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La città è cambiata, bisogna prenderne atto. Un mutamento che ne ha stravolto natura e forma, ha interrotto la continuità, creato lacerazioni, porosità. Spezzato il tessuto vivo degli insiemi territoriali e le relazioni umane loro artefici – divenute aleatorie, anodine. La campagna colonizzata dall’immobiliarizzazione, vittima di un moto centrifugo che ha disseminato atopia, anonimato. Una neourbanità dilatata, discontinua, disarmonica, orfana di quei legami di appartenenza e convivialità che danno anima, senso ai luoghi. Quanto in profondità la frammentazione ha intaccato i reticoli sociali e identitari? Che ne è dei sistemi territoriali? Quale il destino dei paesaggi? Come rianimare percorsi di cittadinanza? Come invertire la rotta e indirizzarci verso la rigenerazione dei luoghi? Bisogna pensare una nuova urbanità. Attraverso i contributi di autorevoli studiosi e progettisti, il libro si pone questo obiettivo. Le voci rispecchiano sguardi e campi disciplinari diversi. Ma la finalità comune non è solo quella di decifrare il processo, è più ambiziosa, tratteggia soluzioni. Salta dai piani dell’analisi e della critica alla sfera propositiva delle utopie praticabili, si muove in direzione del progetto, del cambiamento. I MURI BIANCHI Nel cd viene presentata una ricerca svolta dal corso di laurea in Scienze Geografiche dell’Università di Bologna sulla frammentazione insediativa e la smania immobiliarista nell’area metropolitana bolognese. Il Bolognese non racconta certamente il peggio, tuttavia consente di cogliere le modalità attraverso cui l’urbanizzazione della campagna si esprime. Anche l’Emilia non ha saputo regolare la diffusione caotica degli insediamenti e la sovraproduzione edilizia, con risultati strutturali e riflessi paesistici che costringono a meditare sulle sorti del territorio. Un caso di studio minuto rispetto alla dimensione internazionale dello sprawl e tuttavia esemplare. Sono stati elaborati dati di tipo quantitativo, ma si è posta molta attenzione anche a parametri qualitativi colti con inchiesta diretta e, non ultimo, alle forme di comunicazione grafica, cartografica e visuale. Un esercizio scientifico in cui curiosità intellettuale e mestiere si coniugano a consapevolezza e proposta civile, che vengono messi a disposizione di cittadini e decisori come base conoscitiva e problematica. Nel cd sono contenute anche le illustrazioni di alcuni saggi. PeR UNA NUovA URBANItà doPo l’AllUvIoNe IMMoBIlIARIstA A cura di Paola Bonora e Pier luigi Cerve llati DIABASIS 16,00 PeR UNA NUovA URBANItà dIABAsIs A cura di BoNoRA CeRvellAtI

Per una nuova urbanità - Dopo l'alluvione immobiliarista

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La città è cambiata. Un mutamento che ne ha stravolto natura e forma, ha interrotto la continuità, creato lacerazioni, spezzato il tessuto vivo degli insiemi territoriali e delle relazioni umane. La campagna è stata colonizzata dall'immobiliarizzazione, è stata – è – vittima di un moto centrifugo che ha disseminato atopia e anonimato. Si è giunti a una neourbanità dilatata, discontinua, disarmonica, orfana di quei legami di appartenenza e convivialità che danno anima e senso ai luoghi. Quanto in profondità ha intaccato i reticoli sociali e identitari? Che ne è dei sistemi territoriali? Quale il destino dei paesaggi? Come rianimare percorsi di cittadinanza? Come indirizzarci verso la rigenerazione dei luoghi? Accompagna il libro un CD multimediale dedicato alla frammentazione insediativa e alla smania immobiliarista nell'area metropolitana bolognese.

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La città è cambiata, bisogna prenderne atto. Un mutamento che ne ha stravolto natura e forma, ha interrotto la continuità, creato lacerazioni, porosità. Spezzato il tessuto vivo degli insiemi territoriali e le relazioni umane loro artefici – divenute aleatorie, anodine. La campagna colonizzata dall’immobiliarizzazione, vittima di un moto centrifugo che ha disseminato atopia, anonimato. Una neourbanità dilatata, discontinua, disarmonica, orfana di quei legami di appartenenza e convivialità che danno anima, senso ai luoghi.Quanto in profondità la frammentazione ha intaccato i reticoli sociali e identitari? Che ne è dei sistemi territoriali? Quale il destino dei paesaggi? Come rianimare percorsi di cittadinanza? Come invertire la rotta e indirizzarci verso la rigenerazione dei luoghi?Bisogna pensare una nuova urbanità. Attraverso i contributi di autorevoli studiosi e progettisti, il libro si pone questo obiettivo. Le voci rispecchiano sguardi e campi disciplinari diversi. Ma la finalità comune non è solo quella di decifrare il processo, è più ambiziosa, tratteggia soluzioni. Salta dai piani dell’analisi e della critica alla sfera propositiva delle utopie praticabili, si muove in direzione del progetto, del cambiamento.

I MURI BIANCHI

Nel cd viene presentata una ricerca svolta dal corso di laurea in Scienze Geografiche dell’Università di Bologna sulla frammentazione insediativa e la smania immobiliarista nell’area metropolitana bolognese. Il Bolognese non racconta certamente il peggio, tuttavia consente di cogliere le modalità attraverso cui l’urbanizzazione della campagna si esprime. Anche l’Emilia non ha saputo regolare la diffusione caotica degli insediamenti e la sovraproduzione edilizia, con risultati strutturali e riflessi paesistici che costringono a meditare sulle sorti del territorio. Un caso di studio minuto rispetto alla dimensione internazionale dello sprawl e tuttavia esemplare. Sono stati elaborati dati di tipo quantitativo, ma si è posta molta attenzione anche a parametri qualitativi colti con inchiesta diretta e, non ultimo, alle forme di comunicazione grafica, cartografica e visuale. Un esercizio scientifico in cui curiosità intellettuale e mestiere si coniugano a consapevolezza e proposta civile, che vengono messi a disposizione di cittadini e decisori come base conoscitiva e problematica.Nel cd sono contenute anche le illustrazioni di alcuni saggi.

PeR UNA NUovA URBANItàdoPo l’AllUvIoNe IMMoBIlIARIstA

A cura di

Paola Bonora e Pier luigi Cervellati

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Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978 88 8103 655 4

© 2009 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

www.diabasis.it

Il volume è stato realizzato grazie alla collaborazionedel Dipartimento di discipline storiche, antropologiche e geografiche

Università degli Studi di Bologna

In copertina Il green della città policentrica della della Toscana centrale, in A. Magnaghi, “A green core for thepolycentric urban region of central Tuscany and the Arno Master Plan”, in «IsoCaRP Review» 02- Cities between Integration and Disintegration: Opportunities and Challenges, Sitges 2006

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Per una nuova urbanità.

Dopo l’alluvione immobiliarista

A cura di Paola Bonora e Pier Luigi Cervellati

D I A B A S I S

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Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliarista

A cura di Paola Bonora e Pier Luigi Cervellati

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Paola Bonora Interpretare la neourbanità: città de-formata e immobiliarizzazione

Pier Luigi CervellatiDal tracollo dell’urbanistica bolognese al progettodi “città di città”

Giuseppe DematteisConurbazione disgregata e sistemi locali territoriali

Massimo QuainiDel destino della città di Françoise Choaye dell’utopia “rururbana” di Alberto Magnaghi

Alberto Magnaghi Il progetto della bioregione urbana policentrica

Angelo TurcoLandscaping the city: pratiche urbane, culture visuali, tattiche acquisitive

Edoardo Salzano Urbs, civitas, polis: le tre facce dell’urbano

Anna MarsonStereotipi e Archetipi di territorio

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Chiara Sebastiani Per una politica delle città

Micaela Deriu Passaggio a nord-ovest. Alla ricerca di radici e ragioni per co-progettare con gli abitanti

Roberta Borghesi Reinventare la campagna, a cominciare dal paesaggio

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Interpretare la neourbanità: città de-formatae immobiliarizzazionePaola Bonora

È davvero difficile oggi ragionare di urbanizzazione. Da alcu-ni decenni la natura della città è profondamente mutata. Per mil-lenni ha significato accentramento, concentrazione, verticalità,ora non è più chiaro che cosa sia l’urbano. La città si è de-for-mata e ha trasferito ad uno spazio dilatato e discontinuo ritmi estili di vita urbani. Una frantumazione disordinata e disarmoni-ca che non è solo morfologica o dei modelli insediativi, ma hacomportato una modifica radicale dei milieux territoriali. Chenon rispecchia urbanità né ruralità. Ma che assorbendo i citta-dini in fuga, le loro mentalità, aspettative, consuetudini, espri-me semmai una neourbanità confusa e disorganica, orfana diquei collanti di appartenenza e convivialità che danno anima,senso ai sistemi territoriali. Che è urgente ripensare. Una tra-sformazione frutto del liberismo speculativo che ha dominato lascena economica internazionale e ha indirizzato sull’edilizia mol-ti dei capitali liberati dalla deindustrializzazione. La città de-for-mata come campo di riconversione e di profitto, loro rappre-sentazione.

I tentativi per denominare questa nuova configurazione dif-fusa e polverizzata sono innumerevoli, quello che più si è accre-ditato è il termine sprawl, forse perché a più forte carica simbo-lica. La città ‘sdraiata’ porta sulla scena Los Angeles, evoca il mi-to salutista e ginnico californiano, invia suggestioni di una (po-st)modernità da fiction.

