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Bujor Nedelcovici, La mattina di un miracolo trad. dal romeno di Ingrid Beatrice Coman Milano, Rediviva Edizioni («Quaderni Romeni»), 2014, 280 p. ISBN: 978-88-97908-19-7 [ed. orig., Dimineaţa unui miracol Bucureşti, Univers, 1993; Bucureşti, ALLFA, 2011] © 2014 Rediviva Edizioni, Milano sito web: www.redivivaedizioni.com inizio del romanzo: pp. 21-26

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Bujor Nedelcovici, La mattina di un miracolo trad. dal romeno di Ingrid Beatrice Coman

Milano, Rediviva Edizioni («Quaderni Romeni»), 2014, 280 p.

ISBN: 978-88-97908-19-7 [ed. orig., Dimineaţa unui miracol

Bucureşti, Univers, 1993; Bucureşti, ALLFA, 2011]

© 2014 Rediviva Edizioni, Milano sito web: www.redivivaedizioni.com

inizio del romanzo: pp. 21-26

BUJOR NEDELCOVICI

LA MATTINA DI UN MIRACOLOTraduzione dal romeno di

Ingrid Beatrice Coman

REDIVIVA EDIZIONI

BUJOR NEDELCOVICILa mattina di un miracolo

Traduzione:Ingrid Beatrice Coman

Titolo originale:Dimineaţa unui miracol

© 1993 Univers, Bucureşti© 2011 ALLFA, Bucureşti

Foto copertina:

Joanne Mizzi, Cold Kissolio su tela, 40 cm x 40 cm,

collezione privata

Impaginazione:Simona Bănică

Editing e correzione bozze:

Davide Arrigoni

© 2014 Rediviva Edizioni, Milanowww.redivivaedizioni.com

Prima edizione: aprile 2014Seconda edizione: luglio 2014

Finito di stampare nel mese di luglio 2014 presso

UNIVERSAL BOOK SRL, Rende (CS)

2014

ISBN: 978-88-97908-19-7

Indice

Prefazione / 11Avvertenza / 15

Parte prima. IL TESTO / 17Parte seconda. LA VIA / 135Parte terza. IL SEGNO / 221Parte quarta. LA LUCE / 267

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IL SUONO FREDDO e allarmante di una suoneria.Il telefono?! C’è qualcuno alla porta?! Ascolto an­

cora. Che ore saranno? Apro gli occhi e guardo verso la finestra. Buio! Chi potrebbe mai telefonare a quest’ora?! Errore o scherzo? Mio Dio! Non molla! Devo alzarmi dal letto. Non accendo la luce, brancolo nel buio, arrivo nell’altra stanza, alzo la cornetta. La voce di un uomo. Ce la metto tutta per non gridare. Non capisco quello che dice e sto perdendo la pazienza. Mi sta prendendo in giro o parla in una lingua straniera? Sbatto la cornetta. Torno verso la camera da letto, con l’unico pensiero di arrivare in fretta al letto e riaddormentarmi. Tiro su le coperte e poso la testa sul cuscino. Ha forse detto il mio nome? No! Devo aver capito male. Il telefono suona di nuovo all’impazzata. Torno a rispondere. Impugno furiosa la cornetta.

Sento il mio nome pronunciato con accento straniero, poi:

«Da parte di Iosif Rabovski», e alla fine: «Hatman Arbore». Non capisco, e solo più tardi mi rendo conto che deve essere il nome della strada dove si trova. «Quan­ to ci mette ad arrivare qui?» mi chiede lui.

«Mezz’ora», rispondo senza pensarci. «No! Meglio un’ora», aggiungo ricordandomi di non sapere nemmeno dove si trovi quella strada.

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«Va bene! L’aspetto!» poi il suono secco e disarmante del telefono riattaccato.

Rimango di stucco. Vorrei continuare la conversa­zione, chiedergli chi è, come farò a riconoscerlo? Ho freddo. Tremo tutta. Iosif! Iosif! Resto immobile a piedi nudi sul pavimento freddo. Aspetto invano di sentire il telefono suonare di nuovo. Vado verso il bagno. Hatman Arbore! Non devo dimenticarlo! Ma perché non gli ho detto di venire qua? Avrei potuto dargli l’indirizzo e non essere costretta ad andare in giro a quest’ora! Si sarà perso in giro per la città? Entro in bagno e faccio una doccia. Cerco di rilassarmi sotto la carezza dell’acqua calda. Mi guardo le gambe, le cosce, i fianchi... dovrei dimagrire un po’. Che ore saranno? Erano le cinque e mezza quando ha chiamato.

