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PASSIONE SIRIACO DI GEORGE KIRAZ WWW.OASISCENTER.EU

PASSIONE SIRIA O - OasisCenter1 Intervista a cura di Martino Diez Beth Mardutho, Piscataway (NJ), USA 2 luglio 2019 Nell'introduzione al tuo New Syriac Primer scrivi che «il siriaco

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PASSIONE SIRIACO

DI GEORGE KIRAZ

WWW.OASISCENTER.EU

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Intervista a cura di Martino Diez

Beth Mardutho, Piscataway (NJ), USA

2 luglio 2019

Nell'introduzione al tuo New Syriac Primer

scrivi che «il siriaco può essere una passione

(o una follia!), non solo una lingua» (p. XX).

Da dove ti viene questa passione?

Quando ero bambino a Betlemme, mio padre

mi mandava a studiare siriaco con mia sorella

dal prete locale. Ovvio, ai bambini non piace

fare compiti extra in estate... Mio padre ci da-

va 2,50 qurūsh (piastre) come paghetta settim-

anale in cambio dello studio del siriaco: giusto

il prezzo di un gelato! Poi però mi disse che il

prete aveva chiesto se potevo entrare nel gu-

do, il coro liturgico. Questo richiedeva d’im-

parare meglio il siriaco ed è lì che è iniziata la

passione. Naturalmente, tutti in chiesa mi

dicevano che ero un “bravo ragazzo”, shātir, e

forse anche questo ha avuto il suo peso all’ini-

zio. Poi la passione si è trasformata in follia.

Una follia che si manifesterà pienamente negli

Stati Uniti…

Ho terminato la scuola superiore a Beit Jala

nel 1983. Subito dopo, mi sono trasferito a Los

Angeles con mia madre, raggiungendo mia

sorella che viveva già negli Stati Uniti. Lì ho

frequentato l’università: ingegneria elettrica,

proprio lo schema dei ragazzi mediorientali!

Nel 1984 ho seguito il mio primo corso di pro-

grammazione informatica. Al mio professore

dissi che volevo creare un programma per

scrivere in siriaco. «È difficile», mi rispose, ma

alla fine, due anni dopo sono riuscito a svi-

luppare un font con Multi-lingual scholar, un

programma DOS. Andavamo alla Società di

Letteratura Biblica a mostrare il software per

venderlo agli studiosi, perché funzionava con

siriaco, arabo ed ebraico, e in una di queste

occasioni sono stato invitato a presentare il

programma al Symposium Syriacum di Lova-

nio, in Belgio. Era il 1988. Alla conferenza ho

fatto un intervento, ma soprattutto, ho in-

contrato Sebastian Brock: ricordo di avergli

parlato, spiegandogli che mi ero messo a fare

siriaco per la Chiesa e per la conservazione

della tradizione, ma che ora volevo occu-

parmene a livello accademico. Mi ha invitato

a fare domanda per un programma a Oxford e

sono stato accettato. In realtà ci fu un malin-

teso sulla tempistica, perché io volevo prima

terminare la laurea triennale, ma alla fine mi

sono trasferito a Oxford nel 1990 e ho iniziato

il master. Il piano era fare solo un anno di

pausa, prendere il master, tornare negli Stati

Uniti e trovare lavoro come ingegnere. Ma

dopo una settimana mi sono reso conto che

sarei rimasto, mi piaceva. Quello è stato il mo-

mento in cui tutto è cambiato.

Il profondo interesse per la conservazione del

patrimonio non è nuovo alla tua famiglia. Se

non mi sbaglio, i manoscritti del Mar Morto

Dai manoscritti del Mar Morto alla bolla del Dot-com, George Kiraz

ha fatto della promozione della cultura siriaca la missione della vita.

Con implicazioni ecumeniche

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sono stati nella casa di tuo padre per alcune

settimane subito dopo la loro scoperta…

Sì, mio padre era amico del Vescovo Samuel

[1] di Gerusalemme e nel 1947, quando i ma-

noscritti erano appena stati scoperti, Samuel li

acquistò. A un certo punto, ebbe bisogno di

fondi e chiamò mio padre dicendogli che c’era

un antiquario ebreo pronto a comprare i ma-

noscritti. Secondo mio padre – ma la versione

è disputata, come qualsiasi cosa che riguardi i

manoscritti del Mar Morto – lui consigliò al

Vescovo di non venderli e di capire quanto

valessero. Alla fine mio padre fornì a Samuel i

fondi che gli servivano, divennero soci e lui si

portò i manoscritti a casa nostra.