La ridondanza delle nomenclature sinora escogitate nascondeun problema serio. Mentre un tempo era (relativamente) più age-vole una teoria generale della città1 e l’adesione a un paradigmaepistemico, oggi la multiformità di espressioni dell’urbano, la lo-

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ro ambiguità e in molti casi contraddittorietà, sembrano con-sentire solo sguardi parziali. Da quando, non a caso in coinci-denza con l’avvio delle trasformazioni, si è rinunciato alle gran-di narrazioni, all’utopia, e si è trovato rifugio nelle visioni calei-doscopiche, si è perso anche il desiderio di progettare il cambia-mento. Ci si è accontentati di verità parziali, di superficie, persi-no di false verità. Si è preso atto con metafore ridondanti ed eti-chette iperboliche di quanto stava accadendo senza tentare dimodificarlo. Benché sia chiaro da tempo che nell’infinita com-plessità del mondo odierno le cose, la maggior parte delle volte,si mostrino come l’opposto di quello che sono, buttato tutto l’ar-mamentario precedente anche il bambino assieme all’acquasporca2, la distorsione è stata accettata. I pochi ancora capaci diproporre, costretti al ruolo di irriducibili utopisti.

Questo libro, attraverso i contributi di studiosi e progettistidi formazione disciplinare diversa, cerca di fare il punto su alcu-ni nuclei critici di particolare rilievo. Le voci provengono dalcampo della geografia, dell’urbanistica, dell’architettura, dellapolitologia, rispecchiamo sguardi diversi. La finalità comunenon è solo quella di decifrare il processo. È più ambiziosa. Vuo-le suggerire strade per il cambiamento. Lancia ipotesi, tratteg-gia soluzioni. Salta insomma dal piano necessario della critica al-la sfera propositiva delle utopie praticabili. Si muove in direzio-ne del progetto. Uno sbocco che anche i geografi hanno gli stru-menti per perseguire. E ai miei studenti, aspiranti geografi, que-ste pagine sono dedicate, augurandomi che siano la generazio-ne che il mondo ha voglia di cambiarlo.

Visuali e mappe per il cambiamento

La trasformazione urbana è sotto i nostri occhi, nelle nostre vi-te. La città ha perso compattezza, si è slabbrata nelle campagne.Una neourbanità che non coincide con nuove forme di territoria-lizzazione ma all’opposto in frammentazione, desocializzazione.Un miscuglio incoerente che va ripensato in termini territoriali.

Le visuali attraverso cui possiamo analizzare i fenomeni ur-bani sono molteplici. Sotto il profilo culturale e antropologicoci troviamo di fronte a un universo prismatico, a una moltitudi-ne di singolarità, emozioni, percezioni e alla ricchezza di signifi-

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cati di cui i soggetti sono portatori. Un magma inquieto che si in-canala in diramazioni diametrali, da un canto i cittadini consa-pevoli e attivi che propongono con creatività soluzioni alternati-ve. Dall’altra individualità atomizzate, chiuse ed egoiste, conscarse capacità di identificazione e interazione, facile preda delpotere persuasorio e performativo della comunicazione. Che ge-nera atmosfere di simboli e desideri, oggettivati dal consumismo,utili per marcare esteriorizzazioni di personalità altrimenti de-boli. L’apparenza, l’ostentazione, la vanità prendono così il postodei valori sociali ed etici. E promuovono, favoriti dal generaleclima di conformismo e popolarismo, aggruppamenti di un con-senso futile e strumentale che passa attraverso l’illusione di es-sere depositari di micro-privilegi. L’idolatria liberista della con-correnza si trasforma così, sul piano delle relazioni interperso-nali, in gelosia e invidia del sembiante individuale. Strategie se-miotiche di un marketing delle esistenze che dal piano commer-ciale ha conquistato l’intero spettro della scena sociale fino allaribalta della politica e delle grandi decisioni. Un artifizio di me-tafore e immaginazioni che ha prodotto molta eccitazione intel-lettuale. Un fervore che, negando legittimità al reale per esaltarele rappresentazioni, ha perso la capacità di connettere verità esenso. E così la voglia di praticare il piano civile - troppo reali-stico e prosaico, faticoso. Accettando alla fine, pur riconoscen-dola, una modalità di dominazione accattivante e sorniona, manon per questo meno robusta, giocata sulle suggestioni. Orien-tata nelle direzioni che più convengono al mercato e alla suasconfinata libertà d’azione. In questo teatro degli inganni il mer-cato immobiliare si è mosso su più registri, dal piano delle lusin-ghe economiche e delle aspettative di profitto, a quello del gustoe delle mode culturali.

La città de-formata sussume ed enfatizza questa complessità.È il coacervo dei mille fili che muovono la società, embricati traloro in matasse difficili da dipanare, ma il cui groviglio bisogna inqualche modo decomplessificare, accettando anche il rischio,comunque inevitabile, di trascurare qualche derivazione. La cittàpostmoderna ha accentuato la propria impenetrabilità dietro unparavento di meraviglie e di paure. La crisi, esplosa non a casodal settore immobiliare, ne ha messo a nudo il ruolo nella ricon-

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figurazione fondiaria del capitalismo postindustriale. In questaprospettiva analizzare la svolta immobiliarista, come in questepagine intendo fare, può raccontare molto della città odierna.Un ambito in cui i sogni soggettivi si intersecano alle logiche del-la valorizzazione.

Harvey suggerisce di guardare la città da una posizione di-staccata dal brulichio quotidiano delle strade, per “possedere lanostra immaginazione anziché esserne posseduti”, non fermarsiall’apparenza, alle maschere, ribaltare la sudditanza della realtàai simulacri. Uscire dalla complessità caotica e priva di soluzio-ni. Non solo vedere, descrivere, ma costruire “mappe cognitiveorientate al cambiamento”. La sua critica alla “frettolosa ritirataverso dimensioni di ricerca e azione deboli e relativamente im-potenti” mi sembra oggi particolarmente pregnante e condivi-do la necessità di indagare le relazioni tra la produzione di spa-zi, le caratteristiche costitutive dei sistemi sociali e di potere, letrasformazioni territoriali3.

Una prospettiva di ricerca che deve privilegiare la territoria-lità, mettere al centro dell’interesse le comunità che animano ilmagma sociale e arricchiscono di senso il vivere urbano. Jane Ja-cobs già avvertiva i rischi della desocializzazione e dell’indivi-dualismo metropolitano e proponeva le relazioni tra individui co-me progetto. Il suo sguardo partiva dunque da una visuale oppo-sta, dagli eventi comuni, dalle presenze mobili dei cittadini, daimarciapiedi dove la vita si svolge, le soggettività si incontrano4.

Ma buona parte dei nostri guai, mi persuado sempre più difronte allo scempio delle campagne urbanizzate, deriva dal pec-cato originale commesso da Robert Venturi. Che trasforma l’ar-chitettura nella sua parodia popolarista e spettacolare. Il suosguardo è sulla highway, o meglio sulle insegne della strip di LasVegas e la loro sfacciata capacità attrattiva. Propone la visionesfuggente dalla velocità dell’automobile e ne deduce l’esigenza dicatalizzatori dell’attenzione, di simboli comunicazionali, “ar-chitetture di rappresentazione”, “di comunicazione anziché dispazio”, nei “paesaggi d’asfalto” della metropoli postmoderna5.Profezie che si sono inverate con effetti devastanti nell’architet-tura e nell’edilizia della quotidianità. Gli insegnamenti di Las Ve-gas hanno seminato il terreno fertile della deregolazione e rac-

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colto seguaci non solo nelle fantasmagorie degli architetti chegiocano con i materiali, ma anche tra i geometri della periferia.Ma mentre gli architetti, suoi irriconoscenti epigoni, si pavo-neggiano con arditezze mirabolanti, i veri artefici della città so-no i capitali immobiliari a cui sono assoggettati.

Visuali diverse, diametrali, tutte indispensabili anche quelle noncondivisibili per decifrare un fenomeno oggi totalizzante. Non so-lo per dati numerici e morfologici ma sotto il profilo culturale, an-tropologico, ontologico. Le relazioni spaziotemporali soggiogatead una dimensione dell’urbano che si è fatta universale e non lasciacampo a nessun’altra espressione territoriale. Lefebvre da moltianni ha compreso che la città ha un ruolo più importante di quan-to la geografia abbia solitamente inteso6. Non si tratta infatti di unevento isolabile dagli altri contesti, ha sempre rappresentato unmomento cardine all’interno del processo di produzione dello spa-zio, evidente anche quando si traduceva in concentrazione, densitàe le relazioni con il territorio erano lette come distanza, contrap-posizione. Che dire dunque ora che l’urbano si infiltra nella cam-pagna non solo con le sue reti ma la colonizza?

