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www.giuristifedericiani.org Diritto Processuale Civile – Verde libro 1° e schemi vari L’AZIONE. Nozione di La parte nel dare impulso al processo esercita un potere, il cd. Potere d’azione. Azione Esistono differenti nozioni monistiche di azione: 1° teoria La prima teoria monista si rifà ad una ideologia liberale-individualista e definisce l’azione come una semplice proiezione del diritto sostanziale: ciò vuol dire che il processo non è altro che un semplice strumento di protezione di situazioni giuridiche sostanziali di cui le parti possono disporre a proprio piacimento . Secondo questa teoria esiste solo il diritto sostanziale . 2° teoria La seconda teoria monista si rifà invece ad ideologie e regimi autoritari e pertanto definisce l’azione come fenomeno giuridico rilevante solo se viene dedotto nel processo. Il processo stesso in questo caso può essere utilizzato anche contro gli obiettivi e la volontà delle parti. Secondo questa teoria esiste solo il diritto processuale. 3° teoria Al centro delle 2 teorie moniste si collocano altre teorie che cercano di costruire intermedia il diritto di azione come necessario strumento di raccordo tra fenomeno giuridico sostanziale e fenomeno giuridico processuale. Il diritto sostanziale e quello processuale sono 2 fenomeni giuridici distinti e di pari livello, l’azione è il necessario strumento di raccordo tra di loro. La teoria intermedia è quella che meglio risulta congeniale al nostro ordinamento; il nostro legislatore infatti all’articolo 24 della Costituzione, affermando che: Art. 24. Cost: Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. non solo riconosce l’autonomia del diritto di azione, ma esprime l’esigenza della normale correlazione tra diritto d’azione e posizione giuridica sostanziale riconosciuta dall’ordinamento. Caratte- Chiarito pertanto che il potere d’azione è un potere autonomo, bisogna scoprirne le ristiche del caratteristiche. A tal proposito sono 3 in dottrina le principali tendenze di fondo: potere di 1) L’azione è il potere giuridico ad ottenere un provvedimento giudiziale qualsiasi azione anche meramente processuale (cd Potere d’azione in senso astratto). In virtù di questa teoria, presupposto dell’azione è il mero interesse processuale ad agire. 2) L’azione è il potere giuridico ad ottenere un provvedimento giudiziale di merito qualsiasi , sia esso favorevole o sfavorevole. In virtù di questa teoria, presupposti dell’azione sono interesse ad agire e legittimazione ad agire: in altre parole intanto un soggetto può agire giudizialmente in quanto sia portatore di una posizione giuridica sostanziale propria e meritevole di tutela. 3) L’azione è il potere giuridico ad ottenere un provvedimento giudiziale di merito favorevole . In virtù di quest’ultima teoria presupposti dell’azione sono interesse ad agire, legittimazione ad agire ed esistenza del diritto. Conclusioni: La dottrina, nel cercare di comprendere e spiegare quale delle 3 teorie sia quella che in modo definitivo definisce il potere di azione, dimentica 2 considerazioni fondamentali: a) non esiste un concetto di potere d’azione valido in astratto e sempre, essendo esso indissolubilmente legato alla disciplina positiva esistente in concreto;

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Schemi Vari per l'esame di procedura civile

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Diritto Processuale Civile – Verde libro 1° e schemi vari

L’AZIONE. Nozione di La parte nel dare impulso al processo esercita un potere, il cd. Potere d’azione. Azione Esistono differenti nozioni monistiche di azione: 1° teoria La prima teoria monista si rifà ad una ideologia liberale-individualista e definisce

l’azione come una semplice proiezione del diritto sostanziale: ciò vuol dire che il processo non è altro che un semplice strumento di protezione di situazioni giuridiche sostanziali di cui le parti possono disporre a proprio piacimento.

Secondo questa teoria esiste solo il diritto sostanziale. 2° teoria La seconda teoria monista si rifà invece ad ideologie e regimi autoritari e pertanto

definisce l’azione come fenomeno giuridico rilevante solo se viene dedotto nel processo. Il processo stesso in questo caso può essere utilizzato anche contro gli obiettivi e la volontà delle parti. Secondo questa teoria esiste solo il diritto processuale.

3° teoria Al centro delle 2 teorie moniste si collocano altre teorie che cercano di costruire intermedia il diritto di azione come necessario strumento di raccordo tra fenomeno giuridico

sostanziale e fenomeno giuridico processuale. Il diritto sostanziale e quello processuale sono 2 fenomeni giuridici distinti e di pari livello, l’azione è il necessario strumento di raccordo tra di loro.

La teoria intermedia è quella che meglio risulta congeniale al nostro ordinamento; il nostro legislatore infatti all’articolo 24 della Costituzione, affermando che:

Art. 24. Cost: Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.

non solo riconosce l’autonomia del diritto di azione, ma esprime l’esigenza della normale correlazione tra diritto d’azione e posizione giuridica sostanziale riconosciuta dall’ordinamento.

Caratte- Chiarito pertanto che il potere d’azione è un potere autonomo, bisogna scoprirne le ristiche del caratteristiche. A tal proposito sono 3 in dottrina le principali tendenze di fondo: potere di 1) L’azione è il potere giuridico ad ottenere un provvedimento giudiziale qualsiasi azione anche meramente processuale (cd Potere d’azione in senso astratto). In virtù di questa

teoria, presupposto dell’azione è il mero interesse processuale ad agire. 2) L’azione è il potere giuridico ad ottenere un provvedimento giudiziale di merito

qualsiasi, sia esso favorevole o sfavorevole. In virtù di questa teoria, presupposti dell’azione sono interesse ad agire e legittimazione ad agire: in altre parole intanto un soggetto può agire giudizialmente in quanto sia portatore di una posizione giuridica sostanziale propria e meritevole di tutela.

3) L’azione è il potere giuridico ad ottenere un provvedimento giudiziale di merito favorevole. In virtù di quest’ultima teoria presupposti dell’azione sono interesse ad agire, legittimazione ad agire ed esistenza del diritto.

Conclusioni: La dottrina, nel cercare di comprendere e spiegare quale delle 3 teorie sia quella che in modo definitivo definisce il potere di azione, dimentica 2 considerazioni fondamentali: a) non esiste un concetto di potere d’azione valido in astratto e sempre, essendo esso

indissolubilmente legato alla disciplina positiva esistente in concreto;

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b) non è detto che nel nostro ordinamento le diverse nozioni di azione siano tra loro incompatibili, e che quindi alcune norme facciano riferimento all’azione in senso astratto e che invece altre si riferiscano ad una differente nozione di azione.

A dimostrazione di quanto detto, all’interno della disciplina positiva prevista dal codice ci sono norme che si riferiscono all’azione così come definita dalle 3 diverse teorie appena citate. La disciplina legislativa si riferisce all’azione in senso astratto quando per esempio si prevede che il soggetto che propone domanda anticipi le spese giudiziali; si riferiscono invece all’azione come strumento per ottenere provvedimenti di merito qualsiasi quando per esempio la disciplina giuridica prevede che in presenza di pronuncia di incompetenza da parte del giudice adito, ciò non comporta la chiusura del processo ma piuttosto la remissione degli atti al giudice competente; si riferiscono infine all’azione come strumento per ottenere provvedimenti di merito favorevoli alla parte quando, nel rispetto del principio secondo cui la durata del processo non deve danneggiare in alcun modo l’attore, si prevede che ad esempio il possessore in buona fede sia obbligato a restituire i frutti a partire dalla data di proposizione della domanda da parte dell’attore.

ELEMENTI DELL’AZIONE

Gli elemen- ti dell’azione Identificare un’azione è necessario per stabilire se il giudice adito abbia giurisdizione o

sia competente oppure per stabilire se c’è litispendenza, continenza, connessione, ecc. Si dice che l’azione va identificata in base agli elementi essenziali che sono: a) i soggetti b) l’oggetto o petitum c) la causa petendi

Il petitum L’oggetto o petitum si distingue in: 1) oggetto diretto o immediato: che è il provvedimento di giustizia richiesto,

e quindi esempio la sentenza di condanna o quella di accertamento o il provvedimento cautelare, ecc.

2) oggetto indiretto o mediato che è il bene della vita o l’utilità concreta che si cerca di ottenere con il provvedimento di giustizia, ad esempio il trasferimento del bene, la somma di danaro, la certezza del diritto, ecc.

La legge, imponendo che a pena di nullità si deve determinare la cosa oggetto della domanda, sembra dare maggiore importanza al cd oggetto mediato o indiretto.

La causa La causa petendi rappresenta la ragione, il motivo in base al quale si ritiene di avere petendi una determinata pretesa e quindi di poter ottenere un determinato provvedimento.

Anche qui c’è da fare un distinguo tra l’episodio di vita concreto che è alla base della domanda, da un lato e dall’altro la qualificazione giuridica che se ne può desumere; si faccia un esempio: alla base della domanda c’è il trasferimento di danaro non effettuato relativo ad un contratto di mutuo; il trasferimento di danaro è l’episodio di vita concreto, mentre il contratto di mutuo la qualificazione giuridica.

Le 2 teorie: Pertanto a proposito della individuazione della causa petendi ci sono 2 distinte teorie: 1) La prima teoria, cd individualista ritiene che per poter identificare la causa petendi è

sufficiente individuare il rapporto giuridico e quindi la normativa in base alla quale si ritiene di dover ottenere un determinato provvedimento.

2) La seconda teoria, cd della sostanziazione ritiene che per poter identificare la causa petendi sia invece necessario individuare e specificare i fatti concreti sulla cui base si agisce.

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Il problema di individuare e di identificare esattamente la causa petendi non è un esercizio meramente concettuale, in quanto da essa dipende poi la questione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato oppure quella relativa ai limiti oggettivi e soggettivi del giudicato. In virtù della teoria della sostanziazione ciò che non è allegato dalle parti non può più essere introdotto successivamente nel giudizio e quindi non può formare oggetto di decisione (si corre però il rischio che ciò che non sia allegato possa suffragare nuove ed autonome domande); in virtù della teoria della individuazione in combinato con il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, ciò che non è allegato non può essere introdotto successivamente nel giudizio e nel qual tempo non può neanche essere introdotto in altri processi.

Soluzioni: Al fine di non creare situazioni troppo rigide si è giunti alla conclusione che per quanto concerne le azioni di cognizione si utilizzano dei parametri sicuramente più elastici: pertanto, per quanto riguarda le azioni di condanna va detto che siccome ci sono processi nei quali si discute dei cd diritti autodeterminati, e cioè diritti che non possono coesistere simultaneamente più volte tra le stesse parti (i diritti assoluti, i diritti reali, ecc.) e processi nei quali si discute invece dei cd diritti eterodeterminati che pertanto possono coesistere simultaneamente più volte tra le stesse parti, solo per questi ultimi le parti devono compiutamente descrivere il fatto generatore; per quanto concerne infine le azioni costitutive va detto che siccome alla loro base ci sono fattispecie tipiche, non sarebbe sufficientemente precisata la domanda se non fosse compiutamente individuato il fatto generatore, es. si chiede l’annullamento del contratto senza specificare l’errore, la violenza o il dolo.

Per quanto infine concerne le azioni di accertamento, va detto che in questi casi ha importanza maggiore sicuramente la qualificazione giuridica più che l’episodio di vita concreta che l’ha provocata: si pensi ad es ad una nullità che può essere rilevata sia d’ufficio che essere eccepita da chiunque vi abbia interesse.

SCHEMA DELLE AZIONI AZIONI DI ACCERTAMENTO AZIONI DI COGNIZIONE AZIONI COSTITUTIVE AZIONI DI CONDANNA AZIONI ESECUTIVE AZIONI CAUTELARI

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LE AZIONI DI COGNIZIONE: 1) LE AZIONI DI ACCERTAMENTO Definizione Carattere generale dell’azione di accer- tamento Carattere tipico o generico delle azioni di accertamento La tesi di Verde

Con l’azione di accertamento la parte intende ottenere un provvedimento giurisdizionale che dia certezza in ordine al diritto o alla situazione giuridica dedotti nel processo. Basta la necessità di avere certezza per dare vita ad un processo? Alla domanda si può dare risposta diversa a seconda di come si intenda l’azione di accertamento, e cioè un mezzo di tutela a carattere generale oppure un’ azione tipica e cioè esercitatile solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Taluni giustificano il fatto che l’azione di accertamento sia un’azione generica motivando la propria opinione in base all’articolo 100 cpc il quale stabilisce che per proporre un’azione o per opporsi ad essa bisogna avervi interesse. Contro questa tesi si obietta che l’interesse è si elemento necessario, ma ciò non vuol dire che sia anche da solo sufficiente. Nel codice civile ci sono numerose norme che fanno riferimento all’azione di accertamento, in particolare in riferimento ai diritti assoluti o a quelli reali, diritti cioè che fanno riferimento a situazioni giuridiche che si svolgono fuori dalla collaborazione di altri soggetti: si pensi ad esempio alle azioni a tutela del nome o dell’immagine dell’imprenditore. Pertanto non sembra che nel ns ordinamento ci siano problemi nel riconoscere esistenza delle azioni di accertamento nel campo di questi diritti. Nell’ambito dei diritti di credito invece, poiché la situazione conforme al diritto non può che svolgersi con la collaborazione di altri soggetti, taluni ritengono che l’azione di accertamento sia ammissibile solo nei casi espressamente previsti dalla legge. Altri invece ritengono che anche in mancanza di una norma ad hoc sia ammissibile l’esistenza delle azioni di accertamento anche nell’ambito dei diritti di credito ed argomentano la tesi suddetta sulla base delle norme che per es prevedono che il riconoscimento del debito da parte dell’obbligato interrompe la prescrizione: il creditore quindi avrebbe la possibilità di far accertare il suo diritto ed in tal modo potrebbe far interrompere la prescrizione. Verde sostiene l’ammissibilità dell’azione di accertamento di carattere generale in quanto non assolutamente incompatibile col ns ordinamento. Il vero problema sta nell’individuare quali sono i requisiti che la situazione di incertezza deve avere per poter dar vita al processo. In via generale si ritiene che: 1) l’incertezza riguardi situazioni giuridiche 2) l’incertezza non sia meramente ipotetica e subiettiva A dimostrazione di quanto appena detto le norme del codice civile che ad esempio prevedono che il titolare di una servitù può agire contro chi gli contesta l’esercizio di tale diritto e può far cessare gli eventuali impedimenti o turbative. Le azioni di accertamento pertanto hanno ad oggetto situazioni giuridiche assolute.

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2) LE AZIONI DI CONDANNA Definizione L’art 282 cpc L’art 278 cpc: la sentenza di condanna generica Efficacia della sentenza di condanna generica La cd condanna in futuro

L’azione di condanna ha alla base un diritto di credito non soddisfatto, non essendo il relativo obbligo stato adempiuto dal debitore. In presenza di un’azione di condanna, il giudice dovrà: 1. in primo luogo accertare l’esistenza dei presupposti in base ai quali è stato chiesto il provvedimento e quindi 2. emanare un provvedimento che imponga al debitore di adempiere alla propria obbligazione. Da quanto detto è facile desumere che se con l’azione di accertamento colui che propone l’azione ottiene tutto quello che pretende, nel caso delle azioni di condanna, la sentenza di condanna non servirebbe a nulla se il debitore continuasse a non adempiere alla propria obbligazione. Pertanto siccome nel ns ordinamento il debitore che subisce sentenza di condanna è solo obbligato civilmente ed è assoggettato unicamente alla esecuzione forzata, la sentenza di condanna è un ordine pubblicistico rivolto non già al debitore quanto agli organi del processo esecutivo che a richiesta del creditore mettono in esecuzione la sentenza stessa. L’art 282 cpc dispone che le sentenze di condanna anche se di primo grado sono provvisoriamente esecutive tra le parti: una scelta siffatta è data dalla necessità prevista dal legislatore di evitare che l’attore venga danneggiato dalle lungaggini del processo. Il nostro ordinamento oltre alla provvisoria esecutività anche in primo grado, collega altri 2 effetti alla sentenza di condanna, e cioè: 1. la sentenza è titolo per l’iscrizione di ipoteca sui beni del debitore 2. essa trasforma le prescrizioni brevi dei diritti accertati in prescrizioni lunghe. Accanto alle sentenze di condanna vere e proprie, l’art 278 cpc prevede anche la cd Sentenza di Condanna Generica, con la quale il giudice riconosce l’AN DEBEATUR ma non il QUANTUM. Ad esempio si agisce in giudizio per ottenere la condanna dell’obbligato, ma essendo sorte nel corso del processo delle difficoltà a proposito della determinazione del QUANTUM DEBEATUR, si chiede al giudice per intanto di emanare una sentenza PARZIALE E NON DEFINITIVA sull’ AN mentre poi il processo prosegue per la determinazione del QUANTUM. Addirittura la prassi si è soffermata su questa tendenza ammettendo la possibilità che il creditore possa chiedere al giudice di emettere sentenza di condanna generica con riserva di determinare il quantum in un successivo processo. Per quanto concerne l’efficacia della sentenza prevista ex art. 278, la legge prevede espressamente che essa sia titolo per l’iscrizione giudiziale, ma tace assolutamente in relazione all’efficacia esecutiva ed all’ efficacia sulla prescrizione. a) quanto all’efficacia esecutiva, essa è sicuramente da escludere in quanto l’articolo 474 cpc prevede che i titoli esecutivi per essere tali devono rappresentare un credito certo, liquido ed esigibile, cosa che non avviene nel caso previsto ex art 274 dove il credito è si certo ma non anche liquido ed esigibile. b) quanto invece all’efficacia sulla prescrizione, la soluzione è dubbia in dottrina, mentre la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la sentenza di condanna generica trasformi le prescrizioni

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brevi dei diritti accertati in prescrizioni lunghe. Ci si è chiesti se è necessario che l’obbligo sia inadempiuto per poter proporre domanda giudiziale o se invece sia sufficiente la semplice previsione di inadempimento: la soluzione in questo caso è sicuramente favorevole alla necessità di un inadempimento, altrimenti in caso contrario si dovrebbe concludere che il nostro sistema ammette genericamente la condanna in futuro, cosa che invece la legge consente solo in casi eccezionali, come ad esempio il decreto di ingiunzione dei canoni di locazione ancora da scadere.

3) LE AZIONI COSTITUTIVE Definizione: art 2908 cc Azioni costitutive necessarie Azioni costitutive non necessarie Momento in cui si realizza la fattisp. Costitutiva effetti della sentenza Art. 2932 cc Auto-esecutività delle sentenze di costitutive

L’azione costitutiva è l’unica disciplinata espressamente dalla legge, la quale all’art 2908 c c afferma che : “nei casi previsti dalla legge l’autorità giudiziaria può modificare, costituire o estinguere rapporti giuridici”. Le azioni costitutive sono cioè azioni tipiche tali da non poter essere esercitate al di fuori dei casi stabiliti espressamente dalla legge. Il perché è semplice da intuire: si tratta di un tipo di azione che si inserisce nella sfera dell’autonomia privata del soggetto, limitandola. In pratica con l’azione costitutiva si esercita un potere o diritto potestativo in virtù del quale un soggetto è in grado di provocare effetti nella sfera di autonomia di un altro soggetto, a prescindere dalla sua collaborazione. Alla base dell’azione costitutiva pertanto vi è da un lato un potere ed una situazione giuridica attiva e dall’altro una situazione giuridica passiva che si inquadra nella categoria della soggezione. È evidente che in questi casi il legislatore ha voluto lasciare ai giudici la minore discrezionalità possibile in ordine a tale categoria di azione, prevedendo specificatamente i casi in cui essa può essere esercitata. In particolare le ipotesi previste dal legislatore sono inquadrabili in 2 distinte categorie: 1. ipotesi in cui i soggetti possono conseguire la costituzione, l’estinzione o la modificazione del rapporto o della situazione giuridica solo ed esclusivamente attraverso il processo: si pensi ad esempio all’annullamento del matrimonio. In questo caso si parla di mero potere che viene esercitato dalla parte e che finisce con l’essere assorbito nell’azione, e la sentenza che viene emanata non ha efficacia retroattiva, per cui è solo dal momento della pronuncia della sentenza che la parte che ha proposto l’azione può ottenere la costituzione, l’estinzione o la modificazione del rapporto o della situazione giuridica. Si parla in questi casi di azioni costitutive cd necessarie. 2. ipotesi in cui i soggetti possono conseguire la costituzione, l’estinzione o la modificazione del rapporto o della situazione giuridica anche fuori dal processo tramite la collaborazione degli interessati, fuori dal processo, e solo quando ciò non avvenga, si possono ottenere attraverso il provvedimento giudiziale. Nella seconda ipotesi il soggetto esercita al di fuori del processo un diritto potestativo nei confronti della controparte che subisce la costituzione o la modificazione o l’estinzione del rapporto giuridico o della situazione giuridica. Solo se la collaborazione non si verifica, il soggetto potrà ricorrere ad un provvedimento giurisdizionale. Pertanto in questa ipotesi la sentenza è meramente eventuale e legata all’esito dell’esercizio del diritto potestativo utilizzato fuori dal processo. In questo caso si parla di azioni costitutive non necessarie. Per quanto concerne il momento in cui si realizza la fattispecie costitutiva si ritiene che i mutamenti degli elementi di diritto e di fatto che si

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verificano nel corso del processo sono generalmente irrilevanti, dato che la durata del processo non deve danneggiare in alcun modo la parte che agisce, ma ciò non costituisce la regola. Per quanto concerne il momento il cui partono gli effetti della sentenza passata in giudicato, essa in genere non ha effetto retroattivo. Merita particolare importanza la disciplina prevista ex art. 2932 cc sull’ esecuzione dell’obbligo di contrarre assunto nel contratto preliminare. Quando il giudice è chiamato a decidere in ordine alla fattispecie prevista dall’art 2932 cc, emanerà una sentenza che farà le veci del contratto definitivo non concluso: in pratica essendo l’obbligo di contrarre incoercibile, il giudice non impone al debitore di contrarre, ma semplicemente disporrà gli effetti che deriverebbero dal contratto concluso; ad es nel caso di preliminare di vendita, il giudice disporrà il trasferimento del bene. Le sentenze costitutive sono auto esecutive in quanto inglobano nel provvedimento giudiziale: 1. la dichiarazione degli effetti perseguiti con la domanda introduttiva 2. la realizzazione di detti effetti.

