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QUALITÀ DELLA VITA ED ETICA DELLA SALUTE ATTI DELLA UNDICESIMA ASSEMBLEA DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA Città del Vaticano, 21-23 Febbraio 2005 A cura di : ELIO SGRECCIA IGNACIO CARRASCO DE PAOLA LIBRERIA EDITRICE VATICANA 2006 Presentazione (S.E.R. Mons. ELIO SGRECCIA, Mons.Prof. IGNACIO CARRASCO DE PAULA) Discorso del Santo Padre GIOVANNI PAOLO II CONTRIBUTI DELLA TASK-FORCE S.E.R. Il Card. JAVIER LOZANO BARRAGÁN, A dieci anni dalla "Evangelium vitae." La qualità della vita. Prof. MAURIZIO FAGGIONI, La qualità della vita e la salute alla luce dell'antropologia cristiana Dr. JEAN-MARIE LE MÉNÉ, Etica della salute e gestione della salute mondiale Prof. Mons. MICHEL SCHOOYANS, La "salute riproduttiva" e le politiche demografiche. Il Caso dell'OMS Prof. ALFONSO GÓMEZ-LOBO, Qualità della vita in pazienti non responsivi postcoma Prof. STEFANO ZAMAGNI, Equità, razionamento, diritto alle cure sanitarie. Prof. MARKUS HENGSTSCHLÄGER, Il prodotto farmaceutico come medicina, come prodotto commerciale e come bene di consumo Prof. WALTER. RICCIARDI, Le politiche sanitarie e la qualità di vita nelle democrazie occidentali Prof. MANFRED LÜTZ, La "religione" della salute e la nuova immagine dell'uomo
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Prof. ANGELO FIORI, La figura del medico e le aspettative dei cittadini: continuità e condizionamento Prof. VICENTE BELLVER CAPELLA, Il diritto alla vita e il diritto all'assistenza sanitaria: significati e limiti INTERVENTI NELLA TAVOLA ROTONDA "Prospettive ed Alternative: Terapie Medico-Chirurgiche e Tecniche di Aiuto, Prevenzione e Adozione" Prof. ALEJANDRO SERANI-MERLO, Dr. PEDORO PAULO MARÍN, Dr. BEATRIZ, ZEGERS PRADO, La qualità di vita in geriatria Prof. PATRICIO VENTURA-JUNCÁ, La qualità di vita in medicina neonatale Prof. WANDA POLTAWSKA, Menomazione mentale e valore della vita Prof. JOANNES. LELKENS, Qualità di vita in pazienti con tumore con prognosi infausta Prof. NOËL SIMARD, Qualità di vita e pazienti con AIDS Rev. Prof. LUIGI POSTIGLIONE, Qualità di vita e ambiente Prof. GIAN LUIGI GIGLI, Dr. MARIAROSARIA VALENTE, Qualità di vita e stato vegetativo
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GIOVANNI PAOLO II Discorso ai partecipanti alla XI Assemblea Generale della PAV Al venerato Fratello Monsignor ELIO SGRECCIA Presidente della Pontificia Accademia per la Vita 1. Sono lieto di inviare il mio cordiale saluto a quanti prendono parte al Congresso di studio che la Pontificia Accademia per la Vita ha promosso sul tema: "Qualità di vita ed etica della salute". Saluto in particolare Lei, venerato Fratello, porgendoLe le mie felicitazioni ed i miei auguri per l'incarico che da poco riveste di Presidente di detta Accademia. Estendo il mio saluto anche al Cancelliere, Mons. Ignacio Carrasco, al quale pure auguro fecondi risultati nella sua nuova mansione. Un pensiero di viva gratitudine rivolgo poi al benemerito Prof. Juan de Dios Vial Correa, che ha lasciato la presidenza dell'Accademia dopo dieci anni di servizio generoso e competente. Una parola di speciale riconoscenza vada infine a tutti i membri della Pontificia Accademia per il diligente lavoro, più che mai prezioso in questi tempi, caratterizzati dall’insorgere nella società di non pochi problemi, legati alla difesa della vita e della dignità della persona umana. A quanto è dato prevedere anche in futuro la Chiesa sarà sempre più interpellata su questi temi che toccano il bene fondamentale di ogni persona e di ogni società. Per questo la Pontificia Accademia per la Vita, dopo un decennio di vita, dovrà continuare a svolgere un ruolo di delicata e preziosa attività a sostegno degli Organismi della Curia Romana e della Chiesa tutta. 2. Il tema preso in esame nel presente Congresso è di massima rilevanza etica e culturale sia per le società sviluppate che per quelle in via di sviluppo. I termini "qualità di vita" e "promozione della salute" identificano uno dei principali obiettivi delle società contemporanee, sollevando interrogativi non privi di ambiguità e, talvolta, di tragiche contraddizioni, per cui richiedono un attento discernimento e una profonda chiarificazione. Nell’Enciclica Evangelium Vitae, a proposito della ricerca sempre più ansiosa della "qualità di vita" che caratterizza specialmente le società sviluppate, rilevavo: "La cosiddetta qualità della vita è interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, trascurando le dimensioni più profonde relazionali, spirituali e religiose della esistenza" (n. 23). E’ su queste dimensioni più profonde che va portata l’attenzione alla ricerca di un’adeguata chiarificazione. 3. Si deve innanzitutto riconoscere la qualità essenziale che distingue ogni creatura umana per il fatto di essere creata a immagine e somiglianza del Creatore stesso. L’uomo, costituito di corpo e spirito nell’unità della persona -‐ corpore et anima unus, come dice la Cost. Gaudium et spes (n. 14) -‐, è chiamato a un dialogo personale con il Creatore. Perciò, egli possiede una dignità superiore per essenza alle altre creature visibili, viventi e non viventi. Come tale, è chiamato a collaborare con Dio nel compito di soggiogare la terra (cfr Gn 1,28) ed è destinato, nel disegno redentivo, a rivestire la dignità di figlio di Dio. Questo livello di dignità e di qualità appartiene all’ordine ontologico ed è costitutivo dell’essere umano, permane in ogni momento della vita, dal primo istante del concepimento fino alla morte naturale, e si attua in pienezza nella dimensione della vita eterna. L’uomo va dunque riconosciuto e rispettato in qualsiasi condizione di salute, di infermità o di disabilità.
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4. Coerentemente a questo primo ed essenziale livello, in modo complementare, va riconosciuto e promosso un secondo livello di qualità della vita: a partire dal riconoscimento del diritto alla vita e della dignità peculiare di ogni persona, la società deve promuovere, in collaborazione con la famiglia e gli altri organismi intermedi, le condizioni concrete per sviluppare armoniosamente la personalità di ognuno, secondo le sue capacità naturali. Tutte le dimensioni della persona -‐ la dimensione corporea, quella psicologica, quella spirituale e quella morale -‐ vanno promosse in armonia. Ciò suppone la presenza di condizioni sociali e ambientali atte a favorire tale armonico sviluppo. Ilcontesto socio-‐ambientale, dunque, caratterizza questo secondo livello di qualità della vita umana, che dev’essere riconosciuto a tutti gli uomini, anche a quelli che vivono in Paesi in via di sviluppo. Uguale è infatti la dignità degli esseri umani, a qualunque società appartengano. 5. Tuttavia, ai nostri giorni il significato che l’espressione "qualità di vita" sta progressivamente assumendo si allontana spesso da questa basilare interpretazione, fondata su una retta antropologia filosofica e teologica. Infatti, sotto la spinta della società del benessere, si sta favorendo una nozione di qualità di vita che è, al tempo stesso,riduttiva e selettiva: essa consisterebbe nella capacità di godere e di sperimentare piacere, o anche nella capacità di autocoscienza e di partecipazione alla vita sociale. In conseguenza, è negata ogni qualità di vita agli esseri umani non ancora o non più capaci di intendere e di volere, oppure a coloro che non sono più in grado di godere la vita come sensazione e relazione. 6. Una deviazione analoga ha subito anche il concetto di salute. Non è certamente facile definire in termini logici e precisi un concetto complesso e antropologicamente ricco come quello di salute. Ma è certo che con questo termine ci si intende riferire a tutte le dimensioni della persona, nella loro armonica e reciproca unità: la dimensione corporea, quellapsicologica e quella spirituale e morale. Quest’ultima dimensione, quella morale, non può essere trascurata. Ogni persona ha una responsabilità sulla salute propria e su quella di chi non ha raggiunto la maturità o non ha più la capacità di gestire se stesso. Anzi, la persona è chiamata anche a trattare con responsabilità l’ambiente, in maniera tale che esso sia "salutare". Di quante malattie i singoli sono spesso responsabili per sé e per gli altri! Pensiamo alla diffusione dell’alcolismo, della tossico-‐dipendenza e dell’AIDS. Quanta energia di vita e quante vite di giovani potrebbero essere risparmiate e mantenute in salute se la responsabilità morale di ciascuno sapesse promuovere di più la prevenzione e la conservazione di quel prezioso bene che è la salute! 7. Certo, la salute non è un bene assoluto. Non lo è soprattutto quando viene intesa come semplice benessere fisico, mitizzato fino a coartare o trascurare beni superiori, accampando ragioni di salute persino nel rifiuto della vita nascente: è quanto avviene con la cosiddetta "salute riproduttiva". Come non riconoscere in ciò una concezione riduttiva e deviata della salute? Rettamente intesa, essa rimane comunque uno dei beni più importanti verso i quali abbiamo una precisa responsabilità, al punto che essa può essere sacrificata soltanto per il raggiungimento di beni superiori, come talvolta è richiesto nel servizio verso Dio, verso la famiglia, verso il prossimo e verso la società intera.
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La salute va dunque custodita e curata come equilibrio fisico-‐psichico e spirituale dell’essere umano. E’ una grave responsabilità etica e sociale lo sperpero della salute in conseguenza di disordini di vario genere, per lo più connessi con il degrado morale della persona. 8. La rilevanza etica del bene della salute è tale da motivare un forte impegno di tutela e di cura da parte della stessa società. E’ un dovere di solidarietà che non esclude nessuno, neppure coloro che fossero causa essi stessi della perdita della propria salute. La dignità ontologica della persona è infatti superiore: trascende gli stessi comportamenti sbagliati e colpevoli del soggetto. Curare la malattia e fare di tutto per prevenirla sono compiti permanenti del singolo e della società proprio in omaggio alla dignità della persona e all’importanza del bene della salute. L’umanità di oggi si presenta, in vaste zone del mondo, vittima del benessere che essa stessa ha creato e, in altre parti molto più vaste, vittima di malattie diffuse e devastanti, la cui virulenza deriva dalla miseria e dal degrado ambientale. Tutte le forze della scienza e della sapienza devono essere mobilitate a servizio del bene vero della persona e della società in ogni parte del mondo, alla luce di quel criterio di fondo che è la dignità della persona, nella quale è impressa l’immagine stessa di Dio. Con questi voti, affido i lavori del Convegno all’intercessione di Colei che ha accolto nella propria vita la Vita del Verbo incarnato, mentre, in segno di speciale affetto, a tutti imparto la mia Benedizione. Dal Vaticano, 19 Febbraio 2005 (pubblicato su L'Osservatore Romano, di Lunedì-‐Martedì 21-‐22 Febbraio 2005, p. 7)
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JAVIER LOZANO BARRAGÁN A DIECI ANNI DALLA “EVANGELIUM VITAE”. LA QUALITÀ DELLA VITA Penso che l’omaggio migliore che possiamo offrire per commemorare il Decimo Anniversario dell’Enciclica Evangelium Vitae è proprio un tentativo di riflettere su quale sia la vera qualità di vita. Tante volte temi molto interessanti si considerano in senso errato e poi si cerca di non trattarli più, tralasciando una ricchezza molto grande. In questa Assemblea si presenterà un approfondimento sul tema e, data l’importanza che ha per il Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute, mi è sembrato opportuno esprimere anche qui alcune idee in merito. Parlare di qualità di vita si riferisce a misurare la vita e poter dire che questa vita ha migliore qualità, quest’altra invece no. È ovvio che per misurare serve una misura, un metro; immediatamente, allora, si presenta il problema: quale è questo metro, dove si trova? Quando nella storia dell’umanità e, più concretamente nella storia del pensiero umano, si è proposto questo problema, si è arrivati allo stesso nucleo dell’esistenza umana, giacché la risposta non può essere diversa da quella che si dà alla stessa vita: cosa è la vita? In una precedente occasione, in questa stessa sede, ho avuto l’opportunità di presentare la mia riflessione su questa domanda: cosa è la vita?La mia risposta è stata: è la totale donazione amorosa che è possibile per l’opposizione relativa fra il donatore ed il donante i quali, per un divino paradosso, mentre si donano a vicenda entrambi, più e meglio si vive. Questo pensiero mi pare che è alieno dal modo di vedere oggi le cose nella mentalità postmoderna, che ha dei concetti molti strani circa la qualità di vita. Di fronte a questo metro vitale che abbiamo menzionato, se ne adoperano tanti altri distinti, secondo il modo che si accetta per concepire la vita. Per meglio intenderci, vogliamo riferirci ad alcuni concetti che ci sono sembrati paradigmatici: PROSPETTIVA PSICOLOGICA E QUANTITATIVA DELLA QUALITÀ DELLA VITA Pensiero tecnologico computerizzato Per alcuni, dominati dal pensiero tecnologico computerizzato, la qualità di vita appare molto curiosamente. Fra metafora e realtà si immagina l’uomo come un computer che viene diretto dal cervello. Il cervello diventerebbe l’“Hardware” e la mente il “Software”. La qualità di vita si misurerebbe dall’aumento quantitativo di entrambi: secondo la maggiore o minore capacitàdi ricevere informazioni e di informazioni attualmente ricevute. Avversano la qualità di vita le malattie che, come “virus”, si dirigono a distruggere sia il “Software”, sia proprio l’“Hardware”. Queste saranno tanti altri “bugs” che distruggono l’armonia informatica ed escono dall’intricato “internet” o grande autostrada globale del mondo. Sembrerebbe impensabile questa misura della qualità di vita, ma non è lontana dal pensiero moderno secondo il quale la misura è soltanto di stile quantitativo meccanicista, oppure anche di tipo psicologico, dove la vita e la persona valgono per la coscienza, cioè, la qualità si misura dal benessere oppure dalla coscienza dell’auto riflessione e trasparenza psicologica. Così, già dalla lontana definizione di salute dell’O.M.S. ad Alma Ata (1948) intesa come“lo stato perfetto di benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto l’assenza di malattie”, si puntava verso questa qualità di vita, la cui misura è quantitativa o anche nel migliore dei casi, mentale o sociale.
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Prospettiva psicologica Infatti oggi, specialmente nel nuovo Paradigma delle Nazioni Unite, si punta di più a questa linea mentale e sociale; infatti si definì la qualità di vita come “la conoscenza dell’individuo della sua posizione nella vita, nel contesto della cultura e del sistema di valori nei quali si trova, dirigendosi verso le sue mete, aspettative, standard ed interessi”. Ci sono anche le teorie della preferenza: propongono al centro della qualità di vita il ruolo della scelta autonoma degli individui nel guidare le proprie scelte, nonché le teorie perfezioniste che identificano la promozione della qualità di vita con l’esercizio di alcune capacità propriamente umane. Ciò che è essenziale per la promozione della qualità della vita sarebbe la presenza di un’effettiva capacità di sviluppo in ambiti che appartengono propriamente ed universalmente agli esseri umani, come le relazioni affettive, la riflessione, la creatività, ecc. Altri intendono la qualità di vita come il rapporto fra bisogni e desideri, cioè la società che vuole svilupparsi ed andare avanti una volta soddisfatti i suoi bisogni basilari, che cerca la soddisfazione dei suoi desideri ed aspirazioni, conquistando sempre un maggiore benessere che è la qualità di vita. Questo equivale a capire la qualità di vita come esclusivamente o principalmente efficienza economica, consumismo, bellezza e gioia della vita nella sua dimensione fisico-‐corporale[1] . Prospettiva pragmatico utilitarista Secondo una prospettiva pragmatico utilitarista, una vita ha valore se possiede un certo grado di “qualità”; essa è valutata in rapporto alla minimizzazione del dolore e spesso dei costi economici. Secondo questa prospettiva basata su un’etica conseguenzialista, il valore della vita umana dipende dai diversi livelli di “qualità” indipendenti da qualsiasi valore superiore alla stessa vita in sé. Ci sono delle vite le cui qualità le rendono degne di essere vissute e ce ne sono altre che non sono degne di essere vissute. La misura si è fissata in diverse maniere. Alcuni adottano i seguenti criteri: minimo intellettuale (Q.I. superiore a 20-‐40), autocoscienza, autocontrollo, senso del tempo (presente, passato, futuro), capacità di relazione, interesse per gli altri, capacità di comunicazione, controllo dell’esistenza, curiosità, capacità di cambiare, equilibrio tra ragione e sentimento, funzioni neocorticali[2]. C’è anche una prospettiva edonistica per misurare la qualità di vita; secondo questo metro, la qualità di vitadipende dalla presenza di stati mentali piacevoli e dall’assenza di stati mentali spiacevoli o dolori; quindi la qualità di vita si deve considerare positiva se mancano gli stati mentali spiacevoli o dolorosi. Prospettiva socio biologica Da una prospettiva socio biologica, per raggiungere un livello adeguato di qualità della vita occorre affrontare come terapia di urgenza la protezione dell’ambiente. L’equilibrio delle forme di vita nel mondo, la loro reciproca relazione a difesa della salubrità dell’ambiente vitale, sono fattori ritenuti indispensabili per la qualità di vita. L’uomo in questo sistema di interdipendenza da queste forme di vita è il fruitore principale, il custode delle risorse e nello stesso tempo il maggiore responsabile del loro degrado [3]. Ci sono anche altre prospettive secondo le quali la qualità di vita è rappresentata dall’insieme dei beni economici necessari per vivere, i quali a loro volta si misurano in riferimento al prodotto nazionale lordo. Ma alcuni non accettano questa misura, perché il PNL non può diventare il criterio a motivo della polluzione ambientale che causa la sua crescita; così si preferisce parlare
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del BEN, cioè del Benessere Economico Netto che tiene conto, oltre che della produzione, anche del rispetto dell’ambiente, delle condizioni di lavoro, dell’impiego del tempo libero, etc.. Ma, per essere più completi, a questo BEN si deve aggiungere come dato essenziale l’influenza della famiglia e della società [4]. In queste descrizioni della qualità di vita c’è un metro che si ferma ai piani meccanicisti o psicologici. Curiosamente, il pensiero anche postmoderno non supera la base cartesiana della realtà considerata come estensione, e della persona come coscienza. Le misure trovate sono misure pienamente intra umane che cadono nell’errore fatale di confondere la misura con il misurato. Tante volte si è detto che l’uomo è la misura della sua vita, ma in quanto uomo, non uomo astratto; ma poiché questo uomo concreto muore, la morte come può essere la misura della qualità di vita? Essere coscienti di questo assurdo portò nel secolo scorso in una maniera tragicamente logica all’Esistenzialismo ed a trovare palliativi per occultare la disgrazia in frasi stereotipate quali avere il coraggio di vivere per la morte, di vivere l’assurdo con dignità e coraggio. Frasi di paglia che non risolvono niente. D’altra parte, nel Marxismo si parlava della sopravvivenza nella futura collettività, anche se, in quanto futura, non risolveva la presente disgrazia. Oggi, nella post modernità si preferisce la vecchia soluzione dello struzzo, affondandosi nella cultura del desiderio, del consumismo e di tutta classe di libertà, creando la società del piacere, del potere, dell’istinto e della forza bestiale senza riguardare il cacciatore, la morte. Ma come dicevamo, queste misure non sono misure, sono esattamente il contrario di un metro, sono la sconfitta nella lotta contro una realtà sempre presente e prossima: la morte. VERSO L’AUTENTICA QUALITÀ DELLA VITA Penso che logicamente la qualità della vita, cioè, la vita migliore non potrebbe essere nessun altra che quella che sconfigge la morte e ci dona una vita in continuo crescendo fino alla vittoria definitiva. Questa qualità dovrà essere tanto fisica come mentale e sociale. Però qui i fatti ci contraddicono anche dal punto di vista della vita fisica, giacché l’invecchiamento delle cellule contraddice la loro continua crescita. Qualità della vitacome armonia universale Arrivando a questo punto, di fronte all’inevitabilità della morte, alcuni hanno pensato che la qualità della vita non si dovrebbe misurare dal punto di vista fisico, ma si deve trascenderlo attraverso le virtù. Così secondo la vecchia maniera stoica del conformarsi con l’armonia dell’universo e sentirsi una particella della natura. Così si pensò anche nei concetti del Rinascimento nella presentazione organologica di Nicola di Cusa o di Paracelso ed oggi nella presentazione buddista insieme all’estinzione dei desideri. Ma sperimentiamo che questa qualità di vita, fredda ed impersonale, è lontana dal soddisfare i bisogni e ci lascia nel buio della morte. Qualità della vita come valori Oggi si dice che si è persa la qualità della vita proprio perché si sono persi i valori. Valori come la giustizia, la lealtà, la veracità, il rispetto per gli altri, la sincerità, la laboriositàetc. Veramente non c’è alcun dubbio che questi valori qualificano positivamente la vita e, in qualche maniera, possono essere misura per la qualità di vita. Ma, i valori in se stessi, benché siano così nobili e migliorino la vita, non sono adeguatamente misura della qualità della vita, anche perché una vita costellata da loro non sfugge comunque alla morte.
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Qualità della vita come donazione Nella realtà della storia sappiamo che, al di là dei desideri d’immortalità presenti in ogni cultura, è successo un fatto meraviglioso, l’unico che, possiamo dire, qualifichi la vita, perché è un fatto che ha sconfitto la morte: la risurrezione di Gesù Cristo. E questo evento non rimane fuori dall’uomo, ma in tale forma aderisce a chi lo voglia ricevere, che si converte per ognuno nella vita vera in tutta la sua pienezza. Il modo con il quale possiamo acquisire questa vita è soltanto attraverso l’amore personale onnipotente del Padre e dello stesso Gesù Cristo, che è la persona dello Spirito Santo. Così il Padre ci dà la vita che mai finisce. Questa vita segue tutte le tracce della vita di Gesù Cristo, che è appunto “il cammino, la verità e la vita”. La misura della vita di Cristo è la misura della donazione della stessa vita e questa donazione ha come misura l’amore d’identificazione con Cristo che è lo Spirito Santo. Qualità della vita come amore divino–umano creativo Pertanto, la qualità della vita ha una sola misura: l’amore. Però non è un amore qualsiasi, che è perituro, ma un amore personale divino che si innamora del nostro amore umano e lo rende eterno. La misura è l’amore divino umano che il Padre ci invia col suo Spirito. Questo Amore che frantuma i limiti della mortalità è un amore che ci identifica con Cristo, il vincitore della morte. Questo amore infinito ha una potenza creativa. All’inizio di tutto, “lo Spirito aleggiava sulle acque” e dal niente, dalla confusione, Dio ha creato tutto. Oggi abbiamo il niente oscuro della morte. Lo Spirito torna un’altra volta ad aleggiarsi sulla turbolenza distruttrice della morte e dalla morte e dalla distruzione crea una nuova vita che mai finisce, crea la Risurrezione. Cristo nella croce ha affidato al Padre il suo Spirito ed il Padre, con la forza infinita amorosa del suo Spirito lo ha risuscitato. Pertanto, la vera misura della qualità della vita è la misura della donazione dello Spirito. Dunque, la qualità della vita si misura secondo il “metro” di Cristo stesso che è donazione totale verso gli altri fino alla morte. È un amore che conduce alla morte come pienezza d’amore e soltanto così converte il buio della morte in luce, il finale in inizio, la tomba in culla, la sconfitta in vittoria. Qualità della vita come Santissima Trinità Approfondendo quanto detto, la qualità della vita è un motore più che un metro. Il motore è la presenza nell’uomo della Santissima Trinità. Così, la qualità della vita è la qualità della vita della Santissima Trinità, la quale consiste nella piena e vicendevole donazione amorosa. Il Padre, tutto quanto, si dona a suo Figlio, ed il Figlio, tutto quanto, si dona a suo Padre; da questa mutua donazione procede lo Spirito Santo. Così, la qualità della vita prima di esigere un’istanza gnoseologica è una istanza ontologica: la presenza trinitaria in noi attraverso Cristo che muore e risorge. Conseguentemente, ognuno ha migliore vita nella misura del suo amore, della sua donazione. Questa donazione arriva al suo apice quando con la propria morte si prende tutta la propria vita nelle mani ed amorosamente la si offre in totalità al Padre nell’amore dello Spirito Santo. Questo è possibile soltanto lasciandosi penetrare dall’amore dello Spirito. È un dono, il maggiore dono. Lo Spirito così ci regala il penultimo gradino della qualità della vita che è una morte come maturità feconda che fiorisce nella risurrezione.
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Così, l’autentica qualità della vita vince la paura della morte e si trasforma, con la speranza fiduciosa dell’amore, in un cantico di vittoria. Qui la qualità della vita si trasforma in totale spiritualità, giacché è l’opera dello Spirito Amore. Qualità della vita come benessere Questa maniera di concepire la qualità della vita sembrerebbe allora molto lontana dalle descrizioni iniziali di qualità della vita come benessere, oppure, contro la qualità della vita come pienezza di vita fisica, mentale e sociale qui nel mondo. Ma non è così; infatti, ilbenessere fisico, psicologico e sociale sarà la piena qualità di vita nella risurrezione e procurarlo adesso è pregustare la stessa risurrezione, specialmente nelle cure delle malattie, benché si sia coscienti che questo benessere è soltanto relativo e punta al definitivo della risurrezione. Qualità della vita come consapevolezza Parlando della qualità della vita come donazione, forse si potrebbe dire che se qualcuno non è capace di donarsi non ha qualità di vita. Conseguentemente, quelli che inizialmente o permanentemente o transitoriamente non sono coscienti, come sarebbe il caso degli embrioni, o degli handicappati mentali, o dei malati incoscienti, che non possono donarsi, non avrebbero qualità di vita. Abbiamo detto che la donazione non è una donazione umana, ma una donazione divino umana, cioè è la misura della ricezione del dono che è lo Spirito Santo. E questo dono in qualche maniera si trova in tutti gli uomini dal primo istante del loro concepimento. Pertanto, si trova negli embrioni e nelle persone che per qualsiasi ragione in un momento determinato siano incoscienti. La donazione costituisce la persona, giacché questa non può esistere se non come frutto di donazione. La stessa qualità di vita fonda la dignità della persona umana e così si identifica con essa. E’ certo che la qualità della vita non è statica, ma può crescere secondo le circostanze e le azioni di ognuno. Ma c’è sempre una qualità essenziale della vita che è inerente ad ogni persona dall’inizio della sua esistenza e costituisce la sua originale dignità.
[1] GIOVANNI PAOLO II, Evangelium Vitae, n.23; CDF, “Istruzione Dichiarazione sull’aborto procurato”, 18 sett. 1974-‐ 11. [2] FLETCHER J., Four Indicator of Humanhood–The Enquiry Matures, HastingsCenter Report 1975, 4: 4-‐7. [3] SGRECCIA E., Bioetica, società, sanità e qualità della vita, in ID., Manuale di Bioetica, vol. II, Milano: Vita e Pensiero, 2002: 15. [4] Cf. LOZANO BARRAGÁN J., Teología e Medicina, Bologna: Ed. Dehoniane, 2001: 12-‐13.
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MAURIZIO FAGGIONI LA QUALITÀ DELLA VITA E LA SALUTE ALLA LUCE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA Il nostro titolo accosta con la tenue coordinazione di un “e” due espressioni complesse e dai significati molteplici collocandole nella luce della visione cristiana della persona umana. Noi, in questo discorso introduttivo, esamineremo sinteticamente la valenza semantica di queste due categorie così ricorrenti nel dibattito bioetico attuale e cercheremo, quindi, di conferire a queste espressioni polisemiche un significato determinato che si radichi nella visione cristiana dell’uomo. SALUTE La categoria di salute e quella speculare di malattia si riferiscono due situazioni, a prima vista di semplice definizione, ma in effetti la loro precisa delineazione risulta alquanto complessa e non univoca, essendo in stretta dipendenza dei diversi modelli antropologici sottesi e non sempre chiaramente esplicitati[1]. La categoria tradizionale di salute era di natura tipicamente medica perché definiva la salute come assenza di malattia e prendeva, quindi, come punto di partenza la malattia intesa come deviazione dalle condizioni ideali di funzionamento e di integrità dell’organismo. Nel secolo XX si è imposta una visione nuova che cercava di superare la medicalizzazione della salute -‐ per usare l’efficace formula di Illich[2]-‐ e allargava la comprensione della salute alle strutture sociali, lavorative, ricreative, educative, abitative, alimentari. A questa comprensione allargata può essere riportata la celebre definizione di salute offerta dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel Protocollo di costituzione, il 22 luglio 1946: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non solo l’assenza di malattia o di infermità”. La promozione della salute, allora, è ben più che rimozione delle noxae patogene o il ripristino di una ideale normalità organica, ma è promozione di comportamenti e condizioni di vita che permettono alla persona il conseguimento di un pieno benessere psichico, fisico e relazionale. Se la salute è una realtà globale, essa deve essere pensata e promossa attraverso una progettualità a tutto campo che abbracci il benessere fisico, psichico e sociale e che non può esser scopo della sola medicina, ma vede la medicina e le politiche sanitarie integrate all’interno di scelte politiche di più ampio respiro. La stessa medicina che un tempo si occupava quasi esclusivamente di guarire le malattie ora si sente sempre più impegnata anche nell’ambito della prevenzione e nella promozione di stili di vita. La salute diventa sempre più un obiettivo da perseguire collettivamente, un indice del progresso di una società, un banco di prova per coloro che hanno responsabilità pubbliche. Essendo la salute un bene essenziale della persona, è ragionevole e doveroso che la società si impegni per riconoscere e promuovere per ognuno il diritto alla salute, anche perché solo a livello sociale una salute intesa in modo tanto allargato può essere adeguatamente tutelata.Il contenuto preciso di questo diritto, ovviamente, dipende dal senso preciso che attribuiamo alla categoria di salute e si può prestare anche ad equivoci e malintesi. L’espressione diritto alla salute non può indicare il diritto ad essere in salute perché la condizione di salute spesse volte non è conseguibile attraverso la medicina o altri mezzi umanamente accessibili. Esiste, piuttosto, il diritto ad essere aiutati dalla società e dalla medicina socializzata a riacquistare o conservare la
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propria salute. Anche questa affermazione – apparentemente pacifica e senza problema – nella prassi è tuttavia carica di inquietanti domande. Possiamo davvero garantire tutto a tutti nell’ambito dei servizi sanitari? Possiamo realmente mettere a disposizione di tutti qualunque presidio biomedico e garantire a tutti l’accesso a ciò che di meglio si può avere? Una concezione allargata della salute può accontentarsi di fornire a tutti soltanto un minimo decente? E, infine, che cosa deve intendersi per minimale, che cosa per decente? Il tema della salute si intreccia necessariamente con il tema della giustizia e può essere declinato secondo i diversi livelli e aspetti che la giustizia sanitaria conosce. Si va dal problema della ripartizione delle risorse sanitarie a livello planetario, per cui l’idea di minimo decente nel Nord del mondo corrisponde ad un insieme di prestazioni sanitarie che non sono neppure immaginabili nel Sud del pianeta, sino alle decisioni quotidiane di trattenere un paziente in un ospedale pubblico un giorno in più o in meno in base ad un budget prefissato piuttosto che in base alle sue reali esigenze cliniche o, quel che è più dilemmatico, rinunciare a fornire terapie là dove una vita non possa più godere un benessere almeno minimo, ritenendo le terapie inutili rispetto al loro scopo e negando, per ciò stesso, il permanere del diritto ad accedere alle cure. È sconcertante pensare che un diritto della persona, come il diritto alla salute, possa relativizzarsi a tal punto e assumere contorni così diversi nei diversi contesti culturali, sociali, politici ed esistenziali. Un esempio paradigmatico e drammaticamente attuale si ha nella diversa possibilità di accesso alle cure per contrastare l’AIDS nei diversi contesti mondiali, ma gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito. Ripetere lo slogan “Salute per tutti” e pensare alla salute come “stato di completo benessere” suona quasi offensivo per milioni di poveri nel mondo ed evoca la retorica vuota delle belle parole piuttosto che non un progetto che si voglia e si possa responsabilmente condurre a compimento. A ben guardare, la definizione dell’OMS della salute come “stato di completo benessere”, pur presentando il pregio di proporre una visione multidimensionale od olistica della salute e di sottolineare l’aspetto soggettivo della salute come percezione di una esistenza che si esplica con pienezza nelle sue varie articolazioni, rivela però anche i limiti derivanti dal terreno culturale nella quale essa è sorta. Prima di tutto questa definizione, assunta nel contesto di una cultura della prestazione, favorisce una lettura crudamente efficientista della salute per lo stretto legame che tende ad instaurarsi tra benessere personale e capacità di rispondere alle attese sociali. La stessa OMS, in un’altra meno celebre, ma non meno significativa affermazione, ha accostato il senso dell’esistere alla capacità produttiva definendo la salute “lo stato di benessere fisico e mentale necessario per vivere una vita piacevole, produttiva e ricca di significato”. Compito della medicina, in questa prospettiva, è di contrastare e – se possibile -‐ eliminare la malattia con il suo corteo sintomatologico, in modo da reintrodurre il malato nella cosiddetta vita attiva o almeno ridurne il peso sociale in termini di necessità di assistenza e di cure. In secondo luogo, la concezione della salute come completo benessere implica, infatti, una visione secolarizzata della salvezza nella persuasione illusoria che l’uomo può procurarsi e raggiungere con i suoi mezzi la pienezza del benessere in questa vita. Questo, come conseguenza, concorre a creare\ attese irrealistiche sulla possibilità della medicina di rispondere a tutti i bisogni e i desideri delle persone. Nella medicina dei desideri la dimensione soggettiva della salute viene enfatizzata al punto di confondere il diritto alla salute con il diritto a vedere soddisfatti i propri desideri e si pretende che la medicina procuri le condizioni per realizzarli. La medicina dei desideri, incentivata dal mercato della salute, incrementa la richiesta di prestazioni farmacologiche e medico-‐chirurgiche, assorbe risorse pubbliche oltre ogni ragionevolezza e dilata, sino ad estenuarla, la categoria di terapeuticità.