Deindustrializzazione e svolta immobiliarista

In queste pagine ho scelto una duplice prospettiva: economi-ca da una parte, rimango infatti persuasa che le cartografie dellelogiche economiche siano le più eloquenti, semiotica dall’altra,perché la decifrazione della postmodernità passa anche attra-verso la decostruzione dei simboli e dei paradigmi comunica-zionali. Il contesto del ragionamento è quello del capitalismo ma-turo, postindustriale, che ha scelto la città per rigenerarsi usan-dola come dispositivo per la crescita. Non più dunque la città-fabbrica funzionale al modello fordista, ma una nuova forma del-l’urbano vocata alla valorizzazione della rendita immobiliare. Untravaso di capitali che dal piano produttivo si è riversato sul ‘mat-tone’. Capitali di natura ed entità diversa se singolarmente con-siderati, dalla miriade di piccoli investitori che acquistano perabitare o mettere a frutto i risparmi, alla selva di figure, traspa-renti o occulte, che nei grandi immobiliaristi hanno trovato i ne-gromanti di profitti straordinari. Incoraggiati da una concezionedella finanza che reputa il debito connaturato ai percorsi di va-

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Dal tracollo dell’urbanistica bolognese al progettodi “città di città”Pier Luigi Cervellati

Il declino urbanistico bolognese, iniziato da oltre un quarto disecolo, segue la “grande mutazione” che ha caratterizzato, nellostesso periodo la società (e dunque, la città) italiana. All’insegnadello sviluppo, in questi ultimi anni definito “crescita” (mentreall’inizio, nel secondo dopoguerra, era valutato “progresso”) l’as-setto urbano e territoriale si è frantumato, sparpagliato, sbricio-lato. La campagna, erosa giorno dopo giorno dalle nuove costru-zioni e dalle infrastrutture non sempre indispensabili, è ridotta inbrandelli avvelenati dalle culture “industrializzate”.

Bologna è stata esemplare (un tempo) nel perseguire il buongoverno del territorio, interpretando con criteri innovativi (lapartecipazione) l’obsoleta legislazione allora vigente. Adesso èl’alfiere della cosiddetta “perequazione” urbanistica. Il criterioperequativo si attua pagando, oltre agli oneri, un prezzo all’am-ministrazione comunale in cambio dei metri quadri edificabili.Prima di diventare prassi consolidata (per quanto mai legiferata)la perequazione a Bologna esordisce con il PRG dell’85-’891.

La perequazione, in pratica, rifiuta la partecipazione popola-re. La domanda e l’offerta di metri quadri si esaurisce nel rap-porto fra immobiliare e amministrazione comunale. Il mercatoinduce i comuni maggiori a non associarsi con quelli minori siaper calamitare maggiori risorse, sia per ottenere maggiori ricaviderivanti dal prezzo più alto degli immobili costruiti nel capo-luogo. Non a caso l’elaborazione del piano strutturale a Bolo-gna ha avuto una gestione pluriennale, dal 2001 al 2008, con sce-nari differenti e quote variabili del territorio urbanizzabile adogni presentazione. Il tutto giustificato dal cosiddetto “pianifi-car facendo”: prima si fa un patto, un “accordo di programma”,

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poi lo si inserisce nel Piano Strutturale, da cui invece dovrebbederivare. Come il PSC dovrebbe approfondire il Piano di coor-dinamento provinciale a sua volta subordinato alla pianificazio-ne regionale.

Di crisi in crisi la ricetta rimane immutata: continuare a costruire

Il PRG ’85-’89 è appena approvato dalla Regione quando inItalia si manifesta la crisi politica ed economica dei primi anniNovanta. Il piano è bloccato. Nessuno costruisce. L’inserimentodi aree già pubbliche all’interno dei comparti, aree che pur ri-manendo tali dovranno essere acquisite dai privati imprendito-ri, sono considerate un vero e proprio impaccio. C’è la crisi. Lariforma del Titolo V eliminerà sudditanze e lacci burocratici. Gliimprenditori accettano il principio dell’acquisto dei metri quadridi area pubblica (oltre al pagamento degli oneri) ma pretendonoun ulteriore aumento delle già cospicue volumetrie inserite nelPRG. È l’avvio della ripresa economica e del principio della pe-requazione urbanistica. Tutto il settore compreso (a nord) dallaferrovia alla Fiera è in fermento. Per aumentare il prezzo di ven-dita dei metri quadri edificabili si progettano linee metropolita-ne, tranvie e people mover. (Inoltre: aumento delle corsie nelleautostrade della tangenziale e in seguito anche un “passantenord”, tangenziale alla tangenziale). L’ondata costruttiva è in-versamente proporzionale alla diminuzione di popolazione. I co-muni limitrofi seguono il capoluogo e così gli altri comuni, dal-l’Appennino alla Bassa pianura. Un calcolo delle potenzialitàedificatorie presenti nella Provincia di Bologna – fra residui divecchi PRG e nuove quote individuate nei vari PSC (ovvero, ciòche si identifica come “gli Stati Generali della pianificazione”) -non risulta sia stato mai fatto.

La precedente espansione dell’urbanizzato, quella degli anniCinquanta e Sessanta, gli anni della “ricostruzione postbellica”,era in funzione della crescita demografica e delle nuove attivitàproduttive. Si bloccò anch’essa nei primi anni Settanta (guerra delKippur) e si risolse incrementando con risorse pubbliche la pro-duzione di alloggi “economici e popolari” spacciati come ediliziapubblica anche se di edilizia sovvenzionata (pubblica) c’era pocoe nulla. Sarà questa tipologia edile, nel decennio successivo, a in-

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crementare la richiesta di un nuovo modo di abitare. Il passaggiodall’alloggio in affitto al condominio (economico e popola-re/cooperativo) in proprietà, rappresentò un profondo migliora-mento sociale e culturale. Il transitare dal condominio alla villet-ta, a schiera, isolata o accorpata, mono o bi-familiare, alla palazzi-na in campagna o nei rilievi appenninici (seconda casa) fu facilitatodalla vendita (o affitto agli studenti) dell’alloggio in condominio.La seconda ripresa espansiva dell’urbanizzato si arena, come det-to, nei primi anni del Novecento, quando si accentuano il decre-mento e l’invecchiamento della popolazione.

Si accorciano gli intervalli fra una crisi e l’altra. Il ciclo edili-zio si riprende nell’ultimo decennio, avvio del terzo millennio;quando trionfa quella che sarà definita la “bolla edilizia ameri-cana”. L’ultima ripresa (a Bologna come altrove, in Italia), peròè diversa. Anche qui ci sono state villotte e villette, case a schie-re e alloggi in villaggi e villagetti, acquisiti con mutuo, ma l’ulti-mo “ciclo” espansivo ha avuto sostegni più forti.

Il modello dell’ultima ripresa

In sintesi, il riferimento è quello della “cartolarizzazione”. LoStato per aumentare le entrate, per denunciare minore indebi-tamento, “cartolarizza”, vende demanio pubblico. Non pocheaziende private fanno altrettanto. Si vendono anche le propriesedi come lo Stato vende i propri ministeri. L’acquirente, in ge-nere un’immobiliare, una “estate” come si usa inglesizzare, le af-fitta al venditore. Con l’affitto paga la rata del mutuo pattuitocon una banca per l’acquisto. La banca ha tutto l’interesse a ge-stire, a far proprio, il capitale delle stesse immobiliari, specie sequotate in borsa. L’aumento di valore delle azioni (della banca odell’immobiliare o del faccendiere) permette di acquisire nuovocapitale da investire, ancora in edilizia, per ottenere − in una spe-cie di catena di Sant’Antonio − altro capitale, ulteriore rialzo delvalore delle azioni, altri mutui… in un crescendo in cui anche leamministrazioni comunali credono di arricchirsi o, quanto me-no, di mantenere il bilancio in pareggio.

Concessioni edilizie, perequazioni urbanistiche, ICI, secon-de case e oneri monetizzati, alimentano le casse comunali e il li-bero mercato. Non è necessario che i fabbricati siano occupati o

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venduti o che il costo di gestione dell’urbanizzato diventi inso-stenibile, l’importante è aver trasformato il piano da strumentoregolatore dell’assetto urbano e territoriale a promotore di unosviluppo economico basato sull’edilizia. Alla rendita fondiaria(speculazione edilizia) si somma la rendita finanziaria.

L’orgia pantagruelica di occupare/cementificare il territorio

Urbanizzare tutto il territorio, agricolo o dismesso, mentre siproclama lo sviluppo sostenibile e la crescita qualificata, l’etica delmercato e l’estetica del paesaggio, equivale a privatizzare il terri-torio stesso e fa dimenticare il reale significato delle parole. Im-pedisce di affrontare le conseguenze e le incidenze negative (an-che e soprattutto economiche) di questo furor costruttivo. Alte-ra il senso della “pianificazione”. È forse opportuno ricordare ifondamenti disciplinari, la ricerca dell’ormai dimenticato biolo-go e pianificatore Patrick Geddes che dimostrò come “progres-so/sviluppo/crescita” non sono il sinonimo di “evoluzione”. An-zi. Questi termini si contrappongono. “Sviluppo” equivale “al-l’incremento nella quantità della ricchezza e nell’aumento dellapopolazione” mentre “evoluzione” è da intendere il “migliora-mento della qualità media individuale”. Senza questo migliora-mento qualitativo la crescita della ricchezza si può tradurre, cer-to, in aumento della popolazione, ma sempre secondo Geddesprovoca una rapida “degenerazione dei mezzi di sussistenza”.La moltiplicazione dei mezzi materiali “tende solo ad una mag-giore produzione di una crescita di povertà”2.

