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PAZIENTI GRAVI IN UN GRUPPO ISTITUZIONALE, UNA SFIDA POSSIBILE?
COSA RAPPRESENTA UN GRUPPO DI TERAPIA
CON LO PSICODRAMMA IN UNA ISTITUZIONE?
di Stefania Falavolti
L’Istituzione, soprattutto quella pubblica, in generale e nello specifico in questo caso “Centro di salute
mentale”, è sempre, più o meno, un sistema complesso e spesso labirintico come il famoso Castello di Kafka,
di regole, norme e procedure, spesso oscure ed in conflitto tra loro. La complessità aumenta in modo
esponenziale se si sposta lo sguardo più in alto e si considera che quella struttura è solo una cellula di un
insieme più grande: il Dipartimento di Salute Mentale, e questo a sua volta è una parte della ASL che fa capo
alla regione e poi allo stato. Questo insieme è dunque un sistema di scatole cinesi o di matrioske una dentro
l’altra, dal più piccolo al più grande, ognuna con dei propri CODICI, non necessariamente compatibili e
coerenti fra loro. Si presenta al pubblico degli utenti/pazienti come una entità tenuta per mandato e
attrezzata per fornire risposte/servizi ai bisogni/richieste
degli individui, dei piccoli gruppi o di altre istituzioni
sociali. Il complesso ingranaggio può alternativamente o
contemporaneamente, ACCOGLIERE E NUTRIRE fornendo
tutto ciò che serve alla sopravvivenza (sussidi economici,
cure mediche, alloggi, socializzazione...) o IMPRIGIONARE
E STRITOLARE nelle sue maglie un richiedente troppo
difettoso o disturbante. Queste immagini fuse insieme
possono evocare quella persecutoria di un GENITORE
UNICO, MADRE dall’accudimento infinito e PADRE della
legge implacabile. Questo moloch totale e onnipotente
può espellere e cancellare, per ragioni misteriose ed insindacabili anche per i suoi esecutori, l’individuo, la
persona unica ed irripetibile portatrice della propria storia di sofferenza. Anche il singolo, peraltro, ha
incontrato fin dalla nascita la sua prima istituzione, la famiglia, con le sue ramificazioni intergenerazionali, e
poi in successione i vari sistemi scolastici, ricreativi, amicali, sportivi, religiosi, lavorativi, in un intreccio
inestricabile di reti, di linguaggi e di codici diversi. È proprio la sua incapacità di destreggiarsi in questi sistemi,
innanzitutto di comprenderli, poi di adattarvisi almeno in parte o di avere la forza e la possibilità di modificarli
ad aver compromesso la sua “SALUTE MENTALE”. Cosa accade, dunque, quando avviene questo incontro tra
individuo che ha perso il suo equilibrio “psichico” e l’istituzione? La prima difficoltà nasce già dalla decodifica
della domanda, spesso piena di aspettative illusorie e salvifiche che va incrociata con le reali risposte che la
struttura può dare al di là di quello che viene pubblicizzato. Ciò è tanto più difficile oggi, in una società in cui
i sistemi di codici, prima troppo rigidi e fissi ma con regole, divieti e sanzioni chiari che si potevano accettare
o rifiutare ma erano più facili da comprendere, sono diventati confusi, labili ed incerti. Per parafrasare
Bauman e la sua società liquida li si può considerare come indizi liquefatti che scorrono come un fiume
melmoso sotto la pelle della società, nascosti ed indecifrabili ai più. Ciò che non è stato né visto né compreso
dal singolo lo porta a violarli, quasi sempre inconsapevolmente, e le conseguenze impreviste che si
abbattono su di lui lo disorientano maggiormente. Tale confusione può generare dei mostri nel tentativo di
nominare ciò che nome non ha. Quale spazio e funzione ritaglia e costruisce il gruppo di terapia in questo
contesto? Chi sono queste due persone, la coppia di terapeuti che mettono insieme un piccolo numero di
naufraghi della vita? offrendogli cosa, una zattera o un porto sicuro, un fragile vascello sbattuto dalle onde
o un rifugio e un nascondiglio? La scommessa da vincere tramite il setting è quella di fornire un contenitore
capace sia di accoglimento/reverie maternale, consentendo anche ai più fragili di non sentirsi del tutto in
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balia del mare in tempesta ma evitando anche di creare una riserva indiana per emarginati/ribelli, potenziali
parricidi o setta di illuminati dalla incredibile potenzialità immaginifica della mente gruppale. Il gruppo di
psicodramma con il suo setting fatto di poche regole chiare, esplicite e condivise, di cui i terapeuti pur con i
loro stili diversi, si fanno GARANTI, è una piccola istituzione aperta ai quattro venti, pur essendo all’interno
della istituzione totalizzante che INQUADRA gli utenti e deve dare loro le soluzioni, possibilmente rapide. È
uno spazio intermedio fra l’individuo ed il resto del mondo, lui con le sue difficoltà e le varie istituzioni di cui
non comprende i codici, essendo estraneo pure a sé stesso, incatenato alla patria che non ha, ai traumi subiti,
al doppio ostile e minaccioso. Nel tempo sospeso ma definito della seduta, si fa poca cosa, si racconta, se si
vuole, davanti agli altri qualcosa, qualsiasi, anche un sogno o un delirio, si ascolta l’altro ognuno come può,
ci si guarda e a volte ci si rispecchia. Qualcuno poi viene invitato ad alzarsi e si rappresenta un pezzo di
racconto, si gioca e per farlo entra in campo il corpo proprio ed altrui che opera un ri-collocamento nel corpo
della parola attraverso il cambio dei ruoli ed il doppiaggio. Lo sguardo mette in moto il sistema linguistico
costituito da segni ed immagini che affonda le sue radici nell’esperienza corporea. (Sassanelli- “L’io e lo
specchio” 1989-Astrolabio) (Foto 3 Lo specchio) L’area del gioco ritaglia un nuovo spazio ed un nuovo tempo
labile ed intenso insieme, transizionale alla seconda potenza, come dice Elena Croce. (Il volo della farfalla”
pag. 165 - 1990 – Borla)
È uno strumento che si monta e si smonta continuamente, sempre inevitabilmente diverso dal racconto ed
anche da se stesso anche se fosse ripetuto mille volte. La rappresentazione non è mai una riproduzione, lo
scarto che si crea esige la rinuncia alla soddisfazione immediata. Proprio questa diversità insopprimibile, fa
sì che il gioco, basato sull’assenza, funzioni come un PRISMA o specchio angolare che offre una serie di
prospettive oblique (Sassanelli-ibidem) e mette in campo delle possibilità di annodamenti ipotetici ed inediti.
