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Prof. Giovambattista Fatelli

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La concezione del lavoro scientifico nel mondo contemporaneo, al di là delle circostanze particolari vigenti nei vari contesti geografici, appare sempre più sofferente al momento di dichiarare i principi da cui trae ispirazione e le finalità ultime cui deve essere indirizzato, spesso ricorrendo agli scudi della tradizione per gli uni e di una generica utilità sociale per le altre.

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Per avere un riepilogo dei comandamenti che guidano, o dovrebbero guidare, l’attività scientifica può avere ancora qualche utilità l’invocazione degli «imperativi istituzionali» censiti da Robert K. Mertonnegli anni Quaranta.

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«Pure da ripensare gli imperativi istituzionali della scienza, accusati di riferirsi a situazioni non reali, di essere polisemici o addirittura vuoti, nonché di non reggere il confronto con la ricerca empirica. Ricordiamoli brevemente; si tratta di alcune regole non codificate – che sono oggi più che mai eticamente rilevanti –nelle quali si riassume l’ethos della scienza moderna»

Imperativi istituzionali

Angela Maria Zocchi (Dipartimento di Scienze della Comunicazione Università di

Teramo), Scienza e società: la rivincita di Robert K. Merton, p. 10.

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• Universalismo

• Comunismo

• Disinteresse

• Scetticismo metodologico

(Robert King Merton, Teoria e struttura sociale (1949), Il Mulino, Bologna 1959, pp. 778-790).

Imperativi istituzionali

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Merton è un sociologo funzionalista e non ha in mente di elaborare una specie di «bibbia dello scienziato perfetto», ovvero di cimentarsi nella sfera del dover essere per indicare ai suoi colleghi a quali valori ci si deve attenere per orientare il proprio comportamento. Egli sta invece esaminando la possibilità di fondare una sociologia della conoscenza attraverso l’analisi della concreta condotta degli scienziati per scoprire a quali principi essa sia materialmente ispirata.

Imperativi istituzionali

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Gli imperativi istituzionali di Merton hanno quindi una fondazione empirica e non etica. Risultano perciò un po’ light, connessi alle buone pratiche condivise, più norme di buona condotta che prescrizioni assolute. Li useremo pertanto come base di partenza per individuare i principii che li sorreggono.

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Ogni nuovo contributo scientifico deve essere valutato sulla base di criteri impersonali prestabiliti che si rifanno a principi universali (oggettività, accuratezza, contributo alla crescita cumulativa della conoscenza, ecc.), senza nessun riguardo agli specifici attributi individuali dei diversi scienziati (appartenenza di genere, religione, razza, provenienza sociale, ecc.).

Universalismo

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Ma l’accento non va posto sul generico appello contro la discriminazione quanto sul carattere «spersonalizzante» e oggettivo della premessa, che secondo molti può nascondere più di un trucco. Infatti, dietro la semplice indicazione procedurale si nascondono importanti problemi epistemologici e secolari battaglie ideologiche.

Universalismo

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L’universalismo – la tendenza a ritenere alcuni principi validi «universalmente», cioè per tutti gli uomini - è infatti un connotato tipicamente religioso, in modo particolare soteriologico, che - entrato di prepotenza, in versione «laica», tra i fondamenti del pensiero contemporaneo con la rivoluzione scientifica del XVII secolo - è stato rilanciato in grande stile dall’Illuminismo e dal pensiero kantiano, fino all’estrema propaggine del neopositivismo novecentesco e ai tardi epigoni contemporanei, bollati quasi come una setta e tacciati di «scientismo».

Universalismo

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La radice dell’idea di universalismo è «buona». Essa pretende che la ragione sia un dato cui tutti possono virtualmente attingere e conduce a conoscenze e risultati validi «universalmente», cioè per ogni individuo e in qualunque contesto. In ambito scientifico, soprattutto nelle scienze naturali, questo assioma è tenuto per vero ancora oggi, allorché si pensa di poter raggiungere qualche tipo di verità assoluta. Ma, da molti anni a questa parte, l’idea di una certezza definitiva nella conoscenza umana è stata sempre di più vista come l’affermazione di un dogma anziché una speranza ragionevole e condivisibile.

