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Gennaio 2002 Questo dossier è stato curato da Jody Abate. La sezione Le mine terrestri è a cura di Barbara Laveggio La sezione Approfondimenti e riflessioni è a cura di Giuseppe Rinaldi

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PRESENTAZIONE

Perché l’Afghanistan

L’Afghanistan è un paese che sconta amaramente l’eredità di un conflitto ventennale che ne ha azzerato le strutture economiche e sociali. Un paese in cui le donne - ombre silenziose, costrette a nascondersi sotto il burqa - si vedono negare i diritti più elementari. Un paese dove vivono 300.000 mutilati dalle mine terrestri e dagli ordigni inesplosi, lasciati dall'esercito sovietico, dalle forze governative e dai guerriglieri durante la guerra civile e, oggi, dai bombardieri anglo-americani. In Afghanistan, la violenza e la guerra sembrano non avere fine. La campagna Inneschiamo i diritti

“Inneschiamo i diritti” è una campagna di informazione e solidarietà sulla situazione dell’Afghanistan. “Inneschiamo i diritti” è un’idea dell’Istituto per la Cooperazione allo Sviluppo di Alessandria (ICS), con il sostegno della Campagna contro le Mine – Onlus.

L’iniziativa è nata dalla collaborazione, iniziata nel 1998, con alcune organizzazioni della società civile afghana ed è stata concertata molto prima del tragico attentato dell’11 settembre scorso.

I fondi raccolti andranno a favore dell’associazione umanitaria afghana “Omar International” e saranno utilizzati per acquistare l’attrezzatura per le operazioni di sminamento di emergenza nelle aree urbane a più alto rischio. Questo dossier

La situazione dell’Afghanistan è oggi è un tema di scottante attualità che richiama opinioni e analisi differenti, talvolta contrastanti. Si è passati tuttavia all’improvviso da una assoluta assenza di interesse e di informazione a una valanga incontrollata di dati e notizie varie. Sembra oggi più che mai importante tentare una sintesi ragionata. Chi sono davvero i talibani e come sono nati? Qual è la condizione delle donne e come si è giunti a renderle “fantasmi senza volto”? Cosa sono le mine terrestri? Kabul crocevia delle grandi potenze: qual è il loro ruolo? L’Afghanistan di ieri e quello di oggi: che cosa è cambiato? Chi sono e qual è la condizione dei rifugiati? Quale futuro per l’Islam e l’Occidente? Che cosa implicano le definizioni di radicalismo e fondamentalismo e qual è il legame con il terrorismo?

Questo dossier – che è rivolto primariamente alle scuole - non ha la pretesa di fornire delle soluzioni o delle risposte esaustive; ha però l’ambizione di offrire alcuni spunti per stimolare la riflessione, di essere una bussola per orientarsi nel mare dell’informazione.

Gli eventi che si sono susseguiti dall’11 settembre scorso ci hanno spinto a rivedere, aggiornare ed approfondire i contenuti di questo dossier, senza peraltro voler rincorrere la cronaca della guerra.

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INDICE

1° SEZIONE AFGHANISTAN

Mappe……………………………………………………………………………………… 4

Scheda paese…………………………………………………………………………….…. 5

Cronologia……………………………………………………………………………….…. 6

I talibani e i diritti umani…………………………………………………………………… 12 I talibani e le donne………………………………………………………………………… 13

Il fronte Unito Islamico Nazionale o Alleanza del Nord………………………………….. 14

L’Afghanistan e i rifugiati……………………………………………………………….…. 16

Il traffico di droga………………………………………………………………………….. 18

L’oppio in Afghanistan – La via della droga dall’Afghanistan all’Italia…………………… 20 2° SEZIONE LE MINE TERRESTRI Le mine terrestri…………………………………………………………………………… 22

Le mine e i bambini……………………………………………………………………….. 24

Campagna contro le mine………………………………………………………………….. 25

Le mine in Afghanistan……………………………………………………………………. 26

Territori da sminare – grafico……………………………………………………………… 27

Afghanistan metro per metro - La situazione attuale……………………………………… 28

Il nostro contributo………………………………………………………………………… 29

3° SEZIONE APPROFONDIMENTI E RIFLESSIONI Dizionario…………………………………………………………………………………. 31

Chi sono i talibani………………………………………………………………….. 38

Fondamentalismo islamico e radicalismo - Problemi e definizioni………………… 44

Terrorismo………………………………………………………………………………….. 50

Osama bin Laden e Al-Quaida……………………………………………………………… 55

Bibliografia…………………………………………………………………………………. 64

Siti Internet………………………………………………………………………………….. 66

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1° SEZIONE

AFGHANISTAN

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MAPPE

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DATI SOCIO-ECONOMICI

I talibani si riferivano al loro paese come “Emirato Islamico di Afghanistan”. Non esiste tuttora nessuna costituzione, il sistema legislativo è inattivo dal 1993. Non esisteva il Parlamento e l’unica istituzione era il Consiglio dei Ministri formato dagli ulema, i saggi teologi scelti personalmente dal mullah. Il capo politico, spirituale e militare del paese era il mullah Muhammad Omar. La legge islamica (sharìa) veniva applicata rigorosamente.

Dopo la caduta del regime dei talibani è in atto un processo di trasformazione non ancora definito.

POPOLAZIONE

25.838.797 abitanti

superficie: 652.000 kmq 0-14 anni 43 %

15-64 anni 54 %

oltre 65 anni 3 %

Tasso di crescita: 3,95%

Aspettativa di vita: 46 anni

Mortalità infantile: 149/1000

Tasso di alfabetizzazione:

- complessivo: 31%

- maschi: 47%

- femmine: 15%

GRUPPI ETNICI

Pashtun: 38%

Tajiki: 25%

Hazara: 19%

Uzbech: 6%

RELIGIONE

Musulmani sunniti: 84%

Musulmani sciiti. 15%

LINGUE

Persiano Afghano: 50%

Pashtun: 35%

Lingue di ceppo turco: 11%

ECONOMIA

Reddito pro-capite: 800$/anno

P.I.L.: 21 mld $ (1998)

Esportazioni: oppio, frutta, tappeti, lana, cotone, gemme preziose, pellame. Importazioni: cibi, prodotti del petrolio, beni di consumo più comuni.

FORZA LAVORO

Agricoltura: 67,8%

Servizi: 15,7%

Industria: 10,2%

Fonte: www.odci.gov/cia/publications/factbooks/geos/af.html

L’Afghanistan è un paese devastato da oltre un ventennio di guerre, durante il quale le infrastrutture, il tessuto sociale, l’organizzazione statale sono andati distrutti. Il sistema economico è oggi inesistente: severe sono state le perdite nelle esportazioni, la disoccupazione è una piaga sociale ed il paese non è più in grado di produrre ricchezza. La situazione in Afghanistan si è drammaticamente deteriorata nel corso del 2000 e del 2001 a causa del prolungarsi del conflitto, dei bombardamenti delle forze anglo-americane e della terribile siccità che da tre anni affligge il paese. L’Afghanistan vanta molti tristi primati mondiali: - ha il più alto tasso di mortalità infantile e materna - ha il più basso di aspettativa di vita e di alfabetizzazione - è uno dei o tre paesi con il più basso tasso di disponibilità di cibo pro capite - ha la più alta proporzione di disabili - è tra i primi posti per quanto riguarda la percentuale di incidenti da mine - circola il più alto numero di armi pro capite - ha il più basso tasso di disparità di genere (GDI)

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CRONOLOGIA1

Luogo di incontro e di passaggio di molteplici popoli asiatici, all’inizio del II millennio a.C., l’Afghanistan fu percorso dalle tribù indoeuropee provenienti dalle gole dell'Hindu Kush e dirette verso il Punjab. I territori che oggi costituiscono l'Afghanistan furono compresi all'interno dei confini dell'impero persiano a partire dal VI secolo a.C., in seguito alla politica espansionistica di Dario I, e assunsero il nome di Drangiana, Battria, Aria e Aracosia, abitata quest'ultima dagli afghani o pachti. Durante la dominazione della dinastia persiana achemenide, i territori afghani furono organizzati in satrapie e acquistarono una crescente autonomia. 330-329 a.C.: L’Afghanistan fu conquistato da Alessandro Magno (330-329 a.C.); in quest’occasione vennero fondati alcuni importanti centri urbani di nome “Alessandria”- vicino alle moderne città di Herat, Kandahar e Kabul (in particolare, Kandahar deriva da Iskandar, nome persiano di Alessandro). Alla morte di Alessandro (323 a.C.), l'Afghanistan passò sotto Seleuco I e fu poi ricompreso nel regno dei parti e quindi nell'impero sasanide. Soltanto una piccola porzione del territorio afghano si rese autonoma costituendo il regno della Battriana, dove rimasero fortemente radicate le influenze ellenistiche. 250-50 a.C.: L'Afghanistan fece parte dal 250 al 50 circa a.C. del regno indipendente di Battriana e divenne il centro d’una civiltà greco-buddista, nata dall'incontro di elementi indiani ed ellenici. II-IV secolo d.C.: A partire dal II sec. d.C. il paese fu invaso dagli sciti, nomadi indoeuropei scesi dall'Asia settentrionale, e venne incorporato nel regno dei kushan. I Kushan raggiunsero il loro apogeo nei due primi secoli della nostra era, estendendo il loro dominio sull'India nord occidentale, e si mantennero in Afghanistan fino al VI sec. L'Afghanistan fu allora il centro di diffusione del buddismo mahayana verso la Cina, attraverso le vie carovaniere dell'Asia centrale. VIII - XIII secolo: Alla cultura buddista subentrò l'islam, diffuso dai gruppi arabi che nell'VIII secolo conquistarono la regione sotto gli ultimi califfi omayyadi. Tra gli stati musulmani indipendenti che iniziarono a formarsi a partire dal IX secolo andò acquistando una potenza sempre maggiore il regno dei Ghaznavidi prima e dei Ghuridi poi che portarono gradualmente a termine la conquista e, quindi, la riunificazione del paese. Travolto dall'invasione mongola del XIII secolo, l'Afghanistan fu nuovamente terra di conquista e andò diviso fra il sultanato di Dehli e la Persia. 1747: L’Afghanistan come stato autonomo nacque nel 1747, quando Ahmad Shah, capo della tribù afghana degli Abda’li, ottenne, contro i Persiani, l’indipendenza dell'Afghanistan, e si proclamò “emiro degli Afghani” dopo aver preso il nome di Durr-i-Durran (“perla delle perle”). Fondò la dinastia Durrani ed estese il suo regno dal Khorassan al Punjab, e dall’Amu Darya al golfo di Ornan. Il suo regno durò fino al 1773. 1773-1793: Regno di Timur Shah. La capitale dell’Afghanistan fu trasferita da Kandahar a Kabul a causa di opposizioni tribali. 1826-1836: Dost Mohammad Khan prese Kabul contro il sovrano legittimo e fu proclamato “Comandante della Fede”. Il suo progetto di unificazione dell’intero Afghanistan è interrotta

1 In questa cronologia si è cercato di ricostruire sommariamente le tappe più rilevanti della storia dell’Afghanistan. Si tratta di un mero strumento di orientamento per lo studio e l’approfondimento e non pretende di essere esaustiva. Essendo stata compilata grazie a fonti assai diverse non è stato possibile curare l’unificazione della traslitterazione dei nomi arabi. E’ stato compiuto il massimo sforzo per assicurare la precisione delle date e dei riferimenti, ma non si esclude la presenza di errori.

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dall’invasione degli inglesi. Gli inglesi decidono l’intervento in Afghanistan per porre un freno all’espansionismo russo nella regione. 1839-1842: Prima guerra anglo-afghana. L'ultimo erede spodestato della dinastia duranica, Shah Shuja’, chiese e ottenne l’appoggio degli inglesi contro Dost Mohammad Khan. Gli inglesi conquistarono Kabul e misero sul trono Shah Shuja’ (1839-1842). Tuttavia gli inglesi si trovarono ad affrontare una violenta rivolta antibritannica, durante la quale vennero sanguinosamente sconfitti da Dost nel 1841-42. 1843: L’Afghanistan conquistò l’indipendenza, mentre Dost Mohammad Khan ottenne il trono imperiale (1843-1863). Grazie alla sua perseveranza Dost riuscì a riunificare vari territori dell’Afghanistan. 1863-1878: Dopo un periodo di disordini per la successione, si stabilizzò il potere di Shir Ali. Egli intraprese un certo numero di riforme, la più importante delle quali fu l’istituzione di un Consiglio dei ministri e la creazione di un esercito moderno. Sotto il suo regno fu introdotta la stampa e fu pubblicato il primo giornale. Dopo avere accettato per qualche tempo l’appoggio degli inglesi, i rapporti peggiorarono e Shir si spostò nell’area di influenza russa. Ciò fornì agli inglesi il pretesto per intervenire nuovamente. 1878: Inizio della Seconda guerra anglo-afghana (1878-1880), causata dall’invasione inglese. 1880-1901: L’emiro Abdul Rahman governò l’Afghanistan per ventun anni con un pugno di ferro. Pacificò i capi tribù recalcitranti, imponendo al paese un regime di terrore esagerato e disumano. In termini di politica estera si adoperò per delimitare le frontiere dell’Afghanistan con l’assistenza degli inglesi (dei quali aveva accettato la tutela per quanto concerne la politica internazionale). 1893: La “linea Durand” stabilì i confini tra l’Afghanistan e i territori indiani occupati dagli inglesi. Alcune aree tribali pashtun dell’Afghanistan vennero lasciate fuori ed entrarono a far parte dell’India (e poi dell’attuale Pakistan), ove ottennero un’ampia autonomia. In queste aree, oggi formalmente appartenenti al Pakistan, le tribù autonome esercitano il commercio di droga e di armi. 1901-1919: Ad Abdul succedette suo figlio Habibullah che continuò la politica estera del padre. Più moderato del genitore, introdusse nel paese un sistema più moderno di educazione. Fu assassinato nel 1919. La Russia e la Gran Bretagna firmano nel 1907 la convenzione di S.Pietroburgo, nella quale l’Afghanistan venne dichiarato fuori dalla sfera di influenza russa. Sotto il regime di Habibullah cominciò a diffondersi in Afghanistan un movimento politico per la costituzione, i cui capi più radicali furono condannati a morte o imprigionati. Nonostante le persecuzioni, il movimento costituzionale riuscì a penetrare a corte e a influenzare anche il figlio del sovrano assassinato che gli succedette al trono. 1919: Il nuovo re Amanullah inaugurò il proprio regno con una dichiarazione di indipendenza e con una serie di riforme modernizzatrici (ad imitazione di Riza Pahlevi e della Turchia kemaliana). La dichiarazione di indipendenza portò a una breve guerra contro gli inglesi - la Terza guerra anglo-afghana - che si concluse col trattato di Rawalpindi (agosto 1919), in cui Amanullah riuscì a far riconoscere l'indipendenza del suo paese. Il nuovo sovrano adottò un moderno sistema di amministrazione e intraprese riforme sociali ed economiche: alcune, come l’abolizione della servitù, furono adottate con entusiasmo, altre, soprattutto quelle che riguardavano la condizione delle donne provocarono l’ostilità dei conservatori. Scoppiò una rivolta e Amanullah fu costretto ad abbandonare il paese nel 1929.

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1929-1933: Dopo un periodo di violente lotte per la successione, salì al trono Mohammed Nadir Shah che regnò per quattro anni, sostenuto all’interno dai conservatori e dalla Gran Bretagna sul piano internazionale. Tentò in ogni modo di eliminare in maniera sommaria gli oppositori progressisti. Nel clima conflittuale creatosi, venne però assassinato nel 1933 da uno studente. 1933: Dopo un periodo di ulteriori disordini per la successione, salì al trono il figlio di Nadir, Zahir Khan, che aveva studiato in occidente. Zahir lasciò a lungo il potere ai suoi familiari e in particolare a suo cugino Daoud che fu primo ministro a partire dal 1953 fino al 1963. Daoud contribuì ad arrestare il processo di modernizzazione e instaurò un regime poliziesco repressivo. Sotto Zahir si realizzò comunque l’unità nazionale afghana. L’Afghanistan divenne una monarchia costituzionale e il potere fu diviso fra il re e un parlamento composto di due camere. Zahir regnò fino al 1973. 1940: Nella seconda guerra mondiale (1939-45), l’Afghanistan mantenne inizialmente la neutralità per poi dichiarare guerra alla Germania. 1946: L’Afghanistan entrò a far parte dell'ONU. 1947: Nel 1947, come conseguenza della dissoluzione dell’impero britannico delle Indie, venne creato il Pakistan,. L’intento era quello di istituire uno stato islamico separato dall’India induista. Il Pakistan rimase dominio britannico fino al 1956, quando venne creata una repubblica islamica 1959: Le donne afghane entrarono ufficialmente a far parte della forza lavoro. 1964: Venne elaborata una nuova Costituzione, adottata dalla Loya Gjirga (Grande Assemblea) e promulgata dal re il 1° ottobre 1964. Le prime elezioni a scrutinio segreto ebbero luogo l’estate seguente e il nuovo Parlamento cominciò il suo lavoro nell’ottobre del 1965. 1965: Venne fondato il partito democratico del popolo afghano, di ispirazione comunista. Successivamente, si scisse in due gruppi contrapposti, secondo linee etniche: il gruppo Parcham (bandiera) più moderato e legato ai tajiki e il gruppo Khalq (popolo), meno condizionabile da Mosca e legato ai pashtun di Amin. 1971: In Pakistan andò potere il capo del partito popolare Ali Bhutto, il cui governo (di ispirazione vagamente populista) provò a varare una serie di provvedimenti di carattere riformista. 1973: Un colpo di stato contro Zahir (mentre egli si trovava in Italia - da allora l’ex re vive in Italia, a Roma) da parte del cugino e già collaboratore al governo Sardar Daoud Khan, mise fine all’esperienza di monarchia costituzionale moderata. Daoud proclamò la repubblica e si nominò presidente, con un programma di rapida modernizzazione. Nel 1977 venne promulgata una nuova Costituzione che negli intenti avrebbe dovuto essere più avanzata della precedente. Nel contempo, iniziò una vasta opera di potenziamento dell’economia che non diede però i risultati sperati. Malgrado le sue prese di posizione progressiste, il regime repubblicano non riuscì a dare slancio allo sviluppo economico dell'Afghanistan che nel 1977 rimaneva un paese dal reddito medio annuo molto basso (80 dollari pro capite). 1974: L’UNESCO proclamò Herat una delle prime città facenti parte del patrimonio culturale mondiale. 1978: Daud, assumendo posizioni politiche sempre più moderate, provocò un sanguinoso colpo di stato, attuato da giovani ufficiali filocomunisti, che si concluse con la sua eliminazione fisica (aprile 1978). L’avvenimento prese il nome di “rivoluzione di saur” (“saur” nel calendario afghano, è il nome del mese di aprile-maggio)

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1978: In Pakistan, il generale Zia ul-Haq rovesciò con un colpo di stato il governo di Ali Bhutto, condannato a morte l’anno successivo. La sua dittatura, che durò fino al 1989, venne appoggiata dagli USA in funzione antisovietica. Sotto il regime di Zia si diffuse in Pakistan l’islamismo radicale. Nel 1980 fu fondata a Islamabad l’Università islamica internazionale, dove si ritrovavano gli intellettuali di tendenza wahhabita di tutto il mondo e dove furono divulgate le dottrine dei Fratelli musulmani. Zia protesse al-Mawdudi, uno dei più importanti teorici dell’islamismo radicale; inoltre, promosse e finanziò il sistema di istruzione delle madrasa, da cui emersero poi i talibani. 1978: In Afghanistan i capi del regime militare filocomunista abolirono la costituzione approvata nel 1977 e proclamarono la Repubblica democratica popolare. Dissidi sempre più frequenti al loro interno favorirono nel paese l'influenza politica ed economica dell’URSS. A giugno nacquero le prime formazioni di mujaheddhin, i combattenti che si opponevano al comunismo e all’influenza russa. Il nuovo presidente Taraki (pashtun) venne ben presto assassinato. 1979: Invasione sovietica. Nel settembre del 1979 Taraki venne ucciso da Amin, che prese il suo posto. Dopo l'assassinio dell’ambasciatore Usa, a dicembre, l'Unione Sovietica decise l’invasione militare dell'Afghanistan. Amin venne eliminato dai sovietici e sostituito da Karmal. L’intervento militare sovietico, che consolidò la vittoria dell'ala comunista di Karmal (tagiko), alimentò una guerra civile logorante che vide schierati da una parte il regime di Kabul appoggiato dall'URSS e dall'altra i nazionalisti islamici, i mujaheddin, appoggiati dagli Stati Uniti. La decisione sovietica venne condannata a livello internazionale e determinò un forte peggioramento dei rapporti fra Est e Ovest, già deteriorata dal fatto che l'occupazione dell'Afghanistan portava l'URSS ad accrescere la sua influenza sul Golfo Persico, zona strategica per il rifornimento del petrolio. La guerriglia attirò in Afghanistan moltissimi islamisti radicali da tutto il mondo che intravedevano la possibilità di mettere in pratica il jihad. 1988: In Pakistan il dittatore Zia morì in un incidente aereo; salì al potere, democraticamente eletta, Benazir Bhutto, figlia del leader giustiziato nel 1979. Riprese la politica di democratizzazione e di riforme del padre pur in un quadro assai contrastato e sotto molte pressioni conservatrici. 1988/89: Nel quadro della nuova politica estera di distensione avviata da Gorbacev, nel 1987 venne proclamato il cessate il fuoco. Dopo gli accordi di pace di Ginevra, i sovietici abbandonarono il paese (1989). La guerra era costata la vita a circa 50.000 soldati dell'Armata Rossa e a molte decine di migliaia di mujaeddhin. Milioni di mine erano state disseminate su tutto il territorio. Si instaurò il regime di Najibullah , di etnia pashtun) ed ex capo dei servizi segreti. 1990: In Pakistan, Benazir Bhutto venne rovesciata da un colpo di stato militare, appoggiato dai conservatori. 1990-91: In seguito all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, scoppiò la cosiddetta “Guerra del Golfo”. Un esercito internazionale, con comando statunitense, ma sotto l’egida dell’ONU, attaccò l’Iraq nel 1991 e lo costrinse ad abbandonare il Kuwait. In questo frangente l’Arabia Saudita si alleò con le forze occidentali e concesse basi militari agli americani. I sauditi per questo gesto vennero accusati dagli islamisti radicali (tra cui bin Laden) di avere permesso la profanazione del territorio saudita, considerato terra santa. 1992: In Afghanistan, fu eletto presidente Burhannudin Rabbani (tagiko), tuttora è il capo di stato afghano ufficialmente riconosciuto dall’ONU. Rabbani ed il generale Massud appartengono al partito moderato Jamaat e-Islami (Società islamica). Ben presto si contrapposero loro i radicali (pashtun) guidati da Gulbuddin Hekmatyar (del gruppo Hizb e-Islami, ovvero Partito islamico). Scoppiò la guerra civile tra le fazioni.

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1993-1996: In Pakistan tornò al potere Benazir Bhutto. Costretta a ritirarsi nel 1996 in seguito ad accuse di corruzione, venne sostituita da Sharif (della Lega musulmana). 1993: Il 26 febbraio una bomba esplose al World Trade Center di Manhattan (5 morti e oltre 1000 feriti); fu il primo attentato alle “Torri gemelle”. 1994: I mujaeddhin si frantumarono in molte fazioni in guerra tra loro. A novembre fecero la loro comparsa i talibani (di etnia pashtun), gli “studenti del Corano”, un gruppo sunnita integralista, appoggiato dal Pakistan e dagli Stati Uniti, che voleva stabilire nel paese uno stato teocratico islamico. La “legge di Dio”, diventò il fulcro normativo del Paese. Rabbani e Hekmatyar, - pur divisi da profonde rivalità etniche, personali e da una diversa visione dell'islam (più moderato Rabbani, più radicale Hekmatyar) - con un accordo dell’ultimo momento, tentarono di resistere invano all’ascesa dei talibani. 1996: A settembre i talibani occuparono anche Kabul. Le forze tagike di Rabbani e Massud si rifugiano nel nord del paese. Nei territori occupati i talibani organizzarono la vita sociale secondo i rigidissimi dettami dell’islamismo. Vennero soppresse la radio e la tv e imposto il velo (la burqa) alle donne fertili. Solo i maschi potevano lavorare e andare a scuola. Sempre in questo periodo, Osama bin Laden tornò in Afghanistan. 1996/1999: La guerra civile tra talibani e le varie formazioni di mujaheddin (unitesi sotto il nome di Alleanza del Nord) proseguiva, provocando di morti. Dopo il fallimento di un piano di pace avanzato dall'ONU nel 1995, nel marzo del 1999 un nuovo piano ONU ottenne l'accordo per la formazione di un governo di unità nazionale. Di fatto la guerriglia, che nelle sue varie componenti vedeva intrecciarsi i diversi interessi di Pakistan, Iran, Russia e Stati Uniti, non cessò, mentre i talibani ottenevano nuovi successi. 1998: In agosto si verificarono gli attentati alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania (210 morti di cui 11 statunitensi); si sospettò che l’ispiratore fosse bin Laden. 1999: In Pakistan un colpo di stato militare eliminò il governo legittimo - ma profondamente autocratico e corrotto - di Sharif. Andò al potere Musharraf. 1999: Alla fine di novembre iniziò l'embargo ONU per la consegna del terrorista islamico Osama bin Laden, nascosto a Kandahar. Furono aboliti i voli da e per l'estero; medicine e approvvigionamenti subirono una drastica riduzione. 2000: A ottobre 17 marinai Usa morirono in un attentato nello Yemen. Gli Stati Uniti accusarono Osama bin Laden. 2000: Gli scontri tra i talibani e gli oppositori dell’Alleanza del Nord (il leader era Massud) continuarono a insanguinare le valli a nord del paese. La guerra più lunga del Novecento non si arrese neppure al nuovo millennio. 2001, marzo: I talibani distrussero le statue dei Buddha nei pressi di Bamiyan (erette prima dell’arrivo dei musulmani nell’VIII secolo), adducendo come pretesto il divieto del Corano adorare gli idoli. Le pressioni internazionali per scongiurare il disastro non servirono a nulla. 2001, aprile: Dopo un inverno durissimo e tre anni di terribile siccità, l’Afghanistan era in ginocchio. Migliaia di persone, rimaste senz’acqua né cibo, furono costrette a lasciare il paese.