È una evocazione sul piano immaginario in cui può avvenire una decontestualizzazione progressiva di ciascun
tratto unario della identificazione primitiva
catturante e massiccia. La nuova identificazione
non è stabile né fissata, ma mobile e quel tratto
unario può essere sostituito da un altro in una
scena successiva. Il gioco psicodrammatico
destruttura quello che è dato per scontato, crea
contesti diversi, in cui a volte il pz si trova a tratti,
suo malgrado, nella posizione di chi può anche
chiedere qualcosa dell’ordine del desiderio ma
quasi senza averne la diretta responsabilità, anche grazie all’allentamento del Super-Io. L’elemento di
sorpresa che nel mondo esterno può terrorizzare e destabilizzare, in questo contenitore multiplo
sufficientemente protettivo, consente di sperimentare attraverso l’inaspettato, il lutto delle illusioni e vivere
uno spazio di LIBERTA’.
Il paziente può assorbire immagini e segni altrui ed iniziare ad entrare in una dimensione di scambio,
“reinventare il suo racconto con il testo (…) o la grammatica di un altro”
(Boukobza - Atti del convegno Narrazione e rappresentazione-1998 - Ed. Dell’Orso) Può tentare di guardarsi
in specchi non assoluti, che non lo incatenano più eternamente alla joissance di un Altro onnipotente ma
rimandano immagini parziali, limitate ed imperfette e
proprio per questo umane. Lo psicodramma offre
dunque uno spazio privilegiato che permette di fare il
lavoro del lutto all’interno di una cornice che istituisce il
soggetto attraverso una scena in cui può spiegarsi la
dimensione del desiderio. Indispensabile per
comprendere di che cosa è necessario fare il lutto. I
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trabocchetti del gioco sempre mutevole e imprevedibile, fanno cadere IN fallo il paziente ma senza
distruggerlo, consentendogli di non essere IL fallo. Ha così una possibilità di progettare qualcosa nella sua
vita anziché rimanere immobile nella sterilità di un fantasma o di un delirio senza tempo. È il corpo che entra
in gioco e rappresenta il primo abbozzo di temporalità nei suoi spostamenti sulla scena labile del gruppo.
Continua ad esistere dopo essere ritornato a posto. Può giocare dunque come soggetto e non più essere
giocato, o meglio agito, dalla istituzione famiglia verso/contro l’istituzione psichiatrica su cui proiettare una
idealizzazione totalizzante/persecutoria. Ciò che rende possibile e sostenibile questa esperienza di
complessità e relatività ad un tempo dei vari sistemi è l’analisi che con il suo corredo anch’esso istituzionale
fa da terzo fra le prime due. La posizione etica dell’analista comporta che svolga meglio che può la sua
funzione di garante di questa terzietà nonostante i condizionamenti esterni, cammini quindi in precario
equilibrio sul sottile filo di una ragnatela. “Rendere la sua particolarità al soggetto, è il contrario
dell’intolleranza e della segregazione” (Eric Laurent in Quaderni Veneziani di Psicoanalisi del 1995)
Nel manicomio infatti non esistevano più singoli individui, ognuno con le proprie storie e caratteristiche, ma
solo grossolane categorie che raggruppavano non persone ma problemi. La meraviglia dell’essere umano è
invece proprio la sua UNICITA’ NELLA SIMILITUDINE, cioè potersi scoprire simili ma diversi, separati ma non
totalmente estranei, se deponendo le maschere, scelte da noi o imposte da altri, riusciamo a cogliere il
profondo legame sociale che ci connette agli altri soggetti. In ogni cultura umana le vicissitudini del rapporto
fra Io Ideale e Ideale dell’Io (antenato, divinità, totem) costituiscono punti nodali in cui, con le dovute
precauzioni, pazienti e terapeuti possono incontrarsi. Il gruppo di psicodramma offre, potremmo quindi dire,
dei momenti di mediazione tra i rapporti primari ed i rapporti sociali nel senso più vasto del termine. Si può
quindi concordare con Elena Croce, sulla definizione di “GIOCO COME PROMOTORE CREATIVO DI LIBERTA’”
(“Famiglie in gioco” – Areanalisi n.22/23-1998) e cerniera tra gli spazi, insomma uno “schermo per non
perdere la vista”. Il gruppo di psicodramma che porta il gioco e la sua imprevedibilità, dentro le varie
istituzioni in cui analisti e pazienti, come dice Lacan, (“Le Sinthome’’ in Seminari- libro XXIII) cercano rifugio
dal dominio dell’ideale, rischiando però di venire catturati dall’immaginario, agisce come antidoto a questo
pericolo. Nelle storie che seguono vedremo degli esempi di come ciò si realizza.
CONTESTUALIZZAZIONE DEI CASI CLINICI
Una breve premessa è indispensabile per contestualizzare i casi di cui racconterò: nel CSM (Centro di Salute
Mentale) sono attualmente in funzione due gruppi di psicodramma, ognuno con un numero di pazienti
oscillante fra sei e circa dodici a seconda degli ingressi ed uscite che avvengono in tempi diversi, trattandosi
di gruppi aperti. In entrambi sono presenti persone con varie patologie e livelli di gravità, alcuni dell’area
psicotica, altri con disturbi di personalità, altri con vari tipi di nevrosi. Uno dei gruppi è più recente, l’altro
è stato formato da molti anni, così come un altro che è stato chiuso e da cui provengono due dei pazienti di
cui parlerò. Tre questioni vanno tenute presenti, anche se già in parte esaminate nello scritto introduttivo:
1) Cosa è l’ISTITUZIONE, quella in cui lavoriamo, qual è il suo mandato, quali le sue regole, come influenza il
nostro modo di lavorare, soprattutto a quale concetto di SALUTE MENTALE fa riferimento?
