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PerSempre - amiamamma · 2012. 5. 31. · 5 odori di disinfettante e di speranze vane, di dolorose poltrone e di infusioni rosse di veleno e le racconta con una lucidità che graffia

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PerSempre

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A MIA MAMMA

...non è mollare che fa male,ma restare aggrappati.

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...ecco la mia storia,in parole semplici. vi prego di non chiedermela più.

ho subito un danno e le persone danneggiate sono pericolose...

...sanno di poter sopravvivere!

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PREFAZIONE:

LA MIA SERA

"… Don… don e mi dicono Dormi!

Mi cantano Dormi! Sussurrano Dormi! Bisbigliano Dormi!

Là, voci di tenebra azzurra… Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch’io torni com’era… sentivo mia madre… poi nulla

sul far della sera" G. Pascoli

Avete visto morire la madre? Avete mai sentito le viscere gridare mentre si contorcono e vibrano i tendini del cuore? Avete mai stretto tra le vostre le mani della madre consunta dal cancro e sentire i pori far male per la vita che vorrebbero trasmetterle? Alessia conosce l’inquietudine del respiro che si fa fatica e della morte che rimane un “vetro conficcato nella gola”. Non c’è santità, la morte per Alessia è una vecchia diligenza del Far west che passa con fragore nel piano, un mistero che la lascia priva di palpiti, è un buco nero dove non si affaccia più la mamma che è radice di quel che è e rimane sbigottita, uno sterile frutto arrabbiato di pianto e di strappi nevrotici. Abbraccia Alessia, mescolandosi in essa, la terra che è resa pozzanghera e non potrà più nutrirla. Ha perso la mamma . Alessia la rievoca con parole tenerissime ma mai pacate, è la rabbia che non si sa placare che le dà linfa nel dire e che è inesauribile. Penetra nel dolore della malattia, ne respira gli

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odori di disinfettante e di speranze vane, di dolorose poltrone e di infusioni rosse di veleno e le racconta con una lucidità che graffia la vita e la tristezza, che di volta in volta nasce spontanea, si accompagna ad una riflessione profonda sulla vita e sulla morte dove non c’è posto per nessuno, dove solo la madre trova spazi perché è solo la madre che può parlarle, solo lei conosce la sua interiorità, le sue debolezze, il suo animo. La parola di Alessia sa urlare al cuore e sa farsi musica e preghiera, è una mano tesa in avanti che accarezza il fratello, sorregge il padre che affoga nell’incredulità del silenzio, abbraccia gli amici, spacca il buio della casa ormai vuota di luci e di odori di cibo. Alessia ripercorre il calvario terreno della madre: dalla diagnosi di cancro alle terapie devastanti al dolore pazzo e disperato, alla morte sopraggiunta consolatrice e liberatrice. Scrive con la pelle Alessia, intinge il suo pennello nelle viscere, tutti i sentimenti umani trovano spazio nella sua prosa: gli affetti, il dolore, la paura della morte, gli interrogativi sul senso della vita, a volte diviene irriverente e dissacratrice e grida la sua ribellione e la sua fatica di credere di fronte agli enigmi dell’esistenza. E’ prosa che morde la sua, musica che sgorga dal passato che non può tacere e che, pungente, si nutre di note di malinconia struggente mentre il sangue conosce il bollore delle emozioni. Urla Alessia , geme, soffre e morde inferocita. Il suo dolore si sazia di dolore e la disperazione crea melodie nel tormento. La morte ha raggiunto mamma Giovanna il 24 settembre del 2010 e da sola ha posto fine alle sue notti senza fine. Grazia Deledda nel racconto “Lo spirito della madre” sostiene: “ Appena morti si rientra nella gloria di Dio, non bisogna quindi lamentarsi, perché la pena dei vivi richiama al mondo le anime beate, che ne soffrono, e così non possono confortare i loro cari, come quando sono lasciate da essi in pace”. E pace per dare conforto è dovuta a Giovanna, mamma d’Alessia, di Cristian e compagna vera di Felice.

Spero di vincere il cancro che si nutre di me, lo devo anche a Giovanna e a chi l’ha amata.

Annunziata Rossana Sarlo

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ci sono luoghi dove tutto potrebbe accadere

senza che nessuno se ne accorga luoghi dove tutto quello che poteva accadere

è accaduto... ...e non resta altra cosa da fare che scriverne.

non è facile raccontare di chi adesso ha le ali.

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Mia madre aveva mani bellissime,la pelle bianca e dita nervose...ora ci sono solo io e le mie dita fredde su questa tastiera,che si affannano a raccontare,smaniose e nevrotiche,come me. Mi sono trovata un nuovo hobby: colleziono ragioni...quando ne avrò collezionate abbastanza potrò avere una risposta alle mie domande,forse smetterò di sentirmi in colpa...nel frattempo continuo a frastagliare la verità per far si che ne esca qualcosa di buono,di credibile... Sto cercando di tenermi a galla tirando i muscoli della bocca in quello che potrebbe sembrare un sorriso,non si può annegare dentro se stessi,è una cosa che non posso capire...ci fosse almeno il mare. Un settembre di tremori stanchi e di lacrime,una per ogni variazione di respiro....perpendicolari su un eventuale quando. Mi chiedo a volte come si possa chiamare poesia questa cosa che mi sbatte dentro ed è chiaro che di poetico qui non è rimasto niente,come questo fiore sbagliato,appoggiato distratto sul tavolo...non ha un senso....reale invece sono questi quattro fantasmi di capelli sottili come il vento...ragnatele che mi avvolgono il cuore...guardo fuori,il cielo sta diventando arancio,il cielo che non sa nulla di noi,che non concede tregua che cambia colore senza il mio permesso... Vi racconto di lei in punta di dita,perchè solo così lo so fare...scrivo e la mia scrittura piegata verso destra è come uno schiaffo a volte...scrivo di verità e di solitudini e vi parlo di lei.. Ho perdoni raccolti,sogni fitti da anagrammare e volti da dimenticare...ho imparato l'eleganza del silenzio che insegna e poi ho capito che il silenzio è pieno di domande e di mostri,per quello che ho lasciato che diventasse musica. Vi racconto di graffi e di cicatrici e del suo cuore fatto a pezzetti,perchè non ha avuto la forza di alzare le mani per difenderlo...vi parlo di colori che non sapete,di come amavo il rosso prima che diventasse il colore del veleno... Ho amato le ombra di una candela morente quando fumavo insonnia nelle notti che mi facevano tremare...non avevo mani da stringere,ne qualcuno a cui dare la maledetta colpa.... Ho annotato solo particolari furiosi ed invisibili,per non dimenticare. Ascoltate le mie parole strambe e fuori tempo,senza sapere che mi piacciono le conchiglie perchè credo ancora che dentro ci sia il rumore del mare,che se guardo la luna mi vengono le

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vertigini e che i miei occhi cercano ancora una direzione...che credo ai fantasmi e che le betulle mi fanno piangere...non sapete della nebbia e degli aerei... Scrivo per raccontarvi la storia di un'anima. So che per quanto io ci proverò a spiegare,non mi sarà possibile dipingere l'inferno con tutti i colori che ha,con tutte le lacrime che si mangia,con tutto il dolore che ti strappa l'anima...so che probabilmente queste mie parole susciteranno emozioni,perchè tutti hanno una madre che amano e che non vorrebbero mai vedere lentamente morire sotto i propri occhi....io so solo che l'inferno non si può tenero dentro,altrimenti finisce con toglierti la forza di cui adesso ho bisogno per guardare avanti...per sorridere ancora,per esserci. …quindi va bene così,ne parlo…lo racconto…e chi non vuole ascoltare si tappi pure le orecchie,gli occhi...se ne vada pure altrove... …io ho bisogno di te,che rimani....di te che provi ad esserci...di te che temi l'inferno,ma lo sai capire.

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Cap. 1

DEL PERCHE' SI EVITANO I BURRONI

A volte i burroni sono occhi...

...grandi come la fame... è facile cadere sai,basta sporgersi un pò di più,le gambe

cedono,la testa ti molla,non la controlli più...

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23 luglio 2010

ore tredici virgola cinque

Iniziano qui,i miei “appunti disperati” in questo luogo fuori tempo che puzza di polvere e rabbia.

I miei silenzi stonati,le mie urla disperate,i miei pensieri ingarbugliati,le paure che mordono,la

disperazione e la lucidità di chi sa già che quello che sta per incominciare avrà il sapore del sangue in

bocca…le mie parole avranno il solo scopo di raccontare,di descrivere,di fermare…saranno crude e incattivite,non sarà poesia,non sarà un racconto

con il lieto fine…sarà realtà,sarà aria che manca,saranno respiri irregolari e cuori che battono

forte,saranno segni e lividi sulla pelle. Questi appunti non saranno altro che la descrizione di un volo durato 64 inesorabili giorni,saranno pieni

di errori e di orrori,come tutte le parole scritte in fretta e di getto…come tutte le cose furiose.

Si parlerà di mostri ma anche di principesse,si parlerà di fiori e di letti di ospedale…e di tutto quello

che le mie dita sottili saranno riuscite ad imprigionare.

Questo è un regalo,un bacio,un abbraccio lungo alla mia mamma…e se non ve la sentite d’iniziare a

leggere io vi capisco,certi regali,seppur bellissimi diventano strazianti quando devastati dalla realtà.

A chiunque decidesse di rimanere: Buon Viaggio!

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Quando chiedi a una persona se vuole sapere sempre la verità…quella persona di solito ti dice di sì, non pensa che ci sono tanti tipi di verità – la verità sembra sempre una cosa bella, positiva, quando la pensi – e invece ci sono verità che ti fanno venire voglia di tapparti le orecchie, che ti fanno sentire come se ti si stesse rompendo qualcosa dentro,che ti fanno venire voglia di scappare urlando o di rintanarti in un angolo e rimpicciolirti fino a diventare un grumo di polvere, aspettare il vento che ti porti via. La verità è il modo migliore per farsi amare, la verità è il modo migliore per trasformare l’amore in odio; la verità è come un pasticcino alla crema, e fuori sembra ancora bello quando la crema dentro ha già iniziato a irrancidire. In realtà questa è la storia di una ciste che dormiva nella schiena di mia mamma, di quelle che ti operano in giornata e poi te ne torni a casa e riprendi a vivere la tua vita come nulla fosse. A parte il dolore dei primi giorni,a parte le medicazioni,a parte i punti che un po’ li senti….ma poi tutto passa,rimane solo una cicatrice a ricordarti che lì c’era qualcosa,che tanto tempo fa,hai tolto. La verità è che ci hanno ingannato. La verità è che quella ciste dispettosa,saccente e ironica si stava trasformando in qualcosa di pesante,d’insopportabile. La verità è che quella ciste era solo un mostro mascherato. L’avremmo scoperto,anche se era stato bravo a prendersi gioco di noi. Quell’estate che diventava inverno,non era una magia,ma una tragedia soleggiata che ti si appiccicava sulla pelle. Quel giorno di quel estate ammalata in cui ha inizio questo incubo... i miei occhi hanno assunto la posa di una lacrima,il giorno in cui sono caduta in quel burrone maledetto trascinandomi dietro tutto ciò che ero stata fino a quel momento... Il giorno che il «mostro» è venuto a abitare dentro mia mamma,posizionandosi vicino al suo cuore,lì dove nascono i respiri...si è annodato crescendo e mangiando,alle pareti fragili del suo stomaco,salendo su per il collo bianco e facendole sputare l'anima...per poi scendere giù,intaccando la morbida pancia...

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…il «mostro» non ha avuto pietà delle nostre mille lacrime,delle nostre mani che si contorcevano cercando un appiglio,il «mostro» è rimasto indifferente a tutto,ma noi abbiamo cercato lo stesso di sconfiggerlo... Scricchiolavo dentro quel pomeriggio in cui avrei voluto essere da un 'altra parte,lontano...invece mi avvicinavo a quel incubo che stava per nascere e che ancora non potevo sapere quanto grande fosse. La gente che torna, ha il passo morbido, distratto. La gente che aspetta ha le gambe rigide. Io camminavo,ma ero ferma…il vuoto intorno,nonostante una marea di rumori m’invadesse da ogni parte. Riuscivo solo a pensare al silenzio dentro il suo petto,a quel mostro che prima o poi avrebbe cominciato a farsi sentire davvero. Da quanto tempo se ne stava appollaiato li? Mi sentivo come un briciolo di ossa che se ne stava al cospetto di un esercito di soldati,armati di tutto punto. Io non avevo nulla con cui difendermi e presto sarebbe iniziata la battaglia.

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Ho iniziato quel giorno a scrivere i miei “appunti disperati”. Me ne stavo li con gli occhi ricolmi di lacrime ed il telefono in mano. Dovevo decidere se piangere o telefonare. Ho deciso di scrivere…non ho mai smesso. Avevo una penna ed un foglio giallo…ero sulle scale di quel ospedale ferroso e sapevo che dovevo fissare quel momento,che non mi sarei dovuta perdere nulla,che qualcuno ne avrebbe avuto bisogno poi,comunque ne avevo bisogno io. Iniziava l’inferno,non potevo ignorarlo. Non sapevo ancora che quelle scale sarebbero state il luogo in cui mi sarei rifugiata in quelle lunghe terribili giornate. Erano impolverate e fredde e i muri erano scrostati dalle bestemmie e dalle lacrime di chi come me ci aveva sostato,anche solo per una sigaretta. Certi luoghi trattengono le urla,sentivo i rumori di sottofondo e i passi su quelle scale piene di ragnatele. Ho iniziato così a parlare di prospettive,di un futuro che non riuscivo ad immaginarmi,di un dolore che stava cominciando a pochi passi da me. Piegata su quel foglio,con il gomito appoggiato sullo scalino,scrivevo con ostinazione e rabbia. Scrivevo di una porta che dava sul inferno,scrivevo di me in piedi a fissarla. Era mettere a fuochi i particolari,era scrivere di sfumature era un modo per salvarmi la vita,o così credevo. Il mostro respirava a pochi centimetri da me,riuscivo a sentirlo. Quel sottoscala umido era il posto perfetto,le mie dita sentivano che era giusto così,ed io mi fidavo di loro. Era fermare il tempo,essere lucidi abbastanza per poter andare avanti mentre tutto il resto era solo l’eco dei giorni felici che sapevo in qualche modo stavano finendo,per noi. In quella bolla perfettamente scivolosa,io non scivolavo…era come quando da bambina ti buttavi dallo scivolo e i tuoi pantaloni facevano attrito e non ti permettevano di andare giù. Ero li ferma,immobile,guardavi dall’alto gli altri bambini che si divertivano,dietro di te c’era la fila di altri che volevano rotolare giù. Io non ce la facevo,qualcosa mi tratteneva. La stessa sensazione,su quelle scale che davano su un cortile nel retro del ospedale. L’unico modo per andare avanti era una bella spinta forte,era levarsi quei maledetti vestiti e lasciarsi andare giù. Io lo facevo scrivendo.

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Spogliarmi,raccontare,vivere senza smettere mai,anche se quello che avevo davanti era buio e cattivo. Dovevo farlo per lei. Era come mettere a fuoco i dettagli,per non perdermi le sfumature che seppur disastrose,erano importanti.

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Le domande non sono mai indiscrete. Le risposte lo sono, a volte. Lee Van Cleef

Il mondo quel giorno è impazzito,quando quella dottoressa occhialuta e severa mi ha preso per mano e mi ha fatto sedere in bilico su una sedia,in bilico sul mondo me ne stavo...cercando d'interpretare quella fronte che mi stava davanti. …la odiavo,odiavo lei e quella stanza che puzzava di disinfettante e di chiuso,odiavo quella mattina che sarebbe marcita dentro il mio cuore per sempre...lei mi sfiorava con gli occhi piccoli a ridosso delle lenti tonde degli occhiali sapendo che ciò che stava per dire avrebbe potuto uccidermi,eppure doveva dirlo,era il suo lavoro,il suo compito...doveva trasformarsi per un attimo in dio e darmi una sentenza di morte che lei e i suoi illustri colleghi avevano predetto. Mi sentivo lo stomaco contratto e i miei occhi guardavano quel uomo seduto accanto a me,mio padre...con il volto tra le mani,nella più totale disperazione...stringevo forte quelle carte,le carte che non ero stata capace di leggere ed interpretare,le carte che mi raccontavano in un linguaggio medico ed educato che mia madre era abitata da mostri di tutti i tipi che le stavano scavando i polmoni,i mostri dalle dita sottili e dagl’ occhi grandi. La dottoressa cercava le parole per essere sinceramente gentile,ma forse sapeva anche lei che la crudeltà di quello che stava per dire non poteva essere trasformata in gentilezza. Volevo gridare,volevo piangere,volevo scappare via,invece sono rimasta,fuori da quella stanza c'erano gli occhi di mia madre che mi aspettavano che volevano sapere,ho ingoiato tutte le lacrime,tutte le urla che mi stavano uscendo dalla bocca,dal cuore...ho ascoltato tremando...e quando la dottoressa ha detto che il tempo era poco,sono riuscita solo a dire a mio padre che dovevamo rendere quel poco,unico...ma lui non mi ascoltava già più...credo che in quel momento la sua parte più forte sia morta,credo che abbia perso un po’ del su cuore,credo che sia rimasto in quella stanza,insieme agli occhiali della dottoressa appoggiati sul tavolo,mentre lei si asciugava una lacrima disubbidiente.

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Credo solo agli atti. Ai piccoli atti. Piccolissimi. Cazzuti.

Quelli che fanno la felicità del giorno e del perimetro, niente di più.

- Daniel Pennac -

Quel pomeriggio ho iniziato a leggere un libro,un libro che è durato esattamente 64 giorni. Me l’aveva regalato Greta,lei sapeva che io avrei avuto bisogno di parole. Era un libro dalla copertina morbida,s’intitolava “Storia di Neve”. Neve era una bambina speciale,la parte buona di una strega,tornata nel mondo per poter porre rimedio a i torti commessi in vita,con il dono speciale di guarire gli altri con il solo tocco delle sue mani e per questo motivo vittima di cupidigia e di invidie. Delicata come la neve,aveva però il tremendo orrore di non potersi innamorare,perché la forza dell’amore la poteva sciogliere e quindi farla morire. Un libro magico che mi ha tenuto compagnia lungo quei pomeriggi in cui bisognava trovare il modo di rifugiarsi da qualche parte per sopravvivere al disastro. Sono stati tanti i regali che mi sono stati fatti durante la battaglia,che bastava poco…una telefonata,un sorriso,una pacca sulla spalla,anche il silenzio andava bene. Greta mi ha regalato parole non sue,perché non ce la faceva a parlare,perché i suoi occhi grandi si riempivano di lacrime,perché andava bene così. Ho lasciato che la gente mi avvolgesse e quando scrivere e leggere non bastavano più ho trovato il modo per prendere un pezzettino del mio dolore e condividerlo con chi aveva deciso di starmi vicina. Con chi ha avuto il coraggio di farlo. Mi sentivo anch’ io come Neve,ma non ero speciale,ero solo fragile e le mie mani non potevano guarire nulla,le mie mani sapevano solo stringere e pregare,le mie mani scrivevano con furia e disperazione e voltavano le pagine di quel libro con rassegnata pazienza. Neve è morta,si è sciolta per aver abbracciato il suo amore.

