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L’approccio sistemico relazionale, la psicologia dei gruppi e la leadership nelle professioni d’aiuto 29 Parte I: i modelli L’approccio sistemico relazionale, la psicologia dei gruppi e la leadership nelle professioni di aiuto Il modello sistemico -relazionale Il modello sistemico-relazionale è un orientamento che si fonda su concezioni derivanti dalla “teoria dei sistemi”, dalla cibernetica e dalla teoria della comunicazione. L’approccio sistemico focalizza il proprio interesse sulle relazioni umane esistenti tra i vari componenti di un gruppo o sistema di persone (famiglia, comunità, organizzazione, etc.) L’interazione tra le persone diventa quindi il modello privilegiato dell’analisi e dell’intervento. L’analisi relazionale diventa in tal senso lo strumento d’indagine più importante; essa si differenzia dagli altri modelli in quanto privilegia lo studio del processo interattivo e comunicativo che esiste tra i membri di un sistema, piuttosto che le dinamiche intrapsichiche o la ricostruzione storica e psicogenetica dei disturbi del soggetto (M.G. Carta, 1996). In altre parole, il modello sistemico-relazionale, spiega il comportamento dell’individuo focalizzando l’attenzione sull’ambiente in cui esso è vissuto e in ciò si differenzia dalla psicoanalisi e dal cognitivismo che considerano l’individuo come conseguenza della sua storia. L’approccio sistemico-relazionale è sorto sul presupposto che non fosse possibile spiegare lo sviluppo di un individuo indipendentemente dal sistema, cioè dalla rete di relazioni significative di cui egli è parte, né che fosse possibile comprendere il comportamento staccato dal contesto, cioè dalle circostanze e situazioni in cui esso ha luogo (O. Codisposti et al., 2000). La rete di relazioni significative è stata in un primo tempo identificata con la famiglia nucleare; le circostanze che potevano spiegare i comportamenti sintomatici sono state individuate nelle dinamiche familiari specifiche entro cui tali comportamenti si manifestano; infatti il modello sistemico-relazionale ha trovato fertile terreno di applicazione in Psicologia Clinica con le tecniche di Terapia Familiare.

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L’approccio sistemico relazionale, la psicologia dei gruppi e la leadership nelle professioni d’aiuto 29

Parte I: i modelliL’approccio sistemico relazionale, la psicologia dei gruppi e la leadership nelle

professioni di aiuto

Il modello sistemico -relazionale

Il modello sistemico-relazionale è un orientamento che si fonda su concezioni derivanti dalla “teoria dei sistemi”, dalla cibernetica e dalla teoria della comunicazione. L’approccio sistemico focalizza il proprio interesse sulle relazioni umane esistenti tra i vari componenti di un gruppo o sistema di persone (famiglia, comunità, organizzazione, etc.) L’interazione tra le persone diventa quindi il modello privilegiato dell’analisi e dell’intervento.

L’analisi relazionale diventa in tal senso lo strumento d’indagine più importante; essa si differenzia dagli altri modelli in quanto privilegia lo studio del processo interattivo e comunicativo che esiste tra i membri di un sistema, piuttosto che le dinamiche intrapsichiche o la ricostruzione storica e psicogenetica dei disturbi del soggetto (M.G. Carta, 1996).

In altre parole, il modello sistemico-relazionale, spiega il comportamento dell’individuo focalizzando l’attenzione sull’ambiente in cui esso è vissuto e in ciò si differenzia dalla psicoanalisi e dal cognitivismo che considerano l’individuo come conseguenza della sua storia.

L’approccio sistemico-relazionale è sorto sul presupposto che non fosse possibile spiegare lo sviluppo di un individuo indipendentemente dal sistema, cioè dalla rete di relazioni significative di cui egli è parte, né che fosse possibile comprendere il comportamento staccato dal contesto, cioè dalle circostanze e situazioni in cui esso ha luogo (O. Codisposti et al., 2000).

La rete di relazioni significative è stata in un primo tempo identificata con la famiglia nucleare; le circostanze che potevano spiegare i comportamenti sintomatici sono state individuate nelle dinamiche familiari specifiche entro cui tali comportamenti si manifestano; infatti il modello sistemico-relazionale ha trovato fertile terreno di applicazione in Psicologia Clinica con le tecniche di Terapia Familiare.

In generale l’approccio sistemico all’analisi dei fenomeni psicopatologici ha introdotto una rivoluzione nel modo di considerare categorie cliniche quali il sintomo, la diagnosi e il trattamento, ridefinendoli in termini relazionali. Quindi il sintomo non viene più considerato come l’espressione di disfunzioni individuali, ma indica una disfunzione dell’intero sistema familiare; la diagnosi non è l’attribuzione di categorie patologiche ad un singolo individuo, ma fa riferimento a modalità di funzionamento di un gruppo; l’intervento terapeutico non si basa sull’analisi dei processi intrapsichici, ma sull’osservazione delle modalità di comunicazione tra il paziente e la sua famiglia e si propone di modificare il comportamento della famiglia e quindi il contesto entro il quale il disagio del paziente è emerso e si è mantenuto.

L’enfasi posta sulla famiglia come unità di analisi e d’intervento ha tuttavia comportato anche una semplificazione: infatti, l’approccio sistemico inizialmente è stato identificato con la terapia familiare.

L’evoluzione teorica e metodologica del modello sistemico lo ha ormai svincolato dall’identificazione con la terapia familiare e lo delinea come un modello generale di analisi e di intervento sia in Psicologia Clinica nelle terapie individuali e nei programmi riabilitativi, sia in Psicologia del Lavoro con lo studio e gli interventi sulla “Comunicazione nelle Organizzazioni e nelle Aziende”.

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Brevi cenni storici

Le matrici culturali che hanno influenzato la nascita e lo sviluppo del modello sistemico-relazionale sono assai differenti come provenienza. Secondo Cancrini e Onnis (1982), tali matrici si possono ricondurre schematicamente a quattro centri di partenza:

a) Gli orientamenti neo-freudiani.Per gli psicoanalisti le valutazioni sull’ambiente in termini di famiglia, comunità,

cultura, hanno un’importanza secondaria ai fini dell’interpretazione della psicologia dell’individuo. Nella psicoanalisi post-freudiana compare invece un maggiore interesse verso il rapporto tra l’individuo e il suo ambiente.

Horney, Fromm, Sullivan, influenzati dallo sviluppo dell’antropologia culturale, orientano la psicoanalisi verso lo studio delle influenze culturali. In questo quadro Sullivan ha giocato un ruolo importante, invitando ad abbandonare un punto di osservazione clinico monadico, centrato sul singolo paziente, per centrare l’attenzione all’interazione ed alla comunicazione tra paziente ed analista. Quindi gli psicoanalisti neo-freudiani spostano l’accento dagli istinti alle reazioni all’ambiente e alle difficoltà che esso propone e, pertanto, al contesto interpersonale e sociale.

b) L’ “ambientalismo” nella psicologia clinica.Negli Stati Uniti, intorno agli anni ’50 e ’60, viene posta grande enfasi sull’importanza

dell’ambiente nel produrre comportamenti reattivi abnormi (teoria di Meyer). La spiegazione del comportamento viene quindi ricercata in cause ambientali immediate, piuttosto che in cause indirette o remote o nella dinamica degli istinti.

c) La psicoterapia di gruppoGli studi di Lewin e la psicologia della Gestalt (“il tutto è più della somma delle parti”)

aprono dei nuovi campi di studio, da una parte creando i presupposti culturali per lo sviluppo della psicoterapia di gruppo e dall’altra determinando un maggiore interesse intorno allo studio dell’interazione e delle dinamiche del gruppo.

d) L’ “ecologia urbana”.Negli anni ’50 la Scuola di Chicago cerca di mettere in relazione il comportamento

umano e il livello di benessere con il sistema macro-sociale circostante. Allo stato attuale questi studi e le teorie che ne sono derivate (Teoria della deriva sociale, che pone in relazione la patologia con il degrado sociale delle grandi città, etc.) sono molto criticati, anche se hanno avuto un notevole rilievo in senso storico.