LE CONDIZIONI DELLE AZIONI DI COGNIZIONE: 1) L’INTERESSE AD AGIRE Art 100 cpc L’Interesse.. ..nell’azione costitutiva, ..nell’azione di condanna, e nelle azioni di accertamento

L’articolo 100 cpc dispone che per poter proporre domanda in giudizio o contraddire ad essa occorre che vi sia un interesse. Pertanto non è sufficiente che la parte si dichiari titolare di una determinata situazione giuridica, ma è necessario che vi sia un ben specifico interesse. Per interesse si intende bisogno di tutela giurisdizionale conseguente alla violazione o contestazione o modificazione di un diritto sostanziale. Nelle azioni costitutive l’interesse ha un ruolo assai minimo, trattandosi di azioni tipiche espressamente previste dalla legge in determinati e specifici casi, per cui non è data al giudica molta discrezionalità nell’applicare la legge. Nelle azioni di condanna, essendo esse azioni aventi carattere generale, può sembrare che il ruolo dell’interesse sia sicuramente più ampio: a ben vedere però se si analizza la situazione tipica delle azioni di condanna, e cioè un diritto di credito non soddisfatto, le differenze tipiche tra le varie azioni finiscono con lo scomparire ed essere irrilevanti, così come l’interesse che, pur se esistente, assume sicuramente una importanza minima. Infine nelle azioni di accertamento l’interesse assume un ruolo di massima importanza, valendo a distinguere le inutili provocazioni che non hanno diritto di essere nel nostro ordinamento essendo bandite le azioni di mera iattanza da azioni fondate su interessi e situazioni meritevoli sicuramente di tutela.

2) LEGITTIMAZIONE AD AGIRE Definizione Art 81 cpc: La sostituzione processuale Art 102 cpc: litisconsorzio

Prima ancora di stabilire se l’azione proposta sia fondata o meno il giudice deve chiedersi se il provvedimento possa essere concesso a favore del richiedente e contro il convenuto. Se a questa risposta il giudice si dà risposta positiva, allora vuol dire che la domanda è stata proposta da persona legittimata ad agire e quindi attivamente contro persona legittimata passivamente. La legittimazione ad agire è pertanto la coincidenza tra chi propone la domanda in nome proprio e colui che nella domanda è affermato come titolare del diritto, mentre la legittimazione passiva è la coincidenza tra colui contro il quale è proposta la domanda e colui che nella domanda è affermato come soggetto passivo del

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diritto o come violatore di quel diritto. Nel nostro ordinamento vale il principio della normale correlazione tra titolarità dell’azione e titolarità del diritto: ciò basta a dire che legittimato attivo è l’attore e legittimato passivo è il convenuto. Particolari problemi nascono quando la legge ammette all’azione soggetti diversi dai titolari del diritto sostanziale o quando, dovendosi svolgere il processo tra più persone il giudice è chiamato a verificare se siano presenti tutti i legittimati. A tal proposito esaminiamo gli articoli 81 cpc e 102 cpc Al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge nessuno può far valere nel processo in nome proprio diritti altrui. Normalmente pertanto agisce in giudizio solo chi vuol far valere in nome proprio una situazione giuridica che ritiene essere meritevole di tutela che attiene alla propria sfera giuridica; le ipotesi in cui ciò non accade, laddove cioè si fa valere in un processo in nome proprio un diritto altrui, sono del tutto eccezionali ed esclusivamente previste dalla legge. Si parla in questi casi di Sostituzione processuale. L’art 102 cpc disciplina l’ipotesi in cui nel processo con litisconsorzi sia proposta azione solo da alcuni di essi o contro alcuni di essi. In questi i casi il giudice deve ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorzi pretermessi. Dall’art 102 si desume che il giudice non può pronunciarsi sul merito della causa se non sia stato convenuto in giudizio il destinatario del provvedimento o in caso di litisconsorzio tutti i litisconsorzi. Da tutto quanto detto si desume che il problema della legittimazione coincide con quello dei destinatari del provvedimento giudiziale e non sul merito: infatti è possibile che il giudice rigetti la domanda per difetto di legittimazione attiva o passiva senza scendere nell’esame del merito.

3) POSSIBILITA’ DEL PROVVEDIMENTO ED ESTISTENZA DEL DIRITTO: Possibilità del provvedimen- to. Esistenza del diritto.

Per quanto concerne la possibilità del provvedimento, va detto che secondo la teoria dell’azione come un provvedimento di merito qualsiasi, intanto è possibile agire in giudizio in quanto il provvedimento rientri in uno dei tipi previsti dall’ordinamento, altrimenti il giudice dovrà dichiarare la improponibilità assoluta della domanda. Invece secondo la teoria dell’azione come un provvedimento di merito favorevole, il giudice, nel rigettare la domanda, dichiara inesistente l’azione. In conclusione si può dire che l’autonomia dell’azione dal diritto sostanziale è confermata dalla disciplina delle condizioni dell’azione. Infatti il giudice, prima di provvedere nel merito deve risolvere una serie di problemi che sono di carattere meramente processuale che consentono poi di passare alla trattazione del merito: le cd condizioni per la trattazione di merito. Allorquando il giudice rigetti la domanda perché ritiene inesistenti tali condizioni, nulla esclude che le parti possano proporre nuovamente domanda appena le condizioni si siano verificate. Taluno ritiene che tra queste condizioni vi sia anche l’esistenza del diritto

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LE AZIONI ESECUTIVE Definizione Az. Esecut. Giudiziale e Stragiudiziale Art 474 cpc Titolo esecut. e sentenze non passate in giudicato. Titolo esecut. e sentenze passate in giudicato o atti di auton. privata: il processo esecutivo. Opposizione alla esecuzione. Opposizione di terzo. Opposizione agli atti esecutivi

L’azione esecutiva è il necessario completamento delle azioni di condanna: infatti le sentenze di condanna offrono solo ed unicamente la possibilità di ottenere soddisfazione: in altri termini con la sentenza di condanna l’attore che è per es. creditore di una somma di danaro, non ottiene la somma che gli è stata riconosciuta. L’azione esecutiva serve quindi a tradurre in atto il comando giuridico contenuto nella sentenza di condanna. Il nostro ordinamento distingue tra azione esecutiva giudiziale ed azione esecutiva stragiudiziale: ciò vuol dire che l’azione esecutiva può essere esperita anche senza il preventivo passaggio attraverso il processo di cognizione, essendo in questo caso sufficiente e comunque presupposto indispensabile un titolo esecutivo, il quale ex art 474 cpc può essere sia giudiziale che stragiudiziale. L’art 474 cpc in tema di esecuzione forzata dispone che : “l’esecuzione forzata non può che avere luogo in base ad un titolo esecutivo per un diritto che sia certo, liquido ed esigibile”. Il titolo esecutivo ha la funzione di escludere dal processo di esecuzione ogni tipo di questione che riguardi l’esistenza o il modo di essere del diritto di credito. Il titolo esecutivo è di per sé stesso riferito ad un diritto certo, liquido ed esigibile. Nel processo esecutivo perciò non si discuterà mai sull’esistenza del diritto di credito vantato dal soggetto attivo nei confronti dell’obbligato. Occorre rilevare però che il titolo esecutivo può essere costituito sia da una sentenza già passata in giudicato, dato che le parti hanno già fatto falere i propri diritti ed esercitato le proprie difese, ed in questo caso non sorgono gravi problemi, sia da una sentenza ancora impugnabile oppure da un atto di autonomia privata. Se il titolo esecutivo è costituito da una sentenza non ancora passata in giudicato, allora la legge consente alla parte esecutata di far valere le sue ragioni davanti al giudice delle impugnazioni, il quale con procedura d’urgenza può disporre la sospensione della esecuzione. Se invece il titolo esecutivo è rappresentato da un atto di autonomia privata oppure da una sentenza passata in giudicato, allora in tal caso la legge consente alla parte esecutata di proporre opposizione all’esecuzione, opposizione che rappresenta l’atto iniziale di un vero e proprio processo di cognizione. Il giudice al quale viene presentata opposizione infatti, così come avviene durante un normale processo di cognizione, trattiene la causa presso di sé solo se sia competente secondo i normali criteri di materia o valore, oppure assegna in caso contrario all’opponente un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti al giudice competente. L’opposizione di regola non sospende il processo, tranne che in 2 casi e cioè: 1. quando vi sia istanza di parte 2. l’esistenza di gravi motivi che di solito si concretano nella rilevante possibilità che l’opposizione sia accolta. Occorre precisare che il processo esecutivo non è preceduto da una fase preliminare volta alla determinazione della proprietà da parte dell’esecutato del bene o sulla titolarità dei diritti espropriati, basandosi in questo caso il processo solo su indici esteriori come per esempio il trovarsi dei beni presso il debitore. Sono questi indici puramente esterni che possono anche non corrispondere alla realtà effettiva. È per questo che se si assoggettano ad esecuzione beni sui quali terzi diversi dalle parti in giudizio vantano dei diritti, la legge consente loro di far ricorso ad un’autonoma azione di cognizione che si inserisce nel processo esecutivo e che può, se ne ricorrono i presupposti, anche sospenderlo. Si tratta della Opposizione di

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terzo alla esecuzione. Occorre poi sottolineare anche un’altra peculiarità del processo esecutivo, e cioè la cd opposizione agli atti esecutivi. Si tratta di una opposizione rivolta contro singoli atti compiuti all’interno del processo esecutivo. L’opposizione agli atti esecutivi si risolve in un mero incidente nell’ambito del processo esecutivo e come tale viene trattato ed è competente il giudice dell’esecuzione. L’opposizione in parola non sospende il processo esecutivo in quanto fa corpo con esso.

L’AZIONE CAUTELARE ED I PROCEDIMENTI SOMMARI. Definizione Come si attiva il procedimento cautelare Sequestri: giudiziario e conservativo. I provvedim. di urgenza Caratteristiche dei provvedim. cautelari. I provvedim. Sommari Art 28 statuto dei lavoratori Provved. Sommari necessari e non necessari. I provvedim. interinali

L’azione cautelare è subordinata a 2 condizioni particolari: 1. fumus boni iuris: il diritto che si vuole tutelare moltro probabilmente esiste. 2. periculum in mora: la dimostrazione che durante il tempo occorrente per ottenere un provvedimento definitivo, si possono verificare dei pregiudizi alla situazione di diritto o di fatto del soggetto interessato. Scopo dell’azione cautelare è semplicemente assicurare che la situazione rimanga nello stato in cui essa è attualmente in vista di un futuro provvedimento definitivo. Il giudice cautelare ovviamente in questo caso è chiamato ad effettuare una indagine sulla esistenza del diritto che si intende proteggere molto sommaria. Egli dovrà quindi limitarsi ad accertare che il diritto che si intende vantare ha buone possibilità di essere riconosciuto esistente da parte del giudice di cognizione e dovrà anche verificare che effettivamente esiste un pericolo che durante il processo di cognizione la situazione di fatto o di diritto possa mutare. Da quanto detto emerge che l’azione cautelare è un’azione astratta e cioè non collegata alla piena prova dell’esistenza della situazione che si vuole tutelare ed assume pertanto rilievo preminente l’interesse ad agire, e cioè il bisogno di tutela giurisdizionale conseguente alla violazione o contestazione o modificazione di un diritto sostanziale. 1. La domanda si propone con ricorso. 2. Giudice competente è quello competente per il merito se la richiesta dell’azione viene fatta prima del processo di cognizione oppure è quello investito del merito nell’ipotesi in cui la richiesta dell’azione venga fatta durante il processo di cognizione. 3. il provvedimento di rigetto prevede la condanna alle spese. 4. il provvedimento di accoglimento può essere modificabile, revocabile o reclamabile 5. in caso di richiesta ante causam è necessario iniziare il procedimento di merito entro un termine perentorio 6. il provvedimento di accoglimento perde efficacia se: il giudizio di merito non sia iniziato il giudizio di merito si estingua il giudizio di merito si conclude con una sentenza anche non ancora passata in giudicato che dichiari l’inesistenza del diritto. Tra i provvedimenti cautelari meritano particolare menzione i sequestri ed i provvedimenti d’urgenza. I sequestri si distinguono in: sequestro giudiziario è ordinato quando è controversa la proprietà o il possesso di beni ed è quindi strumentale al processo di cognizione. Esso comporta la nomina di un custode del bene controverso e la predisposizione di misure per impedire che atti materiali di disposizione pregiudichino il sequestrante. sequestro conservativo invece può essere chiesto da chi assume di essere creditore e di avere fondato motivo di perdere la garanzia del credito. Tale provvedimento è invece strumentale ad un futuro processo di esecuzione. I provvedimenti di urgenza possono essere concessi in virtù delle seguenti

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condizioni: 1. quando non è più possibile ricorso ad altri provvedimenti cautelari, e per questo sono provvedimenti sussidiari. 2. quando si abbia il fondato motivo di ritenere che per tutto il tempo del giudizio ordinario, il diritto che si volesse far valere all’interno di tale giudizio sarebbe minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile. Il legislatore ha pensato ai provvedimenti di urgenza del tutto eccezionali. Caratteristiche dei provvedimenti cautelari: cognizione superficiale e valutazione di mera probabilità attuazione di misure conservative o l’anticipazione in tutto o in parte della tutela ordinaria mancanza di autonomia dei provvedimenti cautelari dato che essi si risolvono interamente nel provvedimento in cognizione ordinaria o si estingueranno per le vicende processuali successive. Diversi dai provvedimenti cautelari sono invece i provvedimenti sommari, che sono conclusivi di un autonomo procedimento che si svolge secondo un modello semplificato al quale può e non deve necessariamente seguire un processo a cognizione piena. Un esempio esemplificativo di provvedimento sommario è dato dalla disciplina prevista ex art 28 dello statuto dei lavoratori, il quale dispone che “Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il giudice del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Entro 15 giorni, la parte interessata può proporre opposizione al decreto motivato ricorso allo stesso giudice, il quale decide con sentenza immediatamente esecutiva, altrimenti, in mancanza di opposizione, il decreto resta fermo e rimane immutabile”. In questo caso la cognizione, così come nelle ipotesi di provvedimenti cautelari, è sommaria e superficiale, ma nel caso dei provvedimenti sommari, a differenza di quelli cautelari, i primi tendono a rimanere stabili. I provvedimenti sommari si distinguono in necessari e non necessari: sono necessari quando la parte interessata deve fare ricorso alla procedura semplificata (es art. 28 statuto dei lavoratori) sono invece non necessari quando la parte interessata può scegliere tra procedura semplificata e quella ordinaria. Vanno ancora distinti dai provvedimenti cautelari i cd provvedimenti interinali che si caratterizzano per i seguenti aspetti: 1. sono emanati nel corso di un processo a cognizione piena 2. sono fondato su una cognizione che allo stato degli atti è sufficiente a far raccogliere in tutto o in parte la domanda. 3. possono essere sempre revocati se l’istruttoria porti ad una modificazione del convincimento del giudice. Esempio di provvedimenti interinali le ordinanze di pagamento di somme non contestate. Non è sempre distinguibile una cognizione allo stato degli atti ed una cognizione sommaria o superficiale.

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LA FUNZIONE GIURISDIZIONALE Appunti dal codice di procedura civile: Il giudice: Le garanzie D.lgs. 51/98 Giudici ordinari e Giudici speciali Giudice monocratico e giudice collegiale

Il codice civile al Titolo I disciplina la normativa relativa agli organi giudiziari. Al capo I dedicato al giudice ed alla sezione I dedicato alla disciplina della giurisdizione e della competenza in generale, il codice definisce la cd giurisdizione civile, la quale, salvo particolari disposizioni viene esercitata dai giudici ordinari secondo le norme previste dagli artt. ss. Giudice: è la persona fisica cui è demandata la titolarità e l'esercizio della funzione giurisdizionale. È un organo della Magistratura, che costituisce un ordine autonomo ed è pertanto completamente indipendente da ogni altro potere. Proprio per la delicatezza delle funzioni che è chiamato a svolgere è circondato da numerose garanzie: è soggetto solo alla legge [v. Cost. 101 <javascript:a(101,1)>]; la sua carriera è sottratta ad ogni interferenza del Ministro di Grazia e Giustizia e dipende dal Consiglio Superiore della Magistratura; viene nominato per concorso pubblico [v. Cost. 106 <javascript:a(106,1)>]; infine, secondo quanto previsto dalla Costituzione è inamovibile [v. Cost. 107 <javascript:a(107,1)>]. L'articolo 1, r.d. 30-1-1941, n. 12 (legge sull'ordinamento giudiziario), come modificato dall'art. 45, l. 21-11-1991, n.