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2001, maggio: Si contavano più di due milioni di profughi afghani, costretti a vivere in condizioni disperate nelle zone di frontiera e in Pakistan. L’ONU accusò il Pakistan di non fornire aiuti sufficienti ai profughi. 2001, giugno: Un editto dei talibani costringeva i non musulmani ad indossare un marchio di riconoscimento. La comunità internazionale condannò il gesto dichiarandolo analogo alla persecuzione nazista condotta contro gli ebrei. 2001, settembre: Il leader tagiko Massud venne ucciso in un attentato. 2001, 11 settembre: Estremisti islamici dirottavano aerei americani e si sfracellavano contro le “Torri gemelle” di New York e contro il Pentagono a Washington. Vengono accusati Osama bin Laden e il suo gruppo al-Quaida.

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I TALIBANI E I DIRITTI UMANI

Dopo il lungo periodo di guerra che ha seguito alla ritirata delle truppe sovietiche, l’instaurazione del regime dei talibani ha comportato la costituzione di “un ordine islamico”, di stampo estremista e fondamentalista.

L’adozione rigoristica della legge islamica (sharìa) è presto degenerata in una serie lunghissima di divieti, diretti in particolare contro le donne, e di ritorsioni, esecuzioni e amputazioni pubbliche per i trasgressori.

Le caratteristiche radicali del movimento talibano erano continuamente sottolineate dai loro leader, che proclamavano di essere i salvatori dell’Afghanistan.

I talibani hanno vietato: - di ascoltare musica e di guardare film , televisione e video; - di celebrare il capodanno (Nowroz) il 21 marzo, in quanto festa non islamica, e hanno abolito la

Festa del Lavoro (1 maggio), perché è considerata una festa comunista.

Hanno ordinato: - che tutti i nomi non islamici fossero cambiati in nomi islamici; - che tutti partecipassero alla preghiera nelle moschee cinque volte al giorno; - che le minoranze non musulmane portassero un contrassegno distintivo o cucissero un pezzo di

tessuto giallo sui vestiti per differenziarsi. Proprio come facevano i nazisti con gli ebrei...

Inoltre hanno minacciato: - che chiunque fosse trovato in possesso libri proibiti fosse punito con la morte; - che i convertiti dall'Islam a un'altra religione fossero puniti con la morte.

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I TALIBANI E LE DONNE

Amnesty International ed altre organizzazioni non governative hanno definito la situazione della donna, nell’Afghanistan dei talibani, un “apartheid di genere”: la donna è accusata di “distrarre l’uomo dal suo compito essenziale”, che consiste nel concentrarsi sul divino.

Le donne non avevano diritto all'educazione: alle donne non è concesso di studiare in scuole, università o altre istituzioni educative. In un paese in cui l'alfabetismo è comunque molto basso anche tra gli uomini (31% circa della popolazione), tutte le scuole femminili sono state chiuse.

Le donne non avevano diritto al lavoro: i datori di lavoro sono stati messi in guardia dall'assumere una donna. Non potendo lavorare, molte donne, soprattutto le vedove, sono state costrette a chiedere l’elemosina o a prostituirsi.

Le donne non avevano diritto di viaggiare: nessuna donna poteva uscire di casa o compiere un viaggio, se non accompagnata da un mahram (parente stretto come un padre, un fratello o un marito). Le donne non potevano guidare auto, moto e biciclette.

Le donne non avevano diritto alla salute: in un paese in cui il lavoro femminile era vietato, essere visitate da un medico maschio era proibito. Solo a un piccolo numero di donne in grado di prestare assistenza medica e di levatrici era permesso di lavorare nell’ospedale di Kabul.

Le donne non avevano diritti legali: la testimonianza di una donna valeva la metà di quella di un uomo. Nessuna donna poteva rivolgersi direttamente alla giustizia, ma solo tramite un membro maschile della sua famiglia.

Le restrizioni e i maltrattamenti dei talibani verso le donne includevano inoltre: - obbligo per le donne di indossare un lungo velo (burqa) che le copre da capo a piedi; - lapidazione pubblica per le donne accusate di avere relazioni sessuali al di fuori del matrimonio; - divieto per le donne di ridere ad alta voce (nessuno straniero dovrebbe sentire la voce di una

donna) e di incontrarsi in occasioni di festa o per scopi ricreativi; - divieto per le donne di essere presenti in radio, televisione o incontri pubblici di qualsiasi tipo; - divieto per le donne di praticare sport o di entrare in un centro sportivo o in un club; - divieto per le donne di indossare vestiti con colori vivaci, perché per i talibani erano

“sessualmente attraenti”; - divieto di uso di cosmetici: a molte donne con unghie dipinte sono state tagliate le dita; - obbligo di oscurare le finestre delle case cosicché le donne non potessero essere viste

dall’esterno; - tutti i nomi di luogo che includono la parola “donna” sono stati modificati. Per esempio, i

“giardini per donne” sono stati chiamati “giardini di primavera”.

Con la caduta del regime dei talibani la condizione della donna sembra avviata verso un allentamento delle restrizioni più brutali, pur permanendo molti aspetti di discriminazione e di tradizionalismo che potranno forse essere superati in un prossimo futuro.

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IL FRONTE UNITO ISLAMICO NAZIONALE o ALLEANZA DEL NORD

L’Alleanza del Nord nacque nel 1996, quando, in seguito alla presa di Kabul da parte dei

talibani, alcune fazioni ad essi opposte formarono un’alleanza nota come “Fronte Unito Islamico Nazionale per la Salvezza dell’Afghanistan”. Il Fronte Unito appoggiava il governo messo al bando dai talibani, lo Stato Islamico dell’Afghanistan (ISA), il cui presidente era Burhanuddin Rabbani. Tuttavia il potere reale di questa coalizione era in mano al ministro della difesa dell’ISA, il comandante Ahmad Shah Massud (assassinato pochi giorni prima dell’attentato alle “Torri gemelle”). Il quartiere generale del Fronte Unito aveva sede in Afghanistan, a Faizabad.

Il Fronte Unito è stato sempre composto da una serie di gruppi antitalibani molto eterogenei e talvolta in contrasto tra loro. Tra le presenze di maggior rilievo si segnalano: - Jamiat-i Islami: partito islamista afghano nato intorno al 1970. Il leader è Burhanuddin Rabbani, ma la figura più carismatica era indubbiamente Ahmad Shah Massud. Entrambi di etnia tajika, mussulmani sunniti, stabilirono una struttura amministrativa regionale chiamata Concilio di Supervisione del Nord. Le forze di Massoud ricevettero consistenti aiuti economici e militari da Iran e Russia. - Hizb-i Wahdat, Partito Unito dell’ Afghanistan: principale partito di etnia prevalentemente hazara (sciiti), fondato da Abdul Ali Mazari per opporsi ai sovietici. L’attuale leader è Muhammad Karim Khalili; il comandante militare è Haji Muhammad Muhaqqiq. Le forze di Khalili ricevettero consistenti aiuti economici e militari dall’Iran. - Junbish, Movimento Nazionale Islamico dell’Afghanistan: partito che include gruppi di etnia prevalentemente uzbeka più alcune formazioni di guerriglieri e comandanti che lottarono contro il regime del Presidente Najibullah nel 1992. Molti dei suoi comandanti passarono dalla parte dei talibani nel momento della presa di Kabul. Il suo leader è Abdul Rashid Dostum. Il generale più importante è Abdul Alik Pahlawan. - Harakat-i Islami, Movimento Islamico dell’Afghanistan: partito condotto dall’Ayatollah Muhammad Asif Mushsini, fu alleato della Jamiat-i Islami tra il 1993-1995. Il generale più importante è Anwari. Il gruppo ricevette appoggi dall’Iran. - Ittihad-i Islami, Unione Islamica per la Liberazione dell’Afghanistan: il partito è guidato da Abdul Rasul Sayyaf. Durante la guerra contro i sovietici, ricevette consistenti aiuti dall’Arabia Saudita.

Durante la guerra civile in Afghanistan, tutti questi gruppi si macchiarono di gravissime violazioni dei diritti umani: esecuzioni sommarie, bombardamenti indiscriminati, rapimenti, attacchi diretti ai civili, stupri, persecuzioni sulla base di motivi etnici o religiosi, reclutamento di bambini-soldato, uso di mine antipersona. Esistono prove che dimostrano la diffusione e sistematicità di tali metodi; si tratta di veri e propri crimini contro l’umanità. Durante gli scontri tra le diverse fazioni, almeno 25.000 civili persero la vita nella sola Kabul. La città fu ridotta in rovine e non c’era nessuna legge nelle aree sotto il controllo dei mujaheddin. Torture e arresti arbitrari erano all’ordine del giorno. Le forze di Sayyaf, in un raid contro Kabul, massacrarono centinaia di civili di etnia hazara (11 febbraio 1993). Le forze di Massud svaligiarono uffici e negozi e violentarono decine di donne di Kabul (marzo 1995). Un bombardamento sul mercato notturno – frequentatissimo – causò decine di vittime (20 settembre 1998). Le milizie del generale Rashid Dostum bombardarono indiscriminatamente alcune aree residenziali di Kabul, provocando centinaia di morti (5 gennaio 1997).

“La strategia americana – sostiene il giornalista Robert Fisk - di assoldare fazioni locali da utilizzare come truppe di terra e di avanscoperta, non è certo una novità. In Vietnam gli americani, per evitare vittime tra il proprio esercito riarmarono e riesercitarono le truppe sud-vietnamite. Nel Libano del sud, Israele adottò la medesima strategia con l’esercito libanese contro i palestinesi e gli hezbollah. In Kossovo, l’esercito americano intervenne solamente quando gli scontri di terra più

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violenti erano ormai cessati. La stessa cosa sta succedendo in Afghanistan con l’Alleanza del Nord.”

Non si tratta, come molti sostengono di una “nuova guerra”, ma di una guerra antica che vede ripetersi, da ogni parte, crimini e strategie già utilizzati negli ultimi trent’anni. 1

1 2001 (3 ottobre) Fisk, Robert Just who are our allies in Afghanistan (articolo ricevuto via mail)

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L’AFGHANISTAN E I RIFUGIATI

L’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979 scatenò l’esodo di 6,2 milioni di afghani nei confinanti Iran e Pakistan. Il ritiro delle truppe sovietiche nel 1989, il protrarsi dei combattimenti tra le diverse fazioni di mujaheddin, la presa del potere da parte dei talibani nel 1994, fecero precipitare il paese in una sanguinosa guerra civile. Ad incrementare l’esodo, si è aggiunta\ la terribile siccità che da oltre tre anni colpisce più di dodici milioni di persone. Decine di migliaia di persone si sono messe in cammino, sia all’interno che fuori dai confini dell’Afghanistan, nel disperato tentativo di garantirsi la sopravvivenza. Si è verificata una migrazione di massa verso le città di Kabul, Kandahar, Jalalabad ed Herat, dove l’ONU ha allestito diversi campi. Nel nord del paese gli sfollati si sono accampati in rifugi di fortuna, scuole ed edifici pubblici, senz’acqua né cibo. Altre migliaia di rifugiati sono affluiti in Iran e Pakistan. Intanto il paese aveva perso progressivamente l’importanza strategica e veniva abbandonato dalle grandi potenze. Di conseguenza i contributi devoluti all’ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) per l’assistenza ai rifugiati afghani sono crollati ai minimi storici.

Il Pakistan e l’Iran ospitano ancora oggi più di 2,6 milioni di afghani. Ci sono inoltre tra i 600 mila e gli 800 mila civili sfollati all’interno del paese e un numero imprecisato di altri civili sparsi per il mondo. I paesi ospitanti da tempo manifestano segni di stanchezza e alimentano sentimenti di xenofobia nei confronti delle popolazioni ospitate. Nel novembre 2000, le autorità pakistane hanno dichiarato di non poter più accogliere altri rifugiati senza un sostegno finanziario internazionale e hanno chiuso le frontiere.

Successivamente la situazione si è fatta ancora più incerta e confusa. La previsione dell’attacco americano a seguito del tragico attentato a New York e Washington dell’11 settembre 2001 ha creato un clima di panico tra la popolazione civile in Afghanistan. Migliaia di persone hanno lasciato le città e si sono assiepate alle frontiere, ormai chiuse, con il Pakistan.

Riportiamo un ampio stralcio della testimonianza di Ivana Stefani dell’ICS che ha visitato i campi profughi di Peshawar e Islamabad nel novembre 2001.

“Migliaia di tende in alcuni casi, migliaia di case di fango e paglia, in altri. Una moltitudine di persone la cui unica colpa è di essere fuggite prima dalla guerra e dall’occupazione dei sovietici, poi dalla guerra civile, quindi dai talibani e infine dai bombardamenti. Rassegnazione e disperazione sui volti, ma anche un grande desiderio di pace, una speranza di futuro che si fa sempre più debole.

Sono 2,5 milioni i rifugiati afghani nel solo Pakistan, con un ingresso di 70.000 persone al mese, diminuite a 60.000 da quando è scoppiata la guerra. Tende, tende, tende, un mare di tende nei centri di prima accoglienza, in cui la permanenza media è di un anno. Teli di plastica sul battuto di terra a coprire una superficie di tre metri per tre, roventi d’estate e fradici d’inverno, per famiglie di 10 persone. A trent’anni si è già vecchi, un bambino su tre non arriva a cinque anni.

Molti tra coloro che arrivano in queste settimane, oltre alle amputazioni dovute alle mine anti persona che infestano il territorio afghano – anche di produzione italiana – presentano ferite dovute al crollo delle case sotto le bombe, timpani danneggiati dalle deflagrazioni, problemi psichici.

In Afghanistan sono un milione le persone che rischiano la vita - oltre che per la guerra, per la fame ed il freddo ormai alle porte - e che non sono in grado di fuggire perché così deboli da non poter sostenere il viaggio; tra queste, 200.000 bambini. L’ONU, è pronta ad accogliere 300.000 persone, ma presto l’inverno e le proibitive condizioni atmosferiche sigilleranno la popolazione rimasta nel paese.

In questa situazione, la società civile che si è auto-organizzata chiede di poter intervenire con i propri rappresentanti nelle trattative iniziate per costruire un futuro democratico, da cui le armi e le prevaricazioni siano escluse. Un’opzione di pace reale, concreta, perché solo attraverso il rafforzamento di quelle organizzazioni potrà essere sconfitto l’integralismo.

Accanto a queste, un’altra realtà, che oscura tutto il resto ma che sembra meno minacciosa di quanto si possa percepire dall’Italia. Ogni venerdì, dopo la preghiera, in tutte le maggiori città pakistane, si svolgono

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manifestazioni di integralisti che inneggiano alla guerra santa e raccolgono denaro per i profughi. Oggi, complessivamente, a queste manifestazioni partecipano poche migliaia di persone, in un paese di 150 milioni di abitanti, che appoggiano in larga parte l’attuale Governo. Certo, oltre due milioni di profughi possono essere destabilizzanti in una realtà in cui il 40% della popolazione vive sotto la soglia della povertà; si chiede al Pakistan di sostenere ulteriori sforzi per l’accoglienza, ma tutti gli altri paesi confinanti e tutto il resto del mondo hanno le frontiere ermeticamente chiuse.

Tentano di controllare la situazione gli stessi talibani, i quali offrono cibo e riparo ai rifugiati in prossimità del confine, reclutando in cambio tutti gli uomini in grado di combattere. Reclutamento effettuato anche nelle madrasa pakistane, scuole religiose ove gli uomini vengono rifocillati, istruiti sui concetti base del Corano ed avviati alla battaglia.”

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IL TRAFFICO DI DROGA

Il denaro è al centro del sistema di finanziamento del regime talibano e del gruppo terroristico

che fa capo a bin Laden”. E’ la fonte principale della sua potenza: dopo l’11 settembre il mondo ha scoperto con stupore l’abilità di Osama bin Laden nell’ambito dei circuiti finanziari internazionali. Negli ultimi vent’anni il lato illegale dell’economia mondiale ha continuato a crescere, aiutato dalla deregolamentazione finanziaria, dalla “dollarizzazione” degli scambi, dallo sviluppo dell’euromercato, dai nuovi mezzi di comunicazione (banca virtuale, denaro elettronico) e dal pullulare di paradisi fiscali più o meno esotici. Il relativo insuccesso delle misure finanziarie antiterrorismo finora adottate (sequestro e congelamento dei fondi sospetti) non sorprende gli specialisti: ci vorranno mesi, se non anni, per ricostruire i movimenti illeciti di capitali. Perché il denaro del terrorismo non ha niente che lo distingua, a parte la sua destinazione finale, dalla massa gigantesca dei capitali “vaganti” che alimentano il mondo segreto della finanza off-shore e dei paradisi fiscali. Sia che provengano dall’evasione fiscale, dalla corruzione, dalla droga o dai traffici più diversi, questi fondi usano gli stessi canali, gli stessi intermediari e gli stessi nascondigli, tutti protetti dal più rigoroso segreto bancario. Trattandosi di terrorismo è l’uso finale dei capitali e non la loro origine – quasi sempre legale – che pone dei problemi: è come se in qualche modo si “sporcasse” denaro pulito invece di “ripulire” denaro sporco.

All’interno della cosidetta “guerra invisibile” - quella contro i flussi di capitali che finanziano il terrorismo o che finanziano stati che appoggiano il terrorismo - la guerra al denaro proveniente dai traffici di droga è tra le più importanti.

Il rapporto 2001 dell’ONU sull’oppio2 rivela che l’Afghanistan è stato, fino al 2000, il primo produttore di oppio del mondo: nel 1996 – anno di insediamento del governo dei talebani – ne produceva 2248 tonnellate, nel 1999 era arrivato a 4581, pari al 79 per cento della produzione mondiale. Per comprendere cosa significano questi dati, basti pensare che da 4581 tonnellate d’oppio si ricavano 450 tonnellate di eroina pura (eroina cloridrata o E4).

La produzione di oppio ha invece subito una drastica riduzione nella primavera del 2001 a causa di una fatwa emessa dal mullah Omar nel luglio 2000 che proibiva le coltivazioni di papavero, bollandole come contrastanti alle leggi dell’Islam (si noti però la data: a luglio il raccolto è già avvenuto e l’oppio grezzo è già immagazzinato). I talibani sono intervenuti con ruspe e armi ed hanno eseguito arresti spettacolari, con il vantaggio di acquistare immagine internazionale, di rafforzare la loro autorità e coerenza religiosa e di far salire i prezzi dopo che stagioni di superproduzione li avevano fatti precipitare. La produzione è calata del 91 per cento e i prezzi sono saliti di dieci volte, da 30 a 300 dollari al chilo di oppio non ancora essiccato. Conferma di ciò arriva da Lucia Vastano, autrice di un rapporto pubblicato da Narcomafie, l’attendibilissima rivista del Gruppo Abele di Torino: “A fine luglio ho incontrato decine e decine di contadini, con i quali ho parlato liberamente senza il controllo dei talibani. Mi hanno detto che lì l’oppio non si poteva più coltivare e che il grano, con la siccità, rendeva meno del necessario per sopravvivere. Molti di loro erano in procinto di partire, di andare in Iran o in Pakistan. Le coltivazioni alternative, oltre a rendere molto meno, non hanno mercato. Cosa che non è un problema con l’oppio, i cui acquirenti sono in fila ogni stagione” 3.

Secondo l’ONU la fatwa del mullah Omar avrebbe cessato di aver vigore con l’inizio dei bombardamenti americani, che hanno spostato l’attenzione su altri temi, e i campi sarebbero stati riseminati a papavero. Lo stato talibano partecipava indirettamente del traffico: con una tassa del 20 per cento sul commercio di oppio, ha realizzato dai 100 ai 200 miliardi l’anno (ufficiali), una cifra ragguardevole in un paese povero come l’Afghanistan. Secondo la CIA dopo gli attentati in Africa occidentale del 1998 e i primi bombardamenti americani in Afghanistan, lo stesso bin Laden avrebbe deciso di inserirsi nel traffico, addirittura per produrre una super-eroina, non si sa se solo 2 Consultabile sul sito internet www.undcp.org 3 Narcomafie, ottobre 2001, ediz. Gruppo Abele, Torino 2001.

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per trarne profitto o per indebolire ulteriormente il nemico occidentale, il consumatore (i rapporti della CIA sono tuttavia ancora secretati). Ipotesi quest’ultima possibile, ma parziale: non è infatti solo l’Occidente a subire il flagello dell’eroina. Stime ufficiose calcolano un milione e mezzo di tossicodipendenti in Pakistan e addirittura tre milioni in Afghanistan, che sarebbe così il paese percentualmente più colpito del mondo. “L’uso delle droghe in Afghanistan è diffusissimo”, sostiene Lucia Vastano “specialmente presso le donne giovani, che devono trovare consolazione a vite spaventose, segregate e maltrattate. Nei campi profughi in Pakistan ci sono centinaia di tossicodipendenti afghani”. Forse in questi dati è contenuta la spiegazione della suddetta fatwa: il timore di un fenomeno che si ritorceva contro chi lo produceva e richiedeva, almeno, una riorganizzazione.

Non c’è bisogno dei rapporti della CIA per stabilire una relazione tra traffico di droga e terrorismo: gli alleati radicali islamici di bin Laden nelle Repubbliche ex-sovietiche sono, senza eccezioni, trafficanti di droga. Anche gli islamisti del Pakistan, gruppi economicamente forti, sono allo stesso tempo proprietari delle principali banche e trafficanti (trasformatori e venditori) di eroina. Perché se è vero che in Afghanistan si coltiva oltre l’80 per cento dell’oppio mondiale, è però nelle raffinerie delle aree tribali, tra Pakistan e Afghanistan, che l’oppio viene trasformato in eroina: in particolare nel cosiddetto NWFP – North West Frontier Province – un territorio grande più o meno come la Lombardia e il Piemonte, nato da un’invenzione della burocrazia inglese ai tempi delle colonie per creare un’area cuscinetto che favorisse il transito delle truppe. Dal 1800 ad oggi in quest’area non è cambiato granché: è divisa in Aree coloniche (aperte ai visitatori) e in Aree tribali, per la maggior parte proibite agli stranieri e agli stessi pakistani di etnia diversa da quella dominante, la pasthun.

A ciò si aggiunga che trafficare droga significa trafficare in contanti, quei contanti che si muovono lungo la più sfuggente delle reti di finanziamento di Osama: l’hawata, il network di scambisti musulmani senza insegne. Sistema molto rozzo di compensazione, la hawata presenta il vantaggio di non lasciare tracce: viene effettuato, ad esempio, un deposito presso un agente di cambio in Pakistan, il quale telefona al suo corrispondente a Londra che consente all’autore del versamento o ad un complice di ritirare i fondi nella capitale inglese (lo stesso sistema usato dagli attentatori delle “Torri gemelle”).

Tuttavia il mercato internazionale della droga non ha ancora avuto segnali significativi dalle vicissitudini del più grande produttore del globo: i consumi restano stabili, essendo l’eroina in commercio quella dell’anno precedente. Gli effetti, se ci saranno, si vedranno l’anno prossimo. Sono comunque prevedibili cambiamenti di provenienza della droga piuttosto che della quantità globale prodottai: se non produce l’Afghanistan, producono di più la Birmania e altri paesi asiatici.

Tra le opzioni militari contro il regime dei talibani, il presidente Bush ha considerato l’ipotesi di bombardare i magazzini dell’oppio, dove sarebbero custodite oltre tremila tonnellate di droga, pari a un valore commerciale di 20 miliardi di dollari (circa 22 miliardi di euro). Il futuro tuttavia, dopo l’inizio delle operazioni militari, è difficile da controllare: tutto sembrerebbe portare a una riorganizzazione della produzione, certo non alla trasformazione dei campi di oppio in campi di grano. La necessità di armi, da decenni, ha dato luogo alla crescita di commerci illeciti di ogni tipo, soprattutto della droga. Anche i prossimi interlocutori dell’ONU, i mujaheddin dell’Alleanza del Nord, spesso sono stati coinvolti nel traffico della droga, settore in cui vantano tradizioni consolidate. “In realtà”, dicono i funzionari dell’ONU, “sono religiosamente più elastici, il che, per la lotta alla droga, è uno svantaggio”.

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L’OPPIO IN AFGHANISTAN La produzione: - un ettaro produce 20-30 chili di oppio - da 50 chili si oppio di ricava un chilo di eroina I contadini: - ai contadini afghani un chilo di oppio viene pagato 60 mila lire - secondo l’ONU i talibani hanno finora incassato dai 20 ai 60 miliardi di lire di tangenti sulla produzione e il commercio clandestino di oppio. L’oppio in Afghanistan: - il 79% della produzione mondiale avviene in Afghanistan - il mercato è per il 96% controllato dai talibani (equivalente a circa 230 tonnellate di eroina destinata ai mercati europei e USA) Le coltivazioni: - 82.172 ettari le coltivazioni nel 2000 - 7.606 le coltivazioni nel 2001 (riduzione del 91%) Alleanza del Nord: - la provincia che coltiva più oppio è il Badakhshan sotto il controllo dell’Alleanza del Nord.

LA VIA DELLA DROGA DALL’AFGHANISTAN ALL’ITALIA Afghanistan: - a Kandahar l’oppio viene raffinato in eroina purissima di tipo 4 - prezzo: 70/100 milioni di lire al chilo - prezzo al dettaglio concordato tra talebani e malavita italiana: 150/200 mila lire al grammo Kurdistan: - da Kandahar attraverso il Kurdistan - trasporto: effettuato dai talebani Bulgaria: - dal Kurdistan fino a Sofia e Plovdiv - trasporto: mafia turca, spesso in treno Austria: - dalla Bulgaria fino in Austria a Wurtz e di qui attraverso il Brennero fino a Roma - trasporto: effettuato dai kosovari generalmente in camion; prima della guerra 500mila lire al chilo di droga trasportato. Dopo la guerra: 1 milione di lire al chilo.