La teoria generale dei sistemi e la teoria sistemica della mente

La teoria generale dei sistemi nasce dalla crisi del modello meccanicistico classico della fisica e della chimica, cioè dalla crisi di un rigido modello causa-effetto che procede da un lato attraverso la suddivisione analitica degli oggetti in esame nelle loro componenti costitutive e dall’altro attraverso la successiva ricerca, tra questi, di rapporti di causalità lineare (causaeffetto, secondo il quale A causa B).

Il modello di casualità lineare entra in crisi in quanto non soddisfa le nuove esigenze di comprensione di una realtà che appare più complessa in quanto ci si propone di connettere più elementi tra loro interagenti. Il concetto di sistema come un insieme di elementi in interazione reciproca, diventa cosi’ un punto di riferimento estremamente importante su cui le diverse discipline si trovano a riflettere, a confrontarsi ed a costruire nuovi progetti.

All’interno del sistema, dove ogni elemento è nel contempo causa ed effetto nell’ambito della rete di relazioni in equilibrio dinamico, tali elementi sono quindi legati tra di loro da relazioni di causalità circolare. Quindi da un modello di causalità lineare si passa ad un

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modello di causalità circolare secondo il quale il “tutto” è differente dalla somma delle sue parti e deve essere studiato nell’insieme. Sostanzialmente il modello di casualità circolare afferma che la relazione causale non procede lungo una catena progressiva lineare per la quale:

A causa B che causa C,ma si dispone circolarmente, per cui:A causa B che causa C che rinforza A

Secondo il principio della causalità circolare ogni comportamento dei membri dell’interazione è, rispetto agli altri comportamenti, contemporaneamente causa ed effetto, o meglio stimolo, risposta e rinforzo (S.Carta, 1996).

In un sistema si chiamano “attributi” le proprietà dei componenti. E’ la teoria generale dei sistemi che sembra offrire nuovi strumenti per comprendere realtà più complesse nelle diverse discipline: dalla matematica alla cibernetica, alla teoria dell’informazione e dei giochi. Come si può capire l’applicazione di questa teoria allo studio dei comportamenti né modifica completamente l’approccio. Infatti, la teoria sistemica della mente si basa sui seguenti punti:

1) l’individuo non è più inteso come un’entità a sé, isolato dal contesto, ma è al contrario identificato dalle sue “relazioni” con gli altri membri del sistema (gruppo o famiglia );

2) da una prospettiva di “causalità lineare” si passa ad una prospettiva di “causalità circolare”, per cui un insieme di individui non sarà la semplice somma dei suoi membri, ma un tutto organizzato le cui transazioni saranno espressione di un più alto livello di complessità;

3) tutti i componenti all’interno di un sistema hanno valore di comunicazione verso gli altri membri di quel sistema;

4) la causa di una qualunque disfunzione comportamentale del singolo è nel sistema;

5) il tutto non è riconducibile alla somma delle parti. Ogni parte, descritta isolatamente al di fuori di un contesto significativo, cambia valore perché cambia il contesto;

6) i comportamenti di un individuo considerato nel sistema (gruppo di lavoro o famiglia) sono funzionali al mantenimento di un equilibrio dinamico, di una stabilità del sistema (omeostasi), che può arrivare fino all’acquisizione di ruoli o abitudini comportamentali completamente irrigiditi. Le relazioni presentano cioè delle regolarità prevedibili, seguono dei moduli comportamentali con un notevole grado di ripetitività e di costanza, tendendo a strutturarsi come complessità organizzate. Tali regolarità di sequenze comportamentali interattive prendono il nome di “ridondanze pragmatiche”. I complessi articolati e interdipendenti di ridondanze pragmatiche vengono chiamate “regole di interazione”;

7) i sistemi possono essere aperti o chiusi : i sistemi chiusi sono quelli schermati, impermeabili che non permettono in nessun momento emissione o immissione di energia dall’ambiente; un sistema completamente chiuso sarebbe del tutto simile ad un buco nero, del cui interno non possiamo conoscere niente. In natura, invece, la maggior parte dei sistemi, sono sistemi aperti, in continuo scambio di materiali, di energia e informazioni dall’ambiente. I sistemi umani sono sistemi aperti.

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Il sistema interattivo e le sue proprietà

Secondo Watzlawick (1971), il sistema interattivo è un insieme costituito da due o più membri comunicanti, impegnati nel processo di definire la natura delle loro relazioni. Quando due persone si conoscono esiste una gamma molto ampia di comportamenti possibili nel futuro della loro relazione. Lentamente, però, e a mano a mano che si scambiano comunicazioni, il tipo di relazione si definisce. Quindi il tipo di comunicazione fra i membri del gruppo ha degli effetti sul loro comportamento, ovvero sui modi in cui ciascuno conferma, rifiuta, squalifica l’altro nella relazione. Come si è già detto, lo stabilizzarsi delle definizioni della relazione porta a delle regole di relazione, cioè a comportamenti organizzati e ripetitivi, tanto che la ripetitività di certi schemi comportamentali può essere letta come un principio che governa la vita del gruppo. In tal senso la famiglia, il gruppo di lavoro, etc., sono sistemi governati da regole. Per esempio considerando una famiglia che comunica male, si possono individuare delle sequenze relazionali ripetitive, cioè delle ridondanze, delle ripetizioni, da cui potremo dedurre che il sistema familiare si comporta come se ci fossero delle regole che consentono certi schemi e copioni mentre ne scoraggiano o impediscono altri per cui ognuno assume specifici ruoli: la madre che ripete continuamente: Io devo occuparmi di tutto, non c’è un minimo di collaborazione, il padre che fa spallucce ogni volta che il figlio cerca di parlare perché lo considera uno sfaccendato; lo stesso si può osservare in un gruppo di lavoro, per esempio, immaginiamo il “giro” di visite in un reparto ospedaliero: se il primario non è stimato, i suoi collaboratori fanno spallucce, sbadigliano ogni volta che parla; quindi il primario o fa finta di niente, o si sfoga con lo studente interrogandolo.

Le caratteristiche fondamentali di un sistema interattivo sono tre: la totalità, l’equifinalità e la retroazione.

La totalità è quella caratteristica per cui ogni comportamento è comunicazione, e pertanto influenza gli altri e n’è influenzato. Qualunque cambiamento comportamentale ha delle ripercussioni di natura psicologica o sociale sugli altri membri del sistema. Per esempio, il rendimento ridotto di un membro di una équipe medica ha ripercussioni non solo su di sé, ma su tutto il gruppo di lavoro. Ne consegue che l’insieme dei componenti di un sistema interattivo è qualcosa di più, sia in senso quantitativo che qualitativo, della semplice somma dei membri, esistono caratteristiche che sono proprie del sistema; ovvero la semplice somma dei singoli componenti il sistema non è affatto sufficiente per costruire il sistema stesso. Questo è il principio della non-sommatività che fa da corollario a quello della totalità. Ancora una volta ciò che diviene preponderante non è tanto il singolo elemento del sistema, quanto il flusso e le strutture delle relazioni comunicazionali che lo legano agli altri e all’ambiente. Nell’ottica sistemica quindi, il comportamento di un individuo non ha valore solo in quanto attributo dell’individuo che lo esprime, ma è comprensibile soprattutto in quanto è parte di una complessa rete interattiva.

L’equifinalità è la seconda caratteristica di un sistema interattivo, per cui in un sistema circolare e autoregolantesi, gli stessi risultati possono avere origini diverse. In questo tipo di sistema, il risultato finale di una serie di cambiamenti dipende sia dalle circostanze d’inizio che dalle interazioni e riverberazioni che si sono avute successivamente. Una caratteristica intrinseca dei sistemi è che essi perseguono sempre uno o più scopi. La capacità dei sistemi di perseguire uno scopo si chiama equifinalità. Per equifinalità s’intende dunque che a condizioni iniziali diverse si può ottenere lo stesso risultato, ed a uguali condizioni di partenza potranno evidenziarsi risultati diversi. E questo proprio perché il risultato del funzionamento del sistema non dipende deterministicamente dalle cause iniziali, ma dall’organizzazione stessa del sistema. In altre parole, per capire per esempio il risultato finale dell’apprendimento di una nuova tecnica diagnostica strumentale o di una nuova tecnica chirurgica che una équipe vuole utilizzare, non possiamo considerare esclusivamente i parametri individuali del soggetto (manualità, elasticità di apprendimento, etc.), ma dobbiamo

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considerare anche i parametri esterni all’individuo (presenza o meno di altre figure che fanno sentire il soggetto in competizione, ambiente fisico in cui avviene l’apprendimento, etc.) e come quei parametri individuali ed esterni si organizzano per raggiungere quell’obiettivo.