Non ha nemmeno aspettato l’alba! Aveva una voce concitata, come se avesse paura di qualcuno e dovesse chiudere la conversazione il più in fretta possibile... Come devo vestirmi? Ieri c’era bel tempo... Sono un po’ pallida, dovrei truccarmi, magari mettere del fard rosso sulle guance... Come mi stanno i capelli? Forse dovrei accorciarli un po’! Stupido specchio! Devo sbrigarmi. La borsa e le chiavi. Quanti soldi ho? Se non trovo un taxi, mando tutto in fumo. E allora? Non lo so, ma ho la sensazione che sia qualcosa di importante...

*

Leggo la targhetta blu con lettere bianche sul muro di una casa: via Hatman Arbore. Guardo lungo il marcia­piede. Non c’è nessuno. Sei e trentacinque. Un gruppo di persone si affretta verso il tram. Una macchina ferma davanti a me. Si apre piano la portiera e qualcuno mi fa

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segno di salire. Non riesco nemmeno a vedere bene chi sia. Mette in moto a grande velocità.

«Scusami se ti ho disturbato di mattina presto. Ho perso il tuo indirizzo, avevo soltanto il numero di tele­fono. Per di più mi sono smarrito in questa città per metà in rovina... Dove possiamo prendere un caffè? Ho biso­gno di parlarti!».

«C’è un ristorante sul lago, possiamo andare lì», gli propongo, mentre lo guardo con la coda dell’occhio: biondo, indossa occhiali da sole, sui trent’anni, maglietta nera, jeans. «Vai sempre dritto!» gli spiego. Attraver­siamo piazza della Vittoria, poi proseguiamo sul viale Kiseleff.

La macchina avanza piano. La musica della radio, un blues, sostituisce le parole che aspetto da lui o che forse lui aspetta da me. Entriamo nella zona dei laghi. Sole tiepido, cielo celeste perlato, poi ferma davanti al risto­rante. Il giovane rimane per un attimo immobile, poi al­lunga la mano e comincia a cercare nel vano portaoggetti. Tira fuori uno alla volta vari oggetti che sistema con cura sul cruscotto... Aspetto! Ascolto il ritmo lento della me­lodia. Vorrei scendere, non so come fare ad aprire la por­tiera, sento che la spiegazione riguardante l’arrivo di questo giovane arriverà al di là di ogni parola. Mi porge un libro. I nostri occhi si incontrano per la prima volta. Ha uno sguardo diretto, forte, elettrizzante. Gli sorrido un po’ confusa.

«È per te!» mi dice lui a voce bassa e mi fa segno di prendere il libro avvolto in una carta giallina. «Aprilo!» mi esorta con l’aria familiare e comunicativa di chi sem­bra conoscermi da una vita... «Dai! Guardalo!» insiste e mi sfiora appena la spalla.

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Ho come un sussulto nel sentire la sua mano, segno di una doppia difesa: dal gesto e dall’oggetto che istintiva­mente cerco di schivare. Comincio lo stesso a sfogliare il libro: la prima pagina bianca, la seconda pure, la terza: il nome dell’autore, il titolo fatto di cinque parole e, sotto, la sigla della casa editrice. Leggo, ma non ci capisco niente. La pagina seguente... Una dedica. Distinguo solo il disegno elegante delle frasi che paiono senza conte­nuto e alla fine... il mio nome. Ho i nervi a fior di pelle. Non trovo il coraggio di affrontare il senso delle parole. La quinta pagina... Mi fermo. Volto la testa verso il fine­strino, un cane ci passa di fianco, si ferma un po’, poi va avanti zoppicando dalla zampa destra. Forse gli serviva un attimo di tregua.

«Hai letto la dedica? È per te! L’ultimo libro scritto da Iosif! Mi senti? Che ti prende?» continua lui contrariato e spiazzato dall’assenza di qualsiasi reazione da parte mia.

«Sei venuto fino a qui per portarmi un libro scritto da Iosif!» osservo io scioccamente.

«Già! Non sei contenta?».«Sei amico di Io?».«Sì. Un giorno mi ha chiesto: “Vuoi portare questo

romanzo a Maria?”. E mi sono messo in viaggio da Pa­rigi...».

