the firm as a theoretical construct with the firm as an empirical concept, that is, to confuse a heuristic fiction with a real organization like General Motors or

42 E.T.PENROSE, The Theory of the Growth of the Firm, Oxford, Basil Blackwell, 1959

La natura economica dell’impresa

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Atlantic & Pacific, is to commit the “fallacy of misplaced concreteness”. This fallacy consists in using theoretic symbols as though they had a direct, observable, concrete meaning.>43), già nelle polemiche dell’immediato secondo dopoguerra aveva introdotto il concetto che sarà poi specificato da Onida: la massimizzazione è sempre soggettiva, dell’imprenditore e/o dell’organizzazione44. E se con questo si celebrano ufficialmente i funerali del marginalismo, da allora anche i walras-paretiani non possono non sapere che le imprese “ottimizzano” -in forme di volta altamente soggettive, quindi anche non-ottimizzanti- una <funzione di utilità> personale, organizzativa e complessa.

Sarà poi nel citato studio del 1967 lo stesso Machlup a precisare che la massimizzazione -sempre dunque soggettiva, e soggetta ai molteplici vincoli noti (fra i quali gli informativi)- è comunque (pp. 19-23) la massimizzazione di flussi interni ed esterni all’impresa, talora fra loro conflittuali: fatturato, utili netti, dividendi, autofinanziamento, investimenti, come pure, talora, la massimizzazione delle gratifiche e del prestigio dei direttori.

Sarà infine Pietro Onida (1967-1971) a riprendere in parte tale teorizzazione, parlando di <massimi simultanei convenientemente perseguibili dall’impresa>: quand'anche infatti si voglia insistere sulle <massimizzazioni>, avviene comunque come in qualsivoglia

max f (x1, x2, x3, …… xn) = k [4]:

massimi simultanei, dunque reciprocamente connessi, e vincolati.

6.2. William J. Baumol, dopo aver annotato la frequente tendenza delle

imprese oligopoliste statunitensi a massimizzare il fatturato (semmai con un vincolo di reddito)(1958), già nel 1962 suggeriva che, in unione all’equilibrio stazionario, un altro e congiunto obiettivo dell’impresa nella dinamica esogena fosse la crescita, e soprattutto il tasso di crescita

43 F. MACHLUP, Theories of the Firm: Marginalist, Behavioral, Managerial, <American Economic Review", marzo 1967, pp. 1-33 (p. 9); cfr. inoltre Competition, Pliopoly, and Profit, <Economica>, febbraio 1942, pp. 1-23, maggio 1942, pp. 153-173; 44 F. MACHLUP, Marginal Analysis and empirical Research, <American Economic Review>, settembre 1946, pp. 519-554; Rejoinder to an Antimarginalist, ibidem, marzo 1947, pp. 148-154

Arnaldo Canziani

34

(tipicamente del fatturato): egli proponeva così il modello di <equilibio e crescita>45.

Inoltre, mentre per le imprese operanti in settori oligopolistici egli ri-proponeva l’ipotesi della massimizzazione del fatturato (con un vincolo di utile minimo), più in generale combinava il binomio redditività-crescita, da modularsi in funzione dei vincoli di finanziamento46. Tale insieme è tecnicamente misurabile dai tassi a) di redditività, b) di espansione del capitale investito netto, c) di indebitamento, d) di autofinanziamento, e) di copertura degli oneri finanziarî et al.

Tale insieme pare a tutt’oggi -dopo quarant’anni- la sintesi migliore della funzione-obiettivo delle imprese, quella stessa funzione-obiettivo poi variamente interpretata dalla prassi, dunque a seconda dei casi -come già accennato- in modo intertemporalmente ottimo, mediano, pessimo, incoerente, rischioso et al., con i profili economici, organizzativi e settoriali di volta in volta a ciò conseguenti.

45 W.J. BAUMOL, On the Theory of Oligopoly, <Economica>, agosto 1958, pp. 187-198; The Theory of Expansion of the Firm, <American Economic Review>, dicembre 1962, pp. 1078-1087 46 W.J. BAUMOL, Business Behavior, Value and Growth, N.Y., Harcourt, Brace & World, 1967-II, pp. 86-104

La natura economica dell’impresa

35

7. Conclusioni.

Gli assi teoretici portanti delle teorie economiche standard -siano essi marginalisti, keynesiani, o altri- tendono a descrivere <comportamenti d’impresa> elementari, più che a comprenderne e spiegarne la funzione molteplicemente trasformativa che essa svolge nel sistema economico.