La terza caratteristica fondamentale di un sistema interattivo è la retroazione. Un sistema tende cioè a conservare entro certi limiti un equilibrio interno. Questa tendenza del sistema alla stabilità, al mantenimento di uno stato stabilito entro determinati parametri prende il nome di “omeostasi”. Ciascun comportamento provoca delle reazioni che hanno delle ripercussioni sul sistema. Le regole interne del sistema (gruppo o famiglia) garantiscono la coesione e gli consentono di resistere alle tensioni o ai tentativi di cambiamento imposti dall’ambiente o dai singoli membri, tentativi che spingono verso la disgregazione del sistema.

I meccanismi che mantengono lo stato di coesione del sistema prendono il nome di “meccanismi di autoregolazione” o “meccanismi di feedback” (o di retroazione). Vi sono due tipi di feedback: negativo e positivo; un feedback negativo tende a minimizzare il cambiamento e quindi a mantenere lo “status quo”, l’omeostasi nel sistema. Un feedback positivo spinge, al contrario, verso il cambiamento o verso nuovi equilibri del sistema (concetto di omeostasi dinamica).

Le famiglie sono state studiate sia secondo il principio omeostatico, cioè come sistemi che tendono a mantenere, attraverso meccanismi di retroazione negativa, il proprio stato quasi stazionario (in senso lato potremo dire la propria identità) che come sistemi evolutivi, cioè capaci di cambiare e trasformarsi sotto la pressione della crescita dei suoi membri o delle vicende di vita, attraverso meccanismi di retroazione positiva che determinano una morfogenesi del sistema stesso.

Entrambi i principi, omeostatico e morfogenetico sono indispensabili. Un sistema governato solo da retroazione negativa, cioè un sistema perfettamente omeostatico, sarebbe anche un sistema rigido entro il quale i suoi membri non avrebbero alcun margine di autonomia individuale, di crescita.

E’ ovvio che, perché il sistema (gruppo di lavoro o singolo individuo inteso come insieme di più componenti interagenti tra di loro) possa cambiare e organizzarsi intorno a livelli di equilibrio sempre più maturi, è indispensabile una flessibilità delle regole del sistema. Le regole di gestione del gruppo o dell’individuo devono cioè essere valide anche per nuovi equilibri del gruppo o dell’individuo. Se invece esiste una particolare rigidità delle regole, sarà ostacolato il cambiamento verso un nuovo equilibrio più evoluto.

L’ottica sistemica dà infine particolare rilievo al contesto in cui si svolge un comportamento, cioè alle circostanze e situazioni in cui esso ha luogo. Qualunque informazione può restare inspiegabile fino a quando il contesto all’interno del quale è inclusa non è abbastanza ampio da comprendere tutti gli elementi necessari a dargli un significato. In altre parole, lo stesso comportamento può assumere significati differenti se accade in contesti differenti.

La comunicazione umana

La comunicazione è un processo d’interazione che prevede un passaggio d’informazione tra i membri di un sistema, o dall’esterno al sistema. Essa prescinde sia dal mezzo che viene usato per comunicare, che dal fatto che i membri ne abbiano o meno consapevolezza. All’interno di un sistema ogni comunicazione non solo trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento, in quanto i comportamenti dei membri costituiscono dei messaggi che influenzano gli altri componenti di quel sistema. Non essendo possibile non avere comportamenti, un’ovvia conseguenza è che “è impossibile non comunicare”. Anche il silenzio di una persona o l’assenza da un gruppo rappresentano essi stessi dei messaggi con un significato ben preciso.

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Qualunque tipo di comunicazione presenta essenzialmente due aspetti (Watzlawick, 1971): uno di contenuto e uno di relazione. Essi vengono trasmessi contemporaneamente e la comunicazione è efficace solo se il messaggio viene correttamente decodificato ad entrambi i livelli.

L’aspetto di contenuto è il contenuto del messaggio; può riguardare qualunque cosa sia comunicabile senza tener conto se il particolare contenuto informativo sia vero o falso, valido o non valido.

L’aspetto di relazione si riferisce, invece, al tipo di comportamento che si assume nel comunicare il messaggio e quindi alla relazione tra i comunicanti. Il messaggio di relazione specifica pertanto la modalità di comunicazione e definisce che tipo di relazione esiste tra loro. La relazione veicolata dalle comunicazioni informa su chi ha il potere e chi è in posizione subalterna, se nel sistema c’è chiarezza o confusione.

Secondo Watzlawick (1971), quanto più una relazione è spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione recede sullo sfondo, rimane ai margini. Viceversa le situazioni conflittuali, le relazioni “malate” sono caratterizzate da una maggiore evidenza di quest’aspetto, che viene utilizzato per definire la natura della relazione, mentre l’aspetto di contenuto ha la tendenza a divenire sempre meno importante.

Esistono tre possibili risposte al messaggio di relazione che viene ricevuto da un individuo: la conferma, il rifiuto e la disconferma. Sia la conferma che il rifiuto sono messaggi di relazione chiari e ben definiti, che consentono pertanto una comunicazione efficace; la disconferma, creando invece indefinitezza, favorisce comunicazioni disfunzionali.

Con la conferma il soggetto che riceve il messaggio ha degli atteggiamenti che implicano che accetta la definizione che l’altro ha dato di sé. Essa quindi tende ad avere un effetto stabilizzante e a favorire lo sviluppo della relazione tra due persone e lo sviluppo del sistema stesso.

Il rifiuto è invece un messaggio che rifiuta la definizione che l’altro ha dato di sé. Il rifiuto rappresenta un messaggio che trasmette “non accetto il ruolo che mi stai dando e lo rifiuto”. Pur nella sua penosità e spiacevolezza, è però un messaggio chiaro e presuppone il riconoscimento della realtà di chi ha inviato il messaggio e, pertanto, può essere costruttivo sul piano dello sviluppo della relazione e del sistema di relazioni.

A differenza del rifiuto della definizione che gli altri danno di sé, la disconferma, negando la realtà, nega la stessa identità dell’emittente. La disconferma rappresenta un messaggio che trasmette non solo “non accetto il ruolo che mi stai attribuendo”, ma anche “tu non esisti” e questo è un messaggio terribile anche perché non è espresso chiaramente, esprime una conflittualità che è subdola, strisciante: mi dici qualcosa, non accetto, non rifiuto, ma mi giro dall’altra parte. La disconferma ha un valore fortemente destrutturante sul piano dello sviluppo dei rapporti. Questo tipo di risposta ha i peggiori effetti soprattutto nei contesti educativi, dove l’autostima e la sicurezza di un individuo nascono dal giudizio e dal consenso di un altro.

Il modello più esplicito e perfezionato di comunicazione umana è quello descritto da Bateson (1977). Egli distingue la parte verbale, o digitale della comunicazione (ciò che la persona dice con le parole), dalla parte non verbale o analogica della comunicazione. La parte digitale corrisponde in misura maggiore all’aspetto di contenuto, mentre la parte analogica corrisponde in misura maggiore all’aspetto di relazione (metacomunicazione).

Questi due termini, digitale e analogico, provengono dalla cibernetica e fanno riferimento, il primo, alle parole e alla sintassi logica del linguaggio, il secondo, alla rappresentazione mentale mediante immagini.

Il linguaggio digitale o numerico è una convenzione che utilizza modalità comunicative logico-razionali; pertanto le diverse parole o segni hanno un significato esclusivamente per le regole che le collegano. Al di fuori di queste convenzioni non esiste nessuna correlazione tra le parole e ciò che queste parole rappresentano (Bateson, 1977).

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La comunicazione analogica (intonazione, postura, mimica, ritmo della voce, etc.) è più vicina alla realtà che si rappresenta e pertanto ha una validità generale che è maggiore rispetto alla comunicazione verbale. Il linguaggio non verbale si pone in relazione con quello verbale e può: accompagnarlo, commentarlo, sostituirlo o contraddirlo. Nei primi tre casi non sorgono conflitti; invece nel quarto caso vi è discordanza o incongruenza tra linguaggio verbale e non verbale e, secondo Bateson, in questo caso la comunicazione più “fedele” alla reale natura dei sentimenti e delle intenzioni della persona sia quella trasmessa dalla parte non verbale.