Mappa 3D della distribuzione della materia oscura in una zona

osservata dal telescopio spaziale Hubble

Universalismo

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È nota l’associazione fra universalismo e totalitarismo avanzata dalla Teoria critica e la resistenza opposta dal pensiero debole post-modernista, dal relativismo epistemologico e da tutte quelle culture «antagoniste» che identificano l’adozione del punto di vista «universale» con un modello di conoscenza che impone il predominio dell’Occidente capitalista.

Universalismo

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In Come conoscere la verità? L’universalismo scientifico, la più interessante delle conferenze tenute alla British Columbia University nel 2004 (raccolte nel volume La retorica del potere. Critica dell'universalismo europeo, Fazi, Roma 2007) Immanuel Wallersteinha proposto una riflessione che si concentra sull’espansione planetaria del capitalismo nel lungo periodo e sulla genealogia delle strutture del sapere europeo-occidentale.

Critica dell’Universalismo

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Forte della convinzione che l’ossatura culturale e intellettuale del sistema-mondo capitalistico sia affetta da una crisi sistemica irreversibile (per i costi eccessivi in termini di lavoro, di impatto ambientale e di welfare e per l’intollerabile divaricazione delle risorse finanziarie e tecnologiche) Wallerstein denuncia il valore ideologico assunto dall’universalismo occidentale come linfa culturale del dominio capitalista.

Critica dell’Universalismo

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Il veicolo principale per la diffusione della cultura socialmente dominante è il sistema universitario L’affermazione del sistema universitario «moderno», istituito dagli Stati nel XIX secolo come servizio sociale fondamentale in forme burocratiche (con l’attuale evoluzione in strutture dipartimentali, specialismo disciplinare, titoli accademici) e centralizzate.

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Questo modello universitario ha costruito la rete capillare di un sapere inteso come «potere» che impone una forma di universalismo «dura» e gerarchica, «annessionista» e non partecipativa, affidata al predominio delle scienze naturali.

Biblioteca centrale dell'Università di Humboldt, Berlino

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Questo processo ha favorito l’affermazione della scienza, l’investimento nella cultura e spesso anche la «mobilità sociale», ma tra i suoi prezzi ci sono la licealizzazione, la specializzazione e il costante impoverimento degli studi umanistici, che tendono a definire ciò che è giusto e bello, rispetto alle discipline tecnico-scientifiche, votate invece a stabilire ciò che è oggettivamente, e quindi universalmente, vero: «Agli scienziati venne data priorità nell’affermazione legittima della verità e, agli occhi della società, il controllo esclusivo su di essa» (p. 81).

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Mentre la scienza (la ragione strumentale nei termini di Horkheimer) promette al potere il controllo della tecnica e della tecnologia, la cenerentolizzazione della filosofia e del sapere umanistico produce a sua volta il declino degli intellettuali. L’intero mondo del libro è sopraffatto da una cultura iper-tassonomica, di cui l’esempio peggiore, per Wallerstein, è il sistema di assegnazione dei titoli accademici e la proliferazione dei corsi di laurea e degli insegnamenti, cui va aggiunta la mediocrizzazione della classe docente (cfr. p. 85).

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Wallerstein proposte soluzioni di tipo epistemologico e socioculturale. Nel primo caso, i cultural studies aprono la sociologia alla psicologia sociale, allo studio comparato dei processi culturali e alla consapevolezza che «la produzione culturale è parte delle strutture del potere in cui è situata e ne è profondamente influenzata» (p. 89), mentre il paradigma della complessità scompagina la gerarchia tra le «due culture» mettendo in discussione la linearità del modello riduzionista e il postulato che la conoscenza si risolva nella scomposizione dal complesso al semplice.

Soluzioni

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La seconda soluzione è demolire la versione burocratica e ottocentesca dell’università che, nella ristrutturazione della cultura imposta dalla mutazione di sistema in cui ci troviamo, rappresenta solo un ostacolo. Proprio la spinta delle scienze sociali verso una social scientizationdi tutto il sapere può invece condurre al recupero di un universalismo davvero universale che «rifiuti le caratterizzazioni essenzialiste della realtà sociale, storicizzi sia l’universale che il particolare, riunifichi la cosiddetta epistemologia scientifica e quella umanistica in un’unica epistemologia» (p. 104).