Pensiamo che la salute mentale sia la stessa identica per tutti?
2) Di conseguenza ecco un punto nevralgico su cui interrogarsi: cosa intendiamo per “gravi”? Non è un
interrogativo di poco conto, si tratta di concordare su quali siano i criteri per cui alcune persone date le loro
rilevanti difficoltà abbiano diritto ad essere inserite in un percorso di psicoterapia, nonostante la scarsità
crescente di risorse nei servizi pubblici. Credo che dal punto di vista dell’istituzione e della società spesso ci
si chieda, magari in modo non del tutto consapevole o imposto dall’alto, quale situazione clinica non trattata
adeguatamente avrebbe le maggiori ripercussioni negative nel mondo intorno a sé? Da un lato in parte si
può condividere questo approccio mirante a programmare il migliore utilizzo delle risorse, dall’altro si rischia
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di cadere sempre di più in un sistema che si occupa soprattutto di difendere sé stesso e di rispondere ad una
crescente richiesta esterna di controllo sociale. 3) Cosa rappresenta il gruppo terapeutico di psicodramma
analitico all’interno di una parte dell’Istituzione Dipartimento di Salute Mentale?
Deve finalizzarsi ad una meta come l’istituzione sociale richiede o può esserne libero, almeno parzialmente?
Quello che ho pensato di presentarvi ora sono tre storie di tre pazienti molto diversi fra loro e con diversi
percorsi nel servizio e nei gruppi. Tutti e tre da considerarsi gravi, dal punto di vista della loro soggettiva
notevole difficoltà a vivere.
PRIMO CASO L’URLO
La prima paziente, chiamiamola Rosa, era una donna sulla
quarantina, che sembrava una bambina nel modo di porsi,
che si presentò al servizio disorientando completamente e
spaventando, la giovane collega che la accolse per prima.
Molti dubbi diagnostici vennero discussi nel servizio, venne
definita depressa, istrionica, si ipotizzò anche qualche
deficit innato o danno organico successivo, dato l’aspetto
confusionale del suo discorso. Le sue frasi ripetute in modo
convulso: “È terribile, è terribile – Non ce la faccio! – È un
caos, gli scatoloni, i muratori, nessuno mi può aiutare!” non
contribuivano a chiarire le perplessità. Per molto tempo nel
gruppo alternava quelle stesse espressioni con momenti in
cui narrava confusamente episodi banali in cui si era sentita
una vittima, ma nei giochi emergeva la sua tremenda
aggressività di cui non era assolutamente consapevole. In
poco tempo il sospetto delle terapeute del gruppo venne confermato, erano presenti molti aspetti psicotici
di tipo interpretativo persecutorio, connotati dal presentarsi in modo anche esplosivo quando lei si sentiva
non ascoltata né vista e reagiva in maniera aggressiva. Era difficilissimo riuscire
a farla giocare, quasi impossibile all’inizio, si metteva in tutte le parti, urlava che
l’altro: “Sbagliava la recita”, si perdeva in descrizioni minuziose di dettagli
irrilevanti. Successivamente iniziò, come spesso succede, ad essere scelta da altri
pazienti in scene della loro vita e manifestò una progressiva abilità
nell’interpretare parti spesso apparentemente marginali, ma con tale realismo e
umorismo intelligente da far scaturire dai giochi risultati inaspettati. I punti
cruciali della terapia furono soprattutto tre giochi seguiti ad una serie di racconti.
Un gioco nel quale lei cambiò il copione accettando inaspettatamente l’aiuto
dell’amica ad aprire gli scatoloni rimasti chiusi dal trasloco di più di un anno
prima. Dopo il gioco l’altra paziente che aveva fatto la parte dell’amica le chiese se le scatole contenessero
qualcosa di lei che la spaventava. Rosa rimase molto colpita da questa domanda e accolse per la prima volta
con un sorriso i suggerimenti del gruppo a mettere in pratica nella realtà questa possibilità di aprire gli
scatoloni.
Secondo gioco, una telefonata come tante con la madre, distante e sempre poco affettuosa, che interpretata
da lei è addirittura gelida e tagliente, non ascolta affatto la figlia e le dice: “Basta! Non importano queste
sciocchezze, mi basta sentire la tua voce due minuti”. Dopo il gioco Rosa si stupisce dei commenti degli altri
pazienti e della terapeuta su come la madre rappresentata da lei fosse davvero terribile. Cominciano ad
emergere frammenti di racconti di un padre molto autoritario, ricordi che Rosa deve farsi confermare da una
zia, in quanto dubita di sé stessa. Dopo diverso tempo, sollecitata da racconti e giochi di altre pazienti su
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violenze subite in famiglia, si arriva ad un gioco su un episodio dell’infanzia. Si trattava di un litigio col fratello
minore che le sventrò delle bambole, la madre prese le difese del figlio maschio e stimolò il padre al suo
rientro a punire la bambina. Il padre la mandò a prendere la cinghia e la picchiò brutalmente, allargando poi
la sua furia anche al fratello. Nell’assolo alla fine del gioco, lei restò immobile, la bocca spalancata in un urlo
silenzioso, le lacrime che scendevano lungo il viso.
È difficile trovare immagini che restituiscano almeno in parte le emozioni trasmesse in quel momento dalla
paziente, bisognerebbe essere pittori abbastanza bravi da condensare insieme: l’Urlo di Munch con il
silenzio congelato di una maschera di gesso con il dolore
inesprimibile di un qualunque essere umano. Il doppiaggio della
terapeuta, durante l’assolo, venne fatto in tono sommesso e
sofferto: “Ho paura! Ho paura!” e riuscì a dare parole, attraverso
la rêverie, al dolore della bambina annichilita, laddove la donna
imprigionata come la detenuta dentro la prigione della sua
disperazione, non riusciva a trovarne, come nelle scatole chiuse
che ingombravano da anni la sua casa. Rosa riuscì ad aggiungere:
“Speriamo che muoia…speriamo…speriamo…sono terrorizzata! ...