Una regola sempre valida è che se si può mentire attraverso il messaggio numerico/verbale, non lo si può fare con quello analogico/non verbale. Infatti il linguaggio non verbale, il linguaggio del corpo, è organizzato dal sistema nervoso autonomo simpatico e parasimpatico e non può essere controllato dalla coscienza. Non si può decidere di rallentare il battito cardiaco o di non arrossire, né si può controllare la sudorazione o la tensione muscolare. Pertanto Bateson attribuisce alla comunicazione analogica una posizione più elevata (definita “metaposizione”) rispetto alla comunicazione digitale; la comunicazione analogica definisce, cioè, e commenta la comunicazione digitale.

Una prospettiva più utile alla comprensione della realtà della comunicazione è quella proposta da Bandler e Grinder (1981). Il soggetto presenta una serie di messaggi, uno per ogni canale di uscita (messaggio-postura del corpo, messaggio-tono della voce, messaggio-verbale, messaggio-movimento del corpo, messaggio-gesto, messaggio-mimica del volto, etc.). Tali messaggi vengono chiamati “paramessaggi”. Nessuno di questi messaggi presentati simultaneamente ha un valore superiore rispetto ad un altro messaggio presentato.

Quando la comunicazione è incongrua, quando cioè esiste discordanza tra i diversi tipi di messaggio presentati, i paramessaggi in conflitto vengono considerati comunque indicativi delle risorse di cui il soggetto dispone per comunicare in quel momento con il mondo. Ciò vuol dire che, in quel momento, quella è l’unica possibilità esistente per comunicare con il mondo, pur con i paramessaggi in conflitto tra di loro. Scompare in tal caso il problema di stabilire quale tra i messaggi in conflitto presentatici simultaneamente sia quello reale, quello vero o valido. Tale modello offre, rispetto a quello succitato di Bateson, maggiori possibilità esplicative, soprattutto nel cambio del cambiamento dell’organizzazione delle esperienze di un soggetto.

Analizzando i legami che caratterizzano la comunicazione umana, gli psicologi sistemici spiegano il comportamento umano patologico attraverso le relazioni del sistema che avrebbero determinato questo comportamento. Ovvero il sintomo psichiatrico sarebbe la risultante di una relazione tra membri di un sistema (coppia, famiglia, gruppo, comunità) le cui relazioni complementari rafforzano la natura delle varie interazioni. In un tale sistema i sintomi sono funzionali alla stabilità del sistema stesso.

I maggiori contributi allo studio della patologia dell’integrazione familiare si devono agli studi della Scuola di Palo Alto (Bateson, Jackson, Haley, Watzlawick), che confermano che il disagio, la patologia si manifestano là dove esiste confusione a livello comunicativo e di conseguenza nell’organizzazione delle regole del sistema. E’ quindi l’impossibilità di ricevere messaggi chiari che rende confusa e quindi patologica l’interazione tra i diversi componenti del gruppo familiare. Nelle famiglie in cui vi è una comunicazione disconfermante, il messaggio verbale ha un significato, mentre il messaggio gestuale ha un significato opposto; questo è un messaggio doppio, ambivalente, che nel bambino determina dei comportamenti patologici di cui peraltro non è in grado di accorgersi.

Questo modello relazionale definito “doppio legame” andava molto in voga negli anni ’70, quando si pensava che questo tipo di modalità comunicativa familiare potesse predisporre a malattie gravi e soprattutto alla schizofrenia. Sono state effettuate numerose ricerche con lo scopo di dimostrare l’importanza che l’interazione familiare ha nella genesi della schizofrenia, ma nessuna di esse si è dimostrata valida scientificamente; infatti, se è vero che alcune famiglie di schizofrenici comunicano “male”, ve ne sono altre che comunicano “bene”.

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Tuttavia questi studi sono serviti ad evidenziare il ruolo che l’interazione familiare ha nel decorso della psicosi schizofrenica; infatti si è osservato che nelle famiglie ad Alta Emotività Espressa sotto forma di manifestazioni di ostilità, distruttività, iperprotezione, commenti critici, ipercoinvolgimento emotivo nei confronti del membro psicotico, si assiste statisticamente ad un maggior rischio di recidive di episodi psicotici.

La psicologia dei gruppi

L’approccio sistemico relazionale ha determinato, in ambito psicologico, l’importanza e, conseguentemente, l’attenzione verso la psicologia dei gruppi.

L’idea e il concetto di gruppo hanno avuto e hanno, sia in ambito scientifico che nella vita quotidiana, alterne vicende. Si passa dalla totale denigrazione ad un’accettazione incondizionata delle potenzialità del gruppo e ad un atteggiamento fideistico.

All’interno di questi due estremi, entrambi poco utili a chi voglia avere un approccio pragmatico e di risoluzione concreta dei problemi con gli strumenti della psicologia, si trovano molti validi contributi.

Certamente quando parliamo di gruppo ci vengono in mente situazioni abbastanza diverse: una riunione di condominio, una famiglia che si ritrova per le feste natalizie, una equipe medico-specialistica, sono tre situazioni sociali che sembrano avere ben poco in comune, ma sono tutte e tre facilmente leggibili in termini di dinamiche di gruppi.

Definizione di gruppo

Il termine “gruppo”, derivato dalla parola germanica kruppa, traducibile come nodo, groviglio o rete, indica una condizione fatta di interazioni fra più individui fra loro collegati (P.Cabras et al.,1995).

Da sempre l’uomo si è interrogato e ha formulato ipotesi riguardo ai fenomeni sociali; i rapporti, i flussi tra l’individuo e il gruppo e tra i gruppi sono stati oggetto di particolare curiosità ed attenzione nella storia del pensiero. Alcuni autori antichi hanno di fatto anticipato i contributi della moderna psicologia scientifica.

Aristotele pose l’accento sullo stretto legame esistente tra la famiglia e la polis. Egli colse nella complessa dinamica che caratterizzava la gestione del potere politico delle analogie con le dinamiche proprie del gruppo familiare, come se questo gruppo “interno” estendesse la sua ombra pulsionale sul gruppo “esterno” (Codispoti et al., 2000).

Nel corso dei secoli si sono sedimentate svariate osservazioni storiche, letterarie, filosofiche, sull’intreccio tra polarità gruppale e individuale della soggettività umana. Dobbiamo però attendere gli inizi del xx secolo e lo sviluppo di una psicologia scientifica moderna capace di esplorare e decodificare la complessità dei processi di comunicazione intra ed interpsichici.

Dalle numerose ricerche effettuate dalle varie scuole e dagli studi di ciascun autore sono nate tante proposte di definizione di gruppo. Può essere utile però fare prima qualche ulteriore distinzione.

Una prima distinzione riguarda il numero dei componenti del gruppo. Se la coppia non è ancora gruppo perché le relazioni sono ancora di tipo individuale, anche il gruppo di tre persone, pur avendo fenomeni di maggioranza, minoranza, coalizione, etc., non può essere considerato gruppo a tutti gli effetti. Perché un gruppo possa essere denominato tale, è indispensabile la presenza di almeno quattro membri, in quanto il numero delle possibili relazioni a due supera il numero dei membri (Pettigiani e Sica, 1990).

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Un’altra importante distinzione riguarda il limite numerico superiore. Vengono infatti distinti: il piccolo gruppo, il gruppo largo o allargato e il gruppo vasto. Il piccolo gruppo è in genere formato da sei a dodici-quindici componenti, oltre i conduttori. Il gruppo allargato va da quindici-venti fino a sessanta persone. Oltre si ha il gruppo vasto (fino a trecento persone) e poi la folla. Questa distinzione è assai importante per le relazioni che esistono tra i diversi componenti del gruppo. Infatti nel piccolo gruppo sono possibili sia il riconoscimento reciproco e la rappresentazione ben definita dei membri che la rappresentazione di emozioni e sentimenti, mentre nel gruppo allargato è necessario molto più tempo perché i componenti arrivino ad una rappresentazione chiara e precisa dei membri. Inoltre in quest’ultimo gruppo le relazioni di indifferenza tra i membri sono sicuramente più numerose delle relazioni di simpatia.