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Ha vinto lei,ha sconfitto il male e ha ceduto all’ unica cosa che le restava per poter capire la sua fragile esistenza… Quindi morire non significa perdere… E mi dispiace se non sarò in grado di raccontare una guerra,perché mentre scrivo la starò combattendo… Non sarò in grado nemmeno di raccontarvi il terremoto,perché sarò troppo intenta a raccogliere le macerie… Nemmeno delle lacrime forse potrò dirvi,perché avrò sempre in mano un fazzoletto e due dita per asciugarle… Sarà come essere una fotografa,ma con l’unica differenza che sarò sia quella che scatta che quella che corre a mettersi in posa,ma di lato. Come di lato ho mostrato a tutti il mio coraggio e la mia fragilità. Non ce la facevo con la voce...non potevo raccontare. So di non essere stata sola,so che c’erano loro,quelli che hanno intravisto l’inferno nei miei occhi e sono rimasti. Ho tenuto tutto e so di non aver ringraziato abbastanza,perché non è mai abbastanza quando quello che hai ricevutolo puoi chiuderlo nel tuo cuore e ne puoi trarre insegnamento. Greta mi ha regalato una conchiglia,in mezzo a tutto quel desolante andirivieni di dolore ci voleva il mare. Ci ha pensato lei. Nascondevo quella conchiglia nella borsa di mia mamma,era il nostro portafortuna…poi l’ho nascosto sotto i suoi cuscini…a casa,all’ospedale…anche mentre stava seduta nella stanza del veleno. Avevamo il mare noi a proteggerci. Greta e il suo universo negli occhi,Greta stretta alla sedia che regala profumi e sorrisi a mia madre,che sorride con il suo amore stretto tra le braccia. Gioca con i colori,quei pochi che sono rimasti e mi guarda seria e corre da me,quando non la chiamo perché sa che comunque ho bisogno di lei. Ricordo un abbraccio in particolare,quello su un balcone mentre vomitavo dagli occhi tutta la rabbia e la disperazione,è arrivata correndo e mi ha abbracciata forte. Non avevo bisogno di altro. Il mondo stava cominciando a farmi davvero spaventare,a lei potevo dirlo che avevo paura,ma anche se non l’avessi detto era uguale…Greta sapeva leggermi gli occhi e la fronte,Greta conosceva i passi distorti e le sbandate cattive del mio cuore,quando rotolava giù senza fermarsi.

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Ci metteva un piede,una parola,un sorriso e lo teneva li…per tutte le volte che senza di lei si sarebbe frantumato,non ho dei grazie abbastanza nelle mie piccole tasche.

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ore 22 e quarantacinque minuti gocciolanti

...il giallo che stona con il bianco,ancora un inferno da affrontare...che si presenta un venerdì mattina vestito da temporale.

affondi la testa su un cuscino freddo,mentre fuori l'estate si arrampica dalla finestra facendoci il verso...l'abbiamo chiusa

fuori,noi con le nostre mani piccole...io e te contro tutto il mondo,contro il tempo,contro la severità di certi volti e di certe voci

che non promettono vita. Ci siamo tappate le orecchie per non sentire e abbiamo pianto

fissandoci in silenzio. Chi potrebbe mai capire cosa si prova quando ti si spezza il

cuore?...chi può capire quanto sia tremenda la verità quando te la sbattono in faccia come uno schiaffo improvviso che ti costringe a

voltare la testa dall'altra parte...chi può capirci mamma?..... Scrivo ancora di te,come se questo potesse bastare per non sentire la

tua mancanza,come se questo ti rendesse giustizia del fatto che nessuno sceglie le proprie fragilità...la gente non fa altro che

criticarle,forse perchè ne ha paura. Tu sei bellissima,hai l'anima leggera e pesante insieme,non ti

permette di volare ma ci sono io, e non permetterò a nessuno di sfiorarti i polsi,nè di coprire la tua voce o di levare il tuo sorriso.

ci sono io,che mi attacco ad un telefono e piango e poi torno da te ridendo e scherzando,che divento un pagliaccio solo per vedere di

nuovo i tuoi occhi respirare...io che non so lasciarti sola nemmeno un attimo,anche quando non sono con te.

Io lo so dell'inferno,della puzza di certe camere,del disinfettante e delle mani che non sanno girarti....io lo so.

l'inferno farà un po meno paura se io sono con te e tu sei con me. ti amo mamma......

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un'ora qualsiasi del giorno dopo

Ci hanno proposto tentativi goffi e maldestri per attutire il colpo...per darci e darle un po’ di speranza che sapevamo già non poteva esistere...le metastasi,quei pipistrelli cattivi ed informi aveva già aggredito ciò che potevano aggredire...sarebbe stata inutile,il suo fegato era già rovinato da anni di tristezza ed incomprensione,non avrebbe retto una chemioterapia. Sentivo sulla pelle l'odore di quel estate assassina,non riuscivo a respirare,dovevamo decidere cosa fare,cosa dire...mentre lei mi chiedeva il perchè di tante cose a cui io non avevo ancora una risposta,non sapevo che di lì a poco mi sarei improvvisata attrice,piccola bugiarda...non sapevo che avrei indossato quel sorriso ogni volta che i suoi occhi guardavano i miei…lei lo sapeva bene,conosceva la tristezza nel mio sguardo,la riconosceva. …a lei non potevo mentire. a questo pensavo mentre il vento caldo dell'estate mi pizzicava la faccia e m'impastava i pensieri e camminavo veloce con il freddo nelle ossa,per andarle incontro. poteva essere dicembre o gennaio,nulla sarebbe cambiato...la nebbia non si era mai diradata. Ho scoperto di odiare quel giallo sinonimo di malattia…ho scoperto che certi odori mi fanno male alle mani e che certi sguardi vanno soffocati dietro a sorrisi come coltelli…ho scoperto come ci si difende da certi dolori antichi,mascherandoli dietro a bicchieri troppo pesanti,vestendoli a festa o addormentandoli con improbabile medicine al sapore di nulla. ...e tutto questo lo scrivo ma non è un racconto,è concreto come questo sudore che mi cola dalla fronte,come le ortiche che ti pungono il sedere se decidi di sederti su un prato,come le bottiglie vuote dimenticate da qualche parte...che ora puzzano di gelsomini e di canzoni lontane su una macchina verso il mare.

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Salverei poche cose al mondo e per molte meno morirei,lei era una di quelle...un sacco di parole che avrei voluto dirle mi si sono sciolte in bocche,altre sono evaporate...saremo la storia sotto i cuscini. la storia bastarda che miagola con le stelle quando non la sente più nessuno,questo riuscivo a pensare mentre dormiva e sentivo i suoi respiri farsi pesanti...l'osservavo così tanto da incastonare la sua immagine nei miei occhi,il suo viso divorato dall'ombra,non potevo dimenticare. I suoi polmoni che già arrancavano in salita,quella tosse persistente che qualcuno aveva scambiato per stress,per una stupida influenza di stagione,per le troppe sigarette che fumava. Mi ricordo mia madre quando abbiamo deciso di portarla via da quel ospedale,di riportarla a casa,mi ricordo di lei in quella macchina,i suoi capelli e gli occhi fissi sulla strada...voleva solo tornare a casa,tra le sue cose...era seduta davanti a me,di fianco a mio fratello,io le tenevo la mano,lei piangeva...ricordo le mani di mio fratello che tenevano forte il volante,ricordo tutto,eravamo noi tre e ci stavamo allontanando per un solo attimo da tutto quel dolore. piangevo anch’ io,dentro. ...non ho mai smesso. Come non ho mai smesso di tremare forte dentro di me,ho telefonato,ho fissato appuntamenti con tutti i dottori e tutti gli ospedali,ho cercato su internet,ho chiesto,ho pregato,volevo capire,volevo sapere se c’era qualcosa da qualche parte che potesse salvarci la vita. E’ stato tutto inutile. Sembravo una pazza alla ricerca disperata di una speranza a cui aggrapparmi,ma dovunque mi girassi,mi volavano davanti solo quei fogli maledetti e quelle parole. Era troppo tardi per qualsiasi cosa. Mi sono chiesta perché io non me ne fossi accorta prima,perché avevo sottovalutato la fragilità di mia mamma. Forse il cancro era nato da quello. La depressione che le colmava il cuore. Non avevo capito,potevo salvarla ed invece ho lasciato che tutto il male la invadesse . Sul tavolo la sera,disegnavi col dito favole di briciole...ti sembrava di cadere,lo so papà...un precipizio improvviso,senza fiato...cercava di trattenere sulle sue spalle

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ampie quello che ci stava cadendo addosso,non sapeva ancora cosa dire... …sapeva solo che non c'era tempo,non c'era tregua...qualcosa stava finendo e lui era ingobbito sotto quel peso che lo stava divorando. Imparammo a guardare insieme,con gli stessi occhi...ho dovuto destarlo quando si crogiolava nella vana speranza e rassicurarlo quando le lacrime lo facevano affogare...affogavo anch'io,ma sapevo nuotare. Mia mamma era un precipizio,fatta di solitudini,dentro le quali si barricava,rimaneva sospesa nel tempo con le sue domande che non avevano risposte…la spaccava quel suo modo di sentire tutto,troppo forte. Il suo soffitto,assente di stelle,lo stesso soffitto bianco,impregnato dalle parole che le rimanevano in gola. Se solo avesse parlato… se solo mi fossi accorta in tempo del suo terribile deserto in controluce. Il mondo tentava di soffocarla,con tutte quelle persone che nella sua vita non erano state altro che scie che passano veloci e si allontanano. Non hanno capito che dietro la fragilità di certi occhi si nasconde la paura,il terrore. Lei che ormai aveva paura della gente. Hanno calpestato i suoi riflessi e senza ombra non si va lontano. Aveva l’anima di carta stropicciata,inzuppata di un veleno che la stava mangiando piano,ma non le interessava. Non è riuscita a raccontarmi la sua storia,fatta di ruggine e di disastro,ci ha pensato il mondo a sbattermela in faccia,a darmi le giuste spiegazioni,quelle che io forse conoscevo già. Non sono riuscita a sentire l’aspro della sua bocca,ad accorgermi del suo barcollare malfermo su quelle gambe stanche. Me ne stavo a piangere tra le mie ginocchia ossute,dimenticandomi della sua paura che si faceva largo tra di noi,che preparava una strada fatta di salite,di mostri terribili,di sangue e vomito. Lei era un precipizio,finché non ha aperto le ali ed è saltata.

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…ma il mondo così com’è,non è fatto per le principesse”… Mia mamma era una principessa,di quelle tristi e scalze,una cenerentola seduta per terra a lucidare un pavimento che si risporcava all’infinito. Qualcuno mi aveva detto che il mondo era ingiusto,io ho sempre fatto finta di crederci,finché poi ho dovuto crederci per forza. Mia mamma rannicchiata in un angolo,mia mamma e le sue fughe inaspettate dalla realtà,attraverso artificiali e bizzarri metodi della mente,attraverso pastiglie bianche su cui reggersi… Era quello il mostro pronto a balzare,affamato e raggelante,la sensazione delle sue unghie sulla pelle,a scorticare la principessa bambina che abitava dentro lei,da sempre. Il suo modo di difendersi,l’unico che conosceva…l’unico che le avevano insegnato. La incitavo ad urlare a volte,le dicevo di sbattere fuori tutto,di scrivere,di parlare,di fregarsene,lei non era capace. Teneva dentro tutto e questo credo le si è rivoltato contro. Eppure c’erano un sacco di cose che non le facevano paura: gli aghi,il buio,la solitudine,gli ascensori…lei aveva paura invece di altro. Aveva paura di non essere amata,di non essere bella,di non essere pronta,aveva paura della sua fragilità,per questo la mascherava facendosi forte,dietro a mille bicchieri rotti e a bottiglie sparpagliate ai suoi piedi. Era terrorizzata dalla noia,dalla consuetudine eppure non muoveva un solo passo per scacciarla. Si perdeva in strade dritte e soleggiate mentre io arrancavo in quelle salite tentando di raggiungerla. Eppure procedeva piano,sono sempre stata li per sfiorarla,ad un passo da lei,senza arrivare mai. L’unico spettacolo a cui ha assistito è stato un soffitto bianco e i suoi pensieri,come vetri nella testa…era sempre stanca,disincantata,disillusa,a nulla sarebbe servito ricordarle che era una principessa. Ho capito che ad un certo punto della vita,smetti di essere figlio e diventi genitore dei tuoi genitori. E tenti di spiegare,ma per loro tu rimani la piccola bambina che deve imparare,non capiva mia madre che io avevo già capito. A modo suo mi difendeva persino da se stessa,da tutti quei dolori conficcati nella sua pancia,mi difendeva dal giallo dei

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suoi occhi,raccontandomi storie di plastica,a cui,purtroppo avevo smesso di credere. Quella plastica aveva finito per soffocarla,nel modo peggiore che esista al mondo. Aveva paura dell’acqua e l’acqua la stava gonfiando in ogni punto del suo corpo,l’avrebbe invasa,nemmeno di quello credo si accorgesse. Ai miei occhi lei continuava ad essere una principessa dai capelli fini e la favola che mi ha regalato,la più bella che io abbia mai vissuto è stata quella d’insegnarmi a difendermi come lei non era riuscita a fare. Ma lei non era solo questo,era molto di più…lei era fatta di zucchero,il suo stomaco era cristallo. Quando era arrabbiata e nervosa quello stomaco le si ribaltava e bisognava accarezzarlo piano per farle passare il tremore. Mia mamma amava i fiori,i mughetti,i garofani,le primule,ma più di tutto amava le rose…quelle rosse. Mia mamma sognava abiti di sposa e nipotini da coccolare,il suo futuro la vedeva accoccolata su un divano,con i piedi freddi vicino a mio padre,s’immaginava nonna,s’immaginava con i ferri in mano a sfornare calzini,cappottini,maglioncini per i suoi nipoti. Immaginava una chiesa,un altare su cui piangere le sue lacrime di commozione,con un fazzoletto in mano. Immaginava la sua vita senza il cancro… …come fanno tutti. Le avrei regalato un prato di fiori,un matrimonio perfetto ed un nipotino,se solo avessimo avuto tempo. Lei ha continuato a sognare,fino all’ultimo…il mostro non si è mangiato i suoi sogni,non ci è riuscito. C’eravamo noi a proteggerla. Ora quei sogni rimangono dispersi come bolle di sapone,nessuno li scoppierà mai,rimarranno nel nostro cuore,ogni volta che uno di essi si avvererà,lo dedicheremo a lei.

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NELLO SPAZIO NESSUNO PUO’ SENTIRTI URLARE… Non ho mai chiesto a mia mamma cosa le sarebbe piaciuto diventare da grande… Quali fossero i suoi sogni… In quale città avrebbe voluto vivere… Non le ho mai chiesto cosa le mancava davvero… …eppure pensavo di sapere tutto di lei. Avremmo dovuto parlare di più,avrei potuto portarla nel mio posto segreto,dove pregavo quella madonnina nascosta in mezzo all’erba,ora ho perso la strada e non ci so più tornare. Eppure abbiamo parlato così tanto,ci siamo scritte tante lettere,me le lasciava sul tavolo alla sera,a volte usava parole dure e disperate,a volte era dolce e mi raccontava la sua vita storta,una vita che per certi versi le stava stretta… A volte le tremavano le mani,lo vedevo dalla scrittura piegata,lo capivo dai tempi sbagliati… Si sarà sentita sola,mentre io ero fuori a cercare chissà cosa,a vivere la mia vita… Me la immagino seduta in cucina,con una sigaretta in mano,con il sottofondo di una televisione accesa su un canale a caso,mentre mi scrive,mentre forse mi chiede aiuto. Al supermercato mi chiedono di lei,mi chiedono come sta…io rispondo che ha l’influenza e sorrido. Mi dicono di salutarla,io sorrido. Ho scoperto che si può sorridere anche mentre muori dentro. La mia vita se ne stava arrotolata nel cassetto del suo comodino,tra le pillole e gli occhiali per leggere,nei crampi che le colpivano le gambe,che io massaggiavo sperando che il dolore passasse. Stava nel giallo di quel vomito terribile,ogni volta che si sdraiava,che le saliva in gola…in quel catino arancione,che poi lei odiava il giallo e l’arancione. Stava nel pettine che s’ingoiava i suoi capelli,nelle coperte che sembrava inverno invece era estate. Stava nei suoi occhi che bruciavano al sole. La mia vita storta stava tutta lì,vicino a lei.

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Ma poi uscivo e mi disperavo in mille risate isteriche,mostravo il mio coraggio,mostravo la maschera per vedere se era credibile,mostrava le mie vene fragili,le mie canottiere colorate,la mia pelle pallida. Mi lamentavo a modo mio,sapevo come fare. Sopravvivere al disastro,sopravvivere a quello snaturato mondo che mi viveva accanto. Mi sono attaccata a chi c’era,con le unghie e con le mani,ho storpiato le mie grida,ho morso avidamente,ho lottato con le lacrime,perché avevo paura di sciogliermi… …Il mio malessere costante era diventato la mia nuova faccia. Mi avvelenavo anch’ io,sapendo che quel veleno la stava portando via da me. Era già successo,forse è solo un modo strambo che usiamo per difenderci. Volevo solo capire,volevo solo capirla. Ci scorreva lo stesso veleno nelle vene,non mi faceva stare meglio,era solo bocca amara e sensazione di vuoto incolmabile. Quante mattine si è svegliata con quel sapore in bocca? A quanta distanza ero io da lei?

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“IL PROBLEMA NON E’ LA CADUTA,MA L’ATTERRAGGIO” - L’odio -

Camminavamo io e Manuela,contro il vento freddo di quelle mattine,verso la scuola. Vicine. Erano pochi passi,erano le nostre parole che ci scaldavano,eravamo noi,eterne ragazzine che si avviavano verso la vita senza sapere quale crudele incubo si stava preparando a diventare reale di li a qualche anno. A casa mi aspettava mia mamma,con il cibo e i sogni sulla tavola apparecchiata. A lei,l’aspettava suo padre,con la macchina piccina ai bordi del marciapiede. Lo stesso incubo ci ha travolte,lo stesso mostro che anche lei conosce bene. La stessa guerra dentro gli occhi. Cercavo lei,quando diventava intollerabile fare a gara con gli occhi di mia madre,quando mi chiedevano quelle verità sottili che io avevo incastrato al mio collo. Lei mi capiva,io lo sapevo. Manuela vestita di sole,con il sorriso scintillante e le parole giuste da dire. Manuela e la sua guerra concentrata in un respiro. Mi veniva incontro con la fretta e la paura che conosceva bene,mi veniva incontro perché per cadere bastava poco,ed io inciampavo di continuo. Parlava con mia mamma,in quei giorni soleggiati di agosto,e la faceva ridere,la prendeva in giro e le regalava qualche attimo di serenità. Sembrava in quei momenti,che bastassero quelle parole a tenere lontano il male. E anche il piatto di pasta scotta e quel purè diventavano il pranzo ad un ristorante dove ci si ritrova tra amiche,una domenica mattina d’estate. ..che se chiudevi gli occhi per un attimo,ci si scordava dell’ospedale, dell’ odore di chiuso,che prendere a braccetto la mia mamma e portarla fuori di lì e raccontarle cose banali e divertenti,ci salvavano la vita. Manuela aveva dovuto imparare prima di me e poi aveva nascosto tutto,nelle tasche dei suoi jeans, dentro la borsa

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ricolma di vita…aveva dovuto nascondere la paura e il ricordo per non fare male. Aveva le spalle forti,la mia fragile amica,come forti sono state sempre le sue mani che tenevano le mie. Non mi ha raccontato la lenta agonia di quei giorni, i giorni che sarebbero arrivati inevitabilmente. Ha avuto il coraggio di guardare negli occhi quel mostro,ancora una volta,l’ha fatto per me… E quella strada fredda e piena di vento,l’abbiamo ripercorsa insieme,come mille anni prima…tenendoci vicine. Due donna ora che conoscono la paura ma sanno come combatterla. Il nostro dolore era così simile che lo sentivamo passarci sulla pelle,tu ridi sempre Manu,ma io lo so. Abbiamo schegge sottopelle,bruciano da morire,ma le teniamo lì per ricordarci il male che ci hanno fatto. Non passerà,lo so io e lo sai tu. La giostra cu sui siamo salite ci ha dato la nausea,ci ha fatto girare la testa,ma noi non siamo scese,siamo arrivate fino alla fine…e barcollanti siamo andate avanti e credimi,non è da tutti. Certi dolori ti spezzano le gambe,ti tolgono il fiato,ti fanno impazzire…certi dolori sono sassi nello stomaco,bisogna essere in grado di conviverci. Il nostro modo di asciugarci le lacrime,il nostro modo per guardare nella stessa direzione,sapendo che il passato è stato un girotondo impazzito. Ho visto i tuoi occhi riempirsi di lacrime,troppe volte…e sapevo che non sarei stata brava come te a sfoderare il più bello dei sorrisi per consolarti,ma credimi ci ho provato. Ti dedico queste poche parole perché so che alla mia mamma avrebbe fatto piacere,lei ti considerava mia sorella e anch’ io. Hai messo sempre il giusto equilibrio nelle mia vita disordinata e non sei mancata mai nelle situazioni importanti. Mi hai insegnato l’amicizia…quella vera,quella che non chiede e non pretende,quelle che semplicemente esiste.