Non è smentito Geddes, neppure un secolo dopo: c’è una“connessione essenziale della povertà con lo sviluppo”. Il pro-gresso verso la povertà è una corsa verso la rovina. Geddes esem-plificava: “estrarre carbone, far funzionare macchine, per pro-durre cotone a poco prezzo, per vestire gente mal pagata, chepoi estragga altro carbone, per far funzionare altre macchine ecosì via allo scopo di espandere i mercati, non può essere un ci-clo infinito”3. Non migliora la qualità media individuale e ac-centua la sperequazione sociale.

Se si sostituisce l’estrazione di carbone con la costruzione difabbricati, mediante la vendita da parte delle amministrazionicomunali di metri cubi edificabili nei terreni ancora liberi, oltre

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alla distruzione del territorio, oltre a impoverire le casse comu-nali, bisogna chiedersi: chi ci guadagna? I profitti della vendita dimetri quadri edificabili, non pareggiano le spese di gestione cheaumentano con l’espandersi dell’urbanizzato, fino a diventareinsostenibili. Non si fa più manutenzione e il degrado aumenta.La continua urbanizzazione non può essere un ciclo perpetuo.La rendita finanziaria diventa virtuale, disancorata dalla stessaproduzione edilizia o dalle reali capacità di investimento, finisceper tradursi in un fallimento generale irreversibile.

La città e il suo territorio negli ultimi decenni sono diventati lascena di una dissipazione collettiva di risorse pubbliche e private.L’idea dello sviluppo rimane così tenacemente perseguito perché èspacciato, al pari delle auto e delle relative infrastrutture viarie, co-me pilastro della modernità e non come produzione di entropia.

Nei momenti di crisi invece di indagare sulle cause, si attendela ripresa della stessa economia che ha determinato la crisi. Sispera che tutto ritorni come prima. Pur sapendo che la terra nonè un bene riproducibile; pur sapendo che non ci sarà aumentodi popolazione; pur conoscendo le cifre dell’invenduto e dellosfitto, si continua a urbanizzare, a costruire. Magari virtualmen-te. Il mito dell’edilizia produttrice di ricchezza e benessere con-tagia tutti. A Bologna (purtroppo, lo si ripete) come altrove.

Il “piano casa” indicato dal Governo nell’aprile 2009 è statotradotto dalle Regioni con un serie di norme che in apparenzadovrebbero stabilire le modalità per ampliare e/o riconvertirel’edilizia esistente all’insegna del risparmio energetico, in realtàconsentono nuove costruzioni su terreno libero con un premio dicubatura superiore in alcuni alcune Regioni casi del 60/65% ri-spetto all’esistente.

Partecipare per conoscere. Conoscere per pianificare il territoriocome bene comune

La crisi genera lamenti. Il lamento si traduce a volte in de-nuncia che scivola in sterili polemiche fra presunti sviluppisti enostalgici conservatori. L’esigenza e l’urgenza di contribuire aprogettare un futuro alternativo per Bologna, con un particola-re riguardo alla “geografia” della società e alle sue trasformazio-ni, ai cambiamenti insediativi e culturali, al perseguimento di

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quel “miglioramento della qualità media individuale”, specchiodi una comunità in evoluzione, ignorato dagli ultimi strumentiurbanistici, può diventare riflessione per una disciplina – la pia-nificazione – in disfacimento4. Il ritorno ad una prassi in cui “co-noscenza e partecipazione” forma un supporto insostituibile nel-la costruzione di una prospettiva progettuale di assetto urbano eterritoriale. A Bologna, conoscenza e partecipazione, sono di-ventate azioni sconosciute. Gli ultimi strumenti urbanistici so-no miopi in quanto coscritti ai confini comunali e gonfi di ulte-riore espansione. Non valutano, non verificano i risultati che siotterranno se e in quanto attuati e senza aver studiato ciò che fi-nora è stato realizzato con il PRG ’85-’89.

Conoscenza e partecipazione richiedono non solo trasparen-za e capacità di ascolto (per dialogare, per poter partecipare) im-pongono di considerare l’urbano, la ex città, quale “bene pub-blico”, appartenente alla collettività. Come dovrebbero esserel’acqua, l’aria e la terra (e in particolare l’energia). Bene, in quan-to pubblico, non monetizzabile. Non appartenente all’economiadel libero mercato.

Per la prima volta (e forse non solo a Bologna) si è indagatodentro lo sprawl – il disastro – causato dall’attuazione dei PRGdegli anni Ottanta (non solo quello di Bologna, ma anche i pianidei comuni limitrofi). Cercando di capire come lo vive chi ci abi-ta, come incide la crisi sulle persone costrette a pagare un mu-tuo per un bene (la casa) il cui valore è inferiore rispetto al mo-mento della sua stipula. Come ci si aggrega in un territorio dovei servizi primari sono insufficienti e molte costruzioni sono vuo-te o semivuote. Come si sopporta il pendolarismo o, peggio, ladisoccupazione incombente in rapporto a programmi di produ-zione edilizia e/o infrastrutturale crescente. Come si abita in lo-calità marginali scelte per risparmiare sul prezzo degli alloggi purdovendo collegarsi con mezzi propri al posto di lavoro o allestrutture pubbliche o ai tanti supermercati diventati veri e pro-pri centri di consumo, anche nel consumo del senso di colletti-vità. Supermercati che contribuiscono a giustificare lo sparpa-gliamento degli insediamenti e a imporre sempre più l’uso dellapropria auto, mentre il Servizio Ferroviario Metropolitano stadiventando progetto/oggetto di antiquariato.

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La ricerca di soluzioni concrete, realizzabili se e in quanto par-tecipate, diventa occasione per riaprire un dibattito soffocato findall’inizio; occasione per tentare di limitare un disastro traduci-bile in una accentuata disgregazione sociale e in un totale annul-lamento dei rapporti di convivenza civile. Crescente processo diatomizzazione della società, sviluppo dell’urbanizzato e del mo-torizzato individuale, (causa ed effetto dello sprawl) mono cul-tura del mattone e del cemento, (infrastrutture soprattutto str-dali che favoriscono la motorizzazione privata, su gomma, quin-di congestione e inquinamento) mentre la popolazione invecchiae diminuisce. Fenomeni che possono coincidere con la fine del-la polis e della civitas.

Il passaggio da una pianificazione condivisa in quanto parte-cipata − con scelte che privilegiano il cosiddetto genius loci (l’i-dentità) al pari dei servizi sociali pubblici e il ruolo proprio del-la città; con un preciso quadro di riferimento comprensoriale,originato da uno dei primi piani intercomunali elaborati in Italia− a un Piano Strutturale “sviluppista” e accentratore, molto sce-neggiato e pochissimo supportato da idee progettuali, isolato dalterritorio circostante, privo di obiettivi se non quelli appunto direalizzare costruzioni anche negli spazi “interstiziali” salvaguar-dati nei decenni precedenti.

Bologna aveva una popolazione di poco inferiore alla metà diquella provinciale. L’esodo verso i comuni limitrofi è già avviatoe il nuovo piano regolatore, contestato all’inizio dalla Regione,ma approvato nel fatidico ’89, dimostrerà in pieno il suo falli-mento progettuale proprio con la mancata attuazione del Tra-sporto Metropolitano Ferroviario e con la costante perdita di po-polazione. La popolazione di Bologna si è ridotta a quasi un ter-zo rispetto a quella provinciale, mentre è più che raddoppiata lasuperficie urbanizzata5.

Il buon governo del territorio

Per governare il territorio la questione del rinnovamento isti-tuzionale va rimessa al centro di ogni progetto. Vanno ri-confi-gurate le fisionomie – politiche e funzionali – degli enti territo-riali. Si impone la questione del ruolo di Bologna. “Capoluogo”,epicentro della regione o “città” della “città regione”? Nell’una

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Conurbazione disgregata e sistemi locali territorialiGiuseppe Dematteis

Una mutazione epocale

Credo che per reinterpretare la città occorra fare un passo in-dietro, chiedendoci come si è venuta formando la città che ab-biamo sotto gli occhi. Si tratta di una specie di anamnesi, che do-vrebbe permetterci di capire se la città odierna è veramente ma-lata come sembra e, se così è, quali sono le sue patologie e qualile possibili cure. Adotterò a tal scopo una sequenza che partedall’osservazione geografica tradizionale del paesaggio (una “fo-tografia”) per chiedersi che cosa sta sotto queste forme visibili(una “radiografia”), fin a considerare più piani di osservazione,corrispondenti a diverse scale (una “tomografia”).

Concludendo nel 1961 la sua opera fondamentale Megalopo-lis. The Urbanized Northeastern Seabord of the United States1,Jean Gottmann, con riferimento al Nord America e all’Europaoccidentale e mediterranea, scriveva:

La struttura a nebulosa delle regioni urbane sta diventando frequentee lascia intravvedere una nuova ridistribuzione di funzioni all’interno diesse. L’uso residenziale del suolo sta guadagnando spazio in tutte le di-rezioni attorno ai vecchi nuclei congestionati. I nuclei più densamenteagglomerati non si specializzano più come prima nell’industria mani-fatturiera e nell’amministrazione. Le attività produttive spesso si spo-stano verso la periferia della città e oltre, in spazi che fin a poco fa eranoconsiderati rurali o interurbani. (p. 776)

L’interesse di questa citazione deriva dal fatto che, studiandonegli anni Cinquanta la dinamica in atto nella grande regione ur-bana degli Stati Uniti di N-E, Gottmann aveva visto sul nascerela più grande mutazione che la forma urbana ha subito a partiredalle sue origini. Quella che nei decenni successivi verrà poi ri-conosciuta in contesti geografici diversi e chiamata in vario mo-

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do: urban sprawl, periurbanizzazione, città diffusa, métapolis,ville eparpillée, edge cities ecc2.