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QUALITÀ DELLA VITA Le luci e le ombre contenute nella idea della salute come benessere si sono riversate ed espresse, a partire dagli anni ’50, nella categoria di qualità di vita e si può dire che la categoria di qualità della vita è diventata un modo usuale per riferirsi alla salute in termini di benessere, con una enfasi implicita sulle dimensioni soggettive della salute. Nella letteratura bioetica la nozione di qualità della vita è un tema costante, ma non sempre adeguatamente argomentato. È facile verificare che, in genere, i sostenitori della cosiddetta bioetica della qualità della vita offrono molti indici e algoritmi per calcolarla e si impegnano seriamente per confutare il paradigma rivale, rappresentato -‐ secondo molti di loro -‐ dalla bioetica della sacralità della vita, ma si dimostrano più deboli quando si tratti di fondare e definire rigorosamente la qualità della vita[3]. Dal punto di vistateorico sono stati individuati diversi approcci a questa categoria[4], ma si possono individuare alcunitratti comuni e ricorrenti. Prima di tutto, nel definire la qualità della vita si fa riferimento stati mentali piacevoli o dolorosi del soggetto in risposta alle sue condizioni psico-‐fisiche e sociali, per cui si ritiene che promuovere una buona qualità di vita consista nel produrre condizioni di vita gratificanti e nel rimuovere condizioni penose o dolorose. A livello sociale, per esempio, una politica sanitaria di allocazione delle risorse sarà ritenuta più o meno adeguata a promuovere la qualità di vita a seconda degli effetti piacevoli prodotti e delle situazioni spiacevoli rimosse. L’insistenza sulla dimensione soggettiva della qualità della vita, se viene estremizzata, può introdurre un tale carattere di relatività che, alla fine, ne è impedita una qualsiasi valutazione oggettiva. Soggetti diversi, infatti, possono benissimo dare valutazioni diverse di che cosa sia una vita di buona qualità e questa variabilità, se non si compone con criteri di oggettività, sfocia nella più assoluta indeterminazione, contro la pretesa di fondare la valutazione del valore della vita su basi razionali e a partire da criteri verificabili e costanti. Molti Autori, cercando di superare le aporie derivanti da una accentuazione unilaterale della componente soggettiva della qualità della vita si sforzano, di riportare la qualità della vita sul terreno dell’oggettività e propongono di assumere come indici di essa la possibilità di esprimere alcune capacità ritenute propriamente umane. C’è chi, come H. Tr. Engelhardt, individua queste capacità nella integrità delle funzioni cerebrali, nell’autocoscienza e nella relazionalità e c’è chi, come Flettcher, riconosce la qualità di una vita davvero umana a chi dimostri un minimo intellettivo, autocoscienza, autocontrollo, senso del tempo, capacità di relazione, interesse per l’altro, capacità comunicativa, capacità di cambiare, equilibrio fra ragione e sentimento, funzioni neocorticali. Ovviamente occorre condividere una precisa visione di ciò che è tipicamente umano e resta comunque irrisolta la questione se e per quali ragioni mantenga un suo valore una vita umana impossibilitata ad esprimere queste capacità tipicamente umane o – che è equivalente – se resti il dovere di tutelare e prendersi cura di una vita che non potrà mai esprimere queste stesse capacità. In sostanza, sia che si tratti di riportare la qualità della vita a indici di fruibilità di beni e di piacevolezza, sia che si cerchi di focalizzarla su attività e capacità tipicamente umane la categoria di qualità della vita, alla fine, trascura le dimensioni più profonde, ontologiche e non efficientiste dell’essere[5]. In questo senso si muove la definizione di qualità di vita elaborata da un gruppo di lavoro dell’OMS come “l’insieme delle percezioni individuali della propria posizione vitale nel contestodei sistemi culturali e assiologici in cui ciascuno vive e in rapporto con le proprie mete, attese, standard e interessi”. Anche la nozione di qualità della vita rimanda sempre ad una antropologia che la sostanzi e la fondi. Sarà, infatti, l’antropologia di riferimento, spesso implicita e non tematizzata, a dirci che
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cosa si deve intendere per “una vita buona”, “una vita felice”, “una vita piacevole” o “degna d essere vissuta” e, ancora più radicalmente, chi è “umano” e quindi merita il nostro impegno per tutelare e promuovere la sua qualità di vita. Normalmente, in campo antropologico, i fautori della qualità della vita, dimostrano di presupporre una antropologia piuttosto semplificata. Se, infatti, promuovere la qualità della vita significa rispondere in modo utilitaristico alle attese o realizzare condizioni di esistenza piacevoli, sarà necessario che il soggetto destinatario del nostro interesse o della nostra tutela possa apprezzare i risultati, avere attese, serbare memoria, percepire interessi. Non molto diversamente, in ambito neocontrattualista, ci sono Autori che tendono a riconoscere come veramente umani in senso ontologico quegli esseri che presentano in atto le capacità o qualità ritenute tipiche della persona e negano la cittadinanza nella comunità morale a quegli esseri umani che non riescono più o non riescono ancora a manifestare indici chiari di umanità, come l’autocoscienza o la capacità di instaurare relazioni interpersonali[6]. Per costoro la persona è costituita e non rivelata dai signa personae. Il valore di ciascuna vita umana e di una stessa vita in condizioni e tempi diversi della sua storia dipende dalla presenza o meno di alcune caratteristiche o qualità che sono ritenute rilevanti. Parallelamente varia anche la valutazione della forza del diritto ad esistere e a ricevere cure e assistenza. Qui possiamo riconoscere il corto-‐circuito logico di tanta bioetica laica. La nozione di qualità della vita è sostanziata dall’antropologia di riferimento, ma l’antropologia tende a identificare come veramente umani i soggetti che già vivono o potrebbero vivere vite di buona qualità. La nozione di qualità della vita, in altre parole, non solo è criterio di eticità per stabilire il diritto alla tutela e il dovere di rispettocura, ma concorre anche a definire l’umano. Esistono vite che non raggiungono standard di prestazione adeguati e che non sono ritenute meritevoli di tutela o della stessa tutela di cui godono le vite di buona qualità. L’etica della qualità della vita, se è intesa così, conduce senza dubbio a introdurre discriminazioni fra gli esseri umani per quanto riguarda la loro dignità e i loro diritti. L’uguaglianza fra tutti gli esseri umani è il fondamento e presupposto condiviso della convivenza sul nostro pianeta e l’irrinunciabile principio che fonda la democrazia moderna. La categoria di qualità della vita usata come criterio di valore della vita umana nega il fondamento naturale e culturale dell’uguaglianza, e introduce un’etica della disuguaglianza. Ora, anche se è vero – come annota Adriano Pessina – che “la tesi dell’uguaglianza (ontologica) tra gli uomini, e quindi quella del loro valore intrinseco, è storicamente debitrice sia della filosofia stoica sia della religione ebraico-‐cristiana, … queste origini non impediscono che si possa accedere ad un riconoscimento della dignità dell’uomo che non passi attraverso quelle fondazioni”[7]. Quello che è tragico è che quest’etica della disuguaglianza pretende di avere un’intima ragionevolezza e pretende di fondare su dati oggettivi (atti, condizioni psico-‐fisiche, fasi della vita, prestazioni ..) una disuguaglianza che è pura costruzione culturale. SALUTE E QUALITÀ DELLA VITA IN PROSPETTIVA CRISTIANA All’etica della qualità della vita si suole contrapporre –con un eccesso di semplificazione -‐ l’etica della sacralità della vita. La contrapposizione, come vedremo, può essere superata, ma ha una sua ragion d’essere se noi teniamo presente che, nel dibattito bioetico, le due espressioni sono assunte in relazione a precisi contesti antropologici ed etici e, quindi, sono determinate nel loro contenuto dal sistema filosofico di riferimento. La bioetica della qualità della vita presuppone che la vita sia eticamente definita attraverso le sue qualità e ammette una disuguaglianza di valore tra le diverse esistenze umane. Conl’espressione sacralità della vita si possono intendere diverse realtà, ma fondamentalmente si vuol esprimere l’idea che il valore della vita umana non dipende da un apprezzamento e da una valutazione delle
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qualità che essa accidentalmente presenta, bensì dal fatto stesso di essere una vita umana[8]. Affermare la sacralità di ogni vita umana e dedurne l’eguaglianza di dignità e l’intangibilità non nasconde che le diverse esistenze manifestano qualità diverse, alcune desiderabili ed indesiderabili, non nasconde che per alcuni e, forse, molti la vita non sia felice, compiuta e realizzata, ma non per questo ritiene diminuita la dignità e il valore di quelle esistenze fragili e dolenti. L’agente morale è, dunque, chiamato non ad attribuire valore, ma a riconoscere il valore intrinseco di ogni vita umana in quanto umana. Annota giustamente mons. Carrasco De Paula che l’espressione “valore della vita umana” è una forma abbreviata “della più precisa locuzione valore dell’uomo vivente in quanto vivente”[9]. La vita non è un bene che si possiede e che può essere abbandonato o estinto quando cessa di apparire un bene desiderabile o utile, ma è l’esperienza complessiva del proprio esistere. Io non ho una vita, io sono un vivente. La categoria di sacralità è molto criticata dalla bioetica laica, che parte spesso da una opzione antireligiosa e antimetafisica, ed è anche molto fraintesa. Alcuni danno alla categoria di sacralità una intonazione magico-‐sacrale e attribuiscono alla morale cattolica un grossolano vitalismo o esaltazione assoluta e incondizionata della vita biologicaderidendola per il suo attaccamento a una visione prescientifica della vita. Altri – come la H. Kuhse in un celebre saggio – identificano la sacralità della vita con la sua intangibilità e giustificano tale intangibilità in modo nominalistico attraverso il comando divino: “Non uccidere”. Altri cercano di recuperare la categoria di sacralità demitizzandola e staccandola dal contesto religioso in cui nasce e nel quale è pienamente intelleggibile: si parlerebbe allora di sacralità della vita in senso evocativo, emotivo, parenetico per indicare il valore che si attribuisce alla vita umana e spingere la gente al rispetto per essa. Si cercano nella scienza, soprattutto nella teoria dell’evoluzione, nelle neuroscienze, nell’etologia e nella sociobiologia prove di una continuità ininterrotta fra vita umana e vita animale, per superare lo scarto ontologico fra uomo e animale e poter negare ogni valore speciale e tanto meno sacro alla vita umana. Il riduzionismo antropologico è il vero sottofondo di molta della bioetica laica e dell’antropologia diffusa nella cultura secolarizzata e comporta l’incapacità di cogliere la multidimensionalità della persona umana, il valore della sua vita il senso ultimo del suo esistere[10]. La convinzione della dignità, del valore, della autonomia della persona, rappresenta invece uno degli elementi qualificanti della proposta antropologica cristiana. In sostanza, rispondere alle sfide del riduzionismo antropologico significa riaffermare la differenza dell’essere umano rispetto ad ogni altro essere e quindi la sua eccellenza assiologica, come si legge in un famoso testo di Gaudium et Spes dedicato a descrivere i costitutivi dell’uomo: Uno nell’anima e nel corpo, l’uomo per la sua stessa condizione corporea riassume in sé gli elementi del mondo materiale … L’uomo in verità non si inganna quando si riconosce superiore alle cose corporee … infatti con la sua interiorità supera la totalità delle cose[11]. Il pensiero cristiano, sin dai primi tentativi di pensare la fede da parte dei Padri, ha ritenuto irrinunciabile l’affermazione dell’eccedenza dell’uomo rispetto alla sua base o dimensione o componente biologica e materiale e ha trovato conveniente esprimere questa eccedenza ricorrendo al theologoumenon dell’anima. Appunto in questo contesto si situa tradizionalmente la categoria etica di sacralità della vita[12]. Per la bioetica cattolica “la vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il suo Creatore, suo unico fine”[13]. Questa creaturalità dell’uomo è un dato fondamentale della antropologia cristiana. L'uomo è una creatura e perciò, come ogni altra creatura, è pensabile solo in relazione con Dio, ma la relazione della creatura umana con Dio è assolutamente unica, perché è una relazione
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costitutiva ed esclusiva, una relazione personale che fa dell'uomo una persona, una realtà aperta ad autotrascendersi nel Tutto e ad aprirsi all'Alterità, in un moto dinamico che lo conduce verso una sempre maggiore attuazione e un compimento definitivo. Il valore della vita umana non deriva quindi da ciò che un soggetto fa o esprime, ma dal semplice suo esistere e dal suo essere costituita in relazione con Dio: la radice del valore e della inviolabilità di ogni vita umana sta ultimamente in Dio. Giovane o adulto, sano o malato, embrione o neonato, genio o idiota, il valore di ogni essere umano è del tutto indipendente dalla qualità delle sue prestazioni o della sua vita; ciò che conta è il suo essere in relazione con Dio. La radice teologale di questo fondamentale valore viene espressa con efficacia in un bel passo della istruzione Donum Vitae: La vita fisica, per cui ha inizio la vicenda umana nel mondo, non esaurisce certamente in sé tutto il valore della persona né rappresenta il bene supremo dell'uomo che è chiamato all'eternità. Tuttavia ne costituisce in un certo qual modo il valorefondamentale, proprio perché sulla vita fisica si fondano e si sviluppano tutti gli altri valori della persona. L'inviolabilità del diritto alla vita dell'essere umano innocente dal momento del concepimento alla morte è un segno e un'esigenza dell'inviolabilità stessa della persona, alla quale il Creatore ha fatto il dono della vita[14]. La visione cristiana della persona e del valore della sua vita ci porta così a delineare una comprensione delle categorie di salute e di qualità di vita che non rifiuta gli apporti costruttivi del pensiero secolare, ma li rilegge in una prospettiva originale. L’antropologia cristiana, così attenta a sottolineare l’unità della persona nella sua multidimensionalità, privilegia -‐ è intuibile -‐ una nozione olistica di salute e di malattia, in cui concorrono e interagiscono elementi corporei, psichici e spirituali senza dimenticare le imprescindibili risonanze relazionali. Come la vita umana non può essere ridotta alle sue sole dimensioni biologiche,ma è vita della persona nella sua multidimensionalità, così la salute non può essere ridotta ad una o all’altra delle dimensioni dell’uomo, maè armonia e integrazione di tutte le energie personali, fisiche, psichiche e spirituali,. La salute, in questo senso molto ampio, può essere definita, con Karl Barth, “la forza di essere uomo”[15]. Promuovere la salute di un soggetto, allora, non significa procuragli l’assenza di qualsiasi limitazione o malattia o disagio, ma aiutarlo a vivere consapevolmente la sua vita nel modo più autentico a partire dalla concretezza delle sue condizioni psico-‐fisiche. D’altra parte il diritto alla salute non esige né la fruizione di qualità di vita standardizzate, né la medesima possibilità di conseguirle. La salute è equilibrio e armonia della persona, ma un equilibrio ed una armonia che non sono dati una volta per tutte e a tutti nello stesso modo. Ognuno deve essere aiutato a trovare la sua armonia e il suo equilibrio nella propria particolare situazione esistenziale perché il diritto alla salute non è limitato a coloro che godono di standard prefissati di qualità di vita prefissati, ma deriva dal diritto alla vita, diritto che è radicato in ogni persona umana in quanto soggetto di una vita che rimanda alla vita stessa di Dio e che si dispiega nei diversi itinerari esistenziali di ciascuno. Il diritto alla salute è un diritto logicamente e assiologicamente precedente il suo riconoscimento sociale perché la salute, pur essendo percepita e declinata attraverso categorie culturalmente condizionate, non è pura costruzione socio-‐culturale, ma si innesta sul nativo diritto alla vita come forza e capacità di vivere la propria vita. Mentre l’esaltazione unilaterale dei valori corporei sfocia oggi in un salutismo estremo, in un idoleggiamento della prestanza e vigoria corporea,in una ricerca esasperata di efficienza, in un edonismo neopagano incapace di accettare l’esperienza della malattia e della decadenza psicofisica come possibili esperienze di autenticità, alla luce dell’antropologia cristiana è possibile stabilire un sano discernimento fra una ragionevole cura della salute e l’emergere di un desiderio infantile ispirato da grandiosità e onnipotenza, è possibile, soprattutto, cogliere il
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valore della vita là dove, per lo scadere della salute psichica, fisica, sociale, la sua qualità si riduce a livelli minimali. Anche là dove la vita umana fosse vissuta dal soggetto e percepita dagli altri come una vita di bassa qualità, resta pur sempre quella qualità essenzialedella vita che non dipende dalle sue qualità, ma dal valore in sé della vita umana. Tutelare la salute di un soggetto significa allora aiutarlo ad attuare l’intrinseca bontà della propria esistenza lungo un itinerario che si snoda in continuità dal suo primo sorgere, nel concepimento, sino al suo spegnersi, nella morte. Non sarà mai un bene per l’altro agire contro il suo esistere incarnato (come nell’eutanasia e nel suicidio assistito) perché nega il valore di questa esistenza invece che affermarla, ma non potrà mai essere un bene neppure prendersi cura della salute dell’altro negando dimensioni veritative essenziali del suo essere umano, quali la libertà o l’amore (come nella cosiddetta salute riproduttiva). Prendersi cura della salute propria e dell’altro significa riconoscere il valore dell’esistere proprio e altrui in tutta la sua vastità e nelle sue molteplici articolazioni. Prendersi cura è struttura etica fondamentale che corrisponde all’accoglienza dell’esistenza dell’altro come prossimo e similea me, prendersi cura della salute dell’altro significa promuovere la sua esistenza in quanto portatrice di un appello alla mia coscienza, significa accettare la struttura esistenziale della dipendenza nella forma dell’interdipendenza. Ognuno di noi deriva da altri, dipende per il suo essere da altri e questo può diventare cifra per cogliere la propria originaria dipendenza creaturale. Nel momento infatti in cui accolgo la relazione con l’altro e accetto che egli dipenda da me, la mente si dischiude a cogliere, nel mistero, la nativa limitatezza e la radicale dipendenza creaturale dell’essere umano. Prendersi cura della vita dell’altro significa, perciò,affermare che Dio esiste e che l’uomo è la sua immagine.
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[1] ASHLEY B., O’ROURKE K., Etica sanitaria. Un’analisi teologica, Torino 1993, 45-‐66; ENGELHARDT D. VON,Health and Disease. History of a Concept, in REICH W. T. ed., Encyclopaedia of Bioethics, vol. 2, New York 1995, 1085-‐1092; SCHOCKENHOFF E., Etica della vita, Brescia 1997, 219-‐242; VIAFORA C., Malattia, in COMPAGNONI F. ed.,Etica della vita, Cinisello Balsamo 1996, 81-‐116. [2] ILLICH I., Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Milano 1976. [3] Della sterminata letteratura, vedere per esempio: BOWLING A., Measuring disease: a review of disease-‐specific quality of life measurement scales, Philadelphia 2001; CATTORINI, REICHLIN, L’idea di vita in bioetica, “Filosofia e Teologia” 10 (1996), 301-‐317 (313); DAUM M. The quality of life report, New York 2003;LECALDANO E., Questioni etiche sui confini della vita, in DI MEO A., MANCINA C. curr., Bioetica, Roma-‐Bari 1989, 19-‐39; SHAW A., Defining the Quality of Life: a Formula without Numbers, “Hastings Center Report” 7 (1977), 5-‐11;ID., Ql Revisited, “Hastings Center Report” 18 (1988), 10-‐12. [4] Cfr. SANDØE P., Quality of Life – Three Competing Views, in “Ethical Theory and Moral Practice” 2 (1999), 11-‐23. [5] In questo senso l’affermazione di Evangelium vitae secondo la quale “la cosiddetta qualità della vita è interpretata in modoprevalente o esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, trascurando le dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza”. [6] Tipica l’impostazione di H. T. ENGELHARDT, The Foundations of Bioethics, Oxford 1996, 239. [7] PESSINA A., Bioetica, 74. [8] Una presentazione informata: CHIODI M., Tra cielo e terra. Il senso della vita a partire dal dibattito bioetico, Assisi 2002, 45-‐94; KEENAN J. F., The Concept of Sanctity of Life and its Use in Contemporary Bioethical Discussion, in BAYERTZ K. ed., Sanctity of Life and Human Dignity, Dordrecht-‐Bioston-‐London 1996, 1-‐18. [9] CARRASCO DE PAULA I., Dignità e vita umana nell’etica medica, “Medicina e Morale” 45 (1995), 213-‐222 (qui p. 220). [10] Cfr. FAGGIONI M. P.,La sfida del riduzionismo tecnico scientifico al progetto uomo, “Studia Moralia” 38 (2000), 437-‐473. [11] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Cost. Past. Gaudium et Spes, 14 (EV 1/1363): “Corpore et anima unus, homo per ipsam suam corporalem condicionem elementa mundi materialis in se colligit… Homo vero non fallitur, cum se rebus corporalibus superiorem agnoscit … Interioritate enim sua universitatem rerum excedit”. [12] Per approfondire: FERNGREN G. B., The Imago Dei and the Sanctity of Life: the Origins of an Idea, in MCMILLAN R. C., ENGELHARDT J. R., SPICKER S. F. edd., Euthanasia and the Newborn, Dordrecht (ND) 1987, 23-‐45; KUHSE H.,The Sanctity of life Doctrine in Medicine. A Critique, Oxford 1987;SPINSANTI S., Qualità della vita o santità della vita? Oltre il dilemma, in VIAFORA C. cur., Centri di bioetica in Italia. Orientamenti a confronto, Padova 1993, 212-‐224. [13] CONGR. DOTTR. FEDE, Istr. Donum Vitae, 22-‐2-‐1987, Introd. 5. [14] CONGR. DOTTR. FEDE, Istr. Donum Vitae, Introduzione, n. 4. [15] BARTH K., Kirchliche Dogmatik, vol. 3, tom. 4, Zolliken-‐Zürich 1951, 406.
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JEAN-‐MARIE LE MÉNÉ ETICA SANITARIA E GESTIONE DELLA SALUTE MONDIALE Conosciamo tutti la definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “La salute è uno stato fisico, mentale e sociale di completo benessere e non soltanto l’assenza di malattie o infermità”. Tale definizione presenta i vantaggi di prendere in considerazione sia il corpo sia l’anima il che rende più realistica la visione rispetto alla semplice salute fisica. Tuttavia con l’espressione ‘completo benessere’, senza delimitazioni temporali, si finisce per attribuire alla salute un carattere idealistico che non tiene conto della realtà della persona che è chiamata a vivere, ma anche a morire. La salute nel mondo, oggi, corrisponde molto poco a questo ideale e il modo in cui si opera per migliorarla è ben lontano dall’essere uniforme. Nel mondo sviluppato la gestione dei sistemi sanitari è ampiamente condizionata dalla domanda, mentre nel terzo mondo è basata soprattutto sull’offerta. Domanda e offerta sono alla base di tutte le teorie economiche, che sono a loro volta influenzate da varie ideologie. Ciò che bisogna capire è se, tra tutti questi fattori che caratterizzano la sanità mondiale, ci sia spazio anche per l’etica. NEL MONDO SVILUPPATO, LA GESTIONE DELLA SANITÀ SI BASA SULLA DOMANDA Nella maggior parte dei paesi industrializzati, con economie forti, la situazione sanitaria è caratterizzata da tre elementi. Innanzitutto non esistono più epidemie importanti di natura infettiva in grado di distruggere un’intera popolazione, e questo grazie al progresso medico. In secondo luogo è cambiata la stessa natura delle patologie dei pazienti ospedalizzati. In passato le malattie erano di natura infettiva e ad esordio acuto, ora sono diventate ad andamento cronico e di origine spesso chimica (cardio-‐vascolari, cancro, reumatismi, ecc.), ma i governi e sistemi di sanità pubblica hanno spesso preso misure adeguate per assicurare che la stragrande maggioranza delle persone abbia uguale accesso alla medicina preventiva, anche se ancora molto può essere fatto. Infine, la domanda sanitaria sta gradualmente cambiando e si sta orientando verso nuovi bisogni.Tali bisogni, seppur non specificatamente medici, sono ugualmente fatti rientrare nel mondo della salute. Essi hanno preso il posto di altri bisogni in maniera decisa grazie ad una nuova domanda. Questi nuovi bisogni stanno portando ad un incremento sempre maggiore delle spese che sono (negativamente) condizionate dalla capacità economica di chi le deve sostenere. DALLA SALUTE AL BENESSERE: NUOVE ESIGENZE CREATE DALLE NUOVE DOMANDE La salute, nel mondo sviluppato, ha la tendenza ad andare oltre la “riparazione” del corpo umano (corpo e anima) e ad entrare in un mondo fantastico, uno spazio ideale in cui diventa un bene di lusso, un prodotto di consumo per privilegiati. Nuovi bisogni: un solo criterio, il desiderio L’elemento che meglio simboleggia tale evoluzione è il successo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita che non hanno nessun altro obbiettivo se non quello di soddisfare il desiderio di avere un figlio.
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Tuttavia, considerando la mancanza di un figlio come una malattia che deve essere curata con ogni mezzo a disposizione, anche con quelli più rischiosi e dispendiosi, proprio come si farebbe per una malattia vera che mette a rischio la vita, il mondo sviluppato ha accettato il passaggio dal concetto di salute a quello di benessere. La metafora medica è calzante. Si agisce come se la sofferenza legata all’impossibilità di avere figli fosse un sintomo medico di una patologia di cui la collettività possa farsi carico dal punto di vista assistenziale. Tutto sommato, la situazione risulta essere paradossale dato che le tecniche proposte curano solo i sintomi (la mancanza di un figlio) e non la causa (i problemi di fertilità della coppia). Non dobbiamo dimenticare che una coppia rimane sterile anche dopo la fecondazione in vitro! La varietà dei metodi di procreazione disponibili è presentata come una risposta, sempre più selettiva, ai desideri del committente che, a sua volta, è spinto continuamente a domandare sempre di più.[1] Il desiderio crescente di avere figli è l’esatto opposto di un’altra esigenza ugualmente radicale e precedente dal punto di vista storico: quella di non averne. Per molto tempo il rifiuto di avere bambini è stato anch’esso medicalizzato e le assicurazioni sanitarie se ne sono fatte carico. La contraccezione, libera e gratuita, rappresenta senza dubbio il primo passo di questa passaggio, sostenuto dai paesi sviluppati, dal concetto di salute a quello che ritengono sia il benessere. Ma più che il desiderio di avere un figlio, ciò che è inaccettabile è che il rifiuto di un figlio sia considerato parte delle cosiddette politiche ‘sanitarie’, come se la vita potesse essere considerata come una malattia e la morte come un rimedio. È ancora il desiderio ad essere valorizzato quando un sistema sanitario accetta, organizza e finanzia, nel nome del benessere, la soppressione di bambini anormali non ancora nati, presentandola come strumento di “prevenzione” dell’handicap. Nella terminologia usata, l’interruzione, terapeutica o medica, della gravidanza – l’illusione di rimanere sempre nell’ambito delle cure mediche – rappresenta una sorta di sicurezza morale, deliberatamente promossa. E inoltre, non riusciamo a vedere cosa abbiano in comune questi sistemi sanitari o il personale sanitario con quegli atti deliberatamente volti a causare la morte. In Francia, fino ad oggi, solo la cosiddetta interruzione medica della gravidanza è stata rimborsata dal sistema sanitario nazionale, mentre gli aborti “di convenienza” sono stati compresi nel budget dello stato. Una delle prime misure adottate dal Ministro della Salute, Prof. Jean-‐François Mattei, è stata quella di far rientrare anche l’aborto di convenienza tra le spese sostenute dal sistema sanitario nazionale. Questo desiderio di potenza è ravvisabile anche nel desiderio della nostra società di rimanere eternamente giovane. In tale contesto rientra la propaganda dell’uso di embrioni umani nella terapia cellulare, come strumento infallibile per combattere le malattie legate all’invecchiamento, come il morbo di Alzheimer e il Parkinson. L’illusione dell’eterna giovinezza – e della vittoria finale sulla morte – ha radici fantastiche e mitologiche. Il desiderio è così forte che nell’eventualità le cellule staminali embrionali, provenienti da embrioni soprannumerari, dopo la loro distruzione,dovessero rivelarsi incompatibili con l’organismo ricevente, è già stata annunciata la possibilità di fare ricorso alla cosiddetta clonazione terapeutica come panacea per curare tutto. Ancora una volta il termine ‘terapeutico’ ci riporta – erroneamente -‐ nella sfera della salute. Alcuni paesi come il Belgio e la Gran Bretagna hanno autorizzato la clonazione terapeutica. Altri, come la Francia e la Germania, l’hanno momentaneamente proibita nella legislazione interna, ma la stanno appoggiando a livello internazionale in vista di una moratoria da parte delle Nazioni Unite sulla clonazione a scopi riproduttivi. Va ricordato che la sete di potenza riguarda anche la bellezza fisica e le prestazioni sessuali. Si pensi ai continui sforzi per rendere credibile il potere degli ormoni della giovinezza DHEA resi popolari da Etienne Baulieu (inventore della pillola abortiva RU 486) e agli sforzi per renderli uno dei necessari componenti della salute… per star bene. Si pensi anche alle lussuriose
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pubblicità nelle riviste mediche di prodotti come il Viagra … che non hanno motivo di essere considerati come prodotti sanitari. La lista potrebbe allungarsi ulteriormente, ma ciò che è importante considerare è che chi ha capacità economica è ormai sazio di prodotti sanitari ordinari. D’ora in poi i paesi sviluppati saranno promotori di una nuova domanda riguardante la creazione della vita, la giovinezza eterna, la bellezza e l’allontanamento della morte, tutti ambiti di enorme vantaggio per il mercato, dato che è una domanda che non potrà mai essere soddisfatta. Questo perché questi orizzonti irraggiungibili non sono rivendicati dai cittadini comuni. Questa nuova domanda è formulata, promossa e divulgata da nuovi attori. Una caratteristica della nuova domanda: gli utenti non sono persone “spontaneamente” malate Davanti ai grandi scenari aperti da questi nuovi bisogni, è di rigore un tono entusiastico. Chiunque non vi aderisca senza riserve è escluso dall’inesorabile e felice marcia verso la nuova Terra Promessa della salute. Questa prospettiva è creata in modo autorevole dagli scienziati il cui status ha subito una profondo cambiamento. Siano essi medici, biologi o genetisti, gli scienziati sono stati promossi al rango di esperti, dispensatori di verità e speranza. Quando l’opinione pubblica è inquieta, quando i media pongono domande o quando i politicinon sanno che direzione prendere, gli esperti sono chiamati a esprimere la loro opinione. Molto spesso sono chiamati a definire regole, a stabilire limiti, a spiegare significati, tutti compiti che rientrano nella loro missione e competenza. Tale ideologia della competenza, secondo la quale la conoscenza scientifica da sola può fondare una scelta politica, è un’illusione che permette al potere politico di essere alleggerito della responsabilità che non vuole più assumersi. Ciò si risolve in una eccessiva rappresentanza del punto di vista scientifico o tecnologico negli organismi decisionali, nei comitati etici o nelle commissioni parlamentari. In Francia, dopo aver funzionato per più di vent’anni, il comité national consultatif d’éthique, ha messo in chiaro che il ruolo degli esperti riuniti nel comitato, la maggior parte dei quali scienziati, è stato quello di rendere avvezzi l’opinione pubblica e i mezzi di comunicazione alla trasgressione. Non sono pochi gli esempi che dimostrano come il comitato di etica sia stato un laboratorio, una sala di registrazione della tragressione con lo scopo di renderla accettabile all’opinione pubblica. È stato anche chiamato “giardino di acclimatazione” per quelle innovazioni scientifiche considerate “ancora inaccettabili”. Un genetista ha scritto, “Il pubblico non ha paura del progresso, ma della sua rapidità. Lo scopo dei comitati etici è quello di agire da freno per rallentare l’applicazione della tecnologia ad una velocità accettabile per il pubblico”[2]. Indipendentemente che si avesse a che fare con l’estensione dei limiti legali dell’aborto, con le varie tecniche di procreazione medicalmente assistita, con l’uso delle cellule staminali embrionali, con la costruzione di “bambini-‐medicina” dopo una doppia diagnosi preimpianto, con la cosiddetta clonazione terapeutica, o con l’eutanasia, la dialettica è sempre stata la stessa. Inizialmente, c’è sempre un forte richiamo al principio del rispetto della vita; poi, eccezionalmente, si cominciano ad ammettere delle deroghe che in breve rimpiazzano il principio. Se qualche persona scoraggiata mostra qualche preoccupazione, la posizione ufficiale dell’esperienza rimanderà alla necessità di un certo “disincanto etico”. In altre parole il progresso scientifico e medico ha sempre contemplato la trasgressione. Storicamente si citano tre esempi: la dissezione dei cadaveri, le trasfusioni di sangue e i trapianti d’organo. Queste pratiche non hanno mai rappresentato delle trasgressioni morali. Tutt’al più hanno rappresentato delle trasgressioni sociali all’epoca in cui fecero la loro apparizione. D’altro canto, l’imperativo industriale, puramente utilitaristico, è spesso chiamato in causa come giustificazione. La questione non è, per i paesi, essere in ritardo nella corsa alle biotecnologie e,
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soprattutto, non per ragioni etiche. La fuga di cervelli verso paesi più liberali è una spada di Damocle, brandita spesso: i paesi meno attenti all’esigenza etica hanno un vantaggio da un punto di vista competitivo e comparativo. L’allineamento sul “minimo etico” diviene l’unica regola per i comitati etici. A queste condizioni non è difficile cercare e ottenere il consenso. Da questo imperialismo della capacità tecnico-‐scientifica deriva la produzione di slogan paradossali che accompagnano la deriva della salute verso il benessere o il confort. In tal modo, l’aborto medicalizzato è un fattore riguardante la salute della donna e del bambino. Allo stesso modo la diagnosi preimpianto diventa un modo per evitare l’aborto. L’uso di embrioni a fini di ricerca sarà l’occasione per sviluppare la solidarietà intergenerazionale: i “bambini-‐medicina”, dopo una doppia selezione in vitro, saranno promossi al rango di “bambini della speranza”, ecc. Parallelamente a questo diktat della capacità, si è sviluppato il ruolo delle associazioni dei malati come beneficiarie nella domanda per la salute, ma in realtà come gruppi di pressione. Dimostrazione più eclatanti di questo, sono le nuove forme di solidarietà tessute intorno ai pazienti con AIDS o con miopatie. Per quanto riguarda l’AIDS, agli inizi degli anni ’90 alcune associazioni militanti consideravano gli studi sperimentali come un mezzo per avere accesso a farmaci promettenti ed erano fortemente critiche verso la classica metodologia di sperimentazione. Inoltre le associazioni hanno esercitato pressioni sulle industrie farmaceutiche, i governi e i medici per rendere più rapida la circolazione dei nuovi farmaci prima che fossero autorizzati all’immissione in commercio. In nome della compassione per i malati che stavano morendo e con mezzi a volte terroristici (irruzioni in programmi televisivi, minacce…), le associazioni pretendevano che ai pazienti fosse data la possibilità di accedere a molecole che non avevano ancora concluso l’iter della sperimentazione e della valutazione. Dato che l’epidemia di AIDS ha avuto una grande copertura mediatica, le associazioni hanno rivestito un ruolo importante nelle discussioni. La valutazione dei fatti scientifici non è rimasta in seno all’ambiente specialistico, ma è stata fatta oggetto di appropriazione da parte di una lobby. Le decisioni finanziarie ne sono state influenzate a scapito di altre scelte sanitarie. È emersa una formula mista, che ha visto uniti esperti e gruppi di pressione, a guida della ricerca sulle malattie genetiche e ora sulla terapia cellulare. Con gli ingenti fondi raccolti e distribuiti ogni anno da Telethon, alcune associazioni gestionali sono diventate attori-‐chiave nella scelta dei temi e dei gruppi di ricerca all’interno di organismi pubblici. Ma i fini perseguiti e i mezzi usati non sono esenti da critiche. L’autorizzazione della diagnosi preimpianto è stato il risultato diretto delle pressioni esercitate da Telethon. La nascita del primo bambino dopo diagnosi preimpianto è stata resa possibile grazie ai finanziamenti di Telethon, che se ne è rallegrata. In passato, alcune emittenti televisive di Telethon avevano già presentato “babythons”, ossia bambini nati senza malattie grazie alla diagnosi prenatale. Il passo successivo ha avuto inizio con la presa di posizione di Telethon a favore della ricerca sulle cellule staminali embrionali e sulla clonazione terapeutica[3]. COSTI SEMPRE PIÙ ELEVATI, MAL REGOLATI DAL MERCATO L’aumento delle spese sanitarie è in gran parte legato all’incremento delle attività sanitarie per malattie che potrebbero essere denominate “civilizzazionali” derivanti, cioè, dalla domanda di benessere sopra descritta. Finora la politica seguita è stata quella di far ricadere la responsabilità sulla professione medica accusata di esagerare nell’attività terapeutica e di prescrivere troppo. In realtà, l’incremento delle attività di assistenza sanitaria è il risultato di un cambiamento della natura della salute e di un suo slittamento verso la cura delle cosiddette malattie “civilizzazionali”. È l’esito fatale dell’alleanza tra scientismo e mercato.