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l'una di notte a nessun Dio in particolare

NON PESI NIENTE

T'imbocco,un frullato di pesca con tanto latte e tanto zucchero,che così ti rimetti in forze...che non pesi niente,che stai dimagrendo a vista d'occhio....che non puoi sparire,tanto latte e tanto zucchero che non pesi niente. Il "mostro" quello che ha deciso di venire ad abitare dentro di te,dobbiamo tenerlo a bada,che dorma il tempo necessario perchè tu possa fare e dire tutto quello che non hai fatto e non hai detto mai.....così ti dico,mentre mangi questo frullato che tra poco vomiterai in quel catino arancione,quello che avevamo comprato insieme mille anni fa,che ora è diventato il tuo stomaco al rovescio. Non ci credo piu nemmeno io alle bugie che ti racconto,ogni giorno diventano sempre più fragili,ma non smetto,diventerò un ottima attrice... in realtà lo so che questo tempo che ci rimane non potrà essere usato per fare tutte quelle cose che ci siamo dette,so che dovremo passare attraverso l'inferno invece,dovremmo tenerci forte per non cadere,perchè anche io non peso niente,mamma. So che vorresti che io raccontassi del "mostro"...quel ladro di tempo e di vita...che ti sta togliendo tutto,piano piano...la voce,il respiro,la pelle,i capelli...che non ti fa mangiare,bere,camminare,sognare....infido bastardo che alterna momenti tragici a momenti in cui ti senti "meglio" per poi crollare di nuovo.....e nonostante i sorrisi raggianti che vedi dietro la mia faccia,ormai i miei occhi sono diventati due lacrime,e vorrei provare a non odiare tutto quello che si muove intorno a noi,ma proprio non ce la faccio. Ho camminato avanti e indietro consumando puzzolenti corsie bianche di ospedali alla ricerca di una speranza che mi è stata negata da dottori nascosti dietro ai loro perfetti camici bianchi,professionali e severi...che volte si sentono Dio e si permettono di dare la loro sentenza di morte come se fosse la cosa più naturale del mondo,la stessa litania che esce dalla loro bocca,da sempre...cambiano solo le persone che si trovano di fronte...e poi ti

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congedano,correndo via verso altri morti da annunciare,sono sempre di fretta perchè la morte non aspetta nessuno...e loro lo sanno.... Io mi preoccupo di te,di ogni minimo particolare che vedo cambiare e cerco di mascherarlo,ti ho comprato una parrucca perchè i tuoi capelli fini si stanno sciogliendo come la neve al sole,li ho nascosti dentro una busta,ma tu non lo sai...ti ho comprato una crema per le labbra,screpolate e viola,bianca cosi bianca da non farti vedere le croste che si sono formate...creme per la tua pelle che cade,e sonniferi,pastiglie,punture per non farti sentire il maledetto dolore,quel maledetto dolore che ti fa gridare...e ti tengo la mano forte e ti abbraccio,non ti lascio sola,siamo due contro uno...il mostro lo sa. Ho paura,hai paura anche tu...non ce lo diciamo mai,perchè noi siamo donne con le palle e non possiamo permetterci di dirci che abbiamo paura,dobbiamo difenderci,tu me io te,come un girotondo impazzito,come una madre ed una figlia,che siamo noi. Ti meriti queste parole che non leggerai mai,perchè la gente non vuole sapere come si muore un po’ alla volta e non voglio saperlo nemmeno io,ma me lo sta raccontando tutti i giorni questo tempo bastardo....e scriverlo lo rende reale....rende reale te,che rimani bella nonostante il mostro tenta di mangiarti,di scavarti,di bucarti...rimani bella come sempre,anzi di più...gli specchi li facciamo sparire,non servono,sarò io il tuo specchio e davanti a me sarai sempre meravigliosa. Mi chiedi musica perchè il silenzio ti racconta troppe cose,mi chiedi luce perchè il buio comincia a farti paura,mi chiedi di raccontarti la vita al di fuori da questo stupido letto che ti tiene stretta,allora apro le finestre,ti copro bene e ti faccio respirare il cielo e ti racconta davvero quella vita fuori,ti racconta storielle per farti ridere,ti parlo della gente che incontro la sera,quando tu chiudi gli occhi ed io finalmente posso piangere un pò... Abbiamo anche imparato a pregare,io che non prego mai....tu che preghi il tuo dio che forse è lo stesso mio,ma lo facciamo piano,prima di dormire,senza farci sentire,perchè in fondo quando decidi che è arrivato il momento di affidarti a qualcosa di piu grande,significa avere paura,significa che qui non c'è più niente e nessuno che ci può aiutare davvero. E ci spero in quel miracolo,ma ho bisogno di non crederci troppo,perchè l'impatto poi con l'inferno è terrificante per chi non sarà pronto,e vi assicuro non si è mai pronti. Allora a volte serve avere il sangue ubriaco per non sentire cosi tanto male,per nascondersi un attimo,un attimo solo prima di tornare. Sono fatta così,questo è l'unico modo che conosco per affrontare questo "mostro" maledetto che sconvolge la vita delle persone,che ti ritrovi a fissarti in una sala di aspetto rosso sangue,con perfetti

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sconosciuti che però lo sanno a cosa stai pensando e cosa provi....e pensi che di "mostri" ce ne sono tanti,con nomi diversi,più o meno aggressivi,più o meno grandi,ma tutti ti fanno tremare gli occhi e spaventare il cuore. ...e non peso niente ma ho anima per sopportare questo dolore...e ti giuro mamma,qualunque cosa accadrà io non ti lascerò la mano e non smetterò mai di raccontare di te.

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Cap. 2

LA STANZA DEL VELENO

Riesci quasi a sentire i dettagli. Quelli che non hai mai pensato di esprimere con le parole,frammenti che si fanno sentire anche

quando non vorresti. Li metti insieme e ritrovi il sapore di una persona….e capisci quanto ti mancano...e quanto odi chi te li ha

portati via. - Memento

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Tenevo gli occhi socchiusi,la luce era troppo forte,diretta,inesorabile...la stanza rossa,le pareti bianche,immacolate...qua è là qualche quadro anonimo,qualche locandina utile...una finestra come un occhio che spia il dolore altrui... La stanza ci divideva in due...i malati e quelli che attendono,per questo motivo la chiamano sala d'aspetto...è quando ti ritrovi a dover vivere entrambe le esperienze che diventa un casino. …qui io facevo parte della seconda categoria,i bruciatori di sigarette,i leggitori di giornali,i bevitori di caffé,i lamentatori di preghiere sussurrate,gli occhi lacrimosi...eravamo un insieme di persone sconosciute che in comune avevano solo l'orribile percezione di una realtà devastante e la conoscenza del dolore e di mostri che ti succhiano la vita,da qualunque parte. Io guardavo fuori da quella finestra e il non vedere l'orizzonte mi spaventava a morte,trattenevo a stento il pianto a volte,anche se sapevo che quel luogo era stato fatto apposta per ospitare dolore e lacrime...tutto sapeva di quello,tutto intorno mi faceva sentire come senza speranza,ed era la verità. Sulle nostre preghiere e sui nostri discorsi,spesso si posava il silenzio,la quotidianità veniva rotta da quel mistero,da quel orrore,e la gente normale che smetteva di lavorare,di studiare,di mangiare,di vivere si guardava intorno alla ricerca disperata di altri occhi che intendessero. …ne ho visti troppi di quegli occhi che si incontravano con i miei,abbassavo lo sguardo a volte,per non mischiare la mia paura con chi ancora cercava di lottare,io che sapevo che il destino aveva riservato per noi una strada diversa,una non speranza che mi lasciava ogni volta incredula nella luce bianca di quella sala d'attesa rossa. Le vene fragili,blu come il mare in tempesta...le dita,rami di betulla avvinghiate ad una poltrona che le avvolge strette...e di quella poltrona potrei dirvi e raccontarvi...ospita dolore tra i suoi tessuti impregnati di lacrime e disinfettante...si sedeva,senza mai guardarmi negli occhi...tendendo il braccio al veleno che avrebbe dovuto salvarle la vita...quel veleno dai nomi improbabili,che la gonfiava,la scarnava,la stancava,la bruciava...quel veleno che sentiva salirle in bocca,sapeva di plastica...l' asciugava. …il silenzio non lo coprivi nemmeno con la musica,solo silenzio che soffoca...in quella stanza grigia,fatta di passi veloci avanti ed indietro...d'infermiere preoccupate da vene troppo fragili...che non reggono,lo vedi?

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…il sangue che colava,non era quello che le dava la nausea...ma quel dolore piccolissimo a forma di ago,quel colore denso che le entrava a gocce,pianissimo,velocissimo... chiudeva gli occhi e pensava a ciò che di bello c era la fuori...cose piccole,banali che inchiodata li sentiva lontanissime...non riusciva nemmeno a muoversi con il pensiero,inchiodata in quella poltrona rossa...con il poggiapiedi ed un cuscino bianco sbavato qua e là... ...e quel libro che si portava per sconfiggere i pensieri,la guardava dal tavolino,accanto a lei...non riusciva a muovere un solo muscolo,tutto diventava pesante,ma non riusciva a spiegarlo...ogni tanto qualcuno faceva capolino dalla porta,la gente normale,la gente che non sapeva che a poco centimetri dal loro naso qualcuno stava viaggiando attraverso l'inferno... Dentro di lei cantava filastrocche per farsi perdonare,perchè c'è sempre qualcosa per cui farsi perdonare... …la vedevo seduta su quella poltrona,per mille volte mi sono nascosta e l' ho spiata...lei non voleva che io la guardassi,non mi voleva vicina,mi dicevi di stare in sala di aspetto e di scrivere,di raccontare,di osservare la faccia e gli occhi della gente...mi dicevi di scrivere perchè tutti devono sapere cosa si prova appena prima di entrare nella stanza dei veleni... Lei che cercava li dentro un pezzo di noi,per sentirsi a casa,debole e sfiancata,appoggiava la testa piano e si lasciava cullare da quel calmante che le circolava dentro,la sua inquietudine si trasformava in lentezza ma non si placava... mi raccontava poi,ci provava...ma io lo sapevo già. era solo l'ennesimo tentativo di volare di nuovo,invece che di cadere,ma lei lo sapeva che prima o poi si sarebbe schiantata...l'ha fatto per noi,si è sottoposta a quella tortura per farci vedere che un po’ ci credeva...è stata al gioco,fino alla fine,protagonista di quel teatrino bugiardo messo in scena da quattro persone disperate...ma il copione era stato scritto da una mano sconosciuta ed il finale rimbalzava nei nostri occhi...sempre.

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A Michela…

…e a tutte le infermiere/i che ci hanno fatto sentire a casa tra quei corridoi ferrosi,a quei caffé caldi,alle

parole davanti ad una sigaretta…grazie di cuore.

Quando, hai asciugato col dito una guancia bagnata e sei riuscito a trovare un momento per alzarli, quegli occhi, su questo cielo blu, infinito e sconfinato, fatto un respiro, guardato un po’ indietro, sorriso ancora e continuato ad andare. Che sia questo, l’istante deserto dove si nasconde, la poesia?

«Sono tutti al loro posto dentro l'acquario,non fosse per l'acqua evaporata sembrerebbero dei pesci. In realtà – dunque – sono tutti sdraiati sul fondo, in attesa di qualcosa. A quante persone puoi dare lo stesso grado di attenzione? Quanti traumi puoi sopportare senza cadere schiantato al suolo? E’ tutto eterno, è tutto ingannevole, e con le spalle ampie devi contenere quel che ti arriva addosso. Per cui scappa dove vuoi, corri da chi vuoi,fissa fino in fondo fino in fondo l'ultimo bicchiere tanto sarai sempre un maledetto capogiro.»

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C'era lei,che ci veniva incontro con un sorriso,credo si chiamasse Michela,l'infermierina capello corto e dalla voce squillante che correva avanti ed indietro tra quelle stanze e quelle porte sempre chiuse. Il suo sguardo attento e vigile,la sua confortante presenza ci regalavano attimi di strana tranquillità,lei che sorrideva alle vene stanche,lei che accarezzava piano ragnatele di pensieri in quelle teste prive di capelli,da quelle mani avresti potuto imparare un sacco di cose,pensavo mentre la guardavo,asciugava lacrime,disegnava sorrisi e ripassava dolori. Stringere forte le mani era il suo modo per vincere quella guerra. Aveva sempre un modo garbato per dire parole che pesavano come macigni,ma sapeva pronunciarle con una tale lievità che le rendeva meno pesanti da sopportare,il suo sorriso per un attimo sconfiggeva tutto il buio. …lei faceva qualcosa che dentro quel posto in pochi erano capaci di fare,ti regalava la normalità. Sapeva ascoltare Michela i lamenti e le urla e tutto ciò che stava nel mezzo,sapeva guardare,senza mai abbassare lo sguardo,come una sfida tra lei e i «mostri» Conosceva il sapore plastica del sangue in bocca,l'arsura sulle labbra...sapeva del sole che consuma e delle notti masticate. «Ti trovo bene,Giovanna",diceva sorridendo a mia madre,che la guardava di traverso,ma un poco fingeva di crederci anche lei,nonostante la ruga di quella notte incancellabile intorno allo sguardo. Conosceva le parole giuste da dire,il modo di inclinare la testa e sapeva sorridere senza essere indiscreta,senza entrare nella sopravvivenza quotidiana,che sapeva essere pesante.

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Il giorno dopo ripose il suo abito da sposa

nel baule in mezzo ai vecchi vestiti di carnevale... ...le sembrava il posto più adatto.

La signora contessa,magra e perfettamente ordinata sedeva sui bordi della sedia,con un fazzoletto di carta in mano ed uno sotto il sedere,per non sporcare quella gonna costosa e vecchia di mille anni. Mi chiamava «bambina» e aveva un modo particolare di guardarmi,era come se ogni volta mi accarezzasse la fronte. Parlava sottovoce come se ogni discorso fosse una favola o la confessione di un segreto e nelle sue parole c'era il dolore straziante ma sempre composto di chi sta perdendo qualcosa di prezioso e non sa come fare per rimanere lucido e non impazzire. Aspettava paziente,fumando un sacco di sigarette,sporcandole di rossetto e di lacrime,mi raccontava di una vita fatta di viaggi,di feste,di bagordi e mi disegnava quasi con mani nodose e stanche il suo amore di una vita,l'uomo che l'aveva sorretta e che ora sorreggeva. La guardavo e mi sembrava fuori tempo e fuori luogo in quello spazio grigio e fumoso,io l'immaginavo in mezzo ai fiori,nella sua serra perfetta in quella casa perfetta in riva al lago... La immaginavo camminare tra quei fiori,mentre un braccio forte la sosteneva,mentre i fiori cantavano una bellezza che basta a se stessa,un amore vecchio come il tempo ma inattaccabile e resistente,persino alla morte,alla malattia,al dolore. …così parlava la contessa che poi contessa non era. mi diceva che siamo tutti viaggiatori in un viaggio verso il nulla,adoranti e bisognosi. E' il destino a complicare ciò che sembra maledettamente semplice, a dissipare quel che sembra un equilibrio perfetto. Non so se è esattamente vero, ma è comodo. Così mi diceva la contessa in quelle mattine che sembravano eterne,mentre tutto il mio mondo giaceva su un letto ed il suo si contorceva educatamente su una poltrona. Stava perdendo il suo amore e ne era perfettamente consapevole. Mi ha insegnato tra le parole che venivano a farmi visita che qualcosa rimane sempre,come un fiore secco, tra le pagine del libro di storia, che non dà più profumo, ma è lì, con tutta l’intensità percepibile di una presenza silenziosa.

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Ostinata, risoluta, caparbia e indifferente a tutti gli “ormai”, ed io, elfo guerriero, creatura appassionata, non potevo oppormi al caso, al destino, al fato, all’impermanente, ma potevo custodire, senza definirla, questa incomprensibile, piccola cosa, che di noi, rimane.

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Ho un tremore alle mani, come vento di sera, in mezzo a un parcheggio.

Il mondo è bello anche se ti strappano le dita,così mi diceva invece la signora calabrese,donnone energico e veloce che stava nel letto accanto a quello di mia madre e che guardava tutti con occhi brillanti,occhi svelti. Non sopportava di essere inchiodata in quel letto,reduce da anni di chemioterapie infestanti,il mostro abitava in lei da troppo tempo,ma la sua guerra quotidiana era fatta di cose semplici,che la tenevano ben salda su questa terra. …se devo fare la conta dei dolori,diceva,non credo che sarei sopravvissuta fino ad oggi,poi si girava verso il marito e nel suo accento che sapeva di mare gli diceva di chiamare le figlie per rassicurarle che stava bene. Ricordo di lei,rocamboleschi giochi di vocali aperte,la sua parlata frenetica,il suo raccontarsi. Sapeva di mandorla e di gelsomino e quel dolore attorcigliato alle sue gambe stanche lo trascinava dietro di se,come un vecchio fardello,come una colpa... Signora dai piedi nudi,che non aveva mai freddo. Doveva essere stata una contadina,asciutta e forte che a guardarla bene aveva il colore del sole sulla pelle. Aveva scorte di fazzoletti e preghiere sussurrate…aveva sempre voglia di caffé ma non quello delle macchinette quello non le piaceva affatto. Si teneva i suoi dolori stretti nella borsa,insieme all’acqua e al deodorante…insieme al suo passato,ben decisa a non perderlo per strada. Aveva una borsa enorme a ben guardare. Inciampava nei nomi complicati che le dicevano per descrivere il suo male…sicuramente anche lei aveva un nomignolo da affibbiarli,magari in dialetto,giusto per sdrammatizzare un po’. Era facile immaginarla dietro ai fornelli,con il grembiule ricamato,sporco di sugo. Inadatta a quel letto,come tutti d altronde. Lei raccontava di ricette al sapore di capperi e suonava stonata la sua voce colorata in quel bianco disinfettante. Mia mamma l’odore del sugo nemmeno se lo ricordava più,aveva smesso di mangiare,da quando la nausea aveva colmato tutto. La signora che veniva dal mare la guardava,forse cercava dentro di se parole consolatorie che però non sapeva dire,non bastava il cielo e aprire un po’ la finestra,che fuori era

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estate,mia mamma aveva sempre freddo e il colore del mare l’avevo smarrito in qualche borsa rinchiusa nel armadio.