E anche quando paiono esplicativi, essi tendono nell’insieme ad uno o altro dei canoni seguenti: a) al descrittivismo dell’aggregazione di due soli fattori, inoltre

perfettamente divisibili e combinabili; b) alla stilizzazione anti-realistica, funzionale all’equilibrio generale

walras-paretiano (dunque a-temporale, onnisciente, massimizzante e così via);

c) alle rustiche approssimazioni keynesiane, meramente funzionali alla di lui modellistica macroeconomica;

d) alla teorizzazione più o meno behavioural di comportamenti (però sostanzialmente imprenditoriali o manageriali) di tipo ‘ottimizzante’, ‘soddisfacente’, ‘di comodo’ (opportunistic), et al.;

e) all’analisi di strategie competitive, specialmente oligopolistiche, addensate negli idealtipi della collusione voluta o tacita, dell'impresa <barometrica> di Markham, et al.; infine

f) alla trattazione -anche su basi statistico-econometriche- dei comportamenti di investimento, o commerciali (politiche di prezzo, di pubblicità), o creditizî, o altri, atomisticamente intesi.

Pare invece necessaria -in questa o in altra forma- un'interpretazione-spiegazione previa delle funzioni-tipo esplicate dalle imprese nell’economia sociale, teoria sulla cui base analizzare -ma successivamente- le scelte di comportamento competitivo, di assunzione di rischio, di investimento (e dis-investimento), di pricing e così via.

Occorre a tal fine una definizione di impresa che: a. la collochi in modo epistemologico nel suo perimetro fattuale e di

ricerca, in un <campo di Husserl> omogeneo; la descriva secondo i suoi connotati essenziali; la interpreti utilizzando la metodologia appropriata all’oggetto ed al campo, ricorrendo a metodi altri (e.g. statistico-econometrico) in via complementare né essenziale;

b. la descriva, in conformità alla sua natura, in modo congiuntamente empirico e astratto, chiarendo le relazioni pragmatiche di gerarchia, relazione, simiglianza, e unificandole tutte sinteticamente, senza tuttavia perdere “nell’unità la distinzione” (Croce);

c. pervenga così a <teorie dell’impresa> -pur sempre ‘aperte’, giacché tale

Arnaldo Canziani

36

è l’imperibile natura dell’economia e della dinamica sociale, dunque della Wirtschaftswissenschaft che deve rappresentarla- tuttavia dall’elevata generalità spazio-temporale (Hempel-Oppenheim), si tratti della mercatura fenicia o della produzione di microchips.

A tal fine l’impresa -qualunque impresa, anche bancaria, assicurativa et al.- è stata qui descritta, nella sintesi e riproposizione degli approdi ormai classici dell'Economia aziendale tedesca e poi soprattutto italiana, come <sistema economico-tecnico-organizzativo>:

1. di trasformazione molteplice (cfr. § 5.), con l’obiettivo del lucro, in competizione con tutte le altre imprese per la spartizione della domanda finale, e con i prodotti sostituibili per il primato-equilibio competitivo,

2. svolto nello spazio-tempo in simultaneità e successione, 3. secondo processi di gestione variamente ottimali (e autocorrettivi), 4. declinati nell’ignoranza parziale delle informazioni, 5. nell’ambito di vincoli legislativi, produttivi, finanziarî, organizzativi, di

controllo, di rischio, distributivi, concorrenziali; 6. con effetti -ed equilibrî- misurabili successivamente, anche in funzione

della dinamica dei propagatori, del manifestarsi di entelechiani; 7. con processi di trasformazione, crescita e sviluppo peraltro ineguali, la

cui dispersione e varia ottimalità spiegano infine le sorti dinamiche delle imprese leader, barometriche, mediane, marginali, in crisi.

La natura economica dell’impresa

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APPENDICE

La natura economica dell’impresa

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ACHILLE AGNATI

Ordinario di Storia del Pensiero Economico Dipartimento di Scienze Economiche

Università degli Studi di Padova

COMMENTO a

“La natura economica dell’impresa”

La natura economica dell’impresa

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Su “La natura economica dell’impresa” di Arnaldo Canziani

VII Convegno AISPE L’impresa che cambia. Contributi alla storia del pensiero economico

Brescia, Università degli Studi e Università Cattolica 20-22 febbraio 2003

di

Achille Agnati Dipartimento di Scienze Economiche

Università di Padova Consapevole che, nel campo della scienza, le teorie sono un fenomeno

storicamente transitorio specie in campo economico dove bisogna abituarsi a passare da una teoria all’altra, perché il mondo dei fatti è tumultuosamente e imprevedibilmente ricco di situazioni storiche differenti per potersi esaurire in una sola teoria, forse è presunzione abbandonare a una a una tutte le teorie per accettarle tutte, ma può anche essere prova di coraggio perché – compattando le teorie fra loro non contraddittorie – si costituisce un sistema teorico coerente.