Si tratta di una mutazione epocale perché fin verso la metà delsecolo scorso la città, pur avendo perduto la recinzione muraria,che era stata una sua caratteristica fin al XIX secolo, e avendo co-nosciuto successivamente le metamorfosi nella Coketown e neiSuburbia descritti da Lewis Mumford3, aveva conservato la formacompatta, di uno spazio edificato continuo. Le sue dimensioni era-no certamente cresciute, ma, anche in casi limite come quello del-la Grande Londra, si manteneva nel raggio di una ventina di kmdal centro. Inoltre pressoché dappertutto era rimasta la strutturamonocentrica, con una netta distinzione tra il centro dei servizi edegli affari e una più o meno vasta periferia gravitante su di esso.

Invece nella Megalopoli di Gottmann , che prefigura la “cittàdiffusa”, il tessuto urbano non è più compatto né continuo (ad-dirittura i boschi occupano il 48% degli spazi rurali che inter-vallano l’edificato). Esso è formato da una nebulosa di centri pic-coli e grandi e di edifici dispersi in nastri e piccoli nuclei lungo lestrade. Tuttavia egli ci dimostra che tutta la grande regione che vada Boston a Washington passando per New York, già negli anniCinquanta presenta “una maglia intrecciata di relazioni tra i di-versi, separati centri urbani”, che nel suo insieme riproduce, inuno spazio da 50 a 100 volte più esteso, la composizione funzio-nale che prima si poteva riscontrare in una singola grande città.Di qui il termine “megalopoli”, che è una delle principali chiavidi lettura dell’urbanizzazione recente, ma che purtroppo non èpenetrato se non superficialmente nella nostra cultura. Infattinei media viene sovente usato in modo improprio (al posto di“megacittà”) per indicare le grandi agglomerazioni monocentri-che come Città del Messico. Al contrario, per usare ancora unavivace espressione di Gottmann, la megalopoli è una “metropo-li esplosa”. Negli Stati Uniti di N-E questa struttura occupa unfronte costiero di 500 miglia e penetra per altre 200 miglia nel-l’interno. E questa esplosione figurata del vecchio modello me-tropolitano monocentrico non riguarda solo le grandi periferiesuburbane, ma anche il centro, le cui funzioni terziarie e “qua-ternarie” si trovano ora distribuite tra più centri urbani, costi-tuenti l’armatura della megalopoli: grande città senza più un uni-co centro, ma dotata di una rete di centri con diverse funzioni.

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Del destino della città di Françoise Choay e dell’utopia“rururbana” di Alberto MagnaghiMassimo Quaini

Alberto Magnaghi mi ha mandato l’ultimo libro che ha curato– l’antologia di scritti di Françoise Choay1 – con la raccomanda-zione di parlarne al fine di consolidare “ulteriormente le inter-connessioni teoriche e operative fra i nostri ambiti e le nostre pra-tiche di lavoro scientifico”. Approfitto di questa occasione perprendere sul serio la proposta. Mi sembra importante, in questomomento, riflettere sulla rilevanza che l’originale mappa scienti-fica delineata nel volume assume nella costruzione di una conce-zione allargata e più efficace della pianificazione territoriale e pae-sistica, che da parte mia cercherò di vedere in relazione al rapportocittà-campagna o meglio, per rifarmi al linguaggio della Choay, alrapporto urbanità-ruralità (piuttosto che urbano-rurale).

Per cominciare, devo riconoscere che la formula impiegata daMagnaghi ha per me un significato particolare, che intendo sot-tolineare, in quanto rende più visibile uno degli assi generatoridella mappa: la convergenza fra geografia e urbanistica. Se c’èuna caratteristica che Choay e Magnaghi, che geografi non so-no, hanno in comune sul piano dell’interdisciplina (e perché no?dell’indisciplina), questa sta nel valore riconosciuto all’approc-cio geografico, tanto che nella Presentazione del volume Magna-ghi può parlare legittimamente di “urbanisti-geografi”. Comegeografo dovrei per reciprocità parlare della figura del “geo-grafo-urbanista”, se non fosse che questa figura, ben presente ericonosciuta in Francia, non è molto frequente nell’ambiente ita-liano, dove è spesso rifiutata. In proposito voglio citare l’esempiodella Facoltà di architettura di Genova, che se ha avuto il meri-to di attribuire alla Choay la laurea honoris causa nel 2001, dopola scomparsa di Adalberto Vallega ha reso sempre più difficile laconvergenza fra geografia e discipline architettoniche e urbani-

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stiche, tanto da arrivare al punto di eliminare la geografia uma-na dall’offerta didattica, ritenendo di poter sostituire il geografocon il geologo e il sociologo.

Assumendo un’ottica meno provinciale di questa, mi pare in-teressante verificare in quale contesto Magnaghi, facendo usodell’espressione “urbanista-geografo”, ammette questa ibrida-zione. Essa emerge a proposito della costruzione di scenari stra-tegici e in particolare dell’uso di “rappresentazioni disegnate deipaesaggi futuri” a cui deve tendere il progetto di territorio: è an-che per questa via infatti che si recuperano le competenze di unsapere cartografico da sempre legato alla pratica della geografiae non sostituito dalla pratica dei GIS. Allargando la prospettivapotrei ricordare che già con Le metafore della terra − la più in-novativa definizione di geografia proposta in Italia negli anni Ot-tanta − Giuseppe Dematteis ci invitava a costruire rappresenta-zioni territoriali del presente-futuro2.

Dell’ibridazione geografia-urbanistica voglio anche rivendi-care una dimensione che vedo trascurata, ma che non è meno es-senziale e si realizza nel dare spessore storico alle figure profes-sionali alle quali intendiamo ricollegarci, riscrivendo, se neces-sario, la storia delle nostre discipline e andando controcorrente.Solo a prima vista può stupire che la Choay, con una radicale re-visione storiografica, veda nel prefetto Haussmann, se non il pro-totipo della figura del geografo-urbanista, certo l’anticipatore diun metodo che, lungi dall’esaurirsi nell’approccio globale e si-stematico ai problemi posti dalla città, si realizza soprattutto“nella relazione complessa che il prefetto si impone di instaura-re tra lo spazio locale (ambiente naturale e costruito) e il tempo”(p. 186). Infatti, Haussmann, come mostrano le sue Memorie, “èun virtuoso di quella contestualizzazione, oggi caduta in disgra-zia e in progressiva scomparsa, che spiega in parte i limiti e gliinsuccessi delle politiche urbane attuali” (p. 188).

In proposito, potrei aggiungere che non è un caso se, secondola ricostruzione della Choay, Haussmann, ovunque si trovi: neldipartimento del Var o a Parigi, “comincia rilevando lo stato deiluoghi; solca i dipartimenti, svolge egli stesso indagini diretta-mente sul campo; ogni elemento è oggetto della stessa attenzio-ne: natura e irregolarità del suolo, idrografia, flora, stabilimenti

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Il progetto della bioregione urbana policentricaAlberto Magnaghi

Dopo le conclusioni sul che fare di Giuseppe Dematteis e l’a-nalisi sui testi di Choay e miei svolta da Massimo Quaini, ritengoimportante considerare i recenti sviluppi delle “mappe di co-munità” che, nate dalle parish-maps inglesi-scozzesi, si sono svi-luppate in Italia all’interno dell’esperienza degli ecomusei e rap-presentano una forma interessante di auto-rappresentazione deivalori patrimoniali da parte di una comunità locale; una formadi geografia connessa alle pratiche territoriali, che stiamo adesempio applicando in molti comuni come strumento di cresci-ta della “coscienza di luogo” nel Piano paesaggistico territorialedella Regione Puglia.

Per l’altro tema richiamato da Quaini sugli scenari strategici di-segnati e sul loro ruolo nei processi partecipativi, rimando al vo-lume da me curato sull’argomento1. Riferirò più specificamente ilmio contributo al tema che Quaini stesso ha posto sul rapportotra urbanistica e agricoltura attraverso l’argomento che mi è statoattribuito sul progetto della bio-regione urbana policentrica.

Vorrei porre una questione a premessa: concordo con Demat-teis quando legge il territorio aspaziale di flussi e di reti nel qualei nodi della rete non sono più identificabili attraverso descrizionigeo-grafiche, e di conseguenza è necessaria una sorta di radio-grafia o tomo-grafia; in altri termini nel mondo del ciberspazio lalettura morfotipologica non riesce più a interpretare la realtà com-plessa di funzioni e relazioni globali di cui ogni luogo è crocevia.Quindi dobbiamo leggere anche in questo modo il territorio. Tut-tavia vorrei riaffermare una banalità “terrigna”, cioè che la terraha sempre la stessa dimensione, la regione padana non si è espan-sa geograficamente nei secoli mentre l’urbanizzazione contem-poranea, frutto di questa liberazione globale dai vincoli territo-

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riali di reti e flussi senza confini, ha sviluppato un’occupazione disuolo senza precedenti nella storia che ha sconvolto tutti gli equi-libri possibili fra insediamento umano e ambiente: equilibri ri-produttivi delle risorse ambientali, alimentari, equilibri sociali erelazionali, distruggendo il concetto stesso di città, di urbanità.Nonostante possiamo oggi parlare di cittadini del mondo, inrealtà la terra rischia di venire soffocata da questa conurbazionenominata con diversi ossimori, da alcuni subiti, da altri esaltati:“città de-formata”, “città diffusa”, “ville éparpillée”, “agglome-razione urbana”, “conurbazione urbana”, “rururbanizzazione”,“ville éclatée”, “sprawl urbano”, “città di mezzo”, “città infini-ta”, “città illegale”, “città-mondo” ecc. Ho aggiunto fra gli ossi-mori “città de-formata”, che è stata introdotta da Paola Bonora.Procedendo da questa definizione ho fatto una forte semplifica-zione tra città storica e urbanizzazione contemporanea perchénella mia lettura l’urbanizzazione contemporanea non è più città.