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2° SEZIONE

LE MINE TERRESTRI

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LE MINE TERRESTRI

Un’eredità di morte

Le mine terrestri sono armi a vocazione terroristica, usate per rendere inutilizzabili e inaccessibili interi territori. Dato il loro basso costo e la relativa facilità di produzione e di installazione sono usate non solo dalle grandi potenze, ma anche dalle forze militari, regolari e non,dei paesi poveri. Le mine distruggono le società rurali che dipendono dall’accesso alla terra per l’agricoltura, l’allevamento e gli scambi commerciali. Non soltanto uccidono e feriscono, ma infliggono gravi costi sociali. La cura e la riabilitazione delle vittime (se e quando accessibili) hanno un costo elevatissimo per l’intera comunità. Le possibilità di lavoro per i mutilati sono limitate. Nei paesi poveri, dove si trova la stragrande maggioranza delle mine, la salute e l’integrità fisica sono condizioni necessarie per la sopravvivenza, non soltanto individuale, ma anche familiare.

Alcuni dati possono contribuire a chiarire le dimensioni del fenomeno:

- 60-70 milioni di mine sono state disseminate in 70 paesi del mondo; - altri 250 milioni giacciono negli arsenali; - il 90% delle vittime sono civili; - il 20% delle vittime sono bambini. Verso un mondo senza mine

L’elemento che emerge oggi su scala mondiale è un lento e graduale miglioramento della situazione, nonostante il fatto che le mine antipersona continuino ad essere installate e a mietere vittime. Questi progressi sono stati ottenuti grazie ad un movimento di opinione, rappresentato dalla Campagna Internazionale per la Messa al Bando delle Mine, che ha chiesto il divieto di questi ordigni.

Questi progressi sono dimostrati da:

- il numero crescente dei governi che aderiscono ed attuano il Trattato di Ottawa per la messa al bando internazionale delle mine (alcuni tra i principali produttori - Usa, Cina, Russia - non hanno però aderito);

- una riduzione di questa arma negli ultimi anni; - un forte calo della produzione di mine (da 54 paesi produttori a 16); - un arresto pressoché completo del commercio; - un aumento della distruzione degli arsenali; - una riduzione del numero delle vittime nei paesi più colpiti come l’Afghanistan, la Bosnia e la

Cambogia; - un aumento delle terre sminate (nel ‘99 sette tra i maggiori programmi di sminamento hanno

bonificato 168 milioni di metri quadrati di terra).

D’altro canto, sembra probabile che ci sia stato un nuovo utilizzo di mine antipersona in 20 conflitti armati da parte di 11 governi e di almeno 30 gruppi di ribelli. Inoltre, altre armi correntemente utilizzate sortiscono gli stessi devastanti effetti delle mine sulla popolazione civile.

Per esempio, le operazioni di sminamento umanitario in Kosovo devono far fronte anche ad un numero che varia da 14.000 a 56.000 bombe a grappolo inesplose lanciate dalla NATO.

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Bibliografia 1999 International Campaign to Ban Landmines Landmine Monitor Report 1999. Toward a mine-free world, New York 2000 International Campaign to Ban Landmines

Landmine Monitor Report 2000. Toward a mine-free world, New York

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LE MINE E I BAMBINI

Le mine sono un tipo d’arma il cui campo d’azione va ben oltr l’ambito militare; gli effetti devastanti di queste armi colpiscono particolarmente le popolazioni civili e, tra queste, ancor più particolarmente, i bambini. - Ogni anno, nel mondo, da 8.000 a 10.000 bambini sono vittime di una mina. - I bambini rappresentano il 25% delle vittime curate per ferite di guerra negli ospedali della

Croce Rossa in Afghanistan e Cambogia; in un caso particolare, un ospedale nel Nord della Somalia, la percentuale dei feriti da mina è addirittura il 75%.

- Molti bambini colpiti non riescono a raggiungere gli ospedali perché non sopravvivono in genere all’impatto con l’esplosione di una mina. Alcuni vengono immediatamente uccisi, altri muoiono dopo una terribile agonia.

- Un bambino che sopravvive alla ferita da mina resterà un disabile permanente e avrà comunque bisogno di una nuova protesi ogni 6 mesi.

- In Cambogia il numero delle mine, circa 7 milioni, è il doppio del numero dei bambini. - Handicap International ha calcolato che in genere un bambinomutilato deve attendere 10 anni

prima di avere una riabilitazione con arto artificiale. - I bambini mutilati in molti casi non sono più in grado di frequentare la scuola e spesso si

vergognano a tal punto da non lasciare più la loro casa. - I bambini sono più esposti al rischio a causa della loro curiosità - raccolgono e giocano con

oggetti sconosciuti, scambiando una mina per un giocattolo. Nel nord Iraq, per esempio, i bambini usano le mine per costruire giocattoli e fare della gare.

- Alcune mine antipersona, come le mine “farfalla” lanciate dagli aerei, sono disegnate specificamente per attrarre i bambini.

A dieci anni dall’adozione ed entrata in vigore della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, le

mine terrestri privano ancora i bambini dei loro diritti fondamentali: il diritto alla vita, all’assistenza sanitaria, alla protezione in situazioni di conflitto. E’ evidente che la promozione dei diritti dei bambini implica una completa e definitiva proibizione delle mine terrestri.

Bibliografia 1997 Unicef A Child Rights Guide to the 1996 Mines Protocol, New York

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LA CAMPAGNA CONTRO LE MINE Premio Nobel per la pace 1997

Nata nel 1992 per mettere fine alla tragedia umanitaria causata dalle mine terrestri, la Campagna Internazionale contro le Mine è un movimento che conta ormai più di 1.400 organismi in 60 paesi in tutto il mondo. La Campagna ha saputo esprimere e mediare un’ondata di impegno popolare senza precedenti, imponendo sullo scenario politico internazionale la volontà di un nuovo attore diplomatico, la società civile.

Tra i risultati più rilevanti, vanta il Trattato di Ottawa, la Convenzione che vieta l’uso, la produzione ed il commercio delle mine antipersona ed impegna gli stati a distruggere le scorte, a bonificare i territori e ad aiutare le vittime. Il Trattato è entrato in vigore il 1° marzo 1999.

La Campagna Italiana, nacque nel 1993, quando l’Italia risultava ancora uno dei tre maggiori produttori ed esportatori di mine nel mondo, raccogliendo 50 organismi di volontariato, 200 enti locali e centinaia di gruppi, scuole, sindacati, parrocchie. Da allora la Campagna Italiana ha lavorato su più fronti per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni, fino all’approvazione della legge di messa al bando (374/97) e alla ratifica italiana del Trattato di Ottawa.

Nell’ottobre del 2000, la Campagna Italiana contro le mine è diventata un’associazione legalmente riconosciuta (Onlus). L’Istituto per la Cooperazione allo Sviluppo di Alessandria è tra i fondatori. Campagna Italiana contro le Mine – Onlus Via Nizza 154 00198 Roma tel./fax 06/85304326 [email protected] www.campagnamine.org

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LE MINE IN AFGHANISTAN

L’Afghanistan è tra i paesi più pesantemente minati al mondo. Si stima che sul suolo afghano si trovino circa 10 milioni di mine terrestri e ordigni inesplosi (UXO). La maggior parte delle mine fu disseminata dall’esercito dell’Unione Sovietica e dall’esercito governativo durante la guerra contro i mujaheddin, dal 1979 al 1992, ma anche i guerriglieri islamici ne fecero ricorso. Più di 2.000 villaggi sono contaminati e le mine sono state disseminate anche nei campi, nei canali, nei pascoli e lungo le strade. La loro presenza costituisce un gravissimo ostacolo allo sviluppo economico e sociale ed impedisce il rientro di migliaia di profughi dall’Iran e dal Pakistan. Lo sminamento

Il programma afghano di sminamento è stato tra i primi messi in atto ed è tutt’ora considerato dall’ONU come uno dei più efficaci.

Le operazioni di sminamento in Afghanistan, gestite interamente da personale locale (sono circa 4.000 gli afghani coinvolti nella mine action) e avviate nel 1990, hanno liberato 465 kmq di terreno.

Gli eventi bellici hanno evidentemente causato l’interruzione del programma che riprenderà non appena le condizioni lo permetteranno: restavano da bonificare 717 kmq, di cui 337 ad alta priorità , cioè indispensabili alla sopravvivenza della popolazione.

L’esperienza di 9 anni di operazioni di sminamento insegna che esistono diversi tipi di campi minati che esigono un approccio differenziato: pascoli, terreni agricoli, strade, aree residenziali, sistemi di irrigazione. Ad esempio, lo sminamento manuale è adatto alla bonifica di terreni coltivati e da pascolo, mentre sarebbe eccessivamente dispendioso in termini di tempo e di rischio nel caso di aree residenziali distrutte o di sistemi di irrigazione che possono essere ricoperti da strati di terra alti fino a 2-3 metri.

Grazie alla mine action, il numero delle vittime è diminuito: - nel 1998 le vittime erano 10-12 ogni giorno; - nel 1999 le vittime sono scese a 5-10; - nel 2001 soltanto 3.

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Il grafico si riferisce alla situazione precedente all’inizio dell’offensiva anglo-americana (8 ottobre 2001).

Territori da sminare in Afghanistan (717kmq)

53%

4%

41%

2%

Terreni contaminati a bassa priorità

Terreni contaminati alta priorità - villaggi ( 4%)

Terreni contaminati alta priorità - campi e pascoli (41%)

Territori contaminati alta priorità - vie di comunicazione (2%)

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AFGHANISTAN: METROxMETRO

Sminare un metro quadrato di terra costa meno di un caffè: € 0,67

La Campagna Italiana contro le mine ha lanciato nel luglio 1998 un’azione di informazione e di raccolta fondi per lo sminamento, denominata “Afghanistan: metroxmetro”. La filosofia che sottende a questa iniziativa è che sminare si può, in tempi ragionevolmente rapidi e con costi sostenibili. L’ONU ha calcolato che sminare un metro quadrato di terra in Afghanistan costa in media 1.300 lire, meno di un caffè.

I fondi raccolti sono stati devoluti a Omar International (Organization for Mine Clearance and Afghan Rehabilitation) un’organizzazione umanitaria afghana, specializzata nelle operazioni di sminamento. Oltre all’attività di sminamento sul campo, Omar International organizza dei corsi di educazione al pericolo delle mine (mine awareness), rivolgendosi anche alle donne ed utilizzando personale femminile.

Ben consapevole dei timori della comunità internazionale nei confronti del regime talibano, Fazel Karim, il Presidente di Omar International e della Campagna Afghana contro le mine assicura: “I talibani non hanno mai avuto nessun controllo sui fondi gestiti da OMAR. L’unico criterio che seguiamo nella scelta delle aree da sminare è quello dei bisogni delle popolazioni e le operazioni di sminamento avvengono sotto il controllo dell’ONU.”

Il progetto di sminamento "Afghanistan: metroxmetro" ha finora raggiunto notevoli risultati; infatti con contributi per Lit. 203.500.000 (€ 105.098,97) sono stati bonificati 156.538 mq di terreno permettendo a 3.625 persone di tornare in possesso della propria terra, delle scuole, delle case. La situazione attuale

Dal mese di settembre 2001, a causa dei massicci spostamenti di popolazione spinta dal timore degli attacchi aerei e dalla carestia, il numero di vittime da è balzato a 15 al giorno. I bombardamenti delle forze anglo-americane, nel quadro dell’operazione “Libertà Duratura”, cui partecipa anche l’Italia, hanno disseminato nel paese una grande quantità di ordigni inesplosi: ogni bomba a grappolo contiene più di 200 ordigni che si diffondono in un raggio di 200-600 metri. Gli ordigni che non esplodono nell’impatto con il terreno restano attivi per un lungo periodo e costituiscono un serio pericolo per la popolazione civile.

“Tutte le operazioni di sminamento sotto la direzione dell' UNOCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari) all'interno dell’Afghanistan sono state sospese, ma i team di mine awareness stanno cercando di allertare le popolazioni in pericolo, soprattutto nei campi profughi delle regioni occidentali" – comunicava ad ottobre Fazel Karim Fazel, coordinatore della Campagna Afghana per la Messa al Bando delle Mine e direttore di OMAR International, un’agenzia afghana per lo sminamento umanitario. “Si prospetta una nuova tragedia per il popolo afghano - continuava Fazel Karim Fazel - poiché la tipologia di ordigni utilizzati oggi, e che in parte resteranno inesplosi sul territorio, sono completamente diversi da quelli utilizzati nel precedente conflitto dai sovietici. Questo significa che sarà indispensabile un lungo addestramento per gli operatori impiegati sul campo.”

Concludeva poi Fazel “Le operazioni di sminamento su larga scala riprenderanno appena le condizioni lo consentiranno ma, nel frattempo, è necessario organizzare degli interventi di emergenza per garantire la sicurezza nelle aree più frequentate. Liberare la terra dalle mine sarà la condizione essenziale per la ricostruzione e lo sviluppo del paese; la restituzione alla popolazione civile della terra da abitare, coltivare, su cui tornare a vivere sarà la premessa di una pace duratura.”

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IL NOSTRO CONTRIBUTO

L’attuale incerta situazione ha imposto una momentanea sospensione del progetto “Afghanistan: metroxmetro”. Tuttavia non è venuta meno l’esigenza di interventi straordinari.

Durante la sua visita ad Alessandria nel novembre 2001, Fazel Karim Fazel, direttore di Omar International e coordinatore della Campagna Afghana contro le Mine, ha indicato una necessità urgente: la sostituzione dell’attrezzatura rubata durante le razzie dell’ottobre scorso dalle sedi di Omar International a Kandahar e Mazar-i-Sharif. L’attrezzatura è costituita da 6 veicoli, 3 computer con stampanti, 4 radio, 1 telefono satellitare, 10 metal detectors, 10 giubbotti di protezione per lo sminamento.

Questa attrezzatura è vitale per organizzare le operazioni di sminamento. Spiegava Fazel: “E’ necessario organizzare immediatamente degli interventi di emergenza per sminare le aree a rischio nelle città bombardate dove presto si riverserà la popolazione sfollata. Liberare la terra e le case dalle mine e dagli ordigni inesplosi è una premessa fondamentale per la costruzione della pace e lo sviluppo”.

Il sostegno alla società civile afghana costituisce non soltanto un gesto di solidarietà, ma anche e soprattutto un mezzo per aiutare la crescita democratica del paese e la costruzione di un futuro di pace. Come contribuire: Istituto per la Cooperazione allo Sviluppo – Alessandria c/cp 11224151 Causale: Afghanistan- acquisto attrezzatura sminamento

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3° SEZIONE

APPROFONDIMENTI E RIFLESSIONI

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DIZIONARIO4

ALLEANZA DEL NORD. L’Alleanza del Nord nacque nel 1996, quando, in seguito alla presa di Kabul da parte dei talibani, alcune fazioni ad essi opposte formarono un’alleanza nota come “Fronte Unito Islamico Nazionale per la Salvezza dell’Afghanistan”. Il Fronte Unito supportava il governo messo al bando dai talibani, cioè lo Stato Islamico dell’Afghanistan (ISA), il cui presidente era Burhanuddin Rabbani. Il potere reale di questa coalizione era in mano al comandante Ahmad Shah Massud, ministro della difesa dell’ISA. Il quartiere generale del Fronte Unito era in Afghanistan, a Faizabad. AL QUAIDA ("la base"). Nome dell'organizzazione di Osama bin Laden. ALLAH (da "al-Ilah", "il Dio"). La denominazione del Dio dell'islam. AL-MAWDUDI, ABU AL-ALA. Abu al-Ala al-Mawdudi (1903-1979), pakistano, è uno degli intellettuali più significativi dell'islamismo radicale. Cfr.: QUTB. ARABI (da "arab", “nomade”). In senso stretto può significare "abitante dell'Arabia". In senso più ampio con il termine si suole indicare coloro che parlano la lingua araba. Non si deve confondere "arabo" con "musulmano": ci sono arabi non musulmani, come ci sono musulmani non arabi. Cfr.: MUSULMANO. AYATOLLAH (da "ayat Allah", "segno di dio" o "marchio di Dio"). Tra i musulmani sciiti, designa il dignitario religioso più eminente nella gerarchia sciita. Cfr.: IMAM, ULEMA, MUFTI, MULLAH. BAMIYAN. Città dell'Afghanistan. Nei pressi di Bamiyan si trovavano le famose statue dei Budda, distrutte dai talibani in quanto espressione di una cultura da loro ritenuta empia. BURQA. Velo tradizionale afghano che copre integralmente la donna, imposto dai talibani a tutte le donne. CALIFFO (da Khalifah, "successore"). Indica il successore del Profeta, nonché capo della comunità musulmana (umma). Nell'islam dei primordi e in quello medievale i califfi erano gli imam dei musulmani. Cfr.: IMAM CIA (da "Central Intelligence Agency"). Servizi di Sicurezza degli USA. Sono stati costituiti nel 1947, all'inizio della "guerra fredda". Cfr.: FBI. DAR AL-HARB ("dimora della guerra"). Si tratta del territorio non sottoposto a sovranità musulmana; territorio non islamico. Cfr.: JIHAD. DAR AL-ISLAM ("dimora dell'islam"). Territorio sottoposto alla sovranità dell'islam, contrapposto al resto del mondo, ovvero la "dimora della guerra".

4 In questo dizionario si è cercato di proporre la definizione dei termini più rilevanti per la comprensione dell’attuale situazione internazionale. Si tratta di un mero strumento per lo studio e l’approfondimento e non pretende di essere esaustivo. Essendo stato compilato grazie a fonti assai diverse non è stato possibile curare l’unificazione della traslitterazione dei nomi arabi. E’ stato compiuto il massimo sforzo per assicurare la precisione delle definizioni, ma non si esclude la presenza di errori.

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DEOBANDISMO. Si riferisce alla scuola deobandita, creata nel 1867 nella città di Deoband per consentire agli indiani musulmani, trovatisi in condizione di minoranza rispetto agli indù (dopo la conquista inglese nel 1857), di sopravvivere come comunità religiosa. Al momento della creazione del Pakistan, gli ulema di corrente deobandita crearono un partito politico, lo Jamiat-e Ulema-e Islam (Associazione degli ulema dell'islam o JUI). Hanno tuttora l'egemonia nelle madrasse pakistane e si rivolgono ai gruppi sociali più disagiati. I talibani sono nati come allievi afghani delle madrasa deobandite. Cfr.: TALIBANI. FANATISMO (da "fanum", tempio). Termine adoperato a partire dal Settecento (insieme a "entusiasmo") per indicare lo stato di esaltazione di chi si crede invasato da Dio e quindi immune dall'errore e dal male. Cfr.: INTEGRALISMO, SALAFISMO, WAHHABISMO, ISLAMISMO. FATWA (da voce araba, con il significato di "sentenza"). Sentenza di condanna a morte emanata da un'autorità religiosa. Ebbe grande risonanza in Occidente la fatwa contro lo scrittore S. Rushdie. FBI (da "Federal Bureau of Investigation"). Corpo di polizia federale investigativa degli USA, agli ordini del Dipartimento di giustizia. Cfr.: CIA. FRATELLI MUSULMANI, Ikhwan al–muslimun. Con questo nome si identifica la prima confraternita politico-religiosa dell’islamismo radicale. Fu fondata in Egitto nel 1928 da Hassan el–Banna e aveva come obiettivi il ritorno all'integrale osservanza del Corano e della tradizione islamica, considerati fondamento unico di ogni manifestazione della vita privata e pubblica. Il maggior ideologo del movimento fu Sayyid Qutb. Ostili all'Inghilterra, nel 1940 entrarono in contatto con emissari dell'Asse: in quest’epoca la «guida suprema» Hassan el–Banna creò, a fianco del movimento, un’organizzazione segreta di sabotatori e terroristi che si rese responsabile dell'assassinio dei primi ministri Ahmed Maher (febbraio 1945) e Nokrachy pascià (dicembre 1948). Dopo quest’ultimo attentato il governo egiziano, per rappresaglia, deliberò l'eliminazione di Hassan el–Banna che fu ucciso, nel febbraio 1949, da agenti speciali di re Faruk. Estesa la loro organizzazione a tutto il mondo arabo, i Fratelli Musulmani contribuirono a preparare la caduta di re Faruk, che abdicò nel 1952; ma le loro concezioni radicali non tardarono a porli in contrasto con i responsabili dei comitato rivoluzionario nasseriano, che ordinò nel 1954 lo scioglimento della confraternita. In seguito a un fallito attentato contro lo stesso colonnello Nasser (ottobre 1954) si ebbe la condanna a morte di molti capi del movimento. I Fratelli Musulmani continuarono però ad operare clandestinamente in Egitto e in Siria e si diffusero in altri paesi. I Fratelli Musulmani rivendicarono l’uccisione di Sadat (1981) e un attentato a Gheddafi (1984). Dai Fratelli Musulmani e dal loro dibattito teorico nacquero, a partire dagli anni Settanta, svariate organizzazioni, soprattutto radicali, che costituiscono il fronte dell'islamismo militante e armato. GIA (sigla per Gruppo Islamico Armato). Organizzazione terroristica algerina. Si sospettano connessioni tra il GIA e Al Quaida, il gruppo di bin Laden. GUERRA GIUSTA, TEORIA DELLA. Teoria di filosofia del diritto che mira a stabilire dei criteri di legalità in base ai quali distinguere tra guerre giuste e ingiuste. Già presente in Agostino di Ippona, la teoria è stata enunciata esplicitamente da Tommaso d'Aquino e poi ripresa in ambito giusnaturalistico e nella filosofia contemporanea. HADITH. Raccolta dei detti e degli episodi della vita del Profeta. Dopo il Corano è la seconda fonte autorevole per i musulmani. HAMAS (acronimo di" Movimento per la resistenza islamica", col significato di "fervore"). Movimento palestinese fondato dallo sceicco Ahmad Yassin nel 1987.

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HAWATA. Il network di scambisti musulmani senza insegne. Sistema molto rozzo di compensazione, la hawata presenta il vantaggio di non lasciare tracce: viene effettuato, ad esempio, un deposito presso un agente di cambio in Pakistan, il quale telefona al suo corrispondente a Londra che consente all’autore del versamento o ad un complice di ritirare i fondi nella capitale inglese (lo stesso sistema usato dagli attentatori delle Torri gemelle). HEZBOLLAH (da "hizbulla", con il significato di "partito di Dio"). Appartenente a un gruppo di fondamentalisti islamici sciiti di ispirazione iraniana attivo, specialmente nel territorio libanese, a partire dagli anni Ottanta. Il gruppo fu fondato da Muhammad Hussein Fadallah nel 1982. IMAM ("colui che sta davanti", "guida"). Per i sunniti è semplicemente colui che guida la preghiera collettiva nella moschea. Per gli sciiti è un vero e proprio capo spirituale. Originariamente l'imam era considerato il successore di Alì, (il cugino e genero di Maometto); la successione fu mantenuta per undici imam. Il dodicesimo imam (Muhammad al-Muntazar) sparì misteriosamente. Ciò alimentò la convinzione che egli "farà ritorno alla fine dei tempi come messia (al-mahdi) e porterà pace, giustizia, e unità in un mondo straziato da corruzione, discordia e conflitto. [...] Bisognerà aspettare il ritorno dell'imam nascosto prima che le crudeli ingiustizie subite dalla famiglia del Profeta e dai suoi seguaci possano essere riparate. Ma le attese escatologiche che circondano l'Imam Nascosto possono anche ispirare o legittimare rivolte, portando a definitivi cambiamenti di governo..." (M. Ruthven, 1999: 54). Per questo gli sciiti vengono detti anche duodecimani, o anche imamiti". Nella tradizione dei duodecimani l'autorità dell'Imam nascosto è esercitata in sua vece da religiosi che fungono da vicari. Tra i duodecimani, questa delega ha portato alla creazione di una gerarchia paragonabile a quella del clero cristiano, seppure fondamentalmente priva di poteri sacerdotali (M. Ruthven, 1999: 57). INTEGRALISMO. Indirizzo ideologico che, partendo dal presupposto dell'assoluta validità dei propri principi, mira a stabilire la propria egemonia in campo religioso, politico e culturale, rifiutando qualsiasi alleanza o collaborazione con partiti o movimenti di ispirazione ideologica diversa. Con "integralismo islamico" si intende un movimento religioso diffusosi nei paesi arabi a partire dagli anni '70, che sostiene un'applicazione rigida e totale della legge dell'Islam, estesa anche alla vita politica e sociale. Il termine si riferisce soprattutto agli aspetti religiosi. Quando ci si riferisce alle ideologie politiche è meglio usare il termine "islamismo radicale". Cfr.: FANATISMO. INTIFADA (da "intifadah", “scuotimento”, “sollevazione"). Indica la rivolta (iniziata alla fine del 1987) non armata (rivolta delle pietre) degli arabi palestinesi all'interno dello Stato d'Israele e nei territori da questo occupati. ISLAM (dal verbo "aslama", "sottomettersi"). La parola significa "sottomissione volontaria"; indica la sottomissione a Dio. E' etimologicamente legata a "salam" che vuol dire "pace". I cinque pilastri dell'Islam sono: a) sahada (la professione di fede); b) salat (l'adorazione o preghiera); c) zakat (l'elemosina obbligatoria); d) sawm (il digiuno nel mese ramadan); e) haji (il pellegrinaggio alla Mecca). Cfr.: MUSULMANO. ISLAMISMO RADICALE. Termine che designa i movimenti politico - sociali radicali dell'islam. Il primo di questi movimenti fu quello dei Fratelli musulmani. JIHAD. "Nella sua accezione originaria la parola significa "sforzo" o "lotta", e nella tradizione islamica il suo uso non si limita affatto a questioni militari. L'abituale traduzione "guerra santa" è quindi fuorviante. Il termine riguarda molte forme di attività. Secondo la definizione classica, il

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credente può intraprendere il jihad "con il cuore, con la lingua, con le mani, oppure con la spada, ma il modo principale è il primo." (M. Ruthven). Oggi si usa il termine "jihadismo" per indicare gli islamisti radicali. In lingua araba il termine generico "guerra" non è reso con jihad, bensì con "harb". Cfr.:DAR AL-HARB. JIHAD AL-ISLAMI (JIHAD ISLAMICA PALESTINESE). Gruppo radicale palestinese, fondato a metà degli anni Ottanta da Fathi Shqaqi. Gli attuali leaders sono Abdullah Shami e Hafez Azam. KAMIKAZE (dal giapponese "vento (kaze) divino (kami)", dal nome attribuito a una tempesta che affondò una flotta nemica di invasione). Aviatore nipponico della seconda guerra mondiale, votato alla morte, che si gettava con l'aereo contenente un carico esplosivo contro l'obiettivo nemico. In generale, membro di un gruppo militare o terroristico che compie un'azione o un attentato suicida. KHAN. Termine che accompagna il nome, con il significato di "signore"; talvolta si trova anche "sha" o scià. LINEA DURAND. Confine fissato nel 1893 dagli inglesi tra l'Afghanistan e l'allora India (attuale Pakistan). Ha diviso in due le tribù pashtun. LOYA JIRGA (in lingua pashtu significa "Grande Assemblea"). In Afghanistan era la grande assemblea dei capi tribali e dei leader che decideva le leggi e l'amministrazione. Secondo la tradizione può essere convocata solo da una personalità molto autorevole e solo per decisioni di grande importanza per il paese. In seguito alla attuale crisi afghana alcuni hanno proposto la ricostituzione di una specie di Loya Jirga capace di rappresentare gli interessi di tutte le fazioni in lotta. La prima Loya Jirga fu convocata nel 1709. Le ultime Loya Jirga erano composte da 520 rappresentanti, scelti tra i capi tribù, i leader militari, gli intellettuali e i dirigenti delle 32 province afghane. MADRASA (da "ma" e "darasa", con il significato di "luogo per studiare"). Specie di scuola o collegio musulmano ove si impartiscono insegnamenti di religione e diritto. L'insegnamento consiste essenzialmente nella recitazione del Corano e nel suo apprendimento mnemonico. Nelle madrase deobandite pakistane sono stati formati i talibani. MAHDI. Rappresenta la trasposizione nella cultura islamica della figura ebraica del messia; rappresenta l'Atteso, l'inviato da Dio, colui che fonderà il Regno dei Giusti prima del Giudizio finale. Secondo il messianismo islamico, il Mahdi giungerà dopo una fase segnata da guerre civili, dalla comparsa di falsi profeti e dalla devianza dalla fede autentica, che provoca la dissoluzione delle istituzioni islamiche e facilita la vittoria degli infedeli.Viene chiamato anche al-Muntazar, l'Atteso, ovvero, colui che si aspetta. Nel credo sciita è il dodicesimo Imam, che al momento è nascosto, ma il cui ritorno annuncerà la fine del tempo e l'imminenza del Giorno del Giudizio. Cfr.: IMAM. MINE ACTION. Azioni contro le mine. Includono: mine awareness (sensibilizzazione sul pericolo delle mine), sminamento, cura riabilitazione e reinserimento sociale delle vittime. Cfr.: UXO. MOSCHEA (da "masgid", "luogo dove ci si deve prostrare"). Edificio caratteristico del culto musulmano ora destinato alla preghiera e all'insegnamento religioso, ma in origine anche a scopi profani, come luogo di riunione di fedeli, di discussione politica e giudiziaria, di contrattazione, di ricovero e di alloggio. In diversi paesi dell'islam le moschee sono sede di incontro e di proselitismo delle correnti fondamentaliste o islamiste.