Lewin (1961) descrisse il gruppo come un’unità che esprime di più della somma delle qualità dei suoi membri. Altre definizioni, ugualmente importanti, hanno l’utilità di mettere l’accento su differenti aspetti del gruppo.

Per Deutsch e Krauss (1972) un gruppo può essere definito come un insieme di membri, legati sul piano intellettivo ed affettivo, che si percepiscono reciprocamente come interdipendenti in modo cooperativo e stimolante. Tale definizione non è sicuramente esaustiva di tutte le caratteristiche e di tutte le sfumature fenomenologiche di un gruppo, ma pone dei confini più definiti nello studio e nella conoscenza di esso.

Molti autori hanno proposto definizioni non univoche di gruppo, ne vedremo perciò di seguito alcune, in modo che il lettore possa confrontarle con la sua personale esperienza di “gruppo”.

Il gruppo secondo Lewin

Tra gli autori che si sono occupati di psicologia di gruppo, Lewin occupa certamente un ruolo di primo piano. L’idea di gruppo di Lewin discende dalla sua teoria di campo (Lewin, 1972) del comportamento sociale, secondo la quale gli individui e le loro relazioni sono concepite in termini topologici come “spazi di vita” che subiscono l’influenza o danno origine a “vettori di forza”.

Senza approfondire i particolari di questa teoria abbastanza astratta e formale, che peraltro non è mai stata oggetto di ricerche sistematiche, c’interessano invece due concetti molto importanti per comprendere i processi elementari di gruppo: l’interdipendenza dal destino e l’interdipendenza dal compito. Questi sono, secondo Lewin, i due elementi fondamentali che ci permettono di definire un insieme di persone come gruppo.

a) Il destino.Il gruppo esiste nel momento in cui i membri che lo compongono hanno la

consapevolezza che il loro destino dipende da quello del gruppo nel suo complesso. I passeggeri di un aereo di linea hanno tra loro un grado di interdipendenza minimo, tuttavia se comparissero dei dirottatori o se un guasto obbligasse l’aereo ad un atterraggio di emergenza in un deserto il loro destino diventerebbe altamente collegato.

b) Il compito.Ancora più importante del destino è il compito: l’obiettivo di ciascun membro ha delle

implicazioni per i risultati dei suoi compagni e del gruppo. Questo è da intendersi sia in senso positivo che negativo; il successo di ogni membro facilita quello degli altri e viceversa l’insuccesso.

Dopo Lewin diversi ricercatori hanno dimostrato che dove l’obiettivo fa sì che il compito venga realizzato con una struttura collaborativa del gruppo, ne risulta un aumento della cooperazione e della coesione ed un miglioramento della prestazione.

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Il gruppo secondo Bales

Bales (1989) approfondisce in maniera più dettagliata l’aspetto della comunicazione all’interno del gruppo. Secondo quest’Autore è la realizzazione del compito che determina l’esistenza di un gruppo. Le attività del gruppo e gli accadimenti al suo interno, possono essere visti in funzione di quest’obiettivo.

Bales studiando i processi dell’interazione degli individui in un gruppo, distingue due tipi di comportamento caratteristici delle dinamiche di gruppo:

1) Comportamenti diretti al compito o “strumentali”;2) Comportamenti socio-emozionali od “espressivi”, diretti al mantenimento del

gruppo stesso.In sintesi, le azioni del gruppo sono orientate al raggiungimento dello scopo del gruppo,

ad esempio, organizzare una gita per un gruppo di amici, dare un giudizio sui candidati per una commissione d’esame. Tuttavia, nel raggiungimento dell’obiettivo il gruppo può essere ostacolato da problemi che ne minacciano la stabilità. E’ per questo motivo che vengono messi in atto dei processi che permettono di risolvere le tensioni per mezzo di attività “espressive”. Le tensioni si affrontano quindi attraverso comportamenti che manifestano emozioni e che spostano la comunicazione ad un livello interpersonale. Si tratta, ad esempio, di espressioni d’ilarità o di collera, di accettazione o rifiuto verso un membro. I comportamenti socio-emotivi possono essere positivi o negativi, nel senso che possono avere sul gruppo effetti rinforzanti o inibitori.

Tuttavia, un secondo aspetto fondamentale della teoria di Bales è che i gruppi hanno una tendenza naturale verso l’equilibrio, ed è quindi più probabile che i comportamenti socio-emotivi tendano ad essere positivi, o meglio ad equilibrarsi con attività “strumentali”.

Bales analizza i modi di funzionamento dei gruppi e propone una griglia di lettura per l’osservazione e la codifica delle interazioni chiamata Interaction Process Analysis (IPA).

Tramite l’IPA sono rilevabili, da parte di un osservatore addestrato, delle microporzioni di comportamento (atti) categorizzabili nelle tre dimensioni: compito, socio-emotiva positiva e socio-emotiva negativa.

Bales ha inoltre sviluppato un sistema più complesso (SYMLOG) che tiene conto delle percezioni dei singoli componenti del gruppo. Tramite il SYMLOG è possibile rappresentare ogni gruppo in uno spazio a tre dimensioni.

La prima dimensione rappresenta il movimento verso lo scopo (allontanamento/avvicinamento), la seconda il valore dei comportamenti (amichevoli/ostili) e la terza una dimensione di potere che indica dominanza e sottomissione.

Nel SYMLOG ogni singolo membro del gruppo può dare una valutazione di tutti gli altri mediante una lista di aggettivi, che vengono analizzati mediante una struttura tridimensionale.

Il gruppo secondo Spaltro

I modelli sinora proposti si limitano ad un’analisi dei processi intragruppo, trascurando le relazioni intergruppo.

Spaltro (1995) individua una dimensione dinamica delle possibili interazioni sociali: al centro di questi accadimenti, il gruppo rappresenta un punto nodale. L’interfacciarsi con altri gruppi scandisce il percorso evolutivo di un gruppo.

A prescindere dalle variabili strutturali (far parte dello stesso corso universitario o di una stesa équipe di lavoro, ad esempio) il gruppo è dato, quindi, da una serie di accadimenti, all’interno di una rete di interazioni sociali, che lo caratterizzano in quanto tale.

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Gruppi di lavoro:Dal gruppo al gruppo di lavoro

Il gruppo di lavoro si differenzia dal gruppo. Il gruppo è costituito da diversi soggetti in interazione prolungata che sviluppano un fenomeno di coesione. La coesione indica il grado di attrazione reciproca dei membri di un gruppo presi singolarmente e del gruppo nel suo complesso. La coesione è il risultato di tutte quelle forze che tendono ad unire le parti del gruppo stesso, che consente ai singoli membri di riconoscere il gruppo come proprio. La coesione fa stretto riferimento alla struttura affettiva del gruppo.

I fattori più importanti che favoriscono la coesione in un gruppo sono:1) Il raggiungimento degli obiettivi: quando gli obiettivi del gruppo vengono

raggiunti, il successo che ne deriva determina un rafforzamento nel grado di coesione interna.

2) Minacce esterne: un gruppo che si sente minacciato tende a rinsaldare i rapporti tra i suoi membri e a creare in essi un maggior senso di appartenenza con lo scopo di potenziare la propria difesa in vista di un eventuale attacco.

3) La competizione con altri gruppi produce gli stessi effetti della minaccia esterna e quindi aumenta la coesione interna del gruppo.

4) Infine la coesione viene aumentata dalle relazioni di cooperazione tra i membri, che consentono di affrontare le tensioni o i conflitti attraverso la presa di coscienza e l’analisi delle difficoltà.

Invece perché si costituisca un gruppo di lavoro, come sottolinea Muti (1986), rifacendosi a Lewin, è necessario raggiungere un livello successivo all’interazione: l’interdipendenza. Infatti il gruppo di lavoro ha come caratteristica principale l’interdipendenza delle forze tendenti ad un obiettivo comune (operativo).

