7
12/11/10 22.15 CredereOggi - Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico Pagina 1 di 7 http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32 CREDEREOggi 112 (lug/ago 1999) PER UNA SPIRITUALITÀ DEL CONSUMO E DELLA SODDISFAZIONE. di Lilia Sebastiani Un’impressione di partenza, che un rapido controllo ha confermato, è che il consumo non rientra fra i temi di cui la morale è solita occuparsi. La voce «consumo» non figura né in dizionari teologici né in repertori tematici e indici analitici. La voce «consumismo» sì, invece. Ma sappiamo che il consumismo sta al consumo più o meno come la violenza sta all’affermazione di sé, cioè come una deviazione che nasce dalla paura e dal senso di «non farcela». 1. Siamo eredi di un pessimismo dualista Il fatto che venga in qualche modo tematizzato in sede teologica il consumismo (in quanto atteggiamento «peccaminoso», o comunque reprensibile: se il tema è piuttosto moderno, l’angolatura prospettica è antica) e non il consumo, quasi che quest’ultimo fosse solo un concetto socio-economico da lasciare alla riflessione di chi è tecnicamente esperto in materia, riflette quantomeno l’eredità, se non l’effettiva sopravvivenza, di un approccio alle realtà terrene che è negativo e sottilmente manicheo. Un approccio, sottolineiamo, che quand’anche nei singoli si fosse fondato su presupposti ascetici di autentica qualità e di temperie spirituale altissima, non risultava poi spiritualmente fecondo nei risultati a lungo termine. Trasmetteva infatti l’idea che «spiritualmente» ci si potesse interessare solo al rifiuto e al disprezzo dei beni, ovvero che trattare i beni terreni fosse di per sé cosa anti-spirituale. In questo modo però si consegnavano i beni della terra (che dopotutto nessuno, all’infuori delle correnti rigoriste intransigenti, sosteneva si dovessero radicalmente abbandonare o distruggere) alla più dichiarata, irredimibile profanità. E poiché di fatto solo una ristrettissima minoranza – anche fra coloro che effettuavano una scelta cristiana di prima linea e a tempo pieno, fosse pure scelta di sacerdozio o di vita religiosa – giungeva al rifiuto totale dei beni, nel concreto del vivere cristiano si finiva con l’elaborare un’etica rassegnata, perbenista, accomodante, acriticamente partecipe e complice dei criteri mondani e dell’ingiustizia; una vera etica della mediocrità e dello spirito piccolo-borghese, in base alla quale ancor oggi il buon cristiano in sostanza si rapporta con i beni della terra al modo di tutti, cercando di evitare le azioni disoneste esplicite e quantificabili, come il furto o l’usura (ma questa elementare esigenza di onestà non è certo esclusiva del cristianesimo), dividendo l’esistenza in due categorie assai poco comunicanti, cose-per-il- cielo e cose-per-la-terra, solo salvando un po’ la faccia, è il caso di dirlo, per mezzo di qualche elemosina. Ma si sa che di solito l’elemosina – anche prescindendo qui dal dubbio, oggi sempre più stringente, se costituisca non già un mezzo valido di risoluzione (tutti sappiamo che non lo è ), ma un modo umano di rapportarsi ai problemi dei più poveri – significa dare alcune briciole del tutto inessenziali dei propri beni privati, allo scopo di tacitare la coscienza o di disfarsi garbatamente dell’importuno accattone; che si comunque oggi si preferirebbe non incontrare, onde illudersi che non esista. Tornando all’atteggiamento tradizionale, restava aperto il problema del rapporto giusto con le cose del mondo. «Fuggirle» era il primo suggerimento degli asceti di professione rivolto agli altri che aspiravano ad essere tali. Ma era ovvio che non tutti potevano farlo. E per secoli l’ascesi abitualmente proposta a quelli che vivevano nel mondo è stata una copia molto sbiadita, ridotta e banalizzata, dell’ascesi «professionale». Così a quelli che dovevano restare nel mondo venivano proposte due vie. L’una era quella della mortificazione privata e segreta, quantunque in genere nota a tutti (classico esempio, caro agli agiografi, il cilicio indossato sotto le vesti, magari lussuose per obbligo di stato): in molti casi la mortificazione rendeva la vita squallida e triste e soprattutto, praticata con lo scopo individualistico e un po’ egoista di acquistare meriti, rendeva implicitamente mercantile il rapporto con Dio. La seconda, abbinata o no alla precedente, era quella del cosiddetto «distacco spirituale» dai beni: che risulta ancor meno simpatica, per il sottile sapore di ipocrisia e perché elaborata allo scopo di rendere la proposta cristiana digeribile per le classi alte (le uniche, cioè, che potessero venire interessate, in passato, da problemi di «consumo» e di «soddisfazione», quale che fosse la terminologia in uso). Infatti, nella comprensione più volgare e diffusa, «spirituale» viene recepito non tanto in rapporto allo Spirito, quanto

Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico della rivista Credereoggi. Luglio-Agosto 1999

Citation preview

Page 1: Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione

12/11/10 22.15CredereOggi - Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico

Pagina 1 di 7http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32

CREDEREOggi 112 (lug/ago 1999)

PER UNA SPIRITUALITÀ DEL CONSUMO E DELLA SODDISFAZIONE.di Lilia Sebastiani

Un’impressione di partenza, che un rapido controllo ha confermato, è che il consumo non rientra fra itemi di cui la morale è solita occuparsi. La voce «consumo» non figura né in dizionari teologici né inrepertori tematici e indici analitici. La voce «consumismo» sì, invece. Ma sappiamo che il consumismosta al consumo più o meno come la violenza sta all’affermazione di sé, cioè come una deviazione chenasce dalla paura e dal senso di «non farcela».

1. Siamo eredi di un pessimismo dualista

Il fatto che venga in qualche modo tematizzato in sede teologica il consumismo (in quantoatteggiamento «peccaminoso», o comunque reprensibile: se il tema è piuttosto moderno, l’angolaturaprospettica è antica) e non il consumo, quasi che quest’ultimo fosse solo un concetto socio-economicoda lasciare alla riflessione di chi è tecnicamente esperto in materia, riflette quantomeno l’eredità, se nonl’effettiva sopravvivenza, di un approccio alle realtà terrene che è negativo e sottilmente manicheo.

Un approccio, sottolineiamo, che quand’anche nei singoli si fosse fondato su presupposti ascetici diautentica qualità e di temperie spirituale altissima, non risultava poi spiritualmente fecondo nei risultatia lungo termine. Trasmetteva infatti l’idea che «spiritualmente» ci si potesse interessare solo al rifiuto eal disprezzo dei beni, ovvero che trattare i beni terreni fosse di per sé cosa anti-spirituale. In questomodo però si consegnavano i beni della terra (che dopotutto nessuno, all’infuori delle correnti rigoristeintransigenti, sosteneva si dovessero radicalmente abbandonare o distruggere) alla più dichiarata,irredimibile profanità.

E poiché di fatto solo una ristrettissima minoranza – anche fra coloro che effettuavano una sceltacristiana di prima linea e a tempo pieno, fosse pure scelta di sacerdozio o di vita religiosa – giungeva alrifiuto totale dei beni, nel concreto del vivere cristiano si finiva con l’elaborare un’etica rassegnata,perbenista, accomodante, acriticamente partecipe e complice dei criteri mondani e dell’ingiustizia; unavera etica della mediocrità e dello spirito piccolo-borghese, in base alla quale ancor oggi il buon cristianoin sostanza si rapporta con i beni della terra al modo di tutti, cercando di evitare le azioni disonesteesplicite e quantificabili, come il furto o l’usura (ma questa elementare esigenza di onestà non è certoesclusiva del cristianesimo), dividendo l’esistenza in due categorie assai poco comunicanti, cose-per-il-cielo e cose-per-la-terra, solo salvando un po’ la faccia, è il caso di dirlo, per mezzo di qualcheelemosina.

Ma si sa che di solito l’elemosina – anche prescindendo qui dal dubbio, oggi sempre più stringente, secostituisca non già un mezzo valido di risoluzione (tutti sappiamo che non lo è), ma un modo umano dirapportarsi ai problemi dei più poveri – significa dare alcune briciole del tutto inessenziali dei propri beniprivati, allo scopo di tacitare la coscienza o di disfarsi garbatamente dell’importuno accattone; che sicomunque oggi si preferirebbe non incontrare, onde illudersi che non esista.

Tornando all’atteggiamento tradizionale, restava aperto il problema del rapporto giusto con le cose delmondo. «Fuggirle» era il primo suggerimento degli asceti di professione rivolto agli altri che aspiravanoad essere tali. Ma era ovvio che non tutti potevano farlo. E per secoli l’ascesi abitualmente proposta aquelli che vivevano nel mondo è stata una copia molto sbiadita, ridotta e banalizzata, dell’ascesi«professionale». Così a quelli che dovevano restare nel mondo venivano proposte due vie. L’una eraquella della mortificazione privata e segreta, quantunque in genere nota a tutti (classico esempio, caroagli agiografi, il cilicio indossato sotto le vesti, magari lussuose per obbligo di stato): in molti casi lamortificazione rendeva la vita squallida e triste e soprattutto, praticata con lo scopo individualistico e unpo’ egoista di acquistare meriti, rendeva implicitamente mercantile il rapporto con Dio. La seconda,abbinata o no alla precedente, era quella del cosiddetto «distacco spirituale» dai beni: che risulta ancormeno simpatica, per il sottile sapore di ipocrisia e perché elaborata allo scopo di rendere la propostacristiana digeribile per le classi alte (le uniche, cioè, che potessero venire interessate, in passato, daproblemi di «consumo» e di «soddisfazione», quale che fosse la terminologia in uso). Infatti, nellacomprensione più volgare e diffusa, «spirituale» viene recepito non tanto in rapporto allo Spirito, quanto