Poco tempo prima, ancora durante il mandato

britannico, mio padre aveva conosciuto Elea-

zar Sukenik, il

famoso archeo-

logo israeliano:

mentre costru-

iva una casa a

Gerusalemme,

aveva trovato

una grotta con

alcuni resti,

aveva chiamato il Dipartimento Palestinese

delle Antichità per fare delle ricerche, loro

avevano mandato Sukenik e in questo modo si

erano conosciuti. Mio padre decise allora di

portare i Manoscritti da Sukenik. I disordini

erano già iniziati e i due s’incontrarono nella

no man’s land, alla sede della YMCA. I mano-

scritti restarono a casa nostra per alcuni mesi,

fino a quando il Vescovo Samuel decise di

mostrarli a John Trever, dell’American School

of Oriental Researches (ASOR). Il resto della

storia è nelle memorie di mio padre, di cui ho

curato l’edizione.

Sembra che fossi predestinato a lavorare sui

manoscritti... La tua famiglia era originaria di

Betlemme?

No, la mia famiglia viene da Harput, nel sud

dell’Anatolia, una città tra Diyarbakir e Ma-

latya. In seguito al genocidio del 1915, molti

sopravvissuti siriaci ripararono ad Adana, che

dopo la capitolazione dell’Impero Ottomano si

trovava sotto il controllo francese. I francesi

aprirono orfanotrofi e scuole per i sopra-

vvissuti, ma vennero sconfitti dalle truppe ke-

maliste e nel 1922 furono costretti ad andarse-

ne. I siriaci e gli armeni, che avevano appena

subito il genocidio, non avevano alcuna inten-

zione di rimanere sotto il dominio turco e an-

darono al sud, in Libano. E nel nostro caso, a

Betlemme.

Tornando a te: tra le molte cose che hai reali-

zzato, hai fondato una casa editrice, Gorgias

Press, che si è fatta un nome per la qualità

delle sue pubblicazioni. Era un progetto pre-

visto fin dall’inizio?

No, è stato uno sviluppo tardivo e casuale. Do-

po aver terminato il dottorato, iniziai a lavora-

re per i Bell Labs: appartenevano alla AT&T e

all’epoca erano il luogo della ricerca tecnolo-

gica in America; per dire, ai Bell Labs hanno

scoperto il laser, hanno creato il sistema ope-

rativo UNIX, il linguaggio di programmazione

C:… In media rilasciavano 1,5 nuovi brevetti

al giorno! Erano una potenza scientifica che

controllava tutte le telecomunicazioni negli

Stati Uniti, prima che il governo smembrasse

I MANOSCRITTI RESTARONO A CASA NOSTRA PER ALCUNI MESI, FINO A QUANDO IL VESCOVO SAMUEL DECISE DI MOSTRARLI A JOHN TREVER

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la società perché era diventata troppo grande.

In ogni caso, io stavo all’interno del diparti-

mento di ricerca, il che era molto positivo

perché facevo ricerca non orientata. Ero auto-

rizzato a fare qualsiasi cosa volessi, proprio

come avviene all’Istituto di Studi Avanzati [di

Princeton]. E avevo uno stipendio di livello

manageriale, anche questo era molto positivo.

Il siriaco era sempre presente, ma come un

aspetto secondario. Verso la fine degli anni ’90

però mi resi conto che volevo diventasse la

cosa principale. In quel momento si era in pie-

na bolla Dot-com [2], non so se ne hai sentito

parlare. Mi confrontai con Christine, mia

moglie, e le dissi che volevo lasciare i Bell

Labs, unirmi a una delle nuove start-up, lavo-

rare duramente per tre-quattro anni, fare

qualche milione e usarlo per finanziare Beth

Mardutho (“La casa della conoscenza”), l’Isti-

tuto di Studi Siriaci che mia moglie e io

avevamo fondato. All’epoca infatti Beth

Mardutho esisteva già, ma solo sulla carta: noi

invece volevamo farne un posto reale.

Così lasciai i Bell Labs e nel giro di un mese

ricevetti cinque offerte di lavoro, una migliore

dell’altra. Da ultimo, andai a finire in un’azi-

enda di tecnologie vocali della Silicon Valley.