Ecco perché il mio esame critico della ricerca di Canziani è “sui generis”. “Sui generis” perché non è critica negativa – sapendo che l’impresa dinamica propriamente detta impresa di produzione è diversa dall’impresa statica propriamente detta azienda di erogazione – non fa quindi violenza all’analisi tradizionale e raccoglie, come altra teoria, l’impostazione di Canziani. Ed è un’impostazione teorica che, oltre a rispettare le due articolazioni dell’impresa – essere legata al mercato dei fattori e al mercato dei prodotti (beni o servizi che siano), e agire più o meno direttamente e liberamente su tutto il territorio nazionale ma anche internazionale –, vede sempre l’odierna forma di produzione fare perno prevalentemente sull’impresa di scambio. E l’impresa di scambio è un organo economico-tecnico-organizzativo di produzione di beni e servizi destinati ad appagare le domande della collettività. Organo regolato, sì, dalla sua efficienza economica misurata dal bilancio dei vantaggi e degli svantaggi economici, ma anche dall’ampiezza del campo d’azione economica che gli consente la pertinente struttura economica esogena. Ecco, qui è la novità che propongo con questa discussione “sui generis”.

La struttura è detta propagatore nella logica di Demaria che definisce il propagatore una causa con l’intervento di condizioni e che Canziani raccoglie al punto 6) delle sue “Conclusioni” anche se non nella dimensione totalizzante da noi proposta. Struttura comprendente tutte le specie di imprese: individuali, sociali, cartelli, associazioni di categoria,

Arnaldo Canziani

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partecipazioni, gruppi, trust, associazioni economiche di imprese, imprese pubbliche, imprese multinazionali. Tutte queste specie di imprese – ed ecco il contributo di Canziani – vivono secondo trasformazioni che possono essere primarie, industriali, bancarie, assicurative, commerciali, dei servizi. Tale struttura è disposta a riservare in modo permanente a ognuna delle sunnominate specie di imprese l’ampiezza del campo d’azione economica che esse si propongono purché – noi aggiungiamo ed è la parte costruttiva della nostra critica – queste imprese rispettino il “principio di compossibilità responsabile”.

Questo principio – che abbiamo da poco introdotto nella scienza economica nel settore dello sviluppo economico sostenibile – ha basi logiche in Leibniz e basi etiche in Jonas affermando, nelle nostre parole, che: “Due o più realtà vivono secondo compossibilità responsabile se – da un punto di vista logico – sono simultaneamente compatibili e, contemporaneamente, se – da un punto di vista etico – non danneggiano la propria e altrui sopravvivenza”. Possiamo, allora, ben dire di un’etica dell’impresa per la sostenibilità dell’ambiente: espressione positiva che avrebbe raccolto al meglio il significato di questo VII Convegno AISPE nella sessione purtroppo taciuta nella stesura definitiva del programma del Convegno stesso: ripeto, significato non soltanto ideale nell’ambito del possibile, ma soprattutto significato empirico nell’ambito del fattibile.

Riferisco tale espressione al complesso di principi logici ed etici che governano la vita di un’impresa onde la ricchezza culturale, la fantasia e da questa l’inventiva di Canziani ritengo consentano di accogliere questo principio generale che si innesta con piena coerenza nelle sue “Conclusioni” per le quali – leggo Canziani – “Pare […] che – in base a quanto proposto più sopra, o diversamente – sia comunque necessaria una interpretazione-spiegazione delle funzioni esplicate dalle imprese nell’economia sociale, schema in base al quale analizzare – ma successivamente – le scelte di comportamento competitivo, di assunzione di rischio, di investimento (e dis-investimento), di pricing e così via”. Ecco allora che l’impresa, qualunque impresa, descritta da Canziani come “sistema economico-tecnico-organizzativo”, oltre ai 7 cammini prasseologici da lui indicati nella “Conclusione” dello studio, avrà – col principio da noi proposto – un comandamento cui attenersi per vivere essa stessa e far vivere le altre e gli altri quindi anche noi tutti.