Aspetto … Andrò via … Vado sul letto e piango … Andrò via … ma c’è il divieto di uscire dalla stanza … Io
aspetto … aspetto”
La mia osservazione a fine seduta parla di una bambina
sperduta, non ascoltata e non vista, muta anche nell’urlo, che
può solo aspettare un aiuto che non arriverà. Sono tutti
commossi e partecipi in questo momento, vicini e solidali, anche
le terapeute. Rosa la seduta seguente dirà di come si sia sentita
compresa ed accolta. Emergono le vere cose terribili, di questa
famiglia, il padre padrone violento, la madre succube in modo
perverso, il fratello psicotico, aggressivo e chiuso allo stesso
tempo, alla cui malattia era consacrata tutta la vita familiare,
senza possibilità di intervento o interferenza da parte di nessuno. Rosa ora può parlare, essere ascoltata,
vista nella sua sofferenza e intelligenza nel gruppo, purtroppo le sue paure, inascoltate dai genitori, verranno
confermate dal drammatico suicidio del fratello, attuato per non uccidere il padre. Lei in questa circostanza
tragica riesce tuttavia a parlare del suo dolore, continuando a sentirsi accolta nel gruppo e cominciare a
credere un po' in sé stessa, così come ha iniziato ad aprire le scatole e a poter scegliere cosa tenere e cosa
gettare via. Da lì non esce più solo il babau dell’angoscia o della rabbia, ma anche frammenti di desideri
possibili e di capacità inaspettate che la rendono gradualmente un po' più in grado di sopravvivere.
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SECOND0 CASO: LA RABBIA
Filippo, arriva al servizio a 51 anni, come un uomo distrutto dagli eventi
tragici della sua vita, in pochi anni ha perso quasi tutto, il lavoro, i soldi e
l’onore perché licenziato ed indagato per un fatto non commesso da cui sarà
scagionato anni dopo, la casa nella città in cui viveva da molto, che è stato
costretto a lasciare, l’amore ed il sostegno affettivo, per la morte della
moglie. Anche la salute fisica è incerta. È rimasto, inoltre, da solo ad
occuparsi della figlia, adottata, rimasta nuovamente orfana ancora
adolescente. È in lutto certo, ma più che dolore esprime rabbia per le
ingiustizie subite, per il mancato aiuto e comprensione di persone che
credeva amiche, compresi i familiari come la madre ed il fratello minore. Sia
al medico che gli prescrive la terapia farmacologica, sia nel gruppo in cui
entra diversi anni fa (lo stesso di Rosa) racconta ossessivamente tutte le fasi
della sua odissea giudiziaria e degli episodi frequenti in cui litiga per futili
motivi, praticamente in tutti i luoghi pubblici. Si descrive come: “una bomba pronta ad esplodere”. Nel primo
gruppo si trova insieme, oltre che a Rosa, in cui specie all’inizio prevale la rabbia, anche con altre due pazienti
donne che per ragioni diverse sono entrambe abbastanza aggressive, e fra loro in perenne conflitto.
Entrambe attraverso la razionalizzazione intellettuale o l’appello a regole rigide e impersonali mettono fra
sé stesse e gli altri una distanza incolmabile nella quale è quasi impossibile riconoscere i contenuti affettivi
ed emotivi. In tale contesto Filippo fatica molto ad inserirsi, si chiude nelle sue difese negando ad esempio
che, il non avere alcun ricordo della propria infanzia in cui sia presente la madre, possa essere un problema,
“Cosa c’entra mia madre” dice “con cui non ho avuto un rapporto, con tutto quello che mi è successo?”.
Emergono, come puri fatti traumatici, alcuni racconti del suo passato, nato e vissuto in Africa, da cui fu
cacciato con tutta la famiglia adolescente “perdendo tutto”, si ritrovò in un campo profughi nel luogo di
origine della madre, dove rimasero per decisione di lei, mentre il resto della famiglia patriarcale del sud Italia,
con cui erano sempre vissuti, tornò al meridione.
Si evidenzia nei racconti una tendenza a confondere ambiti diversi, tutti i suoi amici ed anche la moglie,
erano o colleghi o clienti del suo luogo di lavoro, istituzione con cui lui non è mai andato d’accordo. Accenna
alla figlia da poco maggiorenne, originaria di una repubblica baltica, la descrive chiusa e dura: “un muro come
mio padre”, padre a cui si sentì vicino solo nella grave malattia che poi lo condusse a morte. La madre viene
definita “oggetto assente o corpo estraneo”. Tuttavia i correlati emotivi di quanto dice non possono essere
neanche sottolineati o indagati senza scatenare negazioni o rifiuti disprezzanti. Anche lui ha delle scatole che
non riesce a svuotare, sono della moglie morta, quando le apre ci trova la muffa e le richiude. Anche rispetto
alla moglie racconta come la malattia avesse rinsaldato il rapporto, lui sapeva cosa fare: “ad ogni operazione
acquistavo sicurezza” con una evidente illusione di controllo e negazione del dolore e della morte. Non
appare una trama, un filo che colleghi i fatti tra loro, che ne dia un possibile senso. La parola ricorrente è
rabbia e VENDETTA.
Nell’impasse del gruppo, ridotto a pochissimi pazienti, si decide di chiuderlo, indirizzando ciascuno in diverso
contesto terapeutico. Filippo viene inserito nell’altro
gruppo. Questo rappresenterà un momento di svolta
attraverso il quale Filippo scoprirà delle possibilità di insight
insospettate. Questo gruppo è più accogliente, le parole
arrivano non come coltelli scagliati ma come sollecitazioni e
a volte sostegno, incontra donne diverse, ferite e fragili,
ciascuna a modo proprio, alcune mostrano anche la forza di
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combattere per andare avanti, per stare meglio, senza tuttavia nascondere le proprie emozioni e mancanze.
Viene chiamato sempre più spesso a giocare parti di padre, a volte, spesso, distruttivo e negativo, altre anche
saggio e protettivo, o da lui giocato così, magari cambiando il copione. In particolare una paziente anoressica,
di origine meridionale lo coinvolge molto, Filippo si arrabbia e vorrebbe difenderla dai soprusi della sua
famiglia. È a lei che attribuisce la parte della figlia per giocare un episodio in cui emergono, per la prima volta,
affetto e tenerezza reciproche.