Volevano qualcuno per aprire una sede a New

York, trovai un ufficio a Wall Street e la cosa

li impressionò molto. Assumemmo del perso-

nale e tutto sembrava molto promettente. Ci

pagavano in stock options e le azioni salivano

sempre di più. Almeno sulla carta iniziavamo

a vedere le sei cifre... Mi immaginavo che in

quattro anni avrei messo da parte il milione di

dollari per finanziare Beth Mardutho.

Nove mesi dopo, nel marzo del 2000, ci fu il

Dot-com crash. La maggior parte delle azien-

de non aveva alcun prodotto in mano, si

trattava solo di idee e a un certo punto il mer-

cato crollò. Le azioni precipitarono da circa

200 dollari l’una a 30 dollari, in un sol giorno.

Delle cinque società che mi avevano offerto

lavoro, quattro fallirono in meno di una setti-

mana. Tutto era perduto, compreso il mio la-

voro. Decisi che non volevo lavorare per

un’altra società.

Fu in quel momento che Christine e io pen-

sammo di

creare la casa

editrice Gorgi-

as Press. Da

allora è venuta

su un pezzo

alla volta. Più

avanti, ab-

biamo approfit-

tato della crisi

immobiliare del 2008 per comprare la

proprietà in cui ci troviamo ora. Inizialmente

era stata progettata come ufficio per Gorgias

Press, ma quando vidi la stanza in cui siamo

seduti adesso, mi resi conto che era perfetta

per Beth Mardutho. Così relegammo la povera

Gorgias nel seminterrato, riservando la zona

migliore a Beth Mardutho. Portammo qui an-

che i miei libri personali, che costituiscono la

stragrande maggioranza di quelli che vedi. E

questo è il punto a cui siamo arrivati.

TUTTO ERA PERDUTO, COMPRESO

IL MIO LAVORO. FU IN QUEL

MOMENTO CHE CHRISTINE E IO

PENSAMMO DI CREA-RE LA CASA EDITRICE

GORGIAS PRESS

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A proposito, da dove viene il nome Gorgias?

Da Gorgia il sofista? E perché questa scelta?

Beh, eravamo convinti che se avessimo aperto

una casa editrice incentrata solo sul Cristiane-

simo orientale, non avrebbe avuto mercato.

Abbiamo pensato di lavorare anche sui classi-

ci. Ci siamo messi in cerca di nomi e mi sono

imbattuto in Gorgias, che assomigliava al mio

nome...

Esatto!

...e sembrava anche classico. È per questo che

lo abbiamo scelto. Ma per quanto riguarda i

classici, devo dire che abbiamo completamen-

te fallito, perché non è il nostro settore di spe-

cializzazione. Ci siamo fatti conoscere per il

Cristianesimo orientale, per il siriaco, più re-

centemente per gli studi arabi, islamici, ebrai-

ci... tutto fuorché i classici.

Quali sono i risultati di cui sei più orgoglioso,

in termini di libri pubblicati da Gorgias?

Ancora una volta, tutto è iniziato per caso!

Quando abbiamo aperto Gorgias, ho contat-

tato alcuni studiosi durante una conferenza

sulla Peshitta [la traduzione siriaca della Bib-

bia] tenutasi a Leiden nel 2001 e molti di loro

hanno accettato di scrivere dei libri per noi.

Ma mi sono reso conto che prima che i libri

fossero pronti sarebbero passati degli anni e

nel frattempo dovevamo sopravvivere. Allora

ho passato in rassegna la mia biblioteca e ho

selezionato dodici libri antichi non coperti da

copyright, che sapevo le persone avrebbero

voluto avere sui loro scaffali. Bisogna tornare

indietro nel tempo a un’epoca in cui non c’era

archive.org né Google books. Le ristampe so-

no state un successo e abbiamo cominciato a

ricevere gli ordini. E per i primi cinque anni il

business è stato quello.