L’obiettivo comune è un obiettivo identico per tutti ma nel quale si realizza la convergenza di scopi e obiettivi diversi: motivazioni, bisogni e desideri individuali. Un obiettivo operativo, secondo Muti, non è esprimibile in senso psicologico, pur essendo legato a diversi desideri personali, ma è concettualizzabile in termini di azione da realizzare e concretizzabile in risultati qualitativi e quantitativi. L’interdipendenza stabilisce l’equilibrio tra la soddisfazione dei bisogni individuali e i bisogni del gruppo. Il fatto che l’individuo realizzi solo parzialmente nel gruppo i propri bisogni è del resto una garanzia per l’individuo stesso contro il totale assorbimento nel gruppo. Ne deriva che il gruppo di lavoro è prevalentemente centrato su un compito, su un obiettivo da raggiungere e può essere definito come un semplice strumento sia dell’organizzazione per conseguire i propri obiettivi, sia dell’individuo per raggiungere i propri nella situazione contingente.

Si riconosce una grande importanza alla comunicazione del gruppo nel quale si lavora. La comunicazione, consentendo lo scambio di informazioni è un processo fondamentale che garantisce il funzionamento ottimale del gruppo di lavoro. Il gruppo di lavoro è caratterizzato dalla percezione della necessità di tutti nel perseguimento degli obiettivi e nella percezione dell’importanza del lavoro del singolo nel raggiungere l’obiettivo del gruppo. Perché il gruppo di lavoro funzioni bene è necessaria la collaborazione tra i singoli membri. La collaborazione si fonda sul confronto dei singoli punti di vista, sulla condivisione delle decisioni del gruppo e su relazioni di fiducia tra i membri.

Nei gruppi che funzionano bene chiunque, anche coloro con ruoli meno importanti, si sentono partecipi nel raggiungimento degli obiettivi.

Oltre che dagli obiettivi e dai comportamenti funzionali al raggiungimento degli obiettivi, il gruppo di lavoro è caratterizzato anche dai comportamenti emotivi che sono funzionali alla coesione del gruppo.

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Le difese di gruppo

Le difese di gruppo sono delle dinamiche che vengono utilizzate per non prendere coscienza di situazioni di tensione emotiva presenti nel gruppo, che possono costituire una minaccia alla coesione e all’unità del gruppo. Esse sono:

1) Capro espiatorio: è una difesa per cui si tende a canalizzare su un solo membro le tensioni dell’intero gruppo.

2) Lamento per opporsi all’aiuto: l’intero gruppo o alcuni membri si lamentano di tutto per impedire al leader di gestire il gruppo o per non cambiare nulla.

3) Accoppiamento: scambio molto stretto di comunicazione tra due membri che mira ad evitare la presa di coscienza di un disagio emotivo del gruppo. Anziché discuterne tutti insieme, si privilegia il rapporto di coppia che, in pratica, escludendo il gruppo dalla discussione, impedisce di fatto la discussione stessa.

4) Fuga: allontanamento per depistare dal tema centrale di discussione; può essere una fuga nel passato quando si propongono emozioni o ricordi di avvenimenti passati o una fuga esterna quando si propongono discussioni su problemi esterni al gruppo.

5) Provocazione protettiva: consiste nel provocare un membro o un gruppo di membri che si esprimono poco per far sì che intervengano. Lo scopo è quello di proteggere la situazione presente e di impedire la progressione della dinamica che si stava attuando.

6) Spostamento del conflitto: le discussioni e le conflittualità tra i vari membri del gruppo di lavoro vengono spostate ed incanalate in ambiti diversi, anche di tipo immaginario, in modo da abbassare la tensione.

7) Personalizzazione dei conflitti: si manifesta nella convinzione che le conflittualità che avvengono all’interno dei gruppi siano dovute a rapporti personali. Non essendo quindi patrimonio del gruppo, il gruppo non è il luogo adatto per trattarle. Come si può osservare l’obiettivo è sempre l’attenuazione della tensione di gruppo.

La psicologia di comunità considera il gruppo di lavoro come setting ambientali da studiare e su cui attuare le proprie strategie di intervento.

L’assunto di base degli psicologi di comunità che operano in questa direzione è che i gruppi di lavoro possano essere dei setting potenzialmente positivi ma anche negativi per le persone che vi partecipano.

Tutti noi abbiamo avuto esperienze di riunioni di gruppi di lavoro da cui siamo usciti stanchi, tesi, annoiati, con la sensazione di aver perso tempo, di non aver concluso nulla. Altri hanno subito vere e proprie violenze psicologiche, umiliazioni, disconferme in setting di lavori di gruppo e hanno sviluppato una vera avversione al lavoro di gruppo. Altri ancora invece mitizzano il lavoro di gruppo.

In una ricerca effettuata in 105 consultori italiani (Tancredi et al., 1985) è emerso che la maggior parte delle équipe era poco capace di lavorare in gruppo. In una certa misura ciò era dovuto a difficoltà gestionali e organizzative. Infatti più della metà degli operatori affermano di non dover rispondere a nessuno del proprio operato e di non ricevere né controlli né direttive sul proprio operato. Questo è risultato un grosso limite, infatti dalla stessa ricerca emerge che un consultorio funziona meglio quando si riceve dall’alto un controllo di gestione efficiente.

Un altro tipo di difficoltà era di carattere ideologico e teorico, infatti, se da una parte il termine lavoro d’equipe veniva menzionato in tutti i progetti di lavoro, dall’altra il concetto era molto vago: da alcuni veniva interpretato come “è obbligatorio decidere e fare tutto insieme”, altri come “ciascuno decide come e cosa fare per poi comunicarlo agli altri in occasionali riunioni”.

Il terzo problema era di carattere tecnico in quanto molti operatori non avevano nessuna esperienza pratica di lavoro di gruppo.

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Dai dati emersi in questa ricerca è evidente la necessità favorire dei corsi di formazione per educare gli operatori delle “professioni d’aiuto” ad acquisire conoscenze e competenze per poter lavorare quotidianamente in équipe. Infatti i gruppi di lavoro possono essere dei setting ambientali che migliorano la qualità della vita di lavoro e dunque la qualità della vita solo quando esistono alcune condizioni: innanzitutto gli obiettivi prefissati devono richiedere un lavoro di gruppo, per cui è necessario il contributo di più persone per raggiungere un certo risultato e quindi il riunirsi in gruppo non sia una necessità giuridica o un’abitudine; in secondo luogo è necessario che i partecipanti abbiano ruoli e competenze specifiche; in ultima analisi è importante addestrare le persone a gestire o a partecipare efficacemente a dei gruppi di lavoro, in quanto lavorare in gruppo non è una capacità spontanea, ma è soprattutto una capacità acquisita.

E’ risaputo che le professioni che hanno per obiettivo quello di aiutare persone in stato di bisogno siano particolarmente stressanti. D’altro canto chi va dal medico di solito ha un problema e il non ricevere una buona assistenza può aumentare il suo disagio, la sua sofferenza. Pertanto diventa fondamentale far rendere al loro meglio i professionisti della salute, aumentando le loro competenze, ma anche dando spazio ai loro bisogni. La psicologia di comunità dedica particolare attenzione all’elaborazione di programmi di addestramento e aggiornamento del personale sociosanitario.

Le tecniche di gruppo

Si tratta di una serie di tecniche specifiche, utili per intervenire sulle dinamiche di gruppo secondo una logica esterna al gruppo stesso. Possono essere di tipo direttivo o di tipo non direttivo. Nel primo tipo il conduttore guiderà il gruppo verso un obiettivo specifico, previsto e deciso da lui stesso. Nel secondo tipo affiderà direttamente al gruppo la possibilità di ricercare autonomamente la direzione del proprio percorso. La scelta di un tipo o dell’altro dipenderà ovviamente dai tempi e dagli obiettivi che ci si propone e pertanto potranno intrecciarsi e susseguirsi a seconda della situazione.

Le più importanti tecniche di gruppo sono: il T-Group (Training Group = gruppo di addestramento). Il T-Group puòessere

definito, secondo Badolato, Di Iullo (1979): un’esperienza di apprendimento per implicazione diretta, attraverso la quale i partecipanti acquisiscono una maggiore sensibilità ai fenomeni di gruppo e una più accurata percezione di se e degli altri. Il T-Group è una tecnica di sensibilizzazione che consente di rendere i componenti di un gruppo più consapevoli dei propri comportamenti, delle motivazioni e delle emozioni soggiacenti a tali comportamenti. E’ una tecnica molto utile per modificare le relazioni all’interno di un gruppo di lavoro, ridurre atteggiamenti d’intolleranza e di scarsa comunicazione. Il T-Group è costituito da un conduttore e da un numero ridotto di partecipanti (da 6 fino a 30). Gli incontri possono avvenire in una molteplicità di modi, da incontri di fine settimana a incontri periodici della durata di 3-7 giorni. Può essere associato ottimamente al Training Autogeno.