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SAPPIATE. URLO COSI'. Pensi di non potercela fare. Credo faccia parte della malattia: è una malattia che divide…divide il corpo dalla mente, o rende visibile una divisione che c’è già stata, una frattura insanabile, forse; divide la parte di te che vorrebbe tornare a un prima che forse nemmeno ricordi, un prima nel quale la malattia non c’era, non c’era frattura, da quella che sta bene così, che ha paura di tutto quello che, malattia, non è. La malattia è dolore, ma è un dolore che ha un nome: CANCRO! Si provava a sperare,il problema è che per sperare bisogna sapere che cosa si vuole sperare, ed è questo che la malattia ci ha tolto. Non la fame, non i capelli,il sonno – i veri nomi delle cose… …il nostro nome, il nome delle nostre speranze, il nome di quello che siamo e che saremo. Il giorno che i suoi occhi hanno smesso di brillare,questa è la prima cosa che il cancro ha levato a mia mamma. Il giorno che il dottor D. ha sorretto le sue spalle mentre le annunciava di avere «il male brutto»,così lo chiamava lei. Quando sono arrivata all'ospedale quel giorno e ho visto i suoi occhi senza luce,ho capito che qualcosa quel giorno tra di noi sarebbe cambiata per sempre...eravamo entrambe consapevoli che prima o poi avremmo dovuto lasciarci. Ricordo che siamo uscite a fumarci una sigaretta e che quel corridoio l'abbiamo percorso abbracciate,tremando e piangendo piano...è stata la passeggiata più dolorosa che abbiamo fatto insieme,la più lunga e la più tragica. Ricordo la paura che si faceva sudore freddo e ricordo la mia rabbia. Lei mi diceva di non piangere ed io le rispondevo che era solo rabbia la mia. Le dicevo che ce l'avremmo fatta,che era una cosa da niente. ma le mentivo e lei lo sapeva. L'emorragia di quei giorni mi scivolava dentro...la sveglia che suonava perfettamente coordinata con l'alba,con il rito nauseabondo della prima medicina...correvo con gli occhi chiusi nella sua camera,con quei flaconi in mano...gocce per la tosse,sciroppi,pastiglie per l'ansia,pastiglie per fare

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pipì,punturine per la nausea,sciacqui per quella bocca che si stava consumando...tutti i giorni la sua voce si faceva sempre più piccola e mi salutava stanca. «un'altra giornata» mi diceva,guardando fuori,fissava il cielo. quel cielo che io avevo imparato a ringraziare per avermi permesso di vedere i suoi occhi aprirsi ancora una volta. In quei giorni,stavamo sedute insieme sul divano,lei non guardava più la televisione,non le interessavano più le chiacchiere noiose del mondo,le banalità...ascoltavamo la musica. Ogni tanto piangeva,mi diceva che le mancava la sua mamma. …io allora le rispondevo: sono qui io,non ti preoccupare,la nonna sta sempre con noi. …e lei si rasserenava,ma non troppo,le rimaneva impresso sul volto quella tristezza che sapeva di rimpianti e di cose non dette. …la guardavo senza capire,ora lo so. I suoi occhiali si appannavano in quei momenti,io glieli pulivo e poi mi accorgevo che erano i suoi occhi ad essere appannati,i suoi occhi erano opachi,i suoi occhi avevano smesso di brillare. C'era un mostro feroce che viveva nei suoi polmoni,un mostro sedato con cura...non erano le medicine a rincoglionirlo,a renderlo quieto ancora per un po’... …eravamo noi. Erano le canzoni,erano le parole,era quella pastina calda,quel gelato,quel dolce fatto con tutto l'amore possibile...erano le cremine sulle mani,il borotalco,i ricordi. E’ stata tutta una guerra di unghie...rimanere attaccati alla vita, le sue unghie erano le più forti che io avessi mai visto...non è bastato. …eppure era estate,eppure c'era il sole...lei aveva sempre freddo. le avevamo regalato una vestaglia morbida,con sopra dei maialini,lei la metteva sempre,anche quando la lavavo riuscivo a sentire il suo odore di mamma….la mia mamma. Il mostro si nutriva di dolore e noi lo tenevamo a bada con lo zucchero. Mia mamma dormiva e io stringevo nella mano una bustina di zucchero e una preghiera.

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sarebbe arrivato il mattino così. Ci s'inventava un modo per sopravvivere,un modo per non spezzarsi le ossa,bastava dormire sul lato giusto,bastava respirare a lungo e passava la nausea,passava la paura, bastava dormire tenendosi forte la mano,accendere la lampadina sul comodino,i mostri hanno paura della luce e di mani che si stringono. Si nutrono di buio e di solitudini. …nella stanza del veleno mia mamma c’è stata solo una volta,la terapia la distruggeva. …ma era la nostra unica speranza,quel veleno doveva sconfiggere il mostro. i mostri si nutrono di veleni. Abbiamo smesso. E la vita si trasforma in uno scarabocchio senza forma,un orologio che batte inesorabile il tempo…tutti su quel precipizio,a guardare giù…tutti impauriti,senza forza. Ci siamo stretti forte,io mio papà e mio fratello,solo noi contro un destino che non sapeva più di famiglia,ne di futuro,ne di casa…un destino malvagio che ci strappava via con la forza quel amore grande per cui vivevamo. Cosa potevamo fare noi? Cosa abbiamo fatto? Non si può combattere contro qualcosa più grande di noi,anche se fino all’ultimo ci abbiamo sperato…abbiamo ricominciato a credere miracoli,abbiamo fatto in modo che quel tempo fosse prezioso e che scivolasse lento tra di noi. Abbiamo fatto quello che riuscivamo a fare meglio,l’abbiamo amata e siamo rimasti la sua famiglia speciale,quella di cui lei andava orgogliosa. Mi diceva sempre,”Alessia noi non abbiamo niente,ma la gente c’invidia,perché noi siamo una famiglia,di quelle vere,di quelle che ne esistono poche”. Potevamo regalarle solo questo. Potevamo fare solo questo.

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Cap. 3

LA TERAPIA DEL DOLORE

...da piccola sognavo i mostri e anche ora che sono adulta ogni tanto mi capita,ma non riesco più a

fregarli… Nicolò Ammaniti

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-E QUANDO DOTTORE LO FUI FINALMENTE,NON VOLLI TRADIRE IL BAMBINO PER L'UOMO...E VENNERO IN TANTI E SI CHIAMAVANO «GENTE",CILIEGI MALATI IN OGNI STAGIONE-

De Andrè Ho fissato i miei piedi,dietro quella scrivania un uomo mi stava dicendo che era finita lì,che non si poteva fare nulla contro quel tipo di mostro...era troppo esteso,era troppo «dentro». Mi stava dicendo che mia mamma era troppo fragile,troppo debilitata per poter sopportare tanto veleno. Quel dottore aveva gli occhi trasparenti,più che le parole,più di tutto,io sentivo i suoi occhi. Pensavo di vivere in un incubo e poi pensavo a tutti gli incubi che lui era stato costretto a vivere negli occhi della gente. Forse vedeva anche il mio. Parlava e ogni tanto s'interrompeva per sapere se avevo qualche domanda da fare,ecco non capiva che non riuscivo a parlare.il nodo in gola mi stava soffocando. Ero stanca,avrei voluto gridarlo. Volevo che mia madre guarisse,volevo tornare indietro con il tempo,prima del mostro e avrei voluto scappare. Sono rimasta immobile… …immaginavo il mio futuro,era li a pochi passi da me,il mio futuro nella bocca di quel dottore… …quella bocca quieta stava gridando nella mia testa,pensavo d'impazzire. Ha dovuto fermarsi,mi guardava imbarazzato,impotente forse. I dottori salvano le vite perchè lui invece mi stava raccontando il non futuro? perchè lui non mi salvava? non ci salvava? I miei pensieri erano tutti in ostaggio nelle sue dita che tamburellavano sul tavolo,che si muovevano frenetiche,che disegnavano forme nell'aria... …ma avevo occhi d'inchiostro,il mio difetto più grande forse,e lui lo sapeva cosa pensavo,leggeva tutto e rispondeva alle mie domande silenziose. Mi ha spiegato che di cancro si può guarire,ma di cancro si può anche morire. Ce ne sono tanti e di tanti tipi.

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Lui era l’addestratori di mostri,in quel circo pazzesco senza gabbie. Lui era il domatore,senza fruste ne fucili. Il mostro che abitava dentro mia madre era troppo aggressivo,e non c’erano bisogno di paroloni,non c’era bisogno di termini medici per spiegarmi che quel mostro non poteva essere abbattuto. Immaginavo draghi con la pelle robusta,immaginavo condottieri con spade ed elmetti pronti ad uccidere,immaginavo mia madre rinchiusa in una torre,che aspettava solo di essere salvata. Quel dottore mi stava raccontando il modo per rendere ancora per un poco quel mostro inoffensivo. Costruiamo un muro e rinchiudiamolo,finché non diventerà così grosso da distruggere tutto. Parlava di qualità di vita,mi chiedevo quale vita,se c’era ancora una vita,stava ben lontana da me. Mio padre invece continuava a chiedere quanto tempo rimaneva,sembrava ossessionato dall'idea di non aver abbastanza tempo per dire,per fare... …io sapevo che il tempo comunque non sarebbe bastato mai.

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Il giorno dopo,ho deciso che avremmo avuto bisogno di aiuto,anche se io pensavo di farcela,non era cosi. Le apparenze ingannano,questa è la prima cosa che ho dovuto imparare,convivendo con i mostri....a volte sono silenti,non si fanno sentire,si nascondono per poi riapparire quando meno te lo aspetti,quando pensi che le cose vanno meglio...le cose non vanno mai meglio...inutile illudersi. Sono andata a chiedere per «la terapia del dolore» quella che ti accompagna verso la morte,senza farti soffrire troppo. Ci hanno accolti,a me e a mio padre in quel Hospice agghindato e ben vestito,in quel luogo pronto ad ospitare dolore. Avevo tra le mani,quelle carte,la sentenza a morte di mia madre,non c'è stato bisogno di dire nulla,la dottoressa ha scosso il capo e ha cominciato a compilare moduli e poi ci ha detto che avremmo avuto l'accompagnamento necessario. Ci ha dato quel treppiede maledetto,la sedia a rotella,un infermiera e una dottoressa che tutti i giorni venivano a constatare la salute di mia madre,io lo vedevo come un conto alla rovescia e ogni giorno era sempre peggio. Lo vedevo dagl’ occhi spauriti ma sicuri della dottoressa,da come scriveva fitta fitta tutti i parametri di non vita di mia madre. Mi si stringeva il cuore a vedere che la trattavano come una bambina,che le parlavano dolcemente,io mi sarei messa a gridare. Ogni giorno ero sempre più disfatta,le accoglievo con il mio sorriso perfetto da strega,le faceva accomodare e poi le accompagnavo sulla soglia per farmi gridare nelle orecchie la verità. Tornavo dentro,guardavo mia mamma,indossavo il sorriso perfetto e le dicevo... «andiamo meglio!» E' stato l'incubo di quei giorni a stortarmi gli occhi,a farmi assumere la posa di una ballerina stanca,di un pagliaccio triste. Il mio compito era quello di nascondere,di cancellare,di saltare gli ostacoli,di dire bugie,d'inventarmi un modo per trasformare quel male in qualcosa di stupido e normale,non è stato facile. Il cancro è così. Ti cambia. Il tuo corpo si trasforma piano in un palcoscenico di dolori e noie. La pelle diventa secca,la bocca si asciuga e forma bolle doloranti,i capelli cadono,cadono le unghie,i denti...lo stomaco non regge ne cibo,né acqua,si rivolta per sputare fuori qualunque cosa,la nausea diventa insostenibile,ti viene la

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febbre e hai sempre freddo,anche d'estate...non hai più voglia di nulla,sei solo stanca,tanto stanca a volte da non reggerti in piedi. Perfino il tuo sangue impazzisce,i tuoi valori si sballano e ti rendono debole ed instabile. La tua mente s'incattivisce e ti senti nervosa,stizzita con il mondo con te stessa. …anche questo è il cancro. E ricordo i capelli di mia mamma,ovunque...tra il pettine,sui vestiti,sul cuscino,negli asciugamani,sulla sedia,sul divano...erano ovunque...quando le accarezzavo piano la testa mi rimanevano tra le mani. Lei non lo sopportava,non sopportava di svegliarsi al mattino e trovare ciocche di capelli sul cuscino...una volta le ha persino nascoste per non farle vedere a me,la sua paura,pensava era la stessa mia. …mamma fino all'ultimo momento,la mia mamma. Le abbiamo regalato una parrucca,le stava bene,le toglieva per un attimo quella sensazione di perdere qualcosa,di essere malata,irriconoscibile.

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“IL SUO ADDIO,UNA PORTA CHE SBATTE”

Mio fratello dietro quella porta serrata,respirava tutta la paura. Lo sentivo ogni tanto parlare a sottovoce,forse raccontava a suo modo l’inferno che ci avevano costruito intorno. Forse il suo inferno era diverso dal mio…lui non aveva scale su cui rintanarsi e scrivere,lui teneva tutto appiccicato alle sue mani. Lo vedevo guardare mia mamma…e nei suoi occhi ritrovavo il bambino che era stato. L’ho accusato spesso di non essere presente,l’ho accusato ingiustamente senza capirlo…non ci avevo nemmeno provato. Forse era la rabbia,forse era tutta quella nebbia intorno… Costruiva un muro,ma lo faceva solo per difendersi. Avrei voluto scrivergli un sacco di bigliettini per fargli sapere come andavano le cose quando alla sera tornava a casa,mangiava svelto e si buttava in quella camera,avrei voluto raccontargli di nostra mamma,di come stava vivendo ora che si avvicinava la fine,avrei voluto tirarlo per il braccio e chiedergli di venire in salotto con noi e di guardare la mamma negli occhi. L’ho lasciato invece tra le sue paure. Tratteneva il respiro,lo so…lo trattenevo anch’ io,ma ho avuto il coraggio di stare a guardare,di esserci sempre e comunque… e non è stato facile. …che poi forse non si trattava nemmeno di coraggio,è solo guardare le cose da un’altra prospettiva,è solo essere uno spettatore impotente,scegliere di vivere il dolore di lato. Di esserci silenzioso. La mamma lo sapeva,lei lo conosceva meglio di me,il suo bambino fragile,lei lo capiva. Le ha regalato il suo ultimo abbraccio,quando quel giorno per pochi attimi ha riaperto gli occhi,quando mio fratello cercava di farla alzare dal letto,ma lei non ce la faceva. E’ stato il loro modo speciale di salutarsi. E lo voglio raccontare,perché due anime che si assomigliano non hanno bisogno di grandi parole,e loro si assomigliavano in maniera incredibile. Vorrei chiedere scusa a mio fratello per tutte le volte che gli ho gridato dietro il mio disappunto,forse attraverso queste mie parole sarà in grado di capire tutto quello che non sono stata in grado di dirgli mentre fissavo quel vuoto senza capire da che parte potessi muovermi… …ma mi sono mossa e ora non m’interessa più se lui invece è stato fermo…so perché l’ha fatto…so che in ogni caso e in ogni modo lui c’è stato.

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E siamo fatte di legno,una volta eravamo aceri rossi persi in un viale...

Il dolore che saliva e si attorcigliava piano intorno,la stanchezza di vivere che si faceva tutti i giorni sempre più acuta. I suoi occhi che si chiudevano sempre,sempre più forte... …era un modo di chiudere gli occhi che equivaleva a sigillarli,lei in quel modo teneva lontano la vita che le stava diventando stretta ed inutile,un inutile ripetersi di giorni tutti uguali,senza più sole,senza più una risata,senza più parole. La voce piccina che non sapeva mai cosa dire e quel ultimo pianto in piedi,davanti all'impossibilità di fare le cose più semplici. La osservavo e mi si spaccava il cuore. Le sue mani deboli,i suoi passi stanchi,sempre sulle punte,senza mai trascinare i piedi,quasi un balletto deforme che la proiettava su un palcoscenico di malinconia. La sua danza che si celava intorno alle caviglie doloranti. Il suo modo di andarsene via piano,un addio lento,fatto di sonno e di tristezza... …che se avessi saputo forse avrei detto molto di più. Riuscivo solo a stare in silenzio,prendendo appunti disperati per non perdermi nulla,nessun movimento,nessun suono...era il mio modo speciale di fotografare la fine per non dimenticare come si muore sotto il peso di un «mostro» feroce e spietato. Per raccontarlo poi a quel pubblico che si sarebbe avvicinato a salutarla,quando la disperazione nostra sarebbe stata lontana...quando ormai la morte avrebbe cancellato per sempre quei passi silenziosi in punta di vita.

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Quel ultimo compleanno,avevamo preparato i vestiti il giorno prima,ci guardavano dalle grucce appese all'armadio,ma mia madre quel giorno non aveva nemmeno voglia di vestirsi,le ho detto che doveva farlo,che doveva essere bella quel giorno. Con la lentezza stanca con cui ormai faceva tutto,si è vestita piano,non ha voluto che io l'aiutassi,poi si è messa la sua parrucca e si è seduta sulla poltrona ad aspettare...continuava a chiedermi: «sto bene?»continuava a chiedermi se la parrucca fosse dritta io le rispondeva che era bellissima e lei sorrideva. Continuavo a pensare ai suoi capelli chiusi dentro una busta,a lei indaffarata in cucina a preparare da mangiare,a lei che si muoveva veloce per caso riordinando le ultime cose lasciate in giro,invece era lì immobile,in attesa. In piedi al centro del tavolo a soffiare piano su quelle due candeline,una foto mossa perchè il dolore non si lascia incastrare,né cogliere. Soffiare piano un desiderio che vola via,fuori dalla finestra,forse inascoltato,accanto a lei respirava suo fratello. Stavano vicini ed io li immaginavo di nuovo bambini,a correre su per quella scala fredda,rossi in volti e felici. Adorava quel fratello,io lo sapevo bene...per questo il suo ultimo compleanno lo abbiamo festeggiato tutti insieme,come una famiglia. Sapevo che senza di lei poi nulla sarebbe stato uguale. Nulla avrebbe avuto lo stesso sapore. Mi gustavo con gli occhi la loro immagine vicina,seguivo ogni movimento della sua testa e sbirciavo i suoi sorrisi stanchi. Su quella poltrona che quasi la inghiottiva,era diventata piccola...e la vita si prendeva gioco di noi. Non c'era nulla da festeggiare se non il rimbalzante pensiero che quello sarebbe stato il tuo ultimo feroce compleanno. Non ci sarebbe più stato nulla poi,nessun regalo da scartare,nessun biglietto da leggere con le lacrime agli occhi,niente pasticcini al cioccolato né brindisi da fare. C’eravamo solo noi pieni di menzogne impacchettate a mo di una strana festa malinconica. Sulle sue spalle il peso di quegli anni,il peso delle sue ossa,dei suoi pensieri…delle sue lacrime e delle sue risate,sempre troppo poche rispetto alle tristezze. Le sue spalle piccole voltate verso il nostro mondo,tutto lì,chiuso in quel salotto pieno di fiori. Fiori per il suo compleanno.