Questa esperienza mi ha dato l’idea di ristam-

pare i cinque volumi dell’edizione di Bedjan

delle omelie di Giacomo di Sarough. Successi-

vamente, Sebastian Brock ha aggiunto un ses-

to volume. Secondo me, questo è uno dei

nostri più grandi risultati, perché nessuno

aveva la serie completa dei cinque volumi. Io

ne avevo uno, Sebastian Brock due, ma

nessuno li possedeva tutti tranne il Seminario

Teologico di Princeton. Ma la biblioteca del

Seminario aveva fatto una rilegatura così

stretta dei volumi che era impossibile scansio-

narli. In ogni caso, alla fine siamo riusciti ad

avere delle copie di tutti i volumi da diverse

persone: è stato un vero sforzo cooperativo.

In arabo, il progetto che mi è piaciuto di più è

stata la ristampa della storia universale di Ta-

barī, Tārīkh al-rusul wa-l-mulūk, nell’edizio-

ne di De Goeje, con il titolo sul dorso del

libro, come si usa in Medio Oriente. E ora sti-

amo lavorando a un ambizioso progetto ri-

guardante la Masora siriaca, cioè lo studio filo-

logico della Bibbia siriaca.

E Michele il Siro?

Oh sì, anche questa è una storia interessante!

Abbiamo un solo manoscritto siriaco che pre-

serva la cronaca capolavoro di Michele: è un

manoscritto del XVI secolo inizialmente cus-

todito a Edessa e portato ad Aleppo dopo il

genocidio. L’orientalista francese Jean-

Baptiste Chabot, che fu il primo a pubblicare

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le cronache di Michele tra il 1899 e il 1910,

era riuscito a farsene fare una copia, ma non

fu mai in grado di acquisire l’originale. Io vo-

levo pubblicare in un’unica opera la traduzio-

ne di Chabot, il riassunto armeno e le versioni

in Garshuni [arabo scritto in caratteri siriaci],

ma sfortunatamente il piatto principale, il tes-

to siriaco, avrebbe dovuto essere solo una

riproduzione della copia di Chabot, dal mo-

mento che la comunità siriaca di Aleppo non

permetteva di fotografare il prezioso mano-

scritto. Lo conservavano in una cassaforte con

tre chiavi differenti, una in mano al Vescovo e

le altre due custodite da due laici: la cassaforte

si apriva solamente se i tre si mettevano d’ac-

cordo.

Sapendo che lo avrebbe preso a cuore, presen-

tai il progetto a S.E. Hanna Ibrahim, il

Vescovo siriaco di Aleppo, spiegandogli quan-

to fosse spiacevole doversi basare sulla copia

di Chabot. Il modo in cui glielo presentai e,

forse, la possibilità di diventare un curatore

del volume lo entusiasmarono e disse: «No,

George, vedrai che un modo lo troveremo!».

Parlò con la gente e riuscì a convincerla.

La cosa richiese un’enorme quantità di fondi,

che fui in grado di raccogliere grazie a un be-

nefattore. Inizialmente pensavamo di assume-

re un fotografo locale, ma poi decidemmo di

fare affidamento sul personale dell’HMML,

che stava già lavorando a un progetto di digi-

talizzazione ad Aleppo. Tutti i tasselli andaro-

no al loro posto e alla fine organizzammo una

conferenza ad Aleppo per celebrare la digitali-

zzazione del manoscritto: fu appena due anni

prima che iniziassero i problemi in Siria.

Il nome del Vescovo Hanna Ibrahim riporta

immediatamente a un tragico presente: è uno

dei tre vescovi rapiti dall’ISIS. Dall’esterno

potrebbe sembrare che gli studi siriaci siano

rivolti al passato, ma in realtà dietro c’è una

comunità vivente. Come vedi l’attuale situazi-

one dei cristiani e, in particolare, della comu-

nità siriaca in Medio Oriente? C'è un futuro

per loro lì?

La crisi siriana è stata un duro colpo per la co-

munità siriaca. Sarà il tempo a dirlo, ma potr-

ebbe essere devastante come il genocidio del

1915. Ovviamente, non è possibile fare un pa-

ragone in termini di vittime, ma l’intensità del

colpo potrebbe essere simile. Nel 1915 la co-

munità siriaca in Anatolia fu quasi annientata

e i sopravvissuti si spostarono a sud, stabilen-

dosi in diversi paesi arabi. Dal 1915 ad oggi,

c’è stato il conflitto arabo-israeliano, che ha

svuotato la maggior parte delle aree palestine-

si, seguito dalla guerra civile libanese. Dal

2003 in avanti è stato il turno dell’Iraq e un

gran numero di persone se ne è andato anche

da lì. L’ultimo paese stabile era la Siria. Non

metto in discussione il fatto che fosse un re-

gime e una dittatura, ma la comunità cristiana

lì prosperava. Con la guerra siriana, molti se

ne sono andati e adesso, probabilmente, ci so-

no più siriaci nella diaspora che in Medio Ori-

ente.