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MUFTI. Specialista nel diritto islamico, competente a emettere una sentenza (fatwa) vincolante per i fedeli. MUJAHEDDIN (forma principale di "jihada", "lottatori"). Combattente del movimento nazionale islamico dell'Afghanistan contro l'occupazione sovietica. Usato ora anche con il significato più generico di islamista radicale armato. Cfr.: ISLAMISMO RADICALE. MULLAH (dall'arabo "maula", "tutore"). In generale, cultore di teologia musulmana (in India, nell'Iran e nei territori di lingua turca). Autorità religiosa sciita. "In quanto vicari dell'Imam Nascosto, i mullah esercitano il diritto dell'igtihad (l'interpretazione indipendente della sharia), a differenza della maggior parte dei loro equivalenti sunniti, che fino a tempi molto recenti si sono in genere ritenuti vincolati al taqlid (l'"imitazione" delle decisioni prese dai predecessori). (M. Ruthven, 1999: 68 ). Cfr.: ULAMA, IMAM. MUSULMANO (da "muslim", "colui (o colei) che si sottomette"). Appartenente alla religione, alla cultura e alla civiltà islamica; seguace dell'islam. Cfr.: ISLAM. OPPIO. Sostanza che si ottiene per condensazione del lattice ricavato per incisione delle capsule immature delle piante del genere Papaver (in particolare P. sonniferum) e che contiene numerosi alcaloidi ad azione ipnotica e stupefacente (dall'oppio si ricavano eroina e morfina). L'Afghanistan, nel 2000 è stato il maggior produttore mondiale di oppio, con un volume di 3656 tonnellate, corrispondente circa al 79% della produzione mondiale. Ciò è avvenuto nonostante l'ONU, nell'ambito della campagna di interventi antidroga, abbia versato ai talibani ingenti contributi per la distruzione dei campi. Per "Guerra dell'oppio" si intende una guerra anglo - cinese (1839-1942) scatenata dal divieto cinese ai commercianti stranieri di introdurre oppio entro i confini del paese. La vittoria britannica aprì la via al commercio occidentale in Cina. PASHTUN. Etnia specifica presente in Afghanistan e Pakistan. Tradizionalmente è un'etnia che in Afghanistan ha sempre avuto posizione dominante a livello politico. I talibani afghani sono di etnia pashtun e anche per questo motivo in passato hanno ricevuto appoggi dal Pakistan. Il territorio pashtun compreso tra Afghanistan e Pakistan viene chiamato Pashtunistan (o Pathanistan) e in passato si è sviluppato un movimento nazionalista e indipendentista volto alla riunificazione (la divisione del territorio pashtun è avvenuta nel 1893 ed è un'eredità del colonialismo). I componenti dell'Alleanza del Nord (avversari dei talibani) sono per lo più di etnia tagika e uzbeka. Cfr.: LINEA DURAND. QUTB, SAYYID. Sayyid Qutb (1906-1966), egiziano, è considerato uno degli intellettuali più significativi dell'islamismo radicale. E' stato teorico e organizzatore del movimento dei Fratelli musulmani (fondato nel 1928 dall'egiziano Hasan al-Banna ). Cfr.: AL-MAWDUDI, ISLAMISMO RADICALE. RIBA. Prestito ad interesse, proibito dalla legge islamica. "La tradizionale proibizione islamica che colpisce il riba, inteso come ogni genere di prestito a interesse, ha portato invece alcune banche a originali esperimenti nella ripartizione dei rischi finanziari e nella partecipazione agli utili, tentando di suddividere gli oneri di mutuanti e mutuatari in modo più equo rispetto al normale sistema bancario”. (M. Ruthven 1999: 13). La proibizione del prestito a interesse compare anche nell'Antico Testamento e fu osservata a lungo nel periodo medievale, anche in campo cattolico. SALAFISMO (da "salaf" che equivale a "tradizione"). Il termine designa in generale una scuola di pensiero, nata nella seconda metà del secolo diciannovesimo, che predicava, in opposizione alla diffusione delle idee europee, il ritorno alla tradizione dei pii antenati (salaf). In senso stretto i salafisti sono coloro che prendono alla lettera le prescrizioni dei Testi sacri, nella tradizione fissata

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dal grande ulema Ibn Taimiyya (importante punto di riferimento dei wahhabiti). Wahhabismo e salafismo hanno avuto un certo peso nella formazione di bin Laden. Cfr.: WAHHABISMO. SCEICCO (dall'arabo "shaikh", "anziano"). Nel mondo arabo è il titolo attribuito ai capi tribù e ai personaggi notabili. SCIITI (dall'arabo "shi i", "appartenente al partito di Alì e dei suoi discendenti”). Appartenenti a una delle sette musulmane che riconoscono come soli eredi di Maometto i discendenti in linea maschile di suo genero, il califfo Alì. Cfr.: SUNNITI. SHARÌA (voce araba, "strada battuta"). Nome della legge sacra islamica, desunta dai "quattro fondamenti del diritto": il Corano, la sunna, il consenso della comunità e la deduzione analogica. La legge proviene dunque da fonte divina. STATI CANAGLIA (trad. dall'inglese "rogue state"). Termine generico con cui, nel recente dibattito politologico, sono indicati alcuni Stati i cui governi sono complici o sono nelle mani di organizzazioni criminali, nazionali o internazionali. Si è talvolta parlato anche di "stati-mafia". Cfr.: TERRORISMO. SUNNA (da "sunnah", "regola" o "norma"). Consuetudine, modo di comportarsi di Maometto nelle varie circostanze della vita, desunta dalle tradizioni canoniche di detti e di fatti di Maometto e considerata un'interpretazione autentica del Corano, che ha valore di norma ed esempio per i credenti. Cfr.: SCIITI. SUNNITI. Seguaci ortodossi della sunna di Maometto. Cfr.: SUNNA, SCIITI. TALIBANI (dall'arabo "talib", "studente"; "talibani" è sostantivo plurale). Studente islamista radicale, membro di una organizzazione politico - militare che dal 1996 impone autoritariamente la legge coranica in Afghanistan. I talibani hanno avuto origine nell'ambito dei profughi afghani che sono affluiti in Pakistan durante l'invasione sovietica. Si tratta di giovani ospitati ed educati nelle scuole coraniche pakistane (madrasa) ad una forma rigida di fondamentalismo. I talibani sono stati aiutati dallo stesso Pakistan a intervenire e a prevalere nella guerra civile afghana seguita al ritiro delle truppe sovietiche. TERRORISMO. Termine con cui si designa una forma di lotta politica basata su violenze indiscriminate e destabilizzanti, impiegato da gruppi clandestini. Ricorrono al terrorismo quei gruppi che, ritenendo di non poter agire efficacemente sul piano legale, si propongono di rovesciare l'assetto politico con ogni altro mezzo. Negli ultimi decenni si è avuto uno sviluppo del terrorismo internazionale.Con "terrore" si intende invece un particolare tipo di regime che utilizza la violenza indiscriminata per mantenersi al potere; l'esempio più noto di questo uso del terrore è quello del Comitato di salute pubblica durante la Rivoluzione francese. Cfr.: STATI CANAGLIA. ULAMA (ULEMA) (plurale di "alim", "dotto"). Sono i "dottori della legge". Nell'islam non esiste una "chiesa" paragonabile al papato cattolico, un'istituzione formalmente riconosciuta e investita del potere di dettare legge sulle questioni religiose, di esprimere un punto di vista islamico ufficiale. Con il crollo del superstato sopravvissuto non più di due secoli alla morte di Maometto, l'autorità religiosa fu conferita agli ulama, una classe di studiosi che per la loro funzione di custodi e interpreti della tradizione sono più simili ai rabbini ebraici che ai preti cristiani (M. Ruthven, 1999: 11). UMMA. Con questo termine si intende la comunità musulmana. Nell'islam la umma è superiore allo Stato. Oggi la umma islamica abbraccia circa 1,3 miliardi di musulmani. Nella visione

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musulmana si usa dividere tra Dar al-Islam (territorio dell'islam in quanto "Dimora della pace") e Dar al-harb (territorio della guerra, ovvero il resto del mondo). UXO. Il termine sta per "Unexploded Ordnance", ordigni inesplosi. Cfr.: MINE ACTION. WAHHABBITI. Seguaci della riforma islamica predicata nel XVIII sec. da Mobammed ibn Abd el Wahhab (1720 - 1790). Beduino del Neged, della tribù dei banu-Tamim, Abd el Wahhab perfezionò gli studi di teologia iniziati sotto la guida del padre, a Medina, Bassora e Bagdad e aderì all'hanbalismo, nella forma rigorosa che gli aveva dato nel XVI sec. il grande dottore ibn Taimiyyah. Tornato alla sua tribù, predicò il ritorno al Corano e alle fonti tradizionali, agli hadith; rifiutava invece tutte le ulteriori interpretazioni pratiche che l'ortodossia ammetteva ormai da tempo quali il culto dei profeti, dei santi e delle tombe; voleva restaurare la vita semplice e frugale dell'islam primitivo e a tal fine proscrisse le bevande alcoliche, il tabacco, la musica, le danze, i giochi, ecc. Cacciato dalla sua tribù per il suo eccessivo rigore, Abd el Wahhab trovò rifugio nel 1740 presso Mohammed ibn Saud, che regnava ad ar Dir'iyyah, un'oasi del Neged. Insieme con il suo protettore, di cui divenne il genero, cominciò a diffondere la propria dottrina in tutta l'Arabia; ibn Saud esercitava i1 potere temporale ed egli quello spirituale. Il wahhabismo, che raccolse fedeli fanatici, divenne così elemento determinante dell'ascesa di Saud. (da M. Mourre, 1988). Cfr.: SALAFISMO, TALIBANI. ZAKAT (col significatgo di "elemosina"). Elemosina obbligatoria pagata dai musulmani, destinata a beneficio della comunità musulmana. In taluni Stati islamici è riscossa dall'apparato amministrativo statale.

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CHI SONO I TALIBANI5 Oggi i talibani – almeno in Occidente – vengono strettamente associati a Bin Laden e al gruppo

degli afghani-arabi, cioè i gruppi di combattenti islamisti tradizionalisti (salafisti) provenienti in parte, ma non solo, dall’Arabia e giunti in terra afghana per combattere il loro jihad contro i sovietici. Ciò è certamente vero, ma solo per i tempi più recenti. Anche se l’Afghanistan ha rappresentato un importante terreno comune d’incontro, il movimento dei talibani ha origini affatto diverse da quelle del gruppo di Bin Laden. I talibani rappresentano un vero e proprio gruppo sociale fortemente ideologizzato che è insieme un prodotto sociale della guerra (molti di loro sono stati reclutati tra i giovanissimi profughi afghani pashtun) e un prodotto dell’educazione militante (provengono dalle scuole religiose deobandite pakistane), fattori entrambi derivanti dalla lunga crisi politica della regione. Le differenze tra i talibani e gli afghani arabi vengono bene evidenziate da Kepel:

“[…] i “salafisti jihadisti” presentano affinità con un altro movimento apparso, nell’ambito dell’islam

locale, nella stessa epoca, nella stessa arca e nello stesso contesto: quello dei talibani. I due movimenti sono accomunati da un’interpretazione letterale dei Testi sacri e dal ricorso alla jihad per raggiungere i propri obiettivi. Ma i talibani, che appartengono alla scuola hanafita e alla corrente deobandita, non hanno la stessa formazione dottrinale dei “salafisti” arabi: a differenza di questi ultimi, provengono esclusivamente dalle madrasa tradizionali. Inoltre, la loro jihad è diretta principalmente contro la società, cui impongono un estremo rigorismo morale, e mostra scarsa attenzione per lo stato o la politica internazionale. Rimane aperta la questione dell’influenza reciproca di questi due movimenti, legata alla loro promiscuità, alla concomitanza della loro comparsa, all’ospitalità che i talibani offrono in Afghanistan ai principali “jihadisti”, e al fatto che alcuni di questi ultimi si richiamano spesso ai primi.” (G. Kepel, 2001: 262)

L’origine del gruppo e del movimento dei talibani è assai complessa ed è strettamente connessa con le vicende politiche, religiose e sociali del vicino Pakistan.

“La nascita dei talibani è anch’essa una conseguenza imprevista della jihad afghana, il prodotto della sua

ibridazione con la tradizione deobandita. Quest’ultima, tuttavia, non aveva mai considerato la jihad una priorità. La scuola deobandita era stata infatti creata nel 1867 per consentire agli indiani musulmani, trovatisi in una posizione di minoranza rispetto agli indù dopo la presa del potere dei britannici, nel 1857, di sopravvivere come comunità in un ambiente sfavorevole. Gli ulema deobanditi avevano emesso innumerevoli fatwe, grazie a cui i loro adepti potevano seguire meticolosamente i precetti della shari’a, anche in assenza di uno stato che si impegnasse a farli applicare. Avevano quindi codificato le norme per un modus vivendi con una società non musulmana, che non prendeva in considerazione né la jihad né l’emigrazione verso un paese islamico. Al momento della creazione del Pakistan, gli ulema deobanditi che già vivevano sul territorio del nuovo stato, o che scelsero di trasferirvisi dall’India, crearono un partito politico, lo Jamiat–e Ulema–e Islam (“Associazione degli ulema dell’islam”), il JUI, destinato più a tutelare questo particolare stiIe di vita in uno stato musulmano allora piuttosto laicizzato, e a negoziare la concessione di fondi per le loro madrasa, che non a prender parte alla lotta per il potere. All’interno del campo islamico propriamente detto, potevano in tal modo difendere la loro specificità sia rispetto alla jamia’t–e islami fondata da Mawdudi – di cui mettevano sotto accusa il “modernismo” e la confusione tra religione e politica – sia rispetto alla fazione rivale degli ulema barelwis, che aveva creato il JUP, Jamiat–e Ulema–e Pakistan (“associazione degli ulema del Pakistan”). Grazie alla potenza del gruppo di pressione da loro costituito, forte dell’appoggio di decine di migliaia di allievi e diplomati delle loro madrasa, essi hanno infine assunto un ruolo attivo nella vita politica del paese, schierandosi contro tutto ciò che potesse mettere in discussione la loro personale concezione dell’ordine islamico: le loro prime vittime furono gli ahmadi, membri di una setta da loro ritenuta apostata, alcuni dei quali erano alti funzionari dello stato. In seguito,

5 Questo lavoro – di scopo prettamente didattico - è costituito da una serie di appunti di lettura di alcuni testi, primo fra tutti il Kepel (Kepel, Gilles, Jihad. Expansion et déclin de l'islamisme, Editions Gallimard, Paris, 2000. Tr. it.: Jihad, Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, Roma, 2001.). Dato lo scopo del testo, non è stata curata l’unificazione dei criteri di traslitterazione dei termini di lingua araba.

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durante la presidenza di Zia, tra il 1977 e il 1988, la decisione del dittatore d’imporre l’islam sunnita hanafita come norma e di detrarre l’obolo legale (zakat) direttamente dai conti bancari, a cui era seguita nel luglio 1980 la rivolta del 15–20% dei pakistani di fede sciita, aveva fornito una nuova vocazione al militantismo deobandita: combattere lo sciismo. A ciò tra l’altro li incoraggiava la rivalità tra Iran e Arabia Saudita.” (G. Kepel, 2001: 263).

Nella turbolenta situazione pakistana si trovano le condizioni che spiegano la radicalizzazione e la diffusione del movimento deobandita. E’ un dato di fatto che questi violenti fanatismi – poiché sembravano rimanere confinati in ambito locale – non preoccuparono più di tanto la comunità internazionale. Solo dopo i tragici fatti delle Torri gemelle questi oscuri e lontani avvenimenti possono diventare interessanti per capire gli eventi. Spiega sempre il Kepel:

“Il Pakistan costituiva, dopo la guerra Iran–Iraq e la jihad afghana, un fronte secondario di questo

conflitto. Nel 1980, gli sciiti avevano creato un partito per salvaguardare l’identità della propria comunità contro l’onnipotenza sunnita, dopo le minacce rappresentate dal prelievo automatico della zakat. Chiamato Tehrik–e Nifaz–e Fiqh–e Jafria (“movimento per l’applicazione della giurisprudenza jafarita [sciita]”) guidato da giovani ecclesiastici, questo movimento manifestò grande entusiasmo, a partire dal 1984, per la rivoluzione iraniana. Gli aiuti che esso notoriamente riceveva da Teheran suscitarono grande inquietudine tra i gruppi di pressione sunniti, e l’Arabia Saudita, che considerava questo movimento un tallone d’Achille per la jihad afghana da lei sponsorizzata, concesse numerose elargizioni ai gruppi disposti a combattere gli sciiti. Il movimento deobandita ne approfittò a vari livelli: le aumentate dotazioni delle sue madrasa gli permisero di accrescere tanto il numero dei propri membri che la capacità di accogliere allievi di famiglie povere, sia di origine rurale che urbana, che beneficiavano di vitto e alloggio gratuiti, e che sarebbero diventati a loro volta potenziali zeloti antisciiti. Nel 1985, un dirigente del JUI del Punjab, Haq Nawaz Jhangvi, che cadrà assassinato nel 1990 all’età di 32 anni, creò un movimento giovanile paramilitare di ispirazione deobandita. Chiamato Sipah–e Sahaba–e Pakistan (“I soldati dei Compagni del Profeta in Pakistan”), esso si era dato l’obiettivo di far dichiarare gli sciiti “infedeli” (kafir) e non esitava a ricorrere alla violenza contro di loro. Sulla sua scia nacquero, alla metà degli anni novanta, due altri movimenti ancora più violenti, usciti sempre dalla corrente deobandíta: il Lashkar–e Jhangvi (“Esercito di Jhangvi”), nato nel 1994, specializzato nell’omicidio di sciiti e lo Harkat–ul Ansar (“Movimento dei sostenitori”), fondato nel 1993, i cui militanti andarono a combattere la jihad nel Kashmir amministrato dall’India, e si fecero la fama di decapitare come infedeli i soldati indù finiti nelle loro mani. Tale delirio di fanatismo aveva anche una sua contropartita sciita: il Sipah–e Mohammed Pakistan (“I soldati del profeta Maometto in Pakistan”), SMP. (G. Kepel, 2001: 264)

L’esplosione di violenza ha una serie di radici economiche e sociali; viene acutamente spiegata da Kepel in questi termini:

“Questo parossismo di violenza nel nome della religione non è imputabile semplicemente alla situazione

regionale e internazionale, sebbene la manna finanziaria e militare piovuta sulla jihad afghana abbia improvvisamente messo a disposizione dei movimenti estremisti fondi e armi pesanti, che hanno permesso loro di agire al di fuori di ogni legalità. Esso è anche la conseguenza di una profonda crisi sociale che attraversa il Pakistan, in particolare il Punjab meridionale dove i figli dei contadini poveri sunniti, completamente in rovina, devono confrontarsi, in un contesto di persistente esplosione demografica, con i proprietari terrieri, per lo più sciiti, e con istituzioni cittadine dominate dai mahajir, i discendenti dei rifugiati venuti dall’India nel 1947. A differenza della Jama’at–e islami fondata da Mawdudi, che è rimasta essenzialmente un partito d’élite dei ceti medi religiosi, privo di radicamento popolare, i deobanditi arruolano tra le loro file una gioventù disagiata senza speranza di ascesa sociale, per la quale la violenza rimane la principale forma d’espressione, in una società bloccata e caratterizzata da profonde disuguaglianze. Le madrasa mettono i loro allievi, i loro talibani, al riparo da queste tensioni sociali per tutta la durata degli studi, ma possono anche razionalizzare il loro potenziale di violenza, mettendolo al servizio di una jihad di-retta contro chiunque venga designato dal maestro come kafir, empio, sia esso il vicino sciita, il soldato indiano o qualsiasi persona, anche sunnita, considerata miscredente. Inoltre, l’estrema devozione di questi talibani per i loro ulema, da cui sono stati istruiti per anni, e con cui hanno convissuto in una condizione di intensa promiscuità, quasi senza contatti con il mondo esterno, recitando in maniera reverenziale testi di cui spesso ignorano il significato, fornisce loro uno spirito di appartenenza che tende ad annullare la volontà

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individuale. Nelle madrasa più rigide, è facile trasformare un allievo che ha subito un simile condizionamento in un fanatico.” (G. Kepel, 2001: 264–5)

Per una serie di circostanze interne e internazionali il movimento islamista deobandita venne appoggiato. Ebbe così modo – in una situazione dove l’offerta di materiale umano non mancava (abbiamo fatto cenno ai giovanissimi profughi afghani) – di ampliarsi e di diffondersi.

“Dopo la guerra del Golfo, l’intransigente movimento deobandita ha potuto godere di due diversi

appoggi, che gli hanno permesso di accrescere notevolmente la sua influenza e che, insieme alle violenze scoppiate nel Punjab e nel Kashmir, avrebbero in seguito spianato la strada alla vittoria dei talibani in Afghanistan. Innanzi tutto, il mondo del wahhabismo saudita era rimasto seriamente scottato dall’impegno militare a fianco dell’Iraq della Jama’at–e islami pakistana e dello Hezb–i Islami, due formazioni che avevano ricevuto abbondanti finanziamenti per un decennio. Anche il partito dei deobanditi, il JUI, si era espresso contro la presenza di soldati “empi” in Arabia, ma aveva mostrato una minore acrimonia nei confronti della monarchia di Riyadh. Inoltre, gli ulema deobanditi erano acerrimi nemici dei pir, i leader delle confraterníte barelwi, aderenti al JUP, l’altro partito religioso, il cui santo patrono era sepolto nei pressi di Baghdad, e che riceveva regolarmente aiuti da parte dell’Iraq. Durante la guerra, il suo principale dirigente, che negli incontri in sostegno dell’Iraq aveva sempre manifestato il suo “amore” per Saddam, creò centri di reclutamento per combattere a fianco dell’Iraq e, a quanto racconta egli stesso, arruolò centodieci mila volontari. Non potendo privarsi di tutti i suoi referenti nel campo religioso pakistano, Riyadh, ormai piuttosto diffidente nei confronti dei suoi ex protetti della Jama’at–e islami, scelse il male minore e si spostò sul JUI, che non era legato ai circuiti internazionali dei Fratelli musulmani, era ostile tanto agli sciiti che alle confraternite e all’Iraq, e predicava una rigorosa ortodossia religiosa simile per certi versi alla pratica wahhabita. In Afghanistan, poi, lo Hezb di Hekmatyar, al di là delle sue prese di posizione in favore dell’Iraq, perdeva terreno di fronte al comandante Massud, e non era più nelle grazie di Riyadh. La situazione era quindi matura perché i sauditi appoggiassero gli allievi afghani delle madrasa deobandite, i talibani.