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Il tribunale 374, prevedeva i seguenti giudici ordinari: giudice di pace, pretore (organi unipersonali); tribunale, Corte d'Appello e Corte di Cassazione (organi collegiali). Il d.lgs. 19-2-1998, n. 51 ha soppresso l'ufficio del pretore e, conseguentemente, modificato l'art. 1, r.d. 12/1941. Pertanto, a decorrere dal 2-6-1999, le competenze del pretore sono trasferite al tribunale ordinario che giudica in composizione monocratica [v. 50ter <javascript:a(857,3)>] o collegiale [v. 50bis <javascript:a(856,3)>]. Ai giudici ordinari si affiancano in base a speciali disposizioni di legge i giudici speciali e le sezioni specializzate. I giudici speciali [v. 37 <javascript:a(38,3)>] non fanno parte dell’autorità giudiziaria ordinaria e si caratterizzano per il fatto d’interessarsi solo di materie determinate (ad es. la materia pensionistica è devoluta alla Corte dei Conti, le controversie concernenti le acque pubbliche al Tribunale superiore delle acque pubbliche ecc.). Un’eccezione è rappresentata dai giudici amministrativi (Tribunale amministrativo regionale e Consiglio di Stato) i quali, pur non appartenendo all’autorità giudiziaria ordinaria hanno una competenza generale ma solo in materia di interessi legittimi. Si tenga presente che, in forza di quanto disposto dall’art. 102 <javascript:a(102,1)> Cost. non è possibile procedere all’istituzione di nuovi giudici speciali rispetto a quelli già esistenti. Al contrario è sempre possibile procedere all’istituzione di sezioni specializzate che, pur essendo organi degli uffici giudiziari ordinari, si caratterizzano per la specialità della composizione in quanto sono chiamati a farne parte anche soggetti non appartenenti alla magistratura, dotati di particolari conoscenze. Sono considerate sezioni specializzate: i Tribunali per i minorenni, i Tribunali regionali per le acque, le sezioni d’appello per i minorenni, le sezioni specializzate agrarie ed infine la sezione dell’appello di Roma per i reclami avverso le decisioni dei commissari liquidatori di usi civici. Mentre la ripartizione delle controversie tra i giudici speciali e quelli ordinari rappresenta una questione di giurisdizione, la ripartizione delle controversie tra sezioni specializzate e sezioni ordinarie si inserisce tra le questioni di competenza. Il giudice può essere monocratico [v. c.p.c. 50ter <javascript:a(857,3)>] ovvero collegiale [v. c.p.c. 50 bis]; ordinario [v. c.p.c. <javascript:a(1,3)>] ovvero speciale [v. c.p.c. 37 <javascript:a(38,3)>]. Per quanto concerne la distinzione tra giudice ordinario e giudice speciale, si rimanda a quanto appena detto sopra. Per quanto invece concerne la distinzione tra il giudice monocratico e quello collegiale, bisogna far riferimento alla nuova disciplina giuridica definita dagli artt. 50 bis e 50 ter . Prima di passare alla disciplina specifica bisogna definire il tribunale: Tribunale: organo giurisdizionale che ha competenza in materia civile e penale. Può giudicare col numero di 3 votanti in casi tassativamente determinati e come giudice monocratico in tutti gli altri casi. A capo del tribunale è previsto un presidente e, nei tribunali divisi in più sezioni, sono previsti anche singoli presidenti di sezione. Essi hanno funzioni di coordinamento e di organizzazione dell’ufficio giudiziario. Il d.lgs. 19-2-1998, n. 51 ha trasferito al tribunale le competenze del pretore di cui ha disposto la soppressione. Di conseguenza, il tribunale giudica sempre come organo monocratico, tranne ipotesi tassative [v. c.p.c. 50bis <javascript:a(856,3)>] in cui decide in composizione collegiale, a decorrere dal 2-6-1999. 50bis. Cause nelle quali il tribunale giudica in composizione collegiale. - Il tribunale <javascript:d(21,3)> giudica in composizione collegiale: 1) nelle cause nelle quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero, salvo che sia altrimenti disposto ; 2) nelle cause di opposizione, impugnazione, revocazione e in quelle conseguenti a

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dichiarazioni tardive di crediti di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, [al decreto legge 30 gennaio 1979, n. 26, convertito con modificazioni dalla legge 3 aprile 1979, n. 95,] e alle altre leggi speciali disciplinanti la liquidazione coatta amministrativa <javascript:d(686,3)>; 3) nelle cause devolute alle sezioni specializzate; 4) nelle cause di omologazione del concordato fallimentare <javascript:d(687,3)> e del concordato preventivo <javascript:d(688,3)>; 5) nelle cause di impugnazione delle deliberazioni dell’assemblea e del consiglio di amministrazione, nonché nelle cause di responsabilità da chiunque promosse contro gli organi amministrativi e di controllo, i direttori generali e i liquidatori delle società, delle mutue assicuratrici <javascript:d(689,3)> e società cooperative <javascript:d(690,3)>, delle associazioni in partecipazione <javascript:d(691,3)> e dei consorzi <javascript:d(692,3)>; 6) nelle cause di impugnazione dei testamenti <javascript:d(623,3)> e di riduzione per lesione di legittima; 7) nelle cause di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117 Il tribunale giudica altresì in composizione collegiale nei procedimenti in camera di consiglio <javascript:d(86,3)> disciplinati dagli articoli 737 <javascript:a(747,3)> e seguenti, salvo che sia altrimenti disposto. 50ter. Cause nelle quali il tribunale giudica in composizione monocratica. - Fuori dei casi previsti dall’articolo 50bis <javascript:a(856,3)>, il tribunale giudica in composizione monocratica (2) <javascript:n(2974,3)>. L'articolo 50ter, anch'esso introdotto dall'art. 56 d.lgs. 51/1998, ribadisce la natura normalmente monocratica del tribunale, fissando all'art. 50bis le ipotesi in cui sopravvive la residuale competenza del Collegio. Pertanto, allorquando si parla di giudice unico, occorre fare attenzione a correttamente intendere il significato che si attribuisce a tale espressione, evitando di confonderla con la diversa nozione di giudice monocratico. Infatti il Tribunale sia che decida in composizione monocratica che in veste collegiale, resta sempre giudice unico di prima istanza, dovendo l'unicità essere riferita non alla persona fisica del magistrato giudicante ma alla avvenuta istituzione di un ufficio giudiziario che ha incorporato in sé le competenze che in primo grado, un tempo, erano attribuite al soppresso pretore.

LA SUCCESSIONE A TITOLO UNIVERSALE: ART 110 CPC Art 110 cpc Persone fisiche Persone giuridiche Art 2504 cc e l’estinzione delle persone giuridiche La ratio della norma

Quando la parte viene meno per morte o per altra causa, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. Analizziamo bene la normativa: quando si parla di parte che viene meno per “morte” si parla sicuramente di parte = persona fisica e l’unica causa per la quale la parte perde la capacità giuridica e quindi la capacità di essere parte viene individuata nella morte ( anche presunta )del soggetto. Quando invece la norma si riferisce ad “altra causa”, si riferisce alle persone giuridiche ed in particolare alla loro estinzione, in seguito alla quale si apre la fase della successione a titolo universale nel processo. L’art. 2504 cc stabilisce i criteri in base ai quali la persona giuridica può considerarsi estinta e può aprirsi quindi la successione: esso infatti stabilisce che estinzione e successione si verificano solo in caso di FUSIONE mentre invece nell’ipotesi di liquidazione la società resterà in vita finchè non verrà cancellata dal registro delle imprese, dopodichè non si avrà nessun fenomeno successorio ma solo il pagamento delle quote di riparto tra i soci. La giurisprudenza inoltre ritiene che anche dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, questa è da considerarsi ancora esistente in caso di contestazioni pendenti dai parte dei creditori di essa, e che a rappresentarla in giudizio siano gli stessi liquidatori

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della società, in modo che i creditori non siano costretti a vantare i propri crediti nei confronti degli ex soci. La norma si spiega considerando che il legislatore, in tale sede, non fa altro che prendere atto che il successore universale (cioè il soggetto che acquista tutti i diritti e gli obblighi del defunto, assumendo così la qualità di erede), col subentrare nella totalità dei rapporti trasmissibili del de cuius, subentra anche nella sua posizione processuale eventualmente in atto al momento della morte: il successore avrà nel giudizio gli stessi poteri ed oneri del dante causa e non potrà proporre domande nuove o istanze istruttorie dalle quali il de cuius sia decaduto.

LA SUCCESSIONE A TITOLO PARTICOLARE NEL DIRITTO CONTROVERSO: ART 111 CPC Art 111 cpc Esempi pratici Ratio dell’art 111 cpc Divieto di alienazione di res litigiose Posizione dell’alienante Intervento del successore Estromissione del dante causa Effetti della sentenza La salvezza dell’ult comma Il diritto sostanziale Funzione dell’art 111 Teoria della irrilevanza della successione Ipotesi di successione secondo la dottrina La giurispr.

L’art 111 cpc disciplina l’ipotesi della successione a titolo particolare nel diritto controverso: “se pendente lite (durante il processo) viene trasferito il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie; se invece il trasferimento a titolo particolare si verifica a causa di morte, il processo è proseguito dal successore universale o in suo confronto. In ogni caso il successore a titolo particolare può: intervenire nel corso del giudizio essere chiamato nel giudizio infine, se le parti lo consentono, l’alienante (cioè chi trasferisce ad altri per atto tra vivi il diritto controverso a titolo particolare) o il successore universale possono essere estromessi dal giudizio. La sentenza pronunciata contro l’alienante o il successore a titolo universale, spiega sempre i suoi effetti contro il successore a titolo particolare ed è inoltre impugnabile da quest’ultimo, salvo le norme sulla b.f. in relazione ai beni mobili e quelle sulla trascrizione”. ESEMPIO 1 “trasferimento a titolo particolare per atto tra vivi”: tizio (attore) conviene caio in processo per la proprietà di un bene sul quale tizio vanta un diritto e caio invece ne è possessore. Nel corso del procedimento caio trasferisce il bene a sempronio per atto tra vivi. ESEMPIO 2 “trasferimento a titolo particolare a causa di morte - il legato”: tizio (attore) conviene caio in processo per lo stesso bene di cui nell’esempio sopra. Caio però muore. A caio succede l’erede a titolo universale, sempronio; sempre a causa di morte, caio lascia in legato il bene in contesa ad un altro erede a titolo particolare. Il processo viene proseguito dal successore a titolo universale di caio, mentre la sentenza spiega sempre i suoi effetti nei confronti dell’erede a titolo particolare. Nell’ipotesi del legato, infatti, il legatario acquista il bene ipso iure al momento della morte del de cuius, ma il giudizio prosegue da o contro il successore universale, che subentra ad una delle parti originarie venuta a mancare, acquistando (così come l’alienante), la posizione di sostituto processuale Si tratta di una disciplina piuttosto particolareggiata che trova la sua ratio in questa semplice considerazione: se il legislatore avesse disposto che al trasferimento inter vivos del diritto sostanziale conseguisse anche la successione nel processo, si sarebbe presentato l’inconveniente di mettere ciascuna delle parti in condizione di poter costringere l’altra a subire il continuo cambiamento del suo contraddittore. Per evitare ciò i romani negavano nelle more del giudizio l’alienabilità del bene controverso: era questo il cd divieto di alienazione delle res litigiose. Esclusa questa soluzione perché incompatibile con la moderna economia dei traffici, non restava che rendere

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La posizione processuale dell’ alienante e del 3° nei casi di 1 -Successione non provata 2- Successione provata e il 3° non interviene 3- Il terzo interviene nel processo Estromissione del dante causa

incompatibile con la moderna economia dei traffici, non restava che rendere praticamente inefficace la successione nel processo. Il legislatore così decise di escludere l’automatica estromissione dal giudizio dell’alienante e dell’erede, che, invece, si stabilì, proseguono il processo. L’alienante agisce o resiste in giudizio non più come legittimato ordinario bensì come sostituto processuale, continuando a stare in giudizio per un diritto di cui non è più titolare. L’intervento del successore a titolo particolare non sembra riconducibile alle ipotesi di intervento volontario [v. 105 <javascript:a(106,3)>], trattandosi di fattispecie sui generis dal momento che il terzo interviene in un giudizio in cui è titolare del diritto sostanziale controverso e al fine di condizionare una decisione che dispiegherà tutti i suoi effetti anche nei suoi confronti. Il terzo può assumere la qualità di parte anche in quanto chiamato da uno dei contendenti [v. 106 <javascript:a(107,3)>] o su ordine del giudice [v. 107 <javascript:a(108,3)>]. Se il successore a titolo particolare interviene, il dante causa può essere estromesso [v. 108 <javascript:a(109,3)>]: l’estromissione può avvenire solo a richiesta dell’alienante ed il consenso dell’avente causa e della controparte può anche essere tacito. La sentenza dispiega i suoi effetti anche nei confronti del successore a titolo particolare, indipendentemente dal fatto che egli sia intervenuto o meno nel processo. La salvezza, di cui all’inciso dell’ultimo comma della norma de qua, circoscrive l’ambito soggettivo di efficacia della sentenza ai sensi dell’art. 2909 <javascript:a(2982,2)> c.c.: se il successore a titolo particolare non intervenuto nel giudizio ha acquistato un bene mobile in buona fede [v. c.c. 1153 <javascript:a(1162,2)>] o ha trascritto l’acquisto in suo favore di un immobile anteriormente alla trascrizione della domanda giudiziale in cui si controverte [v. c.c. 2652 <javascript:a(2720,2)> e 2653 <javascript:a(2721,2)>], il suo acquisto non potrà essere pregiudicato dall’eventuale soccombenza nel processo del dante causa. Oltre all’art 111 il diritto sostanziale già ha previsto norme che riconoscono la prevalenza della posizione del titolare del diritto rispetto alla controparte o al 3° che eventualmente gli succeda (si vedano ad esempio le azioni di rivendicazione) L’art 111 serve solo ad evitare che la parte vittoriosa debba poi nuovamente rivolgersi al giudice per far valere il suo diritto nei confronti del 3° successore a titolo particolare che abbia acquistato pendente lite: e questo lo si evince laddove l’articolo stesso dispone che gli effetti della sentenza emanata tra le parti originarie fa stato anche nei confronti del 3° successore a titolo particolare: infatti l’art in parola equipara il 3° che acquisti pendente lite alla parte originaria, estendendo al primo gli effetti della sentenza. In altre parole pur se sul piano sostanziale l’atto di disposizione produce cmq i suoi effetti, ciò non incide assolutamente sullo svolgimento del processo in corso e quindi il giudice dovrà decidere come se l’alienazione non fosse mai avvenuta, con l’aggiunta del fatto che, per mezzo di un meccanismo processuale, gli effetti della sentenza vengono prodotti anche nei confronti del successore. Il ns ordinamento pertanto segue il principio della irrilevanza della successione. Dalla teoria della irrilevanza della successione derivano le seguenti conseguenze: il dante causa del 3° (caio) sta in giudizio in base alla sua legittimazione originaria e non è un vero e proprio sostituto processuale il dante causa può proporre le eccezioni personali proprie che non siano venute meno a causa di successione le eccezioni opponibili al terzo

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possono essere fatte valere solo dopo averlo chiamato in causa. La sentenza spiega i suoi effetti, compreso quello esecutivo, contro il successore, anche se la parte non ne abbia fatto esplicita richiesta ed anche se il fenomeno successorio non sia stato allegato o provato nel processo. Quali sono le ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso? La dottrina prevalente ritiene che siano solo 2 i casi: 1. venga trasferita la stessa posizione che forma oggetto della controversia: es tizio rivendica la proprietà del bene nei confronti di caio e questi trasferisce la proprietà del bene a sempronio. 2. quando il processo abbia ad oggetto la pronuncia di nullità, annullamento, risoluzione ecc di un negozio con cui si sia trasferita la proprietà di un bene e nel corso del processo il bene sia trasferito ad un terzo: es tizio chiede che venga annullato il contratto col quale ha trasferito il bene a caio e questi lo trasferisce pendente lite a sempronio. È ovvio che le 2 ipotesi sono fortemente distinte in quanto: Nella prima ipotesi la parte originaria (caio) rimane nel processo per difendere un diritto che non è più suo. Nella seconda invece la parte originaria (caio) rimane in giudizio per difendere una posizione contrattuale che rimane sua anche se il diritto cui andava riferito è stato trasferito ad altri. È chiaro inoltre (secondo quanto sostiene la dottrina) che in questa seconda ipotesi non si ha una vera e propria successione nel diritto controverso e che quindi l’efficacia della sentenza nei confronti del terzo non è diretta come nel primo caso ma bensì riflessa. Coerentemente con tale impostazione alcuni autori ritengono che i soli effetti esecutivi della sentenza non ricadano sul 3° (gli altri ovviamente si) e che la salvezza di cui all’art 111 ult comma sia da riferirsi solo all’ipotesi di cui al numero 1). La giurisprudenza invece ritiene che: L’efficacia della sentenza nei confronti del 3° in ogni caso riguardi anche quella esecutiva L’art 111 si applica anche alle ipotesi in cui sul bene il dante causa abbia costituito in favore del 3° un diritto reale diverso dal diritto di proprietà, com’è il diritto di usufrutto, per esempio. Per quanto concerne la posizione processuale dell’alienante / dante causa (caio), c’è da sottolineare che: 1. se la successione non è provata o allegata il processo prosegue tra le parti originarie ed il dante causa può compiere qualsiasi atto processuale o sostanziale (esempio rinuncia, confessione, giuramento): è ovvio che il 3° al quale si estendono COMUNQUE gli effetti della sentenza emanata tra le parti, possa proporre impugnazione alla sentenza. 2. se invece la successione è provata o allegata, ma il terzo o non è chiamato in causa oppure non interviene in giudizio, la parte originaria / dante causa può compiere qualsiasi atto a rilevanza processuale, ma NON atti che importino disposizione del diritto controverso, come ad esempio la confessione o il giuramento 3. se il terzo interviene nel processo, si ha una situazione analoga a quella che avviene nel litisconsorzio necessario, per cui la rinuncia dovrà a seconda dei casi essere fatta o accettata da entrambi, dante causa e terzo, il giuramento dovrà essere deferito da entrambi, la confessione o il giuramento reso da uno solo dei 2 non vale come prova piena ma può essere valutato dal giudice liberamente. Per quanto concerne infine l’estromissione del dante causa, va detto che essa può avvenire solo se le altre parti siano espressamente d’accordo e che la sentenza non debba provvedere nel merito anche nei confronti del dante causa. Di solito avviene che l’estromissione non sia accettata quando vi sia fondato timore che il terzo non sia in grado di provvedere alle spese processuali cui eventualmente fosse

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condannato, dal momento che a seguito dell’estromissione, il dante causa perde lo stato di parte del processo ed è completamente sostituito dal successore subentrante. Va detto infine che l’art 111 che prevede che in caso di successione a titolo particolare mortis causa, il successore a titolo universale sta comunque in giudizio per il legatario, deroga alla disciplina sostanziale: infatti bisogna tener presente che: il successore a titolo universale acquista la qualità di erede e quindi subentra in tutti i rapporti del de cuius, compresi i rapporti processuali, solo accettando l’eredità. il successore a titolo particolare invece diventa tale fin dal momento della morte del de cuius. Cio’ vuol dire che nel processo il successore a titolo universale del de cuius potrebbe stare in giudizio per il legatario / successore a titolo particolare, pur non avendo ancora accettato l’eredità.

IL LITISCONSORZIO. Per litisconsorzio si intende la pluralità di parti nel processo. Esistono sostanzialmente 2 tipi di litisconsorzio, così come schematizzato di seguito: LITISC. NECESSARIO (ART 102 cpc) LITISCONSORZIO PROPRIO LITISC. FACOLTATIVO ORIGINARIO IMPROPRIO SUCCESSIVO IL LITISCONSORZIO NECESSARIO ART 102 cpc

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Art 102 cpc Motivi della necessarietà del litisconsorzio: La causa petendi Perché non il petitum La conferma normativa della teoria della causa petendi 2 situaz. di litiscon. Necessario 1)legittima- zione straordinaria 2 legittima- zione propter opportunita- tem. L’azione del danneggiato Regime giuridico delle sentenze emanate a contraddit- torio non integro La tesi di Verde Campo di esistenza del litisconsorzio necessario La disciplina giuridica

“Se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste devono agire o essere convenute nello stesso processo. Se questo è promosso solo da alcuno dei litisconsorti o contro alcuni di essi, il giudice dovrà ordinare l’integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito.” - CAUSA UNICA INSCINDIBILE CON PIU’ DI 2 PARTI - L’idea che è alla base del litisconsorzio necessario è che ci sono situazioni con pluralità di parti inscindibile e che quindi vi sia una legittimazione ad agire necessariamente congiunta determinata dalla contitolarità del rapporto sostanziale. Si pensi al caso di una comunione di beni e uno dei comunisti che chieda lo scioglimento della comunione chiamando in causa solo alcuni di essi: il giudice, dovendo necessariamente ascoltare tutti i comuisti per poter procedere, dovrà assegnare un termine perentorio per l’integrazione del contraddittorio. Da cosa è data la necessità del litisconsorzio? Opinione prevalente ritiene che la necessità del litisconsorzio sia da riferirsi alla causa petendi. In pratica è la situazione sostanziale alla base della domanda che giustifica la necessarietà del litisconsorzio. Non si può invece accettare la tesi secondo la quale alla base della necessità del litisconsorzio vi sia il petitum, ossia il risultato giuridico che si persegue in giudizio: infatti, seguendo questa tesi accadrebbe come conseguenza che l’integrità del contraddittorio sarebbe imponibile SOLO SE LE PARTI VOGLIONO una sentenza idonea a regolare il rapporto giuridico controverso. Accettando questa teoria per giunta, la sentenza emanata a contraddittorio non integro non sarebbe utile perché non regola compiutamente il rapporto giuridico esistente, ma ciò non escluderebbe che il processo possa cmq essere celebrato e che la sentenza possa cmq produrre i suoi effetti La conferma che alla base della necessarietà del litisconsorzio sia la causa petendi è data dalla disciplina giuridica, la quale dispone che qualora le parti non ottemperino all’ordine di integrazione del contraddittorio nel termine fissato dal giudice, questi dovrà emanare una sentenza meramente processuale con la quale dichiara di non poter decidere nel merito. Cd ASSOLUZIONE DALL’OSSERVANZA DEL GIUDIZIO PER CONTRADDITTORIO NON INTEGRO. Sulla base della teoria prevalente che pone come elemento che contraddistingue la necessarietà del litisconsorzio la CAUSA PETENDI, il legislatore ha individuato ipotesi in cui l’integrità del contraddittorio è presupposto per la decidibilità nel merito della causa, ed ipotesi in cui invece esiste una mera comunanza di cause. La disciplina ha riferito la necessità del litisconsorzio a situazioni che rispondono ai requisiti che ora verranno evidenziati: 1. si riconosce la legittimazione STRAORDINARIA ad agire ad un soggetto che non è parte del rapporto controverso: esempio il creditore che agisce in causa per far valere le ragioni del suo debitore nei riguardi della controparte (articolo 2900 cc Azione Surrogatoria: il creditore, al fine di tutelare le proprie ragioni, può esercitare i diritti e le azioni che spettano verso i terzi al proprio debitore e che costui trascuri di esercitare; ma, qualora intenda agire giudizialmente, deve citare anche il debitore al quale voglia surrogarsi.). Si tratta di una ipotesi di sostituzione processuale, ma bisogna anche porre l’attenzione sul fatto che nella fattispecie per decidere correttamente, devono essere chiamate in causa tutte le parti. Si tratta cioè di un litisconsorzio che nasce dal riconoscimento della legittimazione straordinaria riconosciuta ad un soggetto. 2. si riconosce la legittimazione ad agire sulla base di mere VALUTAZIONI DI OPPORTUNITÀ. Si tratta di ipotesi in cui viene riconosciuta la necessità del litisconsorzio propter opportunitatem al fine di evitare giudizi