Page 2: Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione

12/11/10 22.15CredereOggi - Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico

Pagina 2 di 7http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32

come sinonimo di non-concreto. Il distacco spirituale spostava tutto il problema nell’interiorità delsingolo – uno spazio di solito ben poco visibile e poco controllabile -, lasciando sopravvivere ognisperequazione sociale e lasciando teologicamente irrisolto il problema delle cose e dei valori terreni ingenere.

2. La fuga nel non-consumo

Anche il rifiuto radicale dei beni, l’autospoliazione, oggi non sembra proponibile nelle forme esteriori delpassato. Affermare questo può dispiacerci da un punto di vista ideale e romantico, ma è così. Occorresottolineare che si tratta di una riflessione riferita al momento presente, che può non valere affatto peraltre epoche[1]. Anche i segni non possono venir decontestualizzati.

Oggi è evidente che se, per assurdo, tutti operassero una scelta di questo genere, ne deriverebbe iltracollo immediato del mondo occidentale, anzi del mondo intero, considerando i molteplici vincoli siaeconomici sia politici che collegano tra loro i fattori economici nei vari paesi. Non occorre essere espertidi pianificazione economica per intuirlo. Pensiamo alle innumerevoli attività che si estinguerebbero odovrebbero adattarsi a uno scadimento qualitativo grave e paralizzante, ai milioni e milioni didisoccupati, alla perdita in termini di bellezza e di stimoli a creare; e queste certo non sono le unicheconseguenze, solo le prime che si affacciano al pensiero.

Ma, si obietta, ciò non può accadere, è un’ipotesi assurda! Sì, certo, l’ideale della spoliazione, se proprionon è sogno, è assolutamente elitario e si fonda sulla certezza previa che comunque in ogni tempopotrebbe essere solo una ristrettissima minoranza socialmente ininfluente a compiere questa scelta,come segno profetico. Quello che qui mettiamo in dubbio è proprio che – oggi – si tratti di un segnoprofetico. Crediamo che il segno profetico indichi una meta idealmente proponibile a tutti, per realizzareun mondo migliore. Questa scelta di vita, per definizione, non può essere proposta a tutti.

E se i migliori, cioè quelli che tendono a una vera pneumatizzazione del loro vivere nel mondo,attuassero un rifiuto totale rispetto ai beni della terra, i quali comunque resterebbero, chi resterebbe agestirli? Quelli che escludono lo spirito dalle proprie considerazioni, quelli che sono schiavi della piùgretta logica terrestre, quelli che confondono l’amore per il bello con la volgarità del consumismo, e ilgusto di vivere con l’esibizione di certi simboli di ricchezza?

Insomma oggi è realmente una scelta spirituale la fuga dell’«anima bella» fuori della civiltàcompromessa con il fattore-denaro? Anche ammettendo che quest’anima (singola) trovi una sua felicitàe realizzazione nella forma di vita extra-economica che sceglie per sé, vorremmo chiederci: una vitaextra-economica non è anche, in qualche misura, extra-sociale? E può esserci una sceltaautenticamente spirituale senza solidarietà?

Forse oggi l’anima bella è soprattutto quella che accetta il confronto con le cose del mondo. Che accettadi «sporcarsi le mani», si diceva volentieri fino a qualche anno fa; ma la prospettiva sottintesa non cisembra soddisfacente, anche perché contiene sempre un implicito giudizio negativo (mondo=sporco). La scelta non è quella di sporcarsi le mani o il cuore, ma di purificare il mondo fino a renderlo capace di«trasparenza», fino a rendere leggibile in esso il progetto di Dio.

Occorre dunque anche riconciliarsi con i beni, con le cose: non per dimenticarsi in esse, non peridentificarsi con il mondo, non per smarrire la propria innata «verticalità», ma per rendere la logica dellaRedenzione sempre più riconoscibile e operante in tutti gli ambiti del vivere terreno.

3. E lo spirito delle Beatitudini?

A questo punto è inevitabile che affiori un interrogativo: ciò può conciliarsi in un modo non«conciliante», insomma senza compromessi, con lo spirito delle Beatitudini? Senza svuotarle di senso,senza renderle innocue, e anche senza demonizzare le cose?

Il problema si pone in qualche modo fin dalle pagine stesse dei Vangeli. Pensiamo alla duplice vestedella prima beatitudine – appunto quella sulla povertà – nei vangeli di Matteo e di Luca.