L’altro appoggio di cui poterono godere il JUI e i talibani, ancora più sorprendente per gli osservatori occidentali, fu quello del secondo governo di Benazir Bhutto, il cui grazioso volto compariva sulle prime pagine di molte riviste femminili – e che tuttavia dava il suo sostegno ad un movimento che imponeva alle donne afghane di sottostare al giogo dello Chadri, la versione locale dello chador. All’origine di questo atteggiamento vi sono i giochi politici interni del Pakistan, e in particolare il tentativo del Partito popolare pakistano, diretto dalla Bhutto, di rompere la coalizione dei tre partiti religiosi (JI, JUI e JUP) che avevano appoggiato il suo rivale, il leader della Lega musulmana ed erede spirituale del generale Zia, Nazaw Sharif. Estromessa dal potere in seguito alle pressioni dell’esercito che, nel 1990, diede il proprio sostegno alla coalizione capeggiata da Sharif, la Bhutto vinse nuovamente le elezioni nel 1993. Era riuscita ad allontanare dal suo rivale la maggior parte dei deobanditi, e aveva dato alla fazione del JUI che la appoggiava importanti posti di potere: il suo leader, Maulana Fazlur Rahman divenne presidente della Commissione esteri del Parlamento. Allo stesso tempo, il suo governo era preoccupato dall’anarchia che regnava in Afghanistan, aggravata, nell’aprile 1992, dalla caduta di Kabul, finita nelle mani di una coalizione traballante costituita da comandanti dei mudjahidin ed ex sostenitori del potere comunista. La Bhutto non nutriva alcuna fiducia nella politica dei servizi segreti dell’esercito, l’ISI, bastione dei fedeli di Zia e di Sharif, che appoggiavano l’Hezb. E’ in queste circostanze che il suo ministro dell’Interno, il generale Babar, mandò, all’inizio di novembre del 1994, un convoglio di camion attraverso l’Afghanistan sud–occidentale verso il Turkmenistan. Intercettato da un comandante di mudjahidin intenzionato a chiedere un riscatto, il convoglio fu liberato da diverse migliaia di talibani afghani superarmati, venuti appositamente dalle madrasa delle regioni di frontiera del Pakistan. Questi ultimi si impadroniranno, il giorno seguente, della capitale dell’Afghanistan meridionale, Kandahar. Nel settembre 1996, anche Kabul finirà nelle loro mani e, nell’autunno 1998, costringeranno il loro ultimo avversario, il comandante Massud, a ritirarsi nel suo feudo della valle del Panshir, ai confini con il Tagikistan, e controlleranno da quel momento quasi l’85% del territorio afghano.”

I fattori che spiegano il rapido successo dei talibani sono assai vari e complessi. “Attribuendo i successi dei talibani ad una combinazione di fattori interni ed esterni, non si è tenuto

pienamente conto delle dinamiche di questo nuovo tipo di movimenti islamisti radicali, comparsi alla metà degli anni novanta in seguito alla decomposizione della jihad afghana. Essi sono stati corteggiati da attori diversi, che ne hanno guidato le prime mosse: oltre a Benazir Bhutto, alleata del leader deobandita Maulana

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Fazlur Rahman, hanno potuto godere dell’appoggio di gran parte dell’establishment politico pakistano, anche dopo che, nel novembre 1996, Nawaz Sharif è tornato al potere. Fin dall’inizio, infatti, un Afghanistan controllato dai talibani offriva numerosi vantaggi a Islamabad. E i successivi governi pakistani, che rimanevano in carica periodi brevissimi in un contesto politico turbolento, non si andavano certo ad ingarbugliare in calcoli politici a lungo termine per considerare gli effetti negativi delle decisioni prese. Il Pakistan vive in un contesto regionale segnato da alcuni fattori fortemente vincolanti: alle ricorrenti tensioni con l’India, scandite dagli incidenti di frontiera, accompagnate dalla “jihad di logoramento” condotta dai gruppi paramilitari islamisti in Kashmir e ravvivate dalla rivalità nucleare con New Delhi, si sommano l’acredine nei confronti dell’Iran sciita, dovuta alla presenza di consistenti minoranze sciite nel subcontinente e la diffidenza di Mosca, preoccupata dalla destabilizzazione delle repubbliche ex sovietiche (l’Uzbekistan, il Tagikistan e il Kirghizistan) da parte di movimenti islamisti provenienti dal Sud. Rabbani, leader del partito afgano Jami’at, che controllava le coalizioni di mudjahidin al potere a Kabul dal 1992 al 1996, si era avvicinato a quest’asse indo–russo–iraniano, mentre il pupillo dei servizi segreti di Islamabad, Hekmatyar, non riusciva ad imporsi. In secondo luogo, il crollo dell’impero sovietico aveva riaperto le antiche vie commerciali dell’Asia centrale verso i mari caldi, chiuse da Mosca fin dall’epoca zarista. Gli idrocarburi del Turkmenistan, che suscitano le brame di un Pakistan sovrappopolato e privo di fonti d’energia, passano at-traverso il Pakistan, seguendo quella stessa strada su cui i talibani, nel novembre 1994, avevano liberato il convoglio inviato dal generale Babar. Per rendere tali vie praticabili, era necessario che il paese fosse riunito sotto un’autorità unica, in grado di garantire la sicurezza dei trasporti. Dall’inizio della jihad, infatti, il paese si era frammentato in numerosi feudi controllati dai comandanti dei mudjahidin, che depredavano a proprio piacimento viaggiatori e merci. Verso la fine del 1994, i talibani dovevano sembrare, agli occhi dell’establishment pakistano, l’unica forza capace di unificare il territorio, che avesse al tempo stesso stretti legami con Islamabad. Oltre alla loro ideologia deobandita, che li trasformava in irriducibili nemici dell’Iran sciita, dell’India e della Russia “empie”, la maggior parte di loro apparteneva all’etnia pachtun, che abitava nella provincia del Nord–est pakistano, intorno a Peshawar, ed era largamente rappresentata tra gli ufficiali dell’esercito e i servizi di sicurezza. Tutti questi elementi facevano pensare che il potere, nelle mani dei talibani, sarebbe stato saldamente legato al Pakistan, permettendo a quest’ultimo di acquisire quello “spessore strategico” di cui aveva bisogno per fronteggiare i suoi tre nemici nella regione.

A questi incoraggiamenti esterni al successo dei talibani, che si concretizzarono in sostegno logistico e militare, si aggiunsero alcuni fattori interni: l’insofferenza delle popolazioni afghane di fronte all’incuria, alla corruzione e all’insicurezza generalizzata, che, dalla caduta di Kabul nelle mani dei mudjahidin nel 1992, avevano raggiunto livelli incomparabili, accelerando la scomparsa di ogni tipo di autorità, con le varie fazioni che bombardavano i quartieri controllati dalle fazioni rivali. I talibani invece, almeno nella regione pachtun, conquistarono diverse località senza nemmeno combattere: la loro reputazione di integrità morale li precedeva e, negli ambienti rurali, la loro concezione ultrarigorista delle relazioni sociali o la loro posizione sulla clausura delle donne non era particolare motivo di shock per coloro che seguivano le regole, piuttosto simili, della pachtunwali, la tradizione tribale. In compenso, hanno dovuto combattere strenuamente per conquistare Kabul (fallendo una prima volta, prima della presa definitiva della città nel settembre 1996), e altre zone sciite nell’Ovest, dove si resero responsabili di alcuni massacri di “empi”, in particolare a Mazar–e Sharif, nel 1998. Ciò era tuttavia la diretta conseguenza di quello zelo religioso che li spingeva a partecipare alla jihad, certi di diventare shuhada, martiri della fede, a cui sarebbero state schiuse le porte del paradiso.” (G. Kepel, 2001: 267–8)

Una volta conquistato il paese, invece di preoccuparsi di definire le istituzioni dello stato, quello

che verrà chiamato l’Emirato islamico, i talibani tentano di realizzare un modello di società completamente nuovo. L’Afghanistan dei talibani assomiglia a una gigantesca madrasa, una società comunitarista anarchica, fondamentalmente maschile e maschilista, dotata di una serie di guide spirituali (tra cui il mullah Omar) che si regge sull’interpretazione letterale del Libro e sulla pratica religiosa. La situazione ormai completamente destrutturata del paese poteva consentire a questo gruppo di praticare uno dei più arditi – e drammatici – esperimenti di utopia sociale dei nostri tempi, secondo forse solo a quello dei khmer rossi della Cambogia.

“Dall’arrivo dei talibani, nella capitale regna l’ordine e, tra i mucchi di rovine accumulati tra il 1992 e il

1996 negli scontri tra mudjahidin, è scomparsa ogni forma di insicurezza. In compenso, i nuovi padroni hanno imposto la concezione deobandita dell’esistenza, impartita nelle madrasa, alla società intera, e non solo alle comunità di discepoli consenzienti . In effetti, questi contadini di lingua pachtun considerano gli

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abitanti di Kabul di lingua dari, abituati, fin dagli anni cinquanta, ad una vita urbana di stampo moderno, una massa di corrotti che bisogna rieducare per far regnare la shari’a. Tutte le donne circolano ormai coperte dallo chadri. Poiché non hanno diritto di lavorare, parecchie di loro, che hanno perso il marito e ogni altro sostegno familiare in combattimento, questuano nelle strade, circondate da nugoli di bambini. Davanti ai ministeri vuoti, i cui funzionari sono stati mandati in campi di rieducazione religiosa, le erbacce invadono viali ed edifici. La cultura deobandita è tradizionalmente ostile alla cosa pubblica: ha sempre puntato ad organizzare la comunità nel rispetto meticoloso delle ingiunzioni dogmatiche senza preoccuparsi dello stato, considerato empio fin dalla conquista britannica dell’India nel 1857. A Kabul, i talibani, padroni delle istituzioni afghane, le hanno svuotate di significato, sostituendole con tre funzioni: la morale, il commercio e la guerra. L’esercizio della morale, che non è altro che la rigorosa imposizione a tutti delle norme deobandite, è gestito dell’ “organismo per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio” (tradotta in inglese více / virtue police). Quest’ultimo ha lo stesso nome di un corpo simile presente in Arabia Saudita, costituito dai famigerati mutawi’a, giovani barbuti di estrazione popolare che, armati di bastone, fanno rispettare gli orari delle preghiere, l’obbligo del velo per le donne e, in generale, le norme di comportamento wahhabite. In Afghanistan, il concetto di male da combattere è ancora più ampio, visto che ogni uomo glabro, o con la barba troppo corta, viene flagellato; televisori, videoregistratori e musica profana sono proibiti – in modo da ricreare l’ambiente mentale di una madrasa –, tanto che, nei blocchi stradali dei talibani, si possono vedere, appesi ad una pertica come trofei, i nastri delle cassette sequestrate agli au-tomobilisti. Alcune forme di spettacolo sono tuttavia permesse – purché siano edificanti: il venerdì, il grande stadio costruito dall’Unione Sovietica per celebrare a suo tempo l’internazionalismo proletario è animato dalle flagellazioni inflitte ai bevitori, dal taglio degli arti dei ladri e dall’esecuzione dei criminali da parte delle famiglie delle vittime, armate all’uopo di una mitraglietta. Lo stato non punisce direttamente i contravventori – riflesso della sua fragile esistenza –, ma ne affida l’applicazione alla comunità morale dei credenti, sotto gli auspici di un popolaccio che, dal 1996, si è riversato dalle campagne nella capitale, “patchtunizzandola”, a scapito dei ceti medi, educati in persiano, che non sono riusciti a fuggire.

La seconda funzione che si assume l’ “Emirato islamico” è il commercio. I talibani avevano già potuto beneficiare dell’aiuto finanziario dei sauditi: quando i principi della penisola arabica venivano a Kandahar con i propri aerei privati per le loro partite di caccia, lasciavano sempre in regalo, alla loro partenza, le loro fuoristrada e altri ricchi doni. Da quando il paese è quasi interamente sotto il loro controllo, i flussi commerciali tra l’Asia centrale e il Pakistan, il contrabbando attraverso il porto franco di Dubai e il traffico di eroina verso i mercati americano, russo ed europeo, sono aumentati notevolmente, consentendo il prelievo di pedaggi che alimentano le casse degli “studenti di teologia” – che, godendo di una autonomia finanziaria, sono ormai in grado di tener testa ai loro sponsor stranieri. Nel bazar di Kabul, dove regna un’atmosfera medievale e si incrociano in silenzio clienti e commercianti barbuti vestiti con l’abito tradizionale, i chioschi sono ben forniti. I negozianti e i trasportatori traggono profitto da un regime in cui l’inconsistenza dello stato permette loro di prosperare senza dover sottostare a tasse o regolamentazioni particolari.

Infine c’è la guerra, la terza funzione dell’ “Emirato islamico”, l’unica che richieda un minimo di centralizzazione. Essa è diretta da Kandahar, dove risiede il Comandante dei fedeli, Mullah Omar Akhund, che nessun “empio” ha mai potuto vedere. Questo ex mujahid, che ha perso un occhio combattendo contro i sovietici, siede tra la sua shura, predisponendo le offensive contro i gruppi ribelli, dando risposta alle pressioni internazionali, e in particolare confermando l’asilo accordato a Osama bin Laden e ai “salafisti jihadisti” del suo entourage, malgrado le proteste saudite o americane.

Ma l’esercizio sommario di queste tre funzioni non trasforma l’ “Emirato islamico” in un vero e proprio stato: si tratta piuttosto di una comunità organizzata secondo le norme deobandite “estese” ad un paese intero, in cui viene praticata la coercizione morale al suo interno e la jihad ai suoi confini, e che vive dei pedaggi prelevati sui flussi di un commercio – per lo più illegale – che passa per il suo territorio. In tal senso, l’Afghanistan dei talibani non è paragonabile né alla Repubblica islamica iraniana né al Sudan di Hassan el Turabi. Questi ultimi, infatti, si fondavano su un perfezionato apparato amministrativo e controllavano razionalmente l’islamizzazione autoritaria della loro società, assumendo un ruolo attivo nell’arca di riferimento islamica e nel sistema internazionale. Nulla di tutto ciò è invece riscontrabile tra i talibani: essi non cercano di espandersi attraverso il loro stato nello spazio mondiale – e intrattengono relazioni diplomati-che solo con il loro padrino pakistano e il loro principale partner commerciale, gli Emirati Arabi Uniti, da quando questi ultimi hanno rotto con il loro benefattore saudita. I talibani sono indifferenti alla sfera politica, che suscita invece la bramosia di tutti i movimenti islamisti usciti dalla matrice dei Fratelli musulmani, siano essi “moderati” o “radicali”, sempre ossessionati dalla conquista del potere. Nell’ideologia deobandita, non c’è spazio per “città virtuose”: solo la comunità, aggregato di credenti, accuratamente disciplinata dalla massa di fatwe che permettono ad ognuno di vivere in conformità con la shari’a, può avere un valore morale.

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L’assenza di legittimità dello stato e della politica è anche una negazione di ogni nozione di cittadinanza e di libertà, sostituite dalla fede e dall’obbedienza.” (G. Kepel, 2001: 268–270) Da questo brano appare abbastanza chiaramente come i talibani non avessero grandi prospettive di rappresentare e di realizzare un modello praticabile di organizzazione politica e sociale. Se hanno avuto successo è perché – nel quadro di una serie di improvvide politiche internazionali – sono stati usati, appoggiati, armati, diretti da una serie di potenze (servizi segreti in prima fila) per scopi che forse non avevano neppure profonde radici nell’ideologia politico religiosa dei talibani stessi. E’ una costante delle politiche estere di molte delle potenze di questo secolo (anche di potenze internamente democratiche) quella di sviluppare giochi rischiosi, convinte in ogni momento di poter recedere e di continuare a tenere in mano la situazione. Questa volta forse gli astuti giocatori hanno scoperto, con loro sommo stupore, di avere perso il controllo del gioco. Quasi profeticamente sempre Kepel scriveva nel suo libro:

“E’ difficile prevedere i futuri sviluppi dell’Afghanistan dei talibani. Fintanto che continua la jihad, e che

nuovi diplomati delle madrasa partono a caccia di “empi”, il sistema si perpetuerà – al prezzo della fuga di tutti gli spiriti liberi e dei funzionari ancora presenti nel paese. L’Albania di Enver Hoxia e la Cambogia di Pol Pot sono gli esempi che più si avvicinano ai probabili scenari futuri, seppure su un altro registro ideologico. Un’altra ipotesi è costituita dall’estensione della jihad al di fuori del territorio afghano. Essa è infatti già attiva in Kashmír, attraverso il movimento paramilitare deobandita fondato nel 1993, Harakat–ul Ansar, rinominato Harakat–ul Mujahedin, dopo che, nel 1997, il Dipartimento di stato americano l’ha classificato tra le organizzazioni terroriste. L’establishment politico–militare pakistano continua a dare il proprio supporto a questi movimenti, che arruolano le loro reclute tra la gioventù povera del Punjab e condu-cono una guerra per procura contro l’India. Questa logica di breve periodo, grazie alla quale le tensioni sociali di una provincia instabile vengono proiettate su un nemico esterno, potrebbe, in futuro, minare gli equilibri fondamentali della stessa società pakistana: che ne sarà dei mudjahidin di ritorno dal Kashmir? Trasformeranno forse, in direzione opposta, la jihad che hanno combattuto al di là delle frontiere in una jihad interna che, dopo il terrorismo antisciita guidato dal Lashkar–e Jhangvi, potrebbe ritorcersi contro lo stato, spianando la strada ad una “talibanizzazione” del Pakistan? E’ quanto temono diversi intellettuali del paese.” (G. Kepel, 2001: 270–71).

Uno degli aspetti più drammatici delle crisi internazionali moderne – nell’età della

globalizzazione – è la sistematica produzione di individui sradicati, di bassa cultura, violenti, ma bene addestrati militarmente, capaci di maneggiare armi, esplosivi e quant’altro, costantemente alla ricerca di un finanziatore o di una guida ideologica. Individui capaci di muoversi da un’area di crisi all’altra, massimizzando vantaggi, complicità, finanziamenti. Se – come sembra nel momento in cui scriviamo – i talibani venissero sconfitti militarmente e fossero costretti a disperdersi e a fuggire in altri paesi, costituirebbero sempre una riserva di uomini disposti a tutto, disposti a mettersi al servizio delle cause più improbabili, disposti forse anche a prestarsi a missioni suicide. Effettivamente una minaccia per i paesi vicini, ma anche – data la globalizzazione – per qualunque altro paese. Come è ormai noto, una “talibanizzazione” del Pakistan vorrebbe dire consegnare nelle mani dei fanatici di Allah un consistente numero di testate nucleari. Chi ha creato, educato, esaltato i talibani ora ne teme i colpi di coda.

Una lezione per tutti: anche gli avvenimenti più lontani del paese più lontano oggi possono giungere, per le vie più impreviste, a condizionare la nostra vita quotidiana. Il nostro disinteresse di oggi per le traversie e per la sorte di questi lontani paesi può tradursi – ormai in tempi brevissimi – in una fonte di sconvolgimento della nostra normalità.

Bibliografia

2001 Kepel, Gilles Jihad. Expansion et déclin de l'islamisme, Editions Gallimard, Paris. Tr. it.: Jihad, Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Carocci, Roma, 2001.

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FONDAMENTALISMO ISLAMICO E RADICALISMO

Problemi e definizioni

I recenti avvenimenti internazionali hanno portato alla ribalta una serie di termini, desunti dalla

storia, dalla filosofia o dalle scienze sociali la cui comprensione si basa spesso più sull’intuizione che su definizioni precise. In molti casi la terminologia risulta controversa anche negli stessi ambienti scientifici che dovrebbero essere dotati di maggior rigore rispetto al senso comune. Termini come integralismo, fondamentalismo, terrorismo, ecc… riempiono le pagine dei giornali e spesso sono utilizzati in maniera difforme quando non del tutto errata. E’ interesse della società democratica che i cittadini, nell’affrontare i problemi che li riguardano da vicino, dispongano di un vocabolario il più possibile chiaro, univoco: solo in tal modo il dibattito potrà essere occasione di incontro e di crescita. In questa breve monografia – concepita esclusivamente per uso didattico – presenteremo un’analisi critica di alcuni di questi termini.

Fino a prima degli eventi dell’11 settembre, le correnti politico religiose del mondo islamico erano per lo più sconosciute al grande pubblico; l’Islam appariva come un mondo monolitico e lontano. Certe distinzioni erano patrimonio di studiosi o di ristretti affezionati della politica internazionale. I termini integralismo, conservatorismo, fondamentalismo e radicalismo venivano (e vengono tuttora spesso) usati in senso intercambiabile.

Anche presso gli specialisti non esiste tuttavia ancora oggi una terminologia concorde. Alcuni distinguono tra Islam e islamismo (l’islamismo costituirebbe un “ismo” ovvero una esasperazione in campo politico religioso della visione islamica del mondo); altri hanno tentato di distinguere tra fondamentalismo e integralismo (quest’ultimo termine viene spesso usato con riferimento alla cultura cattolica), tra fondamentalismo e tradizionalismo. Taluni sconsigliano l’uso del termine fondamentalismo (che oggi è il più diffuso e accettato nel nostro paese) e vorrebbero più correttamente sostituirlo con quello di “radicalismo politico”. Spesso a questi termini si usa posporre il termine “armato” a indicare quelle correnti che non esistano ad accettare l’uso delle armi e della violenza per perseguire i loro scopi; ulteriormente talora si usa distinguere tra le varie forme “armate” e quelle “terroristiche”. Naturalmente sono possibili le combinazioni più varie: islamismo terroristico, fondamentalismo armato, islamismo fondamentalista, e così via.

Tentando di sgombrare un poco il campo, cominciamo con l’integralismo (o integrismo). Va

subito osservato che forse è uno dei termini meno adatti per qualificare quanto interessa oggi le cronache della politica internazionale. Il termine integralismo è stato usato soprattutto in Italia per definire un particolare orientamento in campo cattolico che si è affermato nell’Ottocento. Spiegano a tal proposito E. Pace e R. Guolo:

“Di fronte al divorzio fra la società moderna, scaturita dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, e la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, l'integrismo esprime l'esigenza di riconquista della funzione centrale della religione in una società come quella moderna che pretende di decretare la «morte di Dio» o di funzionare «come se Dio non esistesse». Per far valere questa esigenza l'integrismo considera la dottrina sociale della Chiesa cattolica come un repertorio dei principi fondamentali che debbano essere applicati a ogni sfera del vivere sociale (dall'economia alla politica) senza mediazioni di sorta, rifiutando alla radice l'idea stessa dell'autonomia relativa delle sfere dell'agire umano. L'impegno politico da parte dei cattolici è, di conseguenza, volto a restaurare una società cristiana e uno Stato teocratico.” (E. Pace e R. Guolo, 1998: 10)

In questo senso il termine integrismo sembra essere confinato a indicare il progetto di una forte affermazione della dottrina sociale di un gruppo religioso in un contesto di avanzata secolarizzazione. Al di fuori di questo contesto, la definizione dell’integrismo finisce per essere del

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tutto analoga a quella di fondamentalismo, come appare dalla definizione di integrismo riportata in Salvadori (2000: 832):

“Il termine sta a indicare una concezione, che è dato ritrovare anzitutto nel cristianesimo,

nell'ebraismo e nell'islam, in base alla quale la religione possiede in maniera "integrale" tutti gli ele-menti per regolare la vita spirituale e materiale, in uno spirito di vincolante "ortodossia". In conse-guenza l'integralismo è decisamente contrario, oltre che al laicismo, al pluralismo e ai valori delle libertà individuali e collettive. Il termine viene sovente usato come sinonimo di "fondamentalismo", che deve il suo nome a un movimento protestante, avente il suo epicentro negli Stati Uniti, il quale rivendica il valore dell'insegnamento letterale della Bibbia quale "fondamento" della società cristiana. Ciò che dunque hanno in comune i movimenti integralisti cristiani, ebraici e musulmani è il proposito di costituire società regolate dai testi sacri come da essi interpretati. Questi movimenti - i quali sono emersi con forza a partire dagli anni Settanta del Novecento - hanno per fine una "riconquista" religiosa e politica esplicitamente diretta contro gli effetti secolarizzanti della modernizzazione.” (M. Salvadori (a cura di), 2000: 832)

In sostanza esistono molti punti di convergenza tra integrismo e fondamentalismo, tanto da far

scivolare le definizioni le une sulle altre. Conviene forse comunque riservare il termine “integrismo” alla storia del cattolicesimo o, al più, a quegli orientamenti religiosi che – in ambito pluralistico occidentale - pretendono di realizzare integralmente il proprio modello politico sociale.

Al contrario del termine integrismo, che ha – come si è visto – un’origine prevalentemente politico sociale – il termine “fondamentalismo” ha un’origine decisamente collocata in campo religioso (ma nient’affatto connessa con l’Islam). Il fondamentalismo religioso (almeno dal punto di vista terminologico) è nato negli Stati Uniti, in ambito protestante. La storia è stata raccontata con dovizia più volte.