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contraddittori. Si faccia un esempio: creditore e debitore sono in giudizio per una somma di danaro; la somma di danaro però è gravata da usufrutto. Al fine di evitare giudicati contraddittori, si impone che nel processo intervengano tutte e 3 le parti, sebbene si tratti di diritti autonomi che possono essere fatti valere in autonomi giudizi e che possono dar vita a provvedimenti autonomi. Una ipotesi di litisconsorzio necessario propter opportunitatem è rappresentato alla perfezione dalla disciplina relativa all’azione diretta del danneggiato dalla circolazione di veicoli o natanti nei confronti della compagnia assicuratrice del danneggiante: il danneggiato dalla circolazione di veicoli o natanti può agire in giudizio direttamente nei confronti della compagnia assicuratrice del danneggiante per il risarcimento dei danni subiti, senza seguire tutto l’iter previsto (danneggiato contro danneggiante / danneggiante contro assicurazione).La nuova disciplina ha peraltro elevato l’accertamento della responsabilità da sinistro da questione pregiudiziale ad accertamento incidentale. Ciò vuol dire che, dal momento che il giudice è chiamato a risolvere una controversia che è divenuta autonoma con un provvedimento decisionale autonomo, è sorta conseguentemente la necessità di chiamare in causa, oltre alle parti originarie (danneggiato e assicurazione), anche il danneggiante. Esaminate le 2 ipotesi principali di litisconsorzio necessario, verifichiamo a questi punti qual è il regime giuridico delle sentenze emanate a contraddittorio non integro. Anche in questo caso bisogna distinguere 2 ipotesi. Il contraddittorio non integro non emerge dalle allegazioni e dalle prove fornite dalle parti, e quindi non può essere rilevato dal giudice d’ufficio. La sentenza emanata sarà VALIDA, ma regolerà un diverso rapporto giuridico che sarà quello risultante dalla ricostruzione delle allegazioni delle parti; detta sentenza NON POTRA’ però PREGIUDICARE IL RAPPORTO REALMENTE ESISTENTE, e quindi potrà succedere che CIASCUNO DEI LITISCONSORTI POTRA’, senza bisogno di far caducare la sentenza emanata, PORTARE IN GIUDIZIO LA REALE SITUAZIONE. Il contraddittorio non integro emerge dalle allegazioni e dalle prove fornite dalle parti. In questa ipotesi ci sono 3 diverse tesi: 1. la sentenza che si riferisce ad una situazione in cui il contraddittorio si scopre non essere integro è INUTILITER DATA, cioè del tutto inefficace, sia nei confronti delle persone intervenute in lite, sia nei confronti dei litisconsorti pretermessi. 2. la sentenza è valida ed efficace solo nei confronti dei litisconsorti che hanno partecipato al processo. 3. l’opinione sostenuta da VERDE: la soluzione va ricercata nel diritto positivo. Finchè la sentenza non passa in giudicato, i litisconsorti pretermessi potranno sempre impugnare il provvedimento secondo quanto previsto dalla disciplina delle impugnazioni. Quando la sentenza sia passata in giudicato, essa vincolerà solo le parti presenti nel giudizio ma non sarà efficace invece nei confronti di coloro che sono rimasti al di fuori del processo. Al litisconsorte pretermesso spetteranno in questa ipotesi 2 soluzioni: o prestare adesione alla sentenza resa inter pauciores, così che essa abbia la stessa efficacia di una sentenza emessa a contraddittorio integro o opporsi alla sentenza, anche iniziando un autonomo giudizio, non essendo ostacolato in ciò dal precedente giudicato che cmq non è a lui opponibile. A questi punti chiediamoci quale sia il campo di esistenza del litisconsorzio necessario: con riguardo alle azioni costitutive: non è possibile determinare il mutamento della situazione giuridica di un soggetto senza la partecipazione di tutti gli altri soggetti coinvolti nella situazione con riguardo alle azioni di accertamento: non è possibile accertare che una situazione si sia realizzata nei

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confronti di uno o più soggetti determinati senza poterla accertare anche nei confronti degli altri soggetti partecipi della stessa situazione lo stesso dicasi con riguardo alle azioni di condanna che prevedano un “pati” o un “facere”. Quando il giudice si avvede che il contraddittorio non è integro, immediatamente ne ordina l’integrazione entro un termine perentorio da lui fissato. Se le parti non osservano tale ordine, il processo si estingue. Tuttavia l’estinzione per poter valere deve essere eccepita dalla parte interessata (art 307 cpc): cosa succederà invece nel caso in cui l’eccezione non sia fatta valere? Secondo una parte della dottrina il giudice potrà dichiarare l’estinzione del processo anche d’ufficio. Argomentando ex art 307cpc l’estinzione del processo deve essere eccepita dalla parte interessata: siccome in questo caso è ovvio che manca proprio la parte interessata, sarà il giudice a dichiarare d’ufficio l’estinzione del processo. Secondo un’altra parte della dottrina invece, il giudice deve invitare le parti presenti a concludere e poi pronuncerà una sentenza di carattere processuale di assoluzione dall’osservanza del giudizio per contraddittorio non integro.

LITISCONSORZIO FACOLTATIVO ART 103 cpc Definizione Tipi di litisc. Facoltativo …originario proprio improprio esempi: Disciplina delle prove In particolare il giuramento e la confessione

A differenza che nel litisconsorzio necessario dove c’è una causa unica inscindibile con più di 2 parti, nel litisconsorzio facoltativo invece LE CAUSE SONO MOLTEPLICI ab origine oppure diventano molteplici nel corso del processo allorquando nel procedimento regolarmente instaurato tra le parti originarie, si inserisce un terzo soggetto che vi abba interesse. Il litisconsorzio facoltativo può essere: 1. originario: vedi art 103 cpc 2. successivo: non disciplinato da nessuna norma espressa, ma dagli artt 105 e ss cpc dedicati agli interventi. Il litisconsorzio originario si ha quando il processo nasce sin dall’inizio con più di 2 parti, ma tale partecipazione plurima non è imposta dalla legge, potendo le varie azioni essere decise anche separatamente. Il legame tra le cause può essere dato: dalla connessione per oggetto (= es il risarcimento) o per titolo (= l’illecito prodotto dal sinistro) da cui dipendono, cd litisconsorzio facoltativo proprio dal fatto che la decisione dipende parzialmente o totalmente dalla risoluzione di identiche questioni, cd litisconsorzio facoltativo improprio. Si pensi a questo esempio: 2 o più persone, essendo trasportate su di un veicolo subiscono un sinistro e decidono di proporre un unico atto di citazione contro il responsabile del danno per ottenere il risarcimento: in questo caso la connessione è per il titolo, e quindi per l’illecito prodotto all’atto del sinistro. Può darsi anche che il danneggiato chieda il risarcimento non solo al responsabile del danno ma anche al proprietario del veicolo: in questo caso la connessione è data dall’oggetto, e cioè il risarcimento. LITISCONSORZIO FACOLTATIVO PROPRIO Si pensi invece a quest’altro esempio: un gruppo di lavoratori decidono di sollevare nei confronti del datore di lavoro identiche questioni, deducendo particolari inadempienze. LITISCONSORZIO FACOLTATIVO IMPROPRIO. In generale si può dire che siccome nel litisconsorzio facoltativo sia originario che successivo si trovano a convivere più cause, fornite ognuna di una propria individualità, nel caso in cui sorgano delle complicazioni riguardanti alcune di tali cause, il giudice può disporre sulla base di valutazioni di opportunità o anche su istanza di tute le parti, che le cause o alcune di esser procedano separatamente. Si pensi ad esempio ad un solo litisconsorte che rinunci all’azione, oppure ad un’eccezione di competenza sollevata solo da alcuni dei litisconsorti, oppure ancora ad un fatto interruttivo che colpisca solo una parte,

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ecc. Un’altra questione sicuramente molto importante è rappresentata dalla disciplina delle prove in caso di litisconsorzio facoltativo. Bisogna a tal proposito distinguere 2 casi: 1. ipotesi in cui i fatti da accertare sono comuni a tutti i litisconsorti: in questo caso, una volta acquisita nel processo la prova di un fatto, essa vale allo stesso modo per tutti, per cui ciascuno può attivarsi per chiederne l’ammissione . 2. ipotesi in cui i fatti da accertare riguardano solo alcune delle cause cumulate: in questo caso la prova potrà essere chiesta solo dalla parte interessata ed avrà effetto solo nei suoi confronti Una ulteriore questione riguarda infine la disciplina di quelle prove che implicano il potere di disposizione del rapporto controverso, come la confessione o il giuramento. In questi casi si ritiene che al litisconsorzio facoltativo non possono essere applicate le norme previste dal cc per il litisconsorzio necessario secondo le quali il giuramento o la confessione prestati solo da alcuni dei litisconsorti sono liberamente valutabili dal giudice, ma piuttosto vale la disciplina prevista dall’ art 1305 cc secondo il quale il giuramento prestato da un coobbligato solidale, si estende agli altri soltanto in utilibus.

CUMULO NECESSARIO Definizione Art 2378cc Disciplina normativa

Il cumulo necessario è una costruzione della dottrina che ha individuato una categoria intermedia tra litisconsorzio necessario e litisconsorzio facoltativo. Caso emblematico dei processi a cumulo necessario è rappresentato dalle impugnazioni avverso la medesima delibera assembleare (art. 2378 cc), le quali devono essere istruite congiuntamente e devono poi essere decise in un’unica sentenza. In questa ed in altre ipotesi simili sembra che il legislatore abbia pensato ad una sorta di litisconsorzio necessario successivo: in presenza di una pluralità di domande identiche, il giudice dovrà istruirle congiuntamente: in pratica il processo non può che proseguire unitariamente davanti allo stesso giudice al fine di evitare che giudici diversi diano decisioni contrastanti. Se uno o più delle parti interessate decide di rinunziare alla domanda, il processo avrà fine nei confronti di costoro se vi sarà accettazione di tutte le altre parti. Per quanto concerne la disciplina probatoria: 1. il litisconsorte può validamente giurare o confessare se può disporre da solo del diritto controverso 2. il deferimento del giuramento potrà essere effettuato a pena di inammissibilità solo da tutti o nei confronti di tutti i litisconsorti se questi siano in grado di disporre del diritto solo congiuntamente. L’eventuale giuramento prestato da uno solo dei litisconsorti è liberamente valutabile dal giudice.

GLI INTERVENTI: ART 105 E SS. Cpc Definizione A differenza che nel litisconsorzio necessario dove in pratica il processo nasce sin

dall’inizio con più di 2 parti, nel caso degli interventi, invece, SI HA UNA REALIZZAZIONE SUCCESSIVA E MERAMENTE EVENTUALE DELLA PLURALITÀ DI PARTI. Per questo motivo si può dire che gli interventi si verificano quando a processo già instaurato regolarmente tra le parti originarie, vi subentra un terzo soggetto che vi abbia interesse. Caratteristiche degli interventi pertanto sono: 1. il processo già regolarmente instaurato e pendente tra le parti originarie 2. terze persone si inseriscono o di propria iniziativa (intervento volontario) o a seguito di loro chiamata in causa (intervento coatto).

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GLI INTERVENTI VOLONTARI L’articolo 105 del cpc distingue tre diversi tipi di interventi volontari:

1. INTERVENTO PRINCIPALE 2. INTERVENTO ADESIVO AUTONOMO O LITISCONSORTILE 3. INTERVENTO ADESIVO SEMPLICE O DIPENDENTE

1) INTERVENTO PRINCIPALE Definizione L’intervento si dice principale quando un soggetto interviene nel processo già instaurato tra

altre persone PER FAR VALERE NEI CONFRONTI DI TUTTE LE PARTI UN DIRITTO RELATIVO ALL’ OGGETTO O DIPENDENTE DAL TITOLO DEDOTTO NEL MEDESIMO PROCESSO. Esempio: tizio agisce in giudizio contro caio, rivendicando la proprietà del bene X; sempronio interviene nel giudizio rivendicando a sua volte la proprietà dello stesso bene ed affermando che essa non è né di Tizio né di Caio, bensì sua. E’ chiaro che qui l’intervento non può che essere facoltativo, dato che essendo la sentenza tra tizio e caio una sentenza che produce effetti solo nei loro confronti, il terzo, Sempronio, non ne subirebbe mai pregiudizio (dalla sentenza) perché per l’appunto non gli è opponibile e potrebbe quindi a scelta o esercitare una nuova autonoma azione o proporre opposizione di terzo, anziché intervenire nel processo. In conclusione si può dire che con l’intervento principale il terzo utilizza un rimedio aggiuntivo che l’ordinamento gli riconosce prevalentemente a scopo di economia processuale. Si tratta di un rimedio facoltativo, dato che il terzo potrebbe sia agire in via autonoma che proporre opposizione contro la sentenza che gli rechi pregiudizio: un pregiudizio che non sarà giuridico ma di fatto perché la sentenza è resa inter alios ed il pregiudizio dipende esclusivamente dal nesso di pregiudizialità dipendenza tra le posizioni delle parti e quelle dei terzi. Una volta che il terzo sia intervenuto, si realizza una ipotesi di litisconsorzio facoltativo successivo.

2) LITISCONSORZIO ADESIVO AUTONOMO O LITISCONSORTILE Definizione Si ha intervento adesivo autonomo o litisconsortile allorquando un soggetto interviene in un

processo già instaurato tra altre persone per far VALERE IN CONFRONTO AD UNA DI ESSE UN DIRITTO RELATIVO ALL’OGGETTO O DIPENDENTE DAL TITOLO DEDOTTO NEL MEDESIMO PROCESSO. Esempio: si pensi al caso in cui tizio ha chiesto la condanna di caio al risarcimento del danno e Sempronio interviene nel processo presentando un’autonoma domanda di risarcimento del danno sempre nei confronti di caio fondata sugli stessi fatti illeciti. Con l’intervento litisconsortile siamo di fronte ad una pluralità di legittimazioni concorrenti quando il nesso è dato sia dall’oggetto che dalla causa petendi, ovvero ad una pluralità di azioni aventi lo stesso oggetto oppure la stessa causa petendi. Il terzo si allinea alla posizione di una delle parti pur essendo portatore di una situazione giuridica che potrebbe far valere in via autonoma: si tratta pertanto di un rimedio facoltativo.

3) LITISCONSORZIO ADESIVO SEMPLICE O DIPENDENTE Definizione La tesi dell’efficacia ultra partes della sentenza resa inter alios La tesi della pregiudizialità

Si ha intervento adesivo semplice o litisconsortile allorquando un soggetto interviene in un processo già instaurato tra altre persone per SOSTENERE LE RAGIONI DI UNA DELLE PARTI PERCHE’ VI HA UN PROPRIO INTERESSE. Secondo una parte della dottrina, l’idea che sarebbe alla base di questo litisconsorzio è che la sentenza emessa tra le parti ha inevitabilmente efficacia ultra partes che è indiretta o riflessa, per cui i terzi, che possono essere pregiudicati da tale efficacia, essendo esclusivamente portatori di meri interessi e non di un autonomo diritto, non potendo esercitare un’autonoma azione, potrebbero però intervenire nel processo per sostenere le ragioni di una delle parti. In virtù di questa tesi: L’intervento sarebbe necessario, essendo l’unico modo per il terzo di

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dipendenza e le conclusioni di Verde

partecipare al processo. In caso di mancato intervento il terzo può proporre solo opposizione di terzo revocatoria. Il pregiudizio che induce il terzo ad intervenire nel processo è tale da non essere in grado di essere fatto valere in un autonomo processo. In realtà la tesi secondo la quale la sentenza emessa inter alios avrebbe efficacia ultra partes seppur indiretta o riflessa, è stata criticata oltre che dalla corte costituzionale, anche da un’altra parte della dottrina (primo tra tutti Verde) che ritiene che i terzi subiscono pregiudizio NON dagli EFFETTI DEL GIUDICATO, ma piuttosto dal NESSO DI PREGIUDIZIALITA’- DIPENDENZA esitente tra le posizioni delle parti e quelle dei terzi. In tutti questi casi infatti si consente al terzo di partecipare ad un processo all’interno del quale si discute del rapporto giuridico che lo condiziona e che lo pregiudica proprio per rendergli opponibile un giudicato che altrimenti non sarebbe a lui opponibile. Da tutto quanto detto ne deriva che: L’intervento dipendente è sempre un intervento facoltativo, essendo la sentenza emessa inter alios non opponibile al terzo. L’ammissibilità dell’intervento deve essere sottoposta ad una rigorosa valutazione dell’interesse che pertanto finisce con l’essere l’unico filtro esercitatile. Questa è appunto la tesi suffragata da Verde, il quale fa alcune altre precisazioni: Ci sono casi in cui è la legge stessa a stabilire che la sentenza emessa tra le parti abbia efficacia anche nei confronti dei terzi ( si pensi ad esempio alla sentenza pronunciata tra locatore e conduttore che ex lege estende la sua efficacia anche nei confronti del sub conduttore ): in questi casi l’intervento di terzo è necessario, in quanto in mancanza il terzo avrebbe a disposizione solo l’opposizione di terzo revocatoria. Il nesso di pregiudizialità / dipendenza che esiste tra i rapporti giuridici può essere sia giuridico che semplicemente economico: si pensi ad esempio al creditore che interviene nel processo in cui sono messi in discussione i diritti patrimoniali del suo debitore e dai quali dipende per il creditore la possibilità concreta di essere pagato. L’intervento dipendente è un rimedio tendenzialmente facoltativo. Il problema è dato dal fatto che esiste una complessità di situazioni legittimanti che il legislatore ha avuto il torto di disciplinare unitariamente.

POTERI DEGLI INTERVENTORI: Intervento principale e litisconsortile Intervento adesivo semplice Atto introduttivo dell’ Intervento Quando si può intervenire

1. nell’intervento principale ed in quello litisconsortile, gli interventori esercitano con la loro domanda (e vedi a tal riguardo fine del paragrafo) un’autonoma azione, per cui essi hanno gli stessi poteri processuali delle parti e sono soggetti alla disciplina prevista in caso di litisconsorzio facoltativo, ma, mentre col litisconsorzio facoltativo originario si realizza la trattazione unitaria di più cause connesse sin dall’inizio, con gli interventi principali e litisconsortili questa unitarietà viene realizzata in un momento successivo. In entrambi i casi comunque la ragione giustificatrice è data dall’esigenza di economia processuale e da quella di evitare il formarsi di giudicati contrastanti. 2. nell’intervento adesivo semplice invece, anche se la legge espressamente non lo dice, gli interventori si trovano in una posizione processuale subordinata rispetto a quella delle parti originarie, per cui gli interventori possono assumere iniziative indirizzate ad influenzare la formazione del convincimento del giudice producendo prove e documenti, ma NON POSSONO: fissare il tema decidendum proporre eccezioni processuali o di merito riservate al potere dispositivo delle parti influire sul regolare svolgimento del processo per cui se le parti originarie rinunciano all’azione, essi non possono impedire l’estinzione del processo compiere atti che comportino direttamente o indirettamente disposizione del diritto sostanziale controverso proporre impugnazione contro la sentenza (è

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dubbio se debbano essere presenti all’impugnazione fatta dalle parti originarie, e secondo Verde la risposta è si). Come avvengono gli interventi? Gli interventori propongono comparsa formata ai sensi dell’articolo 167 cpc, depositata in cancelleria oppure in udienza. In caso la comparsa sia depositata in cancelleria, il cancelliere ne darà notizia alle parti mediante biglietto di cancelleria, mentre in caso in cui la comparsa sia invece depositata in udienza, sarà l’interveniente a doverla notificare alla parte eventualmente contumace. Tempi per l’intervento L’intervento può aver luogo fino a che non vengano precisate le conclusioni e l’interveniente deve accettare la lite allo stato degli atti, tranne il caso in cui sia egli stesso litisconsorte necessario.