Noi riteniamo che essere poveri significhi essere liberi rispetto alle cose: cioè, non dipendere da esse enon temerle. Infatti temerle sarebbe sempre un modo eminentemente negativo di dipendere da esse.

Solo quando si sia liberi rispetto alle cose si è in grado di umanizzarle, cioè di inserirle all’interno di unprogetto di vita globalmente umano, e di «trans-significarle» rendendole un mezzo di crescita comune e

Page 3: Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione

12/11/10 22.15CredereOggi - Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico

Pagina 3 di 7http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32

di comunione con gli altri e con Dio.

Questo rapporto armonioso con le cose richiede di non ricercare per sé i beni della terra in misurasuperiore a quanto richiesto per un’effettiva umanizzazione della propria esistenza (se l’entusiasmo perle cose belle, utili e significative diventa una dissennata vertigine dell’accumulo, le cose diventano droga,vengono usate per anestetizzarsi rispetto ad altre più profonde carenze e il significato umanizzante delconsumo si perde). Richiede anche di non disinteressarsi per malinteso angelismo delle ricchezze dellaterra, ma d’impegnarsi attivamente per la loro distribuzione secondo giustizia e la loro destinazioneuniversale.

È anche il caso di sottolineare che consumo e soddisfazione non escludono la semplicità, anzi larichiedono e la promuovono. Un economista che poteva essere anche molto «umanista», E.F.Schumacher, in un’opera degli anni Settanta, Piccolo è bello (Small is Beautiful), che dopo un quarto disecolo svela ancora una piena validità nei presupposti e nelle proposte, affermava che economia epolitica mondiale camminano verso la catastrofe, a meno che non si torni a considerare la semplicitàcome un modo per scoprire la bellezza.

4. Desiderare le cose

Crediamo che l’apprezzamento delle cose belle e il desiderio – si intende desiderio umano ed equilibrato– di possederle non sia un male, purché non diventi un’aspirazione assoluta e fine a se stessa, purchénon scada in idolatria. Ci sembra essenziale sottolineare: desiderio umano. Infatti forse la chiave delrapporto buono e redento con le cose risiede nella loro destinazione umana e nella progressivaumanizzazione non già delle cose, degli oggetti materialmente intesi ma delle relazioni d’uso e dellefinalità delle cose stesse. Cioè, dei loro rapporti con la sfera umana, con la vita e l’attività umana chepuò esserne migliorata e intensificata, nell’efficienza e nel senso, il che è molto prossimo al dire«avvalorata».

Naturalmente – occorre ripeterlo? – al centro si trova sempre la persona umana, con la suaintenzionalità, la sua attività e le sue relazioni umane, e non già le cose. Nel momento in cui le cose dastrumento diventassero scopo – e questo succede quando l’umanità del contesto, umanità in sensosingolo e in senso collettivo, è carente e inconsapevole – nessuna valenza spirituale si rende possibile.Anzi neppure vi è più consumo: non si consumano le cose, piuttosto se ne viene consumati. Non vi èpiù «soddisfazione», umanamente intesa, perché il bisogno patologico di cose genera insoddisfazionepermanente.

Anche in questo ambito, insomma, è il caso di distinguere il desiderio – in sé non cattivo, anzi buono inquanto è indice di slancio vitale e premessa dunque alla stessa capacità di ascendere con lo spirito – e ildesiderio egoistico e disordinato (disordinato quanto alle pulsioni interne da cui muove e quanto ai fruttianti-umani che genera), a cui potremmo riservare il termine tradizionale: concupiscenza.

Abbiamo già accennato che la scelta radicale profetica non è più quella di fuggire la realtà umana nellasua complessità, ma di restarvi dentro con spirito redento e di farsi irradiazione vivente della novità delVangelo. Allo stesso modo si potrebbe dire che l’ascesi giusta per il nostro tempo (sarebbe infatti deltutto sbagliato, a nostro parere, affermare che il tempo dell’ascesi sia passato) non è più quella volta a«escludere» spazi sempre più consistenti del vivere umano; ovvero, per usare una similitudine botanica,a tagliare rami il più possibile, allo scopo di lasciare spazio e nutrimento a quell’unico ramo che si èdeciso di far vivere; una potatura così esasperata rischia di ridurre la pianta, non per nulla simbolo divita, a un tronco spoglio, anche forte, ma informe, povero e triste, forse nemmeno più in grado disimboleggiare la vita. Secondo noi l’ascesi può essere anche assunzione progressiva di tutte ledimensioni del proprio vivere: per «unificarle», certo, ma non nel senso di ridurle a uno, attraversol’esclusione di tutto il resto, bensì di armonizzare trasfigurando, fino a rendere la complessità storica delvivere terreno omogenea con la logica della Redenzione.