Quaini, riprendendo Choay, ci parla di “mort de la ville”; per-corso che Choay2 connota con una serie di privazioni: de-diffe-renziazione, de-corporeizzazione, de-memorizzazione, de-com-plessificazione, de-contestualizzazione, de-localizzazione e, ag-giungo io, de-territorializzazione. Dunque questi cittadini delmondo, pur attraversati da milioni di reti e flussi, rischiano, co-si anomizzati da tutti questi de, di stare molto peggio dei cittadi-ni del villaggio o della città storica. È per questo che dobbiamosviluppare anche uno sguardo critico proprio sulle nuove morfo-tipologie territoriali posturbane, che seppelliscono luoghi di vi-ta e culture materiali, identità locali.

L’ipotesi su cui siamo stati invitati a riflettere in questa occa-sione è: dalla città deformata alla neourbanità, all’alleanza di città.

Voglio proporre una precondizione per la realizzazione di que-sto difficile e utopico passaggio dalla città deformata alla neour-banità, all’alleanza di città che, riassunta in uno slogan, potrebbesuonare: senza neo-ruralità niente neo-urbanità. Senza neo-rura-lità niente neo-urbanità.

Cosa intendo dire? Che se pensiamo di risolvere il problemadella ricomposizione urbana o della ricostruzione dell’urbanità(dal momento che molti di noi sostengono che “occorre ritorna-re ad una forma di città” o almeno allo “spirito pubblico”, allo

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Landscaping the city: pratiche urbane, culture visuali, tattiche acquisitiveAngelo Turco

Qu’est-ce qu’aimer une ville ?Pierre Sansot, Poétique de la ville

Incollando un post-it giallo

Provo a parlare di uno spazio identitario chiamato città, ten-tando di ragionare sulle condizioni culturali che ne assicuranola costituzione, la coerenza e la durata. Provo a parlare, insieme,di qualcosa che ha a che fare con una globalizzazione ricondot-ta ai suoi termini elementari di intensificazione di flussi, ponen-do l’attenzione sui processi di simbolizzazione attraverso i qua-li questi flussi si fanno luoghi, e particolarmente vengono con-vertiti in luoghi urbani.

E però trattandosi di città, ed essendo molto consapevole dinon essere in grado di costruire nessun discorso compiuto su diessa, val la pena registrare qualche rapida premessa da cui muo-vono queste riflessioni. E non tanto per richiamare “fondamen-ti logici”, fonti di ispirazione o altro, ma piuttosto per evocaresentimenti, sensazioni e forse frammenti d’intuizione che an-dranno poi a proiettarsi, nelle pagine che seguono, in un post- itgiallo da appiccicare al frigorifero. Da riprendere, magari, e for-se da sviluppare.

L’Aquila anzitutto, ferita dal terremoto del 6 aprile 2009. Di làda ogni impatto emotivo, e ben oltre le retoriche che insoppor-tabilmente si intrecciano a tutti i livelli attorno a questo evento,resta la sconcertante povertà di idee sul che fare e, ciò che piùconta, sul come farlo. Come evitare che il malessere tellurico,una patologia ben nota all’Aquila, un dato costitutivo della geo-grafia abruzzese, diventi una lacerazione mortale per la territo-rialità urbana e regionale? E che dire del dilemma, una volta evi-tate le new towns, posto che ci si riesca: ri-costruire oppure ri-configurare? E se si provasse a pensare la ri-costruzione per unanuova configurazione territoriale ? Intendo: se la ricostruzione,

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che potrebbe anche essere la copia esatta di ciò che era e di ciòche gli aquilani, i nostri studenti che hanno pagato un tributo co-sì doloroso, e noi stessi abbiamo amato, se la ricostruzione, di-cevo, aprisse le porte a una nuova territorialità? E quindi, per in-trodurre qualcosa su cui dovremo discutere in appresso, un vec-chio territorio diventasse la scena familiare di un paesaggio nuo-vo e tutto da inventare?

Viriamo con un pò di immaginazione verso un altro orizzon-te. Una piccola terra ovest-africana, il Gurma; un piccolo popo-lo, i Gurmancé1. Che non vivono l’esperienza urbana, perlome-no non al modo in cui noi la viviamo, ma proprio per questo con-sentono di praticare quel distanziamento a volte necessario pervedere la foresta e riappropriarsi dell’idea che essa non è solo unassembramento di alberi. I Gurmancé dunque, che “fanno cose”e le depositano al suolo in un qualche ordine spaziale: è questoche importa qui, non tanto gli artefatti (poiemata), materiali osimbolici che siano, quanto piuttosto l’agire territoriale che li haprodotti (poiesis). Ebbene questo popolo non possiede una cul-tura visuale di tale potenza da egemonizzare le altre culture concui si concepisce e si rappresenta il mondo. È perciò che, per ca-pire la loro territorialità, occorre spostare il fuoco dell’attenzio-ne dalle ragioni della visione a quelle della parola. Lo spazio siri-costruisce secondo itinerari che invertono, in qualche modo,i procedimenti ermeneutici. L’opsis, ciò che si vede, può essereun punto di partenza. E però esso non è autoconsistente e sep-pure orienti l’interpretazione, non conduce a nessuna compren-sione di qualche spessore. Piuttosto, l’opsis è strumentale ri-spetto al logos, il pensiero che ha concepito ed ha creato, con ciò,le condizioni di possibilità dell’agire territoriale.

Nel gioco ermeneutico, è cruciale pensare fin dall’inizio l’esi-stenza di questo nesso tra opsis e logos, immaginare quest’ulti-mo come costitutivo della prima, e ricostruire la poiesis, l’attoterritoriale, come qualcosa in certa misura indipendente dai poie-mata e, talora, perfino assai lontano da essi.

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Urbs, civitas, polis: le tre facce dell’urbanoEdoardo Salzano

Per cominciare

Siamo tutti convinti che il modo in cui oggi viene trattato (nonvoglio dire governato) il territorio nel nostro paese è orribile: di-struttivo e inumano sono due attributi che mi sembrano sinte-tizzare abbastanza bene la sensazione che proviamo. Ci doman-diamo che cosa è possibile fare, quali siano i punti di partenza sucui basarsi per uscire positivamente dalla crisi: dalla crisi del ter-ritorio, che è un aspetto di una crisi più generale sulla quale dob-biamo interrogarci. Ricordando che “crisi” non significa neces-sariamente sconfitta, regressione, arretramento, catastrofe, masemplicemente rottura d’una situazione apparentemente stabile.Rottura, quindi, che può preludere a una regressione o a un pro-gresso, a un passaggio verso una situazione peggiore o migliore.

Visto che ho adoperato questa parola, “migliore”, vorrei di-chiarare subito che non sono né sono mai stato un “migliorista”.Non ritengo sufficiente correggere, migliorare, depeggiorare,mitigare meccanismi in sé perversi, e sono convinto che la svol-ta necessaria sia radicale, che debba tendere a un assetto (dellacultura, dell’economia, della società) nettamente diverso e alter-nativo rispetto a quello esistente. Un assetto da costruire gra-dualmente e pazientemente, ma verso il quale orientare ciascunodei passi che si compiono, delle azioni che si promuovono o allequali si concorre.

E poiché sono convinto anche dell’intrinseca positività del-l’uomo (del maschio e soprattutto della femmina) ho anche fi-ducia nel fatto che gli elementi positivi, quindi i germi di un pos-sibile futuro, possiamo già scorgerli nel presente se guardiamocon sufficiente attenzione a ciò che accade nella società. Natu-ralmente, togliendoci i paraocchi del pensiero corrente, che ci

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Stereotipi e Archetipi di territorioAnna Marson

Superare gli stereotipi, riscoprire gli archetipi

La maggior parte dei processi di urbanizzazione contempo-ranea1 produce esiti di elevata uniformità, per ciò che attiene al-le strutture e ai caratteri degli insediamenti, in modo indipen-dente dai luoghi fisici, dalle culture sociali, dai patrimoni storiciche ne configurano il contesto.

Il contesto, per l’appunto, non è considerato una dimensionesignificativa alla quale rapportarsi nell’introdurre nuove trasfor-mazioni, le quali sono costituite da “modelli” in serie, si tratti del-la villetta unifamiliare, del condominio a tre piani piuttosto chedel grattacielo ultimamente così in voga2. A differenza del tipo edi-lizio storico, che pur definito dalla presenza di caratteri comuni apiù edifici, è “per sua stessa natura variante, tanto da dipenderestrettamente dal tempo e dal luogo”3.