Il problema della diaspora è che le persone

non restano culturalmente distinte dalla cor-

rente maggioritaria per più di qualche genera-

zione, questo è un dato di fatto. I migranti

siriaci hanno cominciato ad arrivare negli Sta-

ti Uniti negli anni ’80 dell’Ottocento e poi do-

po il 1915 in numeri molto più grandi. Solo

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pochi dei loro discendenti sono ancora memb-

ri della nostra comunità, gli altri sono diven-

tati americani come tutti gli altri. Sono sicuro

che siano ancora in giro, ma se non sono attivi

nelle nostre parrocchie, non fanno più parte

della comunità siriaca e potrebbero persino

ignorare di appartenervi.

In Medio Oriente non devi andare in chiesa

per essere suryānī (siriaco). Se non ti sposi,

potresti entrare in chiesa solo due volte nella

vita, per il battesimo e per il funerale! Eppure,

saresti ancora un suryānī, tutti sanno che sei

suryānī, tu sai di essere suryānī. Non è così

negli Stati Uniti e in Europa. Se non pratichi,

soprattutto se non hai una comunità attorno,

scompari. A causa della natura dell’Europa e

per il fatto che lì il melting pot è più lento ris-

petto agli Stati Uniti, le comunità potrebbero

sopravvivere di più, forse per tre o quattro ge-

nerazioni, ma l’esito finale è lo stesso. Negli

Stati Uniti la nostra Chiesa, dagli anni ’80

dell’Ottocento fino ad oggi, è sempre stata una

chiesa di immigrati. Ormai dovrebbe essere

una Chiesa di americani siriaci, ma con l’arri-

vo di nuovi migranti, le vecchie generazioni

sono, per così dire, buttate fuori e scom-

paiono. Ora però la sorgente da cui provengo-

no i migranti sta per prosciugarsi. Che succe-

derà allora? Stiamo parlando della scomparsa

totale della cultura siriaca: potrebbero volerci

cinquanta o cento anni, ma questa è la ten-

denza. Senza dimenticare che nel frattempo i

problemi in Medio Oriente sono lungi dall’es-

sere risolti.

Questa triste constatazione mi porta alla pros-

sima domanda. Al di là della tua attività pro-

fessionale, sei diacono della Chiesa Ortodossa

Siriaca. Come vedi la tua missione negli Stati

Uniti? Si tratta solo di preservare il passato? È

indirizzata a una comunità etnica o linguisti-

ca?

Il mio lavoro ha due aspetti: lo studio del siri-

aco in sé, per cui ho a che fare principalmente

con persone di tradizione non siriaca. È un po’

un peccato, ci piacerebbe avere più persone di

tradizione siriaca negli studi siriaci, ma si sa,

devono diventare tutti ingegneri... Questa

parte del mio lavoro occupa più della metà del

mio tempo. Dall’altro lato, ci sono le attività

all’interno della comunità, nel tentativo di

preservare la lingua e la cultura. Provo a fare

delle cose che funzionino per entrambi gli as-

petti e a volte le attività si sovrappongono, ma

non sempre.

Secondo lo studioso francese Olivier Roy, oggi

molte persone sono alla ricerca di forme per-

sonalizzate di religiosità che sono disconnesse

da un determinato patrimonio culturale.

Questo, secondo lui, potrebbe anche aiutare a

spiegare il successo del salafismo nell’Islam,

perché è un movimento basato sulle Scritture

che non presta attenzione alle tradizioni loca-

li. La Chiesa siriaca è, per così dire, l’opposto:

è indissolubilmente legata alla cultura, che ha

modellato nei minimi dettagli. Questa tradizi-

one, attraverso iniziative appropriate, può re-

sistere alla tendenza alla semplificazione o

semplicemente richiede troppo studio per la

gente comune?

È una grande sfida. Come è stato detto, in Me-

dio Oriente si è suryānī da un punto di vista

culturale. Non bisogna andare in chiesa.