INTERVENTI COATTI La partecipazione di terzi nel giudizio può avvenire sia su propria iniziativa sia su iniziativa o delle parti originarie o su iniziativa del giudice. Nel caso di iniziativa di una delle parti si avrà

1. INTERVENTO COATTO AD ISTANZA DI PARTE, oppure la 2. CHIAMATA IN GARANZIA

Nel caso di iniziativa del giudice si avrà INTERVENTO COATTO IUSSU IUDICIS INTERVENTO COATTO SU ISTANZA DI PARTE (art 106 cpc) Art 106 cpc Il concetto di comunanza di causa: 1 oggetto e causa petendi 2 oggetto o causa petendi 3 pregiudi- zialità / dipendenza Ipotesi 1 e 2 Ipotesi 3 Secondo Verde: Una nuova ipotesi Art 109 cpc La disciplina giuridica 1 . la chiamata del convenuto 2 . la chiamata

L’art 106 cpc dispone che “ciascuna parte può chiamare in causa un terzo al quale ritiene comune la causa”. Il concetto di comunanza di causa ha dato luogo a non poche discussioni. Taluni perciò ritengono che questo concetto sia da assimilare a quello di connessione previsto dagli artt 103 e 105 cpc. A tal preciso riguardo cmq ci sono diverse opinioni. Alcuni ritengono che sia causa comune quella legata alla causa originaria da una connessione particolarmente intensa, riguardante sia l’oggetto che la causa petendi. Altri ritengono invece che basti la presenza di una connessione propria, e cioè o per l’oggetto oppure per la causa petendi Infine alcuni ritengono che la comunanza di causa possa riferirsi anche alle ipotesi di pregiudizialità-dipendenza tra i rapporti giuridici. Le prime 2 opinioni sarebbero giustificate dalla considerazione che nel chiamare in causa il terzo, la parte originaria deve proporre una nuova domanda nei confronti di quest’ultimo e quindi allargare l’ambito oggettivo della controversia pendente, cosa che gli è consentita solo quando faccia valere nei confronti del terzo un diritto collegato per l’oggetto e / o la causa petendi. Si faccia un esempio: il creditore, dopo aver chiesto la condanna di uno dei debitori in solido all’adempimento dell’obbligazione, estende la domanda anche nei confronti di altro condebitore, chiamandolo in causa. In questo caso il creditore propone un’autonoma domanda che si aggiunge a quella originaria, allargando così l’ambito oggettivo della controversia ed avvalendosi della possibilità offertagli dalla legge di poter dar vita ad un processo cumulato allorquando tra più cause esita una connessione per titolo e/o per oggetto. Per quanto riguarda invece la terza opinione, bisogna dire che in caso di pregiudizialità/dipendenza, la parte non propone domanda nei confronti del terzo, e quindi non allarga l’ambito oggettivo della controversia, bensì si preoccupa solo di mettere il terzo in condizione di partecipare al processo per estendergli l’efficacia della sentenza e per prevenire l’opposizione di terzo revocatoria.(si veda il caso in cui il conduttore chiama in giudizio il

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dell’attore proprio subconduttore quando il locatore agisca per la risoluzione del contratto. Secondo Verde sono ammissibili tutte e 3 le ipotesi dette, purchè però non si sfoci in arbitrari allargamenti del processo con inevitabili allungamenti dei tempi e dei costi processuali. In questo caso funge da importantissimo filtro il ruolo determinante dell’interesse ad intervenire in giudizio: in altre parole non è giustificabile la chiamata del terzo in causa solo perché la parte originaria vuole che gli siano estesi gli effetti della sentenza, ma è necessario che la stessa parte originaria dimostri ed alleghi circostanze che giustificano in concreto l’utilizzazione dello strumento-intervento del 3°:ad esempio si veda il caso del terzo che abbia una pretesa risarcitoria nei confronti della parte originaria. Negli ultimi anni inoltre l’istituto dell’intervento coatto del terzo si è allargato verso nuove ipotesi: ad esempio si pensi al caso in cui il convenuto non contesta la domanda, ma si limita ad eccepire di non essere lui titolare della situazione giuridica passiva: in pratica in questa ipotesi il convenuto non dice che l’attore non ha diritto ma dice solo che non l’ha contro di lui. Caso specifico è rappresentato da una causa di risarcimento per danni derivante dalla circolazione di veicoli dove il convenuto neghi ogni responsabilità indicando come unico responsabile un terzo soggetto: in questo caso il convenuto avrà 2 opzioni: 1. o limitarsi alla sola eccezione 2. oppure potrà chiamare in causa il terzo da lui ritenuto vero responsabile del sinistro Nella ipotesi in cui il convenuto decide di chiamare in causa il terzo da lui ritenuto responsabile, si aprono 3 diverse alternative: L’attore resta fermo nella sua domanda originaria che individua come unico responsabile del sinistro il convenuto in giudizio, mentre il convenuto ha proposto al giudice eccezione alla domanda dell’attore, eccezione contenente domanda di accertamento della responsabilità del terzo: il giudice, accertata con sentenza idonea a passare in giudicato che l’eccezione presentata dal convenuto risulta fondata e che quindi il terzo è effettivamente responsabile del sinistro, si limiterà a rigettare la domanda dell’attore. L’attore, a seguito della domanda proposta dal convenuto di far intervenire il terzo da quest’ultimo ritenuto vero responsabile del sinistro, decide di estendere la sua domanda nei confronti del terzo, ma allo stesso tempo non rinuncia alla domanda nei confronti del convenuto: a questi punti si avrà una domanda ALTERNATIVA, per cui laddove il giudice si convinca della fondatezza dell’eccezione del convenuto, potrà condannare il terzo e rigettare la domanda proposta dall’attore nei confronti del convenuto originario. L’attore decide di estendere la domanda nei confronti del terzo e rinuncia a quella originaria: in questa ipotesi è probabile che il convenuto originario chieda di poter essere estromesso dal processo, cosa che potrà essere disposta se il terzo non si opponga. A quest’ultima ipotesi fa da contrapposizione l’Art 109 cpc: “chiamata in causa del terzo pretendente”. In questa ipotesi non è in dubbio né il debito né chi ne sia debitore, ma piuttosto chi ne sia il creditore. In pratica in questo caso il convenuto non nega di essere debitore ma afferma più semplicemente che un terzo pretende di vantare lo stesso diritto preteso dall’attore. L’art 109 dispone che se si contende a quale tra più parti spetti una prestazione e l’obbligato si dichiara pronto ad eseguirla a favore di chi ne ha diritto, il giudice può ordinare il deposito della cosa o della somma di danaro dovuta e dopo il deposito può estromettere l’obbligato dal processo. In questo caso non c’è dubbio che il debitore può avere interesse a chiamare in causa il terzo

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pretendente e quindi abbia il potere di farne domanda. La disciplina dell’art 109 però presenta alcune vistose lacune: 1. non precisa se il deposito e la richiesa di estromissione comportino rinuncia del debitore alla cosa o alla somma dovuta (per Verde No) 2. non chiarisce se la controversia possa avere ad oggetto anche beni immobili 3. non dispone nulla circa le spese o sui poteri del gudice nell’ordinare l’estromissione del convenuto originario La disciplina prevista per consentire al terzo di esercitare nel corso del processo tutte le sue facoltà processuali è la seguente: le parti originarie hanno l’onere di citare il terzo a comparire in udienza fissata all’uopo dal giudice istruttore. In particolare il convenuto dovrà farne richiesta a pena di decadenza nella comparsa di risposta, chiedendo al giudice di spostare la data della prima udienza in modo da poter consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini indicati dalla legge. In questo caso il giudice istruttore non ha a sua volta nessun tipo di discrezionalità sull’ammissibilità o meno del terzo in causa, ma anzi è tenuto a concedere lo spostamento dell’udienza con decreto da emettere entro 5 giorni dalla richiesta e da comunicare alle parti a cura del cancelliere. Per quanto concerne l’attore, se la chiamata del terzo non è stata fatta con l’atto introduttivo, egli ne può fare richiesta a pena di decadenza nel corso della prima udienza solo se la necessità della chiamata del terzo sia sorta dalle difese del convenuto. In questo caso il giudice valuterà se la richiesta sia ammissibile e qualora l’autorizzi, fisserà una nuova udienza allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini previsti dal codice.

LA CHIAMATA IN GARANZIA, art 106 cpc Art 106 cpc Art 106 cpc prevede che una parte possa chiamare nel processo un terzo dal quale

pretende di esser garantito. A tal riguardo si distingue tra: 1. garanzia propria :si ha nelle ipotesi in cui si trasferisce un diritto reale (compresi i diritti di godimento) o un diritto di credito; essa può nascere dalla legge o da un contratto. A questo proposito si possono fare 2 esempi: esempio di garanzia ex lege: Tizio acquista il bene X da Caio. Tizio però è convenuto in giudizio da Sempronio che assume di essere il reale proprietario del bene X: ai sensi dell’articolo 1483 cc Caio è tenuto a risarcire i danni a Tizio (cd Garanzia in caso di evizione) esempio di garanzia contrattuale: Tizio garantisce a Sempronio il pagamento del debito che Caio ha contratto nei confronti dello stesso Sempronio. Tizio viene convenuto in giudizio perché Caio non ha adempiuto alla propria obbligazione. Tizio, dopo aver adempiuto all’obbligazione che aveva garantito, ex art 1950 cc può esercitare un’azione di regresso nei confronti di Caio per ottenere quanto ha dato a Sempronio. 2. garanzia impropria: si tratta di ipotesi create dalla prassi in cui taluni esponga con proprio fatto altri ad un’azione in giudizio, così che se questi resti soccombente può chiedere al primo di essere tenuto indenne da quanto ha dovuto sborsare per effetto dell lite; la garanzia impropria può nascere dal legame economico esistente tra le parti: Tizio si è obbligato in un contratto di appalto ad eseguire un manufatto per conto di Sempronio, e si è rivolto a Caio per la fornitura di materiale. Sempronio conviene in giudizio Tizio allorché il manufatto non è stato eseguito nel termine previsto.Tizio a sua volta chiede che Caio sia condannato a rivalerlo di quanto dovrà pagare a Sempronio in quanto il ritardo è dipeso dalla mancata tempestività di Caio. 3. garanzia personale: che nasce nelle ipotesi di coobbligazione Quando una parte chiama in giudizio un terzo garante lo fa per 2

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motivi in particolare: fare in modo che il garante non possa poi contestare quanto accertato nella sentenza evitando che il garante possa in seguito proporre delle eccezioni rispetto al rapporto principale oppure per poter proporre un’autonoma azione di regresso nei confronti del garante in modo che il giudice, ove accolga la domanda principale, condanni subito il garante a pagargli ciò che egli gli deve per effetto della garanzia. L’art 108 cpc dispone che se il garante compare e accetta di assumere la causa in luogo del garantito, quest’ultimo può chiedere la propria estromissione e, qualora le parti non si oppongano, il giudice può disporre con ordinanza la propria estromissione dal processo. La disciplina in parola vale però solo nella ipotesi in cui la parte originaria abbia chiesto l’intervento del garante nel processo, consentendo a quest’ultimo di partecipare al processo, senza che però contro costui sia esercitata un’autonoma azione di regresso: infatti nel caso in cui la parte originaria avesse proposto a sua volta contro il garante autonoma azione di regresso, si sarebbe di fronte a 2 cause collegate in cui parte comune è il garantito. In quest’ultimo caso l’estromissione del garantito renderebbe improcedibile l’azione di regresso, venendo a mancare uno dei soggetti. Ove l’estromissione sia possibile siamo cmq di fronte ad una ipotesi di sostituzione processuale, dato che il processo prosegue tra parte originaria ed il garante, pur avendo ad oggetto un diritto del garantito: è ovvio che anche in questo caso vale la regola secondo la quale sentenza emanata tra parte originaria e garante spiega sempre i suoi effetti (sfavorevoli o favorevoli) nei confronti dell’estromesso.

INTERVENTO IUSSU IUDICIS: art 107 cpc Art 107 cpc Scopo Campo di applicazione Diverse tesi Oggetto e titolo Oggetto o titolo 3 settori: 1 . rapp. Alternativi 2 . rapp. Pregiudiziali 3 . rapp. Dipendenti Punti caratteriz- zanti :

“Il giudice, quando ritenga opportuno che la causa si svolga nei confronti del terzo al quale la causa è comune, ne ordina l’intervento”. La norma in parola contiene una sorta di valvola di sicurezza che attribuisce al giudice il potere di far fronte a tutte quelle imprevedibili situazioni processuali che possono sorgere e che sfuggono ad ogni disciplina. Questo lo scopo ultimo della norma. Non è però altrettanto chiaro il campo di applicazione della norma in parola, dal momento che essa si rifà di nuovo al concetto di comunanza di causa. Le difficoltà risultano ancora maggiori quando si considera che lo strumento creato dal legislatore in realtà è in contrasto col principio costituzionalmente garantito della domanda. Di fronte a tale situazioni si sono delineate 3 diverse tesi: 1. secondo la dottrina prevalente si avrebbe comunanza di causa quando vi sia una connessione particolarmente intensa sia per l’oggetto che per la causa petendi 2. altri ritengono sufficiente che la connessione possa esser data o dall’oggetto oppure dalla causa petendi 3. altri infine hanno osservato che l’intervento iussu iudicis è uno strumento idoneo ad operare in 3 settori specifici e principalmente: il settore dei rapporti alternativi: (contestazione della legittimazione passiva accompagnata dall’indicazione del vero legittimato: nella ipotesi in cui Tizio conviene in giudizio Caio e Caio stesso oppone che in realtà vero legittimato passivo è Sempronio, il giudice può, invece che limitarsi ad accogliere o respingere la domanda dell’attore, a seconda che la ritenga più o meno fondata, ritenere opportuno chiamare in giudizio tutte le parti realmente coinvolte nella situazione controversa e quindi potrà richiedere l’intervento del terzo almeno in quelle ipotesi in cui egli ritenga che la sua presenza si riveli necessaria o opportuna al fine di statuire sulla situazione dedotta in giudizio. In conclusione si direbbe che ove non siano le parti a prendere l’iniziativa

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e chiamare il terzo in giudizio, l’iniziativa è lasciata al giudice). Il settore dei rapporti pregiudiziali: esempio classico le controversie tra lavoratore ed ente previdenziale aventi ad oggetto l’erogazione di prestazioni assicurative in cui si contesti l’esistenza del rapporto pregiudiziale di lavoro. Il settore dei rapporti giuridici dipendenti: esempio controversie tra locatore e conduttore con estensione della sentenza al subconduttore. Nel campo dei rapporti alternativi il potere del giudice di disporre la chiamata del terzo è giustificata dall’esigenza di garantire un corretto svolgimento della funzione giurisdizionale e la giustizia della decisione. Nel campo dei rapporti pregiudiziali o di quelli dipendenti, invece il potere del giudice in parola è giustificato dalla tendenza a riconoscere al giudice una posizione sempre più attiva nel processo, anche a danno del potere monopolistico delle parti di delineare i limiti soggettivi ed oggettivi della controversia. Per concludere i punti caratterizzanti l’intervento iussu iudicis sono: 1. la valutazione sulla opportunità che il processo si svolga anche nei confronti del terzo è preventiva e non successiva come nell’intervento ad istanza di parte. 2. la chiamata del terzo rimane cmq atto di parte in forma di citazione che a differenza della citazione su istanza di parte può essere ordinata dal giudice in qualsiasi momento. 3. se nessuna delle parti originarie chiama il terzo in giudizio nel termine fissato, si ha la cancellazione della causa dal ruolo: cosa che cmq consente la riassunzione della causa entro un anno purchè si citi anche il terzo e non si ha invece l’estinzione del processo come invece avviene in ipotesi di litisconsorzio necessario.

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IL PROCESSO E LE PRECLUSIONI La nozione di processo

Per processo si intende una serie di atti concatenati tra loro secondo criteri di massima prestabiliti provenienti da soggetti diversi e non omogenei indirizzati all’emanazione di un atto finale che prende il nome di provvedimento. Tali atti sono tra loro collegati secondo una sequenza temporale e logica: sotto il primo profilo è essenziale al processo la nozione di termini; sotto il secondo profilo è essenziale al processo l’idea di preclusione. Cos’è la preclusione? Si ha preclusione tutte le volte in cui un determinato comportamento non può essere tenuto da un soggetto, o perché incompatibile con un suo comportamento precedente oppure perché egli ha già esercitato la relativa facoltà. In particolare nel processo si ha preclusione tutte le volte in cui si abbia incoerenza logica tra 2 o più atti inseriti in una serie, per cui l’atto successivo non può esser compiuto e qualora lo sia, esso non potrà esser preso in considerazione. Esempio di preclusione ex art 38 cpc: il convenuto deve immediatamente eccepire la incompetenza per territorio derogabile nella comparsa di risposta, e nella stessa deve altresì indicare il giudice da lui ritenuto competente per territorio; in caso contrario gli è preclusa la possibilità di far valere tale incompetenza. A ben vedere anche lo stesso concetto di termine rientra in quello più ampio di preclusione con la differenza che in relazione al concetto di termine il punto di riferimento non è una compatibilità logica tra 2 o più azioni, ma è legato allo scorrere del tempo. Da quanto detto emerge con chiarezza che nell’ambito del concetto di preclusione si possono distinguere: 1. le preclusioni in senso stretto 2. l’inutile decorso del termine che dà luogo a decadenza. Sia le une che le altre rappresentano i punti di snodo che consentono di collegare tra loro i vari atti del processo. In particolare: Per preclusione in senso stretto si intende la perdita o estinzione di poter compiere un determinato atto processuale per: mancato esercizio del diritto nel momento opportuno nella successione delle attività processuali incompatibilità con un’attività già svolta aver esercitato già una volta il relativo diritto

CENNI SULLA COSA GIUDICATA La cosa giudicata

Il momento conclusivo del procedimento di cognizione è rappresentato dalla sentenza che in genere è quell’atto conclusivo col quale il giudice statuisce nel merito della controversia. Tuttavia il legislatore prevede la possibilità che vengano emanate anche sentenze cd non definitive, ossia tali che non decidono nel merito della controversia, ma statuiscono su: 1. questioni di giurisdizione o di competenza 2. questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito 3. alcune delle domande connesse Uno dei principi cardine del nostro processo è rappresentato dal “ne bis in idem”: il giudice una volta emanato l’atto finale del processo, consuma il suo potere giudiziario in ordine alla controversia e pertanto non può più giudicare “de eadem re”. Questo è un principio sicuramente valevole nelle ipotesi di processi contenziosi a contraddittorio pieno, giacchè è solo in questi casi che il giudice e le parti hanno avuto modo di compiere tutte le indagini e di utilizzare tutti gli strumenti per pervenire alla emanazione del provvedimento conclusivo. Da questo punto in poi il giudice si spoglia interamente dell’intera controversia, avendo consumato tutto il suo potere in relazione alla causa con la emanazione del

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provvedimento finale. Tutto quanto detto và poi coordinato con il fatto che le parti anche in presenza di un provvedimento finale possono tuttavia far ricorso ad ulteriori rimedi per poter far valere per esempio alcune irregolarità che vengono verificate nel corso del processo. È chiaro che tali irregolarità non verranno giudicate dallo stesso giudice che ne ha avuto già cognizione piena e che ha già giudicato, ma piuttosto da un giudice di grado superiore, il quale è chiamato NON a ripetere il processo, bensì a verificare ed a controllare le attività processuali fin qui compiute. È ulteriormente chiaro che se le parti non si attivano al fine di far verificare tali presunte irregolarità davanti ai giudici di grado superiore entro un determinato termine, si precludono la possibilità di poter rimettere in questione il rapporto controverso. La sentenza quindi in generale costituisce l’atto conclusivo del processo. Esso incide positivamente sulla realtà giuridica in quanto detta una specifica disciplina del rapporto controverso: disciplina alla quale le parti d’ora in avanti dovranno fare riferimento. La specificità della sentenza e la sua peculiarità sta proprio nella sua idoneità a divenire stabile disciplina del rapporto controverso cui si riferisce a partire dal momento in cui la sentenza stessa è emanata. EFFICACIA DELLA SENTENZA: La disciplina dettata dalla sentenza in relazione al rapporto giuridico controverso si sovrappone a quella generale ed astratta prevista dalla legge, in quanto regola specificatamente e stabilmente quel rapporto giuridico cui fa capo, e rende la stessa disciplina legislativa per il caso concreto irrilevante. AUTORITA’ DELLA SENTENZA: l’articolo 2909 cc nello stabilire che l’accertamento contenuto nella sentenza fa stato tra le parti, gli eredi e gli aventi causa, stabilisce che in quanto cosa giudicata in senso sostanziale, d’ora in poi le parti, gli eredi e gli aventi causa dovranno far riferimento (dal momento dell’emanazione della sentenza) alla disciplina specifica prevista dalla sentenza per regolare compiutamente il rapporto specifico. STABILITA’ DELLA SENTENZA: l’art 324 cpc definisce la stabilità della sentenza stabilendo che essa è stabile quando, una volta passata in giudicato in senso formale, essa non è più soggetta né a regolamento di competenza, né a ricorso in appello o in cassazione, né a revocazione e quindi è idonea a disciplinare stabilmente d’ora in avanti il rapporto giuridico cui si riferisce. Pertanto esperiti tutti gli strumenti processuali previsti per impugnare la sentenza o inutilmente decorso il termine per esperirli, la sentenza diviene stabile, cioè diventa cosa giudicata in senso formale. La stabilità prevista dall’articolo 324 è tuttavia relativa, in quanto esistono impugnazioni cd straordinarie che consentono di impugnare una sentenza anche se passata in giudicato: opposizione di terzo ex art 404 revocazione ex art 395 Principio generale valido per la sentenza in generale è definito dall’articolo 282 il quale dispone che la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti.