La questione parossistica è che i manufatti contemporanei,così indifferenti ai luoghi, non presentano neppure i vantaggiche altrove, in altri campi come ad esempio quello della produ-zione automobilistica, la produzione in serie ha nel tempo ga-rantito relativamente al rapporto qualità-prezzo e all’innovazio-ne tecnologica. Il “modello” in questo caso non corrisponde auna semplificazione essenziale per ottimizzare con procedure in-dustriali le tecnologie produttive e la qualità del prodotto finale,tant’è che la produzione edilizia è ancora basata su una struttu-ra di piccole e piccolissime imprese, spesso altresì non del tuttoin regola con le normative fiscali e della sicurezza, ma innanzi-tutto a una crescente ignoranza relativa ai tipi edilizi di luogo inluogo più adatti a costruire tessuti urbani.

L’innovazione consapevole dei tipi edilizi e quindi urbanisticitradizionalmente utilizzati è sostituita dall’assunzione di stereotipi

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di provenienza incerta, la cui propaganda sembra essere stata affi-data a serial televisivi globalizzati (prodotti in Brasile e venduti inEuropa e Stati Uniti, piuttosto che prodotti negli Stati Uniti e ven-duti in Sud America, e così via), spot pubblicitari, rotocalchi scan-dalistici: case unifamiliari improbabili, con tettucci vari a definireportichetti in stile tailandese, abbaini tirolesi e vetrate new En-gland, il tutto ovviamente combinato nello stesso edificio, oppuregrattacieli che imitano i loro omologhi di Manhattan o Singaporesullo sfondo o addirittura all’interno delle nostre città storiche.

Se consideriamo l’etimologia di stereotipo, piastra di metallosu cui veniva impressa un’immagine o un elemento tipograficooriginale, in modo da permetterne la duplicazione su carta, e ilsuo sinonimo cliché, termine derivato dal suono prodotto du-rante il processo di stereotipizzazione, quando la matrice colpi-va il metallo fuso, ci rendiamo conto di come gli stereotipi del-l’urbanizzazione contemporanea rappresentino gli esiti d’unprocesso innanzitutto mentale, nel quale una serie d’idee (ideo-logie) ripetute identicamente, in massa, con modifiche minime,finiscono col forgiare il senso prevalente degli attori che parte-cipano alle decisioni di trasformazione. Una volta assunti comestandard, questi stereotipi finiscono con l’influenzare anche ma-terialmente, ad esempio attraverso la componentistica edilizia diproduzione industriale, ciò che può facilmente essere costruitosenza lunghe ricerche dell’unico artigiano in grado di produrrelavori specifici su misura. Ciò richiederebbe un’analisi più ap-profondita del rapporto tra mercato e bisogni espressi dai con-sumatori, ovvero del fatto che il mercato risponda effettivamen-te ai bisogni espressi dai consumatori, o non contribuisca piut-tosto a omologarli a quando viene già prodotto o è compatibilecon la filiera produttiva già in essere4.

Gli stereotipi rinvenibili al lavoro nei processi di urbanizza-zione contemporanea sono innanzitutto quelli della città infini-ta, dell’utile assenza di confini, della molteplicità (scomposizio-ne funzionale) e irriconoscibilità dei centri, della mobilità priva-ta come libertà irrinunciabile (salvo per i migranti), della pro-prietà privata come valore da difendere dall’intrusione anzichécome bene da valorizzare attraverso la prossimità di usi colletti-vi e pubblici, dell’importanza del segno, o della firma, rappre-

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inducono a condividere il “pensiero unico” e ad accettare quel-lo che esiste per il semplice fatto che esiste, e utilizzando invecele lenti del nostro buonsenso, nutrito dei principi e delle con-vinzioni che liberamente ci siamo formati.

Critica ai miei colleghi, gli urbanisti

Vorrei partire da una critica ai miei colleghi urbanisti, poichémi sembra che nei decenni più vicini la maggior parte di loro ab-bia perso una convinzione, che alimentava il meglio della cultu-ra urbanistica non solo italiana. Mi riferisco al titolo di questomio intervento, cioè alla consapevolezza profonda del fatto chela città, l’oggetto della nostra operazione di urbanisti, è costitui-ta dall’insieme dei tre elementi rintracciabili nella sua stessa de-nominazione: la città come struttura fisica, la città come società,la città come governo.

Dimenticare la necessità di un continuo intreccio tra questi treelementi, occuparsi della città (e più largamente del mondo ur-bano) solo sul versante della sua architettura, o solo su quello del-la società che la abita, o solo su quello della politica è causa di ne-cessari fallimenti e non conduce a nessun risultato positivo. Puòsolo fornire contributi parziali (e perciò di necessità viziati) a chitenta di fare una sintesi. Da questo punto di vista vorrei citare unbrano molto bello, scritto da uno storico ed economista francese,membro dell’Assemblea legislativa alla fine del XVIII secolo, cheho trovato molti anni fa citato nella Miseria della filosofia di KarlMarx. Il suo nome è Pierre-Edouard Lemontay:

Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stes-so personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poe-ta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I no-stri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno aigiorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se conquesta sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo sirimpicciolisce1.

Penso che oggi il campo di ciascuno di noi non possa allargar-si per diventare grande come i campi che già Lemontay, due secolifa, rimpiangeva. Dobbiamo perciò cercare di ragionare insieme,di costruire poco per volta quell’”intellettuale collettivo” che ènecessario per comprendere il mondo di oggi. Perciò sono parti-

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spettica di calle delle Furlane20 evidenzia i camini come elemen-to che modula la parete formata dalle facciate, accompagnandoe proteggendo il passaggio dallo spazio pubblico della calle alprivato dell’ingresso all’abitazione.

Esattamente il contrario della lottizzazione di villette unifa-miliari che non solo interviene sul territorio con l’indifferenza diuna missione militare (vedasi l’espressiva immagine riportata aseguire21), ma afferma come assioma l’antisocialità, l’isolamento

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Per una politica delle cittàChiara Sebastiani

La dimensione politica della città: da recuperare

Esiste una teoria politica della neourbanità? Le scienze poli-tiche sono in grado di offrire a quanti si occupano di città da di-versi punti di vista – quello dell’architettura e dell’urbanistica,delle scienze geografiche e del territorio, delle scienze umane esociali – un’ulteriore prospettiva da integrare nello studio dellacittà?1 La risposta alla prima domanda è largamente negativa: ineffetti non disponiamo oggi di una vera e propria teoria politicadella città, che si innesti sulla scia degli studi di Max Weber2 de-dicati alla città occidentale come soggetto politico, o che raccol-ga suggestioni come quelle di Angelo Pichierri3 sulle analogie trail “modello anseatico” e il ruolo politico delle città nell’odiernocontesto dell’Unione Europea e in quello più generale della glo-balizzazione. E tuttavia qualcosa ha incominciato a muoversi,negli ultimi anni in questo campo: il fatto che ormai si parli cor-rentemente di una “politica estera” delle città, che si studino le“strategie internazionali” delle città D’Albergo e Lefèvre ne co-stituisce una delle principali evidenze4.

Da qui la risposta largamente positiva che merita la secondadomanda: non soltanto la teoria politica può aiutare a esplorarela condizione urbana odierna ma la stessa dimensione politicadella città rappresenta una prospettiva da recuperare, tanto perinterpretare i fenomeni urbani contemporanei quanto per go-vernarli. È in questo senso che parliamo di “politica delle città”,mettendo l’accento su un contenuto diverso da quello incorpo-rato in espressioni apparentemente sinonime, quali “politica del-la città” (quella che i francesi chiamano la politique de la ville), o“politiche urbane”. Nella prima espressione infatti la città si con-figura come oggetto di politiche pubbliche elaborate da una fon-

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te di autorità esterna (prevalentemente dallo stato o da livelli digoverno substatali di rango regionale). Nella seconda espressio-ne tali politiche si intendono prevalentemente focalizzate sul fat-to urbano come “assetto del territorio”: esse tendono così a tra-scurare le relazioni sociali, i rapporti di potere e le progettualitàche plasmano le forme urbane e ne sono a loro volta plasmati.

Con l’espressione “politica delle città” vogliamo invece in-tendere l’agire di un soggetto, o meglio l’agire di una pluralitàdifferenziata di soggetti politici, quali sono oggi – nuovamente –le città dopo che il loro status politico era pressoché scomparsocon l’avvento del moderno sistema degli stati. Ricordiamo cheal soggetto politico per eccellenza della modernità – lo stato –vengono attribuite tre dimensioni costitutive (tre elementi “de-finitori”): quella del territorio, quella della popolazione e quelladella sovranità. Ebbene, possiamo oggi concettualizzare l’ideadi città a partire dalle medesime dimensioni. Le città infatti, intutta Europa e in buona parte del mondo, intrattengono con ilproprio territorio una relazione politica (non meramente ammi-nistrativa) basata sulla rappresentanza elettiva; hanno il potere diconferire alla propria popolazione degli statuti di cittadinanzadi tenore politico (in particolare in materia di partecipazione);dispongono infine – se non della “sovranità” – quantomeno del-la capacità di configurarsi come attore politico unitario in unaserie di relazioni orizzontali e verticali di cooperazione e com-petizione con altre istituzioni e altri soggetti politici.