Ricordano insieme un compleanno festeggiato quando la moglie era ancora viva, condividono commozione
e rimpianto, lui afferma di avere paura di piangere. Si erge spesso, nel gruppo, a paladino delle ingiustizie
subite dagli altri, comincia ad emergere dai suoi racconti un mondo molto più complesso e variegato rispetto
a quello in cui esisteva solo il lutto della moglie ed i problemi economici e giudiziari. Racconta vari episodi di
vita familiare, spesso c’è la rabbia, ma ora ne ha paura, parla di solitudine, di depressione. Spesso somatizza
e/o salta qualche seduta. Molto avvilito dalla decisione della figlia di andare alla ricerca delle proprie origini,
senza di lui, si sente tagliato fuori, anche perché lei non racconta, se lui fa domande si inalbera. Dopo poco
fa un gioco con la madre a cui chiedeva da ragazzino, di invitare amici a casa, non vorrebbe dare questa parte
a nessuna donna del gruppo e afferma “la può fare una sedia vuota”, esprime impotenza. Dopo il gioco
esclama. “Mi ha segnato per tutta la vita”. Si vedono alcuni giochi con la figlia, ormai una ragazza adulta e
fin troppo indipendente, almeno in apparenza, che lui cerca di accudire con grande tenerezza ed assiduità.
Il dialogo è però difficile, lei è chiusa e pronta ad allontanarsi se lui si
avvicina troppo. Rappresenta comunque per lui, per diverso tempo, il
centro del suo mondo e, ipotizziamo, il primo vero accesso ad un
femminile non rifiutante e/o mortifero (si è infatti scoperto che la
moglie già all’inizio del loro rapporto era affetta da una sindrome
genetica che comportava sterilità e comparsa di tumori). In occasione
della partenza della figlia per un lontano paese, in cerca di fortuna,
moderna emigrante come tanti giovani, Filippo cerca di negare la
mancanza di lei, non potendo mostrarle la propria dipendenza. Porta
un ricordo poi giocato, di quando la figlia aveva 13 anni e rimproverava
i genitori per averle imposto lo studio di una lingua e le bambole, -non
avevo capito niente-, ammette lui dopo. In seguito la sofferenza per
l’assenza di lei è dolorosamente ammessa in un gioco in cui la giovane paziente chiamata a farne la parte usa
toni più dolci e così Giovanni riesce, parzialmente, a contattare il proprio vuoto.
È un vuoto legato all’abbandono, a partire da una madre da
cui non si è mai sentito amato e neppure visto, così come lui
non vide lei: “Non ho neppure una foto con lei o di lei, ci sono
tutti ma lei no”. Scopre solo da poco, dopo la morte della
madre, il segreto conservato dalla sorella sull’inizio del
rapporto dei loro genitori, nato da un patto fra donne tra
loro estranee, madre sedotta e abbandonata che ha
rivendicato un matrimonio riparatore imposto dalla nonna al
padre. Chi comandava davvero in queste famiglie
apparentemente patriarcali? Donne falliche e padre succube, di chi è e contro chi, la vendetta tanto
agognata? Le domande sono ancora inespresse ma se prima puntava i piedi per non sentire né vedere, ora
cerca di capire cosa lo spinge e se possibile cerca di modificare i suoi rapporti, riesce anche ad avere un paio
di relazioni anche se problematiche, con altre donne, e ad essere meno rabbioso nella vita quotidiana. “Sto
cercando” dice “ancora cercando, non voglio sprecare gli anni che mi restano”. Solo recentemente, ci
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racconta Filippo emozionato, la figlia l’ha finalmente chiamato: “Papà!”, facendogli, come lui stesso afferma:
“Il più bel regalo della mia vita”.
TERZO CASO: L’INIBIZIONE E IL DOPPIO
Filippo giunge al servizio nel 2007 a 38 anni, accompagnato dai genitori, dopo un ricovero urgente a causa
di una crisi delirante acuta, in cui non li riconosceva, erano per lui dei doppi minacciosi ed ostili, era preda di
allucinazioni auditive, di ideazioni deliranti di tipo persecutorio, di somatizzazioni a livello gastrico che
ostacolavano l’alimentazione probabilmente per un delirio di veneficio.
Il primo episodio raccontato dal padre molto sommariamente, risaliva a circa dieci anni prima, non aveva
condotto ad un ricovero, pur avendo caratteristiche simili all’attuale,
sembra di capire che Filippo rifiutasse le cure, non è chiaro come Filippo
sia stato in questo intervallo di tempo. Durante il ricovero in clinica, che
Filippo ha accettato per la sua difficoltà ad alimentarsi, ha iniziato ad
assumere terapia farmacologica, con buona efficacia sulla
sintomatologia delirante. Il padre si mostrava apparentemente molto
presente e sollecito, tranquillo e persino ottimista rispetto alla prognosi.
Seguiva una psicoterapia individuale fuori dal servizio, privatamente, e
alcune attività presso l’associazione di familiari di cui il padre fa parte,
in cui conduce anche dei gruppi di automutuoaiuto. Nonostante ciò,
prevalevano i sintomi negativi, con chiusura quasi autistica ai rapporti,
difficoltà ad uscire, se non allo scopo di effettuare alcuni lavori saltuari.
Su questo problema prevalente, si concentravano le preoccupazioni
persistenti ed insistenti dei genitori. Veniva quindi proposto al paziente di entrare nel gruppo di
psicodramma, cosa che accettava, iniziandolo ad ottobre del 2011. Il padre si diceva d’accordo,
interpretandolo soprattutto come una occasione di “socializzare”. I primi discorsi riguardavano la casa intesa
da Filippo come GUSCIO in cui lui DEVE rintanarsi “compensando” le uscite, che gli scatenano ansia per paura
di affrontare gli altri. Nel primo gioco rivive una delle situazioni del suo primo lavoro durato 12 anni in un
negozio, in cui aveva paura di essere licenziato perché- dice: “non rientravo nei parametri”. Afferma che
molte paure sono create dalla sua mente: “però creando sto bene!”. Intanto dietro il sorriso del padre,
comincia ad apparire la sfiducia e la svalorizzazione aggressiva di qualunque tentativo del figlio di muoversi.