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Eravamo lì,in attesa dello schianto,quella quiete strana prima della tempesta, i pensieri rivolti all’inevitabilità che ci aspettava in agguato. Il dolore capovolto e incappucciato da divagazioni e sorrisi. La percezione della distanza che esisteva tra la normalità e l’immaginabile disperazione,servita su un piatto decorato,rivestita da torta alla panna. Ogni cosa diventava questione di sopravvivenza,persino arrivare a sera e scorgere un tramonto. Le ho scritto un biglietto veloce,io che di parole le ho riempito la vita,quel giorno non avevo nulla da dirle...non riuscivo più a scrivere... …bastavano gli occhi,i suoi che mi ringraziavano e i miei che catturavano tutto,che le dicevano di arrivare fino a domani...fino a domani almeno. Le stelle rimanevano dei mostri luccicanti sopra la nostra testa. Non c'erano giorni «migliori» o giorni «peggiori»,c'erano solo giorni fatti di consuetudine,giorni al sapore di medicine che sapevano di arancia...giorni calmi,in cui il male placava e allentava la presa su di lei,su di noi. Nei giorni in cui riusciva a stare in piedi,la vedevo trafficare in cucina,lavare i piatti,fare il bucato,scopare per terra,reggendosi a quella specie di oggetto metallico che doveva in qualche modo tenerla in piedi...la vedevo trascinarsi per casa,inquieta sempre,alla ricerca di quella normalità che le mancava. Ho odiato per un sacco di tempo quel aggeggio,ho odiato quella sedia a rotelle lasciata sulle scale a prendere polvere. La guardavo ogni volta come se fosse il nemico,qualcosa di sbagliato,che non avrebbe dovuto far parte del nostro mondo. …ma le gambe di mia mamma erano sempre più stanche e quel viaggio,tra la macchina e l'entrata dell'ospedale diventava sempre più lontano per lei,una passeggiata estenuante che doveva condurla in quel posto che per lei era la morte. Il mostro aveva dovuto farla a pezzi per affrontarla meglio,non ce l’avrebbe fatta senno a sconfiggerla. Lei diventava sempre più piccola ed io che pensavo che ad un certo punto sarebbe stata così minuscola che avrei potuto conservarla per sempre nel mio cuore. Avrei voluto proteggerla dagli artigli del mostro,ma ormai l’avevano avvinghiata stretta…stavamo solo aspettando che la sua anima tornasse leggera,stavo solo aspettando che diventasse minuscola per non doverla perdere più.

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Quelli erano i giorni del «riesciacapire»,di una dottoressa buona che ti sussurrava all'orecchio..."tua mamma sta morendo» ed io incredula ai bordi di quella porta mi sorreggevo. Riuscivo a capire,ma non volevo crederci. Erano i giorni del «lascialandare»,non si può trattenere un'anima,nemmeno se la stringi forte. Ed io la trattenevo. Mi sono chiesta spesso come facevo a stringerla forte se non mi sentivo nemmeno più le mani,le mie mani magre e nevrotiche che sembravano danzare su fogli di carta ben stretti nella mia borsa. Tutto il nostro inferno chiuso in quei foglietti volanti. Tutte le sue espressioni,i suoi sorrisi piccoli,tutto il nostro mondo che andava sgretolandosi,come un terremoto che ti colpisce al centro della notte,che se non fai in fretta a scappare ti schiaccia e ti porta via tutto. Stavamo li ad aspettare,al centro esatto di quella notte durata 64 giorni inesorabili e cattivi. Il sonno da cui non si torna più,un implacabile Morfeo che ti porta

via per sempre...che ti chiude gli occhi e ti trascina lontano da me,dai fiori che ti ho regalato per il tuo ultimo compleanno,dalla

vestaglia morbida con i maialini,dalla vita che ci eravamo disegnate intorno...e tutto questo diventa un vetro conficcato in

gola. a volte mentre le sorrido penso che lei mi senta urlare...e in un

attimo di lucidità,mentre sapeva che io ero lì mi ha detto piano..."io resto sveglia per te"....mi sono allenata a rispondere nella maniera

giusta,per poi capire che non esiste la maniera giusta,così ho continuato a sorriderle urlando.

Mi hanno spiegato che devo lasciarla andare,che non posso svegliarla ogni tre minuti perchè ho paura che qualcuno venga a

prenderla senza chiedermi il permesso,senza salutarla nemmeno...

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…che un paio di volte ch'io lo guardai negli occhi, egli stornò lo sguardo dal mio. Si dice che ciò è un segno di falsità, mentre io ora so che è un segno di malattia. L'animale malato non lascia guardare nei pertugi da dove si potrebbe scorgere la malattia, la debolezza." Italo Svevo, La coscienza di Zeno Nessuno mi aveva detto che il dolore assomiglia tanto alla paura…purtroppo certe cose sei costretto ad impararle. Impari a riconoscere quella vocina dentro che ti dice che qualcosa non va,che devi essere in grado di riconoscere i segnali che il tuo corpo ti manda. Quando stai male,non hai più voglia di fare nulla,non c’è niente che ti distrae,rimani fisso su quel sentore,alla bocca dello stomaco,non esiste altro. A mia mamma piaceva leggere,aveva una libreria zeppa di libri,di tutti i tipi,dai romanzi d’amore,ai gialli,da i libri horror a quelli fantastici…da quando si è ammalata ha smesso di leggere,mi diceva che i libri erano diventati pesanti,che le sue spalle e le sue mani non li reggevano più. Così io cercavo disperatamente libri leggeri,sottili,non avevo capito che non era il peso a preoccuparla,che quello che pesava davvero erano i suoi occhi stanchi e la sua mente annebbiata. Volevo assolutamente capire quel dolore,quella stanchezza,ma non ci riuscivo fino in fondo. Una volta mi ha detto: “Cosa ho fatto io nella mia vita? Niente”…ecco questo credo che sia stato il momento più doloroso,il capire che non c’è speranza,forse è stato l’unico momento in cui sono riuscita davvero a sentire un pochino del suo male di vivere. Più pensavi al dolore,più il mostro avanzava. Fissare quella realtà era estenuante,io la fissavo e lei invece ci stava dentro. Non le abbiamo mai detto che stava per morire. Forse nemmeno noi volevamo crederci e dirlo lo rendeva reale. Mi sono dibattuta su questo interrogativo per tutti quei giorni,rotolando tra i sensi di colpa e il non sapere assolutamente come affrontare una cosa tanto grande. Mia mamma non avrebbe voluto sapere? Mia mamma lo sapeva già.

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Forse da quel primo momento in cui le hanno detto: “Signora,lei ha il cancro” Il dolore assomiglia alla paura,io ne avevo tanta,troppa,mia mamma di più. Ma la sua bellezza disarmante stava nel fatto che lei aveva paura per noi,per me,per mio padre,per mio fratello,aveva paura di avere paura,per noi. Ha pianto pochissimo in quel periodo,ora che ci penso bene,dopo aver passato gran parte della vita a piangere per cose un po’ meno spaventose… Ha pianto quel giorno,insieme a me. Ha pianto poche sere prima di morire,in piedi di fianco al frigorifero aperto,l’avevo sgridata e lei si era intristita,era diventata la mia bambina. L’ho abbracciata e avrei voluto non aver mai alzato la voce con lei. I suoni troppo forti le facevano male,le ho fatte male io,senza rendermene conto,è stata la paura tanto simile al dolore a farmi arrabbiare. Il suo corpo fragile riempito fino all’orlo di stanchezza,dentro pomeriggi che sbadigliavano,che sapeva di latte e biscotti…di sete,che non dissetava mai. E la sera,se la stanchezza copriva i tramonti,io glieli raccontavo. I nostri giorni cadenzati dalle medicine,dai dolori,dalla nausea. Si festeggiava per un sorso di latte in più,si brindava con l’aranciata quando riusciva a mangiare un omogeneizzato,eravamo felici per il poco che ci era concesso e quel poco era diventato tutto. Il resto era solo fuori da quella finestra,il resto era la vita normale che ormai non esisteva più.

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SI VIVE UN GIORNO SOLO,COME LE FARFALLE.

Non sono stata brava ad addomesticare il tempo, a renderlo innocuo mentre srotolava un cielo perfetto,di quelli che solo a settembre puoi ammirare,quando l’estate scivola lenta in qualche porta di servizio,per lasciare posto al autunno. Il mondo si stava sgretolando davanti ai miei occhi,non sarei mai stata capace di ricomporlo,non sono mai stata brava ne con le logiche ne con la matematica,sapevo solo che avrei dovuto prendere tutti quei pezzettini e riordinarli o chiuderli in una scatola. Ripensavo alle nostre strade,ne avevamo fatta parecchia di strada insieme… Ora che l’aria stava diventando pesante per lei,non riusciva più a camminare,avrei dovuto proseguire da sola. Certi tratti di strada ognuno li deve fare da solo,forse. Quindi io ho imboccato il sentiero che mi divideva da lei,ha voluto andare da sola,io l’ho guardata mentre si allontanava in silenzio,a passo lento ma deciso. Dicevo delle strade,ora mi sembrano labirinti,ne ho tante in mente ma non riesco a dare loro una logica. So solo che c’era sempre musica intorno a noi,e c’era lei che si reggeva forte ma io lo so che non aveva paura. Mi diceva sempre che non servono scarpe adatte per correre,lei che aveva corso dietro treni con i suoi tacchi alti,con la sua eleganza ragazzina,avvolta in quei jeans stretti,quando ancora il mondo aveva il volto della speranza e del futuro. Corro anch’ io sui tacchi,ma non sono elegante come lei,io cado spesso,inciampo,barcollo,sono goffa,come sono goffi i miei tentativi di raggiungerla. Le nostre strade e lei con quella borsa pesante al collo,dentro c’era di tutto,caramelle,fazzoletti,portafoglio,occhiali,la foto del nonno,monetine…e quel aggeggio per respirare,quella sua paura di rimanere senz’ aria,quel suo modo di aggrapparsi sempre a qualcosa,per non cadere. Anche di notte,mi diceva,faceva tanta strada,io avevo solo paura che ad un certo punto si dimenticasse di svegliarsi. Dovevo trovare dei motivi validi per farle aprire gli occhi,di nuovo,senza paura. Aveva iniziato a cadere,non ci sarebbero state più strade dritte,ne musiche da ascoltare,ne viaggi verso il mare. Avrei potuto regalarle un vestito fatto con i fiori e avrei potuto portarla di nuovo a rincorrere treni.

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Ma il tempo non ci ha salvate…lei è diventata una farfalla a cui non posso nemmeno sfiorare le ali,perché dicono che se sfiori le ali poi non riescono più a volare. Cosi dicono. Pensavo alle farfalle,alle strade…scrivevo fitto i miei pensieri su taccuini improvvisati,un giorno forse mi sarebbero serviti per riordinare il nostro mondo fatto a pezzi da sonni anestetici,da mostri cattivi,da vene fragili,da lividi blu che non bastava una crema per cancellarli. Sputavo da quel balcone al quarto piano tutte le mie lacrime,facevano un rumore strano quando si schiantavano sulla strada e il fumo delle troppe sigarette saliva fino alla luna,coprendola. Tornava il buio,spettrale,quello che ti fa i pensieri malinconici,quello che non basta una candela accesa male per cancellarlo. Ho imparato quel buio,a camminarci dentro senza cadere. Io camminavo lei stava imparando a volare.

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Cap. 4

«SULL'ORLO DELL'ANIMA»

E' CHE ESSERE PREPARATI E' DIVERSO DA SENTIRSI PRONTI....

deve essere come saltare...morire intendo...chiudi gli occhi,li tieni stretti e sotto di te il vuoto...salti e quel

salto dura per sempre.

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I suoi respiri pesavano,li sentivo grattare in gola mentre passavo dalla sua camera a piedi nudi per non svegliarla,anche se lo sapevo che non dormiva mai...se ne stava sveglia,al buio a fissare l'inferno...e non mi faceva entrare,nemmeno per sbaglio,nemmeno se lo chiedevo.. La sua voce non esisteva quasi più,nemmeno la ricordavo... vagavo per casa alla ricerca disperata di una possibile consolazione che non esisteva e quando uscivo la sera mi ubriacavo cosi forte da non sentire nemmeno i miei pensieri... Quando tornavo a casa...lei mi diceva:"ti prego non piangere"...e non mi vedeva in faccia,ma sentiva il rumore delle mie lacrime,sentiva forse quel dolore forte che avevo tra le mani,nelle tasche,addosso la pelle...l'alcool si scioglieva subito,mi scioglieva...dovevo uscire in balcone per non farle respirare quel odore. e quando tornavo da lei mi era difficile indossare quella maschera da pagliaccia...la lasciavo sul comodino. Mi diceva..."raccontami qualcosa...cosa hai fatto stasera?"...ed io che non ero sicura nemmeno di riuscire a parlare,mi inventavo le mie migliore bugie travestite da buffi episodi,solo per farla sorridere un pò...forse non ha mai creduto a nulla,ma si addormentava...io continuavo a parlare sottovoce e a raccontarle la mia vita,so che la verità la sapeva già. Stavamo come dentro ad una boccia di vetro,tutto quello che c’era al di fuori era un eco lontano. Pensavo che non potesse esistere dolore oltre il dolore,che ad un certo punto non può che smettere di fare male. Mia mamma sapeva sopportare il dolore ma non era in grado di combatterlo. I mostri sono così,vanno a colpire chi è più debole,vanno ad arrampicarsi li dove la pelle è più delicata. Come un’erba cattiva. In quella boccia provavo un nauseante ed eterno senso di vertigini e il sapore amaro della paura in gola,che nessuno riusciva a comprendere. Le vite fragili sanno aspettare. Abbiamo aspettato pazienti che l’anima si sciogliesse come cera di candela,abbiamo aspettato un miracolo che non è mai arrivato,ma qualcosa ci ha sorprese nella luce opaca del mattino,le nostre mani non hanno smesso di tenersi aggrappate. I mostri queste cose non le capiscono.

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In realtà ero disperata e avevo paura,ma non sapevo a chi dirlo o se lo dicevo,lo facevo nel modo sbagliato. Qualcuno si era appoggiato alla mia anima,ma probabilmente pesava troppo per trattenerla…qualcuno si è affacciato nei miei occhi spenti…forse la paura di ciò che ha visto l’ha messo in fuga. Non avevo paura di stare da sola,avevo paura di perdere l’unica persona al mondo in grado di capirmi e di amarmi semplicemente perché ero io.

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…E’ COME DIECIMILA CUCCHIAI QUANDO TUTTO QUELLO CHE TI SERVE E’ UN COLTELLO… Conoscevo il nemico ma non potevo combatterlo,avevo imparato cosa gli faceva male,ero in grado di sedarlo,di tenerlo a bada,di cacciarlo indietro mentre veniva avanti,ma non potevo sconfiggerlo. Non potevo eliminarlo,debellarlo,schiacciarlo. Potevo spaventarlo. Non serviva gridare,non servivano scudi e spade,non servivano armature,nulla…bastava il silenzio e sguardi d’amore,bastavano le musiche e i racconti felici della nostra vita… bastavano le mani. Il nemico aveva il nome che avevo scelto io,la forma che avevo scelto io,l’aspetto,la voce,persino l’odore,ma purtroppo non era solo frutto della mia immaginazione,era reale e anche se non lo potevo toccare,lui c’era…se ne stava li e mi faceva i versi,mi gridava in faccia tutte le mi paure in fila…era diventato la mia claustrofobia,la solitudine,il vuoto,il buio…era diventato il posto in cui annegavo e annaspavo. Il mostro era entrato a far parte delle nostre vite senza che nessuno mai l’avesse invitato. Ci convivevamo a forza,ogni tanto facendo persino finta che non esistesse nemmeno,ma con lui non potevi giocare a nascondino,perché ti trovava sempre,non potevi nemmeno scappare… Mia mamma non lo nominava mai,era quello il suo modo per difendersi,mia mamma non ha mai saputo quanto grande fosse,quanto bastardo e cattivo era diventato,lei lo ignorava. Io davanti a lei non lo nominavo mai…sapevo che il suo nome le faceva paura,per questo abbiamo finto che dietro quella tosse ci fossero troppe sigarette,che dietro i mal di stomaco ci fossero le ansie,che dietro alla voce che diventava piccola,quel esame cattivo che le aveva graffiato la gola… Ma sulla sua schiena stavano i passaggi di quella creatura orrenda…per fortuna di schiena,dove i suoi occhi non potevano arrivare… Meglio non vederle certe cose,meglio lasciare che le cicatrici guariscano da sole…meglio un bugia piccola sussurrata all’orecchio…che per guarire non servono solo le medicine al sapore di arancio.

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Pensavo alle foglie secche che si sgretolano al solo tocco delle dita…sarebbe arrivato l’autunno con quei mulinelli danzanti a ricordarmi l’estate che non era mai cominciata… A ricordarmi quanto tutto era irrimediabilmente fragile. Accadeva che me ne stavo a fissare il vuoto senza sapere dove sbattere la testa,in quei momenti chiamavo mio cugino,”Thomas,sto male…non ce la faccio” Lui arrivava ed io volevo lui soltanto. Avevamo, tempo prima, condiviso il dolore per la perdita della nonna,l’avevamo vissuto insieme,vicini e forti. Avevo paura di perdermi e avevo bisogno di qualcuno che mi riconducesse sulla strada di casa. Thomas che conosceva il deserto che a volte t’invade usava parole forti e sorrisi e prendendomi per il braccio mi ricordava che sono una persona forte,che ce l’avrei fatta. Anche stavolta. Quando è morta la nonna è stata la prima persona che ho chiamato,non c’è stato bisogno di dire nulla…“arrivo”… Anche la nonna aveva un mostro che le abitava la pancia,ricordo che lei cercava di vomitarlo fuori…ricordo la sua pancia gonfiarsi,ricordo i nostri tentativi di farla ridere. Non c’era più niente da ridere. Era serena perché mi diceva che stava andando dal nonno,che lui sarebbe arrivato a prenderla,che lo stava aspettando… …sapevo che era così e ho vissuto quella morte solo con tanta nostalgia…come quando sai che non potrai mia più rivedere qualcuno. Mi mancava la nonna in quelle sere maledette,in quei giorni silenziosi…e Thomas era l’unico al mondo che mi ricordava i suoi occhi. Tutte le parole non avevano senso,io avevo bisogno solo di occhi sinceri,niente bugie,ce n’erano state troppe… Avevo bisogno di qualcuno che ascoltasse i miei lamenti,che mi togliesse quella maledetta maschera da pagliaccio triste,sporca di risate e ruggine. Volevo parlare di mia mamma,ricordare i momenti belli,pensare a quanto mi sarebbe mancata se da un momento al altro non si fosse svegliata più. Avevo passato i tre mesi più lunghi della mia vita,attaccata a lei,senza perderla di vista nemmeno per un secondo. Un girotondo impazzito,non riuscivo a fermarmi.

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Lui era la mia infanzia,i ricordi di panini al cioccolato guardando bim bum bam,lui era una parte del mio passato…quello semplice di bambini che giocano. Lui mi ricordava la famiglia che pian piano era andata ad infrangersi contro il tempo… Avevo bisogno di cose piccole e semplici,per ricaricarmi,per andare avanti. Mi mancavano gli occhi di mia nonna,per questo Thomas era diventato i suoi occhi.

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è come il rumore dei passi sulla neve...che dovrebbe suonare

poetico,ma in realtà è il rumore che temo di sentire...il rumore di polmoni che si riempiono di acqua,il rumore della

fine.

"siamo d'estate,la neve è ancora lontana",penso...forse per consolarmi un pò,ma allora perchè sento tutto questo

maledetto freddo?

ho deciso che odio la neve. Poi l’estate impara a finire. Perché a finire s’impara, la fine, i finali, la morte, e le canzoni suonate fino a qui. Il tifo che fai è un naso arricciato e le ginocchia che pregano per te che venga presto un’altra stagione e finisca questo misero settembre. Io vi parlo con ossessione perché l’ossessione mi dona, mi fa la pelle luminosa e mi sganascio la bocca di sorrisi Io faccio lunghe liste per non dimenticare le cose,le liste vanno molto di moda se non le lasci sul tavolo della cucina Il buio si respira ma nel buio si soffoca. Questa è una delle cose che ho imparato subito. Non avevo capito invece l’inquietudine,l’anima ringhiosa…il dissolversi piano,tutti i giorni,identici ed insapore che hanno circondato mia mamma,fino ad arrivare qui. Voleva solo una carezza,una strada da percorrere,un maledetto arcobaleno dietro infiniti giorni di pioggia. Avevamo ancora tante cose da dire e da fare,non era ancora il momento.