Le tecniche di drammatizzazione (sociodramma e role playing). Queste tecniche create e sperimentate dallo psichiatra Jacob Moreno, sono particolarmente utili per migliorare la coesione e le dinamiche di gruppo in un gruppo di lavoro. Con queste tecniche vengono esplorati, attraverso speciali metodi drammatici, la struttura della personalità, le relazioni interpersonali, i conflitti e i problemi emozionali. Il gruppo, rappresentando in un’azione scenica qualche particolare situazione, può rivivere in maniera più consapevole motivazioni e conflittualità inconsce per arrivare ad una maggiore integrazione dei suoi membri.

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Il Training Autogeno di gruppo. Il Training Autogeno è uno strumento psicoterapeutico che agisce provocando una deconnessione globale dell’organismo, e in tal modo, una serie di cambiamenti riequilibrativi del soggetto. Il metodo, inventato da J.H. Schultz, un neuropsichiatra tedesco, si basa sostanzialmente sul cosiddetto “principio autogeno”. L’individuo è in grado, cioè, di recuperare il suo equilibrio da solo o in gruppo, attraverso l’allenamento con una serie di esercizi psicofisici opportunamente studiati.

Il metodo dei casi. Consiste nel presentare al gruppo un problema ipotetico o reale (“caso”) con l’obiettivo di risolverlo. Il conduttore inizialmente guiderà il gruppo attraverso l’analisi e l’identificazione di tutti gli elementi, compresi quelli marginali, successivamente porterà il gruppo alla loro soluzione. Tale tecnica allena alla discussione, alla diminuzione della dipendenza, all’applicazione dei principi appresi per il raggiungimento degli obiettivi di lavoro specifici e alla conoscenza più approfondita dei compagni del gruppo di lavoro. Questo metodo può essere utilizzato in abbinamento con le altre tecniche e in particolare con il role playing.

Il Mobbing

Con il termine mobbing s’intendono tutti quei comportamenti violenti che si verificano sul luogo di lavoro attraverso azioni, parole, atteggiamenti e gesti intenzionalmente persecutori che ledono la dignità sia umana che professionale di una persona con conseguente compromissione del suo equilibrio psicofisico.

Il mobbing è sempre esistito nel mondo del lavoro, tuttavia la teorizzazione e lo studio di questo fenomeno sono relativamente recenti, infatti, le prime ricerche sono state effettuate in Svezia da Heinz Leyman negli anni ’80 e successivamente in Italia, negli anni ’90, da Harald Ege.

Secondo alcuni Autori (Menelao et al.,2001; Hirigoyen,2000) è possibile distinguere tre forme di mobbing sulla base dei soggetti che attuano i comportamenti vessatori:

1) forma “discendente o dall’alto” che ha come obiettivo quello di costringere i dipendenti a licenziarsi. Di solito si verifica soprattutto in quei Paesi in cui il tasso di disoccupazione è molto elevato e il lavoratore, pur vivendo una situazione di estremo disagio, preferisce sopportarla piuttosto che perdere quel posto di lavoro, essendo poi difficile trovarne uno nuovo (Ege,1996). Il mobbing discendente è a sua volta distinto in due sottotipi:

a) tipo strategico o organizzativo dove sono i vertici aziendali che, per risolvere problematiche organizzative o economiche (tagli del budget, fusioni aziendali, etc.), pianificano strategie mobizzanti nei confronti dei dipendenti che si vogliono eliminare;b) tipo corporativo in cui è il datore di lavoro ad esercitare azioni vessatorie sui dipendenti come per esempio: negazione delle ferie, trasferimenti in sedi periferiche, aumento delle ore lavorative, incarichi lavorativi umilianti o per i quali è richiesta una minore qualifica professionale. Talvolta le strategie mobizzanti assumono caratteristiche paradossali: le vittime designate vengono obbligate a svolgere compiti molto al di sopra delle loro competenze professionali mettendoli nelle condizioni di sbagliare.

2) Forma “ascendente o dal basso” che si verifica quando alcuni dipendenti con qualifica inferiore prendono di mira un dirigente con l’obiettivo di nuocere al suo prestigio e di fargli perdere autorità. Anche in questo caso possono essere messe in atto molteplici strategie subdole: spargere voci infondate sul suo conto, ridicolizzarlo, criticare e sabotare il suo lavoro, minacciarlo in forma anonima, comportarsi come se non esistesse.

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3) Forma “orizzontale” che si verifica tra dipendenti con la stessa qualifica. La vittima viene isolata dai colleghi, quando parla la si interrompe o le si rivolgono sguardi di disprezzo, viene ridicolizzata. Spesso la vittima ha caratteristiche che possono suscitare sentimenti di invidia nei suoi confronti: è particolarmente creativa e brava nel lavoro, ha capacità relazionali, bellezza e ricchezza. Altre volte le vessazioni sono determinate dal fatto che in un gruppo omogeneo e ben consolidato si inserisce un elemento estraneo.

Ege (1996) individua sei fasi nello sviluppo del mobbing, precedute da una pre-fase:- durante la pre-fase non si è ancora consolidata l’intenzione di distruggere la

vittima, ma sono già presenti discussioni, ripicche, divergenze di opinioni.- Nella prima fase le accuse diventano mirate e hanno lo scopo di distruggere la

vittima.- Nella seconda fase inizia il mobbing: la vittima inizia a provare una sensazione

di disagio.- Durante la terza fase la vittima avverte i primi sintomi fisici e psichici.- Nella quarta e nella quinta fase si aggravano progressivamente le condizioni

psico-fisiche del mobizzato che è costretto ad assentarsi dal lavoro per malattia.- Infine, nella sesta fase la vittima o viene trasferita d’autorità, o dà le

dimissioni.

Alcuni Autori (Menelao et al., 2001) identificano nel meccanismo del mobbing tre figure fondamentali: i mobbers, i mobbizzati, i co-mobbers.

- I mobbers sono coloro che esercitano il mobbing, gli aggressori. Secondo molti Autori, il mobber ha evidenti tratti narcisistici di personalità: ha eccessivo senso di grandiosità personale, intenso bisogno di ammirazione da parte degli altri, sostanziale mancanza di empatia verso gli altri, egocentrismo, coltiva enormi fantasie di successo, è assolutamente impermeabile alla critica e reagisce con particolare conflittualità di fronte alle frustrazioni che derivano da giudizi non positivi nei suoi confronti, infine è eccessivamente critico nei confronti degli altri e ha la tendenza a manipolare e strumentalizzare le persone per raggiungere i propri fini.

Secondo M.F. Hirigoyen (1998) il mobber è un narcisista perverso, intendendo per perversione la tendenza a sfruttare e poi a distruggere gli altri senza provare alcun senso di colpa. I narcisisti perversi sono considerati psicotici senza sintomi, che trovano il proprio equilibrio scaricando sugli altri le contraddizioni interiori che rifiutano di percepire.

Secondo altri Autori il mobber può presentare tratti paranoidei di personalità con eccessiva diffidenza e sospettosità nei confronti degli altri, interpreta significati minacciosi anche in eventi benevoli, è facilmente irritabile, aggressivo ed estremamente vendicativo nei confronti dei torti presunti o reali.

- I mobbizzati sono le vittime del mobbing. Sebbene chiunque possa essere vittima del mobbing, tuttavia la vittima ideale è solitamente una persona propensa a colpevolizzarsi, ipersensibile al giudizio altrui, molto precisa nel suo lavoro e nei rapporti con gli altri.

- I co-mobbers possono essere coloro che aiutano l’aggressore a distruggere la sua vittima, oppure coloro che, per paura di diventare a loro volta delle vittime, non prendano posizione contro il mobber (Menelao et al., 2001).

Le vittime del mobbing dapprima restano paralizzate dagli atteggiamenti del proprio aggressore, poi, per evitare la rottura, scendono a compromessi, si sottomettono, si attribuiscono colpe che non hanno e diventano sempre più depresse, insicure, irritabili e anche aggressive, ma non con il loro persecutore (Hirigoyen, 2000).