Soluzioni

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Fra le tante dinamiche intrecciate con l’universalismo c’è anche la disputa fra il sapere scientifico e quello umanistico, che per tanti aspetti paiono divergere ma sono indissolubilmente collegati dal tentativo di trovare un organon che legittimi l’inoppugnabilità della conoscenza umana.

Le due culture

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Inizialmente il bilancio è assai favorevole alle scienze umane. Come spiega Ugo di San Vittore(1096 - 1141), Le arti tecniche sono dette meccaniche perché si appropriano della perfezione delle forme ad imitazione della Natura. Le arti liberali invece «richiedono animi liberi, cioè non impediti e ben disposti (infatti tali arti perseguono penetranti indagini sulle cause delle cose), ossia perché nell’antichità solo gli uomini liberi, cioè nobili, si dedicavano ad esse», mentre le arti tecniche erano riservate ai plebei.

(«Sulle arti e le scienze», Didascalicon, Libro II, cap. XX)

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la difesa della libertà individuale non va disgiunta, per Humboldt, dal senso del dovere (Sollen): l’individualità è una tendenza alla realizzazione dell’ideale di umanità che è energia, spinta verso un’individualità superiore. Ogni individuo, cioè, è chiamato a realizzare in sé la propria umanità e l’universalità dell’essere uomo.

L’ideale Humboldtiano

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Obbedendo a questi principi di Bildung e Humanität,Humboldt, concepisce l’università come istruzione non funzionalizzata, non specialistica. Lo studente deve costruire da sé stesso il curriculum e liberare le proprie facoltà in base ai propri interessi. Pur imponendosi in gran parte d’Europa, l’ideale humboldtiano deve tuttavia fare i conti con lo sviluppo tecnologico, che spinge a considerare le università non più come centri di formazione dell’uomo, ma centri di ricerca tout court.

L’ideale Humboldtiano

Franz Theodor Kugler, Hegel durante una

lezione, litografia, 1828

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A partire dal XIX secolo, in Occidente, «la ricerca e l’educazione tecnico-scientifica hanno iniziato lentamente a prevalere su quella umanistica», anche se ancora cinquant’anni fa un rapporto indipendente dichiarava come obiettivo del sistema universitario inglese “la promozione delle funzioni generali della mente, per produrre non solo specialisti, ma anche donne e uomini colti”.

Alessandro Dal Lago

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Nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle.

La scuola oligarchica

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La scuola tradizionale è stata oligarchica perché destinata alla nuova generazione dei gruppi dirigenti, destinata a sua volta a diventare dirigente: ma non era oligarchica per il modo del suo insegnamento. Non è l’acquisto di capacità direttive, non è la tendenza a formare uomini superiori che dà l’impronta sociale a un tipo di scuola. L’impronta sociale è data dal fatto che ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare in questi strati una determinata funzione tradizionale, direttiva o strumentale.

La scuola oligarchica

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Se si vuole spezzare questa trama occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare – media) che conduca il giovinetto fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige.

Gramsci, Quaderni dal Carcere, Volume terzo, Quaderni 12-29, Quaderno 12 XXIX pag. 1547, Giulio Einaudi Editore, 1977.

La scuola oligarchica

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L’idea di università rivolta soprattutto alla tradizione e agli studi classici è stata ampiamente criticata, mentre si andava imponendo un’idea di collaborazione tra facoltà scientifiche, tecno-scientifiche, professionalizzanti e umanistiche per la produzione di conoscenza per la collettività, senza gerarchie prefissate e nella piena indipendenza del corpo docente. Ma «questa cultura dell’autorganizzazione è stata progressivamente erosa in tutto il mondo quando si sono affermate politiche economiche liberiste».

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La valutazione della ricerca, come ogni attribuzione di valore, benché esprima una cultura quantitativa (preda della sindrome degli algoritmi che domina la finanza e la rete, mediante indici bibliometrici, ranking delle riviste, classifiche delle università, ecc.) non è una misurazione scientifica e imparziale di una prestazione, ma un tipo di classificazione che dipende dal «punto di vista», e dall’interesse, di chi valuta.