Da un lato infatti, quando accompagna il figlio alle visite psichiatriche di controllo appare comprensivo e
disponibile, dall’altro Filippo racconta nel gruppo di prolungati silenzi e difficoltà di comunicazione, se si parla
in famiglia l’unico argomento è la malattia dello stesso Filippo e soprattutto il suo non uscire di casa e non
trovarsi un lavoro. Quando lo trova e pur con grande ansia, prende il treno e vi si reca puntualmente, non
riceve alcun incoraggiamento in famiglia, nel gruppo sì, e questo lo fa sentire sostenuto ed accettato. Quando
viene mandato via, come tutti gli altri, perché la cooperativa ha perso l’appalto, il padre lo incolpa di non
essere in grado di mantenersi il lavoro. Vengono fatti una serie di giochi nel gruppo, con il padre che lo
accusa, l’atteggiamento di Filippo è sempre molto passivo, come osservano gli altri pz, che lo sollecitano a
chiedere ed esprimersi, ma lui ha troppa difficoltà o meglio impossibilità di arrabbiarsi, è troppa la paura di
perdere il rapporto. Dice di essere molto legato al padre che lo portava fuori perché lui veniva sempre escluso
dai giochi del fratello con il cugino. Ricorda la madre come più severa ed esigente, soprattutto rispetto alla
scuola. Qualunque piccolo obiettivo sembra impossibile non solo da pensare ma soprattutto da raggiungere.
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Con la sua apatia Filippo sembra continuamente confermare la sfiducia paterna, si sente un problema per i
genitori. Ogni tanto tornano, anche se più sfumate e criticate le percezioni di un padre diverso, che forse ha
un gemello che si sostituisce a lui. Parla continuamente dei soldi, quelli che lui non guadagna, quelli dati al
fratello molti anni fa, che aveva dei debiti e mai restituitigli, quelli investiti in qualcosa di cui lui non può
godere. Nel complesso partecipa poco alle sedute. Nel febbraio 2013, parla della psicoterapia individuale
che sta attualmente facendo con un nuovo psicologo della associazione paterna, che gli è stata imposta dai
genitori. Si gioca e per la prima volta Filippo cerca di opporsi e di esprimere la sua idea, cioè di venire solo al
gruppo, ma i genitori si oppongono, perché “non vedono i risultati”. Dopo questo episodio iniziano alcune
discussioni su corsi che Filippo vorrebbe fare ma che i genitori boicottano, ritenendoli inutili, lo trattano da
bambino, ogni suo tentativo viene frustrato. Per il padre Filippo ha IL problema di non uscire per l’ansia e lui
col primo guizzo di ironia commenta: “magari fosse solo uno il problema!” All’inizio del 2014, la madre sta
male, Filippo viene tenuto all’oscuro finché non si arrabbia rivendicando di essere ADULTO ed avere quindi
il diritto di sapere. Scopre così che la madre sta per morire. Poco prima del decesso Filippo coglie nei suoi
occhi il dolore e la paura della morte, ricorda il terrore provato per la stessa situazione con un altro familiare,
parla nel gruppo della propria voglia di scappare. A gennaio 2015 ha una ricaduta per volontaria sospensione
delle medicine, con ricomparsa di ideazione
persecutoria, fugge da casa non riconoscendo il
padre, condotto al servizio parla dell’angoscia
terribile del sentirsi assediato ovunque, come nel
primo episodio. Accetta di riprendere le medicine e
l’episodio rientra senza ricovero. Dopo poco Filippo
ne parla nel gruppo, descrive in modo vivido
l’impressione di avere in casa dei doppi estranei ed
ostili di suo padre e suo fratello da cui difendersi,
racconta le sue allucinazioni, ora criticate,
aggiungendo: “finora pensavo di avere meno problemi degli altri…” suscitando sguardi perplessi ma nessun
commento né ironico né tantomeno ostile. Qualcuno tace, diversi fanno domande senza dimostrare
sconcerto né paura, e lui aggiunge: “È stata una richiesta di aiuto, ho interrotto l’individuale, qui è l’unico
posto dove potevo venire, è il mio unico punto di riferimento!”. Qualche seduta dopo afferma: “Venire qui
mi ha aperto un orizzonte ….. avevo la mia visione delle cose…. Assoluta…ora ho capito che ci sono tante
sfaccettature…. Ho il coraggio di reagire…meno diffidenza verso gli altri”.
Iniziano una serie di questioni sull’eredità materna, nonostante le esortazioni di tutti i pz a difendersi dalle
pretese dei familiari di rinunciare alla sua parte, Filippo non riesce ad accettare questa immagine negativa
di un padre, che come dice Giovanni nella sua consueta modalità: “Non lo capisci?? Ti vuole fregare!! Verrei
io a litigarci e prenderlo per il collo!” e firma. Sembra scuotersi solo dopo la proposta ricevuta da altri parenti
di essere mandato in una comunità, e seguito da un tutore “naturalmente per il suo bene.” Dopo una serie
di altri giochi, su vari episodi del passato in cui non si rendeva conto degli inganni e dei danni subiti, da parte
del fratello con la complicità paterna, mette in atto il suo
primo vero passo di autonomia. Apre un conto corrente a suo
solo nome, in cui accreditare la pensione di invalidità, nel
quale il padre non può avere accesso, come ha sempre fatto
finora. Nonostante le enormi pressioni familiari e le continue
squalifiche e rifiuti affettivi, rispetto a ricorrenze importanti,
il pz continua, pur attraversando momenti di apatia e
depressione, in cui esprime la sua delusione e la sua difficoltà
ad accettare un fratello “squalo” ed un padre “freddo ed
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assente” a mantenere un buon compenso. Si iscrive con un sussidio del servizio ad un corso e ne supera
l’esame senza grandi difficoltà, considera questo un buon successo, che riapre delle speranze sul futuro. Non
servono più i doppi ostili e lui non è più l’ombra trasparente di suo fratello, ma una persona che ha un suo
valore, nonostante tutto.