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La comparsa di nuovi malati: le malattie della civilizzazione Bisogna constatare che la libertà insieme a certe abitudini morali, ambientali e sociali, si traduce nell’insorgenza di numerose malattie o “malesseri” che in passato erano rare o sconosciute, così come continuano ad essere nei paesi poveri. I sistemi sanitari si fanno carico di queste patologie solo da un punto di vista curativo, senza considerare la loro eziologia che rimane quindi non trattata. Così, per quanto riguarda le persone anziane, il principale problema di salute pubblica è ridurre il numero dei ricoveri dovuti agli effetti secondari dei trattamenti legati all’assunzione di troppi farmaci. Per quanto riguarda le donne giovani, l’obbiettivo di salute pubblica, è la prevenzione delle carenze socio-‐affettive e le loro conseguenze: anoressia e obesità. Per i bambini, la questione riguarda la prevenzione dei disturbi legati ai rapporti familiari, l’identificazione e l’assistenza dei casi di maltrattamento. Gli studenti delle scuole medie e superiori sono seguiti per evitare abitudini che portano a dipendenza (alcol, tabacco, droghe). Sono già stati programmati piani educativi per la contraccezione e il ricorso alla contraccezione d’emergenza (abortiva) per ridurre l’incidenza degli aborti. Per i giovani alle prime esperienze si aggiungerà anche una protezione contro il rischio di suicidio e contro l’esposizione all’HIV e alle malattie sessualmente trasmesse. La medicalizzazione della vita, divenuto un fenomeno diffuso nei paesi sviluppati, solleva problemi particolari in relazione ai disturbi mentali e ai disordini del comportamento. Il centro della questione sono le nozioni di benessere e di dipendenza. Sembra che ci sia stato uno slittamento dalla cura dei malati alla cura di coloro che sono in buona salute, ma che hanno dei problemi, e quindi alla cura di persone sane col fine di facilitarne la vita. Tuttavia bisogna sapere se il ruolo della cura sia quello di dare a questi pazienti una “gioia di vivere” costante, ostacolata da uno sviluppo tecnologico slegato da qualsiasi principio etico. I pazienti non si aspettano forse dagli antidepressivi ciò che sono soliti aspettarsi dalle vacanze? Tutto ha un costo elevato: lo sviluppo personale, la riconquista di sé, l’apparenza di felicità, il bisogno di agire e le prestazioni nel lavoro, nello studio e nello sport[4]. In una società guidata da principi morali, la questione è sapere se qualcosa sia permessa o no e se sia conforme al bene comune. Nelle società individualistiche ed edonistiche la questione è invece sapere se ciascuno sarà in grado o meno di arrivare ai confini dei propri desideri e di ciò che è possibile ottenere. Il riferimento a ciò che è permesso cede il passo al riferimento a ciò che è possibile, ma i danni collaterali sono ingenti per le società coinvolte[5]. Il mercato non solo non è in grado di dare significato a questa evoluzione, ma neanche di razionalizzarla. Sembra che ci si sia dimenticati che la legge naturale non può essere impunemente violata senza pagare un prezzo molto alto per la salute dell’uomo. Una mancanza di regolamentazione dal mercato Nei paesi sviluppati, la sanità sta per essere mandata in rovina dai prevalenti interessi economici? Le illusioni legate alle biotecnologie sembrano accompagnare l’inizio del millennio. A breve, grazie alle cellule staminali embrionali e alla clonazione umana, si potranno comprare anni di vita addizionali, una rinnovata giovinezza, migliori performance sessuali, una discendenza senza difetti, un’euforia permanente prima di una conclusione dell’esistenza che arriva senza accorgersene. Da questo punto di vista la salute è un mezzo o un fine? La salute come benessere e la salute come confort non sono forse identificate, in una parodia della visione beatifica, con la salute individuale, con un Paradiso ritrovato? La visione liberale, legittimata come nessun’altra, ci assicura che la libertà illimitata del mercato rappresenta la nostra migliore opportunità di incrementare la ricchezza collettiva e che ad essa dobbiamo la nostra agiatezza, il nostro
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benessere e la nostra salute. Garantire i consumi equivale a garantire la ricostituzione costante della forza lavoro cosicché il sistema non sarà paralizzato dai problemi di salute dei lavoratori. In questo modo, la salute è diventata anche un diritto individuale proporzionale al dovere di darsi completamente al progresso economico. La salute è stata anche identificata con la capacità di guadagnarsi di che vivere. Gli incidenti e la malattia sono considerati come tributi che gli individui pagano alla crescita economica. Per questo motivo la società deve prendersi cura di loro. Ma ora che la parte ricca dell’umanità è sazia di prodotti dell’assistenza sanitaria primaria, deve spostare l’orizzonte. Oggi le fantasie associate allo sviluppo della genetica e della terapia cellulare assegnano un nuovo obbiettivo al liberalismo economico per farlo uscire dalla crisi. Tale obbiettivo non è forse il “nuovo paradigma della salute”? Cinquanta anni fa, parlavamo della spesa sanitaria. Domani non parleremo forse della ricchezza che produce la sanità? L’economia ha superato l’etica. NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO LA GESTIONE DELLA SANITÀ È PENALIZZATA DALL’OFFERTA È chiaro che tutte le possibilità offerte dal mercato della salute nel vasto sistema consumistico che abbiamo descritto, sono alla portata solo di una minoranza. Un’offerta di questo tipo non sarà mai resa disponibile a tutti gli esseri umani del pianeta che non siano paganti. Nei paesi del Sud, i primi settori ad essere sacrificati sono quelli della salute e dell’educazione. Ma l’arretratezza di questi paesi non deriva dalla scarsità delle risorse del mondo – queste ci sono – ma piuttosto da una loro iniqua distribuzione, o anche dall’appropriazione di queste da parte dei paesi ricchi. Non è un’esagerazione dire che le istituzioni internazionali per lo sviluppo hanno fatto pagare ai paesi del Terzo Mondo le loro esitazioni ideologiche, mentre la gestione della sanità in questi paesi è attualmente vittima di varie forme di pirateria. La sanità dei paesi in via di sviluppo a rischio di ideologie Negli ultimi cinquant’anni, le organizzazioni internazionali hanno raccomandato la realizzazione di ampi programmi sanitari nei paesi in via di sviluppo per assicurare l’accesso della popolazione ad un livello minimo di cure. I vari approcci proposti hanno raggiunto il loro obbiettivo in maniera assolutamente iniqua. Le ideologie di fondo di questi approcci non sono estranee a questo fallimento. La Dichiarazione di Alma-‐Ata: l’illusione socialista La conferenza internazionale organizzata dall’OMS e dall’UNICEF nel 1978, ha rappresentato una vera svolta nella realizzazione di programmi sanitari nei paesi in via di sviluppo. La solenne dichiarazione proclamata in quella occasione invitava tutti i paesi a fare della promozione dell’assistenza sanitaria primaria il fulcro dello sviluppo dei sistemi sanitari. La questione era quella di assicurare l’accesso a tutte le persone ad un livello di salute soddisfacente entro l’anno 2000. Lo slogan “Salute per tutti nell’anno 2000” divenne un motto per le politiche sanitarie nei paesi in via di sviluppo in generale e in Africa in particolare. I paesi sviluppati non presero parte a questo movimento che fu di fatto voluto per i paesi poveri del pianeta. L’atmosfera degli anni ’70, sulla scia degli eventi del maggio del ’68, era caratterizzata dalle immagini progressiste dei popoli svantaggiati liberati dal potere dei ricchi, dei saperi popolari più assennati delle illusioni del mondo moderno, e della cultura tradizionale più sana dell’alienazione del denaro… La caratteristica principale di questa scelta dell’assistenza sanitaria
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primaria era quindi rappresentata dalla partecipazione della gente al miglioramento della propria salute attraverso attività che potevano essere realizzate nei villaggi e nelle vicine periferie urbane senza il bisogno della presenza di persone specializzate. La grande copertura mediatica dei comuni popolari della Cina e il successo dei combattenti vietnamiti contro l’esercito americano fu, per un’intera generazione, la dimostrazione schiacciante che la chiave dello sviluppo dei paesi poveri si trovava nell’impegno della gente verso obbiettivi comuni e che era possibile per loro liberarsi del sottosviluppo con le proprie forze. Al contrario, l’appropriazione della medicina da parte di professionisti della salute, ospedali specializzati e tecnologie sempre più perfezionate fu riservata alle minoranze più ricche e denunciata come fonte di esclusione dei paesi poveri. Ci fu una illusione rivoluzionaria, tra i militanti del Terzo Mondo, nell’immaginare che poteva realizzarsi un’assistenza sanitaria per tutti a breve termine secondo i modelli dei medici scalzi della Cina. A questo grande movimento in favore della salute per tutti presero parte anche ONG, agenzie specializzate delle Nazioni Unite, la Banca Mondiale, l’Unione Europea e la gran parte di organizzazioni bilaterali. Per cui furono formati centinaia di migliaia di professionisti di pronto soccorso, levatrici nei villaggi e terapisti tradizionali e si misero in piedi decine di migliaia di farmacie di villaggio. Tuttavia un gran numero di programmi e progetti fallì. I fondi erano insufficienti, gli operatori sanitari erano stati formati ed equipaggiati in maniera inadeguata per i problemi che erano stati chiamati a risolvere e la qualità delle cure era scarsa. In via generale, l’illusione di Alma-‐Ata fu quella di gestire la sanità dei paesi poveri sulla base di un modello di assistenza sanitaria elaborato solo idealmente, ma inappropriato e insufficiente nella realtà. L’errore, da parte delle organizzazioni internazionali, fu quello di inventare “modelli” ideologici ed imporli agli stati beneficiari, senza tenere sufficientemente in considerazione il bene delle persone. L’iniziativa di Bamako: la disillusione liberale Alla metà degli anni ’80, dopo aver preso atto delle difficoltà in cui di trovavano i servizi di assistenza sanitaria primaria, si raggiunse un consenso, tra le istituzioni internazionali, sulla necessità che gli stessi utenti si facessero carico almeno di una parte delle spese sanitarie. Fu James Grant, direttore dell’UNICEF, a lanciare questa idea col nome di “iniziativa di Bamako”. Tale iniziativa fu adottata nel 1978 dalla 37o Comitato Regionale dell’OMS. Il principio di base era il seguente: la vendita diretta agli utenti di farmaci generici a prezzo ribassato e rivenduti con un margine di profitto dovrebbe assicurare la ripresa dell’approvvigionamento medico e la copertura dei costi d’esercizio delle strutture sanitarie. Per questo, l’iniziativa di Bamako portò ad abbandonare la gratuità e il finanziamento della sanità con risorse di bilancio, storicamente privilegiato. Volenti o nolenti, tutti i paesi si adeguarono verso la metà degli anni ’90. Confrontando gli obbiettivi con i risultati osservati durante gli ultimi dieci anni, si può fare un moderato bilancio dell’iniziativa. Sebbene i fondi ottenuti in questo contesto abbiano reso possibile un certo recupero per i paesi meno avanzati, la maggior parte dei problemi non è stata risolta. Allo stesso tempo gli anni ’80 hanno portato un periodo di crisi economica globale in Africa alla quale i paesi industrializzati hanno risposto con una serie di aggiustamenti noti come “programmi di aggiustamento strutturale” organizzati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. In questo modo le istituzioni internazionali hanno trasformato in maniera globale le economie dei paesi del Terzo Mondo per adattarle ai bisogni del mercato mondiale. A quel tempo la maggior parte dei paesi in via di sviluppo, fortemente indebitati, non aveva altra scelta se non quella di accettare le condizioni dei prestiti elargiti da queste istituzioni. Fu in
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questo contesto, e per compensare l’assenza di finanziamenti pubblici in ambito sanitario, che nacque l’iniziativa di Bamako. Di fatto, il sistema finanziario messo in piedi era destinato al collasso: dato che il tasso di frequenza delle strutture sanitarie non aumentava e le spese subivano un incremento, il tasso di recupero per le prestazioni diminuiva. Ma soprattutto, dal punto di vista della popolazione, il principio di recupero dei costi – esteso a tutti i servizi sanitari – portò all’esclusione dei più svantaggiati dal sistema assistenziale. Quindi si poteva notare come più il paese era povero, più gli abitanti erano obbligati a pagare per la propria assistenza sanitaria. Inoltre, non sempre si è ottenuto il miglioramento della qualità dei servizi sanitari assistenziali, quindi dell’offerta, che si pensava sarebbe andato di pari passo con il principio del pagamento di questi servizi. Nessun fattore indica un miglioramento degno di nota dello stato di salute delle persone dovuto all’iniziativa di Bamako. Gli anni ’90 sono stati caratterizzati da approcci settoriali nei paesi in cui l’aiuto esterno ha contribuito ampiamente a finanziare i sistemi sanitari. Al di là degli ovvi vantaggi degli approcci settoriali, questi sono esposti al rischio di coalizione dei finanziatori in cui uno di loro può avere un ruolo dominante nella determinazione dell’offerta. È stato durante questo periodo che la Banca Mondiale è diventata il primo finanziatore pubblico nell’area sanitaria. Di fatto, ci fu un trasferimento di competenze e responsabilità dall’OMS alla Banca Mondiale per le questioni riguardanti la salute, a causa del quale l’OMS ha dovuto fronteggiare una crisi di affidabilità e credibilità. Tuttavia, i progetti settoriali finanziati dalla Banca Mondiale hanno avuto difficoltà nella fase di realizzazione. L’efficacia degli interventi della Banca Mondiale nell’area sanitaria poteva essere migliorata favorendo il partenariato con molti altri attori dell’ambito sanitario[6]. L’OMS, inoltre, nel suo ultimo rapporto, fa espresso riferimento alle associazioni confessionali per la realizzazione di approcci settoriali. Tutto sommato, gli aspetti economici non sono l’unico fattore di esclusione dall’accesso all’assistenza sanitaria, eccetto che per le persone con reddito molto basso o addirittura senza reddito. Sembra che l’esclusione si possa attribuire innanzitutto alla qualità delle strutture sanitarie. Né la dichiarazione di Alma-‐Ata, né l’iniziativa di Bamako, e neppure gli approcci settoriali sono stati in grado di strutturare e rafforzare la qualità dell’offerta sanitaria. L’ideologia sottostante ai singoli interventi delle organizzazioni internazionali a favore del Terzo Mondo, indipendentemente dall’ispirazione socialista o liberale, non hanno mai sufficientemente messo le persone al centro della gestione sanitaria. LA SALUTE DEI PAESI POVERI A RISCHIO DI PIRATERIA Anche il controllo sulle ricchezze biologiche del pianeta è stato oggetto di un conflitto storico tra i paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo. La lotta per il controllo delle risorse biologiche ha occupato a lungo l’agenda dei convegni della FAO. Il fatto che la vita sia diventata brevettabile è una caratteristica dell’era biotecnologica ed è all’origine di una feroce competizione tra le multinazionali che vogliono ampliare la loro fetta di mercato e rafforzare la loro competitività a detrimento, a volte, dei paesi più poveri. La possibilità di autorizzare la cosiddetta clonazione terapeutica, che è attualmente oggetto di tentativi di pirateria giuridica presso le Nazioni Unite, non rassicura certo questi paesi.
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Pirateria biologica: privatizzazione del patrimonio biologico dei paesidel Sud Il conflitto che oppone le multinazionali del Nord ai paesi del Sud del mondo sul controllo del patrimonio biologico mondiale, promette di diventare una delle principali battaglie economiche ed etiche dell’era biotecnologica. Le multinazionali finanziano spedizioni in tutto l’emisfero meridionale in cerca di rare caratteristiche genetiche o biologiche da trasformare in valore commerciale. La posta in gioco in questa ricerca – il cui obbiettivo è arrivare a nuovi farmaci – è considerevole. Non è questione di essere contrari alla brevettabilità di procedure o tecnologie, ma piuttosto ciò che è inaccettabile è la possibilità di brevettare la vita stessa o frammenti di organismi viventi. I paesi del Sud del mondo percepiscono che queste scoperte rappresentano un vero atto di pirateria nei confronti del loro patrimonio, anche se le industrie producono un certo valore aggiunto attraverso la manipolazione di geni che codificano per alcune proteine particolari. In questo modo, un farmaco prodotto da un’industria farmaceutica sulla base di una risorsa biologica dell’Africa, per esempio -‐ risorsa già localmente conosciuta e usata come tale -‐ può diventare proprietà dell’industria ed essere rivenduto – sotto forma di prodotto brevettato – anche al paese dal quale proviene. Nel tentativo di limitare la sempre più ferma opposizione, le multinazionali stanno tentando di imporre un regime uniforme di proprietà industriale che avrà valore giuridico in tutto il mondo e che darà loro accesso a tutte le risorse biologiche e genetiche del pianeta, garantendo allo stesso tempo protezione per i prodotti della loro manipolazione. Naturalmente queste nuove forme di colonialismo sono regolarmente denunciate nelle maggiori conferenze internazionali dedicate ai brevetti. Inoltre i tentativi di appropriazione della materia vivente sono oggetto di trattative in seno a istituzioni internazionali (OMC, FMI, UNDP) nonostante le assicurazioni di voler “umanizzare” la mondializzazione e le sue conseguenze. I paesi in via di sviluppo stanno cominciando a capire che non sono più le materie prime del passato l’oggetto di appropriazione, ma piuttosto il patrimonio genetico e cellulare dell’uomo stesso. Secondo le informazioni dell’organizzazione mondiale della proprietà intellettuale, nel 1996 privati e industrie dei paesi industrializzati, in tutti i settori, detenevano il 95% dei brevetti dell’Africa e il 70% di quelli dell’Asia. Questo andamento è particolarmente allarmante quando coinvolge l’industria farmaceutica e attraverso le leggi sui brevetti porta a penalizzare l’accesso dei paesi del Sud ai farmaci o agli screening di patologie. Il conflitto che vede contrapposti alcuni paesi poveri alle industrie che detengono il monopolio sui farmaci (specialmente quelli contro l’AIDS) o su alcuni geni (tumore del seno) si inasprisce sempre di più. Il risultato di questa battaglia etica su una delle più grandi sfide alla legge naturale ha evidentemente ripercussioni immediate sull’economia e sulle conseguenze della gestione sanitaria dei paesi poveri. Pirateria giuridica: i tentativi di autorizzare la clonazione al livello delle Nazioni Unite Il 6 novembre 2003, in seguito ad animate discussioni, la Sesta (legale) Commissione delle Nazioni Unite decise di rimandare l’esame della proposta di elaborare una convenzione internazionale contro la clonazione degli esseri umani, anche se la maggioranza dei paesi presenti era contraria alla clonazione e nonostante ci fosse bisogno urgente di un voto sulla convenzione. Alcuni paesi sviluppati sperano di autorizzare realmente la clonazione di embrioni umani (cosiddetta clonazione terapeutica) per continuare una sperimentazione a buon mercato e
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liberarsi da qualsiasi regolamentazione etica, anche se, in realtà, le prospettive terapeutiche sono molto ridotte. Fortunatamente, la maggior parte dei paesi del mondo – in particolare, i paesi in via di sviluppo, i paesi islamici, gli Stati Uniti e il Vaticano -‐ sperano in una pura e semplice proibizione di qualsiasi forma di clonazione umana. Pertanto, la piccola lobby dei paesi ricchi e quelli meno attenti all’esigenza etica hanno fatto in modo di rimandare la discussione con la speranza di guadagnare tempo per comprare i voti dei paesi poveri e per cambiare la bilancia del potere. La clonazione umana, indipendentemente dall’obbiettivo, rappresenta un’evoluzione estremamente problematica delle biotecnologie. In tutte le sue forme, essa è intrinsecamente contraria all’etica e costituisce un pericoloso precedente. I paesi più svantaggiati non sono i meno esposti a questi pericoli, per varie ragioni. Prima di tutto, se si autorizza la cosiddetta clonazione terapeutica, si rischia di trasformare il corpo della donna in merce. Sarà necessario abusare e pagare molte candidate affinchè si sottomettano a rischiosi trattamenti medici per produrre la gran quantità di ovuli necessari per la clonazione. Sicuramente, per ragioni economiche, le donne dei paesi poveri saranno l’obbiettivo prioritario di questo prevedibile sfruttamento. In secondo luogo, gli stessi paesi poveri, le cui capacità di regolamentazione e controllo sono spesso carenti, saranno scelti per la delocalizzazione delle industrie biotecnologiche dedicate alla cosiddetta clonazione terapeutica su larga scala. Una volta prodotti in questo modo gli embrioni clonati, sarà praticamente impossibile controllarne l’impiego. Si possono organizzare riserve di cloni embrionali; si possono comprare e vendere, anche trafficare, senza che nessuno ne sappia nulla. L’impianto illecito di questi embrioni, facile da realizzare, sarà praticato clandestinamente senza conseguenze per chi si macchia di questo crimine. Infine, non va dimenticato che la clonazione è pericolosa poiché le cellule embrionali trapiantate non possono essere controllate dall’organismo ricevente e producono cancro. E quindi, su quali organismi, in quali condizioni, e davanti a quali false promesse questi tentativi di trapianto di cellule provenienti da cloni verranno sperimentati nei paesi poveri? Ma soprattutto, i fondi investiti in queste tecniche non potranno essere investiti in altri campi. L’effetto della distrazione dei fondi penalizzerà la ricerca sulla terapia cellulare basata sulle cellule staminali adulte, che non solleva alcun problema etico e riguarda possibilità terapeutiche reali. Questo penalizzerà anche la realizzazione di programmi settoriali di aiuto riguardanti i bisogni sanitari primari dei paesi in via di sviluppo. Per tutti questi motivi, è importante sostenere, nella resistenza a questi tentativi di pirateria giuridica in sede ONU, chi deve prendere le decisioni nei paesi in via di sviluppo. In conclusione, sembra difficile non accorgersi che due considerazioni sono quasi sempre assenti dalle preoccupazioni sanitarie nel mondo: cioè, il bene integrale della persona, da un lato, e la morte, dall’altro. Non ci si interroga mai su cosa significhi il “bene” dell’uomo. Al contrario, si ha la sensazione che sia i sistemi sanitari che rispondono alla domanda, sia quelli che impongono un’offerta non tengano conto di ciò che è dovuto, perché è dovuto e come, alla persona umana. Complessivamente, i sistemi sanitari propongono o impongono soluzioni, ma dimenticano quale sia la questione. Le considerazioni sulla morte non fanno più parte della discussione. Come si può costruire un sistema sanitario coerente e funzionale, che non sia una fuga in avanti, se i suoi ideatori sono spaventati al pensiero di parlare della morte? La verità sulla morte non dà invece significato al sistema di assistenza sanitaria e non guida forse le sue scelte? “Nasciamo e moriamo: nasciamo per morire perché cominciamo dal morire per nascere”[7].
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[1] Alcuni anni fa ho partecipato ad una conferenza insieme ad un noto ginecologo francese, ex presidente dell’Accademia di Medicina. Pur ritenendosi cattolico praticante, egli affermò di essere pronto ad usare metodi di clonazione su qualsiasi donna che lo avesse richiesto. Il medico sosteneva la sua posizione ‘compassionevole’ con un argomentazione molto precisa: da quando si sono sviluppate le varie tecniche di procreazione medicalmente assistita, i loro benefici non sono mai stati rifiutati a nessuna donna che ne avesse fatto richiesta. Nessuno s’è mai arrischiato a giudicare le richieste delle donne. [2] Nature, March 1997. [3] Ho assistito all’elaborazione del consenso su questo argomento in Francia. Innanzitutto, furono selezionati rappresentanti di malati per ricevere da alcuni esperti, a porte chiuse, informazioni sulla terapia cellulare. Tutti gli esperti erano favorevoli all’uso di embrioni. In un secondo momento, i rappresentanti dei pazienti e gli esperti si incontrarono davanti al pubblico e ai media. Il moderatore del dibattito chiese ai rappresentanti dei malati se volevano essere curati. Alla loro risposta affermativa, si rivolse agli esperti e chiese loro cosa proponevano: l’uso di cellule embrionali. Dato che tutti erano d’accordo, invitò i rappresentanti dei malati ad elaborare delle raccomandazioni su questa linea per il governo e il parlamento. Il commento della stampa sulle Raccomandazioni cominciava così: “I malati chiedono che…”. Alcuni mesi più tardi, il voto sulla legge di bioetica, diede loro soddisfazione. [4] La diffusione della nozione di “doping” ne è la pefetta dimostrazione: l’uso di sostanze che migliorano le prestazioni, conformi ad uno stile di vita caratterizzato da un costante superamento di se stessi. [5] Per non parlare del sangue contaminato e dell’AIDS, della mucca pazza e del morbo di Creutzfeldt-‐Jacob. [6] Questo è ciò che emerge da una conversazione che ho avuto con il Presidente della Repubblica del Senegal, a Dakar lo scorso 4 agosto. Riguardo all’HIV/AIDS, il Presidente Abdoulaye Wade mi confermò che l’Africa non aveva bisogno di ulteriori finanziamenti, ma di assistenza concreta per la realizzazione di progetti sul territorio. [7] San Bernardo di Clervaux, Trattato dei diversi gradi dell’umiltà e dell’orgoglio.
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MICHEL SCHOOYANS “SALUTE RIPRODUTTIVA” E POLITICHE DEMOGRAFICHE IL CASO DELL’OMS In questa relazione, limitata per spazio, è ovviamente impossibile esplorare gli innumerevoli documenti in cui gli organismi internazionali, pubblici o privati, prendono in considerazione la questione della “salute riproduttiva”. Concentreremo quindi la nostra analisi su un dossier pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2004[1] dedicato esplicitamente a questo problema. Il testo è intitolato, Salute Riproduttiva (Reproductive Health).[2] Il termine salute riproduttiva, che generalmente è tradotto in francese con santé reproductive, o santé génésique, è comparso circa quarant’anni fa nei testi di diverse agenzie delle Nazioni Unite come l’OMS, il Fondo per la popolazione (UNFPA), il Fondo per i bambini (UNICEF), il Programma per l’AIDS (UNAIDS/ONUSIDA), il Programma per lo sviluppo (UNDP), la Banca Mondiale, ecc. Noi useremo l’espressione “salute riproduttiva” (“santé reproductive”). Tale termine si è ampiamente diffuso a partire dal 1994, anno della Conferenza del Cairo dedicata al tema: Popolazione e Sviluppo. Il termine è stato anche al centro della Conferenza di Pechino sulla Donna nel 1995. Si potrebbe pensare che l’espressione indichi essenzialmente l’assistenza preventiva e le cure disponibili per le donne durante la gravidanza o durante e dopo il parto o anche il trattamento terapeutico disponibile nei casi di sterilità o di malattie sessualmente trasmesse. In realtà l’espressione ‘salute riproduttiva’ è un prodotto tipico di ingegneria verbale e assume vari significati. Può avere le accezioni appena menzionate, ma si può riferire anche alla contraccezione, all’aborto sicuro, ad un certo tipo di educazione sessuale per adolescenti e ad un cambiamento nelle legislazioni e nelle mentalità. Nella prima parte della nostra relazione prenderemo come punto di riferimento il documento sulla Salute Riproduttiva che abbiamo menzionato. Riporteremo letteralmente alcuni brani significativi tratti da questo documento.[3] In seguito analizzeremo alcuni aspetti politici della salute riproduttiva. Infine analizzeremo, dal punto di vista etico, questo atteggiamento verso la salute. PRESENTAZIONE DEL DOCUMENTO Una strategia per la salute riproduttiva secondo l’OMS Il rapporto mette in risalto la definizione di salute riproduttiva nata in seno alla Conferenza del Cairo. Riportiamo di seguito il testo ti tale definizione: “La salute riproduttiva è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non soltanto assenza di malattia o infermità, in tutti i contesti riguardanti il sistema riproduttivo, le sue funzioni e i suoi processi. La salute riproduttiva quindi implica che le persone siano in grado di avere una vita sessuale soddisfacente e sicura e che abbiano la capacità di riprodursi e la libertà di decidere se, quando e quanto riprodursi. In quest’ultima condizione è implicito il diritto degli uomini e delle donne di essere informati e di avere accesso a metodi di pianificazione familiare sicuri, efficaci, disponibili e accettabili secondo la loro scelta così come altri metodi per la regolazione della fertilità che non siano contrari alla legge […].”[4]
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Rispondenza ai bisogni Il rapporto ci dice innanzitutto che la 55a Assemblea dell’OMS ha inteso sviluppare una strategia in vista dei progressi nell’ambito della salute riproduttiva. La decisione richiama anche gli obbiettivi e gli impegni presi al Cairo e a Pechino (1), così come gli obbiettivi stabiliti nella Dichiarazione del Millennio dell’anno 2000 (4). Si specifica che esistono molte discrepanze tra gli obbiettivi da raggiungere e le realtà osservate. Quindi è necessario definire una strategia e diffonderla ampiamente tra quelle persone che dovranno prendere decisioni in merito (3). Senza dubbio, a partire dal 1994 sono stati fatti notevoli progressi, ma la situazione globale mostra ancora alcune deplorevoli caratteristiche. Nell’Africa sub-‐sahariana, per esempio, 1 donna su 16 è esposta al rischio di mortalità materna (11). Nei paesi poveri la mancanza di personale qualificato fa sì che le complicazioni ginecologiche e ostetriche evitabili o trattabili non siano curate (12). Nei paesi in via di sviluppo o in quelli in transizione, il bisogno di una contraccezione sicura non è stato soddisfatto per 120 milioni di coppie e molti adolescenti (15 s). Ogni anno 80 milioni di donne hanno una gravidanza indesiderata. Alcune di queste gravidanze sono il risultato di una contraccezione inefficace, dato che nessun metodo contraccettivo è efficace al 100% (16). Si stima che ogni anno si verifichino 45milioni di aborti, 19 milioni dei quali in condizioni non sicure. Il 40% di questi aborti è operato in donne tra i 15 e i 24 anni. Gli aborti in condizioni non sicure causano la morte di circa 68.000 donne ogni anno, cioè il 13% di tutte le morti legate alla gravidanza (17). Ogni anno si verificano circa 340 milioni di nuovi casi di malattie batteriche sessualmente trasmesse (18), che colpiscono soprattutto giovani donne tra i 15 e i 24 anni. Queste infezioni possono causare sterilità (21). Ostacoli al progresso Esistono disuguaglianze, in ambito di salute, tra donne e uomini (23). Le donne spesso sono vittime di violenze, stupri, aggressioni sessuali anche da parte dei loro stessi compagni. Le donne e le ragazze sono spesso vittime del traffico di esseri umani e della prostituzione. Le conseguenze di tali disuguaglianze sulla salute sessuale e riproduttiva sono facilmente immaginabili (24). Le adolescenti sono particolarmente esposte al rischio, in ambito di salute sessuale e riproduttiva, a causa dei tabù e delle norme che impediscono loro l’accesso all’informazione. All’interno o all’esterno del matrimonio, l’attività sessuale delle adolescenti è spesso a rischio. Esse raramente si trovano nella posizione di resistere a pressioni messe in atto col fine di ottenere dei rapporti sessuali, di negoziare un rapporto sessuale sicuro, o di proteggersi contro gravidanze e malattie infettive. Andare incontro ai bisogni e proteggere i diritti del miliardo e 300 milioni di adolescenti, maschi e femmine, del nostro pianeta è fondamentale per preservare la salute delle generazioni future (25). Inoltre, è superfluo ricordare che la povertà va di pari passo con le disuguaglianze in ambito di servizi sanitari, specialmente di salute materna (26). Tali ostacoli alla salute riproduttiva sono resi ancor più gravosi da un generale declino dello sviluppo. È vero che sono stati istituiti nuovi fondi per combattere l’AIDS, la tubercolosi e la malaria, ma è necessario costruire un sistema sanitario sostenibile che comprenda anche servizi di salute sessuale e riproduttiva (28). Uno degli ostacoli più grandi all’espansione e al miglioramento di questi servizi di salute sessuale e riproduttiva in molte regioni è da ricercare nell’inadeguatezza delle risorse umane. Per un progresso nell’area dell’assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva è di fondamentale importanza un programma strategico per la formazione e il mantenimento di una forza lavoro di medici esperti (29).
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Oltre alle difficoltà legate alla povertà, ce ne sono altre che derivano dai tabù, da un debole potere decisionale delle donne, ma anche da pregiudizi e atteggiamenti negativi dei membri della famiglia o degli operatori sanitari. Un esame olistico di credenze, atteggiamenti e valori, rappresenta un importante punto di partenza per superare questi ostacoli fondamentali (30). Infine, in alcuni paesi, le leggi, la politica e le regole possono ostacolare l’accesso ai servizi, limitare irragionevolmente il ruolo del personale sanitario, impedire l’accesso ad alcuni servizi (per esempio, la contraccezione d’emergenza), o limitare l’importazione di alcuni medicinali o di tecnologie essenziali. La rimozione di tali restrizioni può contribuire in maniera significativa a migliorare l’accesso delle persone a questi servizi (32). La strategia per accelerare il progresso L’obbiettivo principale è accelerare il progresso per raggiungere un accordo, al livello più alto possibile, sugli obbiettivi da raggiungere nel settore della salute riproduttiva per tutti (33). La strategia dell’OMS per tale accelerazione si basa sugli strumenti internazionali sui quali esista un accordo e sulle dichiarazioni sui diritti umani elaborate con consenso globale.[5] Affinché questi diritti siano rispettati, politiche programmi e interventi devono promuovere l’eguaglianza dei “generi”, cioè dei sessi, per dare la priorità alle popolazioni povere e con minore accesso ai servizi, specialmente gli adolescenti (34). Il maggior punto di accesso alla salute sessuale e riproduttiva sarà attraverso servizi prenatali, al parto e postpartum (36). L’aborto non sicuro deve essere considerato parte degli Obbiettivi di Sviluppo del Millennio[6] riguardante, tra le altre cose, la salute materna. I servizi di pianificazione familiare devono essere rafforzati per prevenire le gravidanze non desiderate e, nei limiti di quanto stabilito dalla legge, per assicurare che i servizi siano disponibili e accessibili. Sempre nei limiti della legge, è necessario migliorare la formazione degli operatori sanitari nell’ambito delle nuove tecniche e nell’uso delle apparecchiature.È altresì necessario garantire servizi per l’aborto nelle strutture sanitarie a livello primario (37; cfr. 40). Le azioni da intraprendere sono: rafforzare le capacità dei sistemi sanitari, migliorare l’informazione nei contesti prioritari, creare quadri legislativi e regolatori di supporto; un triplice rafforzamento di monitoraggio, valutazione e responsabilità delle azioni (42). La strategia richiede anche il rafforzamento di meccanismi finanziari sostenibili, una significativa parte dei quali sarà destinata all’addestramento del personale sanitario (45-‐49). Un’informazione di qualità deve rendere possibile l’individuazione delle priorità. Nella definizione di queste ultime, devono essere coinvolte tutte le parti interessate: governi, agenzie bi e multilaterali, associazioni professionali, organizzazioni non governative, gruppi femminili e altri settori della società civile. Le parti coinvolte dovranno costruire un consenso (53). La creazione di un forte clima di supporto, a livello internazionale, nazionale e locale e le iniziative giuridiche nel campo della salute sessuale e riproduttiva, contribuiranno a superare l’inerzia, galvanizzare gli investimenti così come a stabilire standard elevati e meccanismi di responsabilità delle azioni (55). La rimozioni di inutili restrizioni nelle politiche e nelle regole, per creare un contesto di supporto per la salute sessuale e riproduttiva, contribuirà significativamente a migliorare l’accesso ai servizi (57). A tale scopo sarà necessario rivedere e, se necessario, cambiare leggi e orientamenti politici (59) e includere la dimensione di “diritti umani” della salute sessuale e riproduttiva. Per permettere che tale strategia abbia successo, l’OMS continuerà a consolidare i rapporti con altre organizzazioni all’interno del sistema delle Nazioni Unite (specialmente con UNFPA, UNICEF
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e UNAIDS), la Banca Mondiale, le associazioni delle professioni sanitarie, ONG e altri partners (64). ANALISI DEL DOCUMENTO L’obiettivo reale: il controllo della popolazione dei paesi poveri In relazione a molti altri documenti precedenti, il documento del 2004 che abbiamo appena presentato non contiene elementi realmente nuovi o sorprendenti. I suoi elementi fondamentali si possono rinvenire nelle precedenti pubblicazioni dell’OMS[7] e nel Programma d’azione del Cairo (1994) che è stato più volte menzionato. Sono stati trattati gli stessi temi strutturati in maniera simile. Questi argomenti si trovano ancora nei documenti diffusi da altri organismi delle Nazioni Unite, ma con enfasi diversa. Mentre l’OMS pone l’accento sulla salute riproduttiva,[8] l’UNFPA enfatizza il controllo della popolazione, l’UNICEF l’educazione degli adolescenti e l’UNAIDS l’AIDS. La Banca Mondiale solleva gli stessi problemi dal punto di vista economico e finanziario.[9] Senza dubbio questi documenti, specialmente quelli pubblicati dall’OMS, raccolgono raccomandazioni talmente condivisibili che si ha l’impressione di avere a che fare con verità lapalissiane. Di fatto, chi non sottoscriverebbe programmi finalizzati alla riduzione della morbilità e mortalità materna, della mortalità infantile, delle malattie sessualmente trasmesse e, più in generale, a rendere tutti i servizi sanitari di base accessibili al maggior numero di persone? Chi non supporterebbe campagne di prevenzione di malattie di qualsiasi tipo? In realtà la proclamazione di queste buone intenzioni cela a malapena il tenore fortemente ideologico del documento dell’OMS dedicato alla salute riproduttiva. Abbiamo a che fare con un tipico documento maltusiano. Tutto converge su un punto focale: la presunta necessità di controllare la crescita demografica dei paesi poveri. Ora, non è mai stato dimostrato un nesso tra il controllo della crescita di questa popolazione e lo sviluppo dei paesi poveri. Questa fondamentale questione non è mai stata menzionata, e ancor meno discussa, nei rapporti dell’OMS né in quelli di UNFPA, UNICEF, Banca Mondiale o nel Programma d’Azione del Cairo. Il postulato maltusiano è accettato come auto-‐evidente e pertanto non richiede alcuna dimostrazione, permettendo di passare direttamente all’azione. Il carattere ideologico di questo pregiudizio maltusiano è confermato dall’assenza totale di qualsiasi dato discordante come il fatto che la caduta del tasso di fertilità è un fenomeno mondiale riconosciuto anche dalla Divisione Popolazione, anch’esso organismo delle Nazioni Unite. Questo decremento non risparmia i paesi poveri. Basta fare riferimento alle figure del 2003 Data Sheet del Population Reference Bureau (Washington, DC) per vedere che un terzo dei paesi di tutto il mondo ha un tasso di fertilità uguale o minore a 2.1 (la soglia oltre la quale una popolazione si avvia inesorabilmente ad invecchiare). C’è il desiderio di impressionare l’opinione pubblica, il personale sanitario e chi prende le decisioni, attraverso l’indicazione di bisogni reali, ma questi bisogni sono usati come esca per nascondere il vero obbiettivo che è il controllo delle popolazioni povere con i mezzi più efficaci. Dato che si è deciso di ignorare o nascondere queste realtà, il documento si focalizza su tre temi ricorrenti che sono considerati strumenti per raggiungere il vero obbiettivo maltusiano: aborto sicuro, contraccezione, modifiche alla legge insieme alla mobilitazione dei leaders.
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IL PRIMO STRUMENTO: L’ABORTO Aborto: indesiderabile se non è sicuro Il programma di salute sessuale e riproduttiva non dice nulla circa la questione della protezione dell’essere umano prima della nascita. D’altra parte dimostra grande interesse per il tema dell’aborto. Più volte è stata affermata la necessità di non compiere aborti se non sicuri. Solo gli aborti non sicuri sono indesiderabili, precisamente per la mancanza di condizioni sicure per la madre, naturalmente, e non perché si elimina una vita umana.[10] Tale posizione è confermata molto chiaramente da altri documenti delle Nazioni Unite e dell’OMS. Se ci riferiamo alla definizione di salute riproduttiva che appare nel summenzionato Programma d’Azione del Cairo notiamo che tale definizione include, nella salute riproduttiva, il “controllo delle nascite”. Come abbiamo già detto, tale espressione corrisponde all’inglese regulation of fertility. Ma cosa si intende con questa regulation of fertility, questo “controllo delle nascite”? La risposta è espressa molto chiaramente nel documento Definitions and Indicators in Family Planning & Child Health and Reproductive Health, pubblicato dall’OMS, in edizione aggiornata, nel marzo 1999 e nel gennaio 2001: Controllo della fertilità È il processo attraverso il quale gli individui e le coppie regolano la loro fertilità. I metodi che possono essere usati per tale scopo comprendono, tra gli altri, il rinvio della gravidanza, l’uso di contraccettivi, di trattamenti che causano l’infertilità, l’interruzione di gravidanze non desiderate e, nei casi di madri con neonati o bambini piccoli, l’allattamento al seno. Fonte: definizione usata dallo Special Programme of Research and Research Training in Human Reproduction, and the Division of Family Health.[11] Se le parole hanno un significato anche in inglese, così come lo hanno in francese, l’interruzione di una gravidanza non desiderata significa aborto. Quindi l’aborto è compreso nel concetto di salute riproduttiva diffuso dall’OMS e da altre agenzie delle Nazioni Unite. Aborto precoce Inoltre, poichè nel concetto di salute riproduttiva è compreso l’aborto, esso rappresenta uno degli strumenti da usare per il controllo delle nascite nei paesi in via di sviluppo. Nel 1992 nel suo rapporto sulla salute riproduttiva, l’OMS dichiarava: “I paesi in via di sviluppo hanno bisogno di una forte capacità interna per risolvere i problemi di salute riproduttiva delle loro popolazioni in rapida crescita”.[12] SECONDO STRUMENTO: LA CONTRACCEZIONE Insieme all’aborto, la contraccezione sembra essere uno strumento essenziale per il controllo delle nascite nei paesi poveri. Infatti, si rimane impressionati dalla quantità di risorse finanziarie e umane stanziate dall’OMS per la ricerca su ciò che la stessa organizzazione chiama “contraccezione”. Come per l’aborto, la decisa inclusione della contraccezione nella salute riproduttiva fornisce la conferma che l’obbiettivo principale della strategia elaborata dall’OMS sia in realtà il controllo delle nascite.