I TERMINI. Nozione Il termine costituisce assieme alle preclusioni il mezzo per poter dare ordine al

processo. La sua funzione è duplice: 1. mantenere le attività processuali sufficientemente concentrate (cd termine acceleratorio o finale) 2. offrire ai soggetti processuali un sufficiente spatium temporis per potere adeguatamente compiere gli atti di loro pertinenza. (cd termine dilatorio) Il termine acceleratorio o finale è congegnato in modo che l’attività processuale non può più compiersi oltre un determinato momento, per cui l’inutile decorso del termine

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comporta una decadenza (es termine dato dal giudice per integrare il contraddittorio); il termine dilatorio ha come funzione quella di fare in modo che l’attività processuale non può compiersi prima di un determinato momento, perciò l’intempestivo compimento dell’atto comporta la irricevibilità dello stesso( es il termine previsto per la comparizione delle parti). I termini finali si distinguono in: Perentori: sono stabiliti a pena di decadenza, per cui se l’attività processuale viene compiuta dopo la loro scadenza, l’attività stessa è nulla ( : nullità assoluta). Ordinatori: possono essere anche prorogati per una durata non superiore a quella originaria e per motivi particolari anche una seconda volta, purchè il provvedimento di proroga sia anteriore alla scadenza. L’eventuale compimento dell’atto dopo la scadenza del termine o della proroga dà luogo ad una nullità relativa rilevabile su eccezione di parte. Và inoltre osservato che vi sono nell’ordinamento previsti dei termini alla cui inosservanza la legge non collega alcuna decadenza, ma soo delle conseguenze minori, come ad esempio un maggior carico di spese (cd termini comminatori) e termini alla cui inosservanza non è collegata alcuna sanzione (termini canzonatori). L’art 155 cpc detta una disciplina analitica relativa al computo dei termini. Occorre infine chiarire che è la legge a stabilire che un termine sia perentorio: il giudice può solo fissare la durata del termine perentorio, ma non anche stabilire che esso sia perentorio.

GLI ATTI PROCESSUALI Gli articoli 121 e ss. Cpc. disciplinano gli atti processuali distinguendoli in:

1. atti processuali di parte 2. atti processuali provenienti dall’ufficio giudiziario, tra i quali assumono particolare rilievo i

cd Provvedimenti che sono gli atti del giudice. GLI ATTI DI PARTE Nozione Gli atti di parte si inseriscono in un procedimento precostituito all’interno del

quale ad ogni atto corrisponde una certa funzione: questo per garantire che vengano rispettate le esigenze di certezza anche nel corso del processo. La legge descrive dei modelli generali che si possono compiere per ottenere certi effetti ed in determinate situazioni processuali: es la citazione, la comparsa di risposta, ecc. La parte, rifacendosi al modello generale previsto, lo riempie di volta in volta del contenuto che si adatta al caso concreto: ad es per compilare l’atto di citazione la parte dovrà individuare il giudice, la controparte, dovrà formulare le sue richieste e così via. E’ chiaro che se l’atto concreto non corrisponde al modello generale ed astratto previsto dalla legge, esso non potrà esser preso in considerazione dal giudice, il quale, a seconda dei casi, lo riterrà nullo, inefficace, inammissibile, irricevibile, ecc. Se invece l’atto concreto risulterà essere conforme al modello generale ed astratto previsto dalla legge, in quel caso il giudice lo prenderà in considerazione salvo poi valutarlo come fondato o meno in base al suo contenuto intrinseco. La legge pertanto nel definire il modello generale, fissa i requisiti di forma-contenuto dell’atto. Nel caso in cui la legge non preveda alcun modello specifico, ex art 121 cpc gli atti possono essere compiuti in qualsiasi forma idonea a perseguire lo scopo. Anche se in questa ipotesi il legislatore sembra fissare il principio della libertà della forma, in realtà dall’analisi della disciplina positiva si desume che la forma di solito prevista è quella scritta e che anche quando sia possibile la forma orale, di essa deve

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essere conservata traccia scritta attraverso la redazione del processo verbale il quale finisce pertanto con l’essere una specie di forma sovrapposta e necessaria per inserire l’atto nel processo. Mentre nell’ambito della teoria degli atti di autonomia privata assume particolare rilievo il requisito della volontà, inteso sia come volontarietà dell’atto, sia come vontarietà degli effetti, nell’ambito processuale invece poiché gli atti servono a mettere in moto e a far proseguire il meccanismo processuale, fino all’emanazione del provvedimento finale, essi di solito non hanno nessun effetto immediato sulla posizione delle parti: hanno cioè solo valore induttivo del meccanismo processuale: al legislatore cioè interessa solo che tali atti siano liberamente e consapevolmente manifestati, e non viene svolta alcuna indagine sulla volontarietà degli effetti. Nulla vieta che anche all’interno degli atti processuali vi siano atti dotati di particolare efficacia e quindi direttamente impegnativi per i soggetti che li compiono: si pensi ad esempio alla confessione o al giuramento. In queste ipotesi si dice che siamo di fronte ai cd atti causativi, cioè di fronte ad atti per i quali non si esclude a priori una indagine sulla volontà. Sempre nel campo processuale, l’oggetto e la causa che nell’ambito del diritto dell’autonomia privata rivestono un ruolo molto importante, vengono invece in questo settore ridimensionati, dal momento che l’oggetto finisce con l’essere assorbito dal requisito della forma-contenuto dell’atto, mentre la causa diviene irrilevante dal momento che la legge nel predisporre i modelli o gli schemi degli atti, ne rende tipica la loro funzione.

GLI ATTI PROVENIENTI DALL’UFFICIO GIUDIZIARIO: IN PARTICOLARE I PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE Art 131 cpc Interpretazione Letterale Considerazioni in contrario Controllo della adeguatezza della forma rispetto alla funzione del provvedim. Art 111 2° cost La tesi della dottrina La tesi della giurisprudenza In caso di errore del giudice? Il decreto

L’articolo 131 cpc disciplina specificamente i provvedimenti del giudice, e stabilisce che: “la legge prescrive in quali casi il giudice pronuncia sentenza, ordinanza, decreto. In mancanza di tali prescrizioni i provvedimenti sono dati in qualsiasi forma idonea al raggiungimento dello scopo”. Secondo un’interpretazione letterale della norma il giudice provvede normalmente di volta in volta con provvedimenti tipici e solo eccezionalmente egli potrà scegliere la forma da dare al provvedimento, adeguandola allo scopo per il quale esso è diretto. Questa interpretazione letterale tuttavia è stata contrastata da numerose considerazioni: 1. prima tra tutte, la legge fissa dei modelli o schemi formali dei provvedimenti del giudice in modo molto più accurato di quanto non avvenga per gli atti di parte, fissando non solo i requisiti di forma- contenuto, ma anche stabilendo in quali casi il giudice emetterà sentenza, decreto o ordinanza. 2. in secondo luogo allo specifico requisito di forma-contenuto, la legge associa anche un preciso regime giuridico. Tutte queste considerazioni valgono a far dedurre che lasciare al giudice la possibilità di creare un provvedimento diverso da quello previsto dalla legge, comporterebbe anche la necessità di lasciare al giudice la ulteriore possibilità di stabilire di volta in volta il regime giuridico cui l’atto sarebbe sottoposto: tutto questo però metterebbe sicuramente a rischio la tutela delle parti ed inoltre altererebbe il principio del pari trattamento dei soggetti in causa. Da tutto quanto detto se ne desume che non si può sicuramente attribuire al giudice un siffatto potere. Di recente poi si è avvertita la necessità di controllare l’adeguatezza della forma- contenuto del provvedimento rispetto alla sua funzione istituzionale. In pratica ci si è chiesti se è possibile

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sindacare l’idoneità del modello generale previsto dalla legge rispetto allo scopo che effettivamente il provvedimento persegue. Questa ulteriore necessità è sorta in relazione a quanto previsto ex art 111 2 cost: “contro la sentenza è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione della legge”. Ci si chiede se la norma in parola si riferisca solo a quei provvedimenti che abbiano la Forma della sentenza oppure anche a quei provvedimenti che pur essendo formalmente costruiti dalla legge come ordinanze o come decreti, in realtà hanno la funzione tipica della sentenza e quindi hanno funzione decisoria (cioè sono in grado di incidere stabilmente sulla situazione giuridica soggettiva). In pratica ci si chiede se l’art 111 2 cost possa trovare applicazione in tutti quei casi in cui il provvedimento in parola abbia sostanzialmente contenuto decisorio, qualsiasi sia la sua forma. A questo riguardo ci sono diversi orientamenti: mentre la dottrina prevalente ritiene che bisogna innanzitutto guardare alla forma e che quindi qualora un giudice si avveda che il modello astrattamente previsto dalla legge non è idoneo rispetto allo scopo che effettivamente la legge intende perseguire con quel determinato provvedimento, questi debba sollevare questione di legittimità costituzionale della norma che prevede e disciplina il provvedimento in parola davanti alla C. Cost.; la giurisprudenza unanime invece ritiene che bisogna guardare non tanto alla forma del provvedimento quanto piuttosto alla sostanza di esso, perciò se un giudice si avvede che un provvedimento che ha formalmente per esempio le vesti di un’ordinanza, in realtà ha contenuto decisorio, potrà utilizzare la disciplina prevista per il contenuto del provvedimento e quindi per esempio potrà impugnare una ordinanza che ha contenuto decisorio come una vera e propria sentenza. Fin qui è quanto potrebbe succedere nel caso in cui la legge dia erroneamente ad un provvedimento una forma diversa rispetto allo scopo cui esso è rivolto. Diverso ovviamente è il caso in cui non è la legge a sbagliare, ma il giudice: per esempio perché pronuncia ordinanza ed invece avrebbe dovuto pronunciare una sentenza. Anche in questo caso si ritiene si debba far riferimento al contenuto specifico del provvedimento emanato dal giudice più che alla forma, purchè il provvedimento abbia il minimo dei requisiti formali per rientrare nel tipo che sarebbe congruo in base al contenuto. La giurisprudenza ritiene che laddove il giudice abbia dato ad un provvedimento una forma diversa dal contenuto effettivo del provvedimento stesso, es abbia dato forma di ordinanza ad un provvedimento che in realtà ha contenuto decisorio, quest’ultimo può essere impugnato con i normali mezzi previsti sulla base del contenuto effettivo, purchè abbia il minimo dei requisiti formali per rientrare nel tipo che sarebbe congruo in base al contenuto e purchè sia un provvedimento conclusivo del giudizio. La dottrina invece è orientata in senso opposto, in considerazione di quanto previsto ex art 279 cpc secondo cui i provvedimenti giudiziari che hanno forma di ordinanza, cmq motivati, non possono mai pregiudicare la soluzione della causa, per cui il regime giuridico del provvedimento emanato dal giudice con forma inadeguata rispetto al contenuto dovrà necessariamente essere quello previsto in relazione alla forma del provvedimento stesso, e non al suo contenuto. Ci si chiede inoltre quale sia il mezzo di impugnazione da poter utilizzare nel caso in cui il giudice abbia errato nella qualificazione giuridica di un provvedimento: opinione prevalente è che si debba fare riferimento a quella che è la qualificazione giuridica, seppur errata, data

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dal giudice e non invece al contenuto del provvedimento. Si tratta del tipo più semplice ed elementare tra i provvedimenti del giudice. Esso ha funzione ordinatoria ed ha per oggetto l’attività preparatoria del processo. Di regola non necessita di motivazione, e solo eccezionalmente la legge lo impone. Viene ammesso in assenza di contraddittorio: solo in alcuni casi eccezionali il decreto viene emanato dopo il contraddittorio. Esso viene pronunciato d’ufficio o su istanza verbale della parte, viene poi datato e sottoscritto dal giudice che lo pronuncia e dal presidente del tribunale e diviene irrevocabile, anche se con alcune eccezioni.

COMUNICAZIONI E NOTIFICAZIONI Nozione La comunicazione Caratteristiche La notificazione

Gli atti processuali sono normalmente recettizzi, per cui è necessaria la loro comunicazione per il perfezionarsi dei medesimi. Gli atti compiuti in contraddittorio si intendono conosciuti dalle parti e di essi rimane cmq traccia scritta nel processo verbale. Per gli atti scritti la legge prevede in taluni casi la comunicazione ed in altri la notificazione. La comunicazione è l’atto con il quale il cancelliere dà notizia al P.M., alle parti, al consulente, ai testimoni e ad ogni altro ausiliario del giudice di atti o fatti processuali per i quali la legge prevede tale forma abbreviata di comunicazione. La comunicazione in parola avviene a mezzo di biglietto di cancelleria il cui contenuto è descritto analiticamente dal cpc e che viene portato a conoscenza del destinatario o con consegna effettuata dalla cancelleria al destinatario, il quale ne rilascia ricevuta, oppure mediante invio di un plico raccomandato oppure infine mediante invio per tramite dell’ufficiale giudiziario. Caratteristiche essenziali della comunicazione sono: proviene sempre dal cancelliere il suo contenuto consiste nella notizia abbreviata dell’atto o del fatto La notificazione invece si differenzia dalla comunicazione sia perché può provenire anche dalle parti o dal P.M., sia perché ha ad oggetto copia conforme dell’atto. Nella notificazione si distinguono 3 fasi: 1. la richiesta rivolta all’ufficiale giudiziario di procedere alla consegna di copia conforme dell’atto 2. l’attività di consegna da parte dell’ufficiale giudiziario che può procedere sia direttamente sia a mezzo posta 3. la verbalizzazione dell’attività di notificazione sia sull’originale che sulla copia, la cd Relata di notifica. Le attività di ricerca e di consegna dell’atto al destinatario sono minuziosamente descritte nel cpc all’art 137 e ss. Sono previste le seguenti modalità di notificazione: La forma di notificazione che realizza al 100% lo scopo è quella della notificazione in mani proprie, notificazione che può essere effettuata dall’ufficiale giudiziario nei confronti del destinatario, ovunque questi si trovi nell’ambito della circoscrizione di competenza dell’ufficiale giudiziario. Se ciò non avviene, l’ufficiale giudiziario procede a: Notificazione presso la residenza, la dimora o presso il domicilio del destinatario. Se neanche questo è possibile, perché non trovi il destinatario o perché non si rende reperibile persona che possa e voglia ricevere l’atto, procede a: Depositare la copia dell’atto nella casa comunale, affiggendo avviso di deposito sulla porta dell’abitazione, ufficio o azienda del destinatario e spedisce raccomandata a quest’ultimo Sono previste inoltre norme in relazione al destinatario non residente, né dimorante, né domiciliato nel territorio della repubblica italiana o cmq con residenza, dimora,

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domicilio sconosciuti; ai militari in attività di servizio; alle amministrazioni dello stato; alle persone giuridiche Per le persone giuridiche la notifica viene fatta nelle mani della persona addetta nella sede dell’ente oppure a persona che rappresenti l’ente. La notificazione per pubblici proclami viene fatta o quando il numero dei destinatari è troppo alto o quando è impossibile identificarli tutti. Infine è previsto che la notificazione avvenga attraverso gli uffici postali. Anche in questo caso è prevista un’articolata disciplina circa la notificazione a mezzo posta che avviene con piego raccomandato con avviso di ricevimento: l’avviso di ricevimento costituisce prova dell’avvenuta notificazione e dalla data risultante sullo stesso avviso decorrono i termini processuali. La notificazione è nulla in queste ipotesi: 1. non sono osservate le disposizioni circa la persona destinataria della notificazione 2. vi è incertezza assoluta circa la persona cui è stata fatta la notificazione 3. vi è incertezza assoluta circa la data della notificazione La nullità non può esser pronunciata se nonostante le incertezze suddette, si sia raggiunto lo scopo cui è destinata la notificazione.

LA NULLITA’ DEGLI ATTI PROCESSUALI. Nozione La disciplina della validità-invalidità degli atti processuali ruota intorno al

requisito della forma inteso in senso più ampio di quanto non avvenga nel diritto sostanziale. Sono infatti da ricondurre alla forma non solo le modalità di esternazione dell’atto e gli schemi o i modelli elaborati dalla legge ma anche il requisito della provenienza dell’atto da parte di persona capace, competente e legittimata, e quello del rispetto dell’ordine prefissato e dei termini. La forma diviene in tal modo lo strumento indispensabile per saggiare la validità dei singoli atti e per la vita dell’intero processo tanto è vero che il Chiovenda la paragona all’aria che non si vede e che tuttavia è necessaria per consentire il volo degli uccelli. Il compito del legislatore è quello di individuare le forme veramente essenziali e di collegare solo a queste la sanzione dell’invalidità. Egli si è prefisso questo programma quando ha enunciato il principio di tassatività delle nullità. Dispone infatti l’art. 156 c.p.c. che non può essere pronunciata la nullità per inosservanza delle forme di alcun atto del processo se la nullità non è espressamente comminata dalla legge. Il legislatore mostra di avere ben presente la differenza tra forma indispensabile e formalismo inutile e dannoso quando sancisce: 1) che anche in mancanza di previsione espressa di nullità essa può essere ugualmente pronunciata se l’atto manca dei requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo 2) che anche in mancanza dei requisiti formali indispensabili la nullità non può essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato A differenza del diritto sostanziale che prevede varie classificazioni (nullità assoluta, nullità relativa, annullabilità assoluta, annullabilità relativa, inefficacia, irregolarità) la legge processuale parla in senso generico di nullità anche se non ricollega al vizio sempre la stessa disciplina. Al riguardo si distingue: 1) una nullità rilevabile d’ufficio che potremmo definire tassativa ed assoluta 2) una nullità rilevabile su eccezione di parte che potremmo definire relativa Fra le nullità rilevabili d’ufficio la legge riconosce poi particolare rilievo a quella derivante dai vizi relativi alla costituzione del giudice o all’intervento del P.M. che è insanabile con una disposizione che relativamente all’intervento del

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P.M. è applicabile soltanto al processo di cognizione(art. 158 c.p.c.). Sempre al processo di cognizione sono riservate le norme successive. Il legislatore infatti detta una disciplina differenziata per il difetto di sottoscrizione della sentenza da parte del giudice stabilendo che il relativo vizio sopravvive al passaggio in giudicato (in questo caso si potrebbe parlare di inesistenza). Per le rimanenti nullità invece l’art. 161 c.p.c. prevede che la nullità delle sentenze soggette ad appello o a ricorso in cassazione può essere fatta valere soltanto nei limiti e secondo le regole proprie di questi mezzi d’impugnazione (è questo il cd. Principio dell’assorbimento dei vizi di nullità in motivi di gravame). Va anche ricordato che vi sono delle nullità del giudizio di 1° grado come ad es. quella riguardante la notificazione della citazione o la mancata integrazione del contraddittorio che una volta dedotte con una valida e tempestiva impugnazione impongono al giudice dell’impugnazione di restituire la causa al primo giudice per il rifacimento totale del processo e che la nullità derivante dalla mancata partecipazione necessaria del P.M. da luogo ad un vizio che il P.M. può far valere anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza tramite revocazione ex art 397 c.p.c. L’art 157 c.p.c. fissa 4 condizioni perchè possa essere dichiarata la nullità rilevabile su eccezione di parte: 1) la prima condizione è che l’eccezione sia proposta dalla parte nel cui interesse è stabilito il requisito mancante 2) la seconda condizione è che l’eccezione sia proposta nella prima udienza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso 3) la terza condizione è che la parte interessata al rilievo della nullità non vi abbia dato causa 4) la quarta condizione è che la parte non abbia rinunciato neppure tacitamente a proporre l’eccezione L’art. 159 c.p.c. completa poi la disciplina sulla rilevabilità della nullità applicando il principio utile per inutile non vitiatur. In tal modo: 1) la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti o successivi che siano da esso indipendenti 2) se il vizio impedisce un determinato effetto l’atto può tuttavia produrre gli altri effetti ai quali sia idoneo (la giurisprudenza di solito ricorre a tale regola per ammettere la cd. Conversione degli atti processuali ad es un atto presentato come ricorso può valere come citazione) Per concludere va ricordato che ex art 162 c.p.c. il giudice quando sia possibile deve disporre la rinnovazione degli atti ai quali la nullità si estende.