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«Se si stabilisce che la qualità (il «valore») della ricerca in un certo paese è definita da certi indici quantitativi, è del tutto consequenziale che la gerarchia che ne risulta acquisti, per così dire, un valore morale». Uno dei teorici italiani della diminuzione della spesa pubblica a ogni costo, per esempio, ha detto: “A Bari, Messina e Urbino (…) la chiusura di quelle tre università (in fondo alla classifica Anvur) è nell’interesse dei loro figli (dei cittadini). Non è frequentando una fabbrica delle illusioni che si costruisce il futuro„».

Francesco Giavazzi, economista

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Lo scopo ultimo della fondazione dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca) e della classifica delle università in base alla misurazione delle prestazioni scientifiche e «l’applicazione al mondo della ricerca italiana della stessa cultura della punizione che si è affermata con la globalizzazione in campo economico».

Alessandro Dal Lago, «Il valore di scambio dell’università» (il manifesto, 21.12.2013)

Valutare e punire

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La conoscenza non appartiene al singolo ricercatore, ma è un’impresa collettiva, che coinvolge l’intera comunità scientifica. L’obiettivo comune della crescita della conoscenza non sarebbe mai raggiunto se i ricercatori non condividessero il loro pensiero con gli altri. La conoscenza è pubblica e deve essere diffusa.

Comunismo

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La comunità degli scienziati è dominata da un certo senso di appartenenza, secondo un’istanza maturata con la «Repubblica delle lettere» e ribadita anche in tempi recenti dall’aggregazione, quasi obbligatoria, dei singoli in gruppi di lavoro sempre più ramificati. Eppure la differenza non potrebbe essere più grande: mentre nella vecchia comunità – dove i legami erano affidati all’empatia e al caso - potevano emergere grandi personalità, in quella nuova – in cui le connessioni sono sempre più istituzionalizzate e reciproche - sembra predominare l’anonimato.

Comunismo

Erasmo da Rotterdam in un dipinto di Hans Holbein

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Ciò dipende dal fatto che anticamente le relazioni erano fondamentalmente paritarie, con designazione elettiva dei personaggi eminenti, oggi le strutture formalizzate e gerarchiche danno luogo a rapporti più impersonali, in un contesto di maggiore sudditanza col sistema politico e le fonti di finanziamento.

Comunismo

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Da un lato l’appartenenza sbiadisce nel trionfo del gregariato e dall’altro la condivisione delle conoscenze si trasforma in un obbligo burocratico.

Comunismo

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L’avanzamento della conoscenza scientifica è un valore in sé. Gli scienziati possono ambire al riconoscimento dei loro pari, ma questo deve essere considerato come un frutto naturale delle loro attività di ricerca e non come un obiettivo da perseguire a tutti i costi.

Disinteresse

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Ancora una volta siamo di fronte, nella lettura mertoniana, a un precetto di buona educazione: non si deve rincorrere il successo né sgomitare per arrivare primi, ma bisogna applicarsi con giudizio e conservare la propria modestia. Vault Boy

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Il disinteresse non è sinonimo di altruismo bensì indica che la ricerca non deve essere orientata da interessi diversi dal progresso scientifico e rinvia all’integrità morale dello scienziato, conseguenza del controllo al quale egli dovrebbe essere costantemente sottoposto. Ad esempio, «l’ammissione di aver ricevuto sostegno da una fonte assai interessata», come «una multinazionale del tabacco, nell’ambito di ricerche sul tumore al polmone, potrebbe rendere un articolo inaccettabile in veste di contributo alla scienza pura».

John Ziman, La vera scienza. Natura e modelli operativi della prassi scientifica (2000), Dedalo, Bari 2002.

Disinteresse

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«Il più vitale servizio che oggi dobbiamo al mondo è di restaurare i nostri ideali scientifici (…) Dobbiamo riaffermare che l’essenza della scienza è l’amore per la conoscenza e che l’utilità della conoscenza non ci riguarda in maniera primaria. (…) noi scienziati siamo impegnati verso valori più preziosi del benessere materiale». Michael Polanyi, The logic of liberty, 1951

Disinteresse

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Il disinteresse di cui si parla non coincide con una mancanza di interesse o con un’interpretazione esecutiva e anodina del proprio lavoro. Ma neppure possiamo limitarci ad escludere solo l’interesse più gretto, mosso dalla sete di guadagno o dalla brama di potere.