I LINGUAGGI ED I CODICI
IL LINGUAGGIO DI ROSA
Il primo linguaggio usato da Rosa è il BLABLA confuso di
sciocchezze, disprezzato dalla madre, incomprensibile ai più,
anche a qualche specialista, “è un caos è un caos… è
terribile…posso solo aspettare”. Il secondo sono le crisi di panico
o quasi isteriche, nel servizio o fuori, quando si sente vittima di
ingiustizie o torti, che sfociano a tratti in veri sintomi deliranti di
tipo persecutorio. Il terzo è l’urlo muto, agghiacciato ed
agghiacciante della bambina sperduta che attende un aiuto impossibile. Il
quarto, infine, attraverso il dolore ascoltato e condiviso dagli altri, a cui
riesce a sopravvivere sentendosi finalmente vista ed accolta è la lingua di
una TESTIMONE CREDUTA di una tragedia annunciata, non solo sua ma di
tutta la famiglia. Nonostante sia questa sì davvero TERRIBILE, lei può
ricominciare a vivere.
IL LIGUAGGIO DI GIOVANNI
Quello in cui Giovanni nasce è il codice dell’ESULE, con troppe patrie perché una sia davvero sua. Il marchio
lo scopre molti anni dopo ma la sua storia inizia con la famiglia meridionale paterna sfollata al nord durante
la prima guerra mondiale, dove il padre ha una relazione con una ragazza del posto.
Secondo scenario la splendida terra di origine dei nonni, che
sarà sempre per Giovanni come l’isola che non c’è, goduta
da bambino, sognata e irraggiungibile. -
Lì il padre conosce l’amore ma interviene un patto fra la
nonna e la ragazza che rivendica il saldo del debito d’onore
e lui è costretto ad ubbidire. Tutta la famiglia, compresa la
coppia di novelli sposi si trasferisce in Africa, nella terra di
conquista.
La madre, pur moglie legittima, è per sempre bollata come
straniera nella famiglia e nella nuova patria.
Lì nasce Giovanni, primogenito, allevato più dai nonni e dalla scuola che dai genitori.
Le vacanze si svolgono spesso in Italia, nell’isola favolosa e favoleggiata. Filippo bambino è già diviso fra
almeno due patrie e tre culture. Quella che riconosce più sua è quella dei nonni. Quando Filippo ha 16 anni,
tutta la famiglia, come gli altri italiani, viene scacciata dal luogo dove avevano costruito la loro fortuna, e
nell’esilio perdono tutto, anche i giocattoli dei bambini. Sono di nuovo degli sfollati, in un campo profughi,
di nuovo nel Nord Italia. Lo spaesamento di un mondo nuovo ed una libertà eccessiva rispetto alle regole
rigidissime precedenti, confonde Giovanni ed i suoi cugini con una libertà che disorienta e sa già di
abbandono. La grande famiglia patriarcale infatti si spacca, per quella nucleare di Giovanni decide la
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straniera, resteranno lì, tutti gli altri scenderanno al Sud. Quello in cui diventa adulto Giovanni è il freddo
codice materno, fatto di una religione bigotta in contrasto con una società ormai più aperta e moderna, il
padre è sempre più assente per lavoro e disamore, la vita familiare è fatta di silenzi. La madre è una sedia
vuota, eppure potente, tanto da condizionare la scelta del
lavoro e farlo entrare in una istituzione che disprezza ed odia,
da cui si farà cacciare a causa del tradimento del collega
presunto amico, forse perché originario della stessa terra
paterna. Il suo linguaggio personale è da sempre la rabbia, a
partire dalle scazzottate da ragazzo, alle sue reazioni
aggressive ad ogni rifiuto, ad ogni ingiustizia anche banale. Ha
sempre un credito da rivendicare, deve essere risarcito per il
tanto che ha perso. Giovanni scopre con la malattia del padre
che lo porterà alla morte un altro linguaggio, quello del corpo sofferente, che gli restituisce una vicinanza
affettiva con questo padre troppo succube e silenzioso. La stessa lingua rinsalderà il suo rapporto con una
moglie malata fin dall’adolescenza e predestinata ad una morte precoce che Giovanni si rifiuta di vedere ed
accettare, catturato in una illusione di controllo. Adottano una bambina che viene da un freddo lontano
paese a loro talmente sconosciuto da obbligare questa creatura ferita e chiusa ad imparare la lingua
sbagliata, quella degli invasori della sua patria. Patria che da sola andrà a riscoprire da grande, dopo essere
rimasta orfana una seconda volta. Giovanni si ritrova solo, dopo aver perso di nuovo tutto, a dover scoprire
come comunicare con questa figlia che lo chiama solo per nome e solo da ultimo padre. Somatizza spesso
sul proprio corpo una sofferenza che non può ammettere. Attraverso lo strappo lacerante determinato
dall’emigrazione della ragazza, che si definisce “cittadina del mondo”, e le esperienze con le donne fragili del
gruppo, Giovanni impara il linguaggio delle emozioni che non siano rabbia. Può nominare il dolore, la paura
dell’abbandono, l’amore, può provare a parlare con sé stesso riempiendo di domande mai fatte, quel silenzio
che lo ha spinto all’agire impulsivo.
IL LINGUAGGIO DI FILIPPO
Il suo primo linguaggio è il silenzio, la fuga e l’impossibilità di alimentarsi, per lui parla il suo corpo
terrorizzato. È bloccato nel guscio illusoriamente
protettivo della casa a cui sente di DOVER tornare.
L’INIBIZIONE è la sua legge, niente si può dire, niente si può
fare. Collegato a questo c’è il linguaggio della follia
esplicita, con il delirio persecutorio dei doppi ostili che lo
inseguono dovunque, anche dentro casa, i nemici sono
ovunque, non esiste rifugio, nessuno può comprendere
questa cosa. Il linguaggio che porta nel gruppo è quello dei
numeri e dei conti che non tornano mai, tenuti dal padre,
freddo controllore dell’economia e dei segreti familiari.