«Perché non è venuto lui a portarmelo?».«È quello che mi sono chiesto anch’io!». È rimasto in

silenzio per un attimo alzando le spalle.«Quando sei partito da Parigi?».«Tre giorni fa, cioè mercoledì. Mi sono fermato un

giorno a Venezia e qualche ora a Belgrado. Ho un amico là, Slavomir. Ha detto che mi avrebbe dato Nataša! Una bella gattina bianca. Al ritorno passo a prenderla! Poi ho guidato fino a qui senza fermarmi! Non dormo da tre

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notti! Ti ho lasciato dormire fino alle cinque e mezza. Avrei potuto chiamarti prima, ma... Iosif mi ha proibito di svegliarti troppo presto».

«Si ricorda ancora questo particolare?».«Già! Ora andiamo a mangiare qualcosa! Se non bevo

subito tre caffè, mi addormento all’istante...».

*

Andiamo sulla terrazza del ristorante. Un cameriere sistema le sedie e stende le tovaglie. Ci dice che il risto­rante apre soltanto alle nove. Guardo l’orologio. Man­cano quasi due ore. Lo invito a casa mia, ma preferisce restare qui, questo posto gli sembra piacevole e tran­quillo. Entra nel ristorante per lavarsi le mani. Rimango da sola. Cammino verso il lago.

I raggi del sole, l’isola, i salici, il vento del mattino, una iole dalle vele colorate, tutto sembra librarsi sulla lama d’argento di un coltello. Non vengo qui da quando ero studentessa e mai così presto al mattino. Sento il pro­fumo dell’erba appena tagliata. Mi siedo in terra, faccio di tutto per evitare di capire il senso della “notizia ap­pena portata”. Chiudo gli occhi. E, tutt’a un tratto, la mia lunga e faticosa resistenza si spezza... una porta si apre con violenza e un’aria gelida mi investe, e tutto mi ap­pare con la lucidità e la concretezza dei giorni di allora... «Cosa stai cercando di dimenticare? Cosa vuoi scacciare dalla tua anima?». Chi me l’aveva chiesto? Non ricordo nemmeno più! Per tre lunghi anni ho fatto di tutto per cancellare dalla mia memoria il ricordo di quei giorni... Per eliminare il “segmento di tempo” vissuto là. Ho cer­cato di vivere nel presente e nello stesso tempo sono ri­masta bloccata in quell’intervallo, negli attimi infiniti che cercavo di dilatare con un piacere malsano, lo stesso

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che provavo da piccola quando, nelle notti di febbre, fa­cevo girare tra le dita le perline del rosario della nonna: ogni perlina era uno sguardo, un gesto, una parola. Cer­cavo le sfumature e i sensi nascosti che non avevo an­cora colto sperando di portare alla luce e di vivere piccole rivelazioni che sommate tutte insieme potevano tramu­tarsi in miracolo... il nodo impercettibile, la rete invisi­bile che lega fra loro i pezzi su una scacchiera... Ed eccomi qui, proprio quando credevo che la vita fosse en­trata in una “normalità accettabile e sopportabile”... tutto il mio sforzo viene mandato in fumo! È spuntato questo giovane. Non doveva mandarlo, Iosif, non doveva farmi questo! Non aveva alcun diritto di caricarmi di un far­dello in più! «Persino la tua memoria è condizionata da les états de l’âme ed è per quello che a volte soffri di am ­nesie o scappi dalla vita e così muori a occhi aperti». Chi me l’ha detto? Forse proprio Iosif! Mi sono salvata da un burrone, oggi mi fa di nuovo precipitare, giù, tra radici, sassi ed erbacce... Non dovevi farmelo, amore mio! Non dovevi ricordarti ancora di me e mandarmi questo libro!

Il giovane riappare in fondo al sentiero. Mi cerca con lo sguardo. Gli faccio segno che sono qua. Gli piace il posto che ho scelto. Si siede sull’erba accanto a me. Ha ancora sulle guance gocce d’acqua che brillano nella luce del sole. Solo ora riesco a vederlo meglio: i capelli biondi, gli occhiali dalla montatura metallica, naso pro­minente, mani dalle dita lunghe e sottili, ma dalle unghie spesse e dalla pelle ruvida, mani che non sono estranee ai libri, ma che forse hanno maneggiato anche un martello.

«Hai letto qualche pagina?» mi chiede lui facendo un cenno verso il libro.

«No. Preferisco leggerlo a casa. Come ti chiami?» cerco di cambiare discorso.

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