5. Rifiutiamo una morale «accomodante»

Non vorremmo proprio che quanto stiamo tentando di dire sembrasse una facile benedizione e unacomoda legittimazione degli attuali stili di vita dell’occidente cosiddetto evoluto. A nostro parere le lineeetiche implicite in queste considerazioni – affrontate nella giusta luce – sono estremamenteimpegnative, forse più di quelle che scaturivano dall’ideale ascetico tradizionale della rinuncia,dell’autospoliazione.

In primo luogo, perché accettare quella prospettiva richiedeva certo il coraggio iniziale di dire «no», di

Page 4: Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione

12/11/10 22.15CredereOggi - Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico

Pagina 4 di 7http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32

dire» basta» allo stile di vita normale o agiato, di accettare privazioni, e poi il coraggio di perseverarenel proposito (cosa non poi difficilissima, con il sostegno di un forte ideale); ma non richiedeva lafantasia creatrice di inventare giorno per giorno una vita redenta a contatto con le cose del mondo, anzidi redimere le realtà terrene. In secondo luogo, perché la prospettiva ascetica rigorista restava insostanza un affare privato o di pochi intimi, dell’élite che condivideva lo stesso ideale. E questaomogeneità, spesso accresciuta da una forma di vita ristretta e separata, era sufficiente a garantire ilnecessario sostegno anche psicologico.

Chi optava per l’autospoliazione non si poneva in sostanza il problema degli altri, ricchi o poveri chefossero; né dei ricchi, che rimanevano tali, né dei veri poveri che rimanevano ugualmente tali, confortatiin ben scarsa misura dal fatto che un non-povero, per ragioni tutto sommato poco comprensibili,potesse decidere di vivere come loro. L’autospoliazione poteva essere un gesto profetico e un gesto dialtissima libertà ma, proprio in quanto tale, sembra coincidere con la povertà solo materialmente. Forse,se avessero posseduto le risorse intellettuali e verbali necessarie a mettere in parole il loro scetticismo,molti «veri poveri» avrebbero obiettato che la prima caratteristica della povertà vera è quella di esseresubìta, di essere un limite alla libertà; e che forse non può chiamarsi povertà uno stato che si sceglie,quand’anche fosse caratterizzato da privazioni durissime.

Il fatto è che tutto il dibattito sulla povertà nel passato e nel presente rispecchia questioni che i poverinon hanno contribuito a determinare e in cui tuttora non hanno parte a rispondere.

E anche se qualcuno di quelli che sceglievano di rinunciare a tutto applicava alla lettera l’invitoevangelico «Vendi tutto ciò che hai e dàllo ai poveri», che succedeva? Che qualcuno acquistava (el’acquirente era o diventava un «possidente», o un «ricco», in tal modo rafforzando una situazionepotenzialmente antispirituale), e il ricavato distribuito ai poveri poteva al massimo migliorare – diquanto? – le condizioni di alcuni poveri, ma non certo risolvere il problema della povertà, non eliminarel’ingiustizia, non attuare una giusta divisione dei beni...

Sappiamo che perfino le antitesi salvifiche del Magnificat funzionano bene solo nella loro paradossalità,per esprimere l’elemento dinamico e trasformatore nella misericordia di Dio fedele per sempre; vengonolimitate talvolta fin quasi alla mancanza di senso dall’interpretazione letteralista e moralista. Quipensiamo in particolare all’ultima: «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote»(Lc 1,53). Che significa, alla lettera? Solo che i poveri sono diventati ricchi e i ricchi poveri? A parte ilfatto che ciò non sembra molto confermato dalla realtà osservabile, che cosa succederebbe poi? Siccomechiaramente lo stato del «povero» nella spiritualità intertestamentaria risulta il più coerente conl’apertura al Signore, sembra ben strano il premio concesso ai poveri, secondo questa lettura meccanica.Se prendiamo sul serio il Magnificat, Dio dovrebbe intervenire subito un’altra volta a rovesciare di nuovole posizioni; per cui gli ex-ricchi diventati poveri dovrebbero essere ricolmati di beni e gli ex-poveridiventati ricchi (con tutto ciò che questo significa nella Scrittura: quindi anche potenti, superbi, ecc.)dovrebbero restare a mani vuote, e così via all’infinito, scambiandosi continuamente di posto, ma senzache nulla cambi.