Nulla al di fuori del calcolo può essere nominato e tutto si riduce ad uno, secondo il padre: Il problema di
Filippo, non sembra poter esistere la complessità dei rapporti e delle reti umane. Siamo di fronte ad una
sostanziale ANOMIA. Nella stasi impotente di Filippo nel gruppo, gli scorrono accanto le mutevoli variegate
vite degli altri, qualche loro frammento lo lambisce, come onda leggera, lui può almeno ascoltare qualcuno
che nomina le proprie emozioni. Prova un lamento, quasi il vagito richiedente cibo di un lattante. Viene
ascoltato, anche quando racconta l’inferno della ricaduta e la persecuzione dei doppi. Trova in Filippo nei
discorsi e nei giochi, un padre che con tutta la sua rabbia è l’opposto del suo, perde il controllo, è caldo,
passionale, in modo imperfetto ma sempre schierato in difesa di questo figlio che deve crescere, che va
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preso per mano ed aiutato a diventare autonomo. È Filippo ora che può nominare le cose, che si ostina
incessantemente a farlo, anche se sbatte contro un doppio muro, lui vede il dolore e la paura della morte
negli occhi della madre, cerca di parlarne anche se ha paura. Prova a litigare, a rivendicare il suo posto di
adulto anche se dichiarato invalido, riesce a dire della delusione, della solitudine, del rifiuto subito e della
voglia di essere adulto. Ciascuno di questi tre pazienti, in gruppi e momenti diversi, ha fatto un proprio
cammino di soggettivazione.
CONSIDERAZIONI FINALI … MA NON CONCLUSIVE
COSA GIOCANO NEL GRUPPO I TRE STRANIERI A SÉ STESSI?
Chi sono queste tre persone così diverse fra loro? Ognuno di essi, come ciascuno di noi, si è trovato nella sua
avventura umana a far parte, senza averlo chiesto, di una serie di gruppi che fanno riferimento a dei codici
inespressi ed incompresi da loro stessi. Hanno vissuto legati rigidamente ed ineluttabilmente ciascuno alla
propria vicenda fatta soprattutto di malattia, mitizzata in racconti immutabili, sentendosi inavvicinabili ed
intoccabili, talmente estranei al mondo che potrebbero appartenere ad etnie diverse o addirittura a pianeti
alieni. (FOTO 27) Nel gruppo di psicodramma incontrano un mondo abitato non più da doppi speculari ma
da esseri umani, per la prima volta dei simili, riconoscibili anche solo per un piccolo tratto, capaci anche di
ascoltare gli altri, nonostante tutto. Coesiste l’UNICITA’
con la SIMILITUDINE. L’una non esclude l’altra, questa è
la scoperta. Poiché è l’ascolto dell’altro che può
trasformare il grido del neonato in domanda, è così che
può avvenire, grazie alla rêverie, la rimessa nel corpo
della parola.
Ciascuno può iniziare a nominare le cose a sé stesso, il
gioco cerniera fra tre dimensioni (individuo, gruppo,
transfert) rappresenta un’area transizionale all’ennesima
potenza tra il lì ed allora del trauma e della perdita ed il
qui ed ora di una riattualizzazione in un contesto
protetto. Il transfert verticale sui terapeuti e quelli laterali sugli altri partecipanti sono fondamentali, in
quanto nel gioco ci si affida agli altri, al loro sguardo, si accetta cioè di rischiare la propria immagine e quella
del proprio Io Ideale. Ci si illude di poter diventare il vero protagonista della propria storia per poi accorgersi
che il controllo è impossibile, si verifica, infatti, una sorpresa che ha a che fare con l’evocazione del fantasma,
col ritorno di un significante, di un ricordo rimosso che compare nelle trasformazioni del sintomo. Nello
stesso tempo nella assunzione di ruoli diversi si può ritrovare un posto provvisorio ma nel quale ci si può
riconoscere ed essere riconosciuto dagli altri. Si corre un rischio, ma è limitato all’interno di uno spazio i cui
limiti e regole sono chiari e definiti, di cui il terapeuta è garante.
Si sperimenta una sorta di allenamento all’avventura, che non ha conseguenze catastrofiche come nella
realtà quotidiana anche grazie alla reversibilità dei giochi e delle identificazioni che consentono un
avvicinamento meno spaventoso alla soggettività. Nel gioco, inoltre, ed in particolare nell’assolo, col
doppiaggio del terapeuta, si può aprire la possibilità di rêverie che consente di elaborare un lutto in una
realtà condivisa con altri. Possiamo allora ipotizzare che attraverso questi complessi meccanismi il gioco nel
gruppo funzioni da TRADUTTORE SIMULTANEO, INTERPRETE DI IDIOMI DIVERSI che gradualmente arrivano
ad essere compresi innanzitutto dal soggetto che ne è portatore. Si forma (come dice Elena Croce ne “Il volo
della farfalla” a pag.332 a proposito della psichiatria transculturale), una sorta di grammatica di un nuovo
Esperanto che rende leggibili non solo gli idiomi personali ma in parte decifrabili anche i codici esterni. La
traduzione può essere scioccante ed inaccettabile, scoprire che tali codici possono essere fra loro incoerenti
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e addirittura contraddittori, pone di fronte al terrore primitivo del caos irredimibile, alla difficoltà di
accettazione dei limiti che caratterizzano tutti gli esseri umani. Tuttavia proprio l’abbandono delle illusioni
narcisistiche e del pensiero magico infantile che fa credere nell’onnipotenza è l’unica possibilità di poter
domandare qualcosa, di provare a cercare uscendo dall’urlo, dalla rabbia e dalla inibizione. La scoperta
condivisa non appare più così terribile, a volte l’assurdità di alcuni codici e regole diventa comica ed anziché
al delirio può condurre ad una risata liberatoria. Se il
gruppo ed i transfert riescono ad essere sufficientemente
di sostegno da consentire al soggetto di accettare la
sostanziale fragilità della condizione umana si può anche
passare dalla dimensione del bisogno senza nome in cui
la follia è l’unica sponda possibile per un alieno che grida
il suo dolore, alla parola del desiderio di un uomo che
scorge un orizzonte e sceglie di cooperare con i suoi simili
attraverso un legame sociale per raggiungerlo. Ciò
comporta però di rinunciare ad acchiappar farfalle e
decidere di soffiare tutti insieme con fatica nelle vele
della nave dei sogni.
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