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Ma l’altra faccia della medaglia è che in Medio

Oriente, se non sei nato suryānī, non puoi di-

ventarlo, soprattutto se non sei cristiano.

Giusto. E anche se cambi, sei suryānī di

riflesso. Ad ogni modo, il problema è la ten-

denza all'individualismo e il grande interroga-

tivo per noi è come far rimanere i giovani nel-

la comunità. La gente pensa che ci sia una for-

mula magica, ma non è così. È una questione

molto complessa, perché se cerchi di offrire

quello che la maggior parte della gente vuole,

non ha senso avere una chiesa siriaca, potreb-

bero benissimo andare nella chiesa evangelica

più vicina.

Il nostro patrimonio è un triangolo con tre

vertici: la Bibbia, i Padri della Chiesa e la Tra-

dizione. La Bibbia da sola non funziona; non

funzionano neppure i Padri della Chiesa o la

Tradizione da soli. Per fare una chiesa siriaca,

servono tutti e tre. Nelle nostre comunità

americane as-

sistiamo già a

una concentra-

zione esclusiva

sulla Bibbia:

ora è diventata

munzal

(“rivelata senza intervento umano”), una nozi-

one estranea alla nostra storia. Notiamo che ci

sono più sermoni e meno liturgia, perché

quest’ultima è troppo lunga ed è in siriaco. Se

questa è la tendenza, allora basta andare nella

chiesa evangelica della porta accanto, fanno

meglio il loro lavoro. In fondo la domanda è

semplice: vuoi il patrimonio siriaco o no?

Molti tra noi non capiscono né apprezzano il

patrimonio. E anche se cerchi di spiegarglielo,

è difficile comprenderlo, se non ci sei cre-

sciuto insieme. Il mio non è un giudizio etico:

il tizio che entra nella Chiesa evangelica della

porta accanto potrebbe essere un cristiano

migliore di me, che pure sono un diacono. Ma

il Cristianesimo siriaco è una religione di cul-

tura. Togli la cultura, non c’è Cristianesimo

siriaco.

Questo mi porta all’ultimo punto. La Chiesa

siriaca, come hai detto, è una chiesa basata

sulla tradizione. Nel mondo esistono altre

Chiese basate sulla tradizione, in particolare

quella cattolica e quella ortodossa bizantina.

La scissione ha notoriamente avuto origine

nel Concilio di Calcedonia del 451 e, 1500 an-

ni dopo, penso sia giusto riconoscere che

quanti erano contrari a Calcedonia non crede-

vano che la divinità di Cristo avesse assorbito

la sua umanità e quanti erano a favore di Cal-

cedonia non stavano smembrando Gesù in du-

e realtà differenti. Questa crescente consape-

volezza ha aperto la strada ad alcune dichiara-

zioni cristologiche comuni e a un lento per-

corso ecumenico. Pensi che, nel prossimo fu-

turo, questo percorso possa portare da qualche

parte? E soprattutto, potrebbe rispondere alla

domanda sul come far rimanere i giovani

all’interno della tradizione siriaca?

Il percorso è molto lento, fastidiosamente len-

to. Ci sono pro e contro in ogni cosa. Il van-

taggio dell’unità è che continueremo ad esiste-

re nel futuro, perché altrimenti c’è troppa

frammentazione. Lo svantaggio delle unioni,

per la minoranza, è che si finisce facilmente

per essere fagocitati. Immaginiamo un’unione

completa tra la Chiesa Cattolica Romana e la

Chiesa Ortodossa Siriaca: le dimensioni sono

IL NOSTRO PATRIMO-NIO È UN TRIANGOLO CON TRE VERTICI: LA BIBBIA, I PADRI DELLA CHIESA E LA TRADIZIONE

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talmente incomparabili che per noi non ci sar-

ebbe futuro, qualsiasi cosa restasse del patri-

monio siriaco sarebbe consumata e assimilata.

Forse la strada migliore, che è già stata in gran

parte realizzata con la Chiesa Cattolica sebbe-

ne non completamente, è avere degli accordi

che permettano il reciproco accesso ai sacra-

menti, ma mantenendo l’identità, la liturgia e

le pratiche della Chiesa minoritaria.