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Contraccezione e aborto Qui è necessario un importante chiarimento riguardante la relazione tra contraccezione e aborto. In questo caso, infatti, assistiamo ad un altro caso di ingegneria verbale. Cosa significa la parola aborto nel vocabolario dell’OMS? La risposta la troviamo nel già citato Definition and Indicators:[13] Aborto: Indotto: o interruzione volontaria della gravidanza, si usa per porre fine ad una gravidanza già iniziata (cioè un metodo che agisce dopo che l’impianto è avvenuto). […]Division of Family Health and Special Programme of Research and Research Training in Human Reproduction.Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo, Il Cairo, Egitto, 5-‐13 Settembre 1995.[14] Secondo tale definizione non si può parlare di aborto se non dopo l’impianto. Il Segretario Generale della Conferenza del Cairo, signora Nafis Said, conferma tale interpretazione dell’aborto in relazione alla “contraccezione d’emergenza”: “La contraccezione d’emergenza non interrompe la gravidanza o causa aborto. Come funziona la contraccezione d’emergenza? Il meccanismo d’azione delle pillole contraccettive interrompe il ciclo riproduttivo femminile. A seconda di quando vengano assunte le pillole rispetto al ciclo, esse possono prevenire o ritardare l’ovulazione, interferire con la fecondazione o impedire l’impianto”.[15] L’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’ex direttore esecutivo dello UNFPA quindi, hanno un modo piuttosto particolare di presentare l’aborto. Secondo il loro ragionamento, perché si possa parlare di aborto, l’uovo fecondato deve essere impiantato nell’utero. Per tale motivo qualsiasi cosa impedisca l’impianto si chiama contraccettivo. Pertanto prendiamo nota di questo esempio scolastico di circolo vizioso: Premessa maggiore: Non c’è aborto prima dell’impianto. Premessa minore: La pillola contraccettiva agisce prima dell’impianto che, di fatto, essa stessa impedisce. Conclusione: La pillola contraccettiva non è abortiva. Nel suo ben noto Manuale di Bioetica, Sua Eccellenza Monsignor Sgreccia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, fornisce un esaustivo chiarimento della questione: “In pratica, ci riferiamo ad alcune tecniche di controllo delle nascite, impropriamente chiamate contraccettive, le quali non impediscono l’incontro tra i gamenti, cioè la fecondazione, come farebbe pensare il termine «contraccettivo» o «antifecondativo». Il loro meccanismo, in realtà, è quello di impedire all’ovocellula già fecondata di impiantarsi nell’utero. Chi propaganda queste tecniche si guarda bene dal chiamarle abortive (per molti il termine aborto significa ancora qualcosa di drammatico); esse pertanto vengono definite intercettive se intercettano lo zigote impedendo di annidarsi o contragestive (da contragestion in analogia a contraception) se impediscono la prosecuzione della gravidanza una volta che l’embrione si è già impiantato in utero.”[16] Il vaccino contro la gravidanza È sorprendente notare come gran parte della ricerca sponsorizzata dall’OMS abbia avuto, ed abbia tuttora, come obbiettivo la messa a punto di metodi di aborto precoce,[17] soprattutto ricerca su “impianti contraccettivi a lungo termine”[18], anelli vaginali, ecc. Sono in corso anche ricerche sull’impianto dell’embrione con lo scopo di perfezionare un “agente anti-‐impianto o di
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induzione delle mestruazioni” da assumere una volta per ogni ciclo per continuare ad avere le mestruazioni e impedire un possibile impianto nell’eventualità di un concepimento.[19] Un cenno particolare va fatto per i ritrovati immuno-‐contraccettivi, ossia i vaccini contro la gravidanza, spesso indicati col nome hCG immuno-‐contraccettivi.[20] Quando il “vaccino” sarà perfezionato, costituirà un metodo per l’aborto precoce. La madre non riconoscerà più l’embrione come un corpo da non rigettare. Un vaccino di questo tipo, quindi, elimina le profonde radici fisiologiche della maternità in quanto rende la madre ostile al proprio figlio. TERZO STRUMENTO: LA MODIFICA DELLE LEGGI E DELLE MENTALITÀ Rimozione delle restrizioni legali Nel testo che abbiamo presentato nella prima parte di questo articolo, così come anche in molti altri testi dell’OMS, si fa riferimento a leggi e regolamenti che potrebbero vietare i programmi di salute sessuale e riproduttiva. Per questo motivo il testo raccomanda che vengano abrogate le leggi restrittive sulla contraccezione e l’aborto favorendo in questo modo lo sviluppo dei paesi poveri. Questi paesi possono prendere come modello i paesi industrializzati che hanno già modificato le loro legislazioni per adattarle agli obbiettivi della salute riproduttiva. A questo proposito riportiamo un brano della signora M. Berer pubblicato su WHO Bulletin, uno degli organi ufficiali più conosciuti dell’OMS: “Rendere legale l’aborto è un prerequisito essenziale per renderlo sicuro […] Per renderlo sicuro è necessario che le leggi restrittive siano annullate, emendate o sostituite; leggi tradizionali o, in alcuni casi, religiose potrebbero richiedere una particolare attenzione quando siano previsti cambiamenti giuridici. A questo scopo ci sono tre strade che possono essere intraprese da parte dei governi: liberalizzare le leggi esistenti all’interno dei codici penali e criminali; legalizzare parzialmente o completamente l’aborto attraverso una legge positiva o ordinanze giuridiche; e depenalizzare l’aborto eliminandolo completamente dalle materie di legislazione. Tali cambiamenti si sono già verificati in quasi tutti i paesi industrializzati e si stanno realizzando anche in un numero crescente di paesi in via di sviluppo”.[21] Invocare i “nuovi diritti umani” ottenuti attraverso il consenso faciliterà questi cambiamenti nella legge. In tal modo, in nome dell’ideologia di genere, l’aborto sarà presentato come un “nuovo diritto della donna”. Allo stesso modo si potrà dire che i ragazzi e le ragazze adolescenti hanno il “diritto alla piena libertà di decisione e di scelta” in ambito sessuale e di riproduzione. I parenti non dovranno interferire in queste questioni. Il coinvolgimento di persone influenti e gruppi religiosi Ostacoli ai programmi d’azione per la salute riproduttiva provengono anche da alcune credenze religiose o “leggi”, come si evince dalla precedente citazione. Ma questi ostacoli possono venire anche da organizzazioni religiose e quindi da persone che rivestono un ruolo di responsabilità e influenza in una di queste organizzazioni.[22] Queste persone influenti, in genere leaders religiosi, devono essere raggiunti e persuasi senza riserve della bontà degli obbiettivi della salute riproduttiva.[23] Questo è quanto appare in un documento dell’OMS intitolato Key messages for communicators (messaggi-‐chiave per comunicatori), dove si legge quanto segue: “La cultura e la religione influenzano le strategie e i messaggi IEC [Informazione, Educazione, Comunicazione]. Cultura e religione giocano un ruolo di rilievo nelle decisioni della gente relative all’uso della pianificazione familiare e all’accettazione di metodi specifici. Programmi che abbiano
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successo devono tendere a conoscere le convinzioni culturali e religiose dei propri utenti e adattare messaggi e strategie IEC a tali convinzioni. In generale, le convinzioni culturali e religiose degli utenti devono essere rispettate dai programmi a meno che esse non siano dannose (come, ad esempio, la mutilazione genitale femminile). I comunicatori dovrebbero considerare di coinvolgere i leader della comunità e quelli religiosi nei loro programmi IEC”.[24] Perciò è necessario identificare la popolazione che si vuole influenzare: “Identifica con precisione chi vuoi influenzare nella popolazione. L’obbiettivo principale cui rivolgere i messaggi di pianificazione familiare potrebbero essere le donne in età fertile, ma bisogna considerare anche altri gruppi che per cultura, valori e comportamenti potrebbero esercitare una certa influenza sulle convinzioni e il modo di agire delle donne. Questi destinatari secondari del messaggio potrebbero essere i mariti, i partners, i genitori, i nonni, i leader religiosi e civili, gli insegnanti, le levatrici tradizionali e i pubblici ufficiali locali”.[25] QUALE ANTROPOLOGIA? QUALE ETICA? Un concetto individualistico dell’uomo Ciò che sorprende nel documento dell’OMS è l’assenza totale di qualsiasi riferimento all’istituzione della famiglia in un testo che tratta di riproduzione sessuale e riproduttiva. Termini come ‘famiglia’ e ‘maternità’ sono usati solo in contesti in cui si parla di sessualità. La salute riproduttiva è al servizio di individui considerati grandi consumatori nell’ambito delle attività sessuali. Le discrete allusioni all’ideologia del genere rendono possibile l’affermazione secondo cui, nell’ottica dell’OMS, gli individui scelgono il loro “genere”, il loro sesso e i programmi di salute riproduttiva devono essere messi al servizio di tali scelte. In questo modo la famiglia non solo è ignorata, ma anche annientata. La sessualità viene separata dall’amore. Il testo dell’OMS è un testo morto poiché trascura l’amore coniugale. L’essere umano, pertanto, non è più una persona, un essere relazionale, capace di impegno e fedeltà che aspira ad amare e ad essere amato. Egli è sessualmente “controllato”. È l’oggetto di un nuovo tipo di paternalismo, quello dei tecnocrati che sanno cosa è bene per ognuno, specialmente per i poveri. Di qui l’insistenza sul monitoraggio, la verifica sulla realizzazione dei programmi e le convocazioni rivolte a paesi e regioni per presentarsi alle conferenze e rendere conto dei loro risultati nell’applicazione del Programma e nel rispetto delle scadenze. In questo modo gli individui e le coppie sono alienati dalle proprie responsabilità. Devono solo essere educati, “formattati” e mentalmente riprogrammati per praticare una sessualità politicamente corretta. Il loro consenso deve essere “informato”. Lo stesso deve essere per il personale medico. L’enfasi posta sul bisogno di formare il personale e istruirlosui servizi di salute riproduttiva proposti dalle Nazioni Unite, indica chiaramente che nella realizzazione dei programmi d’azione non ci sarà posto per le obiezioni di coscienza. Per quanto riguarda la legge, dovrà essere messa al servizio dei programmi d’azione. Le leggi ad hoc saranno solo leggi positive: cioè rifletteranno le disposizioni delle strategie di salute riproduttiva. Se necessario, le leggi nazionali saranno abolite o modificate. Le leggi dovranno essere convalidate dalla legislazione internazionale il cui perno sarà lo standard supremo teorizzato da Kelsen. Emerge così la questione principale relativa alla salute riproduttiva: che legittimità possono pretendere l’OMS e i suoi alleati nel portare avanti programmi che sfuggono ad ogni controllo parlamentare e nel richiedere alle nazioni sovrane di rendere conto dell’aderenza a programmi imposti dall’esterno?
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Il punto di vista dell’etica Cristiana Le critiche che abbiamo appena mosso sono di natura puramente filosofica. Come abbiamo visto, toccano argomenti di antropologia, filosofia del diritto e di filosofia politica. La morale Cristiana concorda con queste critiche basate su argomentazioni razionali. Inoltre, il corpus della morale Cristiana si fonda, per la maggior parte, sul giudizio dei fatti accessibili alla ragione e che fanno parte del corpus. Non è meno vero, tuttavia, che il programma dell’OMS sulla salute riproduttiva attira alcune critiche specificatamente Cristiane. Dal punto di vista Cristiano, l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Da questo egli trae la sua incommensurabile dignità. Da questo derivano i suoi diritti e i suoi doveri. Per questo motivo egli è capace di conoscenza, in quanto come unica creatura nella creazione, egli condivide l’intelligenza divina e può liberamente conformare la sua volontà a quella di Dio. Illuminato dalla Grazia che Dio offre a tutti quelli che lo cercano, l’uomo può riconoscere nel suo simile un altro essere che ha ricevuto l’esistenza da Dio e per il quale Gesù ha versato il suo sangue. Questa è la base della fraternità Cristiana. Per tutti gli uomini la vita è un dono divino e per questo io la devo rispettare in me e negli altri. Il Signore eleverà tale precetto al suo massimo grado nel “nuovo comandamento”: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”.[26] Basta leggere il foglietto illustrativo dei farmaci contraccettivi o i protocolli elaborati dalle industrie farmaceutiche per rendersi conto che il precetto dell’amore verso il prossimo rimane lettera mortaquando si sa, o si dovrebbe sapere, che leprescrizioni rilasciate alle donne che usano il contraccettivo possono causare l’aborto precoce e che loro stesse vengono esposte a diversi e gravi rischi. Ma l’uomo non è chiamato a vivere da solo. Allo stesso modo in cui le Tre Persone della Trinità non riservano nulla, gelosamente, per se stesse e amano le altre senza riserve, i Cristiani sono chiamati a vivere insieme nell’amore reciproco. Questo amore ha una delle sue espressioni più esemplari nella sessualità umana, dove l’uomo e la donna sono chiamati ad amarsi reciprocamente senza riserve e a donare la vita allo stesso modo in cui loro l’hanno ricevuta da coloro che gliel’hanno data. Attraverso questa normale vocazione al matrimonio, l’uomo e la donna sono assimilati, in un modo unico, alla creazione divina: essi sono in grado di procreare. L’uomo e la donna esercitano un potere divino attraverso una sorta di delega, un mandato divino: il potere di dare vita ad un altro essere umano che, come loro, non sarà un semplice individuo biologicamente delimitato dal suo destino mortale, ma una persona aperta alle relazioni che gli permetteranno di crescere e affermarsi.[27] A questo proposito si può capire quanto sia grave, dal punto di vista Cristiano, usare la conoscenza, che dovrebbe essere al servizio della vita, per ostacolarla bloccando l’impianto o impedendo alla madre di riconoscere l’embrione come un essere che non può rigettare poiché, come lei, è immagine di Dio. Inoltre non va dimenticato che la povertà non è né una malattia né una fatalità. La povertà non si combatte con i rimedi ormonali per la donna né con l’aborto. Così come l’alcolismo dei mariti non si cura con la sterilizzazione delle mogli. Le agenzie internazionali che propongono falsi rimedi basati su diagnosi sbagliate farebbero bene a leggere i risultati dei recenti studi che ridimensionano i luoghi comuni sulla povertà. Il capitale più a rischio di scarsità è il capitale umano, ossia uomini ben preparati fisicamente, intellettualmente e moralmente ad affrontare la vita e a servire il proprio simile. Qui abbiamo a che fare con un problema di giustizia sociale. Sarebbe necessario rivedere la distribuzione dei fondi stanziati per lo sviluppo. Tale distribuzione dovrebbe essere a vantaggio dell’educazione e della formazione morale. Come scrive Giovanni Paolo II
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nell’Enciclica Centesimus Annus (N. 32), “oggi il fattore decisivo è sempre più l'uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il bisogno dell'altro”. E, parlando a proposito dell’ecologia umana, il Papa aggiunge, “Non solo la terra è stata data da Dio all'uomo, […] ma l'uomo è donato a se stesso da Dio” (N. 38). Questo concetto appare ancora nell’Enciclica Evangelium Vitae dove il Papa scrive, “Dio affida l’uomo all’uomo” (N. 19). CONCLUSIONI Innanzitutto bisogna riconoscere che l’OMS ha fatto e continua a fare cose utili in tutto il mondo in ambito di ricerca, prevenzione e assistenza terapeutica. L’eradicazione del vaiolo è una delle conquiste più importanti e abbiamo tutte le ragioni per credere nel successo della lotta contro la malaria e forse l’AIDS. Allo stesso modo, nell’ambito della salute riproduttiva – ma nel senso lato dell’espressione – bisogna riconoscere che l’OMS compie sforzi per affiancare la donne nel tentativo di contrastare problemi ginecologici ed ostetrici, la sterilità, per ridurre la mortalità infantile e per prevenire e curare le malattie e le infezioni sessualmente trasmesse. Ma quando questo formidabile potenziale sanitario viene fortemente deviato e messo al servizio dell’ideologia maltusiana focalizzata sul controllo della popolazione povera, allora, purtroppo, diventa necessario mettere in guardia l’OMS circa la manipolazione di cui è anche oggetto. La povertà non si elimina attraverso la medicina, in particolar modo quando questa causa danni ai corpi, alle menti, alle coscienze e alle società. Se l’OMS non intraprende un processo di autocritica in questo campo molto importante, sarà presto accusata dieugenetica, un’eugenetica, in questo caso, rivolta alle persone deboli e povere. Prima o poi, quindi, sarà screditata e ciò condizionerà negativamente anche i suoi partners e si diffonderà il sospetto sull’intero sistema della Nazioni Unite. Ma forse c’è ancora una speranza. Lo abbiamo espresso sin dall’inizio. Il documento che abbiamo analizzato affronta gli stessi temi, anche con la stessa struttura che si riscontra nei rapporti dagli anni ’80 e anche prima. Il prezzo umano pagato da generazioni di gente povera conferma, ancora una volta, l’errore della diagnosi e della terapia suggerite da Malthus e dai suoi eredi ideologici. Sarebbe stato sicuramente preferibile che l’ideologia maltusiana non fosse stata adottata dalle grandi organizzazioni pubbliche internazionali. Perciò si spera che, a più o meno breve termine, le realtà demografiche alla fine avranno la meglio sull’ideologia maltusiana. I programmi di salute pubblica, specialmente in tema di riproduzione, non possono sempre, sistematicamente trascurare gli incontrovertibili dati scientifici riguardanti due fenomeni generalizzati: la diminuzione della fertilità e la tendenza all’invecchiamento. In conclusione, vorrei sottolineare il punto cruciale del mio intervento. Noi Cristiani siamo troppo spesso paralizzati dalle nostre esitazioni, dalle nostre ambiguità e dai nostri compromessi quando si tratta di difendere la vita e la famiglia. La nostra fermezza nel difenderle è spesso indebolita dalle nostre concessioni. La forza dei nemici della vita e della famiglia deriva dal successo che hanno nell’indebolirci e dalla facilità con cui riescono a dividerci. Durante il ventesimo secolo, i Cristiani, i Cattolici, hanno avuto il ruolo di abili innocenti nel costruire alleanze con i movimenti e le ideologie totalitari. Alleanze di questo genere possono essere rinvenute anche oggi. Al giorno d’oggi si può ravvisare la presenza e l’opera di un nuovo genere di abili innocenti: coloro che stringono alleanze e collaborano con movimenti che non rispettano la vita o la famiglia. In un documento pubblicato nel settembre del 2004, Working from within, Lo UNFPA si compiace, per esempio, per la buona relazione di partenariato con il
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“Pastoral Care of Children” in Brasile. “Nonostante la fine di questo partenariato (nel 1999), viene fuori un’importante lezione per lo UNFPA: le più potenti istituzioni religiose non sono monolitiche” (p. 26). È necessario, secondo OMS e UNFPA, praticare l’infiltrazione, infiltrare gli ambienti Cristiani per cambiare la mentalità dei leaders. Per questo motivo la pubblicazione che abbiamo appena citato è completata da un’altra: 24 Tips for Culturally Sensitive Programming (UNFPA, settembre 2004). Ciò che raccomandano lo UNFPA e le agenzie ad esso collegate, è una nuova rivoluzione culturale, un cambiamento dei cuori e delle menti. E in vista di questo cambiamento, è necessario prima di tutto mirare ai leaders religiosi tradizionalmente resistenti e anche contrari, ma che oggi cominciano a dare segni di divisione eufemisticamente detti “scuole di pensiero” (loc. cit. p. 15). Attraverso il loro dissenso, segreto o pubblico, attraverso la loro collaborazione a programmi non accettati, i Cristiani stanno indebolendo dall’interno l’unità della Chiesa esponendola al rischio di scisma. Questa dissidenza de facto è resa ancora più pericolosa dal silenzio di molti sacerdoti che non pronunciano, “al momento giusto e a quello sbagliato”, le parole profetiche che richiamano alla protezione della vita e alla promozione della famiglia. A sua volta questo silenzio timoroso contribuisce a rafforzare l’impulso scismatico. Tutti i Cristiani, comunque, non possono ignorare che ci sono valori umani e Cristiani che non sono negoziabili e la cui difesa è gravemente compromessa quando il disprezzo per la verità è accompagnato dal venir meno del coraggio.
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[1] Useremo l’abbreviazione OMS per Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, World Health Organization). Questa organizzazione ha la sua sede principale a Ginevra. [2] Questo documento è datato 5 aprile 2004 e catalogato col numero A57/13. Si può consultare al seguente indirizzo: http:www.who.int.gb/ebwha/pdf_files/WHA57/A57_13-‐en.pdf Il documento sarà poi completato dal comunicato ufficiale rilasciato dal WHO Media Center, datato 22 maggio 2004, reperibile all’indirizzo: http://www.who.int/mediacentre/releases/2004/wha2/fr/index.html [3] I numeri tra parentesi che appaiono nel nostro testo si riferiscono ai numeri del rapporto Reproductive Health. [4] Cfr. Report of the International Conference on Population and Development, Il Cairo, 5-‐13 settembre 1994: numero del documento A/CONF.171/13, 18 ottobre 1994. La citazione si trova nel Capitolo 7, N. 7.2. Si veda il rapportoReproductive Health, N. 1. [5] Si veda il testo pubblicato dall’OMS: http://www.who.int/reproductive-‐health/publications/RHR_01_5_advancing_safe_motherhood/RHR_01_05_abstract.en.html: Advancing Safe Motherhood through Human Rights. [6] Cfr. http://www.un.org/millenniumgoals/ [7] Tutti gli argomenti sono già apparsi, per esempio, nel Seventh Annual Report riguardante Special Program of Research and Research Training in Human Reproduction, documento ciclostilato OMS/WHO, 1978. [8] Si veda in particolare: UNDP/UNFPA/WHO/World Bank, Special Programme of Research, Development and Research Training in Human Reproduction (HRP). Pagina Internet: http://www.who.int/reproductive-‐health/hrp/index.html [9] Si veda: http://www.worldbank.org/wbi/reprohealth [10] Si veda in particolare la pubblicazione dell’OMS del 2003: Safe abortion: Technical and policy guidance for health systems, reperibile alla pagina Internet: http://www.who.int/reproductive-‐health/publications/safe_abortion/safe_abortion.html [11] Nostro corsivo. Il brano si trova a pag. 6 inDefinitions and Indicators in Family Planning & Child Health and Reproductive Health in uso presso il WHO Regional Office for Europe, pubblicato da: Reproductive, Maternal and Child Health European Regional Office e l’OMS (WHO), edizione aggiornata del marzo 1999 e gennaio 2001, disponibile su:http://www.euro.who.int/document/e68459.pdf La fonte indicata subito dopo la definizione è un documento preparato in vista della Conferenza del Cairo. Si noti che la stessa definizione si trova nel sito web della International Planned Parenthood Federation (IPPF):http://glossary.ippf.org/GlossaryBrowser.aspx [12] Nostro corsivo. Si veda: Reproductive Health: A Key to a Brighter Future, Biennal Report 1990-‐1991, dello Special Programme of Research, Development and Research Training in Human Reproduction, Ginevra, World Health Organization, 1992. Il brano riportato si trova a pag. 127. [13] Si veda il riferimento citato nella nota 11. [14] Nostro corsivo in parentesi. Il testo citato attualmente è datato 1995, mentre la Conferenza del Cairo ha avuto luogo nel 1994. [15] Nostro corsivo. Cfr. il documento IPPF and Cairo+5, Numero 9, maggio-‐giugno 1999, su:http://www.ippf.org/cairo/issues/9906/emergency.htm [16] Cfr. Elio SGRECCIA, Manuale di Bioetica. Vol I, Fondamenti ed etica biomedica. Milano, Vita e Pensiero 1999, pp. 486-‐7. Si veda anche quanto espresso dallo stesso autore a pag. 415 e seg.
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[17] Un buon riassunto si può trovare alla pagina Internet (datata 1997): http://www.who.int/reproductive-‐health/hrp/progress/44/news44_1.en.html I metodi contraccettivi sono confusi con i metodi per l’aborto precoce. [18] Si veda in particolare quello che afferma l’OMS circa il Norplant: http://www.who.int/reproductive-‐health/publications/rhr_02_7fr/rhr_02_07q12.html [19] Si veda il testo del rapporto: http://www.who.int/reproductive-‐health/publications/atr_2002/Section_1.pdf [20] Nel 1993, per esempio, l’OMS pubblicò, in collaborazione con UNDP, UNFPA e Banca Mondiale, un rapporto suFertility Regulating Vaccines (WHO/HRP/WHO/93.1). Alla pagina 15 di questo documento si legge: “L’hCG è un ormone prodotto dall’ovulo pochi giorni dopo la fecondazione. Tale ormone è necessario per completare il processo di impianto (inclusione dell’uovo fecondato nella parete dell’utero). Non è ancora chiaro esattamente come l’immunità all’hCG prevenga l’inizio della gravidanza […]. In ogni caso, l’effetto deve essere esercitato dopo che la fecondazione ha avuto luogo dato che l’hCG non è presente se non dopo la fecondazione”. Le ricerche sono ancora in corso e se ne possono seguire gli andamenti in Annual Technical Report of the UNDP/UNFPA/WHO/World Bank Special Programme of Research, Development and Research Training in Human Reproduction pubblicato sul sito:http://www.who.int/reproductive-‐health/pages_resources/listing_programme_reports.htm [21] Nostro corsivo. Cfr. M. BERE Eliminer les risques lies a l’avortement: le devoir d’une bonne politique de santé publique, Thème special-‐Santé génésique, Dossiers thématiques, Pubblicato in “Bulletin de l’Organisation Mondiale de la Santé”, Recueil d’articles N. 3 2000, pp. 117-‐128.La nostra citazione si trova a p. 119 e seg., reperibile all’indirizzo:http://www.who.int/bulletin/volumes/en/ Documento disponibile all’indirizzo:http://www.policyproject.com/pubs/occasional/op-‐06fr.pdfAltri lavori di M. Berer possono essere cercati con Google. [22] L’ostilità dello UNFPA alla Chiesa appare esplicità in una dichiarazione del gennaio 1998 di Nafis Sadik al tempo Executive Director della stessa organizzazione. Si veda, a questo proposito, http://www.c-‐fam.org/FAX/fax_1998/faxv1n16.html [23] Nel 2000 è stato pubblicato uno studio di Justine TANTCHOU e Ellen WILSON intitolato Le Project POLICY in cui è riportata una curiosa lista d’onore degli aiuti dati ai programmi di salute riproduttiva in cinque paesi africani. Il supporto delle religioni è classificato “molto basso” in Benin, “basso” in Burkina Faso, “medio” in Camerun, “basso”in Costa d’Avorio e “medio” in Mali. Il documento è disponibile all’indirizzo:http://www.policyproject.com/pubs/policymatters/pm-‐06.pdf [24] Nostro corsivo. Cfr. Communicating family planning in reproductive health.Key messages for communicators, un documento del 1997 classificato come WHO/FRH/FPP/97.33. Si può leggere all’indirizzo:http://www.who.int/reproductive-‐health/publications/fpp_97_33/fpp_97_33_7.en.html [25] Nostro corsivo. Si veda: http://www.who.int/reproductive-‐health/publications/fpp_97_33/fpp_97_33_2.en.html [26] Gv 13:34. [27] Si veda l’Enciclica Evangelium Vitae, N. 43 e 92.
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ALFONSO GÓMEZ-‐LOBO QUALITÀ DELLA VITA IN PAZIENTI NON RESPONSIVI POST COMA In questo articolo cercherò di rispondere a tre domande: (1) Cos’è la qualità di vita, (2) Se la qualità di vita deve avere un ruolo nelle difficili scelte legate alla fine della vita, soprattutto nei pazienti non responsivi post coma (Post Coma Unresponsiveness: PCU), e (3) Se le conclusioni raggiunte siano conformi alle direttive espresse da Papa Giovanni Paolo II nell’allocuzione pronunciata nel marzo 2004. Il mio approccio sarà sostanzialmente filosofico e so bene che, per essere realmente soddisfacente, dovrà essere arricchito da argomentazioni teologiche.[1] QUALITÀ DI VITA L’espressione “qualità di vita” può essere usata con vari significati.[2] Le stesse parole di questa espressione evocano l’idea che la vita possa essere migliore o peggiore, cioè che la vita possa essere valutata in modo simile a quello con cui valutiamo, per esempio, le opere d’arte, gli strumenti e le istituzioni. L’idea che la vita possa essere giudicata secondo la propria qualità ci riporta ai filosofi dell’antica Grecia e ai loro sforzi per capire quale sia la vita buona (o migliore). La più alta qualità di vita, che loro identificarono con la felicità e la prosperità, era propria di una vita vissuta nel godimento dei beni umani fondamentali. Una scarsa qualità di vita, al contrario, è la vita di un individuo cui mancano certi beni che possono essere di vario tipo, per esempio mentale, fisico, sociale o strumentale. Una persona menomata mentalmente, una che soffre di una malattia cronica, una che non ha parenti o amici o che non ha sufficienti risorse, può essere considerata una persona con una bassa qualità di vita. In questo senso, la qualità di vita è un concetto olistico che riguarda diverse dimensioni ed è quindi aperto a differenti valutazioni. Ci può essere unanimità sulla qualità di vita di una persona che manca di alcuni beni (per esempio la mobilità) ma ne possiede altri (la salute)? Di fatto la valutazione della qualità di vita varierà a seconda delle tradizioni, delle culture e dei gruppi sociali: alcuni individui considereranno riluttanti alcune forme di dipendenza(per esempio dovere essere alimentato e lavato), mentre altri le considereranno tollerabili. Bisognerebbe anche distinguere la qualità di vita dal concetto di condizione fisiologica che è un concetto più circoscritto e che ammette anche diversi gradi. La salute di una persona può essere migliore o peggiore. Tale determinazione della condizione di un paziente rappresenta un giudizio diagnostico che è prerogativa della professione medica ed è una condizione necessaria per decidere un effettivo intervento terapeutico. Senza una valutazione attendibile delle condizioni patologiche del paziente è incomprensibile come il medico possa curare la sua malattia o alleviare le sue sofferenze, tuttavia tale valutazione è sicuramente cosa diversa rispetto ad un giudizio globale sulla qualità di vita. La bassa qualità di vita e la condizione patologica sono due concetti diversi che non coincidono e che devono essere tenuti distinti. LA QUALITÀ DI VITA NELLE DECISIONI SULLA FINE DELLA VITA La qualità di vita deve avere un ruolo primario nelle difficili decisioni sulla fine della vita, soprattutto nel caso di pazienti in PCU? Facciamo riferimento a questo tipo di pazienti dato che
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essi rappresentano il più basso livello possibile in termini di qualità delle loro vite. Diremo qualcosa sulla loro condizione dopo qualche notazione generale. È cosa nota che l’aspettativa di una bassa qualità di vita sia divenuta una spiegazione standard per giustificare l’eutanasia, soprattutto tra i rappresentanti dell’utilitarismo contemporaneo. Penso alla scarsa qualità di vita dovuta ad un’ampia varietà di impedimenti e handicap precedenti al PCU. Poiché gli utilitaristi annoverano il dolore e la perdita (o la diminuzione) della capacità di esperire il piacere tra i mali peggiori e poiché misurano la qualità della vita in relazione al piacere e al dolore, non sorprende che affermino che uccidere intenzionalmente un paziente che abbia l’aspettativa di una bassa qualità di vita sia un beneficio per il paziente stesso. Oggi questo modo di pensare è profondamente radicato nella cultura Anglo-‐Americana e si sta rapidamente diffondendo, sulle ali della globalizzazione, nell’Europa continentale, soprattutto nei Paesi Bassi, ma anche in altre parti del mondo. Per capire cosa ci sia di profondamente sbagliato in questo modo di pensare, è utile richiamare alcune nozioni basilari della teoria tradizionale dell’azione. In ogni azione, un’analisi filosofica adeguata distingue tra (a) cosa si fa e (b) perché lo si fa.[3] Il primo elemento è l’azione in sé (che può anche essere rappresentata da un’omissione), il secondo è il motivo che spinge l’agente a compiere quell’azione e in genere consiste nelle conseguenze attese. Nella terminologia tradizionale questi due elementi sono definiti finis operis e finis operantis, ossia l’oggetto dell’azione in sé e lo scopo del soggetto agente. L’utilitarismo è una posizione consequenzialista e come tale fa derivare il proprio giudizio morale non semplicemente dalle intenzioni dell’agente, ma piuttosto dai risultati effettivamente raggiunti. Nel caso dell’eutanasia, il risultato certamente è che ogni forma di dolore viene eliminata, ma noi sappiamo che esistono molti tipi di azione che comportano buoni risultati pur essendo assolutamente degne di biasimo, come ad esempio ottenere la pace attraverso la distruzione di città su vasta scala. Un agente che ha come obbiettivo l’eutanasia può agire, o omettere di agire, in modi diversi che avranno come conseguenza la morte del paziente. L’aspettativa di una bassa qualità di vita può mai giustificare questo tipo di azioni o omissioni? Credo che ci siano buone motivazioni filosofiche per dare una decisa risposta negativa a tale domanda e per affermare, al contrario, che ad una persona in queste condizioni non dovrebbero mai essere negate le cure e il rispetto. Infatti, sebbene una persona possa seriamente mancare di alcuni beni, essa gode ancora del bene fondamentale della vita, un bene distinto da qualsiasi male cui la persona possa essere soggetta. Inoltre dal punto di vista della stessa persona, la vita, anche in queste condizioni, può essere desiderabile, quand’anche ad un osservatore esterno ciò possa apparire alquanto insopportabile. Sarebbe pertanto una presunzione intollerabile quella di giudicare dal di fuori una vita come “non degna di essere vissuta”. La condanna universale dell’omicidio intenzionale di un innocente si basa sul rispetto della dignità della persona, e la dignità umana è per logica indipendente da, e non riducibile a, la qualità di vita di una persona poiché la dignità è una proprietà intrinseca che non ammette gradi. La dignità esprime il valore delle persone e, contrariamente al valore delle cose, non è soggetta a variazioni. Una persona gravemente handicappata ha lo stesso valore di qualsiasi altra persona e quindi dovrebbe essere rispettata come chiunque altro. Ci sono buone ragioni per offrire cure particolari a quelle persone che soffrono per una scarsa qualità di vita (esse hanno bisogno di cure più di altri), ma non ci sono buone ragioni per giustificare la cancellazione delle loro vite a causa della loro scarsa qualità. Con la qualità di vita, paradossalmente, non si misura la qualità della vita in sé (in quanto è un bene fondamentale non soggetto a variazioni), ma piuttosto di altri beni che possono esistere o meno in relazione alla vita.