Disinteresse

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Il fatto è che qui si tocca un punto delicato che riguarda il valore da assegnare alla scienza. In cui utilità e obiettività si scontrano e si confondono. La migliore garanzia di oggettività corrisponde sul piano personale a una specie di atarassia, l’ordine interno stabile democriteo, non agitato e imperturbabile. L’idea di una «scienza pura», che procede esclusivamente da se stessa, trova d’altro canto nel concetto di utile una intollerabile fondazione esogena.

Disinteresse

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Noi oggi sappiamo che concezioni assolute come queste possono costituire tutt’al più un orizzonte di riferimento, ma non hanno una reale consistenza nell’attività scientifica concreta e non abbiamo troppe difficoltà ad ammettere l’esistenza empirica di un sapere che sia nello stesso tempo oggettivo e utile. Ma sappiamo pure, grazie a Max Weber, che un eccesso di passione può trasformare la scienza in propaganda; ma anche che un procedere puramente tecnologico-applicativo può condurre all’entropia o all’eterogenesi dei fini, con esiti per la scienza mortali.

Disinteresse

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Le ancore di salvezza ancora disponibili, sebbene ossidate, sono la versione hard del disinteresse rappresentato dalla avalutatività weberiana, che esclude dal lavoro scientifico anche ogni «interesse» ideologico e il ricordo che la conoscenza è un’attività libera e tendenzialmente «critica».

Avalutatività

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Concetto introdotto da M. Weber per indicare la caratteristica che conferisce scientificità alle discipline storico-sociali. Queste ultime devono essere wertfrei – ossia libere da «giudizi di valore» – giacché la loro validità dipende soltanto dai «giudizi di fatto» sui fenomeni indagati.

Avalutatività

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Weber riconosce che lo scienziato sociale, nella scelta degli argomenti oggetto delle sue indagini, è influenzato dai propri orientamenti di valore: ma questa «relazione di valore» non va in alcun modo confusa con il «giudizio di valore» su quei medesimi argomenti, che esula dal discorso scientifico, perché implica giudizi di tipo morale.

Avalutatività

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«Ciò che per noi ha significato non può naturalmente essere determinato attraverso alcuna indagine del dato empirico che sia condotta “senza presupposti”, al contrario, la determinazione di ciò è il presupposto per stabilire che qualcosa diventi oggetto di conoscenza».

Giudizi di valore

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«La cultura è una sezione finita dell’infinità priva di senso del divenire del mondo a cui è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo […]. Il concetto di cultura è un concetto di valore: la realtà empirica è per noi «cultura» in quanto la poniamo in relazione con idee di valori; essa abbraccia quegli elementi di realtà che diventano per noi significativi in base a quella relazione».

Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali.

Giudizi di valore

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Weber è convinto che la relazione con il valore è la premessa irrinunciabile di ogni ricerca, visto che lo sguardo del ricercatore è sempre orientato. Del resto se la realtà oggettiva è un caos insensato senza la nostra «selezione» di alcuni fatti particolari fra tutti quelli che accadono, la conoscenza sarebbe semplicemente impossibile. Ma questa «relazione» non va assolutamente confusa con il «giudizio di valore».

Giudizi di valore

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Quindi la realtà che lo scienziato indaga è sempre culturalmente mediata, perché non potrebbe essere studiata e compresa senza una scala di valori che indichi gli elementi da scegliere e i significati da attribuire ad essi. Questi valori cui lo studioso si appella non sono neppure universali, ma sono relativi, sia storicamente che socialmente e individualmente, tanto più in un’epoca contrassegnata da quello che Weber chiama politeismo dei valori.

Giudizi di valore

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La spiegazione causale dei fenomeni storico-sociali è quindi possibile, ma non si deve pretendere, vista l’infinità delle cause, di esaurirla con un’individuazione monocausale, come fa il materialismo storico.

Giudizi di valore

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Lo scienziato quindi non può far a meno di valutare, sceglie di quale problema occuparsi e isola gli elementi che ritiene rilevanti, ma questa relazione originaria col valore non deve sovrapporsi al giudizio di valore. L’essere deve restare separato dal dover essere, l’osservazione dei fatti dalle scelte e dalla prassi politica. Lo studioso descrive e spiega la realtà nei limiti dell’orizzonte che si è dato senza mai ricorrere a giudizi di valore e giudicando i propri risultati esclusivamente in base agli obiettivi che si prefigge.