6. Il bello non è «un lusso»

Considerare il bello come qualcosa di supererogatorio, irrilevante ai fini del discorso morale, «significarendere la vita miserabile, squallida, volgare, arida» (Häring). L’esperienza del bello è un senso gioiosodi espansione, di pienezza di vita, di armonia, a cui la persona umana si apre con tutto intero il proprioessere; non esperienza di qualcosa di aggiunto al vero e al bene, ma esperienza di una totalità. Qui sitrova la chiave della rilevanza etica del bello. Per un credente il bello dovrebbe avere una risonanza piùprofonda, proprio in quanto evoca in modo più immediato l’apertura trascendente della persona umana.Diciamo «il bello» solo perché è un concetto che, sia pure con accezione in parte diversa, ha già un suodiritto di cittadinanza nella riflessione teologica (il bello riflette la gloria di Dio; è una dimensione dellarivelazione di Dio, è una via di approccio alla sfera di esistenza di Dio). Ma lo stesso potrebbe dirsi delconsumo e della soddisfazione ove siano realizzati con caratteri autenticamente personali e solidali:innalzano il livello dell’esistenza, umanizzano le cose, approfondiscono l’esperienza de senso, aiutano ilrapporto con Dio. Le cose belle, l’armonia, la felicità, la pienezza di vita, possiedono in sé una maggiorecongruità con la salvezza.

Non è una riflessione facile, soprattutto sul piano delle applicazioni, perché si trova ostacolo, oltre chenel tradizionale pessimismo cattolico, anche in quello protestante. Per esempio, Rudolf Bultmann affermanella sua opera Glauben und Verstehen (vol. II, p.137 dell’edizione tedesca)che «l’idea del bello non hanessun significato vitale per la fede cristiana»; nell’esperienza del bello scorge solo la tentazione di una

Page 5: Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione

12/11/10 22.15CredereOggi - Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico

Pagina 5 di 7http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32

falsa trasfigurazione del mondo, che distrae l’attenzione dalla trascendenza. Noi crediamo che lafunzione del bello sarebbe proprio l’opposto: una funzione propedeutica, di guida alla trascendenza.Naturalmente l’esperienza del bello non è una vaga emozionalità istintiva: alla bellezza come a tuttol’universo dei valori occorre educare educandosi. Il Bene e il Vero privati del loro fascino e del lorosplendore, potrebbero ancora sussistere in pienezza come bene e come vero? Anzi, sono veramentepensabili separati dal bello?

Sappiamo che la vita cristiana, più che una vita «con sacramenti», cioè punteggiata da episodici, seppurfrequenti, atti rituali, dovrebbe tendere a diventare una vita tutta sacramentale, cioè capace in ogni suomomento di mediare con limpida visibilità ed efficacemente la Grazia che riconosce. A questasacramentalità globale del vivere non si può giungere senza la capacità di gioire della bellezza in tutte lesue forme, senza essere aperti al messaggio della bellezza, senza conoscere l’esperienza del piacere. Ilpiacere è un concetto involgarito e quasi demonizzato nella tradizione cristiana, eppure ha altissimevalenze spirituali. Molto si potrebbe dire in questo senso, ma esula un po’ dall’argomento in oggetto;basta però ricordare che non si determina nell’essere umano un’autentica esperienza della gratitudinesenza aver conosciuto il piacere, e non possono esservi vera fede e vero amore senza l’esperienzafondamentale della gratitudine.

Se ci si rapporta con il bello in un modo giusto, che è come dire propriamente umano, si impara atrascendere l’ambito del profitto e dell’utilità. Senza apertura esistenziale al bello non è possibile aprirsiesistenzialmente a una morale redenta, e non è possibile proporla al mondo. È indispensabiletrascendere l’ambito un po’ squallido e mercantile della morale strutturata all’interno e all’esternosecondo lo schema del «tu devi» - «tu non devi», disinteressata alla bellezza e sospettosa delleemozioni, ricercando una morale fondata sui valori, sul loro richiamo affascinante e umanizzante, sullaGrazia.

7. Il bello non è «il lusso»

È chiaro che non parliamo della bellezza in un senso astratto, olimpico o parnassiano; la bellezza qualepuò intendersi in sede morale è un valore pregnante, che racchiude una grande complessità di significatiumani e non può prescindere da valori congiunti (non diciamo «accessori’!), quali la maturità morale, lamagnanimità, la generosità e la gentilezza. Né si può danzare la vita, per usare la celebre espressione diRoger Garaudy, senza provare com-passione per coloro che soffrono in qualsiasi modo e non hannoaccesso a una vita pienamente umana, senza lasciarsi coinvolgere e «sconvolgere» dalla loro sofferenzae non libertà.

Queste riflessioni, che potrebbero anche sembrare alquanto lirico-teoriche e indolori, se assunte inserietà e pienezza risultano invece gravide di conseguenze operative e di precise responsabilità. Nederiva, per esempio, che è molto immorale identificare di diritto o di fatto il bello, che è una categoriaestetico-morale, con il lusso, che è invece un dato socioeconomico. Non diciamo che sia immorale inogni caso il lusso: forse non sempre lo è, e comunque non si può indulgere a condanne così rozze eaprioristiche. Immorale ci appare invece l’identificazione semplicistica del bello con il lusso, perchéautomaticamente il bello viene reso un «di più» e un privilegio.