Il protrarsi nel tempo di questa situazione genera stress e le vittime possono accusare sintomi somatici tipici dell’ansia come: senso di oppressione al torace, dispnea, palpitazioni,

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disturbi gastroenterici, riduzione della libido. Possono insorgere patologie croniche come: ipertensione arteriosa, ulcera peptica, riduzione delle difese immunitarie con minore resistenza alle infezioni.

Riguardo alle patologie della sfera psichica, quelle di più frequente riscontro nelle vittime del mobbing sono: il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo da attacchi di panico, il disturbo depressivo maggiore.

Dopo che la vittima ha interrotto i rapporti di lavoro con il persecutore, con il passare del tempo, il mobbizzato può conservare solo un brutto ricordo di questa esperienza; altre volte invece può sviluppare una serie di sintomi compatibili con il disturbo post-traumatico da stress (Leymann, 2000): rivive il trauma subito sia attraverso ricordi angosciati dell’evento, sia con incubi ricorrenti.

Hirigoyen (2000) evidenzia che il mobbizzato può manifestare un’aggressività incontrollabile, come reazione a tutto quel periodo di vessazioni in cui non aveva la possibilità di difendersi.

Menelao et al. (2001) pongono l’accento sulle gravi ripercussioni che il mobbing può avere sulla famiglia della vittima: mentre nelle fasi iniziali la famiglia può essere un valido sostegno, invece, con il passare del tempo, spesso la famiglia non riesce più a dare un sostegno psicologico alla vittima, che anzi diventa una minaccia per l’integrità ed il benessere familiare. Questo determina maggiore sofferenza per la vittima e gravi problematiche familiari che possono portare anche alla separazione o al divorzio.

La Leadership

La leadership fu, almeno inizialmente, scarsamente considerata perché creduta una qualità innata in alcuni individui. “Leader si nasce non si diventa”, così è il detto. Questo punto di vista sui leader comunemente diffuso deriva dal presupposto teorico che essi possiedano determinate caratteristiche di personalità che li distinguano dalle persone comuni. Anche se numerose ricerche hanno dimostrato che gli individui che possiedono posizioni elevate all’interno di un gruppo hanno un Quoziente Intellettivo più alto dei loro seguaci, sono più sicuri di sé e più socievoli, la correlazione tra particolari tratti di personalità e la leadership risulta poco attendibile. Non a caso, i sostenitori della teoria del grande uomo hanno trovato difficoltà nell’usare termini definiti (Carlyle, 1841). Sarebbe forse più corretto definire come capi carismatici i soggetti portatori di tali doti innate.

Tale opinione venne via via cambiando, e già intorno al 1920 si teorizzava una stretta correlazione tra gruppo e leadership, affermando che non sarebbero potuti esistere l’uno senza l’altra.

Lewin (1961), collocando in maniera più precisa tale concetto all’interno della sua teoria situazionale, definì la leadership come l’espressione specifica di una situazione e il leader quella persona che riesce a realizzare la situazione sociale all’interno del gruppo e che questa fosse responsabile dello stato d’animo generale dei membri e dell’efficienza del gruppo.

In maniera più precisa, quindi, tale fenomeno consiste nello svolgimento di quelle azioni che spingono il gruppo a realizzare gli obiettivi che tutti i suoi componenti ritengono importanti.

La leadership ha in sintesi i seguenti compiti:a) contribuire a proporre gli obiettivi del gruppo;b) spingere il gruppo verso il raggiungimento di tali obiettivi;c) migliorare la qualità delle relazioni del gruppo;d) far utilizzare al gruppo le risorse disponibili;e) assicurare la coesione di gruppo.

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Quindi, a seconda dei bisogni specifici della situazione, i membri del gruppo che hanno le capacità adeguate, l’interesse e il bisogno tendono ad assumere le funzioni di leader. Come vedremo in seguito, questa funzione può essere assunta da più persone.

Le diverse caratteristiche del leader fanno riferimento ai cosiddetti “stili della leadership”, ben studiati dalla scuola di Lewin: stile autoritario, stile democratico e stile “laissez-faire”. Questi stili sono assai importanti per gli effetti che hanno su tutti i componenti di un gruppo, infatti solitamente a ciascun tipo di leadership corrisponde una diversa produttività del gruppo.

Uno stile autoritario di leadership definisce bene i ruoli in base all’obiettivo del gruppo e lascia poco spazio all’iniziativa dei componenti. Un leader autoritario impone e organizza le attività del gruppo concentrandosi soprattutto sullo svolgimento del compito immediato. In questo tipo di gruppo di solito la produttività è più alta (il compito viene portato a termine in tempi brevi e in maniera appropriata) ma tutti i membri del gruppo diventano fortemente dipendenti dal leader, nessuno di essi è in grado di prendere decisioni autonome e la risoluzione del compito non mostra alcuna creatività; inoltre si viene a determinare una notevole instabilità aggressiva tra i componenti del gruppo, un’alta competitività e, infine, essi lavorano duramente solo fino a quando il leader è presente.

Uno stile democratico propone la sua leadership più che imporla. Un leader democratico fa sì che ogni membro possa discutere tutte le decisioni e le attività del gruppo e non impone niente che non sia accettato unanimamente. In questo genere di leadership il leader viene percepito come un membro del gruppo a tutti gli effetti. Solitamente in questo tipo di gruppo c’è un clima connotato da sentimenti di amicizia e di cooperazione, la produttività è quantitativamente moderata, ma di qualità superiore e non è influenzata dalla presenza o assenza del leader; inoltre vi è bassa dipendenza dal leader e bassa aggressività intragruppo.

Uno stile permissivo (“laissez-faire”) consente ai membri del gruppo di fare ciò che ritengono meglio. Il leader non stabilisce nessuna procedura e, cosa importante, nessuno tenta di influenzare nessun altro. I leader laissez-faire suscitano molte richieste da parte dei membri dal momento che essi, proprio in quanto permissivi, non forniscono alcuna guida riguardo allo svolgimento del lavoro. Esiste una scarsa propensione alla realizzazione dei compiti, una forte aggressività e irritabilità fra i componenti del gruppo. E’ il tipo di leadership sconsigliata, di solito è disastrosa, ma talora può avere buoni effetti.

Bales e Slater (1955) sono stati altri autori che hanno approfondito le dinamiche della leadership e la comunicazione all’interno del gruppo. Essi hanno osservato nei gruppi una netta differenziazione tra un leader “funzionale” e un leader “socio-emotivo”. All’interno di un gruppo, il leader funzionale è colui che dà suggerimenti e guida il gruppo nella soluzione dei compiti, stimolando una comunicazione, che passa quasi sempre attraverso di lui, diretta e finalizzata al compito; suggerisce anche molte idee, pur non riscuotendo il maggior numero di simpatie.

Il leader socio-emotivo è invece colui che solitamente riscuote il maggior numero di simpatie all’interno del gruppo. E’ colui che presta attenzione ai sentimenti dei membri e risponde ad essi, cercando di tenere alto il morale del gruppo, smorza le tensioni quando ci sono difficoltà o situazioni particolarmente difficili. Ha cioè dei comportamenti diretti al mantenimento del gruppo stesso. Le attività funzionali e socio emotive possono essere concentrate in una sola persona o in individui differenti. In genere più il lavoro del gruppo risulta impegnativo e stressante, maggiore è la probabilità che esistano leader differenti, uno con caratteristiche funzionali e l’altro con caratteristiche socio-emotive. Com’è possibile osservare, esiste una notevole coincidenza tra i ruoli individuati da Bales e Slater e la leadership analizzata da Lewin. Il leader funzionale, infatti, ha molte caratteristiche in comune con quello autoritario e, a sua volta, il leader socio-emotivo ha un comportamento confrontabile con quello democratico.

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Hersey e Blanchard (1984) hanno proposto la teoria della “Leadership Situazionale”. Gli Autori partono dal presupposto che non esiste uno stile di leadership migliore in assoluto. Il leader ideale è colui che sa adattare il proprio stile di conduzione alla situazione in cui si trova ad agire e in base alla maturità dei membri del gruppo con i quali si trova ad agire, infatti ci sono momenti in cui è importante imporre una leadership autoritaria e altri in cui è più opportuno adottare una leadership democratica.

Bibliografia

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