“Il fondamentalismo nasce storicamente nel mondo protestante, come una corrente teologica che prende forma alla fine dell'Ottocento negli Stati Uniti d'America, in opposizione alle tendenze della teologia liberale che si erano manifestate già in Europa. Il contrasto verteva sul modo di interpretare la Bibbia: mentre i teologi liberali pensavano che fosse necessario utilizzare tutti gli strumenti critici delle moderne scienze umane (dalla storia alla sociologia, dalla linguistica alla filologia) per ripulire il testo sacro dalle incrostazioni mitologiche e dai condizionamenti storici che la rivelazione della Parola di Dio aveva subito, i teologi conservatori si mostravano al contrario molto preoccupati che l'apporto della scienza moderna finisse per alterare l'integrità della verità depositata nel Libro sacro. Il conflitto non rimase confinato alla discussione di un gruppo di specialisti. I teologi conservatori statunitensi presero ufficialmente posizione contro le nuove mode interpretative del testo biblico in una conferenza tenutasi a Niagara Falls nel 1895. In quella sede essi elaborarono un documento - una sorta di manifesto ideologico che costituisce l'atto ufficiale di nascita del fondamentalismo protestante - nel quale sintetizzarono i punti ritenuti inalienabili per un sapere teologico rispettoso della verità della Bibbia. I punti erano i seguenti: a) l'assoluta inerranza del Testo sacro; b) la riaffermazione della divinità di Cristo; c) il fatto che Cristo sia nato da una Vergine; d) la redenzione universale garantita dalla morte e resurrezione di Cristo; e) la resurrezione della carne e la certezza della seconda venuta di Cristo.” (E. Pace e R. Guolo, 1998: 14)

Quindi il fondamentalismo religioso sembrerebbe particolarmente interessato a mettere l’accento sull’interpretazione letterale del testo sacro e su tutte le sue conseguenze. Sulla scorta di simili considerazioni, Pace e Guolo hanno tentato una definizione di fondamentalismo (adatta per tutti i fondamentalismi di tutti i tempi e di tutte le religioni):

“Il fondamentalista, […], uniformerà il suo agire ai seguenti principi: a) principio dell’ inerranza, relativo al contenuto del Libro sacro, assunto nella sua interezza,

come una totalità di senso e di significati che non possono essere scomposti, e soprattutto che non

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possono essere interpretati liberamente dalla ragione umana, pena lo stravolgimento della verità che il Libro racchiude;

b) principio dell'astoricità della verità e del Libro che la conserva; l’astoricità significa che è preclusa alla ragione umana la possibilità di collocare il messaggio religioso in una prospettiva storica o di adattarlo alle mutate condizioni della società umana;

c) principio della superiorità della Legge divina su quella terrena, secondo cui dalle parole iscritte nel Libro sacro scaturisce un modello integrale di società perfetta, superiore a qualsiasi forma di società inventata e configurata dagli esseri umani;

d) primato del mito di fondazione: un vero e proprio mito delle origini che ha la funzione di segnalare l'assolutezza del sistema di credenza cui ogni fedele è chiamato ad aderire e il senso profondo di coesione che stringe tutti coloro che ad essa fanno riferimento (etica della fraternità).

Questi quattro elementi costituiscono i tratti distintivi del fondamentalismo e compongono una definizione compiuta del fenomeno di cui stiamo parlando.” (E. Pace, R. Guolo, 2000: 5)

Dalla definizione fornita appare chiaramente la centratura religiosa del fondamentalismo; dalla definizione non si ricava necessariamente un corpo di conseguenze di tipo politico sociale, anche se queste, a seconda delle situazioni, possono essere elaborate secondo una logica abbastanza comune e diffusa. Proseguono così i due autori esplicitandole:

“Ci sono due importanti corollari che coerentemente si ingranano con la definizione così come

l'abbiamo appena enunciata. Il primo ha a che fare con le forme della mobilitazione dei militanti. Chi è convinto che esista

una verità assoluta e che essa debba valere in ogni caso e in tutte le sfere della vita, comprese quelle sociale e politica, si sforzerà di inventare azioni di protesta e forme di lotta politica che lascino sempre intravedere i riferimenti simbolici religiosi ai quali ci si rifà. Da qui la scelta accurata di gesti esemplari o di luoghi, che suscitino forti emozioni e immediata comprensione di quello che si sta facendo. Ricorrere a simboli religiosi depositati nella memoria collettiva diventa una forma di comunicazione e la comunicazione uno strumento di lotta politica e religiosa allo stesso tempo. Gesti e luoghi caricati di volta in volta di significati nuovi o che vengono reinventati alla luce di esigenze proprie della lotta politica, soprattutto quando essa assume le forme di lotta armata clandestina. Il richiamo alla lotta armata non deve sorprendere. Essa in realtà costituisce spesso nei movimenti fondamentalisti una scelta necessaria: di fronte alla reazione del potere che si rifiuta di accettare il punto di vista fondamentalista in nome del pluralismo democratico o dell'autonomia della sfera politica o delle ragion di Stato o degli interessi del blocco sociale dominante, il ricorso alla violenza sacra appare una scelta obbligata agli occhi dei militanti.

[…] Il secondo corollario riguarda la sindrome del Nemico. I movimenti fondamentalistí sovente

interpretano un bisogno sociale emergente: quello di non perdere le proprie radici, di non smarrire l'identità collettiva minacciata da una società sempre più individualista e adagiata sul permissivismo e relativismo morali. Nel fondamentalismo si tende a imputare la responsabilità di questa deriva a un soggetto preciso, che a seconda dei casi assume volti diversi: il pluralismo democratico, il secolarismo, il comunismo, l'Occidente capitalistico, lo Stato moderno eticamente neutrale e così via. Tutte queste figure del Nemico - interno o esterno che sia (come possono essere le classi dirigenti del governo autonomo palestinese per i militanti del movimento radicale Hamas o il grande Satana - Occidente nel linguaggio del leader della rivoluzione iraniana, Khomeyni) - servono a sottolineare nell'immaginario collettivo dei militanti fondamentalisti l'idea che qualcuno manovri per strappare le radici dell'identità di un gruppo o di un intero popolo, tenti di tagliare i fili della memoria che lega gruppi umani e popoli a un'antica e superiore origine: il patto di alleanza particolare con una parola divina rivelata o con una legge sacra.” (E. Pace, R. Guolo, 2000: 6-7)

Il fondamentalismo islamico – che è quello che ci interessa più da vicino – potrebbe dunque essere considerato come una delle tante manifestazioni del più generale atteggiamento fondamentalista. Il fondamentalismo islamico tuttavia è un fenomeno assai più generale dei

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movimenti cui l’opinione pubblica ha fatto riferimento a partire dall’11 settembre. Sempre seguendo Pace e Guolo, il fondamentalismo islamico avrebbe lontanissime origini (come minimo dalla fine del Settecento) e avrebbe attraversato almeno tre fasi: la fase del “risveglio”, la fase del riformismo e la fase (attuale) del radicalismo. Il radicalismo compare sulla scena per ultimo, dopo un prolungato contatto con l’Occidente e dopo i più svariati travagliati tentativi di trasferire al mondo islamico le ricette politiche, economiche e sociali dell’Occidente.

“La rimozione dell’Islam come elemento fondativo dei nuovi Stati-nazione sorti dalla caduta dell’impero ottomano e la diffusione delle ideologie di matrice occidentale, nazionaliste o socialiste, è uno dei fattori scatenanti del radicalismo islamico. La penetrazione ideologica occidentale, unitamente al processo di secolarizzazione che investe le società musulmane, è vissuta come rottura del legame di coesione sociale che sta alla base della vita comunitaria orientata religiosamente. Il radicalismo marca continuità e rotture con le due fasi precedenti del fondamentalismo: infatti, se si ricollega al risveglio, riattualizzando in chiave mondana il messianismo islamico, e mutua dal riformismo l'attenzione al problema dello Stato, rappresenta il superamento di entrambi «modernizzando» il concetto di jihad e «islamizzando» quello di modernità. Nel radicalismo è il politico, con la sua coppia fondativa antinomica amico/nemico, che assume un posto centrale. il politico, infatti, non è percepito, come nella tradizione, come mero strumento che consente ai credenti l'adempimento degli obblighi di fede; nel radicalismo è invece lo strumento necessario che definisce l'inclusione/esclusione dallo «Stato etico», permeato di «sacralità», che il movimento intende costruire.” (E. Pace, R. Guolo, 1998: 42)

In sostanza il radicalismo politico avrebbe inteso costruire, nell’ambito più ampio della corrente del fondamentalismo islamico, una vera e propria ideologia – di carattere economico, politico e sociale - totalizzante, a rigor di logica non dissimile – se non per la specifica caratterizzazione religiosa - dai totalitarismi del XX secolo. Il radicalismo islamico non si identifica quindi esaustivamente con il fondamentalismo: sono possibili (e sono esistiti) fondamentalismi islamici non espressamente radicali. Alcuni studiosi hanno proposto di chiamare “islamismo” proprio questa nuova forma di “radicalismo politico islamico”.

Di questo parere è M. Ruthven:

“I gruppi revivalisti che spesso monopolizzano i titoli dei giornali sono moderni, e non solo nei metodi (che contemplano raffinate tecniche organizzative e l'impiego di armi da fuoco, missili e bombe), ma anche perché hanno assorbito in un discorso «tradizionale» molte idee importate dall'esterno della tradizione intellettuale islamica. Il declino delle antiche forme di spiritualità rappresentate dalle confraternite sufi che è stato accompagnato dalla trasformazione dell'islam in un'ideologia politica che utilizza alcuni simboli derivati dal repertorio storico islamico e ne esclude altri. Quest’ideologia, spesso chiamata «fondamentalismo islamico», potrebbe meglio essere definita islamismo; il suffisso latino aggiunto all'originale arabo esprime con maggiore precisione il rapporto fra una realtà preesistente (in questo caso una religione) e la sua trasformazione in ideologia politica, proprio come il comunismo ideologizza la realtà della comune, il socialismo quella della società, e il fascismo gli antichi simboli dell'autorità consolare romana. L'islamismo non è l’islam e, per quanto la linea che li separa sia spesso labile, è importante continuare a distinguerli.” (M. Ruthven, 1999: 22)

Di parere analogo è anche R. Guolo:

“Per indicare i movimenti politici musulmani di ispirazione religiosa useremo questa definizione

[movimenti islamisti] che meglio corrisponde alle caratteristiche del fenomeno. Originariamente il termine “fondamentalismo”, ora largamente usato dai media per descrivere tale realtà. Faceva riferimento ai processi socioreligiosi che si sono sviluppati in area protestante” (R. Guolo, 1994: 22)

L’accettazione di queste tesi e quindi l’uso dei termini “islamismo” e “islamista” nella lingua italiano comporta tra l’altro il superamento del vecchio significato disciplinare: l’islamista era l’esperto di islamismo, ovvero della disciplina occidentale che provvedeva a studiare le cose islamiche.

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Il primo e più caratteristico dei movimenti radicali dell’Islam è stato quello dei Fratelli Musulmani (Ikhwan al-Muslimun), costituito in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna (1906-1949). Il teorico più rappresentativo del movimento (ancor oggi il più seguito dagli attuali radicali) è Sayyid Qutb (1906-1966). A proposito di quest’ultimo, sembra che il fratello di Qutb, docente universitario, abbia avuto tra i suoi allievi Osama Bin Laden. E’ nell’ambito dei Fratelli Musulmani che – sulla scorta anche di modelli di organizzazione politica occidentali - si sono costituiti dei gruppi armati clandestini e che è stato utilizzato il terrorismo come arma politica. Di seguito viene presentato un breve profilo dei Fratelli Musulmani.

“I gruppi che beneficiano di questo ritorno a una mobilitazione politica di ispirazione religiosa

sono necessariamente quelli che già, molto prima del 1967, avevano fatto del «vero Islam» e della critica alle aperture a potenze e ideologie estranee al mondo musulmano il proprio campo d'azione. In particolare Al-Ikhwan Muslimun, i Fratelli Musulmani, gruppo storico dell'islamismo militante fondato da Hassan al-Banna nel 1928. Banna già negli anni Trenta aveva teorizzato il contenuto religioso del conflitto palestinese e definito lo scontro con i coloni ebrei e con gli inglesi come jihad, combattimento per la fede. Volontari dei Fratelli Musulmani avevano partecipato alla rivolta palestinese degli anni 1936-1939. Nel 1948 i Fratelli, fedeli a una visione dell'Islam come «Corano e spada», prendevano parte al conflitto arabo-israeliano, sotto le insegne di gruppo Jawala, nel tentativo di impedire la nascita di uno stato ebraico indipendente in Palestina. L'attività armata nella zona di Gerusalemme e gli assalti della guerriglia musulmana di Sour Bakr sono prevalentemente loro opera.

Nel 1948 i Fratelli Musulmani subiscono una forte repressione da parte del governo egiziano che, al ritorno della prima «falange» combattente dalle zone di operazione, ne farà arrestare i membri. La disfatta araba in Palestina e la nascita dello stato di Israele è imputata dai Fratelli, oltre che alla complicità delle potenze mondiali occidentali cristiane con gli ebrei, all'allontanamento dalla fede dei governanti, al tradimento dei governi arabi e alla repressione contro chi manifestava vera fede nella causa. La morte di Banna, ucciso al Cairo nel febbraio 1949 dalla polizia segreta di re Faruk, dopo che il regime aveva decretato lo scioglimento del movimento nel dicembre 1948, avviene quando l'organizzazione, forte del suo prestigio, è diffusa ormai non solo in Egitto ma anche in Siria, Palestina e Transgiordania e può contare su circa due milioni di aderenti.

I consolidati legami di Banna con il gruppo degli «Ufficiali Liberi» fanno dei Fratelli Musulmani una parte attiva della «rivoluzione del 23 luglio» con cui, nel 1952, la monarchia di Faruk viene abbattuta. Nasser stesso, celato dietro al soprannome di Abd al Qadir Zaghlul, è considerato un membro dei Fratelli. Egli è entrato in contatto con Banna nel 1944 grazie ad Anwar Sadat, suo futuro successore alla guida dell'Egitto. La rivoluzione di luglio è considerata dai Fratelli, che ne hanno costituito la base di massa, la «loro» rivoluzione. A Sayyid Qutb, ideologo guida di tutti i movimenti islamisti sunniti contemporanei, allora responsabile del settore ideologico e di propaganda dei Fratelli, Nasser offre di scrivere il programma del futuro Partito della Liberazione. L'offerta sarà però rifiutata.

La rottura tra gli «Ufficiali Liberi» e i Fratelli Musulmani avviene nell'ottobre 1954, dopo il fallito attentato di Alessandria a Nasser da parte di un membro del gruppo. L'episodio, la cui natura non è ancora stata del tutto chiarita, provoca l'arresto di migliaia di militanti, tra cui Qutb stesso, e l'esecuzione di numerosi membri dell'associazione. Il 1954 segna così l'inizio di quella repressione che caratterizzerà ciclicamente i rapporti tra la leadership degli Ufficiali e il movimento degli Ikhwan e che avrà come fine il controllo delle masse e la loro «nazionalizzazione».

La legittimazione politica che questo gruppo storico dell'islamismo ha conseguito nel tempo come sola forza di opposizione ai regimi nazionalisti, appare con forza dopo la Guerra dei Sei Giorni. Il gruppo diviene, anche in maniera drammatica e conflittuale, il riferimento imprescindibile di tutto il movimento islamista.

Sono soprattutto le opere di Qutb a esercitare una forte influenza. I testi scritti in carcere, in particolare Fi ZiIal al- qur’an, un commentario del testo sacro non comparabile ai commentari classici, che indica, tra l'altro, quali siano i caratteri principali della società islamica ideale e la sua

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organizzazione socio-politica, e gli estratti che ne derivano, raccolti nel piccolo libro di «combattimento» Ma’ alim fì al-tariq, sono considerati ancora oggi i testi icona dai movimenti islamisti. La sua impiccagione, nell'agosto del 1966, ne farà un martire (chadid), la cui figura è tuttora indicata come esempio da imitare per la nuova generazione dei militanti radicali.

Dai Fratelli Musulmani e dal loro dibattito teorico nascono, a partire dagli anni Settanta, una galassia di organizzazioni, soprattutto radicali, che costituiscono il fronte dell'islamismo militante e armato. All'interno dei Fratelli Musulmani si formano i membri dei gruppi radicali egiziani e quelli che daranno vita, nel 1985 in Sudan, al Fronte Nazionale Islamico di Tourabi e, nel 1987 a Gaza, al gruppo radicale palestinese di Hamas. (R. Guolo, 1994: 27-29)

Un altro teorico di primo piano che ha dato un notevole contributo allo sviluppo dell’islamismo è Abu al-Ala al-Mawdudi (1903-1979) di origine pakistana.

Bibliografia

1994 Guolo, Enzo Il partito di Dio, Guerini e Associati, Milano.

1998 Pace, Enzo & Guolo, Renzo I fondamentalismi, Laterza, Bari.

1997 Ruthven, M. Islam. A very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford. Tr. it.: Islam, Einaudi, Torino, 1999. 2000 M. Salvadori (a cura di)

Enciclopedia Storica, Zanichelli, Bologna.

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TERRORISMO Il termine “terrorismo” ricorre sempre più nella cronaca. Tuttavia, nonostante l’uso sempre più

diffuso, non si può dire ci sia stato un guadagno sostanziale di chiarezza. Dopo l’11 settembre 2001 il terrorismo è diventato l’incarnazione del male assoluto, tanto da giustificare l’impiego dello strumento più estremo, la guerra, per combatterlo. Spesso ora al termine terrorismo si unisce la caratterizzazione di “internazionale”, quasi come se il carattere internazionale ne facesse un fenomeno particolarmente nuovo o particolarmente virulento.

Anzitutto c’è da osservare che il terrorismo non è un fenomeno particolarmente nuovo sulla scena della politica nazionale e internazionale. E non è neppure un fenomeno secondario: “Se si escludono le guerre, non esiste altra forma di violenza politica più importante di quella che va sotto il nome di terrorismo” (L. Bonanate, 2001: 9). I primi sviluppi del terrorismo – come osserva L. Bonanate - vengono fatti risalire all’Ottocento.

“La parola terrorismo compariva per la prima volta già nel 1798 in un supplemento dei

Dictionnaire dell'Académie francaise (curiosamente, nello stesso anno il filosofo tedesco Immanuel Kant utilizzava lo stesso termine, ma con riferimento a una concezione pessimistica dei destino dell'umanità); e tuttavia essa non corrispondeva allora (facendo riferimento agli abusi dei potere rivoluzionario) all'uso che ne facciamo oggi per riferirci, in generale, all'azione di movimenti clandestini che hanno di mira solitamente il governo di uno o più Paesi, in vista dì un sovvertimento rapido e drastico dell'ordine politico e sociale - non soltanto all'interno di un certo Stato, ma anche sul piano globale.” (L. Bonanate, 2001: 9)

Il termine, che proviene indubitabilmente dal “terrore” inteso come degenerazione violenta del

potere rivoluzionario, sta a indicare, in senso assai generico, l’impiego dello strumento della violenza indiscriminata per raggiungere qualche scopo di tipo politico. In questo senso generico esso viene oggi impiegata nel linguaggio giornalistico, o nel linguaggio quotidiano.

Poiché coinvolge l’uso di certi mezzi per raggiungere dei fini che attengono alla sfera politica, il terrorismo può essere compreso nella alla sfera dell’agire razionale. Tuttavia, come ha osservato M. Wieviorka, può anche accadere che il terrorismo, da mezzo per un fine, possa diventare un fine esso stesso.

“In questo caso, la violenza rovescia i mezzi in fini, e gli attori sembrano presi in una reazione a

catena che non ha fine se non con la repressione, l’incarcerazione o la morte dei suoi protagonisti” (M. Wieviorka in Outhwaite, W. et al., 1993: 780)

Il terrorismo può essere utilizzato da molteplici attori sociali. La distinzione preliminare più utile

da farsi è quella tra terrorismo da parte dello Stato (che in tal caso dovrebbe essere definito più propriamente “terrore”, se non altro in omaggio al terrore della Rivoluzione francese) e quello contro lo Stato. Ha affermato a tal proposito M. Walzer:

“Il ricorso sistematico al terrore nei confronti di intere popolazioni è una strategia della guerra

convenzionale come pure della guerriglia, di governi ormai consolidati come pure di movimenti radicali. Il suo scopo è quello di distruggere il morale di una nazione, o di una classe, di minare la sua solidarietà; il suo metodo consiste nella uccisione a caso di gente innocente. La casualità è l'aspetto cruciale dell'attività terroristica. Se si vuole diffondere e intensificare nel tempo il sentimento della paura, non è desiderabile uccidere specifici individui identificati in qualche modo particolare con un regime, un partito, una politica. La morte deve colpire a caso singoli francesi o tedeschi, o protestanti irlandesi o ebrei, semplicemente in quanto francesi o tedeschi, protestanti o ebrei, fintanto che essi non si sentano ineluttabilmente vulnerabili e non chiedano ai propri governi di negoziare la propria sicurezza.” (M. Walzer, 1990: 263)

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Il terrorismo acquista senso soltanto e per lo più nella moderna società di massa, dotata di una opinione pubblica e di un qualche sviluppo dei mezzi di comunicazione. Al di sotto di un certo livello di sviluppo del sistema politico e dei sistemi di comunicazione il terrorismo non funziona: in tal caso si possono fare delle stragi, ma non del terrorismo, poiché, non propagandosi a livello di massa la notizia della strage e non avendo l’opinione pubblica l’autonomia di reagire, gli stessi scopi del terrorismo verrebbero meno. Questo è uno dei motivi per cui il terrorismo è comparso alla fine dell’età moderna e persiste fino a oggi per tutta l’età contemporanea.

La casistica concernente il terrore e il terrorismo è veramente assai complessa e risulta difficile procedere a una classificazione esaustiva; cercheremo, nel seguito di procedere per distinzioni successive in modo da chiarire le condizioni e la legittimità dell’uso del termine.

Il “terrore” di Stato. E’ il terrore esercitato dallo Stato sulla popolazione o su settori mirati della

popolazione. Si differenzia dalle semplici operazioni repressive in quanto mira – attraverso la casualità dell’uso della violenza – a produrre nella popolazione uno stato di paura, panico o simili, da sfruttare in termini politici.

“In termini molto generali, la differenza tra le parole "terrorismo" e "terrore" può essere riferita

al fatto che mentre il primo termine riguarda casi di aperta sfida alla legge (giusta o ingiusta che sia è irrilevante, da questo punto di vista), il secondo implica invece il ricorso a forme eccessive di applicazione della legge. Così, anche se entrambe la pratiche hanno al loro centro la stessa radice semantica, vengono normalmente utilizzate per riferirsi a tematiche completamente opposte. Parleremo allora di "regime del terrore" nel caso di quello instaurato da Pinochet nel Cile dopo il colpo di Stato del 1973; mentre parleremo di “terrorismo” nel caso della lotta intrapresa dalle Brigate Rosse contro lo Stato italiano.” (L. Bonanate, 2001: 10)

Il terrore di Stato è comunemente manifesto (tutti i cittadini possono rendersi conto di quale sia la fonte della violenza, la quale si presenta oltre tutto come legittima sul piano istituzionale). L’esempio storico tipico di questo tipo di terrore risale alla rivoluzione francese: la “legge dei sospetti” autorizzava la detenzione e la condanna di un cittadino in base a un semplice sospetto; in una situazione del genere nessuno poteva sentirsi al sicuro. Il terrore di Stato è stato utilizzato sistematicamente nei regimi totalitari.

Il terrorismo di Stato. Oltre al terrore di Stato, si sono anche presentati casi di “attività

terroristiche di Stato”, ovvero vere e proprie attività terroristiche nei confronti della popolazione (o di alcuni strati mirati della popolazione, o anche nei confronti di altri Stati) organizzate, realizzate o anche solo appoggiate da apparati segreti dello Stato o da apparati statali deviati. In casi del genere non sempre è evidente da quale fonte provenga la violenza, poiché lo Stato non può confessare pubblicamente di essere l’autore della violenza. E’ opportuno distinguere tra il terrorismo di Stato e l’assassinio politico di Stato (cfr. oltre).

Terrore e terrorismo di guerra. Casi speciali di uso del terrore e del terrorismo da parte degli

Stati si hanno nelle situazioni di guerra, nei casi assai frequenti di impiego della violenza nei confronti dei civili, abitanti di zone occupate o, dall’esterno, contro le popolazioni degli Stati nemici. Anche a questo proposito la casistica è piuttosto ampia. Come esempi tipici di atti di terrore statale in stato di guerra sono spesso citati il bombardamento di Dresda, oppure i bombardamenti di Hanoi da parte degli USA nell’ambito della guerra del Vietnam.

Il terrorismo in senso stretto. Il terrorismo in senso stretto (di origine dunque non statale o non

istituzionale) è definito dall’impiego della violenza indiscriminata da parte di individui, gruppi o organizzazioni che mirano con ciò a produrre una serie di effetti di tipo politico, spaventando la popolazione, impedendo lo svolgimento delle normali attività, imponendo certi problemi o

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messaggi politici alla ribalta dei media, costringendo le autorità legittime a provvedimenti speciali (stato d’assedio, limitazione delle libertà, ecc…). Un caso tipico può essere costituito dalle Bombe di piazza Fontana, oppure dagli attentati dei kamikaze di Hamas nei mercati o nei locali pubblici israeliani.

E’ chiaro che quanto più gli obiettivi sono indiscriminati e colpiscono a caso la popolazione civile, tanto più è grande l’effetto “terroristico”. Tuttavia spesso il terrorismo seleziona in qualche misura le proprie vittime: si possono prediligere obiettivi istituzionali (ambasciate, caserme, organi di rappresentanza, ), oppure impianti o monumenti, oppure luoghi e ritrovi pubblici, mezzi di trasporto… Quanto più le vittime sono selezionate con criteri precisi, tanto più esplicito diventa il contenuto e l’autore del messaggio, nonché il destinatario. Destinatario del messaggio possono essere spesso i governi o le istituzioni… Gli individui, gruppi o organizzazioni che adottano il terrorismo possono utilizzare anche altre forme di violenza (e sconfinare ad esempio nell’omicidio politico o nella guerriglia) o di azione politica. Spesso accade chela stessa organizzazione abbia un volto legale e un volto terroristico.