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Ero piccola,sono piccola…ho ancora bisogno di lei,ma era lei ad avere bisogno di me in quel momento. Non avevo bisogno di liste,ho imparato tutto a memoria. Il cancro è una malattia stupida,una cellula che impazzisce e attacca tutto,ma non le basta,si moltiplica,quella cellula diventa un esercito di mostri,attacca tutto,solo il cuore rimane immune da tutto questo. Nonostante il suo cancro era avvinghiato intorno alle pareti che circondano il cuore a protezione,l’avevano attaccato,i pipistrelli,quelle metastasi che se ne andavano a spasso,saltellando ovunque,scavando,il cuore no,l’avevano lasciato inattaccato. Intanto i medici scuotevano la testa,la sua pancia stava diventando gonfia,come quando mi portava dentro,ma era piena di veleno ora. Il suo cuore continuava a battere veloce,anche quando dormiva,io stavo li ad ascoltarlo. Sapevo che lui ce l’avrebbe fatta,a dispetto di mostri e di pipistrelli,lui sarebbe rimasto il suo fantastico cuore grande. Il cancro si stava portando via tutto,aveva lasciato solo il suo contorno. Sembrava che le linee che la definivano stessero sfumando,avevo paura che da un momento all’ altro potesse diventare trasparente. L’amavo,amavo le sue fragilità,le sue battaglie contro i mulini a vento,le sue parole piccole…non darò mai tregua a chi non ha capito,a chi l’ ha giudicata,a chi si è girato dall’altra parte e l’ha lasciata li inascoltata e piccola,a chi le ha divorato gli occhi sorridendo. Avrei voluto saperla felice,almeno un po’. Invece eravamo arrabbiate,tutti i giorni quella rabbia la sentivo crescere,mi ripetevo come un disco rotto…”fa che non succeda”… Ogni giorno aprivo gli occhi e mi chiedevo quanto tempo ancora avrei potuto sentire le sue mani stringere le mie.

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“Regina Reginella quanti passi devo fare

per andare al tuo castello con la spada,col coltello

con la piuma sul cappello?”

dieci passi da gambero Era un gioco,e mia mamma lo conosceva bene,le ricordava il suo papà,per cui lei era l’assoluta Reginella. Ci pensava spesso durante quei giorni malati e cattivi. Pensava al suo papà e le lacrime le rigavano il volto. “Bisogna sempre andare avanti” diceva il mio coraggioso nonno,e lei lo sapeva che l’avrebbe incitata in tutti i modi,se solo avesse avuto il tempo e la possibilità di dirglielo,ancora una volta. A passi lento,il nonno. Aveva fatto un inchino alla platea prima di uscire di scena. Se ne era andato con tutta la dignità che nella sua vita l’aveva contraddistinto. C’era poesia in quelle sue sopracciglia e un sacco di sofferenza nelle sue rughe. Io e lei ne parlavamo,ci piaceva ricordare…a volte anche con un sorriso. Sapevo che gli mancava,sapevo anche che l’avrebbe protetta. Due passi da formica

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La conosceva bene il suo papà,so che nei sogni le accarezzava piano la testa e la consolava. “Avanti Lellina,non ti fermare” Ma il nonno lo sapeva,sapeva che il buio non è facile da addomesticare,sapeva di certe pance gonfie di veleno,sapeva del dolore racchiuso in mani stanche. Lui non avrebbe sopportato nemmeno per un momento di vedere la sua bambina soffrire. La stessa che lo aspettava alla finestra con occhi impazienti e brillanti…lo stava aspettando ancora. Sarebbe venuto lui a prenderla,a braccetto con la nonna,con le mani fredde ed il suo cappello. Il nonno non la lascerà mai sola,perché lo sa,la mia mamma ha paura del buio. Un passo da gigante Aspettano lei,scintillanti banchetti e danze festose,lo so. Se mai dovesse esistere un paradiso,spero che accolga la mia mamma con una festa fantastica,di quelle che qui noi non siamo riusciti a regalarle. Spero che ci siano un sacco di fiori e panchine su cui sedersi e riposarsi un po’…che ci sia sempre il sole e sorrisi,tanta sorrisi. Spero anche che ci sia un angolino dove poterci spiare,dove controllare che qui sia tutto a posto. Sono sicura che avrà un sacco di cose da raccontare al nonno e che saranno le anime più luminose di quel paradiso senza confini. Basta un passo per scavalcare la linea,un passo da gigante e tornerai ad essere Regina Reginella.

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Se non hai paura di una cosa, allora quella cosa impara a stare lontana da te, perché capisce che più di tanto non riesce a

danneggiarti, e con tutta la gente danneggiabile che c’è in giro non è che si mette a perdere tempo con uno che non l’apprezza.

Quando invece cominci a vedere le crepe,i lividi sempre più grossi sulle braccia magre,i sorrisi che si trasformano in urla,allora un po’ di paura ti viene,un po’ del coraggio con cui hai cercato di costruirti un muro,comincia a mancarti. E’ come una terremoto,il pavimento che crolla sotto i piedi e ti trovi impreparata,anche se tutti i telegiornali e le radio del mondo ti avevano avvertito… Quello è stato senza dubbio il giorno della paura,il giorno in cui la più importante decisione della mia vita,stava tutta davanti ai suoi occhi che si chiudevano,che si addormentavano. Dovevo decidere se avere paura o per un attimo mettere da parte la disperazione,essere lucida. A stento capivo le parole che la dottoressa mi recitava a memoria,pensavo a tutte le volte che già le aveva dovuto dire. Era arrivato il momento. Mia mamma ormai sanguinava,sanguinava piano dentro,lei non aveva più la forza di decidere per se stessa,dovevo farlo io. In fondo nelle occasioni più importanti della mia vita,io e lei abbiamo scelto insieme. Pensavo ai suoi occhi felici di fronte a quel abbozzo di abito da sposa,che già si sentiva un po’ nonna…pensavo a quante volte si è sentita orgogliosa di me,quando le mostravo le cose che scrivevo,abbiamo scelto insieme le copertine dei miei libri,quei primi libri scritti in fretta,quei tentativi goffi di trasformare la vita in parole. Pensavo al nostro ultimo natale,alla gioia nel fare l’albero,tutti insieme,ai bordi di quel salotto zeppo di amore. Ora mi sembrava ingiusto essere li da sola di fronte ad una scelta che mi avrebbe portato via mia mamma per sempre. Il mondo ci aveva condannati,non c’era alcuna via d’uscita,alcuna scappatoia,perfino era difficile credere di nuovo ai miracoli. Sapevo che iniettandole quel veleno dal nome dolce,lei si sarebbe addormentata e avrebbe smesso per sempre di sentire male. La guardavo,di spalle,seduta sulla poltrona,avevo gli occhi pieni di lacrime,intorno a noi il silenzio,un silenzio che mi

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stritolava piano,la dottoressa mi aveva dato il tempo per decidere,ma il tempo aveva smesso di esistere per me. C’eravamo solo noi. Io e mia mamma. Le ho chiesto a filo di voce: “mamma,cosa vuoi fare?” Lei mi ha risposto semplicemente:”quello che è giusto” Allora impercettibilmente ho detto si e mentre la preparavano ad indossare il suo ultimo ago,io non riuscivo a smettere di pensavo che forse quello sarebbe stato l’ultimo giorno che passavo con la mia mamma. Mi chiedevo perché fuori continuasse a scorrere tutto,perché il mondo non si era fermato insieme a noi,tenevo strette le sue mani,forte,avevo paura che se per caso mi fossi staccata da lei,sarebbe precipitata. La dottoressa ha scritto sul foglio: “La figlia acconsente al trattamento di morfina,capisce la situazione,rifiuta il trasporto in Hospice” Io mi chiedevo per quale motivo non avesse scritto che mia mamma si stava addormentando per non svegliarsi più e che io avevo deciso per lei e che volevo che almeno morisse in quel suo letto che amava tanto… Era la verità,ma a volte ci viene raccontata in un altro modo. Forse perché fa meno male? E vi prego concedetemi il lusso di tremare,che scrivere questo oggi mi fa molto più male di averlo vissuto allora. Perché quel giorno ho deciso di uccidere l’unica persona al mondo che mi avrebbe perdonato la morte. Perché quel giorno ero consapevole che tutto stava andando verso la fine,che io la stavo accompagnando per mano verso il sonno dal quale non si torna più. Si è addormentata subito,io le ho dato un bacio e le ho detto “buon viaggio” sono sicura che già non mi sentiva più. Quando sono cominciati i respiri disarmonici,quando quelle parole suonavano lontane,mi sono inginocchiata al bordo del letto e le ho chiesto perdono. Nonostante il coma,la febbre alta,il sangue ovunque,sono sicura di aver visto le sue labbra muoversi,sono certa che mi aveva già perdonata. Stavo diventando brava a nuotare tra le lacrime ma quella sera ci stavo affogando.

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Ero diventata la sua tosse cavernosa,il suo respiro gorgogliante,la febbre altissima,le sfioravo le braccia e sentivo che stava bruciando. Pensavo che era autunno da tre giorni,pensavo che l’inverno non sarebbe mai arrivato,che tutto si concentrava in quel letto,nella sua figura immobile,il tempo si era fermato. Le sue labbra viola erano spaccate da troppo silenzio,le ferite delle cose mai dette,delle cose mai avute,delle cose mai chieste. C’era un cristo su una croce di legno appeso sulla parete,lo guardavo senza riuscire nemmeno più a pregare,in quelle notti ci avevo parlato,ci avevo litigato,l’avevo pregato così spesso che sono sicura sapesse,era rivolto verso mia madre e sembrava quasi che la fissasse…speravo che non fosse distratto perché in quel momento più che mai avevamo bisogno di Lui. Guardavo quel cristo appeso alla croce e poi guardavo mia mamma in quel letto,pensavo che certi dolori non dovrebbero esistere,pensavo all’ingiustizia che rende banale ogni parola. Pensavo a tutto quello che avrei voluto dirle e che non le ho mai detto. Non ci sarebbero state più parole tra di noi,solo stringerle la mani e aspettare con lei.

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Tutti dobbiamo trovare la strada sbagliata che ci conviene. - Samuel Beckett

23 Settembre 2010

Come ti senti quando ingoi troppo alcool?come ti senti quando la testa pulsa impazzita e cerchi un posto per nasconderti a vomitare?...come ti senti quando ti senti solo in mezzo al mondo. solo tu. senza parole. Quella sera l’ho cercato…in mezzo alla gente,avevo poco tempo per respirare. Era l’ultima sera,qualcuno forse lo sapeva,forse lo sapevo anch’io. Mi aveva insegnato a perdermi e a venir fuori dalla nebbia quando era troppo fitta,quella sera avevo bisogno di perdermi un po’. Ho imparato che certe sere sono dannate e che non si può non parlarne. Mi rigiravo in quella notte sporca d’incomprensione,cercavo forse le risposte nei suoi occhi stanchi. Ho macchiato il mio vestito mentre il cuore mi colava. Dovevo annotare sul mio quaderno che mi tremavano le mani? Era sinonimo di qualcosa? Ho corso via da quella piccola morte imminente,ho cercato rifugio negli unici occhi che pensavo potessero consolarmi. Mi rigiravo nei corridoi della mia mente,sentivo la voce di mia madre che mi ripeteva: “non fidarti di certi occhi”…era diventata un ritornello sfinito che mi ballava davanti ad ogni passo. Quella notte ho corso a perdifiato dentro di me,avevo davanti lui che fino a quel momento mi aveva tenuto su. Perché mi stava lasciando cadere? Perché gridava così forte? Abbassavo gli occhi in quello specchio sporco della mia immagine,c’era caos nella sala d’attesa della mia testa. Non sapevo nemmeno di cosa avessi bisogno. Forse qualcuno che mi difendesse da quel mondo che stava sgretolandosi sotto i miei piedi. …anche la lavanda non sarebbe bastata. Ne i suoi occhi che si riempivano di cattiveria. L’avevo ferito e la gente ferita si difende.

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Anch’io mi sentivo ferita,ma semplicemente non sapevo a chi dare la colpa. Ripensavo alla somma di quei giorni disgraziati,cercando un piccolo particolare che potesse darmi la forza di tornare a casa da lei,che stava morendo in quel letto in stile veneziano,travolta da dei polmoni mal funzionanti,travolta da un cuore che aveva perso la forza di battere,travolta da quel aria plasticosa che si attaccava ovunque. Guardavo il telefono silenzioso,aspettavo la solita chiamata: “Alessia torna a casa,è tardi”…la voce di mia madre aveva smesso di esistere,non ci sarebbero state più alcune telefonate,ne la sua aria preoccupata,ne quel libro che fingeva di leggere aspettandomi alzata,con la notte negli occhi ed un brivido ad ogni serena lampeggiante. Non è stato lui quella sera a salvarmi dal disastro,sono stata io ad incamminarmi da sola attraverso la nebbia fitta,sono tornata a casa,mentre quella notte si spappolava in fondo alla via,mentre un pezzettino dei miei occhi ruggine erano rimasti riflessi nello specchio di quel bagno,mentre il mio naso sapeva di un inutile lavanda… E se ce l’ho fatta a tornare,non applauditemi perché gli applausi hanno lo stesso sapore delle sberle ed io non sono una persona coraggiosa,altrimenti non avrei scritto veloce sui bordi della macchina,ma avrei corso più veloce del tempo che ci stava ingannando,sarei corsa mettendo da parte le mie paure…invece ho solo barcollato su per quelle scale e ad ogni passo tremavo più forte.

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Cap. 5

non sono brava con gli addii... non sono brava con gli addii... non sono brava con gli addii...

Il sangue sul cuscino, una piccola macchia rossastra...il tuo lamento,la voce che ha smesso per sempre,la bocca asciutta

tamponata da acqua,non riuscivi a sentirla?....la febbre alta,altissima...stai bruciando. non riesco a placare i mille battiti che

ti fanno male. Il tuo respiro a contare...la mia voce che grida...respira ti prego,non

smettere...l'aria che diventa dio. una preghiera stonata,autistica....lenta e continua,non riesco a

smettere "attento a cosa desideri" perché potrebbe accadere

la verità più assordante È che te ne stavi andando via,"soffri troppo" continuavo a ripetermi...Non potevi restare.

Non poteva dormire nelle macchie

suppongo che non esista via dimezzo tra il pianto e l'ultimo schianto delle palpebre al cospetto del nulla.

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“Ho paura”, mi dice I suoi occhi fissano un momento preciso della sua vita: in

quel momento io sono di fronte a lei, gambe incrociate, posacenere tra i piedi, sigaretta tra le dita.

«Ho paura...» mormora, ed io ho paura di sapere. Ho paura della mia impotenza. Ho paura delle mie risposte.

Mi fissa con una striscia bagnata di terrore che le solca la guancia: «Io non voglio morire.»

Ho paura del mio silenzio. Imposto. Mi toglie la sigaretta dalla mano. Un contatto con le sue dita

mi fa tremare. Ho paura anch’io. Mi lego in un silenzio stupido e non basta la mia mano che la stringe a trattenerla

in questo mondo. Non sono motivo sufficiente.

Non necessario. «Dove andranno i miei ricordi quando io sarò morta?»

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NON SI MUORE...si scivola dall'altra parte della vita...

L'ultimo respiro prima di cadere,sono caduta con te...tu sei morta ed io sono svenuta...lo stesso buio,lo stesso freddo...avrei voluto

accompagnarti con le mani,ma non riuscivo a toccarti. ho provato a trattenerti,ma dovevi andare,qualcuno ti aspettava,lo so.

In piedi,al centro della stanza,solo le mie ossa mi tenevano in piedi. E' già inverno qui.

sei bella,nel tuo vestito preferito....ti prepari ad uscire dall'inferno agghindata a festa...nessuno sa dei demoni che ti sei lasciata alle

spalle...fuori piove e tu hai la pelle bianca,ho provato per due ore a scaldarti le mani,inutilmente.

Le tue orecchie sono diventate viola...ma le mani sono bellissime...ti ho messo lo smalto,avevi le unghie forti,non come me...ho intrecciato

parole in quelle tue mani immobili...speravo solo che tu potessi sentirmi.

Abbiamo messo la musica per salutarti,tutto quello che avevamo eri tu che te ne stavi distesa in quel legno

lavorato,ricamato,profumato...sotto un velo bianco a nascondere il pallore....c'era la musica e lacrime intorno...non ti abbiamo lasciata

sola nemmeno per un attimo.

Tieni le mie mani,non hanno muscolo,non importa...ma non risponde,non importa. Tieni le mie mani,sono fredde,sono di plastica…non importa. Accorgersi di poter parlare solo con le mani è il penultimo passaggio,avanzavo nella neve,tutto aveva la forma di un urlo in bocca,ma senza gridare. La luce quella mattina lavava via il rosso,le macchie d'ombra sul muro,la nottata fatta di febbre altissima,di respiri irregolari,suoni distorti,surreali che uscivano dalla sua bocca,che voleva disperatamente prendere aria,l'aria che diventava solida,riuscivamo quasi a toccarla. Interminabili viaggi dalla cucina alla camera da letto,carichi di ghiaccio freddo per sciogliere quel fuoco che le ballava intorno,bruciandola. Senza sosta,con gli occhi aperti,fissi su quel rumore e lei voltata di spalle,immobile.

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..accarezzavo piano le sue spalle e piangevo,senza riuscire a smettere,tenevo un libro li vicino,per ricordarmi la normalità che ormai era lontana,un libro aperto su una pagina qualsiasi,che se si fosse svegliata,avrei potuto fare finta di leggere,per non spaventarla. Speravo che da un momento all’ altro aprisse gli occhi,per dirmi qualunque cosa,ma nel cuore sapevo che invece si stava preparando per quel viaggio,e io volevo solo accompagnarla. Sono stata coraggiosa per troppo tempo,era venuto il momento ed io avevo paura. Ogni tanto chiamavo mio fratello,barricato dietro il suo dolore senza espressioni,volevo averlo li,avevo bisogno di lui,la mamma aveva bisogno di noi,per l'ultima volta. Non l'abbiamo lasciata sola,se n'è andata sapendo che i suoi figli la stavano accompagnando,lo so. Le ultime parole che ha detto sono state: «Lasciami dormire» e così abbiamo fatto,basta,nessun tentativo di svegliarla ancora,l'abbiamo lasciata dormire,senza più chiamarla. L'orologio puntato sui battiti del cuore che si facevano sempre più irregolari,non ho smesso di contarli,finché hanno smesso di esistere... ha aspettato la luce per andarsene,ha aspettato di essere sola per quel unico istante. Era bellissima mentre volava via. Poi ricordo solo voci,quella di mio padre che mi diceva «Alessia la mamma è morta» e un lamento,quello di mio fratello che mi teneva per le braccia...credo che non si possa resistere a tanto dolore,credo che il mio corpo abbia reagito facendomi schiantare per terra,senza capire. C'era qualcosa che faceva rumore fuori dalla finestra,era la vita che andava avanti mentre io restavo immobile con lo sguardo fisso nel vuoto. Quel vuoto che sapeva d'inferno,che aveva lo stesso odore del nulla intorno a noi. Mi girava la testa forte,ma sapevo che dovevo muovermi. Il mostro aveva finito di farle male...era caduto per sempre nel precipizio dei suoi occhi,non sarebbe tornato mai più.