Questa immoralità (e, considerata nel suo risvolto sociale, grave ingiustizia) si verificava abitualmente inpassato, allorché le cose belle – di qualunque genere: case, giardini, arredi, abiti, libri, opere d’artedestinate all’ornamento degli spazi privati, prodotti per la cura della persona, svaghi e spettacoli ecc. –erano certamente di alto livello qualitativo, più assai dell’attuale, perché era ignorato o quasi ognifenomeno di massificazione, di produzione in serie; ma al di fuori della cerchia dei privilegiati, la massadi quelli che non contavano e dei poveri – molto più numerosi e molto più poveri rispetto a quelli cheoggi vengono definiti così – era completamente esclusa da queste considerazioni. In breve: il vestito diun ricco doveva testimoniare del grado sociale di chi lo indossava e ornare la persona, renderla cioè piùattraente oppure, secondo i casi, più venerabile, più affidabile, più temibile, più maestosa...; inoltrepoteva trasmettere altri messaggi più complessi di ordine simbolico, sacrale, ecc. Il vestito di un poveroaveva una funzione «di primo livello»: coprire e proteggere la persona, se possibile. Né la bellezza né isignificati comunicativi dell’abbigliamento avevano peso.

Ma è molto significativo il fatto che, non appena dalla povertà assoluta, insomma dall’indigenza, si passialla povertà relativa, al di sopra del livello della pura sussistenza, si delinea subito un modesto bisognodi decoro, identificato con il superfluo, con il «qualcosa in più», come può dimostrare il significato socialee anche etico connesso per lungo tempo, in diversi ambienti sociali, al «vestito della festa» e alla festain genere.

Page 6: Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione

12/11/10 22.15CredereOggi - Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico

Pagina 6 di 7http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32

Sembra un gioco di parole, e invece è serissimo: il superfluo può essere necessario (va da sé che nons’intende «ogni» superfluo, e sottolineiamo ancora la differenza tra la nobiltà umana del consumo e ladissennatezza del consumismo), e la necessità del superfluo è in primo luogo di ordine spirituale. Quipensiamo all’unzione di Betania e alle parole di Gesù: egli difende l’operato della donna che ha profuso,sprecato una libbra, mezzo chilo di autentica e costosissima essenza di nardo, per lui; e ai discepoli, chesi sdegnano per lo spreco – «Si poteva vendere per trecento denari e darli ai poveri!» -, ricorda intermini alquanto misteriosi che questo gesto ha un valore altissimo di amore e di profezia, un valore chein questo momento supera la pur doverosa sollecitudine nei confronti dei poveri, e sarà ricordato persempre ovunque «in memoria di lei» (cf. Mt 26,6-13; Mc 14,3-9; con alcune differenze, anche Gv 12,1-8).

Senza questa apertura esistenziale al superfluo, non è possibile aprirsi alla gratuità. Senza apertura allagratuità, non sarà mai possibile aprirsi alla misericordia di Dio (che genera in noi capacità di perdonare),alla preghiera, alla contemplazione, al mistero. E diventa difficilmente comprensibile quello «spreco»supremo e sublime che è il dare la vita per una persona o per un ideale.

8. Qualche conclusione

Potremmo concludere dicendo che in questo ambito si scorgono per ora delle «aperture» – promettentima parziali – e delle urgenze che ci interpellano nella prassi, ma anche e soprattutto come appellointeriore alla conversione: qui cercheremo di sintetizzarle nel modo più breve, pur nella consapevolezzache un eccesso di sintesi costituisce una vera e propria ingiustizia alla questione.

Occorre in primo luogo riconciliare la morale (non solo nelle suggestive intuizioni di qualche moralistailluminato, ma anche nell’insegnamento più spicciolo e quotidiano della chiesa) con la bellezza; che,come abbiamo già detto, significa anche integralità umana, festa, senso del dono e del gratuito, humourinfine: una delle qualità più «spirituali» che esistano, a nostro parere, anche in quanto legata alla novitàdi vita che si rende possibile nello Spirito, e una delle più latitanti nella tradizione cristiana. E occorrediventare capaci di presentare la salvezza in cui crediamo, che è anche umana pienezza di vita e felicità,per mezzo di simboli capaci di attrarre.

Una sfida drammaticamente urgente pur nella gradualità del suo svolgersi è quella a educarsi/educaresoprattutto i giovanissimi – categoria educabile per definizione -, ma non solo loro, al senso dellabellezza contrapposto al vuoto ideale, alla volgarità, allo spirito di branco, all’appiattimento del gusto.