L’assassinio politico. Un caso che può essere considerato, in un certo senso, a parte è quello

dell’assassinio politico. Consiste in sostanza nell’eliminazione fisica degli avversari politici. Differisce dal terrore e dal terrorismo in quanto l’uso della violenza non è indiscriminato, bensì accuratamente mirato. Talvolta la scelta dell’obiettivo viene anche giustificata con considerazioni ideologiche, morali o religiose. L’assassinio politico ha una storia lunghissima nella filosofia della politica; nella prima età moderna ad esempio era stata elaborata una dottrina dell’assassinio politico da parte dei cosiddetti “monarcomaci”. Dai monarcomaci si è poi sviluppata la dottrina del “diritto di resistenza al tiranno” o del diritto del popolo a insorgere.

Indubbiamente non sempre l’assassinio politico viene supportato da motivazioni di diritto o motivazioni morali. Spesso il ricorso all’assassinio rappresenta una scorciatoia raccapricciante per risolvere problemi di potere. Ad esempio l’eliminazione fisica di più di mezzo milione di comunisti indonesiani nel 1965 può essere considerato come un assassinio politico di massa più che come un atto di terrorismo.

Come è intuibile esiste anche il caso dell’assassinio politico di Stato. Casi di assassinio politico di Stato si hanno quando i servizi segreti di Stati provvedono alla eliminazione fisica di leaders di paesi stranieri o di oppositori interni. Ad esempio viene spesso citato il progettato e mai realizzato assassinio di Fidel Castro da parte della CIA. Recentemente – dopo l’11 settembre – sono state tolte alla CIA le limitazioni che impedivano di procedere all’eliminazione fisica di particolari avversari. Spesso il Mossad (il servizio segreto di Israele) ha proceduto alla eliminazione fisica di avversari politici. (Si tralasciano qui ovviamente le gravissime implicazioni morali derivanti da simili pratiche dei servizi segreti di vari Stati).

E’ chiaro che l’assassinio politico è tale quando è strettamente mirato. Anche in questo caso i confini possono risultare quanto mai sfumati: mano a mano che le vittime dell’assassinio politico perdono i loro precisi connotati, ci si avvicina o alla strage (che è una forma di assassinio di massa che mira ad eliminare certi tipi di individui) o al terrorismo.

Terrorismo e guerriglia. Terrorismo non è normalmente sinonimo di guerriglia. La guerriglia o

“guerra per bande” corrisponde a una ben precisa tattica militare per mettere in grado piccole unità combattenti, di solito ben radicate tra la popolazione e nel territorio, di fronteggiare grandi eserciti organizzati. Anche la guerriglia viene adottata in caso di forte disparità di forze. Solitamente gli eserciti organizzati tendono a non riconoscere l’avversario che combatte con le tecniche della guerriglia e tendono a ridurlo al rango di delinquente o terrorista. Ad esempio, le truppe d’occupazione naziste consideravano i partigiani come criminali; d’altro canto le rappresaglie nazifasciste nei confronti della popolazione possono ben essere assimilate a forme di terrore (violenza indiscriminata e palese da parte di uno Stato nei confronti della popolazione civile).

Anche in questo caso il confine tra la guerriglia, l’omicidio politico e il terrorismo può essere non sempre ben preciso; gli stessi protagonisti possono passare facilmente dall’uno altro. Ad

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esempio, in Afghanistan c’è stata una lunga guerriglia da parte dei mujaheddin contro le truppe sovietiche; alcuni di loro poi si sono dati al terrorismo internazionale (gli attentati alle ambasciate…) e all’omicidio politico (il caso dell’attentato contro Massud è un tipico caso di omicidio politico); è possibile inoltre che alcuni dei comportamenti dei taliban nei confronti della popolazione afgana possano essere considerati come forme di terrore di Stato.

Terrorismo e insurrezione popolare. Per quanto di non sempre facile distinzione, pare opportuno

non assimilare al terrorismo le varie forme di insurrezione popolare. Le “cinque giornate di Milano” difficilmente potrebbero essere assimilate a terrorismo.

Non è facile classificare fenomeni come l’intifada palestinese (intifada vuol dire “rivolta”), ove si mescolano sicuramente genuini aspetti di insurrezione popolare con azioni di provocazione di sapore terroristico. Come è noto gli israeliani hanno considerato l’intifada come manifestazione di terrorismo.

Terrorismo e rivoluzione. E’ opportuno anche distinguere tra terrorismo e rivoluzione. Per

quanto spesso vari terroristi si siano dichiarati rivoluzionari, e per quanto alcuni rivoluzionari abbiano utilizzato la violenza terroristica, non sembra opportuno confondere sistematicamente i due fenomeni. La Rivoluzione francese non si può ridurre al Terrore. Accade spesso che nell’ambito della rivendicazione del principio di nazionalità (per ogni nazione deve corrispondere uno stato indipendente e sovrano), minoranze che intendano realizzare la loro “rivoluzione nazionale” contro i loro avversari facciano la scelta dell’uso del terrorismo o dell’assassinio politico.

Terrorismo e criminalità. I fenomeni di terrorismo possono sconfinare anche con la criminalità

organizzata. E’ noto che in una certa stagione la mafia italiana abbia organizzato attentati terroristici contro una serie di istituzioni e monumenti. In tal caso la criminalità può utilizzare il terrorismo per minacciare le forze dell’ordine, le istituzioni o lo Stato stesso, allo scopo di ampliare l’area dell’economia illegale. I trafficanti internazionali di armi o di droga possono facilmente disporre di capitali e personale per portare a termine impunemente attentati terroristici. E’ noto, oggi, come interi Stati possono essere fortemente condizionati dalle organizzazioni criminali locali (a questo proposito si comincia a parlare di “stati-mafia” o, più ampiamente di “stati-canaglia” (dall’inglese rogue state)).

Terrorismo e follia. Una ulteriore distinzione va operata tra terrorismo e atti criminali che hanno

effetti terroristici, ma che sono generati da forme di follia individuale (ad esempio, il folle armato che entra in un luogo pubblico e fa strage dei presenti). Naturalmente la linea di confine può risultare quanto mai incerta. Non sempre è possibile distinguere la componente di follia individuale da progetti politici o parapolitici più o meno coerenti.

Il terrorismo suicida. Gli ultimi sviluppi della questione palestinese, nonché i drammatici fatti

dell’11 settembre hanno portato alla ribalta un particolare aspetto del terrorismo: il terrorismo suicida. Spesso i terroristi suicidi vengono chiamati “kamikaze” (vento divino), dal nome dei piloti giapponesi che – nella seconda guerra mondiale - si gettavano con i loro aerei imbottiti di esplosivo sulle navi nemiche.

Occorre distinguere anche in questo caso questo tipo di terrorismo dal martirio o dal suicidio politico o dimostrativo.

Efficienza del terrorismo. L’atto terroristico, in rapporto ai mezzi impiegati e ai risultati ottenuti,

è piuttosto efficiente, permette cioè anche a piccole minoranze – quando non individui singoli – di ottenere un notevole impatto politico con mezzi relativamente poco costosi. Anche per questo motivo il terrorismo politico è di solito opera di individui o organizzazioni, in condizioni di minoranza, di inferiorità o di isolamento.

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“Il terrorismo colpisce un sistema politico, e i suoi effetti sono particolarmente spettacolari quando colpisce una DEMOCRAZIA. Interno o internazionale che sia, il terrorismo rompe il bilanciamento fra le tre branche dello stato (esecutivo, legislativo e giudiziario) a causa delle tensioni che provoca all'interno di ciascuna di esse. In particolare, rende difficile a ciascuna mantenere la propria autonomia. A meno che non vi sia una crisi generale dello stato, la conseguenza principale del terrorismo è quella di rafforzare il potere dell'esecutivo soprattutto a spese del sistema giudiziario, che può essere costretto a una posizione subordinata. Per questa ragione, il terrorismo è una minaccia per le democrazie… .” (M. Wieviorka in Outhwaite, W. et al., 1993: 780)

La giustificazione del terrorismo e del terrore. Il terrorismo politico è uno strumento, un mezzo per un fine. Come tale è stato usato per sostenere praticamente tutte le cause. Tra i tipi di giustificazioni: guerre di liberazione nazionali, forme di lotta contro l’ingiustizia e l’oppressione, difesa di minoranze, azioni di protesta … Una delle giustificazioni più ricorrenti sta nello “stato di necessità”: questa argomentazione suggerisce che il terrorismo sia in qualche misura lecito per contrapporsi – in mancanza di altri mezzi - a qualche situazione di ingiustizia particolarmente grave.

Il fatto è che il terrorismo politico raggiunge il suo scopo proprio in quanto colpisce casualmente alcune categorie di persone: data questa caratteristica di colpire persone che per definizione appartengono alla popolazione civile, sono scelte a caso e quindi innocenti delle colpe che vengono loro attribuite, risulta piuttosto difficile trovare delle giustificazioni morali che appaiano plausibili.

L’omicidio politico ha storicamente trovato maggiori e più sottili giustificazioni e la casistica è assai ampia. Anche in questo caso viene spesso invocato lo stato di necessità. Anche il terrore di Stato e il terrorismo di Stato sono stati spesso giustificati in nome di qualche valore supremo, in nome della necessità, o in nome della ragion di Stato. Recentemente si è affacciata alla ribalta l’idea che possa in taluni casi essere lecita anche la tortura, quando si tratti di salvare degli innocenti. Non è questo il luogo per approfondire tutti questi problemi dal punto di vista etico o dal punto di vista del diritto.

In ogni caso appare chiaro come il ricorso al terrorismo (e a tutti i suoi parenti prossimi) ha sempre l’effetto della soppressione della democrazia. Bibliografia

1998 Bonanate, Luigi La guerra, Laterza, Bari.

2001 Bonanate, Luigi Terrorismo internazionale, Giunti, Firenze.

1993 Outhwaite, W. & Bottomore, T. & Gellner, E. & Al. The Blackwell Dictionary of Twentieth Century Social Thought, Basil Blackwell, London. Tr. it.: Dizionario delle scienze sociali, in Jedlowski, Paolo (a cura di), , Il Saggiatore, Milano, 1997.

1997 Walzer, Michael Just and Unjust Wars, Basic Books, Harper Collins Publishers. Tr. it.: Guerre giuste e ingiuste. Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli, 1990.

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OSAMA BIN LADEN E AL–QUAIDA6 La biografia di Osama bin Laden è esemplare per comprendere alcuni dei più gravi problemi che

sono stati posti dall’attentato dell’11 settembre. Esemplare perché attraversa una nutrita serie di situazioni internazionali e di ideologie politico religiose che rappresentano la chiave per la comprensione di quanto accade oggi nel mondo e di quanto forse potrà accadere. E’ significativo che solo piuttosto tardi la vicenda di Osama bin Laden si incontrerà con i suoi attuali alleati e sostenitori, i talibani.

Siamo consapevoli che il riprendere la biografia di questo personaggio possa anche contribuire a una sua mitizzazione (come egli del resto ha tentato di fare piuttosto consapevolmente attraverso i sapienti interventi massmediatici); del resto, il lavoro storiografico è sempre esposto a rischi del genere, rischi che comunque si devono correre al fine di migliorare la comprensione di quanto sta avvenendo oggi. Sta al lettore avveduto utilizzare tutte le risorse della distanza critica per fare di questo personaggio, più che un eroe massmediatico, una presenza inquietante e un simbolo di tutti i gravissimi problemi la cui soluzione è una conditio sine qua non per la realizzazione di un nuovo ordine internazionale più giusto e più pacifico.

Dopo l’11 settembre sono comparse diverse biografie che, in fin dei conti, riprendono tutte le stesse notizie, con infinite variazioni sul tema. Noi ci limiteremo a comporre un collage di queste notizie e interpretazioni, avendo come fine soprattutto quello di un uso immediato in campo didattico. Spetterà agli storici andare oltre alla cronaca e alle interpretazioni immediate cui oggi siamo ineluttabilmente legati.

Un’infanzia qualunque (o quasi) Tutte le biografie concordano nel dipingere il giovane Osama come una figura qualunque che è

stata tuttavia sottoposta a un iter di formazione ideologica e politico religiosa ben precisa che lo ha trasformato da rampollo di una ricchissima famiglia saudita in un intransigente difensore dell’ortodossia politico religiosa e in un potenziale militante dell’islamismo radicale.

“Osama è uno dei 54 figli di Muhammad bin Laden, un emigrato yemenita, originario della regione

dell’Hadhramaut, di modeste origini, divenuto poi costruttore di corte e imprenditore di grido nel settore dei lavori pubblici del reame saudita. Il padre di Osama ottiene l’appalto esclusivo dei lavori di ampliamento e della gestione della Grande Moschea di La Mecca, il luogo più sacro dell’islam. Il favore dei Saud sarà ricambiato con grandi donazioni nel settore dei beni religiosi. Durante lo hajj, il pellegrinaggio a La Mecca, uno dei pilastri dell’islam, Muhammad cura e offre l’ospitalità a ulama e dirigenti di movimenti islamici di ogni parte del mondo. Alla sua morte, nel 1968, lascia un patrimonio di 11 miliardi di dollari, al valore di allora.

Osama, nato nel 1957, cresce con i suoi fratelli insieme ai rampolli dei principi sauditi. Dopo essersi formato religiosamente alla dottrina del rigido salafismo wahabita, la sua formazione ideologica avviene sotto l’influenza delle opere di Sayyd Qutb, ideologo dell’ala radicale dei Fratelli musulmani, e di quelle del professore Abdallah Azzam. L’incontro con il pensiero di Qutb, diffuso dai Fratelli musulmani fuoriusciti dall’Egitto nelle scuole coraniche e nelle università saudite, dove troveranno rifugio come docenti, avviene all’università del re ‘Abd al–‘Aziz di Gedda, dove Osama studia ingegneria. Il giovane miliardario saudita ha infatti come insegnante delle obbligatorie materie islamiche Muhammad Qutb, fratello di Sayyd, e Abdallah Azzam. Il primo è il custode dell’ideologia del fratello scomparso; il secondo, vero ideologo della futura guerriglia islamista in Afghanistan, è un palestinese di Jenin che, dopo aver combattuto nella guerra dei Sei giorni e organizzato la prima resistenza armata contro Israele, contro il parere della stessa Fratellanza, si dedica alla riflessione ideologica e all’insegnamento.

6 Questo lavoro – di scopo prettamente didattico - è costituito da una serie di appunti di lettura di alcuni testi, recentemente pubblicati sulla rivista di geopolitica Limes. Dato lo scopo non è stato possibile procedere all’unificazione dei criteri di traslitterazione dei termini di lingua araba.

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Di Qutb, che verrà impiccato nel 1966 su ordine di Nasser, dopo una lunga prigionia nel campo di detenzione di Tura, bin Laden legge in particolare “All’ombra del Corano” e “Segni di pista”, scritti che diventeranno i testi–icona di tutto il movimento islamista. Da questi testi bin Laden mutua le più importanti categorie del suo bagaglio ideologico.

Come la divisione tra islam e jahiliyya, tra regno della fede e quello dell’incredenza e dell’errore. Nel bipolarismo georeligioso qutbiano il «partito di Dio», formato dagli autentici credenti dell’islam, si oppone al «partito di Satana». Partito che assume il volto dell’Occidente, accusato di aver corrotto il mondo musulmano attraverso la penetrazione delle sue ideologie e dei suoi stili di vita; colpevole di aver dato vita alla frammentazione territoriale della umma, la comunità dei credenti musulmani, in Stati–nazione, impedendo la sua riunificazione nel segno panislamico.

Bin Laden fa propria anche l’interpretazione georeligiosa di Qutb che abbatte la distinzione, prodotta storicamente dal mondo musulmano, tra spazio islamico e non. Nella visione tradizionale la Casa dell’islam era separata dalla Casa della guerra, espressione con cui i musulmani indicavano ciò che si trovava fuori dal loro spazio e, in particolare l’Occidente giudaico–cristiano. In questa visione tradizionale il jihad era concepito solo in chiave difensiva, ovvero per la difesa del territorio quando questo era minacciato dall’espansione occidentale. Qutb rovescia questa impostazione che, a suo avviso, descrive una situazione statica e poco realistica nella società contemporanea. La dicotomia tra Casa dell’islam e Casa della guerra viene sostituita da quella tra fede ed errore. La distinzione permette di teorizzare la lotta tra i due partiti mondiali, quello di Dio e quello di Satana, dentro e fuori il territorio musulmano. La guerra per Dio diventa doppia guerra: interna ed esterna. Islam e Occidente, entrambi portatori di visioni globali, sono così destinati a combattersi su scala planetaria.

Bin Laden sposa anche la concezione qutbiana secondo cui i membri del «partito di Satana», composto da cristiani ed ebrei, pur divergendo su alcune questioni, sono unificati dall’idea di soggiogare l’islam e distruggere le avanguardie della resurrezione islamica. L’appoggio americano a Israele sarebbe la prova evidente di questa tesi.” (Guolo, 2001: 99–101)

La prima esperienza sul campo di bin Laden avvenne in Afghanistan, nel contesto della

resistenza contro l’invasione sovietica. Il legame tra il giovane bin Laden e l’Afghanistan si consolida ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan da parte dei sovietici (iniziata nel 1979 e conclusasi rovinosamente per i sovietici nel 1989), quando da vari settori del mondo islamico cominciano ad affluire in Afghanistan finanze, uomini e mezzi per sostenere i mujaheddin. E’ importante sottolineare che la resistenza contro i sovietici, invece di assumere una connotazione nazionale o al peggio nazionalista come sarebbe successo in ogni altra parte del mondo, assunse una specifica connotazione religiosa, la connotazione di un jihad. In altri termini, la resistenza contro i sovietici fu il terreno di formazione dell’islamismo radicale.

“Suo padre sostenne la guerra afghana e contribuì a finanziarla. Così, quando bin Laden decise di

parteciparvi, la sua famiglia approvò con entusiasmo. Egli inizialmente si diresse a Peshawar nel 1980, e vi incontrò i leader mujahidin, ritornando frequentemente con donazioni saudite per la causa fino al 1982, quando decise di stabilirsi a Peshawar. Prese dalla sua società di ingegneria e costruzioni pesanti l’equipaggiamento necessario per costruire strade e depositi per i mujahidin. Nel 1986, collaborò alla costruzione del complesso del tunnel di Khost, che la Cia finanziò come grande deposito di armi, fornendo assistenza e un centro medico per i mujahidin, nelle viscere di una montagna al confine col Pakistan. Per la prima volta egli fondò personalmente un campo di addestramento a Khost per afghani–arabi, che da allora in modo crescente guardarono a questo saudita dinoccolato, ricco e carismatico come al loro capo.

«Per opporsi a questi russi miscredenti, i sauditi mi hanno scelto come loro rappresentante in Afghanistan», ha detto più tardi bin Laden: «Mi sono trasferito in Pakistan nella regione al confine con l’Afghanistan. Là ho ricevuto i volontari provenienti dal regno saudita e da tutti i paesi arabi e musulmani. Ho fondato il mio primo campo quando questi volontari erano addestrati da ufficiali pakistani e americani. Le armi erano fornite dagli americani, i finanziamenti dai sauditi. Io trovavo che non fosse sufficiente per combattere in Afghanistan, ma per questo noi dovevamo combattere su tutti i fronti, quello comunista e quello dell’oppressione occidentale».

Successivamente bin Laden ha rivendicato di aver preso parte a imboscate contro truppe sovietiche, ma soprattutto ha utilizzato la sua ricchezza e le donazioni saudite per portare a termine i progetti dei mujahidin e la diffusione del wahabismo tra gli afghani.

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Dopo la morte di Azam nel 1989, egli ha assunto il comando della sua organizzazione e ha coordinato al–Qaida, ovvero «la Base», struttura militare e centro di servizi per gli afghani–arabi e le loro famiglie, anche per forgiare un’alleanza tra loro a più ampio raggio. Con l’aiuto di bin Laden, diverse migliaia di militanti arabi hanno poi stabilito basi nelle province di Kunar, Nuristan e Badakhshan, ma le loro pratiche estremiste wahabite li hanno resi invisi alla maggioranza degli afghani. Inoltre, essendosi alleati con i più estremisti tra i mujahidin di etnia pashtun filowahabiti, gli afghani–arabi si sono alienati la benevolenza dei musulmani non pashtun e degli sciiti.” (Rashid, 2001: 34–35)

La svolta della guerra del Golfo In seguito all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, scoppiò la cosiddetta

“Guerra del Golfo”, nel 1990–91. Un esercito internazionale, con comando statunitense, ma sotto l’egida dell’ONU, attaccò l’Iraq nel 1991 e lo costrinse ad abbandonare il Kuwait. In questo frangente l’Arabia Saudita fu alleata con le forze occidentali e concesse basi militari agli americani per portare la guerra contro un paese comunque islamico (l’Iraq). I Sauditi per questo vennero accusati dagli islamisti radicali che avevano partecipato al jihad contro i sovietici (tra cui bin Laden) di avere permesso la profanazione del territorio saudita, considerato terra santa.

“Nel 1990 bin Laden si disilluse a causa dei litigi interni tra mujahidin e ritornò in Arabia Saudita a

lavorare nell’impresa di famiglia. Fondò una sorta di mutua assistenza per i veterani afghano–arabi, di cui circa quattromila si erano stabiliti per proprio conto alla Mecca o a Medina, e diede denaro alle famiglie di quelli che erano rimasti uccisi. Dopo l’invasione del Kuwait ad opera dell’Iraq, fece pressione sulla famiglia reale perché organizzasse una difesa popolare del regno e costituì una forza con i veterani di guerra afghani per combattere contro l’Iraq. Tuttavia il re Fahd invitò gli americani in Arabia Saudita. Per bin Laden questo fu un grave colpo. Quando i 540 mila soldati americani cominciarono ad arrivare, bin Laden criticò apertamente la famiglia reale, facendo pressioni sull’ulema saudita affinché emettesse delle fatwa – decreti religiosi – contro i non musulmani che si sarebbero stabiliti nel paese.

L’irritazione di bin Laden aumentò quando circa 20 mila dei soldati statunitensi rimasero stanziati in Arabia Saudita, dopo la liberazione del Kuwait. Nel 1992 ebbe un incontro infuocato con il ministro dell’Interno, il principe Naif, che apostrofò come traditore dell’islam. Naif protestò davanti al re Fahd e bin Laden fu dichiarato persona non gradita. Tuttavia egli continuò ad avere i suoi alleati all’interno della famiglia reale, che disprezzavano Naif dal momento che questi manteneva rapporti sia con i servizi segreti sauditi sia con l’Isi. […] Le continue critiche di bin Laden alla famiglia reale saudita alla fine infastidirono il potere oltre ogni limite. Sicché nel 1994 i dirigenti sauditi presero la decisione senza precedenti di revocargli la cittadinanza.” (Rashid, 2001: 35–36)

L’esperienza in Sudan e in Somalia Espulso dal suo paese Osama bin Laden nel 1992 si recò in Sudan dove, sotto la guida del leader

Hassan Tourabi, si stava realizzando una repubblica islamica. Durante il suo soggiorno sudanese bin Laden, grazie alle sue finanze e ai suoi contatti, chiamò a raccolta diversi ex combattenti della guerra afghana, che erano critici nei confronti dell’intervento americano nella guerra del Golfo e che non condividevano la sudditanza dei sauditi all’aiuto militare americano.

“Bin Laden guarda con favore al tentativo di Turabi di coalizzare le forze che si erano opposte a “Desert Storm” e alla presenza americana nella terra dei Luoghi santi. Egli sa che le Conferenze popolari organizzate dal leader dei Fratelli musulmani sudanesi hanno anche l’obiettivo di creare un polo alternativo all’egemonia tradizionalista e conservatrice saudita sull’islamismo mondiale.

Intanto il Sudan, grazie alla sua presenza, diviene rifugio di migliaia di «afghani» passati per la sua «Rete». I militari di Omar al–Bashir, capo del regime, ma anche lo stesso Turabi, mostrano presto di non gradire la presenza degli jihadisti divenuti incontrollabili. L’attentato al presidente egiziano Mubarak ad Addis Abeba nel 1995, per opera di militanti della Jama’a islam–iyya con base nel Sudan, provoca forti pres-sioni internazionali su Khartoum. Cosi bin Laden deve far fuoriuscire i jihadisti dal paese nilotico. Egli

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eviterà la dispersione dei suoi seguaci più stretti, facendoli assumere nelle numerose imprese di sua proprietà disseminate in vari paesi.” (Guolo, 2001: 102–103)

“Il fronte militare contro l’America si apre nel Corno d’Africa. L’operazione Restore Hope in Somalia è

percepita dagli islamisti come ulteriore tentativo di allargare il controllo occidentale nel Golfo e come una minaccia per il confinante Sudan. Per contrastare la penetrazione americana gruppi legati a bin Laden affluiscono a Mogadiscio e, nell’ottobre 1993, sono protagonisti degli scontri armati in cui restano sul terreno 18 marines. Il colpo per l’America di Bush senior è grande. La Casa Bianca sceglie rapidamente il disimpegno mentre gli islamici celebrano la prima vittoria sul campo contro il «Grande Satana» americano. […] Negli anni successivi il cerchio su bin Laden si stringe. La cittadinanza saudita gli viene tolta nell’aprile 1994. Ma sarà l’attentato del giugno del 1996 nell’accampamento militare di Khobar, nei pressi di Dharhan, in Arabia Saudita, che provoca 19 vittime e 250 feriti tra gli americani, a costringere il Sudan, considerato ormai un santuario del terrorismo, a recidere i legami con bin Laden, al quale la Cia attribuisce la responsabilità del massacro. Turabi e Bashir congedano Osama, che trova rifugio nell’Afghanistan ormai dilaniato dalle lotte intestine tra i gruppi islamici di diversa etnia.” (Guolo, 2001: 103)

Il ritorno in Afghanistan Così Osama bin Laden con il suo potenziale economico e militare si trasferì nuovamente in

Afghanistan dove intanto infuriava la guerra civile e dove il movimento radicale dei talibani ha imbracciato le armi per creare l’Emirato islamico. Il terreno afghano servì a bin Laden per costruire una serie di campi di addestramento a cui affluirono militanti islamisti radicali da ognuna delle moltissime aree di tensione o campi di guerriglia del mondo islamico. Fornendo questo “servizio” alle guerriglie islamiche bin Laden ebbe modo di ampliare e perfezionare i suoi contatti politici e militari, fino alla creazione della “rete” internazionale conosciuta con il nome di al–Quaida.