SPESE PROCESSUALI E RESPONSABILITA’ AGGRAVATA Introduzione I 2 criteri: anticipazione e soccombenza In via provvisoria: anticipazione In via definitiva: soccombenza Art 92 cpc La sentenza statuisce sulle

Per quanto riguarda le spese processuali va detto che sono a carico delle parti: 1)gli onorari dovuti ai procuratori, ai difensori, ai custodi, agli interpreti, ai consulenti ed in genere a qualsiasi altro soggetto che svolga attività ausiliare 2) le spese per le indennità di trasferta spettanti al giudice e al cancelliere per l’ispezione dei luoghi 3) il costo della carta da bollo e i diritti percepiti dalla cancelleria e dagli uffici giudiziari 4) le imposte di registro, le tasse di bollo ed in genere tutte le spese che siano necessarie allo svolgimento del processo Il sistema accolto dal codice poggia su due criteri e cioè quello dell’anticipazione e quello della soccombenza. In via provvisoria e cioè quando in corso di causa non si sa ancora chi ha torto o ragione ciascuna delle parti ha l’onere di provvedere alle spese per gli atti che compie e per quelli che chiede e deve anticipare le spese per gli atti necessari al processo quando l’anticipazione sia posta a suo carico dalla legge o dal giudice. Occorre precisare che per atti necessari al processo s’intendono quelli disposti a prescindere dall’iniziativa

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spese Responsabilità per lite temeraria

delle parti. In questi casi il giudice deve valutare l’interesse per il quale l’atto è compiuto e determinare su chi ricade l’obbligo dell’anticipazione emanando un provvedimento esecutivo di condanna all’anticipazione in caso di mancato adempimento (si pensi ad es. ad una consulenza tecnica d’ufficio). In via definitiva vale il criterio della soccombenza secondo il quale la parte rimasta soccombente deve sopportare tutte le spese del processo comprese quelle anticipate dall’altra parte. Si tratta di un’applicazione del principio secondo cui la durata del processo non deve danneggiare in alcun modo la parte che ha ragione e quindi di un caso di responsabilità oggettiva diverso dalle ipotesi di responsabilità per lite temeraria. L’art 92 c.p.c. dispone che se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi il giudice può compensare parzialmente o per intero le spese tra le parti e può anche escludere la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice qualora le ritenga eccessive o superflue. Il giudice può altresì condannare una parte al rimborso delle spese anche non ripetibili che questa abbia causato alla controparte trasgredendo il dovere di lealtà e probità e ciò indipendentemente dalla soccombenza. La statuizione definitiva sulle spese è contenuta nella sentenza che chiude il processo davanti al giudice per cui si deve trattare di una sentenza processuale o di merito definitiva. La previsione di tale norma che dovrebbe riguardare ogni processo e che invece si riferisce al solo processo ordinario di cognizione crea problemi di adattamento ai processi esecutivi, cautelari, di volontaria giurisdizione e per quelli costitutivi necessari. Diverso dal problema delle spese è quello riguardante la responsabilità per lite temeraria la quale si ha quando la parte abbia agito o resistito in giudizio con mala fede, colpa grave o comunque senza la normale prudenza. L’art. 96 c.p.c. prevede al riguardo due autonome fattispecie di responsabilità per illecito processuale. La prima ipotesi meno severa presuppone che il soggetto abbia agito o resistito con dolo o colpa grave (non basta quindi la mera violazione dei doveri di lealtà e probità) è si applica a qualsiasi tipo di processo. Poiché tuttavia la legge non specifica che il comportamento è ingiusto quando la parte ritiene di aver torto (cd. Procedura ingiusta) la norma sembra applicabile anche quando il procedimento utilizzato sia irrituale. Il danno risarcibile riguarda in questo caso non le spese ma qualsiasi onere sostenuto dalla parte vittoriosa. La seconda ipotesi più severa presuppone invece una colpa lieve e cioè l’aver agito senza la normale prudenza e si riferisce solo ai procedimenti cautelari ed esecutivi nonché a taluni atti processuali (trascrizione delle domande giudiziali, iscrizione dell’ipoteca giudiziale). La giurisprudenza ritiene al riguardo che in questo caso i danni non possono essere fatti valere in via autonoma perché solo il giudice della causa di merito è in grado di valutare la temerarietà della lite. Per concludere va precisato che anche se l’art 96 c.p.c. prevede una liquidazione dei danni anche d’ufficio ciò non costituisce una deroga al principio della domanda la quale pertanto sarà sempre necessaria ma si riferisce alla prova dell’ammontare del danno il quale pertanto in mancanza di prova può essere determinato in via equitativa.

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I PRINCIPI DEL PROCESSO SECONDO IL CODICE DI PROCEDURA CIVILE Art 99 cpc e art 24 cost.

IL PRINCIPIO DELLA DOMANDA: art 99 cpc. è uno dei principi cardine del processo civile e stabilisce che “chi vuol far valere un proprio diritto in giudizio deve proporne domanda”. Tale articolo non fa altro che specificare il precetto contenuto nell’art 24 cost secondo cui “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi”. Il principio della domanda è stato posto per una serie di motivi: 1. garantire la terzietà del giudice di fronte alla controversia o affare giudiziario. 2. il portatore di una determinata situazione giuridica riconosciuta e tutelata dall’ordinamento ha il monopolio circa il potere di tutelare in giudizio tale situazione. Chiarite le ragioni che sono alla base del principio della domanda, è chiaro che eccezioni a tale principio sono limitatissime ed altamente sconsigliabili per non attentare alla imparzialità del giudice. Di eccezioni pertanto sono assai rare nel campo di quelle situazioni giuridiche sostanziali che l’ordinamento riconosce in modo pieno ai soggetti, in quanto la piena disponibilità di tali situazioni non può non comprendere anche la disponibilità processuale: cd diritti disponibili. Una possibilità di trovare un contemperamento tra opposte esigenze si ha tutte le volte in cui, fermo restando il divieto per il giudice di dare inizio ad un processo di propria iniziativa, si cerca di allargare la sfera dei soggetti che sono capaci di proporre domanda o di estendere la sfera dei soggetti legittimati ad esercitare un’azione oppure infine si pensi alle ipotesi in cui un’azione viene costruita come un potere pubblicistico esercitato da un soggetto in grado di poterlo fare in quanto membro della collettività. Si tratta di ipotesi queste ultime che non interessano un unico soggetto, ma l’intera collettività (cd diritti indisponibili). IL PRINCIPIO DELLA CORRISPONDENZA TRA CHIESTO E PRONUNCIATO: art 112 cpc. “Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”. Altro principio cardine del processo civile è appunto quello della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. I 2 artt. fino ad ora esaminati, in combinato disposto esprimono l’idea secondo la quale non solo i soggetti hanno il monopolio in ordine alla scelta di adire o no il magistrato, ma hanno anche il monopolio in ordine al potere di determinare il tema decidendum. Ciò vuol dire che le parti hanno il potere di condizionare il giudice sia inizialmente, decidendo se adire o meno il giudice, sia successivamente determinando su che cosa il giudice dovrà giudicare. In pratica nel proporre la domanda giudiziale un soggetto espone un avvenimento o episodio di vita concreto da ricondurre ad una o più disposizioni di legge per ricavarne conseguenze favorevoli. Ci si è chiesti se il giudice sia vincolato alle richieste delle parti sia per quanto concerne l’esposizione dei fatti sia in relazione alle norme invocate, sia infine in relazione alle conseguenze giuridiche dedotte. Va detto che mentre il giudice non risulta essere vincolato per quanto concerne la prospettazione giuridica e quindi le norme invocate, viceversa lo è invece per quanto concerne la prospettazione dell’episodio di vita concreta e quindi del fatto. Va anche ulteriormente chiarito che poiché le parti nell’esporre il fatto spesso lo arricchiscono di particolari che servono ad individuarlo e specificarlo, bisogna fare distinzione tra i Fatti principali che sono quelli che integrano il nucleo essenziale ed i Fatti secondari che invece sono quelli che integrano le circostanze che

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arricchiscono, precisano e chiariscono il fatto principale, senza tuttavia incidere sul suo nucleo essenziale. Il giudice mentre è vincolato per quanto riguarda la proposizione del fatto principale attraverso l’attività assertiva, non lo è altrettanto per quanto concerne l’attività asseverativa che ha come scopo quella di arricchire il fatto principale offrendo al giudice elementi di convincimento a sostegno del fatto principale: in poche parole l’attività probatoria. Anche per quanto concerne l’attività assertiva bisogna poi fare un distinguo tra la proposizione dei fatti principali nei confronti dei quali il giudice è sicuramente vincolato, e la proposizione dei fatti secondari, nei cui confronti non è affatto certo che si estenda il vincolo del giudice. Appare cmq fondamentale il potere del giudice nel corso della prima udienza di chiedere alle parti sulla base dei fatti allegati i chiarimenti necessari e quindi di indicare le questioni rilevabili d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione. Attraverso l’uso accorto di tale potere che in genere viene esercitato nell’interrogatorio libero, il giudice può ottenere quelle integrazioni nella narrazione dell’episodio di vita concreta che siano o indispensabili (in quanto fatti principali) o utili (in quanto fatti secondari) ai fini del convincimento giudiziale. Per quanto concerne poi la possibilità per le parti di modificare nel corso del processo domande ed eccezioni già presentate, il nuovo testo dell’art 183 cpc consente alle parti di modificare domande, eccezioni e conclusioni già formulate fino alla prima udienza di trattazione e cmq non oltre il termine concesso loro all’uopo dal giudice. In linea di principio si dice che c’è una modificazione ogniqualvolta la parte ha bisogno di introdurre ulteriori fatti storici per supportare le sue richieste. Alla determinazione del voluto concorre non solo l’attore ma anche il convenuto, allorché questi introduca nel processo altri fatti che servono in tutto o in parte a togliere valore a quelli dedotti dall’attore. In questi casi è ovvio che il giudice dovrà guardare all’attività assertiva non solo dell’attore, ma anche del convenuto. Al riguardo l’art 112 cpc dispone che il giudice non può pronunciarsi d’ufficio su eccezioni che possono presentare solo le parti. In virtù della interpretazione letterale della norma, il codice sembra esprimere l’idea che in generale il giudice può rilevare d’ufficio le eccezioni tranne il caso in cui la legge non preveda espressamente il rilievo di parte. In effetti una risposta definitiva non può esser data in via univoca in quanto bisogna sicuramente riferirsi al caso - per - caso. Ad ogni modo bisogna anche precisare che in ordine alla rilevabilità d’ufficio delle eccezioni, va da sé che essa è consentita solo ove risultino acquisiti agli atti del processo i fatti storici su cui esse sono basate. Infine per quanto concerne l’esistenza supposta di un vincolo del giudice in relazione alla individuazione ed interpretazione delle norme da applicare nel caso concreto, và detto che tale vincolo non esiste e che a fondamento di tale regola vi è l’esigenza di garantire la parità di trattamento tra le parti e assicurare che colui che individua ed applica le norme non è il soggetto interessato ma un soggetto imparziale. In più va anche precisato che la libertà di individuare ed interpretare le norme da applicare al caso concreto non include anche la libertà in ordine alla individuazione delle conseguenze giuridiche. Di fatto se la parte ha chiesto in ordine ad un determinato fatto il riconoscimento di determinate conseguenze, e il giudice invece ritiene che lo stesso fatto in realtà giustifichi altre conseguenze, egli non può sostituirsi alla parte nella derivazione delle diverse conseguenze, tranne il caso in cui si tratta di conseguenze dichiarabili d’ufficio o di conseguenze dedotte in via alternativa dalla stessa fattispecie. Allo stesso modo se la parte ha posto a base di un determinato

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effetto giuridico (es l’annullamento del contratto) un determinato fatto (es per violenza) ed il giudice ritenga che lo stesso effetto sia giustificato da altro fatto (es per errore) pure risultante dal processo, egli non potrà sostituire l’uno all’altro fatto, tranne che l’effetto sia dichiarabile d’ufficio. Nell’ipotesi in cui il giudice abbia giudicato non rispettando i vincoli derivanti dal principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, và incontro a 2 possibili ipotesi: 1. se il giudice pronuncia sul caso senza tener conto di tutte le richieste delle parti oppure modificandole, vi è un difetto di pronuncia: il provvedimento è viziato, la pronuncia non esiste e quindi le parti possono proporre di nuovo identica domanda in un successivo giudizio. 2. se il giudice pronuncia sul caso senza che siano fatte le apposite istanze, si ha un difetto di pronuncia: il provvedimento è viziato, ma la pronuncia esiste, e quindi se le parti vogliono evitare il passaggio in giudicato della sentenza, devono proporre impugnazione. Questa la differenza tra ultra petita e difetto di pronuncia. IL PRINCIPIO DEL CONTRADDITTORIO: art 101 cpc “Salvo che la legge disponga altrimenti, il giudice, se la parte contro la quale è stata proposta domanda non è stata regolarmente citata e non sia comparsa, non può emettere alcun provvedimento”. Detto articolo si pone come proiezione dell’art 24 cost secondo cui la difesa è un diritto sacro ed inviolabile in ogni stato e grado del processo. Alla base del principio del contraddittorio ci sono essenzialmente 2 ragioni: 1. il principio del contraddittorio è l’unico in grado di garantire il paritario trattamento dei soggetti nel processo 2. il contraddittorio si ritiene lo strumento migliore e più facilmente utilizzabile dal giudice per ottenere tutto il materiale necessario all’emanazione del provvedimento più giusto. Ciò chiarito è anche logico che al principio del contraddittorio non dovrebbero esserci eccezioni: l’articolo 101 però, con l’inciso “salvo che la legge non disponga altrimenti”, sembra tuttavia ammettere invece l’esistenza delle eccezioni suddette. Si ritiene che le 2 possibili eccezioni alla regola del contraddittorio possano essere solo ed esclusivamente le seguenti: 1. quando il provvedimento che fosse emanato dopo la realizzazione del contraddittorio potrebbe risultare inutile 2. quando la situazione giuridica azionata abbia caratteristiche tali da giustificare una tutela immediata. Cmq in entrambi i casi l’eccezione alla regola del contraddittorio sarebbe ammessa solo a condizione che il contraddittorio possa essere instaurato in un momento successivo (cd realizzazione eventuale o differita). Il meccanismo utilizzabile dal legislatore in questo caso può essere triplice: 1. lo stesso giudice che ha emanato il provvedimento inaudita altera parte dispone la convocazione delle parti in contraddittorio dando vita ad un processo a contraddittorio pieno che si conclude con la revoca o la conferma dello stesso. 2. la parte che ha ottenuto il provvedimento inaudita altera parte deve instaurare un processo a contraddittorio pieno entro un termine perentorio 3. la parte contro cui è stato emanato il provvedimento senza la sua preventiva audizione propone opposizione entro un termine perentorio instaurando un processo a contraddittorio pieno. Qual è la disciplina per la violazione del principio del contraddittorio? 2 sono le ipotesi: il giudice ritiene la parte contumace senza rilevare un vizio nella notificazione che avrebbe imposto la rinotificazione dell’atto (cd contumacia involontaria): in tal caso la sentenza è impugnabile e vi è un correttivo quanto al termine per impugnare dato alla parte involontariamente assente in quanto ignaro del processo la parte è rappresentata nel processo da un rappresentante senza potere (cd falsus

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procurator): in tal caso taluni ritengono che la sentenza è in opponibile a colui che è stato rappresentato dal falsus procurator, altri invece ritengono che il rappresentato dal falsus procurator sia da parificare al contumace involontario, altri infine ritengono che egli abbia la possibilità di proporre opposizione di terzo ordinaria, la quale è soggetta solo a prescrizione. PRINCIPIO DISPOSITIVO E INQUISITORIO Per poter procedere il giudice deve istruire la causa, deve cioè accertare che i fatti rilevanti ai fini della decisione siano veri. Occorre rilevare che altro è introdurre nel giudizio fatti rilevanti nel processo ed altro ancora controllare che tali fatti rispondano al vero. Questo secondo problema attiene all’istruzione probatoria. Con riguardo al modo in cui il giudice debba procedere per quanto concerne l’istruzione probatoria, vi sono in dottrina 2 diverse tendenze: 1. taluni ritengono che sia preferibile lasciare alle partile iniziative probatorie in modo da evitare poteri arbitrari del giudice 2. altri invece ritengono che debba essere il giudice a dover assumere in prima persona il compito di ricerca della verità senza essere condizionato dalle parti Si tratta, com’è ovvio, di una contrapposizione tra 2 diverse ideologie: 1. la prima ideologia, liberale individualista che vede nel processo uno strumento di risoluzione delle liti 2. la seconda, quella socialista che vede nel processo lo strumento per ricercare ed ottenere la giustizia sostanziale. L’art 115 cpc disponendo che salvo i casi previsti dalla legge il giudice deve porre a fondamento della propria decisione le prove proposte dalle parti o dal p.m., si ispira alla ideologia liberale: tale articolo infatti ha accolto il principio secondo cui rientra nella disponibilità delle parti anche l’attività istruttoria. In dottrina si è soliti dire che nel nostro ordinamento vale sia il principio dispositivo in senso ampio per il quale le parti hanno il potere di proporre domanda, fissare il tema decisionale e produrre le prove a sostegno della propria posizione, sia il principio dispositivo in senso stretto in virtù del quale le parti hanno il potere di produrre le prove e soltanto in base ad esse il giudice può pronunciarsi. Per quanto concerne però il potere dispositivo in senso stretto, vi sono rilevanti dubbi che esso prevalga sempre sul principio inquisitorio in virtù della seguente considerazione: l’inciso “salvo che la legge disponga altrimenti” in realtà più che fissare il principio che il potere dispositivo delle parti è la regola e quello inquisitorio costituisce l’eccezione, in realtà fa riferimento ad un numero consistente di ipotesi che si risolvono nella rilevante possibilità per il giudice di intervenire al fine di controllare le parti nell’indagine istruttoria, evitando così il loro monopolio esclusivo nella ricerca della verità; tali ipotesi sono: 1. il potere di disporre d’ufficio l’interrogatorio libero 2. il potere di ordinare l’ispezione di persone o cose 3. il potere di disporre la consulenza tecnica 4. il potere di deferire il giuramento suppletorio ed estimatorio 5. il potere di richiedere informazioni alla P.A. relativamente ad atti e documenti della stessa 6. il potere del giudice di rivolgere ai testi tutte le domande che ritenga necessarie o utili a chiarire i fatti su cui i testi sono chiamati a deporre, di disporre il confronto tra testi, di assumere altri testi e di rinnovarne l’esame 7. il potere del giudice di pace e del tribunale di disporre d’ufficio la prova per testi quando le parti nell’esposizione dei fatti si siano riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità L’art 115 2° cpc dispone che il giudice può porre a fondamento della decisione, senza il bisogno di prove i cd fatti notori, e cioè le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Si deve trattare però di fatti che fanno parte del patrimonio comune di conoscenza di una determinata

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collettività in un determinato periodo storico. L’appartenenza dei fatti al patrimonio comune funge da filtro idoneo ad evitare che vi sia imparzialità da parte del giudice. I fatti notori non hanno bisogno di essere provati, ma è necessario che siano allegati. Va infine sottolineato che la possibilità di far riferimento ai fatti notori, esclude, argomentando a contrario, la possibilità che il giudice, nel raggiungere un proprio convincimento, possa far riferimento alle proprie conoscenze personali (cd divieto di scienza privata). È ovvia l’esigenza sottesa a tale divieto che risiede nella necessità di non lasciare la coscienza del giudice arbitra di ritenere fondati o meno determinati fatti che non siano di pubblica conoscenza. LA VALUTAZIONE DELLE PROVE: art 116 cpc Dispone l’art 116 cpc che il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo la legge disponga altrimenti. Così formulato, l’articolo sembra dire che normalmente il giudice valuta le prove secondo il suo prudente apprezzamento (cd prova libera) e solo eccezionalmente non può valutarle in questo modo (cd prova legale). Questa soluzione, visto anche il numero di eccezioni alla prova libera, è sottoposta a critica da coloro che invece ritengono che tutte le prove dovrebbero essere valutate allo stesso modo e che dovrebbero essere tutte soggette al libero apprezzamento del giudice. Per comprendere meglio le 2 opposte posizioni esaminiamo in dettaglio le prove legali e quelle libere. Iniziamo dalle prove libere. Nel caso delle prove libere il giudice deve valutarle secondo criteri non arbitrari ma razionali: ciò vuol dire che data una premessa minore, esempio una testimonianza, ed una maggiore, esempio il criterio razionale secondo cui tutti sono disposti a credere che le persone oneste dicano il vero specie se sotto giuramento, il giudice, sulla base di queste 2 premesse sarà in grado di ricostruire il fatto. È ovvio che la premessa maggiore è razionale nella misura in cui riceve il consenso della collettività, e rappresenta la massima di comune esperienza sulla cui base il giudice formerà il proprio convincimento. Nel caso di prove legali invece il legislatore ha cristallizzato la massima comune di esperienza rendendola regola giuridica e quindi non modificabile nel caso concreto, (es. poiché la parte che dichiara fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte normalmente dice il vero tranne che sia folle, si ritiene tale dichiarazione come prova vincolante ex lege per il giudice) il legislatore è giunto alla conclusione che la dichiarazione confessoria deve essere ritenuta vera dal giudice, il quale pertanto non può liberamente valutarla, anche se abbia il sospetto che colui che confessa dice il falso. Allo stesso modo poiché chi giura moralmente è vincolato a dire il vero, il giudice è tenuto a credere a quanto risulta dal giuramento. Ad ogni modo va detto che, per ciò che concerne la prova legale, i meccanismi di valutazione preventiva presuppongono da un lato che i soggetti siano pienamente capaci e dall’altro che i diritti su cui incidono siano diritti disponibili. Ovviamente non sono mancate critiche alle prove legali, critiche delle quali daremo di seguito spiegazione: 1. non sono fondate le critiche relative alla prova confessionale in quanto la possibilità che si potrebbe eventualmente realizzare, e cioè un uso distorto del meccanismo confessorio, è tanto marginale che la critica in sé stessa appare del tutto marginale 2. fondata invece è la critica relativa al giuramento per 2 ordini di motivi: in primo luogo perché la massima di esperienza dalla quale il legislatore è partito non è più sentita dalla collettività presso la quale il vincolo morale/religioso è alquanto attenuato in secondo luogo perché la previsione