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Affermare che la vita è un bene umano basilare non è la stessa cosa del “vitalismo”[4]. Questa corrente di pensiero ritiene che la vita umana sia un bene assoluto che abbia la precedenza su tutti gli altri beni e che debba essere preservata ad ogni costo. Sul valore dominante della vita si fonderebbero dunque rigide regole morali che sarebbero poi alla base delle decisioni mediche sulla fine della vita. Per il vitalismo la preservazione e il prolungamento della vita sono gli unici criterio che devono guidare l’azione in questioni riguardanti la pratica medica nei casi in cui non si possa più ristabilire lo stato di salute. Contro il vitalismo, ribadirei il principio tradizionale in base al quale è razionale ricercare, sostenere e proteggere i beni (soprattutto, anche se non esclusivamente, la vita umana), ma è anche razionale rinunciare ad essi (in certe circostanze e in funzione di altri beni) purché uno non si ponga intenzionalmente contro gli altri. Con “rinunciare” intendo dire “to give up”, “renoncer”, “aufgeben”. Un esempio di questo atteggiamento può essere quello di chi afferma che avere dei figli sia un bene umano importante e allo stesso tempo rinuncia al godimento di questo bene scegliendo la vita monastica. Un altro esempio è quello di una persona che, a causa di un grave impedimento, non possa godere il bene dell’avere figli. Quest’ultimo non rinuncia ad un bene. Egli semplicemente accetta il fatto che le circostanze abbiano posto tale bene al di là delle sue capacità di raggiungerlo. Questa accettazione (“acceptance”, “acceptation”, “Hinnahme”) non è irrazionale ed è assolutamente compatibile con il riconoscimento del valore del bene in questione. Per il vitalismo, a causa della sua fede nella tecnologia e dell’aperta resistenza alla possibilità di rinuncia alla vita, l’idea dell’accettazione della morte è fonte di rabbia e ribellione. Tale atteggiamento si riscontra a volte, com’è noto, nei parenti dei pazienti affetti da tumore che vorrebbero che il medico continuasse la chemioterapia anche dopo che questa abbia cessato di essere efficace e molto dopo che abbia cominciato a mostrare i suoi effetti devastanti nel paziente ormai morente. Le speranze illusorie o la determinazione arrogante a sconfiggere la malattia e la morte, prendono il posto dell’atteggiamento profondamente umano di accettazione dell’inevitabile fine della nostra vita. Per chi invece si trova a metà tra il vitalismo e il tanatismo, tra il desiderio di preservare la vita ad ogni costo e quello di determinare la morte quando ritenuto conveniente, sorge in alcuni casi particolari un difficile dilemma, soprattutto nei casi di pazienti in PCU. Darò per prima cosa una spiegazione terminologica. La denominazione comune di questa condizione è “Stato Vegetativo Persistente” (Persistent Vegetative State: PVS) o, più in generale, Stato Vegetativo (Vegetative State: VS). Queste denominazioni sono basate, alla lontana, sulla distinzione aristotelica delle facoltà (dunameis) negli esseri viventi[5]. In questi pazienti le capacità razionale e sensitiva dell’anima non possono più essere attivate nel modo normale e quindi ciò che le tiene in vita è solo il threptikón, la capacità “vegetativa” che è indipendente dalla coscienza e dalla volontà. Tuttavia il termine “vegetativo” portafacilmente ad immaginare questi pazienti come “vegetali” e quindi come non-‐umani. Per evitare questo terribile fraintendimento, è stata proposta una nuova denominazione “Irresponsività Post Coma” (Post Coma Unresponsiveness: PCU) che non implica associazioni fuorvianti. Per tale motivo utilizzerò questa espressione.[6] Il contesto aristotelico, d’altra parte, fornisce strumenti concettuali adatti a rifiutare la visione in base alla quale il paziente in PCU abbia smesso di essere persona.[7] Aristotele esprime il punto di vista del senso comune che vede ognuno di noi come organismo unico, una sostanza singola totalmente unificata e che non ritiene che la perdita delle più alte facoltà rappresenti la morte di una sostanza, chiamata “la persona”, che risiede in una sostanza differente chiamata “il corpo”, come invece sostengono i dualisti contemporanei. La perdita della coscienza e della ragione è la perdita di una parte di una persona, ed esattamente della capacità di attivare le facoltà più nobili
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a causa di un ostacolo fisiologico, ma ciò non equivale alla morte della persona.[8] Sebbene un paziente in PCU possa non mostrare segni si risposta agli stimoli ambientali, questo non può essere considerato un motivo per negare che quel paziente sia la stessa persona che era cosciente prima di subire il trauma che ha causato il PCU. Ne consegue che egli merita lo stesso rispetto che meritava nelle fasi precedenti della sua vita. Il difficile dilemma di cui parlavo poc’anzi, sorge dal fatto che la maggior parte dei pazienti in PCU non possa inghiottire a causa della condizione patologica che li ha colpiti e quindi richiede la nutrizione e l’idratazione artificiali (ANH), anche intesi come nutrizione e idratazione medicalmente assistiti (MANH). Cosa ci dice la filosofia morale a proposito del giusto modo di decidere se fornire, rifiutare o togliere questo tipo di assistenza al paziente? Molti fattori ci indicano che è estremamente difficile ottenere una risposta univoca applicabile a tutti i casi. In primo luogo c’è la difficoltà di decidere se la nutrizione e l’idratazione attraverso una sonda nasogastrica o una gastrostomia costituisca una cura ordinaria o un trattamento medico. Una volta inserita la sonda la nutrizione può essere fatta anche da personale non specializzato, ma la decisione di inserire la sonda, l’inserzione stessa (specialmente se è necessario un intervento chirurgico), la prescrizione delle sostanze da somministrare, il monitoraggio del paziente e di eventuali effetti collaterali (aspirazione, infezioni, ecc.), sono naturalmente prerogative del medico.[9] Dato che l’alimentazione quotidiana, che è la cura ordinaria parte del processo, è possibile solo attraverso l’inserzione della sonda effettuata medicalmente, mi sembra, a rigor di logica, che la procedura globalmente intesa debba considerarsicome “trattamento medico”. Infatti un intervento medico fornisce le condizioni necessarie per iniziare una attività di cura ordinaria e il monitoraggio medico fa parte di un responsabile proseguimento di tali cure. In un villaggio senza medici la nutrizione e l’idratazione artificiali in pazienti in PCU è impossibile. La classificazione dell’ANH come trattamento medico non risolve, da sola, la questione morale più importante, cioè se il ricorso all’ANH sia obbligatorio o meno. Essa ci aiuta a chiarire la questione spingendoci a considerare i criteri tradizionali per iniziare, continuare o interrompere il trattamento, in altre parole ci aiuta a capire i proe i contro.[10] Per discutere l’applicazione di tali criteri alla MANH consideriamo ipoteticamente l’estremistica affermazione in base alla quale rifiutare o togliere la MANH sia sempre e necessariamente eutanasia da omissione. Questa affermazione per essere vera dovrebbe implicare, in questo caso, una connessione logica o concettuale tra il finis operis e il finis operantis, in altre parole l’azione dovrebbe essere compiuta solo da un agente che abbia una specifica intenzione. Non può esserci eccezione. Sono d’accordo sul fatto che tale nesso esista tra un omicidio attivo e l’obbiettivo dichiarato dell’eutanasia. Un medico che fa un’iniezione letale ad un paziente sicuramente ha come scopo la morte del paziente. L’atto in sé non sarebbe compiuto se non fosse per l’intenzione del soggetto agente. Tale intenzione specifica è condizione necessaria per la realizzazione di un’azione che causa direttamente gli effetti desiderati. L’omissione è una cosa diversa. Essa non causa attivamente la morte. Essa di solito rimuove un ostacolo per il realizzarsi di una causa differente. Quando si stacca un respiratore e un paziente muore, ciò che causa la morte è la sottostante condizione patologica acuta, non l’attuale spegnimento della macchina. Un paziente con una condizione patologica più lieve che fosse stato collegato temporaneamente ad un respiratore continuerebbe a vivere. Staccare un macchinario di sostegno delle funzioni vitali, in sé, non causa la morte. Per la natura della causalità, un’omissione può essere legata ad una specifica intenzione, ma può anche non esserlo. Se la connessione tra omissione e intenzione non fosse contingente ma necessaria, allora ogni interruzione di trattamento o di supporto artificiale delle funzioni vitali
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dovrebbe essere considerata eutanasia. Nel linguaggio tradizionale ciò implicherebbe che tutti i mezzi dovrebbero essere considerati mezzi ordinari. Se un medico negasse gli antibiotici ad un paziente in PCU da vari anni, il medico potrebbe essere sospettato di volere la morte del paziente. Se un medico interrompesse la chemioterapia su richiesta del paziente potrebbe essere accusato di omicidio assistito. Tali assurde accuse mostrano chiaramente che il nesso tra finis operis e finis operantis nel caso delle omissioni è certamente casuale. Che esistano forme legittime di lasciar morire è un argomento centrale della posizione che dà valore alla vita e tuttavia ne accetta i limiti temporali, che lotta per curare il malato ma rifiuta l’accanimento terapeutico. È vero che certe omissioni possono essere il risultato della volontà di provocare la morte del paziente. Ma non è necessario che sia così. Per un osservatore esterno potrebbe non esserci una differenza percepibile tra eutanasia per omissione e legittimo lasciar morire dato che l’intenzione con cui si compiono azioni simili non può essere giudicata dall’esterno. Se un medico scrupoloso valutasse attentamente se un trattamento sia inutile o gravoso o entrambe le cose e decidesse in coscienza di interromperlo con l’intenzione di lasciar morire il paziente per la sua malattia di base, sarebbe presuntuoso accusarlo di voler causare la morte del paziente e quindi di praticare l’eutanasia. Lo stesso si può dire, credo, per certi casi di PCU.[11] Ci sono casi in cui una condizione patologica di base impedisce al paziente di assumere cibo normalmente cosicché proprio la patologia richiede, per esempio, l’inserzione chirurgica di una sonda gastrostomica. Si peccherebbe di presunzione se si condannasse un medico che, dopo un lungo periodo di tempo e dopo aver valutato la gravosità per lo stesso paziente, per la sua famiglia e tanti altri fattori (come la mancanza di un’assicurazione sulla salute), suggerisse di rinunciare alla nutrizione e idratazione medicalmente assistite.[12] Non possiamo sapere quali siano le sue reali intenzioni, ma non sarebbe corretto presumere la necessità che egli desideri la morte del paziente. Come ho spiegato, dal punto di vista della teoria dell’azione, non esiste tale necessità. La sua intenzione potrebbe essere legata al lasciar morire per ragioni legittime perché potrebbe aver valutato ormai sproporzionata l’azione terapeutica. Questo non significa che il paziente sia considerato “senza valore” o “non produttivo” o senza dignità. L’inutilità e la gravosità per il paziente, la sua famiglia e la comunità sarebbero le sole ragioni legittime per decidere. Riassumendo, ho fatto poche osservazioni. Riconosco che la “cultura della morte” ha fatto progressi nei suoi sforzi di legittimare l’eutanasia e riconosco anche i pericoli derivanti dal progresso della tecnologia medica che permette un prolungamento, virtualmente indefinito, dell’esistenza.[13] Ho cercato di prendere le distanze dal tanatismo e dal vitalismo. Sono convinto che il prendersi cura dei portatori di handicap e di chi non è cosciente debba sempre essere la prima preoccupazione, un’obbligazione che non richieda giustificazioni perché è profondamente radicata nel nostro essere umani. Abbiamo un obbligo particolare verso i sofferenti e i malati e la qualità di vita del paziente non può influenzare questa fondamentale obbligazione. La vita continua ad essere un valore basilare da proteggere. Ma ho anche argomentato che non possiamo attribuire intenzioni moralmente inaccettabili in quei casi in cui medici scrupolosi e famiglie, dopo un’attenta valutazione alla luce dei criteri tradizionali, optino per il rifiuto o l’interruzione dell’idratazione e della nutrizionein un paziente in PCU. Ho cercato di dimostrare che il lasciar morire in certi casi può essere legittimo. CONCORDANZA CON L’ALLOCUZIONE PAPALE In un suo discorso nel marzo del 2004, Sua Santità Papa Giovanni Paolo II ha parlato di obbligo di somministrare la nutrizione e l’idratazione ai pazienti in quello che si suol chiamare “stato
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vegetativo persistente”.[14] Non posso riportare in questa sede la ricchezza di contenuti di quel documento, né ho la competenza per offrire un’autorevole esegesi di questo insegnamento. Ciòche farò è invece citare, senza commento, alcuni passaggi tratti dalla “Nota informativa sul dovere di fornire la nutrizione e l’idratazione” (“Briefing Note on the Obligation to provide Nutrition and Hydration”) pubblicato dalla Conferenza Episcopale Cattolica Australiana per la Dottrina e la Morale (Australian Catholic Bishops Committee for Doctrine and Morals) e dal Comitato per l’Assistenza Sanitaria (Committee for Health Care) in cui si trova una guida pastorale che spiega il retroterra e le implicazioni dell’allocuzione papale.[15] Cito: “2. La somministrazione di cibo e acqua, anche con mezzi artificiali, non è in sé un trattamento medico che possa essere rifiutato o interrotto unicamente sulla base del fatto che sia un trattamento medico. (...) In sé, la somministrazione di cibo e acqua (con qualsiasi mezzo) rappresenta il modo ordinario di sostenere la vita di un paziente e la parte minimale dell’attenzione che dobbiamo agli altri. (...)” “3. Tuttavia in casi particolari la nutrizione e l’idratazione cessano di essere obbligatori, per esempio se il paziente non fosse in grado di assimilare le sostanze somministrate o se le stesse modalità di somministrazione fossero causa di sofferenza sproporzionata per il paziente o implicassero una eccessiva gravosità per altri. (...) In Australia la nutrizione attraverso una sonda, normalmente, non è eccessivamente gravosa per altri. (...)” “4. Le dichiarazioni del Papa non affrontano la questione se la nutrizione artificiale implichi un atto o un trattamento medico rispetto all’inserzione e al monitoraggio di una sonda per il nutrimento. Mentre l’atto di nutrire una persona non è in sé un atto medico, l’inserzione di una sonda, il suo monitoraggio e quello del paziente, e la prescrizione delle sostanze da somministrare implicano un certo grado abilità medica e/o infermieristica. Inserire una sonda per il nutrimento è una decisione medica soggetta ai normali criteri dell’intervento medico.” “5. Ogni volta che un trattamento medico o la somministrazione di nutrimento e idratazione sono rifiutati o interrotti per motivi legittimi (inutilità, gravosità), non si può parlare di eutanasia. Come il Papa ha scritto nell’Evangelium Vitae, ‘Dall’eutanasia va distinta la decisione di rinunciare ... a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia... La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte’ (EV 65)”. I Vescovi australiani terminano le loro considerazioni con una serie di conclusioni che cito per dimostrare la concordanza con il punto di vista espresso in questo articolo. “In conclusione, il discorso del Papa è un’applicazione dell’insegnamento Cattolico tradizionale e non afferma né che la nutrizione e l’idratazione debbano sempre essere somministrate, né che non si debbano mai somministrare a pazienti non responsivi e/o incapaci. Piuttosto il Papa suggerisce la presunzione in favore del dare nutrimento e idratazione a tutti i pazienti, anche con mezzi artificiali, ma riconosce anche che in casi particolari tale presunzione debba cedere il passo al riconoscimento che la somministrazione di nutrizione e idratazione sarebbe inutile o eccessivamente gravosa.”
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[1] Cfr. SGRECCIA E., Manuale di Bioetica, I. Fondamenti ed Etica Biomedica, Milano: Vita e Pensiero, 1988: 40 – 42. [2] Per una raccolta di documenti e studi si veda: WALTER J. J. SHANNON T. A. (eds) Quality of Life. The New Medical Dilemma, New York: Paulist Press 1990. [3] Questa analisi è ulteriormente sviluppata in: GOMEZ-‐LOBO A. Morality and the Human Goods. An Introduction to Natural Law EthicsWashingtonDC: GeorgetownUniversity Press 2002. [4] L’uso di questa etichetta è relativamente nuovo e non va confuso con il vitalismo come dottrina della filosofia della biologia elaborata da Bergson, Driesch e altri. Cfr. BECKNER M. O. Vitalism in EDWARDS P. Encyclopedia of PhilosophyNew York 1967, 8: 253-‐256. Sull’importanza di considerare il vitalismo sono debitore verso KEOWN J.Euthanasia. Ethics and Public Policy. An Argument against LegislationCambridge: CambridgeUniversity Press 2002. [5] ARISTOTELIS De Anima recognovit brevique adnotatione instruxit W. D. Ross Oxford: Oxford University Press 1956. Si veda in particolare il Libro II Capitolo 3. [6] BOYLE J. et al. Reflections on Artificial Nutrition and Hydration www. utoronto.ca/stmikes/bioethics 2004. Il PCU potrebbe essere confuso con lo stato di coscienza minimale (MCS) pertanto assume una notevole importanza la sua corretta diagnosi. [7] Per un’esposizione concisa di questa visione ampiamente condivisa, si veda BRODY B. How much of the brain must be dead? in STEINBOCK B. ARRAS J. D. LONDON A.J. Ethical Issues in Modern Medicine New York: McGraw Hill 2003: 281: “…Il supporto vitale in questi casi può essere unilateralmente sospeso allorquando l’organismo non rappresenti più una persona per il fatto che la corteccia non funziona più.” [8] Si veda, ARISTOTELE De Anima I. 4. 408b 18-‐25. Bisogna tener presente, comunque, che Aristotele non ragiona in base ad un concetto più recente di persona. [9] Si veda anche: AMERICAN ACADEMY OF NEUROLOGY Position of the AAN on Certain Aspects of the Care and Management of the Persistent Vegetative State Neurology 1989, 39: 125-‐126Specialmente II.C.1 in WALTER J. J. SHANNON T. A. (eds) Quality of Life. The New Medical Dilemma, New York: Paulist Press 1990. [10] PAPA PIO XII The Prolongation of Life (24 Nov. 1959) in O’ROURKE K. Medical Ethics: Sources of Catholic Teachings, Third Edition, WashingtonDC: GeorgetownUniversity press 1999: 213-‐214. [11] In questa breve (e insufficiente) esposizione, parto dal presupposto che la volontà del paziente incosciente non si conosca. Per Papa Pio XII la volontà presunta di un paziente adulto costituiva il fondamento dei diritti e dei doveri del medico e della famiglia. Cfr. PAPA PIO XII ibid. [12] A parte i rischi fisici diretti per il paziente, come il rischio di perforazione dell’intestino, infezione o aspirazione, ecc., Non si dovrebbe minimizzare lo stress emotivo di chi si prende cura del malato, specialmente se questo è un familiare stretto. La gravosità può aumentare considerevolmente se le risorse familiari sono limitate e le stesse persone devono sobbarcarsi anche le spese di ospedalizzazione, i servizi infermieristici domiciliari o l’assistenza domiciliare in paesi in cui non ci siano adeguati servizi sanitari pubblici. [13] Il caso di più lunga sopravvivenza in coma negli Stati Uniti è quello di Elaine Esposito che visse in stato di incoscienza per più di 37 anni. Si veda: WALTER J. J. SHANNON T. A. (eds) Quality of Life. The New Medical Dilemma, New York: Paulist Press 1990: 86 n. 8. [14] Si veda: www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2004/march. [15] Il documento in questione può essere richiesto a: Catholic Health Australia, PO Box 330, Deakin West Act 2600, Australia.
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ALFONSO GÓMEZ-‐LOBO QUALITÀ DELLA VITA IN PAZIENTI NON RESPONSIVI POST COMA In questo articolo cercherò di rispondere a tre domande: (1) Cos’è la qualità di vita, (2) Se la qualità di vita deve avere un ruolo nelle difficili scelte legate alla fine della vita, soprattutto nei pazienti non responsivi post coma (Post Coma Unresponsiveness: PCU), e (3) Se le conclusioni raggiunte siano conformi alle direttive espresse da Papa Giovanni Paolo II nell’allocuzione pronunciata nel marzo 2004. Il mio approccio sarà sostanzialmente filosofico e so bene che, per essere realmente soddisfacente, dovrà essere arricchito da argomentazioni teologiche.[1] QUALITÀ DI VITA L’espressione “qualità di vita” può essere usata con vari significati.[2] Le stesse parole di questa espressione evocano l’idea che la vita possa essere migliore o peggiore, cioè che la vita possa essere valutata in modo simile a quello con cui valutiamo, per esempio, le opere d’arte, gli strumenti e le istituzioni. L’idea che la vita possa essere giudicata secondo la propria qualità ci riporta ai filosofi dell’antica Grecia e ai loro sforzi per capire quale sia la vita buona (o migliore). La più alta qualità di vita, che loro identificarono con la felicità e la prosperità, era propria di una vita vissuta nel godimento dei beni umani fondamentali. Una scarsa qualità di vita, al contrario, è la vita di un individuo cui mancano certi beni che possono essere di vario tipo, per esempio mentale, fisico, sociale o strumentale. Una persona menomata mentalmente, una che soffre di una malattia cronica, una che non ha parenti o amici o che non ha sufficienti risorse, può essere considerata una persona con una bassa qualità di vita. In questo senso, la qualità di vita è un concetto olistico che riguarda diverse dimensioni ed è quindi aperto a differenti valutazioni. Ci può essere unanimità sulla qualità di vita di una persona che manca di alcuni beni (per esempio la mobilità) ma ne possiede altri (la salute)? Di fatto la valutazione della qualità di vita varierà a seconda delle tradizioni, delle culture e dei gruppi sociali: alcuni individui considereranno riluttanti alcune forme di dipendenza(per esempio dovere essere alimentato e lavato), mentre altri le considereranno tollerabili. Bisognerebbe anche distinguere la qualità di vita dal concetto di condizione fisiologica che è un concetto più circoscritto e che ammette anche diversi gradi. La salute di una persona può essere migliore o peggiore. Tale determinazione della condizione di un paziente rappresenta un giudizio diagnostico che è prerogativa della professione medica ed è una condizione necessaria per decidere un effettivo intervento terapeutico. Senza una valutazione attendibile delle condizioni patologiche del paziente è incomprensibile come il medico possa curare la sua malattia o alleviare le sue sofferenze, tuttavia tale valutazione è sicuramente cosa diversa rispetto ad un giudizio globale sulla qualità di vita. La bassa qualità di vita e la condizione patologica sono due concetti diversi che non coincidono e che devono essere tenuti distinti. LA QUALITÀ DI VITA NELLE DECISIONI SULLA FINE DELLA VITA La qualità di vita deve avere un ruolo primario nelle difficili decisioni sulla fine della vita, soprattutto nel caso di pazienti in PCU? Facciamo riferimento a questo tipo di pazienti dato che
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essi rappresentano il più basso livello possibile in termini di qualità delle loro vite. Diremo qualcosa sulla loro condizione dopo qualche notazione generale. È cosa nota che l’aspettativa di una bassa qualità di vita sia divenuta una spiegazione standard per giustificare l’eutanasia, soprattutto tra i rappresentanti dell’utilitarismo contemporaneo. Penso alla scarsa qualità di vita dovuta ad un’ampia varietà di impedimenti e handicap precedenti al PCU. Poiché gli utilitaristi annoverano il dolore e la perdita (o la diminuzione) della capacità di esperire il piacere tra i mali peggiori e poiché misurano la qualità della vita in relazione al piacere e al dolore, non sorprende che affermino che uccidere intenzionalmente un paziente che abbia l’aspettativa di una bassa qualità di vita sia un beneficio per il paziente stesso. Oggi questo modo di pensare è profondamente radicato nella cultura Anglo-‐Americana e si sta rapidamente diffondendo, sulle ali della globalizzazione, nell’Europa continentale, soprattutto nei Paesi Bassi, ma anche in altre parti del mondo. Per capire cosa ci sia di profondamente sbagliato in questo modo di pensare, è utile richiamare alcune nozioni basilari della teoria tradizionale dell’azione. In ogni azione, un’analisi filosofica adeguata distingue tra (a) cosa si fa e (b) perché lo si fa.[3] Il primo elemento è l’azione in sé (che può anche essere rappresentata da un’omissione), il secondo è il motivo che spinge l’agente a compiere quell’azione e in genere consiste nelle conseguenze attese. Nella terminologia tradizionale questi due elementi sono definiti finis operis e finis operantis, ossia l’oggetto dell’azione in sé e lo scopo del soggetto agente. L’utilitarismo è una posizione consequenzialista e come tale fa derivare il proprio giudizio morale non semplicemente dalle intenzioni dell’agente, ma piuttosto dai risultati effettivamente raggiunti. Nel caso dell’eutanasia, il risultato certamente è che ogni forma di dolore viene eliminata, ma noi sappiamo che esistono molti tipi di azione che comportano buoni risultati pur essendo assolutamente degne di biasimo, come ad esempio ottenere la pace attraverso la distruzione di città su vasta scala. Un agente che ha come obbiettivo l’eutanasia può agire, o omettere di agire, in modi diversi che avranno come conseguenza la morte del paziente. L’aspettativa di una bassa qualità di vita può mai giustificare questo tipo di azioni o omissioni? Credo che ci siano buone motivazioni filosofiche per dare una decisa risposta negativa a tale domanda e per affermare, al contrario, che ad una persona in queste condizioni non dovrebbero mai essere negate le cure e il rispetto. Infatti, sebbene una persona possa seriamente mancare di alcuni beni, essa gode ancora del bene fondamentale della vita, un bene distinto da qualsiasi male cui la persona possa essere soggetta. Inoltre dal punto di vista della stessa persona, la vita, anche in queste condizioni, può essere desiderabile, quand’anche ad un osservatore esterno ciò possa apparire alquanto insopportabile. Sarebbe pertanto una presunzione intollerabile quella di giudicare dal di fuori una vita come “non degna di essere vissuta”. La condanna universale dell’omicidio intenzionale di un innocente si basa sul rispetto della dignità della persona, e la dignità umana è per logica indipendente da, e non riducibile a, la qualità di vita di una persona poiché la dignità è una proprietà intrinseca che non ammette gradi. La dignità esprime il valore delle persone e, contrariamente al valore delle cose, non è soggetta a variazioni. Una persona gravemente handicappata ha lo stesso valore di qualsiasi altra persona e quindi dovrebbe essere rispettata come chiunque altro. Ci sono buone ragioni per offrire cure particolari a quelle persone che soffrono per una scarsa qualità di vita (esse hanno bisogno di cure più di altri), ma non ci sono buone ragioni per giustificare la cancellazione delle loro vite a causa della loro scarsa qualità. Con la qualità di vita, paradossalmente, non si misura la qualità della vita in sé (in quanto è un bene fondamentale non soggetto a variazioni), ma piuttosto di altri beni che possono esistere o meno in relazione alla vita.
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Affermare che la vita è un bene umano basilare non è la stessa cosa del “vitalismo”[4]. Questa corrente di pensiero ritiene che la vita umana sia un bene assoluto che abbia la precedenza su tutti gli altri beni e che debba essere preservata ad ogni costo. Sul valore dominante della vita si fonderebbero dunque rigide regole morali che sarebbero poi alla base delle decisioni mediche sulla fine della vita. Per il vitalismo la preservazione e il prolungamento della vita sono gli unici criterio che devono guidare l’azione in questioni riguardanti la pratica medica nei casi in cui non si possa più ristabilire lo stato di salute. Contro il vitalismo, ribadirei il principio tradizionale in base al quale è razionale ricercare, sostenere e proteggere i beni (soprattutto, anche se non esclusivamente, la vita umana), ma è anche razionale rinunciare ad essi (in certe circostanze e in funzione di altri beni) purché uno non si ponga intenzionalmente contro gli altri. Con “rinunciare” intendo dire “to give up”, “renoncer”, “aufgeben”. Un esempio di questo atteggiamento può essere quello di chi afferma che avere dei figli sia un bene umano importante e allo stesso tempo rinuncia al godimento di questo bene scegliendo la vita monastica. Un altro esempio è quello di una persona che, a causa di un grave impedimento, non possa godere il bene dell’avere figli. Quest’ultimo non rinuncia ad un bene. Egli semplicemente accetta il fatto che le circostanze abbiano posto tale bene al di là delle sue capacità di raggiungerlo. Questa accettazione (“acceptance”, “acceptation”, “Hinnahme”) non è irrazionale ed è assolutamente compatibile con il riconoscimento del valore del bene in questione. Per il vitalismo, a causa della sua fede nella tecnologia e dell’aperta resistenza alla possibilità di rinuncia alla vita, l’idea dell’accettazione della morte è fonte di rabbia e ribellione. Tale atteggiamento si riscontra a volte, com’è noto, nei parenti dei pazienti affetti da tumore che vorrebbero che il medico continuasse la chemioterapia anche dopo che questa abbia cessato di essere efficace e molto dopo che abbia cominciato a mostrare i suoi effetti devastanti nel paziente ormai morente. Le speranze illusorie o la determinazione arrogante a sconfiggere la malattia e la morte, prendono il posto dell’atteggiamento profondamente umano di accettazione dell’inevitabile fine della nostra vita. Per chi invece si trova a metà tra il vitalismo e il tanatismo, tra il desiderio di preservare la vita ad ogni costo e quello di determinare la morte quando ritenuto conveniente, sorge in alcuni casi particolari un difficile dilemma, soprattutto nei casi di pazienti in PCU. Darò per prima cosa una spiegazione terminologica. La denominazione comune di questa condizione è “Stato Vegetativo Persistente” (Persistent Vegetative State: PVS) o, più in generale, Stato Vegetativo (Vegetative State: VS). Queste denominazioni sono basate, alla lontana, sulla distinzione aristotelica delle facoltà (dunameis) negli esseri viventi[5]. In questi pazienti le capacità razionale e sensitiva dell’anima non possono più essere attivate nel modo normale e quindi ciò che le tiene in vita è solo il threptikón, la capacità “vegetativa” che è indipendente dalla coscienza e dalla volontà. Tuttavia il termine “vegetativo” portafacilmente ad immaginare questi pazienti come “vegetali” e quindi come non-‐umani. Per evitare questo terribile fraintendimento, è stata proposta una nuova denominazione “Irresponsività Post Coma” (Post Coma Unresponsiveness: PCU) che non implica associazioni fuorvianti. Per tale motivo utilizzerò questa espressione.[6] Il contesto aristotelico, d’altra parte, fornisce strumenti concettuali adatti a rifiutare la visione in base alla quale il paziente in PCU abbia smesso di essere persona.[7] Aristotele esprime il punto di vista del senso comune che vede ognuno di noi come organismo unico, una sostanza singola totalmente unificata e che non ritiene che la perdita delle più alte facoltà rappresenti la morte di una sostanza, chiamata “la persona”, che risiede in una sostanza differente chiamata “il corpo”, come invece sostengono i dualisti contemporanei. La perdita della coscienza e della ragione è la perdita di una parte di una persona, ed esattamente della capacità di attivare le facoltà più nobili
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a causa di un ostacolo fisiologico, ma ciò non equivale alla morte della persona.[8] Sebbene un paziente in PCU possa non mostrare segni si risposta agli stimoli ambientali, questo non può essere considerato un motivo per negare che quel paziente sia la stessa persona che era cosciente prima di subire il trauma che ha causato il PCU. Ne consegue che egli merita lo stesso rispetto che meritava nelle fasi precedenti della sua vita. Il difficile dilemma di cui parlavo poc’anzi, sorge dal fatto che la maggior parte dei pazienti in PCU non possa inghiottire a causa della condizione patologica che li ha colpiti e quindi richiede la nutrizione e l’idratazione artificiali (ANH), anche intesi come nutrizione e idratazione medicalmente assistiti (MANH). Cosa ci dice la filosofia morale a proposito del giusto modo di decidere se fornire, rifiutare o togliere questo tipo di assistenza al paziente? Molti fattori ci indicano che è estremamente difficile ottenere una risposta univoca applicabile a tutti i casi. In primo luogo c’è la difficoltà di decidere se la nutrizione e l’idratazione attraverso una sonda nasogastrica o una gastrostomia costituisca una cura ordinaria o un trattamento medico. Una volta inserita la sonda la nutrizione può essere fatta anche da personale non specializzato, ma la decisione di inserire la sonda, l’inserzione stessa (specialmente se è necessario un intervento chirurgico), la prescrizione delle sostanze da somministrare, il monitoraggio del paziente e di eventuali effetti collaterali (aspirazione, infezioni, ecc.), sono naturalmente prerogative del medico.[9] Dato che l’alimentazione quotidiana, che è la cura ordinaria parte del processo, è possibile solo attraverso l’inserzione della sonda effettuata medicalmente, mi sembra, a rigor di logica, che la procedura globalmente intesa debba considerarsicome “trattamento medico”. Infatti un intervento medico fornisce le condizioni necessarie per iniziare una attività di cura ordinaria e il monitoraggio medico fa parte di un responsabile proseguimento di tali cure. In un villaggio senza medici la nutrizione e l’idratazione artificiali in pazienti in PCU è impossibile. La classificazione dell’ANH come trattamento medico non risolve, da sola, la questione morale più importante, cioè se il ricorso all’ANH sia obbligatorio o meno. Essa ci aiuta a chiarire la questione spingendoci a considerare i criteri tradizionali per iniziare, continuare o interrompere il trattamento, in altre parole ci aiuta a capire i proe i contro.[10] Per discutere l’applicazione di tali criteri alla MANH consideriamo ipoteticamente l’estremistica affermazione in base alla quale rifiutare o togliere la MANH sia sempre e necessariamente eutanasia da omissione. Questa affermazione per essere vera dovrebbe implicare, in questo caso, una connessione logica o concettuale tra il finis operis e il finis operantis, in altre parole l’azione dovrebbe essere compiuta solo da un agente che abbia una specifica intenzione. Non può esserci eccezione. Sono d’accordo sul fatto che tale nesso esista tra un omicidio attivo e l’obbiettivo dichiarato dell’eutanasia. Un medico che fa un’iniezione letale ad un paziente sicuramente ha come scopo la morte del paziente. L’atto in sé non sarebbe compiuto se non fosse per l’intenzione del soggetto agente. Tale intenzione specifica è condizione necessaria per la realizzazione di un’azione che causa direttamente gli effetti desiderati. L’omissione è una cosa diversa. Essa non causa attivamente la morte. Essa di solito rimuove un ostacolo per il realizzarsi di una causa differente. Quando si stacca un respiratore e un paziente muore, ciò che causa la morte è la sottostante condizione patologica acuta, non l’attuale spegnimento della macchina. Un paziente con una condizione patologica più lieve che fosse stato collegato temporaneamente ad un respiratore continuerebbe a vivere. Staccare un macchinario di sostegno delle funzioni vitali, in sé, non causa la morte. Per la natura della causalità, un’omissione può essere legata ad una specifica intenzione, ma può anche non esserlo. Se la connessione tra omissione e intenzione non fosse contingente ma necessaria, allora ogni interruzione di trattamento o di supporto artificiale delle funzioni vitali
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dovrebbe essere considerata eutanasia. Nel linguaggio tradizionale ciò implicherebbe che tutti i mezzi dovrebbero essere considerati mezzi ordinari. Se un medico negasse gli antibiotici ad un paziente in PCU da vari anni, il medico potrebbe essere sospettato di volere la morte del paziente. Se un medico interrompesse la chemioterapia su richiesta del paziente potrebbe essere accusato di omicidio assistito. Tali assurde accuse mostrano chiaramente che il nesso tra finis operis e finis operantis nel caso delle omissioni è certamente casuale. Che esistano forme legittime di lasciar morire è un argomento centrale della posizione che dà valore alla vita e tuttavia ne accetta i limiti temporali, che lotta per curare il malato ma rifiuta l’accanimento terapeutico. È vero che certe omissioni possono essere il risultato della volontà di provocare la morte del paziente. Ma non è necessario che sia così. Per un osservatore esterno potrebbe non esserci una differenza percepibile tra eutanasia per omissione e legittimo lasciar morire dato che l’intenzione con cui si compiono azioni simili non può essere giudicata dall’esterno. Se un medico scrupoloso valutasse attentamente se un trattamento sia inutile o gravoso o entrambe le cose e decidesse in coscienza di interromperlo con l’intenzione di lasciar morire il paziente per la sua malattia di base, sarebbe presuntuoso accusarlo di voler causare la morte del paziente e quindi di praticare l’eutanasia. Lo stesso si può dire, credo, per certi casi di PCU.[11] Ci sono casi in cui una condizione patologica di base impedisce al paziente di assumere cibo normalmente cosicché proprio la patologia richiede, per esempio, l’inserzione chirurgica di una sonda gastrostomica. Si peccherebbe di presunzione se si condannasse un medico che, dopo un lungo periodo di tempo e dopo aver valutato la gravosità per lo stesso paziente, per la sua famiglia e tanti altri fattori (come la mancanza di un’assicurazione sulla salute), suggerisse di rinunciare alla nutrizione e idratazione medicalmente assistite.[12] Non possiamo sapere quali siano le sue reali intenzioni, ma non sarebbe corretto presumere la necessità che egli desideri la morte del paziente. Come ho spiegato, dal punto di vista della teoria dell’azione, non esiste tale necessità. La sua intenzione potrebbe essere legata al lasciar morire per ragioni legittime perché potrebbe aver valutato ormai sproporzionata l’azione terapeutica. Questo non significa che il paziente sia considerato “senza valore” o “non produttivo” o senza dignità. L’inutilità e la gravosità per il paziente, la sua famiglia e la comunità sarebbero le sole ragioni legittime per decidere. Riassumendo, ho fatto poche osservazioni. Riconosco che la “cultura della morte” ha fatto progressi nei suoi sforzi di legittimare l’eutanasia e riconosco anche i pericoli derivanti dal progresso della tecnologia medica che permette un prolungamento, virtualmente indefinito, dell’esistenza.[13] Ho cercato di prendere le distanze dal tanatismo e dal vitalismo. Sono convinto che il prendersi cura dei portatori di handicap e di chi non è cosciente debba sempre essere la prima preoccupazione, un’obbligazione che non richieda giustificazioni perché è profondamente radicata nel nostro essere umani. Abbiamo un obbligo particolare verso i sofferenti e i malati e la qualità di vita del paziente non può influenzare questa fondamentale obbligazione. La vita continua ad essere un valore basilare da proteggere. Ma ho anche argomentato che non possiamo attribuire intenzioni moralmente inaccettabili in quei casi in cui medici scrupolosi e famiglie, dopo un’attenta valutazione alla luce dei criteri tradizionali, optino per il rifiuto o l’interruzione dell’idratazione e della nutrizionein un paziente in PCU. Ho cercato di dimostrare che il lasciar morire in certi casi può essere legittimo. CONCORDANZA CON L’ALLOCUZIONE PAPALE In un suo discorso nel marzo del 2004, Sua Santità Papa Giovanni Paolo II ha parlato di obbligo di somministrare la nutrizione e l’idratazione ai pazienti in quello che si suol chiamare “stato
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vegetativo persistente”.[14] Non posso riportare in questa sede la ricchezza di contenuti di quel documento, né ho la competenza per offrire un’autorevole esegesi di questo insegnamento. Ciòche farò è invece citare, senza commento, alcuni passaggi tratti dalla “Nota informativa sul dovere di fornire la nutrizione e l’idratazione” (“Briefing Note on the Obligation to provide Nutrition and Hydration”) pubblicato dalla Conferenza Episcopale Cattolica Australiana per la Dottrina e la Morale (Australian Catholic Bishops Committee for Doctrine and Morals) e dal Comitato per l’Assistenza Sanitaria (Committee for Health Care) in cui si trova una guida pastorale che spiega il retroterra e le implicazioni dell’allocuzione papale.[15] Cito: “2. La somministrazione di cibo e acqua, anche con mezzi artificiali, non è in sé un trattamento medico che possa essere rifiutato o interrotto unicamente sulla base del fatto che sia un trattamento medico. (...) In sé, la somministrazione di cibo e acqua (con qualsiasi mezzo) rappresenta il modo ordinario di sostenere la vita di un paziente e la parte minimale dell’attenzione che dobbiamo agli altri. (...)” “3. Tuttavia in casi particolari la nutrizione e l’idratazione cessano di essere obbligatori, per esempio se il paziente non fosse in grado di assimilare le sostanze somministrate o se le stesse modalità di somministrazione fossero causa di sofferenza sproporzionata per il paziente o implicassero una eccessiva gravosità per altri. (...) In Australia la nutrizione attraverso una sonda, normalmente, non è eccessivamente gravosa per altri. (...)” “4. Le dichiarazioni del Papa non affrontano la questione se la nutrizione artificiale implichi un atto o un trattamento medico rispetto all’inserzione e al monitoraggio di una sonda per il nutrimento. Mentre l’atto di nutrire una persona non è in sé un atto medico, l’inserzione di una sonda, il suo monitoraggio e quello del paziente, e la prescrizione delle sostanze da somministrare implicano un certo grado abilità medica e/o infermieristica. Inserire una sonda per il nutrimento è una decisione medica soggetta ai normali criteri dell’intervento medico.” “5. Ogni volta che un trattamento medico o la somministrazione di nutrimento e idratazione sono rifiutati o interrotti per motivi legittimi (inutilità, gravosità), non si può parlare di eutanasia. Come il Papa ha scritto nell’Evangelium Vitae, ‘Dall’eutanasia va distinta la decisione di rinunciare ... a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia... La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte’ (EV 65)”. I Vescovi australiani terminano le loro considerazioni con una serie di conclusioni che cito per dimostrare la concordanza con il punto di vista espresso in questo articolo. “In conclusione, il discorso del Papa è un’applicazione dell’insegnamento Cattolico tradizionale e non afferma né che la nutrizione e l’idratazione debbano sempre essere somministrate, né che non si debbano mai somministrare a pazienti non responsivi e/o incapaci. Piuttosto il Papa suggerisce la presunzione in favore del dare nutrimento e idratazione a tutti i pazienti, anche con mezzi artificiali, ma riconosce anche che in casi particolari tale presunzione debba cedere il passo al riconoscimento che la somministrazione di nutrizione e idratazione sarebbe inutile o eccessivamente gravosa.”