“Nel maggio del 1996 bin Laden tornò di nuovo in Afghanistan, arrivando a Jalalabad su un jet

noleggiato con un entourage di decine di militanti arabi, guardie del corpo e membri della famiglia, incluse tre mogli e tredici figli. Qui visse sotto la protezione della Shura di Jalalabad fino alla conquista di Kabul e Jalalabad da parte dei talibani, nel settembre 1996. Nell’agosto dello stesso anno egli proclamò il suo primo jihad contro gli americani, i quali, disse, stavano occupando l’Arabia Saudita: «I muri dell’oppressione e dell’umiliazione non possono essere demoliti se non con una pioggia di proiettili». Stringendo amicizia con il mullah Omar, nel 1997 bin Laden partì per Kandahar ed entrò sotto la protezione dei talibani.

Allora la Cia organizzò una cellula speciale per monitorare le sue attività e i suoi legami con altri militanti islamici. Una relazione del Dipartimento di Stato americano dell’agosto 1996 indicava bin Laden come «uno dei più significativi sostenitori finanziari delle attività degli estremisti islamici nel mondo». La relazione sosteneva che bin Laden stava finanziando campi di addestramento per i terroristi in Somalia, Egitto, Sudan, Yemen e Afghanistan. Nell’agosto del 1996 il presidente Clinton sottoscrisse l’Atto Antiterrorismo, che consentiva agli Stati Uniti di bloccare i beni delle organizzazioni terroristiche. Questo servì dapprima a bloccare l’accesso di bin Laden al proprio patrimonio, stimato tra i 250 e i 300 milioni di dollari. Pochi mesi più tardi i servizi segreti egiziani sostennero che bin Laden stava addestrando mille militanti, una seconda generazione di afghani–arabi, al fine di provocare una rivoluzione islamica nei paesi arabi.

All’inizio del 1997 la Cia formò una squadra che giunse a Peshawar per tentare di rapire bin Laden e portarlo fuori dall’Afghanistan. Gli americani reclutarono afghani e pakistani perché li aiutassero, ma poi l’operazione fu sospesa. L’attività statunitense a Peshawar spinse bin Laden a spostarsi verso il più sicuro confine di Kandahar. Il 23 febbraio 1998, in un incontro al nuovo campo di Kandahar, tutti i gruppi associati ad al–Qa’ida sottoscrissero un manifesto sotto l’egida del Fronte internazionale islamico per il jihad contro gli ebrei e i crociati. Il manifesto sentenziava: «Per più di sette anni gli Stati Uniti hanno occupato le terre dell’islam nei suoi luoghi più sacri, la penisola arabica, depredando le sue ricchezze, dettando le proprie regole, umiliando il suo popolo, terrorizzando i vicini, e trasformando le basi americane nella penisola nell’avanguardia con cui combattere i vicini popoli musulmani».

Fu proclamata una fatwa: «L’ordine di uccidere gli americani e i loro alleati civili e militari – è un obbligo individuale per ogni singolo musulmano che possa compiere una simile azione, in qualsiasi paese sia possibile farlo». In quel momento bin Laden aveva ideato una politica che non era solo rivolta alla famiglia

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reale saudita o agli americani, ma esigeva la liberazione di tutto il Medio Oriente musulmano. Così, quando la guerra aerea americana contro l’Iraq si intensificò nel 1998, bin Laden chiamò in aiuto tutti i musulmani per «affrontare, combattere e uccidere tutti gli americani e i britannici».” (Rashid, 2001: 36–37)

Gli attentati alle ambasciate Pur risiedendo in Afghanistan, bin Laden era ormai a capo di una vasta rete internazionale e in

grado di organizzare direttamente o indirettamente interventi in ogni parte del mondo. “Tuttavia, furono i due attentati dell’agosto 1998 alle ambasciate statunitensi in Kenya e in Tanzania, in

cui perirono 220 persone, che resero bin Laden un nome familiare nel mondo musulmano e in Occidente. Appena tredici giorni più tardi, dopo aver accusato bin Laden dell’attentato, gli Stati Uniti reagirono lanciando 75 missili Cruise contro i suoi campi intorno a Khost e Jalalabad. Diversi campi che erano stati consegnati dai talibani agli afghani–arabi e ai gruppi radicali pakistani furono colpiti. Il campo di Al Badr, controllato da bin Laden, e quelli di Khalid bin Walid e Muawia, ideati dal pakistano Harakat ul Ansar, furono i principali obiettivi.

Nel novembre 1998 gli Stati Uniti offrirono una taglia di 5 milioni di dollari per chi avesse catturato bin Laden. Gli americani entrarono in agitazione quando bin Laden dichiarò che acquisire armi chimiche e nucleari da usare contro gli Usa era un obbligo per l’islam: «Sarebbe peccato per i musulmani non provare a possedere le armi che potrebbero impedire agli infedeli di infliggere un’offesa all’islam. L’ostilità nei confronti dell’America è un obbligo religioso e noi speriamo di essere per questo premiati da Dio».

Durante le settimane seguenti agli attentati in Africa, l’amministrazione Clinton demonizzò bin Laden fino al punto di incolparlo per qualsiasi atrocità fosse stata commessa, in tempi recenti, contro gli Stati Uniti nel mondo musulmano. Nella successiva incriminazione, formulata contro di lui da un tribunale di New York, egli veniva accusato dell’uccisione di 18 americani a Mogadiscio, nel 1993, in Somalia; della morte di 5 militari in un attentato a Riyadh nel 1995 e di altri 19 soldati statunitensi a Dhahran, nel 1996. Egli era sospettato anche di aver partecipato agli attentati di Aden, nel 1992, a quello al World Trade Center, nel 1993, alla preparazione di un attentato per uccidere il presidente Clinton nelle Filippine, e a un piano per far schiantare una dozzina di aerei civili americani nel 1995. Tuttavia c’era molto scetticismo, perfino tra gli esperti americani che erano stati coinvolti in molte di queste operazioni.

Ma l’amministrazione Clinton stava cercando disperatamente un diversivo essendo stata buttata nel fango dall’affare Monica Lewinsky e aveva inoltre bisogno di una spiegazione semplice per spiegare gli incomprensibili atti terroristici. Bin Laden divenne il centro di tutto ciò che fosse bollato da Washington come cospirazione globale contro gli Usa. Ma Washington non era pronta ad ammettere che il jihad islamico, con il supporto della Cia, avesse generato decine di movimenti fondamentalisti nel mondo musulmano, guidati da militanti che coltivavano risentimento non tanto nei confronti degli americani, ma dei propri regimi d’origine, corrotti e incompetenti. Già dal 1992–‘93 i leader egiziani ed algerini avevano avvertito i massimi gradi di Washington di tornare ad occuparsi diplomaticamente dell’Afghanistan, affinché fosse riportata la pace e si concludesse l’avventura degli afghani–arabi. Ma Washington ignorò questi avvertimenti così come continuò ad ignorare l’Afghanistan, nonostante la guerra civile vi si stesse intensificando.” (Rashid, 2001: 38–39)

L’avvicinamento con i talibani Bin Laden in Afghanistan fu dapprima l’organizzatore di campi di addestramento militare. Ma

poi i suoi legami con i talibani si intensificarono, fino a ottenere una posizione di grande influenza (sono noti i suoi rapporti con il mullah Omar).

“Il contatto tra i talibani e gli afghani–arabi, con la loro ideologia panislamica, fu inesistente fino alla

conquista talibana di Kabul, nel 1996. Il Pakistan fu strettamente coinvolto nella presentazione di bin Laden ai leader talibani a Kandahar, perché voleva conservare i campi di addestramento per i militanti del Kashmir, che erano allora in mano ai talibani. Così l’azione di persuasione del Pakistan e dei migliori quadri talibani, che condividevano gli ideali panislamici, e il miraggio degli aiuti finanziari di bin Laden, incoraggiarono i capi talibani a incontrarsi con lui e a restituirgli i campi di Khost.

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In parte per la sua stessa sicurezza, in parte per tenerlo sotto controllo, nel 1997 i talibani spostarono bin Laden a Kandahar. Inizialmente egli visse come ospite pagante. Costruì una casa per la famiglia del mullah Omar e fornì finanziamenti ad altri capi talibani. Egli promise inoltre di asfaltare la strada che congiungeva l’aeroporto di Kandahar con la città e di costruire moschee, scuole e dighe, ma i suoi progetti civici non partirono mai perché i suoi beni furono congelati. Mentre bin Laden viveva in grande stile in un enorme palazzo a Kandahar con famiglia, personale di servizio e «commilitoni», il comportamento arrogante degli afghani–arabi che erano arrivati insieme a lui e il loro fallimento nel realizzare almeno qualcuno dei loro progetti civici, li contrapposero alla popolazione. Gli abitanti di Kandahar videro i capi talibani come coloro che fruivano della munificenza araba al posto della popolazione.

Bin Laden si accattivò ulteriormente i favori dei capi talibani inviando, nel 1997 e nel 1998, diverse centinaia di afghani–arabi a partecipare all’offensiva dei talibani nel Nord del paese. Questi guerriglieri wahabiti aiutarono i talibani a eseguire i massacri degli sciiti hazara, nel Nord. Diverse centinaia di afghani–arabi, facenti capo al distaccamento di Rishkor, fuori Kabul, combatterono sul fronte di Kabul contro Massud. Sempre più la visione del mondo di bin Laden doveva dominare il pensiero anche dei leader anziani talibani. A questo scopo servirono anche le conversazioni notturne tra bin Laden e i capi talibani. Prima del suo arrivo la leadership talibani non era stata particolarmente avversa agli Stati Uniti o all’Occidente, ma richiedeva da tempo il riconoscimento del proprio governo. Tuttavia, dopo gli attentati in Africa, i talibani diventarono sempre più ostili nei confronti degli americani, delle Nazioni Unite, dell’Arabia Saudita e dei regimi musulmani. Le loro dichiarazioni riflettevano il tono di sfida proprio di bin Laden, e non era una caratteristica originaria talibani.” (Rashid: 2001: 39–40)

Il regime dei talibani venne riconosciuto solo da tre stati, tra cui l’Arabia Saudita.

L’atteggiamento dei sauditi fu estremamente equivoco, come risulta da questo passo: “Nel luglio 1998 il principe Turki aveva visitato Kandahar e poche settimane più tardi 400 nuovi camion

erano arrivati per i talibani a Kandahar, con ancora le targhe originali di Dubai. I sauditi diedero ai talibani anche aiuti in denaro per la conquista del Nord del paese, prevista per l’autunno. Fino agli attentati in Africa e nonostante le pressioni americane perché smettessero di appoggiare i talibani, i sauditi continuarono a finanziarli, non parlando della necessità di estradare bin Laden. La verità sul silenzio saudita era anche più complessa. I sauditi preferivano lasciare bin Laden da solo in Afghanistan perché un suo eventuale arresto e processo da parte degli americani avrebbe potuto mettere a nudo le profonde relazioni che bin Laden continuava ad avere con compiacenti membri della famiglia reale e con elementi interni ai servizi segreti sauditi, cosa che avrebbe creato profondo imbarazzo. I sauditi volevano che bin Laden fosse ucciso o preso dai talibani – non volevano che fossero gli americani a catturarlo.

Dopo gli attentati dell’agosto del 1998 in Africa, la pressione americana sui sauditi aumentò. Il principe Turki visitò ancora Kandahar, questa volta con lo scopo di convincere i talibani a consegnare bin Laden. Nei loro incontri, il mullah Omar rifiutò di farlo ed inoltre insultò il principe Turki oltraggiando la famiglia reale saudita. Lo stesso bin Laden ha descritto quei fatti: «Egli (il principe Turki, n.d.r.) chiese al mullah Omar di consegnarci all’Arabia Saudita o di espellerci dall’Afghanistan». Ma non è cosa da regime saudita andare a chiedere di consegnare bin Laden. Era come se il principe Turki fosse venuto in veste di inviato del governo americano. Furiosi per le offese ricevute dai talibani, i sauditi cessarono le relazioni diplomatiche con loro ed interruppero anche apparentemente tutti gli aiuti loro destinati, pur non ritirando il riconoscimento al governo talibani. […] A partire da quel momento bin Laden sviluppò una considerevole influenza sui talibani. […]

Quando la pressione statunitense sui talibani si intensificò, per convincerli a espellere bin Laden, i talibani dissero che era un ospite ed era contro la tradizione afghana espellere gli ospiti. Quando fu chiaro che Washington stava organizzando un altro attacco militare contro bin Laden, i talibani provarono ad aprire una trattativa con l’America: gli avrebbero fatto lasciare il paese in cambio del riconoscimento statunitense del loro governo. Così, fino all’inverno del 1998 i talibani guardarono a bin Laden come a un bene strumentale, un mezzo per contrattare attraverso il quale avrebbero potuto negoziare con gli americani.” (Rashid, 2001: 39)

L’organizzazione al–Quaida Grazie alle sue capacità economiche e ai suoi contatti internazionali, bin Laden riuscì a costruire

una vera e propria rete internazionale. La storia e la struttura di questa organizzazione è stata illustrata con estrema chiarezza da M. Allam:

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“La globalizzazione del terrorismo nasce ufficialmente nel giugno 1998 quando Osama bin Laden, in una

remota località alla frontiera tra l’Afghanistan e il Pakistan, annuncia di fronte a 150 militanti islamici provenienti da diverse parti del mondo la costituzione del Fronte internazionale islamico per la guerra santa contro gli ebrei e i crociati. Al Fronte internazionale islamico aderiscono sette gruppi jihadisti radicali, che credono cioè nella guerra santa all’America e a Israele, una guerra santa che a loro avviso legittima l’uccisione dei civili sulla base del versetto coranico «Aggredite coloro che vi aggrediscono allo stesso modo» (Sura 2, La Giovenca, versetto 194).

Tra essi spicca quello dei talibani, il movimento islamico al potere in Afghanistan che ospita e protegge bin Laden e il cui leader, il mullah Mohammad Omar autoproclamatosi «Principe dei credenti», è diventato il genero dello stesso bin Laden sposandone la figlia. E’ significativo che il massimo dirigente di uno Stato che ufficialmente si presenta come Emirato islamico dell’Afghanistan risulti sottomesso a bin Laden in seno al Fronte internazionale islamico. Si racconta che le abitazioni contigue di bin Laden e del mullah Mohammad Omar a Kandahar siano collegate da tunnel segreti e che i due uomini hanno giurato di restare uniti nella buona e nella cattiva sorte.

Il legame con il Pakistan, il potente vicino che ha creato i talibani e li ha aiutati a prendere il potere, è assicurato dalla presenza del Harakat al Ansar di Maulana Masud Azhar, un gruppo islamico che si batte per la secessione del Kashmir indiano e la sua unione al Pakistan. Aderiscono inoltre tre gruppi egiziani: la jihad islamica egiziana il cui leader, Ayman al Zawahry, è il braccio destro di bin Laden; il Gruppo islamico che fa capo allo sceicco cieco Omar Abdel Rahman arrestato negli Stati Uniti per il suo coinvolgimento nel primo attentato al World Trade Center (26 febbraio 1993, 6 morti); e l’Avanguardia della conquista diretto da Yasser al Sirri. Il matrimonio nel dicembre 2000, insolitamente trasmesso dalla televisione Al Jazirah del Qatar, del figlio di Osama bin Laden, Ahmed, con la figlia di Abu Hafs al Masfi, il numero due della jihad islamica, ha fugato le voci di contrasti tra lo stesso bin Laden e i mujahidin arabi. L’ultimo gruppo aderente al Fronte internazionale islamico è l’Esercito di Muhammad (Maometto) giordano.

In aggiunta a questi sette gruppi che condividono l’obiettivo di dar vita a un unico Stato islamico (la Umma), bin Laden è riuscito a coinvogliare all’interno della struttura militare nota come al–Qa’ida (“la base”, il cui responsabile è Mohanimed Atef) anche le organizzazioni islamiche jihadiste nazionaliste, che credono cioè che la guerra santa debba essere limitata al conseguimento dell’indipendenza e della sovranità nazionale. Tra questi gruppi figurano: - lo Hezbullah libanese dello shaikh Hassan Nasrallah; - il movimento palestinese Hamas dello shaikh Ahmad Yassin; - la jihad islamica palestinese di Ramadan Abdallah Shallah; - il gruppo pachistano Laskar–e–Taiba («battaglione della fede») che si batte per l’indipendenza del Kashmir, guidato da Maulana Al Hafez Mohammad Said; - il movimento islamico dell’Uzbekistan; - il gruppo Abu Sayyaf che si batte per l’indipendenza dell’isola di Mindanao, abitata da una maggioranza

musulmana, dalle Filippine. Con questi gruppi esistono delle intese tattiche finalizzate alla realizzazione di singole operazioni. Inoltre

l’arresto lo scorso anno di una decina di militanti algerini del Gia (Gruppo islamico armato di Antar Zouabri) negli Stati Uniti e in Europa avrebbe confermato l’esistenza di legami di collaborazione con bin Laden. E’ interessante che proprio il Gia, dopo aver sequestrato un aereo dell’Air France il 24 dicembre 1994, aveva programmato di farlo esplodere contro la Torre Eiffel. Il dirottamento si concluse invece con l’uccisione dei quattro pirati dell’aria a Marsiglia.

Questi gruppi islamici jihadisti rappresentano il primo livello della rete del terrorismo islamico globale che fa riferimento a bin Laden. Il secondo livello, di estrema importanza sul piano operativo, è formato da migliaia di guerriglieri islamici che, dopo aver fatto un periodo di addestramento ideologico e militare in Afghanistan, tornano nei rispettivi paesi e si rendono disponibili per eventuali operazioni. In gergo sono i «dormienti», militanti mimetizzati tra la gente comune e insospettabili, come probabilmente lo erano gli autori degli attentati suicidi che hanno sconvolto l’America. Si ritiene che bin Laden controlli circa 15 mila militanti sparsi in oltre una trentina di paesi tra cui gli Stati Uniti, come ormai è stato appurato.

C’è infine un terzo livello, il più occulto, formato dai servizi segreti di paesi fiancheggiatori che condividono esplicitamente o implicitamente la strategia ostile all’America e a Israele di bin Laden. E’ difficile immaginare che il successo del meticoloso e complesso lavoro di preparazione degli attentati terroristici, e del coordinamento discreto e efficiente tra i “dormienti”, all’interno degli Stati Uniti e gli orga-nizzatori all’estero, si sia potuto realizzare senza il sostegno informativo e logistico di uno Stato fiancheggiatore. I sospetti ricadono nell’ordine su:

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– l’Iraq di Saddam Hussein che da dieci anni è sottoposto ai bombardamenti americani; – i servizi segreti del Pakistan che hanno creato e portato al potere i talibani; – la fazione radicale dell’Iran che fa riferimento alla Guida spirituale, l’ayatollah Ali Khamenei, e che si serve dell’antiamericanismo per paralizzare il potere del presidente moderato l’hojattolislam Mohammad Khatami; – la vecchia guardia in Siria, in particolare i servizi segreti militari, contrari alla democratizzazione del paese e che nell’ultimo anno hanno favorito la normalizzazione dei rapporti con l’Iraq. In un contesto diverso, che non è direttamente legato all’offensiva terroristica dell’11 marzo, è da leggere

il rapporto particolare che ha unito bin Laden con l’ex capo dei servizi segreti dell’Arabia Saudita, il principe Turki al–Feisal, costretto a dimettersi il 31 agosto 2001 da re Fahd. Lo stesso principe ereditario Abdallah, noto per le sue simpatie per i radicali arabi che gli hanno giovato l’appellativo di «Principe rosso», non ha mai celato le sue critiche agli Stati Uniti. Finora ha declinato l’invito rivoltogli dal presidente George W. Bush a recarsi in visita alla Casa Bianca, in segno di critica alla politica americana in Medio Oriente. Bin Laden è riuscito a incunearsi nello scontro interno alla famiglia reale saudita ma non è chiaro quale possa essere il tipo di sostegno che possa aver avuto dalla fazione radicale.

L’artefice della «globalizzazione del terrorismo» è così diventato la copertura di una realtà complessa e mutevole come lo è quella del terrorismo internazionale, ma estremamente spietata ed efficace, come ha dimostrato il successo della più sanguinosa offensiva terroristica della storia. Anche negli attentati di New York e Washington dell’11 settembre 2001, come negli attentati alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es–Salaam (7 agosto 1998, 224 morti di cui 12 americani) e nell’attacco alla nave da guerra USS Cole nel porto di Aden (12 ottobre 2000, 39 morti), il fatto stesso che non ci sia alcuna rivendicazione credibile suona come una conferma che l’immane tragedia che ha messo in ginocchio l’America è opera di bin Laden. Al di là dell’evidente preoccupazione di non nuocere all’Afghanistan che lo ospita, bin Laden non rivendica gli attentati perché di fatto sono un’opera collettiva: «Il Fronte internazionale islamico per la guerra santa contro gli ebrei e i crociati ha lanciato un appello per la liberazione dei luoghi sacri di La Mecca e di Medina. Se questa istigazione è considerata un crimine, ebbene lasciate che sia la storia a testimoniare che io sono un criminale. Il nostro mestiere è quello di istigare e, con la grazia di Dio, noi l’abbiamo fatto e alcune persone hanno obbedito». E’ in questi termini, che implicano un coinvolgimento determinante senza tuttavia assumersi la responsabilità diretta, che Osama bin Laden rispose nel gennaio 1999 a Time sul suo ruolo nei sanguinosi attentati contro le ambasciate americane a Nairobi e Dar es–Salaam.

[…] Dalle rivelazioni fatte dai terroristi islamici pentiti o arrestati è emersa la presenza di una struttura di

potere piramidale. Al vertice c’è Osama bin Laden, che presiede il Majlis al Shura, il Consiglio consultivo, l’equivalente del parlamento in un regime democratico. Il Majlis al Shura sovrintende a diversi Comitati, di cui i principali sono:

1) comitato degli Affari militari; 2) comitato della Fatwa (il responso giuridico che si basa sulla Sharia, la legge islamica); 3) comitato della Comunicazione; 4) comitato dei Trasferimenti (si occupa di procurare falsi passaporti, biglietti aerei e basi logistiche per i militanti). Il militante che aderisce all’organizzazione al–Qa’ida deve sottoporsi al rito della baya’a, letteralmente la

sottomissione, all’emiro (inteso come capo spirituale e politico) Osama bin Laden. E’ un impegno scritto con cui il militante giura assoluta fedeltà all’emiro, di eseguire qualsiasi suo ordine, di recepire ogni suo messaggio e di osservare le regole e il programma del jihad inteso come guerra santa islamica.

Si ritiene che complessivamente bin Laden controlli direttamente circa 15 mila militanti addestrati ideologicamente e militarmente nei suoi campi in Afghanistan.

In Afghanistan, dove risiede bin Laden, ci sarebbero circa 5 mila militanti che operano prevalentemente sul territorio del Kashmir e della Cecenia.

Solo nello Yemen, paese originario della famiglia di bin Laden, ci sarebbero 6 mila militanti di varie nazionalità: yemeniti, tunisini, algerini, libici, eritrei e libanesi. Altri 6 mila militanti sarebbero sparsi tra l’Africa, l’Europa e l’America.

Per sostenere l’ingente struttura militare, logistica e amministrativa bin Laden dispone di sei principali fonti di finanziamento:

1) il patrimonio personale stimato in circa 250–300 milioni di dollari; 2) fondi americani e sauditi originariamente destinati alla guerra di liberazione dell’Afghanistan dall’occupazione sovietica e finiti nei conti bancari di bin Laden;

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3) contributi provenienti dai gruppi islamici alleati e frutto delle loro autonome collette tra i fedeli compresa la zakat, l’elemosina legale; 4) contributi delle organizzazioni islamiche in Occidente, in particolare in Gran Bretagna e Stati Uniti. Si stima che solo in Gran Bretagna si raccolgano tra i 300 e i 400 milioni di sterline di zakat, e che buona parte di questi soldi vadano a finire ai mujahiddin, i combattenti islamici, perlopiù legati a bin Laden; 5) contributi provenienti dalle associazioni caritatevoli islamiche nei paesi arabi del Golfo; 6) donazioni di ricchi uomini d’affari arabi del Golfo che simpatizzano con la causa di bin Laden. Questo quadro della struttura di potere di Bin Laden serve ad allontanare l’immagine mitica e

ingannevole di un leader fanatico che girovaga sui monti dell’Afghanistan protetto da un pugno di fedelissimi per il timore di essere ucciso. Bin Laden è molto più che un leader, è il catalizzatore di forze eterogenee unite nel loro antiamericanismo e antisemitismo. E’ l’artefice della prima centrale operativa del terrorismo globale.” (M. Allam 2001: 81 e segg)

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ISTITUTO PER LA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO Alessandria ha una finestra aperta sul mondo

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L’Istituto per la Cooperazione allo Sviluppo (ICS) è un consorzio costituito nel

1988 secondo la L. 49/87. Ne fanno parte la Provincia di Alessandria e i Comuni di Alessandria, Castelnuovo Scrivia, Novi Ligure, Ovada e Valenza.

È l’espressione della volontà politica delle pubbliche amministrazioni di destinare delle risorse alla cooperazione, all’educazione interculturale, all’accoglienza dei cittadini stranieri.

L’Istituto opera in due principali direzioni:

• progetta e realizza interventi di cooperazione internazionale (Afghanistan, Cambogia, Cuba, Kurdistan turco, Marocco, Nicaragua, Tunisia).

• promuove la cultura della cooperazione, della pace e dell’educazione

interculturale attraverso le campagne di informazione, la formazione degli insegnanti, i percorsi educativi e le iniziative editoriali.

L'Istituto è membro della Campagna contro le Mine – Onlus.