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DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE PAPERS PUBBLICATI∗:

1. Arnaldo CANZIANI, La ricerca nelle scienze sociali: note metodologiche e pre-metodologiche, novembre 1998.

2. Daniela M. SALVIONI, Controllo di gestione e comunicazione nell’azienda pubblica, aprile 1999.

3. Arnaldo CANZIANI, Giovanni Demaria nei ricordi di un allievo, luglio 1999. 4. Rino FERRATA, Tecnologia e mercato: i criteri di scelta dei metodi di valutazione,

luglio 1999. 5. Giuseppe BERTOLI, Salvatore VICARI, L'impresa diversificata come organizzazione

che apprende, dicembre 1999. 6. Virna FREDDI, Attività economica e impresa nella concezione economicista, febbraio

2000. 7. Virna FREDDI, L'approccio Resource-based alla teoria dell'impresa: fattori interni e

competitività aziendale, febbraio 2000. 8. Maria MARTELLINI, Sviluppo, imprese e società, maggio 2000. 9. Arnaldo CANZIANI, Per la critica della teoresi zappiana, e delle sue forme di

conoscenza, dicembre 2000. 10. Giuseppe BERTOLI, Gabriele TROILO, L'evoluzione degli studi di marketing in

Italia. Dalle origini agli anni settanta, dicembre 2000. 11. Giuseppe BERTOLI, Profili di efficienza delle procedure concorsuali. Il concordato

preventivo nell’esperienza del tribunale di Brescia, dicembre 2000. 12. Daniele RONER, Domanda e offerta di beni economici. Rassegna critica

dall’irrealismo neoclassico alla differenziazione dei prodotti, marzo 2001. 13. Elisabetta CORVI, Le valenze comunicative del bilancio annuale. I risultati di

un'indagine empirica, luglio 2001. 14. Ignazio BASILE, Nicola DONINELLI, Roberto SAVONA, Management Styles of

Italian Equity Mutual Funds, agosto 2001. 15. Arnaldo CANZIANI, I processi competitivi fra economia e diritto, settembre 2001. 16. André Carlo PICHLER, L'Economic Value Added quale metodo di valutazione del

capitale economico e strumento di gestione aziendale, dicembre 2001. 17. Monica VENEZIANI, Economicità aziendale e capacità informativa del bilancio nelle

aziende cooperative agricole, dicembre 2001. 18. Pierpaolo FERRARI, La gestione del capitale nelle principali banche internazionali,

febbraio 2002. 19. Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Il valore della marca. Modello evolutivo e

metodi di misurazione, marzo 2002. 20. Paolo Francesco BERTUZZI, La gestione del rischio di credito nei rapporti

commerciali, aprile 2002. 21. Vincenzo CIOFFO, La riforma dei servizi a rete e l'impresa multiutility, maggio 2002. 22. Giuseppe MARZO, La relazione tra rischio e rendimento: proposte teoriche e ricerche

empiriche, giugno 2002. 23. Sergio ALBERTINI, Francesca VISINTIN, Corporate Governance e performance

innovativa nel settore delle macchine utensili italiano, luglio 2002. 24. Francesco AVALLONE, Monica VENEZIANI, Models of financial disclosure on the

internet: a survey of italian companies, gennaio 2003. 25. Anna CODINI, Strutture organizzative e assetti di governance del non profit, ottobre

2003.

∗ Serie depositata a norma di legge

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26. Annalisa BALDISSERA, L’origine del capitale nella dottrina marxiana, ottobre 2003. 27. Annalisa BALDISSERA, Valore e plusvalore nella speculazione marxiana, ottobre

2003. 28. Sergio ALBERTINI, Enrico MARELLI, Esportazione di posti di lavoro ed

importazione di lavoratori:implicazioni per il mercato locale del lavoro e ricadute sul cambiamento organizzativo e sulla gestione delle risorse umane, dicembre 2003.

29. Federico MANFRIN, Sulla natura del controllo legale dei conti e la responsabilità dei revisori esterni, dicembre 2003.

30. Rino FERRATA, Le variabili critiche nella misurazione del valore di una tecnologia, aprile 2004.

31. Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Co-branding e valore della marca, aprile 2004.

Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Giugno 2004

Paper numero 32

Arnaldo CANZIANI

LA NATURA ECONOMICA DELL’IMPRESA