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[1] Cfr. SGRECCIA E., Manuale di Bioetica, I. Fondamenti ed Etica Biomedica, Milano: Vita e Pensiero, 1988: 40 – 42. [2] Per una raccolta di documenti e studi si veda: WALTER J. J. SHANNON T. A. (eds) Quality of Life. The New Medical Dilemma, New York: Paulist Press 1990. [3] Questa analisi è ulteriormente sviluppata in: GOMEZ-‐LOBO A. Morality and the Human Goods. An Introduction to Natural Law EthicsWashingtonDC: GeorgetownUniversity Press 2002. [4] L’uso di questa etichetta è relativamente nuovo e non va confuso con il vitalismo come dottrina della filosofia della biologia elaborata da Bergson, Driesch e altri. Cfr. BECKNER M. O. Vitalism in EDWARDS P. Encyclopedia of PhilosophyNew York 1967, 8: 253-‐256. Sull’importanza di considerare il vitalismo sono debitore verso KEOWN J.Euthanasia. Ethics and Public Policy. An Argument against LegislationCambridge: CambridgeUniversity Press 2002. [5] ARISTOTELIS De Anima recognovit brevique adnotatione instruxit W. D. Ross Oxford: Oxford University Press 1956. Si veda in particolare il Libro II Capitolo 3. [6] BOYLE J. et al. Reflections on Artificial Nutrition and Hydration www. utoronto.ca/stmikes/bioethics 2004. Il PCU potrebbe essere confuso con lo stato di coscienza minimale (MCS) pertanto assume una notevole importanza la sua corretta diagnosi. [7] Per un’esposizione concisa di questa visione ampiamente condivisa, si veda BRODY B. How much of the brain must be dead? in STEINBOCK B. ARRAS J. D. LONDON A.J. Ethical Issues in Modern Medicine New York: McGraw Hill 2003: 281: “…Il supporto vitale in questi casi può essere unilateralmente sospeso allorquando l’organismo non rappresenti più una persona per il fatto che la corteccia non funziona più.” [8] Si veda, ARISTOTELE De Anima I. 4. 408b 18-‐25. Bisogna tener presente, comunque, che Aristotele non ragiona in base ad un concetto più recente di persona. [9] Si veda anche: AMERICAN ACADEMY OF NEUROLOGY Position of the AAN on Certain Aspects of the Care and Management of the Persistent Vegetative State Neurology 1989, 39: 125-‐126Specialmente II.C.1 in WALTER J. J. SHANNON T. A. (eds) Quality of Life. The New Medical Dilemma, New York: Paulist Press 1990. [10] PAPA PIO XII The Prolongation of Life (24 Nov. 1959) in O’ROURKE K. Medical Ethics: Sources of Catholic Teachings, Third Edition, WashingtonDC: GeorgetownUniversity press 1999: 213-‐214. [11] In questa breve (e insufficiente) esposizione, parto dal presupposto che la volontà del paziente incosciente non si conosca. Per Papa Pio XII la volontà presunta di un paziente adulto costituiva il fondamento dei diritti e dei doveri del medico e della famiglia. Cfr. PAPA PIO XII ibid. [12] A parte i rischi fisici diretti per il paziente, come il rischio di perforazione dell’intestino, infezione o aspirazione, ecc., Non si dovrebbe minimizzare lo stress emotivo di chi si prende cura del malato, specialmente se questo è un familiare stretto. La gravosità può aumentare considerevolmente se le risorse familiari sono limitate e le stesse persone devono sobbarcarsi anche le spese di ospedalizzazione, i servizi infermieristici domiciliari o l’assistenza domiciliare in paesi in cui non ci siano adeguati servizi sanitari pubblici. [13] Il caso di più lunga sopravvivenza in coma negli Stati Uniti è quello di Elaine Esposito che visse in stato di incoscienza per più di 37 anni. Si veda: WALTER J. J. SHANNON T. A. (eds) Quality of Life. The New Medical Dilemma, New York: Paulist Press 1990: 86 n. 8. [14] Si veda: www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2004/march. [15] Il documento in questione può essere richiesto a: Catholic Health Australia, PO Box 330, Deakin West Act 2600, Australia.
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STEFANO ZAMAGNI EQUITA’, RAZIONAMENTO, DIRITTO ALLE CURE SANITARIE 1. Introduzione La crisi-‐ nel senso etimologico di “passaggio”, “transizione” – dello stato sociale è la crisi di un particolare modello di gestione del medesimo, quello statalista, che tende a scambiare il conseguimento degli obiettivi della sicurezza sociale con la riduzione dei margini di scelta personale dei cittadini.Non è, invece, la crisi dei valori che lo hanno sorretto fin dal suo nascere, né è la negazione del fatto che le conquiste dello stato socialerappresentano una delle manifestazioni più alte di progresso democratico e civile per la civiltà industriale.La radice della crisi del modello statalista non è di natura fiscale – questa è piuttosto l’effetto, non la causa -‐ma è da rinvenirsi nella sua incapacità di coniugare, in modo sostenibile, equità e libertà.I cittadini delle nostre società avanzate non accettano più rinunce alla loro libertà per conseguire più elevati standard di tutela dai rischi.Quando il perseguimento della sicurezza sociale entra in rotta di collisione con l’allargamento degli spazi di libertà è l’efficienza stessa a risentirne: di qui la crisi fiscale e perciò l’insostenibilità finanziaria dello stato sociale. Cosa c’è alla base della diversità di richieste dei cittadini di oggi rispetto a quelli di ieri nei confronti dello stato sociale?C’è che – come ha illustrato A. Giddens (1997) – nel passaggio dalla fase fordista a quella post-‐fordista della società industriale è mutata e va mutando la natura propria dei rischi che lo stato sociale ha inteso, fin dall’origine, combattere.Proteggere il cittadino dalle avversità connesse agli andamenti erratici del ciclo economico e agli eventi di natura (perdita del lavoro; perdita della salute; una vecchiaia triste e così via) è da sempre il proprium dei vari istituti del welfare. La novità è che, mentre nella fase di sviluppo precedente, la sicurezza è minacciata da fattori che sono esogeni rispetto ai piani di vita dei singoli e della politica, nella fase attuale l’incertezza è diventata, in larga misura, endogena, attribuibile cioè al modo in cui la società si organizza e, soprattutto, al modo in cui viene articolata la sfera della produzione della ricchezza.[1] Quel grosso capitolo dello stato sociale che si occupa di tutela della salute illustra molto bene tale inversione nella natura dell’incertezza.Se il “vecchio” sistema sanitario poteva assumere – non del tutto plausibilmente – che la malattia fosse qualcosa di casuale e comunque di non correlato ai modi di vita, un simile presupposto non reggerebbe certo in una epoca nella quale le persone scelgono, in una certa misura, il proprio stile di vita e nella quale lo stato di salute è “funzione”, oltre che delle cure sanitarie, di fattori quali l’ambiente, i regimi alimentari, i luoghi di lavoro, i rapporti familiari e così via. Si pensi, per un esempio non tanto banale, alle patologie tumorali.Ci viene detto, dalle ricerche bio-‐mediche, che la più parte di esse è riconducibile a fattori specificamente ambientali.Se ilvecchio stato sociale poteva limitarsi alla ricerca di terapie efficaci, oltre che dei modi per alleviare le conseguenze, un nuovo stato sociale all’altezza delle aspettative dei cittadini non può non destinare risorse per intervenire alla fonte – lotta al fumo; abolizione di sostanze tossiche nei luoghi di lavoro; politiche di health promotion; contenimento dei disordini alimentari (Un tempo, non tanto lontano, erano la natura e i cicli stagionali, oltre alla povertà, ad imporre, di fatto, la dieta alimentare). In presenza di mutamenti del genere, pensare di conservare l’impianto del vecchio modello di welfare – sia pure in versione aggiornata e razionalizzata – servirebbe solo ad accelerare la trasformazione, già in atto, dello stato sociale in uno “stato dei trasferimenti” – per usare la
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colorita espressione di Assar Lindbeck. Ciò che realizzerebbe ingenti e distorsivi trasferimenti di reddito, non tantodai ricchi ai poveri, quanto da un segmento all’altro delle classi medie e medio-‐alte.L’impulsoalla conflittualità per acquisire il consenso dei vari segmenti di elettorato che deriverebbe da trasferimenti del genere non sarebbe certo compatibile con le esigenze di stabilità di una democrazia avanzata.In altro modo, fino a che i rischi possono essere considerati esogeni è concepibile cercare di farvi fronte mediante la gestione diretta degli apparati per la sicurezza da parte dello stato.Non così – come si vedrà più avanti – quando la matrice dei rischi diventa in gran parte endogena. Il nuovo modello di stato sociale deve porre al centro della decisione politica il tema della libertà (in senso positivo).Non si soddisfano i bisogni ritenuti essenziali distribuendo ai cittadini beni e servizi in forma paternalistica,prescindendo cioè dalle loro preferenze e dalla loro identità.Perché, come opportunamente osserva A.Margalit (1998), non basta mirare ad una società giusta; quel che in più si deve volere è una “società decente”, una società, cioè, che non umilia i suoi membri distribuendo loro benefici, ma negando al tempo stesso la loro autonomia.La via societaria al welfarepostula che si pensi ai cittadini come ad agenti responsabili e pertanto che compito irrinunciabile di un welfare declinato in forme civili sia, non solo assicurare la fornitura di beni e servizi, ma anche promuovere tutte quelle forme di azione collettiva che hanno effetti pubblici; postula cioè il superamento dell’errata concezione che identifica la sfera del pubblico con quella dello stato.E’ per questa ragione di fondo che il nuovo modello di stato sociale abbisogna che la società civile si organizzi (e si potenzi) per diventare un attore nel disegno dei vari istituti del benessere. E’ su tale sfondo che vanno lette le pagine che seguono, alle quali assegno un duplice obiettivo.Il primo è quello di spiegare perché non esiste un assetto organizzativo ottimale del settore sanitario, un assetto cioè capace di realizzare, ad un tempo, gli obiettivi dell’equità, dell’efficacia e dell’efficienza nella produzione ed erogazione delleprestazioni sanitarie.Una tale presa d’atto è importante perché, mentre ci libera dall’illusione di poter arrivare per via di meccanismi o di interventi dirigistici a sciogliere i pervasivi dilemmi etici che intrigano l’attività sanitaria, ci sprona a ricercare sul terreno delle scelte politiche e di una sapiente progettualità pratica la via di uscita dai molteplici trade-‐off che, come vedremo,affliggono il settore in questione.Il secondo obiettivo è quello di portare argomenti a favore della tesi secondo cui un universalismo sanitario che voglia risultare sostenibile non può, oggi,che essere un universalismo categoriale a prestazioni essenziali.Per sostanziare questa tesi occorre intervenire sulle sue due parti.Da un lato, si tratta di produrre ragioni per le quali è bene che quello sanitario resti un servizio a copertura universalistica.Infatti, chi scegliesse la via della selettività avrebbe risolto già in partenza non pochi dei problemi del dibattito corrente – soprattutto quello della sostenibilità finanziaria – ma dovrebbe poi dimostrarne la sostenibilità politica e sociale.Dall’altro lato, occorre impegnarsi nella ricerca dei principi e dei criteri sulla base deiquali è fattualmente possibile arrivare a definire un pacchetto di prestazioni sanitarie essenziali. 2. Perché il welfare sanitario deve restare universalista Sorge spontanea la domanda: quali ragioni per così dire di principio possono essere addotte a sostegno delle tendenze in atto verso l’applicazione, in sede UE, di schemi universalistici in ambito sanitario?Ve ne sono di due tipi: generali – applicabili cioè anche ad altri comparti del welfare – e specifiche – tipiche cioè della sanità.Comincio dalle prime. Una prima ragione è bene resa dall’idea di J. Buchanan [2]secondo cui una democrazia stabile può sopravvivere solo se i suoi programmi di welfare si ispirano a principi di “generalità”, cioè di universalismo.L’argomento è, in breve, il seguente.Programmi di welfare che discriminano fra i
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gruppi sociali, sottoponendo i cittadini alla cosiddetta prova dei mezzi e agendo o sul versante della tassazione oppure su quello dei trasferimenti, finiscono per indebolireil sostegno della società all’intero processo politico. E ciò nella misura, piuttosto ampia, in cui programmi del genere generano incentivi, tra la popolazione, a investire risorse per assicurarsi trattamenti di favore o per proteggersi da trattamenti penalizzanti.Pertanto, uno stato sociale discriminatorio, se da un lato favorisce lo spreco delle risorse impiegate in attività di rent-‐seeking da parte di gruppi che possono contare sul fatto che, nei regimi a democrazia parlamentare, una volta acquisito un privilegio è praticamente impossibile che esso possa venire annullato pure da una coalizione politica avversaria,dall’altro lato esso finisce col frazionare la società erodendo quel patto di solidarietà che è il cemento di una democrazia stabile. Invero, è questo un punto che già W.H. Beveridge, nel suo celebre rapporto del 1942 (“Social insurance and allied services”), aveva anticipato quando scriveva che l’adozione di “universal schemes” doveva servire alla “solidarity and unity of the nation”, dal momento che, come si legge nel frontespizio del rapporto, “misery generates hate”, cioè guerra civile. Infatti, l’esperienza della guerra aveva insegnato che tutti, indipendentemente dalla posizione sociale occupata, correvano i medesimi rischi, rispetto ai quali non valeva la pena, né conveniva ad alcuno, discriminare.E’ dunque con la guerra – la people’s war – che alle ragioni in termini di libertà dal bisogno se ne affianca una nuova, quella dell’eguaglianza della cittadinanza sociale.Ora, se il fondamento costituito della libertà dal bisogno può essere compatibile con la selettività – si danno prestazioni a chi è portatore di specifici bisogni – l’altro fondamento postula di necessità l’universalismo. Si badi che la validità di questo argomento non viene scalfita dalla più recente posizione liberal-‐liberista secondo cui, essendo il benessere dei cittadini funzione della prosperità economica ed essendo quest’ultima ancorata all’estensione delle relazioni di mercato, la vera priorità per l’azione politica sarebbe quella di assicurare il pieno soddisfacimento delle condizioni (fiscali; amministrative; dei diritti proprietari sulle imprese e così via) per la prosperità dei mercati.Di qui a vedere nello stato sociale – che notoriamente redistribuisce quote di ricchezza al di fuori del meccanismo di produzione della stessa – un impedimento allo sviluppo economico, il passo è breve. Di qui allora la raccomandazione secondo cuilo stato sociale deve occuparsi solo di coloro che la gara competitiva di mercato lascia ai margini oppure indietro. Gli altri, quelli che riescono a rimanere all’interno del circuito virtuoso della crescita, ricorreranno alla tutela a mezzo del sistema assicurativo. Perché non regge una tale linea argomentativa?Per la semplice ragione che non è vero – come conferma la letteratura teorica e come documenta l’esperienza – che la piena estensione dell’area del mercato accresce il benessere per tutti.Non è vera cioè la leggenda che vuole che “una marea che cresce solleva tutte le barche”.Ma anche a voler prescindere da ciò, resta pur sempre un problema di libertà. Se con A. Sen definiamo quest’ultima come la capacità di esercitare una funzione – ad esempio, la funzione di estrarre dai servizi offerti il soddisfacimento dei propri bisogni – allora non è sufficiente volgere l’attenzione ai soli ammontari di beni e servizi a disposizione del soggetto.Questi potrebbe non avere la capacità effettiva di servirsene.Un welfare che prende seriamente in considerazione la categoria dei diritti – e la capacità di esercitare una funzione appartiene alla categoria dei diritti – deve allora essere un welfare abilitante: c’è un livello di bisogni, comuni a tutti in quanto parte della condizione umana, che devono essere soddisfatti prima ancora che i soggetti facciano ingresso nel mercato.In caso contrario, ai cittadini non sarebbe concessa la libertà di decidere né la composizione delle categorie di beni da produrre (più beni privati oppure più beni pubblici oppure più beni relazionali?), né le modalità di fornitura degli stessi. A quest’ultimo riguardo, non si dimentichi che il beneficio che traiamo dal consumo di un bene non dipende solo dalle sue caratteristiche intrinseche, ma anche da fattori che attengono al modo in cui quel bene ci viene erogato.Se il mercato fosse un’istituzione
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democratica, il problema qui sollevato potrebbe venire risolto con gli usuali metodi, ma – come già J.S. Mill aveva intuito – il mercato è un’arena in cui i voti si pesano e non semplicemente si contano. Quali ragioni, specificamente riferite al settore sanitario, parlano a favore dell’universalismo?La prima e più immediata risiede nelle non lievi difficoltà di gestione dei sistemi di selezione: come giungere alla corretta identificazione di coloro che hanno diritto alle prestazioni e come porre in atto procedure di controllo e di monitoraggio della platea dei beneficiari, chiaramente destinata amutare di composizione nel corso del tempo?Come bene illustra Toso (1998), un programma di spesa su basi selettive esige sia la fissazione di criteri di eleggibilità, con cui si stabiliscono i confini categoriali del programma (il diritto ad usufruire di certe prestazioni è condizionato al possesso di caratteristiche di meritorietà che delimitano i confini delle categorie degli aventi diritto), sia l’esecutività dei criteri di assegnazione con i quali si sancisce l’effettiva fruibilità delle prestazioni – ad esempio, l’individuazione delle variabili monetarie da cui dipende la fruizione.Chiaramente, ferme restando le regole di eleggibilità, modificazionidi quelle di assegnazione estendono o riducono la platea dei beneficiari effettivi a seconda delle esigenze del decisore pubblico. Tuttavia, i pervasivi fenomeni di asimmetria informativa, massicciamente presenti nel settore sanitario, e le difficoltà di raccolta e di gestione delle informazioni necessarie fanno sì che gli errori per l’identificazione dei potenziali beneficiari costituiscano la regola piuttosto che l’eccezione.E non v’è chi non veda come, nel caso della tutela sanitaria, siano assai più gravi gli errori di esclusione – si escludono coloro che, in condizioni di perfetta informazione, risulterebbero destinatari delle prestazioni – che non gli errori di inclusione – si includono i non aventi diritto, cioè i falsi positivi.In campo previdenziale, invece, meno gravi risultano essere gli errori di esclusione, dal momento che è più agevole riparare qui i danni arrecati ai falsinegativi, poniamo, con forme varie di indennizzo. Possiamo sintetizzare il ragionamento che precede in questo modo.Quello sanitario è un settore inesorabilmente dominato da fenomeni di asimmetria informativa. (Può essere interessante ricordare, di sfuggita, che le espressioni selezione avversa e azzardo morale – espressioni che denotano i problemi ascrivibili all’asimmetria informativa – furono per primo coniate da K. Arrow, nel suo celebre articolo del 1963, proprio con riferimento alla tutela sanitaria). D’altro canto, mentre i problemi sul fronte dell’efficienza attribuibili all’azzardo morale (l’assicurazione medica ha per oggetto la cura a prescindere dal costo della stessa) e al rapporto d’agenzia (l’agente non subisce i costi del trattamento che pratica) sono ancora irrisolti a livello teorico, per quelli attribuibili alla selezione avversa la soluzione “naturale” esiste e questa si chiama universalismo.Va da sé che ciò non significa che laddove la tutela sanitaria è offerta su base universalistica, tutti i soggetti, come è il caso del nostro paese, riescono nella realtà ad usufruirne.In effetti, se la tecnologia di fruizione dei servizi sanitari richiede, in aggiunta all’accesso ai medesimi, la disponibilità di altri input (livello adeguato di educazione; condizioni minime di reddito e altro), non basta predisporre uno schema universalistico perché tutti i cittadini ne possano trarre beneficio.Ma ciò nulla dice contro l’universalismo; anzi, aggiunge una ragione in più per rafforzarlo. Alla luce dell’argomento sopra esposto, si riesce a misurare la insufficiente formulazione del legislatore costituente quando all’art. 32, c.1 della nostra carta costituzionale scrive: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite per gli indigenti”. Mentre si attribuisce qui cogenza di diritto soggettivo alla tutela della salute e si riconosce altresì la capacità del servizio sanitario di generare esternalità positive a vantaggio dell’intera collettività – riconoscimenti entrambi notevoli e all’avanguardia rispetto allo “spirito dei tempi” – non si prende atto dei gravi inconvenienti cui
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darebbe luogo un sistema sanitario residuale nel quale gli abbienti accedono alle cure sanitarie per via assicurativa e i non abbienti per via caritativa ovvero solidaristica. C’è una seconda ragione specifica su cui intendo soffermarmi.Essa ha a che vedere con una peculiare caratteristica del processo di produzione dei servizi sanitari: chi fruisce di tali servizi attribuisce importanza, e perciò un valore positivo, non solamente all’ottenimento della salute – il che è ovvio – ma anche a altri risultati (nel senso di outcomes)) quali il rispetto dell’autonomia personale, la relazionalità, l’equità.Proviamo a chiarire. Il rispetto dell’autonomia del paziente, intesa come possibilità concreta che questi ha di prendere decisioni, in un senso o nell’altro, riguardanti il proprio stato di salute, è qualcosa di più del ben noto principio della sovranità del consumatore.Quest’ultimo dice che devono essere i valori dell’agente a contare nel processo decisionale e che a questi spetta la decisione di scelta. L’autonomia, invece, in quanto capacità di spiegare le proprie scelte riferendole ai propri scopi, implica che al paziente venga riconosciuto il diritto anche di non scegliere.Questo significa che l’atto della scelta entra, di per sé, come argomento positivo nella funzione di utilità del soggetto, a prescindere dagli effetti che l’esercizio della scelta andrà poi a produrre. (Ciò è quanto è implicato dalla nozione di consumer empowerment).Eppure, nella vasta letteratura di economia sanitaria, l’esercizio della scelta è quasi sempre un’opzione del medico, il quale opera o direttamente in qualità di agente del paziente-‐principale oppure indirettamente come fornitore delle informazioni rilevanti per la scelta.[3]Chiaramente, ciò è un riflesso dell’impianto utilitaristico entro cui si svolge quella letteratura: mentre il principio della sovranità del consumatore è compatibile con la matrice filosofica dell’utilitarismo, la nozione di autonomia personale non riesce a trovare posto all’interno di quella matrice. Anche le modalità di erogazione dei servizi sanitari sono un elemento positivamente valutato dall’utente. Come una miriade di ricerche empiriche conferma – in particolare, quelle sullo stato di attuazione delle Carte dei Servizi Sanitari e dei Comitati consultivi misti -‐ il paziente è sempre più interessato alla cosiddetta “medicina di relazione”.La discrezione nella esecuzione di certi esami diagnostici (si pensi alla endoscopia rettale); la decenza dei luoghi di attesa per esami clinici; l’accesso all’informazione non distorta riguardante il proprio stato di salute; le forme dell’interazione medico-‐paziente sono altrettanti esempi di beni relazionali che vengono domandati dai soggetti, ma per i quali non sembrano esserci attenzioni adeguate dal versante dell’offerta. Grosso modo, relazionale è quel bene (o servizio) che genera utilità non solo per le sue proprietà intrinseche, come avviene per tutti gli altri beni, ma anche per le modalità in cui si svolge il processo di consumo. Duplice è la connotazione dei beni relazionali. Per quanto attiene il lato della produzione, la relazionalità esige la compartecipazione di tutti i membri dell’organizzazione, senza che i termini della stessa siano negoziabili. Quanto a dire che l’incentivo che induce dei soggetti a prendere parte alla produzione del bene relazionale non può essere esterno alla relazione che lega tra loro quei soggetti: l’identità dell’altro conta.Relativamente al lato del consumo, la funzione di un bene relazionale postula un qualche coinvolgimento del soggetto di offerta, perché il rapporto diretto con l’altro è costitutivo dell’atto di consumo; ciò che spiega perché nel processo di consumo di tali beni la comunicazione diviene elemento non secondario. Infine, l’equità come eguaglianza delle opportunità di accesso alle prestazioni sanitarie è pure un risultato desiderato del processo di produzione di tali prestazioni.Come noto, quella dell’equità in sanità è questione tuttora ampiamente dibattuta in letteratura, né si vedono segnali di convergenza verso soluzioni sufficientemente condivise.Delle tre principali nozioni di equità nelle cure sanitarie – eguaglianza della salute; eguaglianza d’uso delle cure a parità di bisogno;
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eguaglianza di accesso alle cure – è questa terza quella maggiormente adottata nei documenti di politica sanitaria, ad eccezione forse di quelli dell’OMS, la quale pare privilegiare, inspiegabilmente, la prima accezione.[4]E’ agevole comprendere le ragioni della preferenza accordata alla nozione di equità come accesso.Essa si inscrive nella prospettiva di valutazione “process-‐oriented”, secondo cui è al processo piuttosto che allo stato finale che si deve prestare attenzione quando si devono valutare istituzioni o politiche alternative.(Le altre due nozioni di equità si inscrivono invece nella prospettiva “end-‐state”: solo il risultato finale del processo conta).Pertanto, un sistema sanitario difendibile deve tendere a trattare in modo imparziale le aspirazioni di tutti i potenziali pazienti, proprio come esige il celebrato principio di neutralità, vero cardine del pensiero liberale. Ora, è bensì vero che almeno due versioni diverse di tale nozione di equità sono possibili – l’accesso va riferito alla effettiva utilizzazione delle prestazioni oppure ai costi opportunità che i pazienti devono sostenere per beneficiare delle prestazioni? – e che a seconda di quale delle due versioni venga adottata si ottengono risultati diversi.E’ tuttavia innegabile che tale nozione bene veicoli l’idea che un servizio sanitario accettabile da un paese a democrazia avanzata sia quello che garantisce a tutti i suoi cittadini una eguale opportunità di usare determinate prestazioni.Un servizio, cioè, che abbiacome suo scopo, non il livellamento delle prestazioni, ma l’abilitazione dei cittadini nei confronti dei trattamenti sanitari. Usher (1977) ha coniato l’espressione “socializzazione dei beni” per descrivere una situazione in cui una società decide di appropriarsi dell’intera quantità disponibile di un bene e di redistribuirlo tra i suoi cittadini in base a criteri non di mercato ed ha individuato nel settore sanitario l’ambito tipico in cui tale situazione si riscontra. In altri termini, i servizi sanitari apparterrebbero alla categoria dei beni sociali, beni cioè che vengono consumati in base al bisogno a prescindere dal grado in cui il beneficiario concorre al loro finanziamento. E’ stato dimostrato che i sistemi universalisti mitigano, coeteris paribus, la correlazione esistente tra status socio-‐economico delle persone e condizioni di salute. E’ noto, infatti, che i poveri e i soggetti poco educati soffroo di più alti tassi di morbilità e di mortalità. In uno studio recente, S. Decker e D. Remler (“How much might universal health insurance reduce socioeconomic dispaities in health?”, NBER, Agosto 2004) confrontano la situazione in Canada e negli USA e trovano che avere un reddito inferiore al reddito mediano aumenta la probabilità che una persona di mezza età possa trovarsi in cattiva salute di circa il 15% negli USA e di circa il 7% in Canada (dove esiste un sistema di tipo universalistico). D’altro canto, questa differenza di 8 punti percentuali tra i due paesi si riduce a 4 punti relativamente alle persone di età oltre i 65 anni. (Negli USA, gli ultra sessantacinquenni godono dei servizi universalistici del Medicare). In conclusione, se si ritiene che attributi quali autonomia, relazionalità e equità debbano costituire parte integrante del patrimonio della cittadinanza e dunque da riconoscersi a tutti i cittadini indistintamente, si deve convenire che una sanità costruita subasi selettive costituirebbe una palese contraddizione pragmatica di tale principio. Una conferma diretta ci viene dall’esperienza USA. In questo paese, nel 2002, il 15,2% degli americani – pari a circa 43,6 milioni – erano risultati privi di assicurazione sanitaria per l’intera durata dell’anno. Nel 2001, la medesima percentuale era stata del 14,6%. Per questa categoria di soggetti, l’unica speranza di accedere alle cure è legata alla disponibilità di offerta dei servizi da parte delle reti di sicurezza rappresentate dagli ospedali pubblici, dai centri comunitari della salute, dalle varie organizzazioni non profit operanti nel settore. Chiaramente, per le persone prive di assicurazione l’accesso alle cure sanitarie è, di fatto, razionato. (Si veda, C. Gresenz, J. Rogowski, J. Escarce, “Health care markets, the safety net and access to care among the uninsured”, NBER, Sett. 2004). Il paese con i migliori ricercatori al mondo, con le migliori terapie contro quasi tutte le malattie
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non riesce ad offrire a tutti i suoi pazienti prestazioni di qualità, pur spendendo per la sanità più del doppio degli altri paesi industrializzati (circa il 16% del PIL americano). 3. L’universalismo sostenibile in sanità e l’arretratezza del dibattitosulle priorità. Pronunciarsi a favore dell’universalismo vuol forse dire sottoscrivere un welfare sanitario che promette “tutto a tutti” ?Certamente no; sarebbe un non sequitur sostenerlo.In effetti, dalla presa d’atto che un universalismo completo, cioè omnicomprensivo, è semplicemente, nelle condizioni odierne, non credibile si dipartono due vie che è possibile percorrere: garantire “tutto ad alcuni”, che è la via della concezione residuale di welfare che postula la selettività, oppure garantire “l’essenziale a tutti”, che è la via della concezione redistributiva di welfare che, sulla base delle considerazioni precedenti, vado a difendere. Come si può comprendere, il compito non certo lieve che ricade su chi opera una tale sceltaè quello di proporre criteri, coerenti ed eticamente accettabili, in base ai quali sia possibile definire il pacchetto delle prestazioni essenziali (health care basket) da assicurare a tutti – “i livelli essenziali di assistenza”, appunto.E’ questo l’oggetto della grossa questione riguardante la fissazione delle priorità ovvero del razionamento in materia sanitaria. Può essere interessante annotare che fu la sentenza della Corte Costituzionale n. 356 del luglio 1992 a sollevare, nel contesto italiano, il velo sul problema delle priorità, allorchè venne puntualizzata la necessità di condizionare alle effettive disponibilità finanziarie “la quantità e il livello delle prestazioni sanitarie, da determinarsi previa valutazione delle priorità e compatibilità e tenuto conto ovviamente delle fondamentali esigenze connesse alla tutela del diritto alla salute”. Si pone la domanda:perché il confronto critico sulla questione delle priorità in sanità è finora rimasto virtualmente ai margini, sia tra esperti sia tra politici? [5]Si possono indicare tre circostanze diverse,non mutuamente escludentisi.La prima è che come si evince osservando l’andamento della spesa sanitaria pubblica nei paesi dell’Occidente avanzato, è solo in anni relativamente recenti che sorge un problema di compatibilità finanziaria per questo comparto della spesa sociale.Questo fatto ha contribuito a diffondere il convincimento, anche a livello di cultura popolare, secondo cui quella sanitaria sarebbe un’attività non sottoponibile al giudizio di efficienza, sia tecnica sia allocativa.Proprio in virtù delle caratteristiche di meritorietà dei servizi prodotti, alle strutture sanitarie non sarebbero applicabili i criteri di valutazione economica che valgono invece per tutte le altre attività umane.Il medico – in senso lato – non sarebbe dunque tenuto a dare conto di inefficienze di vario genere, di sprechi e duplicazioni di spesa – episodi questi tutt’al più qualificabili come mali minori o addirittura inevitabili.Per un’analisi interessante delle conseguenze in termini sia di costi sia di iniquità nella allocazione delle risorse in sanità derivanti dalla ritrosia dei medici di prendere atto che le proprie decisioni sono sempre, in qualche modo, influenzate dalla scarsità delle risorse, si veda C. Alexander et Al., “The costs of denying scarcity”, Arch. Int. Med, 2004, 164. In buona sostanza, fin quando la spesa sanitaria si mantiene entro livelli significativamente bassi – in Italia, la spesa sanitaria pro-‐capite fu, ancora nel 1980, di 600 $, schizzando però a 1236 $ nel 1990 (Oxley e MacFarlan, 1994) – è comprensibile che non si ponga, e quindi non si affronti, il problema delle priorità. La seconda circostanza cui sopra facevo riferimento è, in un certo senso, speculare rispetto alla prima.Non è possibile avviare un dibattito sereno e approfondito sulle priorità in sanità in condizioni di emergenza finanziaria.In verità, l’imperativo categorico – contenere la spesa pubblica per rientrare nei parametri sanciti dal Trattato di Maastricht – ha finito con il dirottare l’attenzione e le preoccupazioni di tutti su una unica priorità: come ridurre la spesa sanitaria.E’ così che, a partire dai primi anni ’80, si è cominciato a distinguere tra il momento del diritto alle
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prestazioni – diritto che è rimasto universale e dunque incondizionato – e il momento della compartecipazione alla spesa sanitaria: eccetto gli esenti, gli utenti vengono chiamati al pagamento di ticket su prestazioni quali ricovero in regime di day-‐hospital, pronto soccorso ospedaliero, spesa farmaceutica, diagnostica specialistica.Questa sorta di “neouniversalismo” – ha fatto credere, per qualche tempo, che per rendere finanziariamente sostenibile il SSN fosse sufficiente agire, oltre che sulla razionalizzazione organizzativa del sistema, sulla platea degli esenti intervenendo in senso restrittivo mediante opportuni raffinamenti dei criteri di merito per la gratuità. Non solo, ma una sorta di ossessione finanziaria ha finito con i recentipervadere il processo diriforma del SSN.Come si sa, il fuoco dell’attenzione si è sostanzialmente posato sulla struttura finanziaria del sistema, così che la scelta della natura della competizione e della conseguente ristrutturazione dell’organizzazione dell’offerta vengono viste come variabili dipendenti.Il risultato è stato – almeno fino ad ora – un rovesciamento dell’ordine naturale delle cose: anziché mettersi alla ricerca della struttura organizzativa dell’offerta di servizi sanitari che meglio soddisfacesse i requisiti di efficienza e di efficacia, ci si è preoccupati di trovare quale organizzazione fosse maggiormente capace di realizzare gli obiettivi di contenimento della spesa sanitaria a seguito dell’introduzione del nuovo sistema di finanziamento prospettico delle prestazioni di assistenza ospedaliera specialistica e riabilitativa (le cosiddette tariffe per DRG). [6] Ritengo sia giunto il momento di prendere finalmente atto che è necessario andare oltre il neouniversalismo, arrivando a qualificare in modo nuovo il principio della comprensività delle prestazioni.La novità sta in ciò che si deve introdurre un criterio categoriale non già rispetto ai beneficiari, bensì rispetto alle prestazioni da erogare a tutti.Ma, chiaramente, ciò non può avvenire quando la preoccupazione per le compatibilità di bilancio precede tutte le altre. La terza circostanza che ha finora impedito che si arrivasse, ad una qualche presa di posizione sul tema delle priorità nelle cure sanitarie ha a che vedere con la particolare situazione dei rapporti ancora esistenti tra discipline economiche, scienze mediche e filosofia morale.Il muro di incomunicabilità che da sempre, ha tenuto separate queste tre aree di studio ha reso oltremodo difficile la individuazione di un terreno di incontro in cui affrontare congiuntamente il problema qui in discussione. D’altro canto, le priorità non potranno mai essere fissate da nessuna delle tre aree isolatamente dalle altre. Per quanto attiene la disciplina che professo, le cose sono andate, più o meno, nei termini seguenti.Con l’affermarsi nella scienza economica della celebre tesi della avalutatività – una delle tesi centrali dello statuto epistemologico neopositivista – si diffonde la tendenza a considerare il sapere prodotto dall’economia come un sapere libero da funzioni pratico-‐orientative.Il sapere economico non accompagna e guida l’azione dei decisori, quali che essi siano, ma vede e prevede le azioni umane come il fisico vede e prevede i movimenti della natura.L’assunzione del carattere avalutativo quale criterio di demarcazione del sapere scientifico, una volta congiunta all’idea che solo quest’ultimo possa dirsi rigorosamente razionale,porta a concepire l’avalutatività come carattere inerente per essenza alla ragione economica. Come dire che, per essere scienziato, l’economista non può compromettersi con i giudizi di valore.Lo scarto che in tal modo si apre tra ragionee decisione risulta incolmabile.Fini e ragioni vengono dichiarati infondabili dalla ragione scientifica, la quale nulla ha da dire su di essi.Di qui la diffusione di atteggiamenti relativistici, se non addirittura scettici, tra non pochi economisti, anche tra coloro che si occupano di questioni di economia applicata. Il disagio per questa astinenza da orientamenti è ormai sotto gli occhi di tutti, soprattutto di quegli economisti che amano interrogarsi sull’uso dei risultati della propria pratica
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scientifica.Non è difficile darsene conto.Se si pensa all’economia come ad uno dei modi – non certo il solo – di accrescere la nostra comprensione degli accadimenti del mondo sociale e di concorrere a modificare per il meglio determinati assetti sociali, come ad esempio il sistema di welfare, l’economista non può autodelimitare il proprio raggio di intervento alle sole questioni di efficienza.E soprattutto non può fingere di ignorare che quanto più ampia diventa la portata delle decisioni da prendere – come è il caso in sanità – tanto più necessario diviene il compito di rendere espliciti i criteri sulla base dei quali si operano scelte.“Pur sapendo tutto questo – scrive Jonas (1991) – il tecnico dell’economia si sente ancora costretto a negare alla propria scienza il potere di fornire tali criteri di scelta e, di conseguenza, l’autorità di dire sì o no a qualunque fine venga proposto, con l’eccezione, ovviamente, delle decisioni che riguardano la mera fattibilità.Inoltre, alla domanda se la conoscenza economica debba essere giudice dei suoi obiettivio una mera esecutrice, il purista risponde scegliendo la seconda possibilità.E’ la risposta dell’ascetismo scientifico, cui egli si attiene in nome della purezza scientifica dell’economia.” (p. 142).Eppure, oggi sappiamo che la ragione scientifica può svolgere una funzione fondante dei valori, come a dire che valori e conoscenza scientifica non necessariamente hanno da opporsi fra loro, come già Pascal, in epoca moderna,aveva coraggiosamente sostenuto.[7] Quanto questo “ascetismo scientifico” abbia nuociuto (ritardandolo) all’avvio di un aperto dibattito sul tema delle priorità in sanità è sotto gli occhi di tutti.Infatti, si è andata consolidando una irragionevole e perversa divisione del lavoro tra studiosi, in forza della quale l’economista sanitario dovrebbe occuparsi dei soli giudizi di efficienza; al medico spetterebbero i giudizi di efficacia (e di appropriatezza) degli interventi; il filosofo (morale e/o politico) dovrebbe intervenire sulle questioni di equità.Ma è chiaro che, partendo da una simile tripartizione di compiti e funzioni, né i dilemmi dell’allocazione intersettoriale delle risorse (quante risorse attribuire alla sanità e quante agli altri settori da cui pure dipende la salute dei cittadini, come l'ambiente, la sicurezza del traffico e dei luoghi di lavoro e così via); né i dilemmi dell’allocazione intrasettoriale delle risorse (quante dedicarne alla cura dell’una patologia piuttosto che dell’altra); né i dilemmi di tipo distributivo (come ripartire i carichi finanziari tra cittadini e regioni), potranno mai venire sciolti in modo ragionevole e soprattutto politicamente accettabile. 4. Approcci alla fissazione delle priorità in sanità Come regolarsi al proposito?La crisi etica in cui si dibattono i sistemi sanitari dei nostri paesi ha la sua radice in ciò.Tali sistemi vennero creati allo scopo di alleviare le sofferenze e di salvare la vita di soggetti senza esclusione alcuna a priori; d’altro canto, lo stato delle conoscenze e soprattutto la scarsa efficacia della medicina non consentivano che interventi modesti, tanto che, se l’accesso alle cure mediche di epoche ancora precedenti era riservato alle classi abbienti, non era affatto certo che ciò si risolvesse in uno svantaggio per gli esclusi – come la storia della medicina puntualmente documenta.Oggi, la situazione si è come capovolta.Il razionamento esplicito – perché quello implicito c’è sempre stato – è divenuto inevitabile, ma non si sa come venirne fuori. “L’etica medica – scrive M. Jori (1994) – non è più solamente l’etica del medico [quella cioè riferita al rapporto medico-‐paziente]; diventa il problema dei principi in base ai quali si allocano le risorse alla medicina nel suo complesso e si distribuiscono all’interno della medicina” (p. 80).E più avanti: “Il paradosso etico cui ci troviamo davanti è dunque che l’aumento di potenza della medicina ha aumentato, invece di diminuire, il numero delle scelte tragiche che l’etica si trova davanti in campo medico” (p. 82).In verità, è questo un paradosso tipico dell’età di sviluppo in cui siamo entrati. Due sono i livelli di discorso rilevanti ai fini presenti.A partire dagli obiettivi generali che il decisore pubblico intende perseguire, quali criteri adottare per stabilire che cosa aspettarsi dal
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SSN; cioè a dire, per decidere dove tracciare i confini delle responsabilità da porre in capo ad una istituzione pubblica come il SSN ?Si chiedono, provocatoriamente, New e Le Grand (1997): “Il National Health Service dovrebbe dedicare risorse alla rimozione dei tatuaggi? … E’ compito del NHS fornire il trattamento della sterilità, la fisioterapia per incidenti sportivi, il cambiamento di sesso, …la chirurgia estetica?” (pp. 231 e 238). Si considerino anche i casi della “farmacologia cosmetica” e dei farmaci psicotropi. Come sappiamo, si sta diffondendo la propensione a dilatare il campo di intervento terapeutico anche a situazioni semplicemente spiacevoli. Si preferiscono cioè scorciatoie farmacologiche a più impegnativi interventi di tipo educativo. La questione del razionamento in sanità si pone a questo livello di discorso.Contrariamente a quanto si pensa, oggetto del razionamento sono le prestazioni e non già le persone da selezionare per ricevere undeterminato trattamento.Per comprendere quanto diffusi siano ancora i pregiudizi sul concetto di razionamento, può essere interessante riferire l’esperienza dell’Ethics Working Group costituito nel 1993 dall’amministrazione Clinton nell’ambito della Health Care Task Force, con il compito di affrontare il problema dell’ordinamento delle priorità dei servizi medici.Secondo il resoconto di N. Daniels (1998), membro del gruppo di lavoro, durante la seduta di insediamento venne imposto al gruppo medesimo di mai usare il termine razionamento nei documenti che questo avesse prodotto, con la motivazione che tale termine avrebbe spaventato la gente, mettendo a repentaglio la realizzabilità della riforma.Eppure, la società americana accetta, come si è ricordato più sopra, che il razionamento delle cure mediche avvenga sulla base della capacità di pagare dei soggetti. Il secondo livello di discorso ha a che vedere, invece, con i “luoghi” in cui applicare quanto è stato deciso al primo livello e soprattutto ha a che vedere con le procedure di decisione adeguate ai fini della determinazione di “chi ottiene cosa”.Ad esempio, si devono lasciare queste decisioni al medico di base o allo specialista?; a comitati misti medici-‐pazienti o ad una qualche agenzia pubblica?Il razionamento deve applicarsi ai soli livelli alti del sistema sanitario (prevenzione e cura, ospedali e assistenza di base) oppure deve spingersi fino a quelli più bassi, poniamo a livello delle AUSL ?Se nel reparto rianimazione di un ospedale vi è un solo posto disponibile e vi vengono ricoverate due persone che necessitano entrambe di quel particolare tipo di cura, quale delle due dovrebbe occupare l’unico posto disponibile?E così via. In quel che segue, fisserò l’attenzione solamente sul primo livello di discorso, chiaramente propedeutico al secondo[8].Parecchi sono gli approcci che sono stati proposti in letteratura e, in parte, già sperimentati in alcuni paesi.I due approcci più popolari – quello della fissazione di target e quello basato sugli studi di costo della malattia – sono anche quelli più insoddisfacenti.Vediamo perché. Il metodo della fissazione dei target di salute e di cure sanitarie ha conosciuto una certa popolarizzazione in seguito alla pubblicazione del libro bianco dell’OMS (Health for all in the year 2000) nel quale vengono fissati gli obiettivi di una maggiore equità tra paesi nell’accesso alle cure; di un più efficace coinvolgimento di tutti i settori dell’economia nella promozione della salute; di una più incisiva presenza nei programmi scolastici dei temi concernenti la salute e pochi altri. Come osserva Mooney (1994), si tratta di un approccio che incorpora quello basato sulla valutazione dei bisogni totali di cure di una popolazione, dove il bisogno è definito nei termini della presenza di malattie in quella data popolazione: più alto il livello di malattie, più elevato il bisogno di cure.Le priorità vengono quindi fissate sulla base del solo profilo epidemiologico, a prescindere dal fatto che tante o poche siano le possibilità di riuscita o di successo.Non solo, ma un approccio del genere, come strumento di politica sanitaria, tende a favorire lo status quo perché né indica attribuzioni di responsabilità né suggerisce le fonti cui attingere le risorse necessarie.In buona sostanza, nulla più che un wishful thinking.