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legislativa in virtù della quale la sentenza resta ferma anche nel caso di condanna della parte per falso giuramento (unico rimedio essendo rappresentato dal risarcimento danni) non è assolutamente giustificabile. Cmq si può dire che dietro alla disciplina delle prove legali si può riscontrare nell’atteggiamento del legislatore una sorta di sfiducia nei confronti del “prudente apprezzamento del giudice”, e che viceversa per quanto concerne le cd prove libere vi è invece un atteggiamento di massima fiducia nelle capacità e nel corretto uso di tale “prudente apprezzamento” da parte del giudice; tuttavia proprio a tal proposito alcuni hanno obiettato che la razionalità del ragionamento giudiziale non è dimostrabile, che i giudici ragionano sulla base di impulsi istintivi e di situazioni non oggettivabili, che le motivazioni sono sovrastrutture insincere ecc. Se queste obiezioni fossero vere si dovrebbe concludere che l’attività del giudice è meramente arbitraria, soggettiva ed incontrollabile. Che queste conclusioni sicuramente non siano assolutamente convinzione del legislatore, lo si ricava per esempio dall’art 111 cost., il quale impone l’obbligo della motivazione. È infatti ad essa che le parti, i giudici superiori e la collettività fanno riferimento per stabilire se il giudice abbia deciso secondo il suo prudente insegnamento. Un’ulteriore conferma di ciò è data dal fatto che tra i motivi del ricorso in cassazione viene annoverato anche quello relativo alla omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione. Accanto alle prove poi l’art 116 cpc annovera anche gli argomenti di prova, elencando tra i fatti che possono dar luogo ad argomenti di prova le risposte delle parti in sede di interrogatorio libero, il loro rifiuto ingiustificato a consentire ispezioni, ed in generale il loro contegno nel corso del processo. Tali fatti nella logica del legislatore possono servire ad interpretare le prove altrimenti acquisite. In altri termini tali fatti che di per sé non sono sufficienti a formare il convincimento del giudice, dal momento che questi non può fondare solo su di essi il proprio convincimento, diventano rilevanti potendo essere utilizzati dal giudice per pervenire alla valutazione critica delle vere e proprie prove. REGOLA DELL’ONERE DELLA PROVA Come deve comportarsi il giudice se nonostante i tentativi istruttori esperiti non sia sufficientemente convinto che un fatto necessario per dichiarare un determinato effetto giuridico si sia realmente verificato? La risposta più ovvia è che egli non può provvedere e che quindi deve liberarsi della questione pronunciando un non liquet e cioè una non-decisione che lascerebbe le cose al punto di partenza, rimanendo salva la possibilità per le parti di riproporre la questione. Una soluzione del genere NON può essere accettata! Nel nostro ordinamento le pronunce di merito anche se negative sono idonee a diventare cosa giudicata in senso formale e sostanziale. Né il giudice può decidere sulla base di personali convinzioni (ad es la maggior fiducia che gli ispira una delle parti) in base al principio di legalità e della certezza del diritto intesi come prevedibilità e controllabilità delle decisioni del giudice. L’art 2697 cc dispone che chi vuole far valere un diritto il giudizio deve provarne i fatti che ne costituiscono il fondamento. Ciò comporta che il giudice rigetti l’istanza ove non risulti acquisita al processo una prova sufficiente dell’esistenza dei fatti su cui l’istanza è fondata. L’articolo in questione pone un principio molto semplice in virtù del quale chi chiede il provvedimento deve dimostrare in modo sufficiente ed esaustivo l’esistenza dei fatti sui quali è fondata l’istanza; si faccia un esempio: il creditore che chiede la condanna del debitore al pagamento di un’obbligazione deve

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dimostrare 1. di avere consegnato a titolo di mutuo e non di regalo il danaro al debitore 2. di non averlo ricevuto in restituzione 3. che non esistono altre cause per le quali il diritto al credito si sia estinto, modificato o non possa essere azionato. È chiaro che costringere il creditore a dare prova di tutti questi elementi sarebbe piuttosto iniquo, data cmq la difficoltà (se non la impossibilità) di una prova analitica sufficiente che riguardi ad esempio l’ultimo punto, pertanto tale norma pone il problema di individuare quali siano i fatti fondamentali bisognosi di prova ai fini dell’accoglimento della richiesta. A tal fine il legislatore distingue i fatti in 2 categorie: 1. quelli che sono alla base della situazione sostanziale dedotta nel processo (cd fatti Costitutivi) 2. quelli che hanno il potere di modificare, estinguere o impedire gli effetti che i primi sono idonei a produrre o hanno prodotto (cd fatti impeditivi, estintivi, modificativi) In questo modo il rischio della mancata prova viene ad essere ripartito tra le parti del processo dato che il provvedimento sarà rifiutato se l’attore non provi i fatti costitutivi, mentre sarà concesso se l’attore dia tale prova ed il convenuto a sua volta non provi i fatti impeditivi, estintivi, modificativi. È anche da sottolineare che l’art in parola nulla dice a proposito della identificazione dei fatti costitutivi, modificativi, estintivi, impeditivi, essendo questo il risultato di una indagine da svolgere sulla base della disciplina sostanziale. L’APPLICAZIONE DEL DIRITTO E L’EQUITA’ Nel momento della decisione il giudice deve valutare il fatto così come ricostruito o accertato nel processo secondo criteri prestabiliti di valutazione che egli rinviene nella legge. Questo in virtù di quanto rileva l’articolo 101 cost. Da quanto detto ne deriva che il giudice, disponendo l’art 113 cost che nel pronunciare la sentenza deve seguire le norme di diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità, normalmente decide secondo diritto e solo eccezionalmente decide secondo equità. Inoltre il giudice non può esimersi dal giudicare asserendo che non conosce la norma da applicare. Egli dovrà risolvere da sé tale problema, anche senza la collaborazione delle parti. La soluzione non crea difficoltà nel caso di norme del nostro ordinamento che vengano pubblicate in raccolte ufficiali. La soluzione diventa sicuramente più complessa quando si tratta di reperire norme del diritto antico o straniero. Per quanto concerne in particolare il diritto straniero, l’art 205 disp att cpp. dispone che il giudice che per ragioni d’ufficio deve conoscere il testo di una legge straniera, deve farne richiesta al ministero di Grazia e Giustizia, indicandone il motivo. Secondo Verde la disposizione in parola conferma il principio secondo il quale il giudice non può esimersi dal giudicare dicendo di non conoscere la legge straniera. Diversamente infatti si degraderebbe la norma straniera a semplice elemento di fatto che sarebbe poi la parte a dover portare in giudizio alla stregua di qualsiasi altro elemento di fatto. Per quanto concerne il diritto antico il giudice si può avvalere di consulenti esperti che abbiano tutte le informazioni necessarie ed utili per la utilizzazione delle norme del diritto antico. Per quanto concerne i giudizi secondo equità, vanno distinte: 1) equità formativa: utilizzata quando nel nostro ordinamento ci sono delle lacune, specie in periodi di grossa instabilità politica, al fine di colmarle col ricorso al giudizio secondo equità. 2) equità suppletiva: utilizzata in particolari ipotesi in cui l’ordinamento prevede la fattispecie astratta ma non collega ad essa nessuna conseguenza giuridica, lasciandola alla determinazione equitativa del giudice es in tema di alimenti. 3) equità sostitutiva: che si ha quando il giudice può valutare il caso concreto in modo

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diverso da come è stato valutato in astratto dalla legge, dato che il caso concreto, pur rientrando nella fattispecie legale tipica, presenta tuttavia alcuni aspetti particolari che richiedono una diversa valutazione. A cosa si riferisce l’articolo 113 della cost quando afferma che il giudice nel pronunciarsi sulla causa deve seguire le norme del diritto salvo che la legge gli attribuisca il potere di giudicare secondo equità? Non alla equità formativa, in quanto il giudice è cmq pur sempre legato alla funzione di far attuare nel modo più giusto le norme di diritto e quindi non può crearle. Non si riferisce alla equità suppletiva perché anche se il giudice collega ad una ipotesi concreta una determinata conseguenza giuridica, in realtà non fa che applicare una regola di giudizio prevista dall’ordinamento giuridico. Pertanto la equità cui si riferisce l’art 113 cost è sicuramente quella sostitutiva: pur se la legge disciplina in astratto una determinata ipotesi, è consentito al giudice di valutare la situazione concreta in modo diverso da quanto previsto in astratto dalla legge, allorquando la stessa situazione concreta presenti caratteri specifici e particolari tali da esigere una diversa valutazione da parte del giudice. L’art 114 cost stabilisce quali sono i casi in cui il giudice può ricorrere al giudizio di equità, e cioè indica 2 condizioni: 1. la controversia deve riguardare diritti disponibili 2. le parti ne devono fare richiesta concorde. Dalla disciplina positiva emerge che: le sentenze pronunciate secondo equità sono Inappellabili il giudice deve dar conto dei criteri seguiti nella decisione e deve esporre le ragioni di equità sulle quali è fondata la sentenza le sentenze in parola possono essere ricorribili in cassazione caratteristiche salienti del giudizio secondo equità sono: 1. libertà istruttoria 2. non viene applicato il principio dell’onere della prova.

LA GIURISDIZIONE Nozione di giurisdizione

Il proprium della giurisdizione è dato dal fatto che mentre il giudice tratta dell’affare giudiziario sempre nella posizione di terzo imparziale, la P.A. invece, nell’attuare le pubbliche funzioni, realizza sempre un proprio interesse. La funzione giurisdizionale può essere definita come funzione diretta all’attuazione della legge da parte di soggetti che si comportano come terzi imparziali. Esistono 3 tipi di giurisdizione: 1. quella penale: preposta all’attuazione delle norme penali, le quali si contraddistinguono per il fatto di esser garantite dalla sanzione penale 2. quella amministrativa: che ha ad oggetto la tutela di interessi legittimi, ed in casi particolari previsti dalla legge, anche di diritti soggettivi 3. quella civile che ha ad oggetto tutte le materie che non sono affidate né alla giurisdizione penale, né a quella amministrativa. 4. infine quella costituzionale: che ha il compito di sindacare la conformità alla costituzione delle leggi e degli atti aventi forza di legge.

LE VARIE FORME DI GIURISDIZIONE CIVILE Le 3 forme di giurisdizione civile: contenziosa esecutiva volontaria Le procedure unilaterali Le procedure

In linea di approssimazione possiamo dire che esistono 3 forme di giurisdizione civile: 1. la giurisdizione contenziosa, caratterizzata dall’esservi una controversia tra più persone che si presentano davanti al giudice in posizione contrapposta 2. la giurisdizione esecutiva, caratterizzata dalla funzione di realizzare anche coattivamente determinati comandi ai quali l’ordinamento riconosce particolare efficacia 3. la giurisdizione volontaria, dove non c’è controversia da risolvere ma semplicemente da gestire un negozio o affare che richiede l’intervento di un terzo imparziale. La differenza fondamentale tra giurisdizione contenziosa e quella volontaria risiede nel fatto che in sede contenziosa i giudici emettono un

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bi/pluri - laterali

provvedimento che è in grado di regolare con stabilità il rapporto controverso tra le parti in lite. Ciò vuol dire che tale provvedimento, una volta esperiti tutti i rimedi processuali o inutilmente decorsi i termini per esperirli, diviene stabile, in modo da porsi da quel momento in poi come fonte della normativa che disciplina il rapporto sostanziale controverso. Nella giurisdizione volontaria invece tutto questo non c’è, perché essendo i provvedimenti emanati in tale sede indirizzati solo ed esclusivamente ad una migliore gestione degli affari o negozi, essi (i provved.)vengono emessi in base ad una valutazione di opportunità che può anche mutare nel tempo. Esiste tuttavia una molteplicità di situazioni in cui si passa da forme chiare e semplici di volontaria giurisdizione a forme articolate e complesse che assumono sempre più i caratteri del processo contenzioso (es.nomine dei rappresentanti degli incapaci o interdetti rispetto ai provvedimenti di adozione che richiedono la partecipazione di una pluralità di interessati e che quindi prevede un iter piuttosto articolato e complesso). I provvedimenti di volontaria giurisdizione sono disciplinati ex artt. 737 e ss. Cpc.i quali prevedono un procedimento in camera di consiglio. Queste disposizioni ben si adattano però a quei procedimenti ove vi sia un solo interessato al provvedimento (cd procedure unilaterali). In questi casi la competenza territoriale è inderogabile. Caratteristiche principali dei provv.di volontaria giurisdizione sono: 1. procedimento in camera di consiglio 2. la domanda consiste in un ricorso 3. l’istruttoria si concreta nell’assunzione di informazioni d’ufficio 4. il contraddittorio si intende realizzato con l’audizione del P.M. al quale vanno previamente comunicati gli atti affinché stenda il suo parere 5. il provvedimento emesso consiste in un decreto motivato impugnabile con reclamo davanti al giudice superiore (tribunale o c.app.) entro il termine perentorio di 10 gg.dalla comunicazione se dato nei confronti di una sola parte o dalla notificazione se dato nei confronti di più parti. 6. il P.M. può proporre a sua volta reclamo entro 10 gg. solo contro: i decreti del giudice tutelare i decreti del tribunale per i quali è necessario il suo parere 7. non è ammesso alcun controllo della cassazione 8. i decreti sono sempre revocabili o modificabili ma restano salvi i diritti acquisiti in buona fede da terzi in forza di convenzioni anteriori alla revoca o modifica. A differenza delle procedure unilaterali, quelle bi/plurilaterali possono dar vita a contrasti di interessi che il legislatore ha ritenuto opportuno comporre in sede non contenziosa. Quanto detto trova conferma per esempio nella disciplina prevista in relazione al termine previsto per la presentazione del reclamo, che lascia intendere che il procedimento in questo caso debba essere organizzato in modo da garantire il rispetto del contraddittorio. È ovvio che in questi casi i procedimenti di volontaria giurisdizione molto si avvicinano a quelli contenziosi, tanto che i provvedimenti emessi avranno maggiore attitudine a divenire stabili.

L’ARBITRATO Nozione La funzione giurisdizionale, oltre che essere esercitata da magistrati ordinari, può

essere esercitata anche da altre persone. Se però ciò non è ammissibile in tutte le forme di processo volontario contrassegnate dall’essere affidate a magistrati di carriera, è difficilmente ipotizzabile altresì nel campo del processo esecutivo, non essendo consentito l’uso della forza per costringere altri ad adempiere alle proprie obbligazioni. Ciò è invece possibile nel campo della giurisdizione contenziosa laddove nulla si oppone alla decisione concorde delle parti di far decidere la

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controversia anziché dai giudici dello stato, da persone di loro fiducia. Le parti quindi possono stabilire con un contratto scritto, il compromesso di far decidere dagli arbitri una controversia gia’ insorta e ben individuata che abbia ad oggetto diritti disponibili. Le stesse parti possono anche stabilire con una clausola compromissoria inserita in un più complesso contratto che stipulano o anche con atto separato che si colleghi a detto contratto, che le future controversie scaturenti da esso saranno decise dagli arbitri. N.b. la clausola compromissoria non può essere mai anteriore al contratto cui si riferisce, ma può invece costituire un atto separato. Ecco alcuni punti fondamentali previsti dalla disciplina dell’arbitrato: 1. secondo la giurisprudenza la questione circa l’appartenenza della causa al giudice onorario o togato o all’arbitro costituisce questione di competenza. L’arbitro pertanto viene considerato come una sorta di giudice civile “sui generis”. 2. mentre il compromesso è un contratto a forte carattere specifico, la clausola compromissoria che accede a diverso contratto stipulato tra le parti (clausola che non può essere mai, come già detto anteriore al contratto ma sempre e solo contemporanea o anche successiva) ha invece carattere generico. La clausola compromissoria, così come il compromesso, devono essere sempre espressi per iscritto. 3. quali sono le controversie che non possono essere decise dagli arbitri? Art 409 cpc: controversie individuali di lavoro, salvo che il ricorso all’arbitrato sia cmq consentito nei contratti/accordi collettivi nazionali di lavoro e purchè ciò avvenga senza pregiudicare la facoltà delle parti di poter adire in qualsiasi momento il giudice ordinario. N.B. nelle controversie in materia di lavoro la volontà di servirsi del giudizio di un collegio arbitrale deve essere manifestata espressamente al momento della stipulazione del compromesso o della clausola compromissoria, e deve cmq essere fatta salva sempre la possibilità per la parte di adire il giudice ordinario. Art 412 cpc: controversie in tema di previdenza/assistenza obbligatoria. Controversie che riguardano questioni di stato o di separazione personale tra coniugi. Controversie che hanno ad oggetto questioni che non possono formare oggetto di transazione. Cosa succede se pur in mancanza di valida clausola compromissoria o di valido compromesso le parti invece di adire un giudice ordinario chiedono l’intervento di un arbitro? In questa ipotesi una delle parti potrà sollevare eccezione di incompetenza ex art 817 cpc. Essendo però tale eccezione disponibile, se essa non è sollevata dalla parte interessata e gli arbitri si pronunciano sulla controversia, la parte interessata stessa non potrà più far valere il suo diritto in sede giurisdizionale. Gli arbitri emettono una decisione secondo diritto, salvo che non siano autorizzati dalle parti a pronunciare secondo equità. La pronuncia prende il nome di lodo e può essere depositata assieme con gli atti preliminari nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Nel caso in cui il lodo sia depositato, il giudice ne accerta la regolarità formale e lo dichiara esecutivo con decreto. Al tribunale può essere proposto reclamo solo contro il decreto che nega l’esecutività del lodo. Il lodo è soggetto alla correzione degli errori materiali, ad impugnazione per motivi di nullità ex art 828 cpc davanti alla corte d’appello nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato, nonché a revocazione o opposizione di terzo nei casi previsti dalla legge.

TITOLO ESECUTIVO E PRECETTO TITOLO III - IL PROCESSO DI ESECUZIONE

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Art 474cpc Definizione di titolo esecutivo L’esecuzione forzata

Il titolo esecutivo. L’esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. Sono titoli esecutivi: Le sentenze ed i provvedimenti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva Le cambiali ed altri titoli di credito e gli atti ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia Gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, relativamente alle obbligazioni di danaro in essi contenute Da quanto ora detto, se ne desume che in primo luogo il titolo esecutivo costituisce fattispecie necessaria e sufficiente per dare il via al processo di esecuzione. Il titolo esecutivo deve avere alla base un diritto certo, cioè affidabile; liquido, cioèdeterminabile nell’ammontare ed esigibile e quindi non sottoposto a condizioni o termini. Esistono forme di tutela autonome in grado di far ottenere al titolare del diritto che abbia le caratteristiche espresse dall’articolo 474 cpc, anche contro la volontà del soggetto obbligato e senza alcuna collaborazione da parte di quest’ultimo, il concreto soddisfacimento dello stesso diritto. Queste forme di tutela autonome si concretizzano in una attività surrogatoria e quindi nel coattivo soddisfacimento del diritto a favore del titolare di quest’ultimo. L’esecuzione forzata si distingue in 1. espropriazione forzata 2. esecuzione forzata in forma specifica Caratteristiche del processo di esecuzione sono: la tutela di diritti soggettivi determinata su impulso di parte controllo degli organi giudiziari rispetto del contraddittorio conclusione del processo con atti provenienti dal giudice dell’esecuzione