Affinché una spiritualità del consumo e della soddisfazione non sia evasivo ed egoistico trastullo di chi selo può permettere, è necessario impegnarsi anche sul piano economico e sociale; la bellezza nondev’essere un privilegio, il consumo e la soddisfazione non devono essere prerogativa di certi abitantidel mondo, di contro a una maggioranza di altri condannati a sopravvivere e basta. Allo stesso modo,crediamo che certi standard di bellezza e qualità, e in genere i requisiti che servono a umanizzare la vitae innalzare lo spirito (con parole brutte ma utili, potremmo chiamarli «potenziale di gratificazione»), pernon essere indice e veicolo di un’odiosa ingiustizia, non devono essere riservati ai beni cosiddetti dilusso, ma diventare a poco a poco un requisito irrinunciabile di tutta la produzione destinata alconsumo. Sappiamo che questo processo in certa misura è già in atto, almeno in Occidente, per ragioniindipendenti dall’etica anche se connesse con lo sviluppo culturale della massa; per il momento però ilprocesso sembra guidato da una logica essenzialmente commerciale e per certi aspetti manipolatoria,che non aiuta la pienezza di vita.

Poiché, come si è detto, non si tratta solo di fare qualcosa, ma di avviare dentro e fuori di noi un piùcomplesso processo di conversione, ci sembra indispensabile comprendere a fondo, al di làdell’inevitabile astrattezza delle formule sociologiche, la fame interiore – spesso inconsapevole, e forseper questo tanto più tormentosa – che sta all’origine dell’atteggiamento consumista vuoto e idolatrico, ecominciare a impegnarsi in modo serio affinché cominci a delinearsi qualche seria risposta a quellafame. Risposta che, nella fase iniziale, può essere solo un serio e rispettoso atteggiamento umano diascolto.

Chiaramente, il processo di cui abbiamo cercato di indicare qualche linea di tendenza non è semplice nélineare. Non somiglia tanto a una linea, quanto piuttosto a una rete da tessere, una rete diconsapevolezza e di amore per se stessi e per l’umanità, in cui, come si incontrano di continuo i fili diordito e i fili di trama nell’opera del tessitore, possano unirsi e darsi forza a vicenda il realismo piùlucido e la più alata capacità di sognare. Una rete che appare in questo momento avviata, ma formatada pochi fili, distanziati e deboli, fino al punto che uno sguardo distratto vede solo i fili singoli e non le

Page 7: Per una spiritualità del consumo e della soddisfazione

12/11/10 22.15CredereOggi - Dossier di orientamento e di aggiornamento teologico

Pagina 7 di 7http://www.credereoggi.it/pagina_stampa.asp?id=32

connessioni: si devono perciò rendere i fili più visibili e forti, più connessi l’uno all’altro.

Questo coincide più o meno con l’insieme del nostro lavoro di redenti per l’umanizzazione del mondo. Enon solo. Si tratta di una visione che, ove sia assunta integralmente, tende per sua natura a«sconfinare», toccando la vita eterna che comincia nel tempo.

Lilia Sebastiani

Sommario

Per molto tempo il consumo è stato ignorato dalla morale cristiana (nata in un contesto sociale moltodiverso dal nostro) e così la soddisfazione, intesa come «gratificazione»: se si eccettuano le generaliraccomandazioni ascetiche ispirate a un duro pessimismo nei confronti delle realtà terrene. Così questotema oggi sembra a-morale o im-morale. Con la duplice conseguenza di far percepire la morale – e ildiscorso cristiano in genere – come qualcosa di assai poco attraente, e di scindere troppo spesso labellezza, il gusto di vivere, il piacere, da riferimenti più impegnativi al piano dei valori, della solidarietà edell’amore. Il piacere, appunto: è un concetto tendenzialmente molto spirituale (il piacere sarebbe diper sé ben più spiritualmente alto del dolore, perché il dolore è una carenza, è segno di qualcosa chenon va come dovrebbe); ma è stato involgarito attraverso il tempo sia dagli asceti, che lo fuggivanodemonizzandolo, sia dai gaudenti, che lo ricercavano in ogni sua forma ma in modo limitato ed egoistico.Questi «facendo» e quelli «non facendo», facevano però in sostanza la stessa cosa: scindevano ilpiacere, la soddisfazione, dai più nobili significati personali e dal fine ultimo della persona. Riconsiderarein chiave positiva il consumo non significa assolutamente benedire il consumismo, ma fondare unrapporto armonioso e redento con le cose, rispettare e avvalorare le cose attraverso il loro riferimentoalla persona umana, umanizzare e intensificare la vita. Da un punto di vista etico, questa prospettivanon è più accomodante di quella tradizionale: forse richiede molto di più alla coscienza individuale ecollettiva, in termini di impegno e di creatività.

[1] Ai tempi di Francesco d’Assisi, per esempio, il rifiuto di ogni possesso, così come il rifiuto dell’altacultura, non avevano le stesse valenze che avrebbero oggi e si configuravano essenzialmente comerifiuto del potere, come scelta di libertà e solidarietà.

©2010 www.credereoggi.it

chiudi pagina