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Non migliore è il giudizio che si può esprimere nei confronti della metodica basata sugli studi di costo delle malattie (il cosiddetto burden of disease), secondo cui se i costi di una particolare patologia sono più elevati di quelli di un’altra, allora la patologia a più alto costo deve avere la priorità. (In generale, i costi cui si fa qui riferimento sono quelli diretti di cura più quelli indiretti attribuibili all’esperienza di malattia, come i costi per l’assenza dal lavoro).Davey e Leeder (1993) hanno opportunamente osservato che la logica sottesa a tale approccio non tiene conto né dei benefici degli interventi di cura, né del costo marginale degli stessi, ma solo del costo totale.E’ dunque ovvio che una proposta del genere, se accolta, non potrebbe mai soddisfare il vincolo dell’efficienza.Eppure, si tratta di un’impostazione piuttosto diffusa – ad esempio, la Banca Mondiale la suggerisce ai paesi in via di sviluppo appunto per fissare le priorità sanitarie -‐ la cui popolarità sembra un riflesso, a parere di Mooney (1994), dell’idea secondo cui le risorse vanno allocate, prioritariamente, ai “grossi problemi”. Assai diverso è il giudizio che si deve dare degli approcci scientificamente più validi e rigorosi: quello delle tavole dei Qaly (quality adjusted life years); quello dell’urgenza ovvero della morte evitabile; quello della pertinenza.Inizio dal primo. Quello dei qaly è certamente l’esempiopiù noto di applicazione del metodo di analisi costo-‐utilità: le priorità vengono fissate sulla base di una procedura che vede, dapprima, la definizione di un algoritmo che calcola la stima del prolungamento della vita a seguito di una certaprestazione, tenuto conto dell’eventuale grado di peggioramento della qualità della vita subito in conseguenza della prestazione stessa.Viene poi costruita una tavola dei qaly[9] che ordina le diverse prestazioni in base al rispettivo costo per qaly.Infine, la regola di decisione è che vanno realizzati i programmi di intervento sanitario e erogati i relativi servizi in ordine ascendente di costo per qaly. L’idea di fondo è che le risorse sanitarie devono essere impiegate in modo da produrre il maggior bene e i qaly sono una misura del bene prodotto da una cura, vale a dire il beneficio da essa arrecato.Una cura medica può conseguire due tipi di risultato.Essa può prolungare la vita delle persone e può migliorare la qualità della vita.I qaly combinano questi due tipi di benefici in una misura singola. Un anno di vita in buona salute conta per un qaly; un anno di vita trascorso in malattia, invece, riceve un peso via via inferiore ad uno a seconda del grado di menomazione della salute.L’algoritmo sulla cui base si arriva a determinare i qaly associati ai vari trattamenti terapeutici serve dunque a spezzare il trade-‐off fra durata e condizioni di vita.Se un dato stato di salute riceve un fattore di aggiustamento, poniamo, di 0,5, questo significa che due anni in tale stato equivalgono ad un anno in piena salute. Originariamente proposto da Torrance (1985) in Canada e Williams (1985 e 1994) in Gran Bretagna -‐ autori che definiscono il qaly “una utilità di stato di salute” -‐tale metodo ha conosciuto un’ampia risonanza in seguito alla decisione dello Stato dell’Oregon di servirsene quale criterio di allocazione delle risorse scarse: assicurare le cure e l’assistenza primaria a molti anziché garantire l’incerto esito di cure sofisticate a pochi.[10]Inoltre, secondo la rassegna curata da Abel-‐Smith (1995) per conto dei Ministri della Sanità dei paesi dell’UE, il metodo in questione sarebbe quello con le maggiori chance di successo nella definizione delle priorità sanitarie – più ancora di quelle del metodo basato sul criterio dell’urgenza. Eppure, non lievi sono i conflitti di ordine morale – tralascio qui le difficoltà di ordine pratico e tecnico[11] -‐ che l’adozione di un tale approccio andrebbe a produrre.Presupponendo che ciò che conta nella determinazione del paniere delle prestazioni ammissibili è la massimizzazione dei qaly e dunque – sotto l’ipotesi che i qaly rappresentino una misura adeguata dello stato di salute – degli incrementi di salute estraibili da un dato ammontare di risorse, questo approccio, non solo finisce per non tenere in alcun conto gli altri outcome del processo di cura di cui abbiamo detto nella precedente sezione 2, ma soprattutto si dimostra adeguato per trattare questioni di
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sola efficienza allocativa.Le tavole dei qaly nulla dicono dell’equità – comunque definita – delle cure da riconoscere ai cittadini, mentresappiamo che in tema di razionamento delle cure la dimensione dell’equità gioca un ruolo decisivo. Se, poniamo, un trapianto di rene costasse 3000 $ per qaly e una protesi all’anca costasse 1500 $ per qaly, dovremmo razionare i trapianti di rene più severamente degli interventi ortopedici, considerato che il denaro speso in questi ultimi produce “più bene” di quello speso nei trapianti di rene, pur sapendo che questi ultimi salvano più vite umane?E’ moralmente accettabile negare a qualcuno una chance di vita allo scopo di impiegare risorse per migliorare la qualità di vita di altre persone? E’ però sull’idea di fondo in base alla quale i qaly misurerebbero il “bene” prodotto da un certo trattamento sanitario che si appuntano le perplessità più serie.Il fatto è che la metodica in questione discende da un preciso impianto filosofico, quello dell’utilitarismo benthamiano, un impianto la cui maggiore debolezza risiede proprio nella sua incapacità di dare senso alla categoria di diritto.Come noto, ciò consegue alla visione alquanto ristretta che l’utilitarismo ha della persona umana. “Essenzialmente – scrivono Sen e Williams (1984) – l’utilitarismo vede le persone come localizzazioni delle loro rispettive utilità … Una volta considerata la funzione di utilità della persona, l’utilitarismo non ha alcun ulteriore diretto interesse a qualsiasi informazione su di essa.” (p. 9).Invero, nel porre insieme i pezzi di utilità in una somma totale da massimizzare, si perdono sia l’identità dei soggetti sia la loro separatezza, requisiti questi indispensabili per rendere possibile una attribuzione di diritti alle persone.E non v’è chi non veda come tale lacuna dell’utilitarismo risulti particolarmente devastante quando ci si riferisca ad un ambito come quello sanitario, dove ciò che conta è proprio l’identità e la separatezza dei soggetti.Se dunque si vuole – come ritengo si debba volere – che istituzioni pubbliche come il SSN mirino a realizzare eguali opportunità di funzionamento a tutti i cittadini – malattie e inabilità restringono la gamma dei funzionamenti delle persone – si capisce perché l’utilitarismo non costituisca un orizzonte appropriato.Il che non toglie – si badi – chel’approccio dei qaly non possa venire convenientemente utilizzato in determinate circostanze.Ad esempio, quando si considerassero trattamenti alternativi a favore di uno stesso paziente, non v’è dubbio che sarebbe sia lecito sia opportuno scegliere quello per lui maggiormente benefico in termini di qaly. L’approccio dell’urgenza suggerisce al decisore che le priorità vano fissate in base al grado di severità delle condizioni disalute dei soggetti: deve essere data priorità a quelle prestazioni che, se applicate in tempo, evitano conseguenze mortali (avoidable death).Una apposita Commissione della UE ha provveduto a stilare i cosiddetti “atlanti della salute” nei quali sono indicati gli episodi morbosi per i quali sarebbe possibile scongiurare la morte anticipata se curati, oltre che in modo appropriato, in tempi rapidi. (Cfr. Holland, 1991). Il metodo della severità costituisce un raffinamento di quello del bisogno, quest’ultimo inteso come capacità di trarre beneficio dalle cure: più alta tale capacità in un gruppo di persone, più alto il bisogno di quel gruppo.Chiaramente, ciò è in funzione della tecnologia di cura in essere in un determinato luogo e periodo di tempo: in tanto si può parlare di morte evitabile in quanto si disponga di tecnologie efficaci.E’ questo un punto diforza non secondario dell’approccio in questione, dal momento che le risorse verrebbero razionate in base alle effettive possibilità di cura che esse possono assicurare.Inoltre – ed è questo un secondo punto di forza – esso traduce abbastanza fedelmente l’idea secondo cui l’urgenza di una necessità conta più sia dei “meriti” di vario tipo acquisiti dal paziente sia della massimizzazione dell’utilità aggregata. Si consideri, infatti, il caso in cui due persone sono in attesa di un trapianto di fegato e c’è un solo fegato a disposizione.Secondo il criterio in discussione, il trapianto va praticato al soggetto che presenta la posizione più urgente – in Italia, è definita tale la posizione di chi morirà entro tre giorni qualora non venga sottoposto al trapianto.Se il criterio fosse quello del maggior bene,
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l’urgenza non dovrebbe giocare alcun ruolo: il trapianto verrebbe praticato al paziente che presenta le maggiori chance di successo in termini di qaly, indipendentemente dal grado di urgenza esibito.E’ agevole cogliere la filosofia sottostante il metodo della morte evitabile.Se il paziente con bisogno urgente non ottiene il trapianto, questi perde la sua ultima possibilità di continuare a vivere.Chi invece si trova in stato di non urgenza e non ottiene il trapianto può sempre sperare in un’occasione successiva.Se ne trae che dando la priorità ai casi urgenti, operiamo in modo da eguagliare le opportunità di vita delle persone.E nella misura in cui la vita è la condizione prima della libertà, agendo in questo modo aumentiamo il patrimonio di libertànel sistema. Tuttavia, due sono le difficoltà di fondo che rendono criticabile tale approccio.La prima – segnalata da Abel-‐Smith (1995, p. 86) – è che la sua applicazione nella pratica tende a generare risultati indesiderabili: a seconda della fascia di età della popolazione presa a riferimento, esso va a selezionare certe patologie piuttosto che altre.Ad esempio, se si fissa l’attenzione sui cinquantenni si darà priorità alla prevenzione e cura degli incidenti stradali; se si scelgono gli ultrasessantacinquenni si darà la precedenza alle patologie cardiovascolari e così via.In situazioni del genere, o si dispone di una metateoria plausibile in grado di giustificare perché si debba privilegiare una fascia d’età piuttosto che un’altra – ma in questo caso il problema delle priorità è solo rinviato – oppure l’approccio dell’urgenza è suscettibile di manipolazioni pericolose.[12]L’altra difficoltà è stata portata alla luce dal Lonning Committee Report norvegese (cfr. NOU, 1987).La circostanza che una persona sia prossima alla morte è ragione sufficiente perché la sua situazione venga posta in cima alle priorità; e ciò a prescindere dai livelli di costo – il che parrebbe ovvio – e soprattutto dal grado di efficacia dell’intervento.Come a dire che i trattamenti vanno praticati assumendo che tutti avranno il medesimo grado di efficacia, il che è manifestamente falso. L’applicazione nella pratica di tale metodica potrebbe condurre ad un ordinamento lessicografico tale che tutte le patologie della prima categoria avrebbero la precedenza su quelle della seconda categoria – il Rapporto Lonning individua cinque categorie -‐anche se la patologia che occupa il primo posto della seconda categoria potrebbe meritare più attenzione e dunque risultare prioritaria rispetto alla patologia che occupa l’ultimo posto della prima categoria. Più rassicurante mi sembra la via recentemente battuta da New e Le Grand (1996) costruita sul principio di pertinenza.Per afferrare di che si tratta, conviene partire dall’osservazione che i metodi sopra esaminati tendono a diffondere un certo scetticismo tra gli addetti ai lavori circa le possibilità di arrivare a definire un pacchetto di prestazioni sanitarie generalmente, se non totalmente, condiviso dalla cittadinanza.La ragione è, semplicemente, che poiché qualsiasi trattamento produce sempre un qualche effetto positivo su almeno qualcuno, pur risultando inefficace su molti più soggetti, e poiché la deontologia medica impone l’accoglimento del “principio dell’alleanza terapeutica” – in base al quale il medico svolge la funzione “simbolica” di garante della preservazione del diritto soggettivo all’assistenza – si ha che è praticamente impossibile arrivare a rendere esecutori pacchetti di prestazioni sul fondamento di quelle metodiche .Ciò spiega, in particolare, perché l’esperimento dello Stato dell’Oregon non abbia avuto il seguito congetturato – anzi, la Corte Suprema USA ne ha impedito la replicabilità altrove per questioni di principio. L’idea di base di New e Le Grand è, in buona sostanza, la seguente.Per un sistema sanitario a tutela pubblica sono pertinenti tutte quelle prestazioni sanitarie che, a causa delle loro caratteristiche congiuntamente considerate, non sarebbero erogabili per mezzo di normali transazioni di mercato. Le caratteristiche prese in considerazione sono quelle della necessarietà, dell’asimmetria informativa, dell’incertezza; ma è la loro combinazione che conferisce
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all’assistenza sanitaria lo statuto di una attività speciale non sottoponibile ai canoni regolativi dello scambio di mercato.[13]Per esemplificare, anche il cibo, al pari e forse più dei servizi sanitari, è necessario per la vita, ma per esso non valgono di certo le altre due caratteristiche; ed infatti nessuno proporrà mai qualcosa di simile ad un servizio nazionale dell’alimentazione.Del pari, anche il settore degli autoveicoli soffre di gravi asimmetrie informative ma – notano New e Le Grand – a nessuno verrebbe in mente di istituire una sorta di servizio nazionale degli autoveicoli.Ben altri sono gli strumenti alla portata dell’autorità pubblica per tutelare, in casi del genere, in modo adeguato i cittadini.Al tempo stesso, non tutte le prestazioni sanitarie sono afflitte dalle conseguenze di quelle tre caratteristiche con la stessa intensità.Ad esempio, l’assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti è bensì necessaria, ma non risulta turbata da fenomeni di asimmetria informativa oppure da elevati livelli di incertezza.Pertanto, essa non dovrebbe essere di pertinenza del servizio sanitario nazionale. E così via. Come si comprende, il pregio notevole di tale approccio è quello di prescindere totalmente dai giudizi sia di efficacia sia di efficienza nella individuazione del pacchetto delle prestazioni essenziali.D’altro canto, tali giudizi verrebbero utilizzati al secondo livello decisionale, quando cioè si trattasse di decidere la ripartizione delle risorse disponibili tra le prestazioni giudicate pertinenti.Può così accadere che il SSN decida di non erogare un farmaco contro il cancro perché non sene è (ancora) dimostrata l’efficacia, pur rientrando il trattamento anticancro nel pacchetto delle prestazioni pertinenti.Viceversa, interventi di chirurgia estetica pur risultando di grande efficacia e appropriatezza per persone, poniamo, di spettacolo, non rientrerebbero, in forza del ragionamento di cui sopra, nel pacchetto a carico del SSN.Vi sono però difficoltà nella implementazione di questa proposta – difficoltà di cui gli stessi autori proponenti dimostrano di essere ben consapevoli.Non penso, tuttavia, che si tratti di difficoltà particolarmente serie e comunque tali da far passare sotto silenzio un approccio che, invece, va accolto con critica simpatia. Vado a chiudere. Che sia impresa ardua quella di cercare di fissare priorità in campo sanitario lo si sa da sempre. Ma lo si deve fare – come abbiamo visto.Anche perché il non decidersi al riguardo svela una scelta: la scelta di lasciare che siano le circostanze del caso oppure i rapporti di potere locale a guidare le allocazioni in ambito sanitario.Quel che deve essere chiaro è che vana sarebbe la pretesa di arrivare ad un metodo, per così dire, ottimale e incontrovertibile e ciò per la semplice ragione che un tale metodo non esiste.Quel che invece si deve perseguire è l’obiettivo di giungere alla identificazione di una procedura che, da un lato, sappia incorporare i minima moralia della società civile di riferimento e, dall’altro, sia in grado di funzionare e soprattutto di migliorare emendandosi. Certo, arrivare, per via di consenso, a delle linee guida perfettibili anche se non perfette non potrà mai sostituire il dibattito filosofico tra le visioni in gioco e la mediazione politica tra i portatori di interessi diversi.Servirà, però, a fare uscire dalle secche di un certo economicismo la riflessione in corso nel nostro paese su come rendere sostenibile un welfare sanitario che intenda rimanere ancorato al principio dell’universalismo.Dico economicismo per riferirmi alla posizione di chi ritiene che sia sufficiente agire dalla sola sponda dell’efficienza, operando per via di razionalizzazioni e di schemi di incentivo di vario genere, per ottenere il risultato ora indicato.Trovo un riscontro autorevole a una tale linea di pensiero in un recente contributo di A.O. Hirschman (1997) laddove si legge: “Ciò di cui c’è realmente bisogno per compiere progressi riguardo ai problemi nuovi che una società incontra sul suo cammino è la capacità d’iniziativa politica, l’immaginazione, qui la pazienza, là l’impazienza e altre varietà ancora di ‘virtù’ e ‘fortuna’ “. (p. 305).
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5. Cosa possiamo attenderci dall’avvio rapido di un dibattito sulle priorità Quali risultati, già nel breve periodo, è ragionevole attendersi dall’avvio di una riflessione sistematica sul modo di arrivare ad un pacchetto di prestazioni sanitarie essenziali?Innanzitutto, e non sarebbe cosa di poco conto, quello di alzare un po’ il livello del dibattito sulla questione sanitaria.Vi è oggi, sul processo riformatore in sanità, un eccesso di opinioni e una scarsità di ragioni circa il modo di implementare quel “patto di solidarietà per la salute” di cui si parla con enfasi in diversi ambiti.Alla mole di opinioninon fanno riscontro giustificazioni accettabili.In generale, il bilancio delle opinioni non conclude mai molto:assai più efficace è portarsi sul terreno del confronto delle ragioni che sottendono determinate proposte.Come si sa, le trasformazioni degli assetti istituzionali seguono con un certo ritardo la presa di coscienza dei cittadini nei confronti dei problemi cui quelle trasformazioni dovrebbero dare risposta.E’ dunque indispensabile coinvolgere nel dibattito la società civile organizzata, cioè le formazioni sociali intermedie che già operano, con successi alterni, nel settore della sanità.Si rinuncia all’efficienza quando si disegna un assetto di governance che non utilizzi appieno quella risorsa straordinaria che è la responsabilità degli attori.E ciò sia perché la cura della salute è, oltre che un diritto, una responsabilità personale verso la vita[14], sia perché lo “star bene” delle persone dipende non solo dall’efficacia e dall’appropriatezza delle cure sanitarie, ma – come si è detto sopra -‐ anche dalla qualità delle relazioni interpersonali, cioè dal modo in cui viene soddisfatto il bisogno di relazionalità dei pazienti. Un secondo risultato importante sarebbe quello di preparare il terreno all’accoglimento non traumatico delle regole di priorità che venissero adottate per poter poi essere implementate in futuro.Chiaramente, peccherebbe di imprudenza (di mancanza di phrònesis del sapere pratico) chi pensasse di applicare, fin da subito, regole di razionamento che decretassero la cessazione di prestazioni sanitarie erogate fino a quel momento.La conflittualità sociale che ne conseguirebbe potrebbe vanificare ogni sforzo.Non così, invece, se venisse chiarito che quelle regole andrebbero ad applicarsi alle prestazioni future, non ancora erogate.Nessuno è in grado di prevedere, con accettabile approssimazione, come il progresso scientifico e tecnologico in medicina rivoluzionerài modi tradizionali di risposta alle varie patologie.Allora, definire oggi una procedura che identifichi le priorità sanitarie svolgerebbe una funzione analoga a quella svolta dalla celebre metafora rawlsiana del “velo di ignoranza”.Così come i costituenti di Rawls, protetti dal velo di ignoranza, arrivano a concordare, per via di calcolo razionale, su norme che configurano la giustizia come imparzialità (justice as fairness), allo stesso modo i cittadini di oggi, conoscendo le regole di accesso e i livelli di erogazione del loro sistema sanitario nazionale, avranno tutto il tempo e le opportunità per predisporre interventi e misure di carattere integrativo. Arrivo così ad un terzo risultato concreto che potrebbe essere conseguito in fretta.Solamente se i cittadini hanno la possibilità di conoscere quali sono i servizi sanitari differenziali in cambio dei quali si versano i premi o le quote associative, potrà prendere avvio un significativo sistema di mutualità sanitaria integrativa.Si badi, però, che la mutualità integrativa – o complementare, come taluno preferisce chiamarla – non può essere confusa né con quella sostitutiva (delle prestazioni già erogate dal SSN) né con quella aggiuntiva(che copre la differenza tra prezzo del servizio e quota garantita dal SSN; i servizi al contorno delle prestazioni pubbliche, come quelli alberghieri; e così via).Mentre queste ultime due forme di mutualità contraddicono, nei fatti, l’universalismo, quella integrativa realizza quello che abbiamo chiamato un universalismo sanitario a prestazioni essenziali.Inoltre, la mutualità sostitutiva e, in una certa misura, quella aggiuntiva riducono l’efficienza del sistema perché i rischi relativi alle prestazioni munite di doppia copertura assicurativa sono tra loro correlati.Non così invece con la mutualità integrativa.
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Certo, non pochi sono i problemi, di varia natura, da quelliteorici a quelli pratici, che occorre risolvere per lanciare un robusto settore di mutue sanitarie (a base territoriale).[15]Tra iproblemi di ordine pratico segnalo quelli che concernonolagestione finanziaria. A tutt’oggi, l’assenza di disposizioni di legge circa le garanzie patrimoniali adeguate nei confronti degl iaventi diritto alle prestazioni costringe le mutue e i fondi ad agire secondo una logica di breve periodo. La conseguenza è che l’equilibrio finanziario viene perseguitosu base annua attraverso il ricalcolo dei premi su dati storici. Quanto ciò provochi maggiori costi e riduca la qualitàdeiservizioffertiè cosafacilmenteimmaginabile. Non solo, ma la gestione diretta da parte delle mutuestornal’attenzionediqueste dal loro obiettivo primario che è quello della aggregazione della domanda. Ma non si può non vedere nella mutualità integrativa l’occasione più immediata e seria di mettere al lavoro la società civile.Se si crede alla società civile come luogo delle solidarietà concrete e come presupposto del pluralismo sociale non si può impedire che, in un ambito così delicato della vita associata come è la sanità, abbia luogo una fioritura di quelle espressioni tipiche dell’economia civile che sono le mutue sanitarie integrative. In uno studio empirico recente, A. Castelli e A. Culyer (“Rationing health care in Europe”, Dept. of Economics, Univ.of York, 2003) hanno svolto un’indagine campionaria su cittadini inglesi per registrare il loro punto di vista a proposito del razionamento dei servizi sanitari. Contrariamente alle aspettative, i risultati evidenziano un atteggiamento largamente favorevole nei confronti della fissazione di criteri di razionamento espliciti. La diversità di vedute si manifesta a proposito dei soggetti cui demandare il compito di procedere al razionamento e a proposito deigiudizi di valore da porre alla base di tale procedura. 6. Il ruolo delle organizazioni della società civile. Quantoprecedeci permette di capire perché si ha necessità di OSC che operano in modo da autonomizzare la domanda, facendo sì che sia quest’ultima a dirigere l’offerta. Come è noto, caratteristicaprecipua di una OSC è quella di appartenere ad una pluralità di stakeholders, cioè di portatori di interessi, quanto a dire che i proprietari di una OSC non sono solamente coloro che investono in essa per trarne un vantaggio in termini di rendimento sul capitale investito. La funzione obiettivo di una OSC è piuttosto quello di servire, in qualche modo specifico, la comunità in cui opera mediante la produzione di esternalità sociali e la salvaguardia delle ragioni dell’equità. (Tecnicamente, una esternalità viene a crearsi tutte le volte in cui le azioni di un soggetto hanno un impatto – positivo o negativo – sul benessere di altri soggetti, un impatto che non risulta mediato o regolato dal sistema dei prezzi. D’altro canto, un’esternalità è sociale, o collettiva, quando concerne la comunità nel suo insieme). La salute pubblica è un esempio tipico di esternalità sociale, così come lo è la coesione sociale oppure lo sviluppo locale. In presenza di esternalità sociali, i benefici complessivi generati dall’attività di un soggetto di offerta non sono solamente quelli attribuibili all’output ottenuto, ma anche quelli collegati al modo – cioè al tipo di processo – in cui quell’output è stato ottenuto e soprattutto al sistema motivazionale che anima coloro che promuovonoquella certa attività. Ne consegue che l’esistenza di esternalità positiva, mentre scoraggia l’impresa for profit dall’accrescere mil proprio investimento, rappresenta la missione stessa della OSC, la ragione cioè per la quale i membri di quest’ultima si uniscono per dare vita ad una attività economica. Si badi che, con ciò, non si vuol affatto significare che l’impresa for profit non sia interessata a prendere in considerazione le esternalità sociali oppure che non sia contenta di produrle. Si vuol semplicemente affermare che l’obiettivo della massimizzazione del profitto ( o di un qualche altro indicatore di profittabilità) non consente all’impresa for profit di “attribuire” un qualche peso a tali esternalità all’interno del proprio processo decisionale, anche se resta vero che altri
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soggetti (ad esempio, un ente locale oppure un’associazione di consumatori) potrebbero indurre o costringere l’impresa for profit a ciò. Ciò precisato, sorge spontanea la domanda: quali ragioni di ordine economico parlano a favore delle OSC come soggetti erogatori di prestazioni sanitarie? La risposta che oggi viene avanzata dai più è quella che si appoggia sulla teoria del vantaggio comparato, una teoria in base alla quale hanno titolo a fornire prestazioni sanitarie quelle imprese – non importa se pubbliche, se private o se non profit – che dimostrano di risultare più efficienti. Si badi che tale posizione teorica è stata ed è talmente influente e pervasiva da aver ispirato o, quanto meno, influenzato lo stesso trattatodi Amsterdam, quello che ha dato il via al processo di unificazione europea. Come è noto, questo trattato prevede che, eccetto che per le prestazioni che hanno diretta attinenza con la salute pubblica (come ad esempio la prevenzione di epidemie), anche al settore sanitario vadano applicate le regole della competizione. Concretamente, questo significa che, tra breve, le ASL dovranno seguire le medesime regole che già oggi gli enti locali devono rispettare quando decidono di affidare all’esterno l’erogazione di determinati servizi. Dovranno cioè procedere alla cosiddetta valutazione comparativa: il servizio verrà affidato a quegli erogatori che, ferma restando la qualità, assicurano il costo più basso. Quanto a dire che quelle strutture che si dimostreranno incapaci di reggere alla valutazione comparativa verranno, prima o poi, spazzate via dal vento della competizione. Occorre tener presente che l’intensità con cui soffierà questo vento sarà particolarmente elevata quando, nel prossimo futuro, troveranno applicazione i principi sanciti nel GATS (General Agreement on Trade in Services) siglato nel 19094. Uno di tali principi è quello del “trattamento nazionale”: aziende straniere che siano presenti nel mercato di un dato paese devono beneficiare di un trattamento favorevole almeno quanto quello che godono le aziende nazionali che operano nel medesimo mercato. Come si comprende, il GATS, implicando un impegno a liberalizzare servizi attraverso negoziazioni periodiche, avrà effetti, anche rilevanti, sul commercio internazionale di servizi sanitari. Si pensi ai servizi di telemedicina e di diagnostica tra paesi diversi; ai servizi sanitari offerti da aziende straniere o da multinazionali; al consumo all’estero; e così via. Quale il senso di quanto precede ai fini del presente discorso? Quello di suggerire una ragione cogente dell’incapacità delle ONP a reggere il confronto competitivo con le imprese for profit. L’argomento è, basicamente, quello sviluppato da H. Hansmann (“Economic Theories of non profit organizations”, in Anheir H.K. e Siebel W. (a cura di), The Third Sector: Comparative Studies of Non Profit Organizations, New York, De Grujter, 1990) con riferimento al settore bancario e assicurativo negli USA. Per quali ragioni – si chiede Hansmann – tale settore ha conosciuto in anni recenti una marcata transizione della forma non profit a quella for profit, in concomitanza ai massicci interventi regolamentativi del governo? La risposta è che l’introduzione di sofisticate forme di regolazione da parte governativa ha reso vana la forma non profit ai fini della prevenzione di abusi a carico dei clienti da parte di banche e assicurazioni. Non si dimentichi, infatti, che la forma di impresa non profit, in quanto elimina l’incentivo ad agire opportunisticamente per fare profitti sfruttando le asimmetrie informative, agisce come segnale di fiducia nei confronti dei clienti. Ma nel momento in cui le innovazioni tecnologiche, da un lato, e un’oculata vigilanza del governo, dall’altro, impediscono di fatto all’impresa for profit di sfruttare a proprio favore il vantaggio informativo, in quello stesso momento la forma non profit viene a perdere il suo specifico vantaggio comparato e dunque la sua legittimazione economica. Questo argomento spiegherebbe – secondo Hansmann e molti altri autori (ad es. J. Forder et Al., “Competition in the English Mixed Economy”, Journal of Social Policy, 25, 1996) – la massiccia recente penetrazione di imprese for profit in ambiti, come quello sanitario, tradizionalmente considerati terreno di conquista delle OSC. Addirittura, autori come J. Kendall (“The third sector
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and social care for older people in England”, Civil Society WP8, London School of Economics, 2000) arrivano a sostenere che, a causa dei ben noti effetti di reputazione e delle pressioni esercitate dalle associazioni dei consumatori, sempre più informate e agguerrite, l’impresa for profit sarebbe indotta ad operare in modo non opportunistico – anche se vorrebbe farlo – e dunque a fare complessivamente dell’impresa non profit. Non è difficile cogliere le implicazioni pratiche di conclusioni del genere. Non solamente non risulterebbero più giustificate forme di sostegno pubblico, di tipo fiscale o di regime civilistico, alle OSC, ma neppure potrebbero essere accolte forme di sussidio permanente a questo tipo di organizzazioni. La logica della competizione, in altri termini, impone che i medesimi contratti devono essere siglati con i soggetti che operano nel settore sanitario, siano essi imprese non profit oppure imprese for profit. Sembra questa, ormai, la nuova articolazione cui si è oggi giunti dopo che da parecchi anni si era andati dicendo (e scrivendo) che la terapia del vantaggio comparato individuava nella esistenza in sanità di farti asimmetrie informative e di rilevanti esternalità sociali, la causa della superiore efficienza della forma non profit rispetto a quella for profit. Come si è giunti a questa sorte di svolta ad U? Per duplice ordine di corcostanze, le une di natura teorica, le altre di ordine pratico. Consideriamo, in breve, le prime. E’ bensì vero che nell’ambito delle prestazioni sanitarie sono presenti fenomeni sia di asimmetria informativa sia di esternalità sociali. Ma questi non sono né gli unici rilevanti né i più importanti. Invero, le prestazioni sanitarie sono tipicamente servizi alla persona, servizi che includono una fondamentale dimensione relazionale che non può certo essere catturato dall’approccio del vantaggio comparato, il quale non è affatto attrezzato a trattare di beni relazionali. Come la più recente letteratura economica sui beni relazionali ci informa, ben altri, rispetto a quelli usualmente applicati nei confronti di efficienza, sono gli strumenti che devono essere impiegati per tener conto della dimensione relazionale. E' dunque chiaro che se nel calcolo del vantaggio comparato tra forme diverse di impresa si eliminano, a priori, tra gli attributi rilevanti per il confronto, quelli che definiscono le c.d. medicina di relazione, la forma di impresa non profit, che è naturalmente portata ad esaltare la dimensione relazionale, risulta in partenza svantaggiata. Ma v'è di più. Gli standard di qualità in sanità sono un "moving target", non qualcosa che può essere definito ad intervalli più o meno regolari di tempo. Ne deriva che anche il più illuminato e razionale degli schemi di regolazione ad opera del controllore pubblico non potrà mai "stare dietro" ad una realtà in costante evoluzione come è quella che contraddistingue il settore sanitario. Eppure la tecnica di analisi con cui si regge l'approccio del vantaggio comparato si avvale di un metodo essenzialmente statico, incapace di per sé di dare conto del fatto che la malattia non è semplice accidente patologico, ma appartiene ad un percorso esistenziale segnato da una pluralità di eventi. Di nuovo, nella misura in cui la dimensione biografica del paziente non viene meno in considerazione a favore della sola dimensione bilogica, è evidente che l'ONP venga, coeteris paribus, danneggiato a vantaggio di quella for profit. Una conferma parziale, ma di grande significato, di quanto qui detto ci viene dalla recente indagine empirica di B.A. Weisbrod, il quale ha mostrato come, negli USA, le case di cura per anziani e disabili gestito da OSC, espressione delle varie Chiese, trattino i loro ospiti "in modo più umano" delle analoghe forme for profit. In particolare, Weisbrod ha posto in evidenza che gli ospedali non profit una volta trasformati in strutture for profit cessano di fornire servizi quali i "community advice" e di destinare risorse alla ricerca per le "malattie orfane" -‐ attività queste che non sono certamente funzionali all'obiettivo del profitto. (Cfr. "Institutional form and organizational behaviour", in Powell W. E Clemens E. (a cura di), Private action and the public good, New Haven, Yale University Press, 1998).