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“I mostri sono reali, e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi, e a volte vincono."

Stephen King

Ti ho odiato mostro maledetto, ti ho parlato tante di quelle volte,speravo mi ascoltassi,speravo che annegassi dentro le mie lacrime acide. Non potevo più tollerare quel tuo viverle addosso… …ora ridi pure,ma da lontano,non puoi più fare male ti abbiamo sconfitto. Ora meriti il vuoto,il silenzio. Tu che hai mentito,ingannato, confuso. Tu che sei stato un ospite indesiderato,un essere subdolo…sei stato il fondo di tutti quei bicchieri colmi di veleno,sei stato lo specchio deformato,la spazzola che le strappava i capelli,eri la stanchezza di vivere,il buio che copre i colori…sei stato quei lividi blu,quel affanno e quella plastica,quel ago che cerca la vena invano. Cosa credevi che fosse facile portarmela via? Povero bastardo,non sai che lei vive in me,che lei sono io,che in ogni mio sfottuto sorriso,in ogni mia parola lei continuerà a vivere. Hai perso. Ho già pagato per colpa tua il prezzo più alto che potessi permettermi e anche qualcosa di più. Sei stato lucido e freddo,tagliente e preciso ma non hai rovesciato il nostro mondo. Tu eri fatto di spigoli,tu graffiavi ma noi abbiamo saputo tenerti a bada,bastavano i sorrisi per farti indietreggiare. Tu mostro,odi i sorrisi. E non riceverai applausi per il tuo lavoro perfetto,non sei tu il protagonista di questa storia,tu sei solo il perdente,per questo mi rivolgo a te,per questo ho parlato di te,per mostrare alla gente che non è mai finita,che non si perde,perché mi piacerebbe spiegare come si fa. Non l’hai fatta gridare di dolore,non le hai mai levato il sorriso,ne la sua anima grande,ci hai provato lo so,ma non ce l’hai fatta.

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Sei sepolto da tanti strati di polvere,dagli incubi,dal nero. Tu che sei iniziato mascherandoti da nulla nel nulla sei ripiombato e non mi fai più paura. Ora so come sconfiggerti e me l’ha insegnato mia mamma.

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C'era un sacco di gente al tuo funerale,ho visto occhi che non vedevo da tanto,ho sentito voci ma non ho ascoltato cosa mi dicevano...la gente aveva un sacco di cose da dire,di consigli da dare...la gente ha continuato a parlare.

ho provato a non piangere,ad essere forte ma il mondo crollava ad ogni passo,l'aria diventava pesante,tu non c'eri più ed eri l'unica al

mondo che sarebbe stata in grado di consolarmi. Ti ho abbracciato troppo poco,me ne accorgo solo adesso.

Non sono riuscita a leggere la letterina che ti ho scritto,la mia voce sarebbe stata troppo stonata e incattivita...ti meritavi un altra voce. non smetterò di raccontare il tuo,il nostro inferno...non smetterò di

raccontare di te. oggi il silenzio mi fa impazzire,non lo so dire a nessuno...stamattina

sono corsa nella tua camera con la medicina in mano,tu non c'eri più.

non ho ancora smesso di piangere,smetterò mai?

. mi chiedevo.. ma dove finisce il sangue quando si muore? e dove finisce quella vocina nella testa che non smette mai di parlare e perfino durante il sonno resta sveglia dentro di noi? Imbalsamata Sorridente Truccata Oppure polvere Sono scivolata,non senza fatica,tra quello che ero e quello che mai sarebbe stato...sono salita sul palco della mia esistenza,respirando quel legno nodoso che mi raschiava la gola. C'era musica intorno a noi,sparsa sul pavimento… la miniatura delle sue ciglia mi ricordava che i suoi occhi non si sarebbero aperti mai più. Tutt' intorno era pieno di fiori. Ti sarebbero piaciuti...io pensavo solo che adesso non riuscivi nemmeno a sentire il loro profumo,cercavo d'immaginare la tua faccia vedendoti recapitare a casa tutti quei fiori colorati. Non te li ha mandati nessuno quando ne avevi bisogno e ancora riuscivi a respirarli.

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Te li mandano ora,ora che non ci sei,mi domando che senso ha. o provato con la musica e con il rumore, con il canto, sorridendogli, sorridendo al suo essere fermo. Una risata isterica. E dopo il nulla. I nostri cani con la testa inclinata. La gente con gli occhi rigati di non_si_sa_che_cosa. mani azzurre cortesi che stringono la mia e abbracci forti,qualcuno persino vero. Non m'importava della gente,volevo solo che le persone ti ricordassero come qualcosa di bello e sorridente,mentre io mi disperavo per la tua assenza,avresti dovuto esserci. Silenzi di occhi che comunque mi avvolgevano. Qualcuno avrà notato lo smalto preciso che hai sulle unghie,tu ci tenevi così tanto... Io e il Cristian ti abbiamo messo il tuo profumo preferito. Volevo truccarti,ma mi hanno detto che eri bella così,poi quando si sono girati ti ho messo un pò di fard leggero con il pennello,e volevo metterti il rossetto,quello rosso,il tuo preferito,ma non c'è l'ho fatta,quel colore mi faceva male agli occhi,Mauro oggi capirà se ti presenti senza rossetto. Sì mamma,è venuto anche lui,l'ho visto appena,perchè oggi faticavo a vedere...è venuto a dirti addio e so che ti avrebbe fatto piacere. Sono stata vicino a te finché non sono venuti a prenderti,continuavo a chiedere un attimo,ma quanto dura un attimo? A cosa serve il tempo quando era già passato? Una litania di persone è venuta a salutarti,mentre io con la punta dei polpastrelli continuavo a disegnare sulle tue labbra un sorriso,avresti sorriso. vengono quei signori per chiuderti dentro a questo legno freddo,ma tu non ci sei,sei seduta accanto a me,che non smetto di stringere le tue mani fredde,le tue mani,pensavo,saranno quelle che mi mancheranno di più. Pensavo a te che mi avresti detto:"tu mi vedrai sempre così? Dimmi: sarò sempre così nei tuoi occhi? Come mi conservi e come mi ricordi? Tu che non hai bisogno di ricordarmi, lo so» E poi non riesco a parlare ma portami fuori che mi manca l’aria. Mi manca il tempo. Mi mancano i prossimi anni e i prossimi compleanni.

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Stringimi, che ho freddo e poi raccontami una storia. Le scale erano quelle di ogni giorno, tutto il nostro mondo parcheggiato sotto casa. Sono corsa veloce giù per quelle scale,sono rimasta aggrappata al passamano della scala che come un amico antico mi sorreggeva...avrei dovuto affrontare la gente che...ma avevo paura persino di scendere una scala,senza di te. Cosa si dice in questi casi, mamma? Io non sapevo dire niente,non ricordavo nemmeno di avere una voce. Quel mattino avevo scritto una lettera per te,la tenevo stretta tra le dita,era quello il mio modo per dirti addio. In quei momenti tutto era surreale,sembrava la scena di un film in cui però la protagonista dorme in una cassa di legno,non parla,non si muove,non respira…era ingiusto quello scenario,disturbava i miei occhi,era come avere tanti spilli dentro il petto. Sono dovuta uscire dalla chiesa ad un certo punto,stavo crollando mamma,dopo mesi di dolore trattenuto,oggi io non ce la facevo più. Avevo la nausea…perché quella chiesa mi ricordava solo momenti felici…ma oggi no,oggi tutto era coperto da un velo di tristezza,lo stesso che ti hanno messo in faccia prima di chiudere quella maledetta bara. Poi sono rientrata,dopo aver parlato con A. che come al solito ha cercato di farmi vedere le cose in modo razionale,anche se io di razionale in quello che stava succedendo ci vedevo ben poco. Sono rientrata e mi sono seduta vicino al papà,era quello il mio posto,dovevo restare. La mia lettera l’ha letta Thomas,scusami mamma ma io non ce la facevo…riuscivo solo a piangere,guardavo lo zio,tuo fratello e pensavo che un pezzettino di te era rimasto li con noi,guardavo i suoi occhi lucidi e in quel momento ho capito che ci avevi lasciato un motivo per andare avanti,una famiglia,la nostra. Non è stato un funerale è stata una festa triste a cui hanno partecipato tutte le persone che ti hanno amato e conosciuta. Che ti ricordavano esattamente per la persona meravigliosa che sei stata. Non servivano parole.

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Ho ringraziato tutti,uno per uno…mi è bastato uno sguardo. Li ho ringraziati perché sapevo che tu saresti stata felice di vedere quanta gente ti ha voluto bene. E anche se non eri li con noi,ti potevo scorgere nel vento,nelle lacrime della gente,nel sole che è uscito in mezzo alla pioggia,nei passi e nelle preghiere,nei volti e nelle nuvole…tu eri li,ed io lo sapevo. Era il mio nuovo modo di sentirti. L’unico che mi rimaneva. Sentirti nella fronte,sugli occhi,nelle mani e lasciare che tu diventassi quel persempre che ora sarai.

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BLU COBALTO

Eppure al tramonto le margherite pregano. Pregano e tremano.

Tu lo sapevi?

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Ricordo il cielo mentre la sera si faceva minuscola di fronte a me…camminavo a passi lenti,verso casa,chiedendomi come avessi potuto chiamarla ancora casa senza di lei. Sopra di me il cielo si scolorava piano,blu cobalto,arancione... Lo spettacolo di un sole che tramontava,allungando la mia ombra sull'asfalto. Pensavo alle cose che restano,come sassolini… Pensavo alle macchie di sangue sul pavimento che non sarebbero mai andate via. …a lei chiusa in una scatola per non perderla. Mi sentivo leggera e sfinita, inquieta e disincantata. L'aria che diventava irrespirabile,presagio di un temporale forse...che se almeno avesse piovuto avrei avuto un posto dove nascondere le mie lacrime. Il silenzio della strada,sempre la stessa. i miei passi bianchi, i miei piedi dispettosi che andavano avanti lasciandosi dietro la crudeltà di quella giornata,il freddo in faccia,in quella sera di un autunno al contrario. L’autunno che non era stato altro che un pianto straziante colorato di rosso. …quel colore… mi sembrava che dopo l'asfissiante giornata di sole bianco questo colore fosse venuto a consolarmi…i suoi colori pastosi mi entravano negli occhi,fissavo quel cielo che mi aveva strappato via un pezzo di anima… ”rendila stella ti prego”…continuavo a ripetere.

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I ricordi dormono freddi. Lo sciroppo per la tosse in frigo. Ho scritto tutto questo perché lei mi faceva pensare al soffione, che basta un soffio di vento e non esiste più. Ci sono persone per cui la morte è salvezza, e scelgono percorsi e tempi diversi per arrivare a meta. …mia mamma aveva fretta e invece d’aspettarla le era corsa incontro, leggera e libera come forse non era stata mai. Così, a volte, quello che scrivi diventa solo un mezzo, e l’unica cosa che t’importa è di fare arrivare agli occhi che ti leggono, la precarietà del soffione, così vi dico: “Per favore, quando ne incontrate uno, respirate piano, sennò vola via”

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“LA MIA LETTERA PER TE”

Lo smalto è rimasto sul comodino,vicino ai tuoi occhiali rossi...non l'ho più messo,le mie unghie si sono indebolite e spaccate...continuo a parlare con te,di te...è come se tu fossi partita per un lungo viaggio,mi piace pensare così per adesso,per non impazzire...ma sento forte la tua terribile assenza...qui il mondo va avanti,nulla si è fermato...sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento in cui avrei dovuto fare i conti con il silenzio...

Si sono improvvisati tutti psicologi qui intorno...ognuno ha la sua teoria su come sconfiggere il dolore,su come provare a reagire alla tua assenza...ma cosa ne sanno loro di tutto quello che ora non c'è più....cosa ne sanno del profumo della pastina calda d'inverno,del sapore delle tue torte al cioccolato,della vestaglia morbida che sa di te,della mano sulla fronte per capire se avevo la febbre,delle caramella alla menta,le tue preferite....cosa ne sanno della sigaretta nascosta nella scodella,delle nostre letterine lasciate sul tavolo,delle lacrime e dei sorrisi,solo nostri....cosa ne sanno loro di quanto mi manca quel bacio prima di uscire,quel ti amo che ti sussurravo all'orecchio...della spesa al supermercato,delle litigate nel lettone perchè io volevo la luce accesa e tu invece no,dei nostri libri,delle canzoni che ci facevano compagnia al pomeriggio,di quel film che ti faceva piangere,del maglione che non sei riuscita a finire,di come ti tenevo la mano quando avevi paura,delle tue telefonate per sapere se stavo bene,dei tuoi mi manchi anche se ci eravamo viste il giorno prima,del tuo vestito preferito chiuso in una scatola,delle ciabatte rosa storte che ci facevano ridere,e la tua risata,non ridevi più....

cosa ne sanno di quanto mi manchi,di quanto sento forte la tua assenza,di come giro per caso cercandoti,di quanto mi manca la tua voce...quanto mi manca tutto ciò che eri....sei la mia mamma e non dovevi andartene cosi,ma lo so che non potevi nemmeno restare. Ti ho preso una rosa,l'ho portata al cimitero.....pioveva forte ed io piangevo,con quella rosa in mano,non riuscivo a muovermi...la tua foto che mi fissava

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silenziosa....avrei voluto gridare,invece sono stata zitta e ho pianto.....questo è l'unico modo che conosco affrontare il dolore...non sono capace di spiegarlo,ma so che nessuno può dirmi come fare.

c'è chi mi chiede perchè sorrido e come faccio? Tentare di spiegare un sorriso:....tirare gli angoli della bocca verso l'alto,improvvisare una smorfia colorata...perchè quando non lo trovi un posto dove nasconderti,quando ti accorgi che non puoi scappare da qualcosa che ti porti dentro...allora non puoi fare altro che decidere di rimanere e di mostrare alla gente la parte di te che ancora brilla...tutto il resto rimane un disperato groviglio di dolore....da conservare da qualche parte,al sicuro.

Cara mamma...ti scrivo piano lontana dal frastuono assordante del dolore,so di non essere una persona migliore...solo che devo per forza cercare di resistere a questi e ad altri inutili che ogni giorno mi si piazzano davanti...e tutto perde di significato e quello che prima era di vitale importanza,oggi diventa vento che mi sfiora leggero e se ne va…non brucia più,perchè il petto si è rafforzato,perchè il mio cuore è grande e non c'è spazio per chi decide di non capirlo...perchè le cose che prima mi facevano paura oggi mi fanno ridere,e tutto si fa piccolo e insignificante....accartoccio le parole della gente che non sa e le butto nel cestino...decido di ascoltare comunque...annuisco cordiale agl'improvvisati parolieri,saggi,filosofi...mi piace ascoltare il punto di vista di chi non ha mai visto cadere nessuno nel sangue,ma sa. E dice. perfino si permette di giudicare.tenta d'insegnare…ma io sono stanca,mi si dev' essere spezzata la schiena mentre tentavo di lavar via da quel pavimento tracce di sangue rappreso e con la schiena rotta non si va lontano....il sangue non verrà mai via,anche se tutti i santi giorni ci provo...ci sto provando.

Ci sono persone al mondo che hanno paura del buio,dei ragni,della solitudine,delle api...io ho paura dei corridoi,dei cuscini,dei respiri,della tosse,delle voci....ho paura di una sedia vuota che mi fissa...si perchè ci sono cose che ti fissano anche se non hanno gli occhi...

ma non sono impazzita,mamma…non ancora...conoscevo una persona che aveva paura dei pazzi,forse perchè la sua tremenda razionalità non gli permetteva di credere che al mondo esistessero persone che vedevano ippopotami volare o

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sentissero voci strane e pensassero di essere napoleone...be,a me sinceramente faceva più paura lui...infatti non appena ha sentito puzza di pazzia ha deciso di andarsene. eh si...ora l'ho capito...qualcuno può decidere se tu devi parlare o stare zitta,può decidere di odiarti anche se tu non vuoi,può uscire dalla tua vita senza nemmeno dirti ciao...e tu rimani sola,in silenzio ad osservare qualcuno che se ne va,mostrandoti la sua parte migliore. non sono arrabbiata,non più...forse sono solo un po’ incattivita...e continuerò a sorridere anche se ci sarà qualcuno li a chiedermi come faccio e che cazzo avrò tanto da sorridere....

devo ricominciare a curarmi...te l'ho promesso mamma e quindi ho bisogno di quel sorriso,perchè solo cosi riesco a sconfiggere la paura della paura,solo così trovo un modo per salvarmi la vita,anche se quello che rimane sa di vomito e di sangue.....

Siamo andati avanti mamma,è arrivato il natale e se n’è andato facendo un rumore assordante, non ci sono stati regali,ne alberi decorati,ne curiosità ed emozioni...solo un vuoto grande impacchettato e ben visibile intorno ad un tavolo vuoto.

Ci siamo aggrappati a noi stessi per non cadere,siamo rimasti vicini finché abbiamo potuto,il Cristian è andato a vivere con la sua ragazza,io e papà abbiamo trovato una casina piccola e i nostri cani sentono la tua mancanza.

Fa freddo in questa casa separata e contorta,fa freddo,ma non perchè è inverno,semplicemente non ci sei,mamma. Continuo a parlare di te,al presente...sto scrivendo questo libro maledetto,te lo devo,me lo devo...ma fa male. ripercorro quei momenti tremendi,quel estate stata bastarda che ci ha regalato un incubo che non vuole finire...

La ripercorro dall'inizio e mi vengono in mente tutti i personaggi che hanno preso parte a questa surreale vicenda che sa ancora di veleno e disinfettante,non se ne andrà mai dal mio naso,credo. Non ho dimenticato nulla ed è pazzesco come la mente non si liberi di certe scene cattive,e scriverne è come buttarle fuori,non liberarsene,quello mai,ma forse condividerle,perchè come già mi è capitato di dire,il mondo deve sapere come si può morire schiacciati dal dolore,di come

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certi posti andrebbero visitati di tanto in tanto solo per ricordarci di quanto siamo fortunati noi,piccoli essere mai contenti.

E la cena....mi è rimasta sullo stomaco,si è accomodata a quel peso sul cuore,starà lì,finché qualcuno mi accarezzerà piano la pancia...

Ho trovato quel qualcuno,sono sicura che ti piacerebbe tanto…mi ricorda che sono fragile,che posso avere paura e che posso piangere senza sentirmi stupida.

Un chitarrista con la faccia da angelo.

...ricordo quando pensavo che la felicità non potesse esistere per me,quando pensavo che fosse una truffa,una nenia stancante,un graffio del mio passato,una fotografia troppo grande perchè la mia borsa potesse contenerla

...mi ha mostrato che la felicità è un altra cosa...è la mia mano che stringe,siamo noi:due fuochi mescolati,incoerenze amalgamate e stranamente in equilibrio...il resto non è felicità,è accessorio. siamo come un grido,un grido che si disperde nell'aria,come la follia scostante che esce dalla punta delle sue dita,come tutto ciò che è incontrollabile...la sua musica che sbatte impazzita contro le pareti della stanza,come i semi dell'amore che nella fioritura urlano...le sue mani che cantano il mio nome...amarci,come semplici accordi improvvisati.

L’amore che mi avevi insegnato anche tu mamma.

Eravamo due sconosciuti che si sono riconosciuti,è diventato la tempesta perfetta,la barchetta di carta che non si arrende alla pozzanghera,con lui cavalco i sogni su un cavallo di una giostra di un paese di periferia affacciato sul mare.