Giudizi di valore

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Un escamotage per scantonare l’autodisciplina e il rigore intellettuale imposti dal lodo Weber è quello -proclamato per ora solo in ambiti professionali come il giornalismo, che trova nell’obiettività un corrispettivo della neutralità scientifica – di dichiarare la propria faziosità, scaricare la coscienza e andare avanti come se niente fosse. È meglio dell’ipocrisia, forse, ma non è la soluzione giusta.

Valore dichiarato

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Le difficoltà del «disinteresse scientifico» investono anche lo scetticismo, che ne è un corollario, sia per il singolo scienziato (come principio metodologico) che per la comunità di ricerca (come dettato istituzionale). In definitiva, anche qui siamo di fronte al consiglio, sacrosanto, di non comprare nulla «a scatola chiusa», cioè di «sospendere il giudizio» davanti a ogni nuova rivendicazione di conoscenza e sottoporre ogni affermazione al vaglio delle procedure di analisi che ne possano dimostrare la fondatezza.

Scetticismo organizzato

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Scetticismo organizzato

L’accreditamento della «verità» deve cioè essere ancorato fermamente a procedure di verifica condivise e oggettive, liberò perciò da ogni principio di fede, o credenza o interesse particolare. Anzi, spesso si sostiene che l’indagine scientifica dovrebbe proprio sfidare il senso comune. Ma anche in questo caso le implicazioni sono tante.

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Scetticismo organizzato

La laicità del pensiero scientifico riposa sulla fondazione autonoma delle proprie procedure e questa oggettività costituisce la garanzia della libertà e dell’indipendenza dello scienziato. Si tratta di una bilancia molto sensibile e delicata. Se su uno dei piatti vengono posti obiettivi e norme provenienti dal sociale, anche giusti e motivati, s’indebolisce quella «gratuità» del sapere che lo solleva verso l’inutilità (nel senso del disinteresse e dell’assenza di vincoli) e verso la dimensione «critica», che non ha riguardi per niente e per nessuno se non per la verità.

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Edgar Morin

È Edgar Morin a fornire importanti riflessioni sugli aspetti che interessano le scienze umane, sviluppando a partire dai primi anni ’70, una proposta epistemologica che sostiene la pervasività della complessità, muovendo dalla critica al riduzionismo e dall’importanza del comportamento emergente.

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La tête bien faite

Una testa ben piena è una testa in cui il sapere è accumulato, ammucchiato; una testa ben fatta invece è in grado di selezionare e organizzare i saperi, in modo da collegarli e dare loro senso.

«Meglio una testa ben fatta che una testa ben piena».

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«La frammentazione tra discipline di studio – afferma Sperber - non è il riflesso della divisione naturale di livelli di realtà, ma è una semplice costruzione storico-sociale espressa ai tempi in cui sono sorte le moderne università».

Angela Simone, 29 Agosto 2011

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«I saperi non vanno divisi, frammentati, disgiunti, ma collegati. La frammentazione dei saperi è avvenuta per la prevalenza del metodo scientifico, che suddivide per analizzare e riprodurre. I saperi vengono così, anche alla luce dell’iperspecialismo, divisi in discipline proprio mentre i problemi sono complessi, multidimensionali, globali. Ci hanno così insegnato a disgiungere gli oggetti, a separare le discipline, piuttosto che a collegare e a integrare i problemi».

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«Che cosa è l’intelligenza? È un’attitudine generale alla curiosità, che spesso la scuola tende a spegnere: più potente è l’intelligenza generale, maggiore è la capacità di trattare problemi speciali. È un insieme di ars cogitandi (uso della logica), metis (insieme di sagacia, intuizione, elasticità mentale), serendipity (ricostruire una storia da indizi e dettagli). Quindi l’obiettivo resta quello della connessione delle due culture».

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«I due «partiti», quello scientifico e quello umanistico, sono sbagliati. È necessario connettere, integrare, contestualizzare, globalizzare. È necessario unire gli antagonisti nella molteplicità. Per capire la qualità di un buon vino non bastano le caratteristiche organolettiche, la gradazione. In un bicchiere di vino c’è la storia, la cultura, simboli, oltre alla fisica e alla chimica».