Ma la teoria politica individua altresì, accanto alla dimensio-ne strutturale del politico, una dimensione dell’agire politico.Questa viene intesa in primo luogo – e oggi prevalentemente –come modalità di esercizio del potere e in particolare dell’azionedi governo. L’attenzione per questa dimensione, non riducibilealla pura impalcatura delle architetture istituzionali formali, è re-sa evidente dalla recente importazione (e dal successo financheeccessivo) del concetto anglosassone di governance per analizza-re e interpretare il governo delle città5. Per quanto infatti il con-cetto di governance indichi l’azione di governo in generale, è sta-to proprio in riferimento al governo urbano che il termine ha tro-vato la sua maggiore diffusione. È opportuno tuttavia ricordareche l’agire politico è stato anche inteso, nella Grecia classica rap-

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Passaggio a nord-ovest. Alla ricerca di radici e ragioniper co-progettare con gli abitantiMicaela Deriu

Ancora una voltami sento

perifericacome quei quartierialdilà del finestrino

spaesati.Oltre i luoghi di me

che dico mieinell’uniformità di strade

mi perdo.[…]1

Raffaella Faggioli

Avete mai chiesto a un pianificatore interattivo “come va?”Le risposte che rischiereste di sentire potrebbero trasmettervisenso di frustrazione, insoddisfazione, senso di inutilità e fatica.Eppure il nostro pianificatore continua ad attivarsi tra laborato-ri partecipativi, forum, outrech o mille altre attività che lo vedo-no coinvolto direttamente nel lavoro con gli abitanti. Se insiste-rete con la curiosità sul suo operato potrebbe anche arrivare ilgiorno in cui vi dirà che di partecipazione non “ne voglio più sa-pere”. Eppure non sarà così. Una curiosità legittima anima il mo-desto intento di questo capitolo nel cercare di intuirne i perché.

Se avete frequentato i convegni in cui si discutono le esperien-ze di partecipazione, avrete forse condiviso alcune delle sensa-zioni e delle perplessità che ritornano nell’umore complicato delpianificatore interattivo di cui sopra. Se si va oltre alle retoriche eall’enfasi comunicativa, in particolare quando i singoli casi sonopresentati dalla pubblica amministrazione, gli esiti concreti rag-giunti possono apparire spesso poca cosa se messi in relazionecon le energie e l’impegno dispiegati. Ma l’intento di avviare nuo-ve esperienze è comune e, fortunatamente, caparbio. Ancoraquindi pare legittimo interrogarsi sui perché di questa insistenza.

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Nel frattempo la letteratura accademica che pone al centro del-le proprie riflessioni il coinvolgimento degli abitanti nella pro-gettazione della città e del territorio ha prodotto importanti teo-rie, nutrite argomentazioni e significative implicazioni grazie alleriflessioni di innumerevoli autori. Tutti2 colpevoli nel ricordare alpianificatore interattivo che bisogna lavorarci con gli abitanti. Ènecessario, indispensabile. Allora cercheremo di intuire i perché.

Sperando di non scoprire alla fine di essere anche noi dentroal set di Truman Show.

Attraverso una scelta orientata e parziale, e con il solo obiet-tivo di tratteggiare le linee di fondo di un quadro d’insieme benpiù ampio, ci apprestiamo ad estrapolare dalla letteratura disci-plinare riferimenti teorici, autori e pratiche di pianificazionedando voce ad approfondimenti e visioni anche differenziate.Non ci si aspetti dunque una “topografia disciplinare”, quantopiuttosto un caleidoscopio di suggestioni dinamiche, a volte per-sistenti e a tratti sfuggenti, con brevi incursioni in aeree extradi-sciplinari dalle quali attingere spunti fecondi e attuali nel tratta-mento dei temi e delle questioni interconnesse alla progettazio-ne partecipata. Nell’assumere come dato di contesto lo stato dicrisi di efficacia delle pratiche disciplinari nel trattamento dellequestioni urbane territoriali complesse e nella produzione di po-litiche capaci di rispondere ai bisogni dei destinatari3, si è prefe-rito utilizzare quale chiave di lettura la dimensione delle prati-che con l’intento di riprendere alcune suggestioni dai pionieridel passato utili a rinnovare il discorso comune sul tema del coin-volgimento degli abitanti nella progettazione.

Lo sguardo rivolto alla concretezza delle pratiche assume il con-cetto di multidimensionalità della pianificazione quale insieme in-terconnesso di pratiche sociali di diversa natura, i cui confini van-no definendosi all’interno di un campo debolmente strutturatonella relazione tra pratiche diverse4. È a partire quindi dalla debo-lezza di strutturazione entro cui si riconoscono pluralità di azioni,saperi e soggetti che assume rilevanza la dimensione processualeattraverso la quale si articolano e strutturano le pratiche la cui ri-definizione di senso e confini avviene tramite il processo stesso.“Infatti − come ricorda Pasqui − non esistono pratiche pure. L’a-spetto tecnico della pianificazione è sempre sociale, e viceversa.

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Reinventare la campagna, a cominciare dal paesaggioRoberta Borghesi

Il paesaggio è un concetto polisemico, capace di comunicare lacomplessità del reale in una rappresentazione intuitiva, accessi-bile attraverso i sensi, benché non univoca. Se questo è semprevero in generale per le rappresentazioni territoriali, quando si par-la di paesaggio l’influenza del soggetto è forse ancora maggiore,poiché si entra nel mondo della percezione. Volendosi occuparedi paesaggio agrario e di territorio rurale, quindi, con l’intento diosservare i processi di territorializzazione, è inevitabile affronta-re l’argomento da un punto di vista epistemologico. Il tema delpaesaggio è centrale nella tradizione degli studi geografici e, piùdi recente, è diventato il campo specifico di nuove discipline chese ne occupano in maniera specifica, come l’architettura e l’eco-logia del paesaggio, così come la pianificazione territoriale1. An-che l’Unione Europea, inoltre ha evidenziato l’importanza del te-ma, attraverso la Convenzione Europea sul Paesaggio, recepitain Italia dal Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio2.

La prospettiva che qui presentiamo si muove nella cornice del-l’approccio territorialista, che considera il territorio come “siste-ma vivente ad alta complessità”, come risultato di un processostorico di coevoluzione tra ambiente e società insediata. Il com-pito del ricercatore, in quest’ottica, è quello di individuare le ca-ratteristiche del territorio che ne garantiscono l’equilibrio, in ter-mini ecologici, sociali ed economici (“invarianti strutturali”)3.Prima di affrontare il tema dell’agricoltura e del paesaggio rura-le, dunque, tracciamo un percorso attraverso l’ampia letteraturadi riferimento, per arrivare a proporre un’interpretazione di pae-saggio capace di immaginare nuovi scenari per il contesto rurale4.

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Origine del concetto di paesaggio

Il concetto di paesaggio è relativamente recente, compare in-torno al Cinquecento, frutto della mentalità rinascimentale e delpensiero moderno. Non esiste, infatti, una concezione di pae-saggio nelle culture strettamente interconnesse con i cicli natu-rali, com’era anche la società europea fino al Medioevo, ma que-sta si afferma insieme con una visione dell’essere umano e dellasocietà più indipendente dal mondo naturale. La filosofia e le ar-ti del Rinascimento esprimono una rappresentazione dell’essereumano come soggetto autonomo rispetto alla natura, in grado diosservarla in modo distaccato e gestirla attraverso la tecnica, co-me testimonia anche la nascita, proprio in questo periodo, dellaprospettiva lineare. Nel caso specifico dell’Italia, Piero Campo-resi, associa la nascita del paesaggio non alla contemplazione deiviaggiatori, intellettuali e artisti dell’Ottocento, ma all’attivitàmanuale degli artigiani che per secoli l’hanno costruito sapien-temente con il loro lavoro. L’autore ricorda come i primi sguar-di sul paese affondino le radici nella sua composizione materica,nelle rocce, nei minerali, nell’arte del ferro e degli scalpellini, neilavori per gestire l’idrografia, in un’epoca in cui gli stessi pittorierano profondi conoscitori di terre, pigmenti e minerali, in unostretto legame con la materia, con la terra5.

Camporesi descrive un quadro ricco di particolari in cui pren-de vita tutta una schiera rumorosa di uomini industriosi, un am-biente vivo e pulsante in cui la materia si trasforma costante-mente, come in un grande laboratorio all’aria aperta:

Sembra che lo Stivale apparisse, più che un “Bel Paese”, una grandeofficina di industriosi artigiani, una terra di mastri, di artieri, di mer-canti, di banchieri, di marinai, di ingegneri, di architetti, di zappatori,di ortolani, piena di laboratori, filande, mulini d’ogni genere, ferriere,miniere, di campi ben coltivati, di orti e giardini ammirevoli: più che unpaese di artisti dediti al culto del bello, un grande cantiere di “macchi-ne”, di gnomi operosi6.

La concezione estetica del paesaggio, secondo l’autore, appa-re secondaria rispetto a uno sguardo sui luoghi di carattere pret-tamente pratico, capace di valutare le risorse utili ai fini della so-pravvivenza.

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Confronto

a più voci disciplinari

per leggere l’orribile sprowl

della postmodernità urbana

e per tracciare percorsi

di progettuale rigenerazione “umana”

di comunità e di paesaggio

questo libro

viene stampato

nel carattere Simoncini Garamond

su carta Arcoprint delle cartiere Fedrigoni

dalla tipografia Sograte di Città di Castello

per conto di Diabasis

nell’ottobre dell’anno

duemila

nove

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