Io che ho sempre vissuto in cose sbagliate,sento che lui è la cosa giusta solo dal modo perfetto in cui mi dice "vieni qui..."

mi rendo conto che c'è molto da sopportare di me,ma lo faccio sorridere e dai miei difetti non potrei chiedere di meglio,il suo sorriso vestito da arcobaleno.

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I suoi occhi hanno il colore dei boschi e sono certa li avresti adorati. lui mi hai insegnato che bisogna avere un sogno per alzarsi alla mattina...io ora ce l'ho mamma,ce l’ho di nuovo.

ci sono cose che ancora non so dire,ci sono errori che ancora devo sbagliare,ci sono occhi che ancora non mi è permesso dimenticare e c’è lui...che riempie tutti i buchi neri,che mi protegge dagli spigoli,che mi racconta la musica e mi canta la vita….diventa poesia,la più bella che io abbia scritto,perchè non ha bisogno di parole per brillare.

me ne stavo accartocciata su me stessa in attesa di un quando...è arrivato lui,con quel quando stretto tra le dita...mi facevano male persino le ossa,mi faceva male pensare...ora che penso a lui ha smesso...

Quanti colori possono esserci dentro una persona,mamma?

Mentre ti scrivo fuori il cielo è verde bottiglia,ho riempito di parole questo libro per te,il libro che ti avevo promesso,finalmente sono riuscita a finirlo,e anche se è stata la cosa più difficile che io potessi fare,ce l’ho fatta,sapendo che i tuoi occhi sono sempre qui vicino a me e che le tue mani non smetteranno mai di stringermi forte.

Addio mamma…ti amo con tutto il mio cuore.

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A MIO FRATELLO:

tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali tornate a casa nani, levatevi davanti,

per la mia rabbia enorme mi servono giganti

Cyrano - Guccini

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Erano i muri odorosi di edera e rose,in quel cortile polveroso che faceva da sfondo alla nostra vita bambina,eravamo io e te,soci nei giochi e nella vita...ci difendevamo la notte dai mostri che spuntavano da sotto i letti,tu costruivi spade di legno e scudi ed io ti proteggevo con le lucette colorate appese al muro...quando il buio però si faceva fitto e zittiva quelle luci tu t'inventavi storie buffe per farmi ridere,mi hai insegnato ad addormentarmi pensando alle cose belle,che allora erano semplici e genuine...c'inventavamo un mondo fatto di canzoni e di peluche,nessuno poteva entrarci...noi avevamo la parola d'ordine...eri il mio fratellino,anche sei già più alto di me...e quando qualcuno,con la cattiveria sfacciata dei bambini osava prendermi in giro perchè io ero piccolina e non crescevo,tu diventavi rosso e sparavi calci e pugni......delle nostre ginocchia sbucciate,dei palloni che rimbalzavano su un portone,dei gelati e dei pomeriggi pigri all'ombra degli alberi,arrampicati tu,io ho paura...vieni con me,costruiamo la nostra casa su questo albero...e viviamo qui... ma il tempo è passato e siamo passati dalle altalene ai banchi di scuola...sempre vicini però...complici senza dircelo...il tempo che passa inesorabile e lava via le pallonate,le corse in bici,i grembiulini sporchi di colori,il bagno insieme in quella vasca che a noi sembrava il mare...e quel mare che ci ha visti pirati,pionieri,corsari...costruttori di perfetti castelli di sabbia,al mattino sarà ancora li ad aspettarci,mi dicevi...il mare non se lo mangerà...ma è stato peggio,il tempo ha mangiato di noi le cose più belle...e tu hai smesso di piangere...ti chiudevi forte dentro di te quando qualcosa ti faceva male e non bastavano spade e scudi,non bastavano le luci,mi avevi chiuso fuori e ho odiato quella porta che si è aperta solo quando la mamma stava male...sei uscito dal guscio e mi sei venuto incontro,non mi hai dato la mano ma hai fatto molto di più,mi hai sollevato da terra quando tutto il mondo girava impazzito e hai pianto,abbiamo pianto insieme di fronte a qualcosa che era crollato insieme alla casa sull'albero,al portone,al castello di sabbia e crollando ci ha fatto avvicinare...e quella mattina io non la scorderò finché vivo,per un attimo sei tornato ad essere mio fratello e sono sicura da lassù la mamma ha sorriso.

Tua sorella

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A MIO PAPA’:

Papà, ma perché muoiono sempre le persone migliori?

Se tu vai in un giardino, quali fiori strappi, quelli belli o quelli brutti?

Massimo Troisi.

Un fazzoletto di carta per terra,raggomitolato,impaurito,livido Una coperta sul divano e lui seduto li,con lo sguardo perso in quelle mura che odorano ancora di lei. Rumori di fondo e i fiori che non possono più profumare. Il tempo che trascorre tra le gambe del tavolo,la sua stanchezza dietro gli occhiali a poco prezzo,il ticchettio circolare dell’orologio,ma lui non c’è. E non ci sono spiegazioni,né ragioni,ne nessuno a cui puoi dare la colpa. La maledetta colpa. E tutte le parole che rimbalzano nel vuoto,sulla sua fronte contratta mentre le regalava l’ultima rosa della sua vita. Mentre sceglieva l’ultima canzone d’amore da dedicarle. Mentre cercava il suo modo per dirle addio per sempre. Un male fastidioso che durerà,che porterà sempre dietro gli occhi,dove nasconde le lacrime,dove la sua piccola bara giace indisturbata. Abbiamo fermato il tempo,nelle nostre pance,sui nostri volti increspati.

Papà,piangi e disperati,ma non lasciare che coli la luce che brilla in fondo ai tuoi occhi,perché li c’è un po’ della mamma,lì

ci sono i suoi sorrisi,non rischiare di perderli.

Si diventa bambini con i capelli bianchi e ci si aggrappa ai ricordi,alle foto,sospese ovunque in questa casa che sa di nuovo,questa casa che aveva scelto,lontano dal ricordo di dolori che gli strappavano il cuore,che lo facevano contorcere di notte in un letto che sapeva di sofferenza.

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Quando strimpellava alla sera,attaccato alla sua chitarra,tutte le canzoni erano per lei. Sottovoce,per non disturbare.

Papà,mi hai insegnato l’amore per sempre,quello del: “Finché morte non ci separi”,non temere,hai mantenuto la promessa.

Quelle realtà ingiallite e mai vissute,quelle ragnatele ovunque a ricordarti che lei non ce la faceva più,a ricordarti che le cose importanti erano tutte li,su quella tavola apparecchiata alla buona,senza cibo nei piatti,perché le sue mani stanche non riuscivano più a prepararti quei piatti che tanto adoravi. Ci provava lo sai e quando non ci riusciva si sentiva disperata. L’hai dovuto imparare,la vita ti ha dato tanto ma ti ha tolto altrettanto,senza sconti mai,hai dovuto pagare tutto,a prezzo pieno. Hai dovuto difenderti dalla quotidianità che a volte ricordo,ti faceva abbassare gli occhi,ma mai ti sei arreso,non farlo nemmeno ora. Sei la persona col cuore più grande che io abbia mai conosciuto e anche se non te l’ho mai detto,io ti amo da morire e la mamma è sempre stata orgogliosa di te.

Tua figlia.

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Quando la gente ti dira’ che hai sbagliato… e avrai errori dappertutto dietro la schiena, fregatene.

Ricordatene. Devi fregartene. Tutte le bocce di cristallo che hai rotto erano solo vita… non sono quelli gli errori…

quella e’ vita… e la vita vera magari e’ proprio quella che si spacca, quella

vita su cento che alla fine si spacca… io questo l’ho capito, il mondo e’ pieno di gente che gira in tasca con le sue

piccole biglie di vetro… le sue piccole tristi biglie infrangibili…

e allora tu non smetterla mai di soffiare nelle tue sfere di cristallo… sono belle, a me e’ piaciuto guardarle, per tutto il

tempo che ti sono stato vicino… ci si vede dentro tanta di quella roba… e’ una cosa che ti

mette l’allegria addosso… non smetterla mai… e se un giorno scoppieranno, anche quella sara’ vita, a modo

suo… meravigliosa vita”.

Alessandro Barrico - Castelli di Rabbia

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«Era come fare un lancio con il paracadute, se non si apre non ci si può mica incazzare con qualcuno.»

Charles Bukowski

Volete sapere cosa si prova quando tutto quello che rimane di tua madre è chiuso in una scatola? Il suo profumo, una ciocca dei suoi capelli,i documenti,la fascia,la parrucca,il suo smalto,il suo rossetto,la collanina,delle foto antiche,un bigodino,il portafoglio,l’ultima sigaretta che ha fumato,quella ecografia maledetta… Che quello che provo io poco importa,io le parlo,io le mando messaggi,ogni tanto faccio il suo numero e aspetto come una scema. La notte tengo la televisione accesa perché ho di nuovo paura del buio,fumo troppo…e mi arrabbio perché quel vestito al suo funerale non mi piaceva proprio. Abbiamo fatto tutto in fretta ed io non ho avuto nemmeno il tempo di capire,di poter scegliere con cura le cose da metterle. Tutti mi dicevano che era bellissima. Si è vero,mia mamma era bellissima,ma avrei voluto gridare a tutti voi,” Dove eravate quando invece stava male?...quando non era bellissima? Quando si stava trasformando sotto i nostri occhi e stava diventando ombra di stessa?...” Be’,non ho gridato,sono stata educata e cortese…ho stretto mani e regalato sorrisi,forse i più finti della mia vita…ho regalato smorfie,qualcuno se ne deve essere accorto,lo so…ma pazienza! Di notte scrivo,insieme alle mie mille sigarette e alla birra,che mi fa schifo ma che in alcune circostanze aiuta…scrivo con quella scatola di fianco e racconto di lei,parlo di lei e mi faccio male un cane. E sono arrabbiata stasera…e vorrei che un po’ della mia rabbia arrivasse sulla pelle di chi sta leggendo,vorrei aver

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comunicato questo,vorrei avervi fatto provare la sensazione di avere una scatola vicino…e incazzarvi come bestie perché un mostro si è catapultato nelle vostre vite e vi ha mangiato la cosa più importante nella vita e poi l’ha trasformata in una scatola. Vorrei che un po’ del vostro odio arrivasse a quel mostro e a tutti i mostri che passeggiano indisturbati sulle persone che amiamo. Sconfiggiamoli,cazzo. Con le parole,con la musica,con la poesia,con l’amore. Questo mio libro è dedicato a mia mamma,è dedicato a chi conosce la lotta per sopravvivere,è dedicato a chi ha perso la battaglia e a chi l’ha vinta,a chi sta ancora lottando ed è incazzato come me. Poche pagine,un insieme di appunti disperati presi mentre il mostro si nutriva di lei. Non è stato facile arrivare fino a qui. Sono stanca,stremata…ma ce l’ho fatta. Ringrazio chi mi ha letta e ha capito,ringrazio anche chi pensa che questo libro sia stupido ed infantile,a me non importa,non l’ho scritto perché dovesse piacere a qualcuno,l’ho scritto perché la mia anima gridava forte e non potevo non ascoltarla.

Grazie sinceramente Alessia

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«Quando una persona ti manca,la puoi sempre

disegnare." P.

«...credo che la cosa che mi riesca meglio sia nascondere tutta la merda che mi circonda e la musica, spero di venirne

fuori almeno un quarto forte come te...» Alex

..."posso capire quello che stai vivendo e sono felice di scriverti perchè anche io ho perso mio padre ad aprile per

cancro e ancora mi fa male pensare che lui non ci sia più spero proprio che questa bruttissima malattia si possa

sconfiggere come adesso curiamo l'influenza sarei proprio felice è brutto sapere di averlo ma anche venire a sapere che

un tuo caro abbia questa cattivissima malattia....ti sono vicina..»

Sarah

“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per

davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.”

Elena

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..."Le cose buone, ingrassano. Le cose belle, costano. Il sole che ti illumina il viso, fa venire le rughe. E tutte le cose

veramente belle di questa vita, spettinano… - Fare l’amore, spettina.

- Ridere a crepapelle, spettina. - Viaggiare, volare, correre, tuffarti in mare, spettina.

- Toglierti i vestiti, spettina. - Baciare la persona che ami, spettina.

- Giocare, spettina. - Cantare fino a restare senza fiato, spettina.

- Ballare fino a farti venire il dubbio se sia stata una buona idea metterti i tacchi alti stanotte, ti lascia i capelli

irriconoscibili … Quindi cerca di avere sempre i capelli spettinati!!!

Sarà sempre più spettinata la donna che sceglie il primo vagoncino sulle montagne russe di quella che sceglie di non

salire!!!...»

"Se saremo capaci di diventare speranza e fiducia per il prossimo, se racconteremo la verità ai bambini e se dopo

tutto questo saremo ancora in grado di alzare lo sguardo al cielo...lì, diventeremo immortali, vivremo per sempre, non

esisterà ne malattia ne sofferenza; Illumina l'oscurità! Bless and Love."

Skaz

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Tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi. A seconda del tipo di sguardo sotto il quale vogliamo vivere potremmo

essere suddivisi in quattro categorie. La prima categoria desidera lo sguardo di un numero infinito di occhi anonimi.

La seconda categoria è composta da quelli che per vivere hanno bisogno dello sguardo di molti occhi a loro

conosciuti. C’è poi la terza categoria, la categoria di quelli che hanno bisogno di essere davanti agli occhi della persona amata. E c’è infine una quarta categoria, la più rara, quella di coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone

assenti. Sono i sognatori. Milan Kundera.

Giò

«...purtroppo spesso non siamo noi a scegliere cosa ci capita, chi incontreremo, quali prove affronteremo e quali armi

avremo a disposizione.. l'unica libertà che ci è concessa è quella di decidere cosa fare nel tempo che abbiamo.

ci sarebbero troppe parole da dire, non faccio che ricordare i momenti in cui ti sono stata vicina, anche se per poco,

nell'anno passato...» Marta

"volgi lo sguardo verso il sole e le ombre cadranno dietro di tè!"

Sara C.

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«non esisterebbe vita senza morte…non esisterebbe piacere senza dolore…non esisterebbero sorrisi senza

lacrime...perciò ogni volta che ci sentiamo morti, dolenti e in lacrime ALZIAMOCI VIVIAMO SORRIDIAMO E

DIAMOCI ALL'OZIO ASSOLUTO.» ti voglio bene Ale..

Marchino

pare dunque che risponda meglio all'anima collettiva dell'umanità considerare la morte come un compimento del

significato della vita e come scopo specifico di essa, che non come una mera cessazione priva di significato.

Il morire dell’individuo non è indifferente alla nostra anima;l’impulso a raddrizzare tutti i torti, tanto frequente nei

moribondi, è un’indicazione in tale senso. ti voglio bene!

Chiara P.

"E' facile capire come nel mondo esiste sempre qualcuno che attende qualcun'altro, che ci si trovi in un deserto o in una grande città: e quando questi due s'incontrano e i loro

sguardi s'incrociano tutto il passato e tutto il futuro non hanno più alcuna importanza. Esistono solo quel momento e quella straordinaria certezza che tutte le cose, sotto il sole,

sono state scritte dalla stessa mano, la mano che risveglia l'amore e che ha creato un anima gemella per chiunque

lavori, si riposi e cerchi i propri tesori sotto il sole, perchè se tutto ciò non esistesse non avrebbero senso i sogni

dell'umanità..." ( L'Alchimista Paulo Coelho)

Olga

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...Pensando a te e alla tua mamma mi è venuta in mente una frase

di una canzone di De Andrè che recita così..

"Un amore che mi ha chiesto un dolore uguale al mio a un amore così intero

non vorrei mai dire addio.." Ilaria -la vici-

“La bestia mi ha strappato la parte migliore di me, mi ha resa come un sasso su una via...incapace di provare

sensazioni anche presa a calci!” Patrizia Nania

…ho la radio accesa. sono solo. sono riuscito a rimanere un po’ da solo, finalmente. le pareti bastano a riempirmi. le

persone mi spaventano, le folle di persone. sono tutti così sani di mente. sanno tutti cosa fare. cosa dire. quei coglioni

mi terrorizzano. però, sono capace di scrivere di loro, di tutto questo. è una fortuna, altrimenti dovrei andarmi a

nascondere in un manicomio. e di fatto, è più o meno quello che sto facendo. sono al tempo stesso più forte e più debole

della gente comune. vedo quello che vedono loro, ma non so che farmene; quello che per loro è miele per me è

segatura. be’, porca puttana! senti come piagnucolo!... - Birra, fagioli, crackers e sigarette; Charles Bukowski.

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Lascia che il dolore ti attraversi, non lo respingere, non serve....devi far sì che arrivi dappertutto in tutte le pieghe del tuo essere...solo così capirai che non ti è nemico ma ti darà lui la forza di riuscire a sopportare tutto quello che ti

sta succedendo...non ti curare troppo...gli altri (ovvero quelli che non sei tu) non saranno mai un'ancora di

salvezza stabile, sono troppo mobili e imprevedibili. So che sembra banale ma la tua sola e unica ancora sei

TU....solo TU puoi essere sicura che non ti abbandonerai mai...LA tua vita non è spaventosa tanto da non poterci

entrare ma certo non ci possono entrare tutti perchè la vita vera fa paura agli altri. Vorrei dirti di più ma so che non è

possibile...non sarebbe vero...vorrei dirti che ho la soluzione per aiutarti ma non ce l'ho...ma lo so che tu in

fondo in fondo lo sai già quello che devi fare Manuela Macedonio

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“C’era una volta un piccolo naviglio,che non

voleva,non voleva navigar… …ma dopo una,due ,tre ,quattro,cinque,sei

settimane… Il naviglio,il naviglio navigò…”

Alessia

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Ringraziamenti:

Al dottor Della valle,che ha saputo essere medico ma anche uomo.

A Michela, alla dott.sa Camassa,alla dott.sa Stellino e a tutte le infermiere del reparto di medicina e di oncologia della clinica

Zucchi di Monza.

A Rossana,alla dottoressa Vitale e al dott. Ciro,psicologo che cura l’anima…a tutto l’Hospice di Giussano.

Ai miei amici,ma proprio a tutti…che mi hanno sorretta e hanno

cercato di farmi ridere senza asciugarmi le lacrime: … “Disgra”,Marchino,Alice,Silvia,Marta,Alex,Mattia,Giordano,

Debby & Rob,Dario,Vale,Dani,Massi & Vale,Fabri, Marta & Dava,Balza,Viga & Diana,Borgo,

Marzio & Gaia,Mauri,Vale,Ale,Ele, Ilaria,Cora,Moreno &Laura,Gloria,Tawny,Susy,Giorgio.

A Olga,Stefania,Fabio,Paolino,Francesca,Davide e Nico per la musica e per la spensieratezza che mi hanno regalato.

Ad Alberto,perché certe cose non si dimenticano mai.

A Greta,Manuela,Valeria,Silvia,Anita,Barbara,Daniela,Alessia,

Silvia,Anna perché sono state come sorelle…

A mio padre,per non essere crollato mai.

A mio fratello perché esiste.

A Thomas, per tutto.

A mio zio,per essere stato lo zio speciale che io amo tanto.

A Mattia e alla zia Lulu,per i loro sorrisi.

A Tiziano…senza il quale sarei rimasta con la testa sotto il cuscino a piangere e che mi ha ridato un motivo per alzarmi tutte le mattine e mi sta insegnando con pazienza infinita a

suonare la chitarra.

A Rossana per la meravigliosa prefazione che mi ha regalato e a Patrizia per essermi stata vicina.

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E a questa fine non c’è una frase. piuttosto, una curva…

…una curva che durerà PerSempre.