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«Materie» come la cosmologia, la scienza della terra, l’ecologia, la nuova storia, permettono di articolare e unire discipline sinora disgiunte. Il nuovo spirito scientifico ci aiuta. E anche la cultura umanistica favorisce l’attitudine ad aprirsi ai grandi problemi, a riflettere, a cogliere la complessità umana. È questa l’essenza di ciò che io chiamo la comprensione.

Ma lei avverte davvero che sia in atto una ricomposizione delle culture?

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All’Università è ascritta una funzione paradossale: «conservare il patrimonio culturale, adattarsi alla modernità scientifica e integrarla, fornire insegnanti per le nuove professioni, e fornire un insegnamento meta-professionale, cioè una cultura. Bisognerà passare dal piacere del sapere legato al potere al piacere del sapere legato al dono, a ciò che può suscitare amore per il sapere nei giovani. Dove non c’è amore ci sono solo problemi di retribuzione, di carriera e di noia per l’insegnamento».

Corriere Lavoro, Pagina 15 (19 maggio 2000)

Page 65: Prof. Giovambattista Fatelli

Il sapere inutile

Esistono saperi fini a se stessi che – proprio per la loro natura gratuita e disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale – possono avere una utilità fondamentale nella coltivazione dello spirito e nella crescita civile e culturale dell’umanità. Ma in una società che ritiene utile solo ciò che produce un profitto materiale, è sempre più difficile rendersi conto del ruolo essenziale dei «saperiinutili».

Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto, Bompiani, Milano 2013.

Page 66: Prof. Giovambattista Fatelli

Il pericolo non è il profitto in sé ma la sua promozione a unica ragione di vita. Se l’utile viene considerato un fine e non un mezzo, anche i saperi saranno classificati con lo stesso parametro. Ma la musica, l’arte, la letteratura, un museo o una biblioteca, quali introiti producono se non le vendite dei biglietti di ingresso? E cosa fanno guadagnare a chi li frequenta? Nulla in termini economici, ma il loro è un valore spirituale. Ciò che conta – sostiene Montaigne – non è il possedere, ma il godere, che peraltro consente di beneficiare anche di ciò che non possediamo.

Page 67: Prof. Giovambattista Fatelli

L’essenza della cultura si fonda sulla gratuità, per cui gestire le scuole e le università come se fossero aziende denuncia un’arrogante e oltraggiosa ignoranza appena velata da un’aria fighetta e superficiale. Tagliare i rami secchi poco produttivi, ad esempio, nel campo della cultura significa rinunciare a discipline fondamentali che costano troppo e attirano pochi «clienti». I tagli riguardano ciò che viene considerato inutile, di conseguenza “il diritto di avere diritti” – per usare una frase di Hannah Arendt – viene totalmente subordinato alla logica del mercato.

Page 68: Prof. Giovambattista Fatelli

Il sapere inutile

«Nell’universo dell’utilitarismo […] un martello vale più di una sinfonia, un coltello più di una poesia, una chiave inglese più di un quadro: perché è facile capire l’efficacia di un utensile mentre è sempre più difficile comprendere a cosa possano servire la musica, la letteratura o l’arte».

Page 69: Prof. Giovambattista Fatelli

Il sapere inutile

Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.

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La logica del profitto scalfisce il valore culturale e identitario dei popoli. Se chiudessimo un archivio di Stato, che custodisce la memoria e l’identità di una nazione, solo perché non produce guadagno, smarriremmo il senso della nostra vita e della nostra storia. La logica del profitto, che bandisce l’inutile, inaridisce lo spirito umano, rendendo più vulnerabile la società. Se col passare degli anni nessuno saprà più condurre uno scavo archeologico, consultare documenti d’archivio o leggere i classici del mondo antico, la nostra storia sarà cancellata.

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La società attuale, che giudica un uomo in base ai soldi che guadagna o al potere che esercita, non ha futuro perché non rispetta la dignità umana. In un mondo in cui tutto si può comprare, l’unica cosa che resiste è il sapere. La cultura dell’inutile ci insegna che il sapere non si acquista, ma si conquista con uno sforzo personale, che nessuno può fare al nostro posto. La conoscenza, infatti, è frutto di uno sforzo individuale e di grandi motivazioni.