Nel mio caso, ogni domenica mi tocca fare

un’ora di autostrada per andare in chiesa, nel

nord del New Jersey. Il prossimo anno mia

figlia andrà all’università nel Jersey del sud e

chiederà all’amministrazione se può avere una

macchina, perché qualche volta le piacerebbe

andare in chie-

sa e le chiese

più vicine per

lei saranno a

Philadelphia e

nel Jersey

settentrionale. Se avessimo un’unione totale,

la gente direbbe: «C’è una chiesa cattolica qui

vicino, perché dovrei farmi un’ora di macchi-

na?». Questo ucciderebbe la chiesa minorita-

ria. È tutta questione di come fare un’unione

che preservi la cultura della chiesa minorita-

ria. Ancora una volta, l’intero problema ruota

attorno alla religione come cultura. Quando la

religione diventa una cosa individualista, puoi

andare da qualsiasi parte, non c’è differenza.

Per me, ciò che è estremamente fastidioso è

l’atteggiamento degli ortodossi bizantini. Con

la Chiesa Cattolica ci sono questi accordi, ma

se entro in una chiesa greca, molto pro-

babilmente mi daranno del monofisita.

Tuttavia, un’unione completa sarebbe auspi-

cabile, no?

Se le due chiese avessero le stesse dimensioni

e lo stesso potere, allora l’unione avrebbe

assolutamente senso. Ma voglio raccontarti un

aneddoto interessante su mia figlia e su come

non avere un’unione totale permette di pre-

servare l'identità della minoranza. Mia figlia e

mio figlio sono entrambi andati in scuole cat-

toliche. Quando è arrivato il momento di fare

la Comunione, sono stati esclusi, semplice-

mente perché il prete o la suora non sapevano

che ci fossero degli accordi per l’accesso ai sa-

cramenti. Ho esaminato la questione e ho sco-

perto che la Conferenza dei Vescovi Cattolici

degli Stati Uniti ha dato delle precise istruzio-

ni per le scuole cattoliche su come comportar-

si con le altre denominazioni. Dal momento

che mia figlia era turbata per il fatto di essere

stata esclusa, le ho parlato e le ho detto che

potevamo andare a parlare con il prete e

mostrargli il documento. Ma lei ha replicato:

«No, così non la voglio la Comunione». Era

molto giovane all’epoca, stava frequentando la

scuola elementare, ma l’esperienza di essere

messa da parte le ha dato un senso più profon-

do di Suryoyutho, “siriacità”. Avere una lingu-

a e dei riti differenti ci dà un senso di identità.

Lo dico sempre: le minoranze a volte hanno

bisogno di un po’ di persecuzione per conser-

varsi. Il problema in America è che non c’è

proprio nessuna persecuzione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabi-

lità degli autori e non riflettono necessariamente la

posizione della Fondazione Internazionale Oasis

© RIPRODUZIONE RISERVATA

ANCORA UNA VOLTA, L’INTERO PROBLEMA RUOTA ATTORNO ALLA RELIGIONE COME CULTURA

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NOTE

[1] Si tratta del Metropolita siro-ortodosso di

Gerusalemme Athanasius Yeshue Samuel

(1909-1995), una figura centrale nella sco-

perta dei manoscritti del Mar Morto

(NdR).

[2] La bolla speculativa che ebbe luogo tra il

1997 e il 2000 riguardante le aziende in-

formatiche e, in particolare, quelle che

lavoravano nell’ambito di internet (NdR).

[3] HMML sono le iniziali di Hill Museum and

Manuscript Library, un'iniziativa dei mo-

naci benedettini per preservare i mano-

scritti a rischio in tutto il mondo: http://

hmml.org, NdR

Georges Kiraz

George A. Kiraz è fondatore e direttore della

Beth Mardutho (“La casa della conoscenza”).

Fondata nel 1992, la Beth Mardutho si dedica

allo studio del siriaco e della tradizione siriaca

nel mondo. Kiraz ha diretto personalmente

molti progetti attraverso la Beth Mardutho, e

la sua biblioteca personale costituisce una par-

te importante del centro di ricerca. George

Kiraz ha insegnato siriaco a Princeton, a Rut-

gers (New Jersey) e all’Istituto POLIS di Geru-

salemme. Ha conseguito un Master of Philoso-

phy e un dottorato in Linguistica computazio-

nale all’Università di Cambridge con una tesi

sull’elaborazione della morfologia dell’arabo e

del siriaco.