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«Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri là nel vestibolo; a qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora là».

«Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi ne ha più a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io; come l'acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa più piena alla più vuota».

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Riflettiamo: quando si dice che ciascun essere vivente rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla vecchiaia permane la sua identità), ebbene questo essere non ha mai in sé le stesse cose. Diciamo, sì, che è sempre lo stesso, ma in realtà non cessa mai di rinnovarsi ogni momento in certe parti come i capelli, le ossa, il sangue, insomma in tutto il suo corpo. E questo non è vero soltanto per il suo corpo, ma anche per la sua anima: i sentimenti, il carattere, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, i timori, niente di tutto questo rimane costante per ciascuno di noi, ma tutto in noi nasce e muore.

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E accadono cose più strane ancora. Non solo in generale certe conoscenze nascono in noi mentre altre spariscono - e quindi nel campo della conoscenza noi non rimaniamo mai gli stessi - ma ciascuna conoscenza in particolare subisce la stessa sorte. Infatti noi dobbiamo esercitarci nello studio proprio perché alcune conoscenze ci sfuggono continuamente: le dimentichiamo, tendono ad andare via, e con lo studio, inversamente, fissando nella memoria ciò che vogliamo ricordare, le conserviamo. È per questo che sembrano le stesse: in realtà le conserviamo rinnovandole. È così che tutti gli esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se stessi, come l'essere divino. Sembrano conservare la loro identità perché ciò che invecchia e va via è subito sostituito da qualcosa di nuovo, molto simile.

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Per immaginare un mondo migliore dobbiamo servirci dell’istruzione, delle arti, della filosofia e dobbiamo offrire ai giovani la possibilità di diventare cittadini consapevoli, in grado di amare il bene comune, rinunciando agli egoismi e all’avidità. In tal modo la cultura si tramuta in un modo di vivere.

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Ecco perché la scuola e l’università non si possono ridurre ad una funzione professionalizzante e aziendale. Le aziende dovrebbero comprendere che inseguire il profitto fine a se stesso conduce al fallimento della stessa impresa, poiché si matura al proprio interno personale dirigente corrotto e ambizioso esclusivamente di guadagno immediato.

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L’umanità, per diventare più umana, ha bisogno di esaltare la gratuità e il disinteresse. La cultura da sola non basta. Uomini colti –afferma George Steiner – ascoltavano la musica e poi trucidavano gli ebrei! Tuttavia ciò non deve scoraggiarci, poiché i classici hanno il potere di cambiarci la vita – sostiene Steiner – e se non ci fossero state le scuole e le università probabilmente ci sarebbero stati molti più nazisti e dittatori. Bisogna credere nel valore dell’istruzione e trasmettere agli studenti il senso della giustizia, della solidarietà e della democrazia.

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l’ossessione del possesso inaridisce lo spirito, mettendo in pericolo non solo l’istruzione, l’arte e la creatività, ma anche la dignitas hominis, l’amore e la verità. La carica illusoria del possesso ha effetti devastanti. Per esempio l’amore, che è quanto di più bello e gratuito possa esistere, il dono di se stessi all’altro senza chiedere nulla in cambio, quando diventa possesso si trasforma in gelosia e volontà di controllo, tramutando la gioia in tormento e sofferenza.

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Anche nella ricerca della verità succede la medesima cosa. Infatti, l’idea di possedere una verità assoluta e unica, cosa che per alcuni può significare la via per la salvezza, uccide la sapienza stessa, poiché nel momento in cui si ritiene di possedere la conoscenza si smette di cercarla. Solo cercando, si ama la verità, ecco perché il dubbio e l’incertezza consentono di dialogare con gli altri, anche con chi non la pensa come noi.

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La cultura è una specie liquido amniotico in cui siamo immersi e di cui spesso non ci rendiamo conto ma nel quale soltanto è possibile coltivare la democrazia, la giustizia e la solidarietà. Vivendo nell’ignoranza, non sapremmo trovare le risposte proprio riguardo alle cose più importanti e necessarie della vita.

La bellezza del gesto inutile

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Dobbiamo quindi imparare prima di tutto ad essere.

Solo dopo, con calma, potremo imparare a fare.