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Il secondo insieme di circostanze cui sopra alludevo ha a che vedere con il fatto che, per ragioni varie che qui non posso portare alla luce, gran parte delle OSC operanti in ambito sanitario non sono state in grado di dimostrare, in tempi recenti, il loro specifico valore aggiunto nel modo di erogazione dei servizi forniti. Generalizzando un istante, ciò accade tutte le volte in cui una OSC "sceglie" la strategia dell'isomorfismo, vale a dire sceglie di diventare simile all'impresa rivale for profit, concentrando tutti i propri sforzi sull'obiettivo dell'efficienza e dunque accogliendo, al proprio interno, quegli schemi organizzativi e manageriali che sono tipici dell'impresa for prfit. In altro modo, quando una OSC cessa di mostrare con i fatti di essere in grado di tradurre in pratica una specifica concezione di qualità sociale -‐ capace di tener conto e del processo e del prodotto -‐ si ha che solamente quegli attributi di qualità che possono essere assicurati anche da un'impresa for profit vengano riconosciuti come meritevoli di attenzione dall'ente pubblico e pertanto da questi regolamentati. Ed è allora ovvio che, così riduttivamente interpretata, la qualità sociale cessi di essere un tratto caratterizzante l'azione di una OSC, la quale non potrà poi pretendere o reclamare per sé "eccezioni" di sorta. Per dirla in maniera più esplicita, una volta che la qualità sociale sia stata ridotta al rango di ciò che è quantificabile sulla scorta dei familiari metodi di rilevazione statistica, è chiaro che si giunga a scoprire che, rispetto a questa nozione di qualità, le OSC non possa "fare meglio" dell'impresa for profit. Con il che la complessa problematica del c.d. welfare mix in sanità si riduce alla questione, bensì importante ma non certo unico, riguardante la tipologia di contratti che le autorità pubbliche devono siglare con i vari soggetti di offerta, quale che sia la loro natura specifica. In tal modo, il grosso tema del pluralismo nella sanità viene ridotto alla vecchia e obsoleta alternativa fra stato e mercato: tra più stato e meno mercato oppure il viceversa. Il ruolo propulsivo e creativo della società civile, organizzata, come soggetto generatoredi "capitale sociale", viene così svuotato di significato o tutt'alpiù visto come mero supporto funzionale al mercato. Per concludere. Il problema non è affatto quello -‐ come taluno ha interessare a far credere -‐ di eliminare la categoria di competizione in un ambito come quello sanitario. Piuttosto, il problema è quello di arricchire tale categoria per farvi si che soggetti di offerta portatori di specifiche abilità -‐ come quelle che sono richieste per dare risalto ad una concezione piena di qualità sociale -‐ possano gareggiare alla pari con soggetti di offerta portatori di altra abilità lasciando che siano i cittadini-‐consumatori dei servizi sanitari a decidere quanta rilevanza deve avere, cioè quanto spazio economico deve occupare l'un tipo o l'altro di soggetto di offerta. In buona sostanza, chi ha a cuore le ragioni della libertà non può accettare che si preselezionismo i soggetti chiamatia competere nel settore sanitario sulla base di un criterio, quale quello dell'efficienza economica, che non può tener conto, per sua natura, di attributi quali quello della qualità sociale o della produzione di esternalità collettive; attributi -‐ si badi bene -‐ che i cittadini dichiarano di apprezzare ma anche di essere disposti a battersi per averli realizzati. Continuare a non cogliere il punto significherebbe cadere vittime della trappola culturale dell'economicismo. 7. Un’annotazione finale L’argomento sviluppato in questo scritto ha un fine ultimo, quello di mostrare che il governo di un sistema complesso come è il sistema sanitario non può essere messo in opera restando all’interno della tradizionale contrapposizione tra una visione statalista ed una liberista dell’ordine politico-‐economico.Secondo tale concezione, controllo statuale e meccanismo di mercato vengono visti come alternative antitetiche per il disegno di un sistema sanitario.Eppure, è cosa ormai nota che né l’istituzione stato né l’istituzione mercato sono in grado, da sole, di
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risolvere conflitti fondamentali e, in particolare, di sciogliere in modo accettabile quelle “scelte tragiche” che si presentano in sanità in modo sistematico e non occasionale. Rispetto a tale concettualizzazione dicotomica – invero, alquanto obsoleta – giudico più promettente la via di un rapporto cooperativo tra dimensione pubblica e privata secondo cui lo stato assume, da un lato, la funzione di stimolatore dell’evoluzione di assetti organizzativi chiamati ad annullare le sacche di inefficienza endemicamente presenti in sanità e, dall’altro, la funzione di regolatore, cioè di ordinatore che agisce in modo promozionale della società civile per scongiurare i rischi del privatismo sanitario. (Sarebbe questo un antagonista serio di quella coesione sociale che è stata ed è l’elemento centrale del processo di sviluppo italiano).Al tempo stesso, al mercato, che deve articolarsi nelle forme diverse ma complementari dell’economia privata e dell’economia civile,[16] spetta il duplice compito di fornire le risorse aggiuntive rispetto a quelle raccolte con la fiscalità generale per rendere sostenibile un welfare sanitario di tipo universalistico, e di contrastare le tentazioni ricorrenti di dirigismo economico e politico mostrando, con i fatti, come si possa arrivare ad esiti socialmente ottimali in sanità. Quanto sopra rinvia alla nozione di “ stato limitato” -‐ come mi piace chiamarlo.Lo stato limitato si contrappone sia allo “stato minimo” – nozione cara al pensiero liberal-‐individualista secondo cui lo stato deve garantire poche cose: le leggi, l’ordine pubblico, la moneta, la difesa – sia allo “stato assistenziale” che decide paternalisticamente e fornisce direttamente ciò che è bene per i cittadini.Lo stato limitato, invece,è uno stato che interviene, magari in maniera forte, ma in certi ambiti e non in altri, mentre riconosce – ma non autorizza, né concede -‐la più ampia autonomia al libero articolarsi della società civile.Scriveva Lord Beveridge nel suo celebre L’azione volontaria: “La formazione di unabuona società dipende non dallo stato, ma dai cittadini, che agiscono individualmente o in libere associazioni … La felicità o l’infelicità della società in cui viviamo dipende da noi stessi quali cittadini, non dallo strumento del potere politico che noi chiamiamo stato. Lo stato deve incoraggiare l’azione volontaria di ogni specie per il progresso sociale”.E’ questa, in fondo, l’idea di uno stato sociale sussidiario, uno stato cioè che promuove e incentiva tutte quelle forme di azione collettiva che hanno effetti pubblici, come appunto accade in campo sanitario.
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mediante una cura rara e costosa, come la dialisi cronica, solo i soggetti che dimostravano di possedere qualità come il decoro e il senso di responsabilità. Una qualsiasi una incarcerazione vicenda di devianza sociale, per esempio, qualsiasi indizio del fatto che la vita matrimoniale non era immacolata e priva di scandali costituivano altrettanti gravi controindicazioni ai fini della selezione”. [9] Sulle tecniche impiegate per giungere a misurare i qaly per le varie patologie e sui metodi di costruzione di una tavola dei qaly, si può vedere G. Mooney, op. cit., 1994. [10] Già nel 1987, in Oregon fece scalpore la vicenda di Jacoby Howard, un bimbo di 11 anni morto di leucemia perché i genitori non trovarono in tempo i 100.000 dollari necessari per il trapianto di midollo. Se Jacoby si fosse ammalato un anno prima, il trapianto sarebbe stato effettuato a spese dello Stato. Il parlamento dello Stato dell’Oregon, posto di fronte al dilemma se, con le risorse a disposizione, fosse stato più opportuno estendere le cure primarie a 1.500 persone(soprattutto bambini) che ne erano prive o continuare a finanziare i trapianti di organi per venti persone circa all’anno, aveva optato, nel 1986, per la prima alternativa, proprio applicando la metodologia dei qaly. [11] J. Broome, “Qalys”, Journal of Public Economics, 50, 1993, pp. 149-‐167 – che si dichiara, tutto sommato, a favore dell’approccio in questione – sostiene che il metodo del tempo seguito per giungere a pesare la qualità della vita è compatibile con le preferenze individuali solo se gli anni di vita non vengono scontati. D’altronde, il metodo probabilistico risulta compatibile sempre con le preferenze individuali solo se i soggetti sono neutrali al rischio. Ma M.Johannensson, “Qalys: a comment”, in Journal of Public Economics, 56, 1995, pp. 327-‐8, mostra che, sotto specifiche condizioni, così non è. [12] Adesempio, I. Kamm, Morality and mortality, vol. I, Oxford University Press, Oxford, 1993sostiene che il bisogno varia direttamente con l’età: stiamo peggio se moriamo all’età n che non se moriamo all’età (n + 1). Se il criterio è quello di aiutare chi sta peggio, il razionamento da realizzare allora è quello per età. [13] Si può notare che è proprio la contemporanea presenza di tutte e tre queste caratteristiche a determinare l’esistenza, in sanità, di così tanti trade-‐off quali non si riscontrano in alcun altro settore.P. Diamond, “Rationing medical care: an economist’s perspective”, Economics and Philosophy, 14, 1998, pp. 1-‐26, osserva come i fenomeni di incoerenza temporale delle preferenze dei soggetti possono avere conseguenze particolarmente catastrofiche nel caso della sanità. Che non decida, oggi, di acquistare il biglietto per una partita di baseball di domani, quando le mie preferenze potranno divergere da quelle odierne, è questione di poco conto. Ma se non decido, oggi, di assicurarmi per avere assistenza sanitaria in futuro, ciò può causare danni assai gravi sia per il livello della spesa sia per l’incertezza sulle condizioni di vita. E’ anche per questo che la copertura sanitaria rientra nella categoria dei grandi rischi, rispetto ai quali i mercati assicurativi, notoriamente, non funzionano bene. [14] Secondo la ben nota definizione del 1947dcll’OMS, la salute è “uno stato di completo ben essere fisico, mentale e sociale”.Una definizione, questa, che dice, ad un tempo, troppo – il completo ben essere è vera e propria utopia – e troppo poco,perché trascurala responsabilità del singolo a porre in essere comportamenti volti a prevenire o riparare danni alla salute. [15] M. Gouveia, “Majority rule and the public provision of a private good”, Public Choice, 93, 1997, pp. 221-‐44, è forse il primo modello teorico che dimostra l’esistenza, sotto la regola di maggioranza, di une quilibrio politico per la fornitura di servizi sanitari in cui l’offerta privata è integrativa di quella pubblica. [16] Ho sviluppato il nesso tra società civile ed economia civile nel saggio L. Bruni,S. Zamagni, “Economia civile, Il Mulino, Bologna, 2004.
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MARKUS HENGSTSCHLÄGER IL PRODOTTO FARMACEUTICO COME MEDICINA, COME PRODOTTO COMMERCIALE E COME BENE DI CONSUMO INTRODUZIONE Guarire i malati è l’obbiettivo principale di ricercatori, medici e infermieri. Uno degli approcci più efficaci per raggiungere tale obbiettivo è rappresentato dall’uso di prodotti farmaceutici. I farmaci sono estremamente importanti in quanto mettono a disposizione dei consumatori una miriade di trattamenti e cure. Per milioni di persone essi rappresentano la possibilità di aumentare la speranza di vita e migliorarne la qualità. La valorizzazione dell’industria farmaceutica attiva nel settore della ricerca e sviluppo di nuovi farmaci è pertanto fondamentale e imprescindibile. D’altra parte la varietà di questi prodotti è straordinariamente ampia. Prodotti farmaceutici -‐ farmaci da prescrizione e non, medicazioni e terapie -‐ antibiotici -‐ farmaci antivirali e antitumorali -‐ farmaci analgesici e antinfiammatori -‐ prodotti cardiovascolari -‐ prodotti immunitari e antistaminici -‐ prodotti della ricerca cellulare per profilassi e terapia -‐ prodotti cosmetici, ad esempio prodotti per la cura della pelle e dei capelli. Vi trovano spazio una vasta gamma di farmaci da prescrizione e non, medicamenti, farmaci terapeutici, antibiotici di ultima generazione, antivirali e antitumorali, analgesici e antinfiammatori, prodotti cardiovascolari, immunitari e antistaminici, prodotti della ricerca cellulare più avanzata per farmaci profilattici e terapeutici, ma anche prodotti cosmetici come quelli per la cura della pelle e dei capelli. Ma qual è il confine tra i prodotti farmaceutici ad esclusivo uso dell’industria cosmetica e i prodotti realmente importanti per il trattamento di patologie umane? Chi stabilisce, e come, quali stati possono essere considerati patologici e quali no? Per chiarire la discussione, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha introdotto l’espressione “farmaci essenziali”. “I farmaci essenziali sono quei farmaci che rispondono alle esigenze sanitarie prioritarie della popolazione. Sono selezionati in relazione alla loro importanza per la salute pubblica, evidenza di efficacia e sicurezza e al rapporto comparativo costo-‐efficacia. I farmaci essenziali devono essere disponibili all’interno di un efficiente sistema sanitario in ogni momento e inquantità adeguate, nella forma di dosaggio appropriata, qualitativamente sicuri, con informazioni adatte e a un prezzo accessibile ai singoli individui e alla comunità. Il concetto di farmaci essenziali deve essere flessibile e adattabile alle differenti situazioni; la determinazione dei farmaci come essenziali rimane a discrezione dei singoli stati”(Organizzazione Mondiale della Sanità, 2002). Anche la definizione di buona pratica di fabbricazione (GMP) nella produzione farmaceutica è di estrema importanza. I farmaci di scarsa qualità, per esempio quelli contenenti sostanze tossiche aggiunte non intenzionalmente, rappresentano non solo un grave pericolo per la salute, ma anche
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uno spreco di risorse economiche sia per i governi che per i singoli consumatori. E’ di fondamentale importanza che tutti i paesi accettino di importare e vendere esclusivamente prodotti farmaceutici realizzati in base alle norme di buona pratica di fabbricazione internazionalmente riconosciute (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2002). In questa sede saranno messi a confronto e discussi i diversi punti di vista sulle modalità d’uso dei prodotti farmaceutici, con particolare attenzione alle caratteristiche delle indicazioni mediche per l’uso di tali prodotti e agli interessi commerciali dell’industria farmaceutica. Organizzazione Mondiale della Sanità, criteri per la definizione dei farmaci essenziali -‐ soddisfare i bisogni sanitari prioritari -‐ rilevanza per la salute pubblica -‐ evidenza sull’efficacia e la sicurezza -‐ rapporto costo-‐efficacia -‐ disponibilità: in qualsiasi momento, quantità adeguate, forme di dosaggio appropriate -‐ qualità garantita -‐ informazioni adeguate -‐ prezzo ragionevole IL PROCESSO DI SCOPERTA E SVILUPPO DI UN NUOVO FARMACO Una discussione obbiettiva sugli argomenti suddetti deve partire dal riconoscimento degli straordinari sforzi economici che compiono le industrie farmaceutiche per sviluppare un nuovo farmaco. Alcune note industrie farmaceutiche investono nella ricerca somme che raggiungono i 30 miliardi di dollari per anno. Si calcola che lo sviluppo di un farmaco, a partire dalla ricerca di laboratorio fino alla commercializzazione, costi approssimativamente 500 milioni di dollari. Di questi, circa il 70% viene speso per prodotti che falliscono durante la fase pre-‐clinica della ricerca e il tempo medio per lo sviluppo di un farmaco viene calcolato intorno ai 15 anni (Robbins-‐Roth, 2000; Furness e Pollock, 2001; Rohmann et al., 2002). Inizialmente la ricerca viene effettuata nei laboratori al fine di identificare gli obbiettivi, agenti patologici di malattie specifiche che il nuovo farmaco dovrà contrastare. Speranza di ricercatori e pazienti è che le sostanze che interagiscono con questi obbiettivi siano in grado di modificare lo sviluppo della patologia. Progetti di ricerca di questo tipo durano dai due ai dieci anni e producono sostanze farmacologiche che verranno testate nella fase successiva, quella clinica. Nelle sperimentazioni cliniche di fase I, II e III la domanda alla quale si deve dare una risposta è se realmente è stato sviluppato un nuovo farmaco che risponde a necessità sanitarie ancora insoddisfatte attraverso una maggiore efficacia, una tossicità ridotta e una minore probabilità di eventi avversi (vedi Figura 1. , ripresa e modificata da Furness e Pollock, 2001). Ma perchè si investono così tante risorse? Le ricadute vantaggiose per l’industria farmaceutica appaiono evidenti dalle statistiche che mostrano come negli Stati Uniti d’America, in media, un farmaco da prescrizione frutta circa 1.5 milioni di dollari al giorno (Getz and De Bruin, 2000). LA RICERCA SU E CON PRODOTTI FARMACEUTICI Da quanto detto finora, emerge un importante aspetto etico. Cosa succede se la stima di prevalenza di una patologia è bassa? Ovviamente i benefici per l’industria farmaceutica che sviluppa un farmaco per la cura di tale patologia risulteranno essere molto inferiori rispetto a patologie più comuni. D’altra parte gli sforzi messi in atto per scoprire e sviluppare un farmaco
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sono gli stessi indipendentemente dalla prevalenza della malattia. In altre parole, l’industria farmaceutica investe per lo sviluppo di farmaci contro le patologie più comuni, mentre la ricerca relativa alle cosiddette patologie orfane è alquanto carente. Una malattia orfana è una condizione patologica che non interessa all’industria in quanto la produzione e la commercializzazione di nuovi farmaci per la prevenzione o la cura di tipo di malattie produce scarse ricadute economiche per il settore privato. Secondo i criteri adottati dagli USA, una malattia orfana è una malattia che colpisce meno di 200.000 persone. Esistono più di 5000 patologie che rispondono a questo criterio. Una malattia orfana può anche essere una malattia comune, ma ignorata (come la tubercolosi, il colera, la malaria), in quanto molto più diffusa nei paesi in via di sviluppo rispetto al mondo sviluppato. Negli ultimi venti anni Stati Uniti, Giappone, Australia e Unione Europea hanno prodotto una legislazione specifica sui farmaci orfani che prevede esclusività commerciale e incentivi fiscali per la ricerca e le sperimentazioni cliniche su prodotti farmaceutici destinati alla cura di malattie rare, comprese le malattie tropicali e altre patologie prevalenti nei paesi in via di sviluppo (Robbins-‐Roth, 2000). Bisogna sottolineare che continuare su questa strada rappresenta una sfida molto importante per la politica, la società e la ricerca farmacologica. Data l’ingente quantità di risorse necessarie non sorprende che un numero sempre crescente di progetti di ricerca e sperimentazioni cliniche, a tutti i livelli di produzione di un farmaco, sia finanziato dall’industria farmaceutica. Ciò comporta un problema etico fondamentale. Quale influenza hanno gli interessi dell’industria farmaceutica sui risultati ottenuti da questi progetti di ricerca e sperimentazioni cliniche? E’ importante notare che tale influenza può essere diretta, ma anche indiretta a seconda che gli studi siano realizzati all’interno delle strutture dell’industria o all’esterno da ricercatori, medici e consulenti pagati da una casa farmaceutica (Anis e Gagnon, 2000). Risultati sfavorevoli per l’industria che sponsorizza la ricerca possono creare rischi finanziari per la compagnia. Naturalmente nessuna compagnia è disposta a sprecare risorse economiche per dimostrare che uno dei suoi farmaci è clinicamente meno efficace, o ha un rapporto sfavorevole costo-‐efficacia o è meno sicuri di altri farmaci usati per la stessa patologia. Pressioni affinchè lo studio produca risultati positivi potrebbero essere causa di bias nel disegno, nei risultati e nella presentazione della ricerca sponsorizzata dall’industria (Bero e Rennie, 1996). Di conseguenza è di fondamentale importanza sapere se il finanziamento dello studio di un farmaco da parte dell’industria influenzi i risultati positivi per il finanziatore e se i metodi d’indagine usati nelle ricerche sponsorizzate dal settore privato differiscano da quelli usati in studi realizzati con altre fonti di finanziamento. Un’analisi sistematica dell’impatto dei conflitti economici nella ricerca biomedica ha dimostrato che gli studi finanziati dall’industria farmaceutica, sebbene rigorosi come altri studi, producono sempre risultati favorevoli per lo sponsor (Bekelman et al., 2003). Una recente ricerca su questo argomento ha provato che il fatto che la ricerca finanziata dalle compagnie farmaceutiche produca con maggiore probabilità risultati favorevoli al prodotto dello sponsor rispetto alla ricerca finanziata da altre fonti, non può essere spiegato con la qualità dei metodi usati nella ricerca finanziata dall’industria. Con più probabilità i risultati sono dovuti all’uso di comparatori inappropriati o a bias di pubblicazione (Lexchin et al., 2003). Recentemente alcune delle più importanti riviste di ricerca medica hanno introdotto una nuova politica in base alla quale chiedono agli autori di manoscritti, che riportano i risultati della ricerca di base e/o risultati di sperimentazioni cliniche relativi a specifiche sostanze farmaceutiche, di dichiarare ufficialmente eventuali legami con le case farmaceutiche o eventuali contributi da esse ricevuti. Sebbene questo rappresenti un importante passo nella giusta direzione, è lecito dubitare della sua efficacia nell’evitare l’ingerenza dell’industria.
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BREVETTO E FARMACI GENERICI Dal punto di vista dell’industria farmaceutica un farmaco che ha superato tutti i test è un vero e proprio prodotto commerciale. Lo sviluppo di nuovi prodotti farmaceutici è di estrema importanza per i consumatori in quanto mette a disposizione nuove strategie per il trattamento e la cura di un’ampia varietà di “vecchie e nuove” patologie. Come già detto, il processo di identificazione e sviluppo di un nuovo farmaco è estremamente costoso e rischioso. E’ pertanto nell’interesse dell’industria e dei pazienti adottare incentivi per lo sviluppo di nuovi farmaci. Sembra ovvio dunque che offrire incentivi appropriati per l’industria contribuisca a un rapido sviluppo delle conoscenze sulle patologie e a generare nuove strategie terapeutiche anche per il futuro. La possibilità di brevettare le nuove invenzioni rappresenta pertanto l’opportunità più interessante per l’industria dal punto di vista degli incentivi. Il brevetto fornisce i diritti di esclusiva per l’uso e lo sfruttamento commerciale di nuovi ritrovati farmacologici per un dato periodo di tempo. Dopo aver investito ingenti risorse economiche e temporali nel processo di scoperta e sviluppo di un nuovo farmaco, è ovvio che l’industria sia fortemente interessata alla sua commercializzazione. I diritti di esclusività per l’uso e lo sfruttamento dell’invenzione impediscono ad altri di usare commercialmente l’invenzione brevettata, il che naturalmente comporta una notevole riduzione della competizione e una maggiore affermazione dell’industria sul mercato. Il brevetto, in altre parole, rappresenta la motivazione maggiore per lo sviluppo di un prodotto in vista della sua immissione in commercio. D’altra parte se l’industria decidesse di non sfruttare il brevetto in sé, potrebbe sempre vendere il brevetto oppure cedere i diritti della commercializzazione ad un’altra industria. Oggigiorno, partners commerciali, investitori e azionisti guardano al portafoglio brevetti di un’azienda come indice dell’alto livello di competenze, specializzazione e capacità tecnologica di un’industria farmaceutica. E’ importante notare che questi criteri valgono anche per i laboratori di ricerca delle università statali. Il brevetto di nuove invenzioni nel campo delle scienze della vita hanno un ruolo ancora più importante per la buona immagine di un’istituto di ricerca. Alla stregua delle pubblicazioni su giornali internazionali “peer-‐reviewed”, il brevetto è considerato come importante indice di successo scientifico. Infine, ma non per importanza, anche per l’università possedere un brevetto può essere motivo di interesse commerciale (Robbins-‐Roth, 2000; Knoppers, 2001; Rohmann et al., 2002; Rohnke, 2002). Motivazioni per la richiesta del brevetto -‐ Diritti esclusivi di uso -‐ commercializzazione – ingenti ricadute economiche -‐ riduzione della competizione che porta ad una posizione più forte sul mercato -‐ vendita dell’invenzione ad un’altra industria Dal punto di vista etico la domanda più rilevante riguarda ciò che si può brevettare. Nell’ambito della biomedicina e dell’industria farmaceutica tale domanda si traduce nei dubbi sulla possibilità di brevettare la vita. E’ stato stabilito che mentre sono brevettabili i procedimenti utilizzati per ottenere ciò che in natura già esiste, non possono essere invece brevettati gli oggetti della scoperta. Questi infatti non rappresentano un’invenzione né, in quanto classe di oggetti, può essere attribuita a qualcuno la loro proprietà esclusiva. I più recenti sviluppi nella ricerca biomedica sollevano diverse questioni proprio su questo argomento. Stando a quanto appena detto, non possono essere brevettate parti di DNA, di geni, cellule staminali umane né naturalmente embrioni umani interi a qualsiasi stadio di sviluppo. Certamente, per quanto
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riguarda l’embrione, entrano in gioco molti altri aspetti specifici dell’essere umano (accanto al fatto della “esistenza naturale”) che chiaramente costituiscono una ulteriore motivazione contro il loro utilizzo a fini commerciali. Tuttavia brevetti su alcuni geni e cellule staminali sono già stati concessi. Allo stesso tempo, però, molti di questi sono stati ritirati. Ma cosa succede quando si ha a che fare con la vita organica artificialmente manipolata? E’ noto che sono stati approvati brevetti per topi transgenici portatori di geni umani. Per giustificare la richiesta di questi brevetti, è stato argomentato che questi animali non esistono in natura, ma rappresentano un “prodotto artificiale”. D’altra parte l’approccio di considerare gli organismi viventi manipolati geneticamente semplicemente come una ulteriore classe di invenzioni umane brevettabili con le stesse regole e criteri di qualsiasi altra invenzione, è naturalmente discutibile, in particolar modo se si considerano i possibili sviluppi futuri della terapia genica (Knoppers, 2001; Rohnke, 2002; Schneider, 2002; Mieth, 2002; Capurro, 2002). Cosa è brevettabile? NO: oggetti scoperti in natura SI: procedimenti per ricavare o analizzare oggetti naturali Come già accennato, tra i criteri stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per la definizione dei farmaci essenziali vi è la disponibilità del farmaco ad un prezzo sostenibile per il singolo cittadino e la comunità. Da un punto di vista commerciale lo sviluppo di farmaci da cui possono trarre beneficio solo pochi pazienti attira scarso interesse. Lo stesso vale per lo sviluppo di farmaci da cui possono trarre beneficio milioni di persone nei paesi in via di sviluppo, troppo poveri per pagare il nuovo farmaco. Ad esempio, mentre l’AIDS, la malaria e la tubercolosi colpiscono paesi che insieme costituiscono il 90% della popolazione mondiale, solo circa il 10% dei finanziamenti per la ricerca medica ha come obbiettivo queste patologie. Ciò ha aperto una discussione su un accordo che potrebbe permettere ai paesi poveri, che si trovino a fronteggiare a crisi umanitarie causate da malattie come l’AIDS e la malaria, di importare controverse versioni generiche di farmaci sotto brevetto. Un farmaco generico è sicuro, efficace ed equivalente a un farmaco di marca. Normalmente costa notevolmente meno di quest’ultimo. I farmaci generici devono rispondere agli stessi standard di qualità dei farmaci di marca e alla stessa stregua di questi sono prodotti per avere lo stesso effetto sulla salute. Spesso i farmaci generici diventano disponibili quando scade il brevetto del farmaco di marca. Secondo il Congressional Budget Office statunitense i farmaci generici permettono di risparmiare al dettaglio dagli 8 ai 10 miliardi di dollari all’anno. Miliardi di dollari si risparmiano comunque anche se i generici sono usati da strutture ospedaliere. I marchi farmaceutici che possiedono i brevetti si sono per lungo tempo schierati contro l’importazione dei fermaci generici, argomentando che gli ampi margini di profitto sono indispensabili per finanziare il processo di scoperta e sviluppo di nuovi prodotti farmacologici. Inoltre l’industria farmaceutica teme che tali farmaci possano essere inferiori a quelli di marca e invadere il mercato statunitense e quello europeo a prezzi bassi. Un esempio calzante a questo proposito è il dibattito sui farmaci contro l’AIDS. Il Brasile ha registrato versioni generiche di diversi farmaci anti AIDS e li produce per il fabbisogno interno e per altri paesi in via di sviluppo. Per rispondere alle pressioni provenienti da tutte le parti del mondo, le industrie farmaceutiche hanno acconsentito a vendere alcuni farmaci contro l’AIDS a prezzi estremamente ridotti per i paesi in via di sviluppo. Tuttavia, anche con tali sconti, il prezzo rimane molto più alto rispetto a quello delle versioni generiche limitando il numero dei malati di AIDS che potrebbe essere curato nei paesi poveri. Si possono ipotizzare, come soluzione a tale problema, due prezzi differenti per lo stesso prodotto farmaceutico, il più alto per i mercati degli Stati Uniti e dell’Europa per
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mantenere gli incentivi appropriati per l’industria farmaceutica, il più basso per il paesi in via di sviluppo? Questa possibilità dovrebbe essere accompagnata dalla proibizione, attraverso rigorose leggi internazionali, di ri-‐esportare di farmaci a basso costo dai paesi in via di sviluppo ai mercati occidentali (US Food and Drug Administration, 2004). QUAL E’ LO SCOPO DI UN PRODOTTO FARMACEUTICO? La scoperta e lo sviluppo di nuovi farmaci, insieme alla ricerca sui meccanismi molecolari delle malattie, offre nuove possibilità per la prevenzione e la terapia. Tuttavia molti farmaci sono potenzialmente soggetti ad abuso. Ne possono abusare persone per le quali questi stessi farmaci non rappresentano una terapia. Per esempio, Ritalin (metilfenidato) è un trattamento per soggetti (spesso bambini) affetti da iperattività o deficit di attenzione caratterizzati da comportamento agitato e incapacità di focalizzarsi su obbiettivi. Ritalin è anche occasionalmente prescritto per il trattamento della narcolessia. Ritalin è uno stimolante del sistema nervoso centrale con notevoli effetti calmanti su bambini iperattivi e con effetti che favoriscono la concentrazione in bambini con deficit di attenzione. Quando è assunto secondo la prescrizione, Ritalin risulta essere un farmaco valido e non produce dipendenza. A causa delle sue proprietà stimolanti è altresì ab-‐usato da soggetti che ne ricercano gli effetti collaterali: soppressione dell’appetito, insonnia, aumento della concentrazione ed euforia (National Institute on Drug Abuse, 2000; Hengstschläger, 2003;Spencer et al., 2004). Studi recenti hanno evidenziato il numero crescente di adolescenti e adulti che fanno uso di antidolorifici, come ad esempio i farmaci da prescrizione Vicodin e OxyContin. Entrambi sono oppiacei molto potenti contro il dolore, ma devono essere assunti sotto stretto controllo medico. Questi stessi farmaci, se assunti in maniera non appropriata possono portare a dipendenza in quanto agiscono negli stessi luoghi cerebrali dell’eroina. Il National Institute on Drug Abuse ha registrato un incremento nell’abuso di questi antidolorifici per ragioni non mediche (Volkow, 2004). Un’altra forma di abuso di prodotti farmaceutici molto nota è il doping sportivo. L’agenzia mondiale antidoping è una forma di collaborazione internazionale di organizzazioni e governi uniti nello sforzo di arrivare ad uno sport completamente libero dai farmaci. Il Codice Mondiale Antidoping del 2004 è stato elaborato da organizzazioni sportive prima dei Giochi Olimpici di Atene. Questo Codice dovrebbe garantire, per la prima volta, che i regolamenti antidoping siano gli stessi in tutti gli sport e in tutti i paesi (World Anti-‐Doping Agency, 2004). L’abuso di farmaci da prescrizione può causare seri danni tra cui anche la morte o l’overdose. LE NON-‐MALATTIE Molti vantaggi economici possono derivare da persone sane che credono di essere malate. Le industrie farmaceutiche sponsorizzano malattie e le promuovono presso chi prescrive i farmaci e presso i consumatori (Moynihan et al., 2002). Per espandere i mercati di nuovi prodotti farmaceutici sono emerse alleanze informali che hanno ampliato i confini delle malattie trattabili. La strategia di punta ha come obbiettivo le notizie veicolate dai media. Queste vengono alimentate con storie create ad hoc per generare paura su una condizione o una malattia e per attrarre l’attenzione sull’ultimo farmaco o ritrovato. La medicalizzazione della calvizie è un buon esempio di quanto appena detto. Ogni qual volta nuovi farmaci per la crescita dei capelli vengono approvati, sembra che questo processo naturale si trasformi in fenomeno medico. I risultati di un nuovo progetto di ricerca sono riportati asserendo che la perdita di capelli può portare a panico e ad altri problemi emotivi e può avere ricadute sulle prospettive lavorative e sul benessere
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mentale. Molto spesso, però, i mass media non dichiarano che tale ricerca è stata finanziata dall’industria farmaceutiche che vende un nuovo farmaco per la crescita dei capelli. Il “commercio di malattie”, una forma di medicalizzazione, può comprendere la trasformazione di disturbi ordinari in problemi medici, l’interpretazione di sintomi lievi come seri, trattare problemi personali come se fossero problemi medici, considerare semplici rischi come malattie e formulare stime di prevalenza per massimizzare il potenziale commerciale di un prodotto farmaceutico. Per fermare questo mercato di malattie è necessario definire ciò che non è una malattia, ma che potrebbe essere considerato tale a seconda di obbiettivi specifici. Per sottolineare questo aspetto è stato creato il termine “non-‐malattia”. Il British Medical Journal ha indetto una votazione per identificare le maggiori non-‐malattie con lo scopo di aprire un dibattito su cosa sia e cosa non sia una malattia e di attirare l’attenzione sulla crescente tendenza di classificare i problemi delle persone come malattie. Una “non-‐malattia” è stata definita come “un processo o problema umano che alcuni definiscono come condizione medica, ma la cui soluzione potrebbe essere più facilmente raggiunta se tale problema o processo non fosse definito in questo modo” (Smith, 2002). Le prime 20 non-‐malattie (Smith, 2002) 1 Invecchiamento 11 Parto 2 Lavoro 12 Allergia al 21o secolo 3 Noia 13 Jet lag 4 Borse sotto gli occhi 14 Infelicità
5 Ignoranza 15 Cellulite
6 Calvizie 16 Stato di confusione da abuso di alcohol
7 Lentiggini 17 Ansietà da dimensione/invidia del pene
8 Orecchie grandi 18 Gravidanza 9 Capelli grigi 19 “Furia da strada” 10 Bruttezza 20 Solitudine Tale immotivata medicalizzazione può indurre paure ingiustificate, può provocare sprechi economici e probabilmente distrae risorse economiche dal trattamento e prevenzione di patologie più serie. Nell’opinione di chi scrive, Moynihan e collaboratori (Moynihan et al., 2002) hanno riassunto un maniera ottimale ciò di cui si ha bisogno: Il pubblico ha diritto di conoscere il dibattito intorno alla definizione di malattia, l’auto-‐limitazione e il corso naturale relativamente benigno di molte condizioni. C’è urgente bisogno di un programma di “de-‐medicalizzazione” indipendente e finanziato con fondi pubblici, basato sul rispetto della dignità umana, piuttosto che sul valore delle quote di mercato o sull’arroganza professionale.
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WALTER. RICCIARDI LE POLITICHE SANITARIE E LA QUALITÀ DELLA VITA NELLE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI Tutti noi siamo perfettamente edotti sulla definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dagli anni ’50 guida le politiche sanitarie di tutti i Paesi del mondo. Forse meno universalmente conosciuta è quella più recente di “buona salute” e cioè “lo stato di benessere fisico e mentale necessario per vivere una vita piacevole, produttiva e densa di significato” che è ormai parte integrante del funzionamento delle moderne società occidentali, una pietra miliare nelle economie di successo ed un principio assolutamente condiviso in tutte le democrazie del pianeta. Le popolazioni delle democrazie occidentali vivono oggi nelle migliori condizioni di salute a memoria d’uomo, ciò non significa che questa situazione sia equamente distribuita, ma uno stato di buona salute per tutti è un obiettivo ancora lontano dalla realtà. Non solo, il differenziale tra coloro che sono in buona salute e quelli che invece hanno condizioni di salute scadenti sta continuamente aumentando. Godere di buona salute dipende oggi essenzialmente da dove si vive, da come ci si comporta, da quanto si guadagna. I poveri, gli esclusi e le minoranze sono gruppi particolarmente interessati da cattive condizioni di salute. Se guardiamo all’Unione Europea allargata a 25 paesi, le differenze sono rilevanti. L’aspettativa di vita per gli uomini varia dai 64 anni della Lettonia ai 78 della Svezia, l’incidenza del cancro del polmone varia del 500%, dai 21 casi per 100.000 della Svezia ai 102 per 100.000 dell’Ungheria, quello della tubercolosi del 1300 % dai 6.4 casi per 100.000 dell’Italia agli 86 per 100.000 della Lituania. I tassi di mortalità per cardiopatia ischemicanelle femmine variano da 29 casi per 100.000 in Francia ai 226 della Slovacchia, quelli per suicidio nei maschi da 4.9 casi per 100.000 in Grecia ai 44 dell’Ungheria. Per quanto riguarda più specificamente il nostro Paese, nel corso degli ultimi 40 anni l’Italia ha fatto segnare progressi importanti e, per molti versi positivamente sorprendenti: ad esempio, i guadagni di durata della vita tra il 1960 ed il 1998, pari all’11,5% per gli uomini e al 12,4% nelle donne, sono risultati superiori ai corrispondenti incrementi (10,7% e 11%) realizzati nel complesso dei 15 Paesi dell’Unione Europea. Gli uomini e le donne italiani sono oggi entrambi al quarto posto in Europa nella graduatoria per l’aspettativa di vitaalla nascita con quasi 82 anni per le donne e 75 per i maschi. L’Italia si trova in una posizione favorevole anche relativamente alla popolazione anziana, con una speranza di vita a 65 anni superiore alla media europea sia per gli uomini che per le donne. Gli indicatori tradizionali delineano dunque un quadro comparativo positivo per il nostro paese. Ma quanto di questi risultati è attribuibile alle performance del nostro Servizio Sanitario? E perché questi indicatori risultano così positivianche in confronto a Paesi i cui sistemi sanitari sono tradizionalmente riconosciuti come maggiormente efficaci ed efficienti, ad esempio quelli dei Paesi scandinavi o, più in generale, dei paesi anglo-sassoni? Come è noto, l’OMS nel Report sulla Salute del Mondo nell’anno 2000 ha pubblicato una classifica dei sistemi sanitari mondiali. In sintesi, la performance complessiva dei sistemi è stata valutata secondo un indicatore composito inclusivo della valutazione dei livelli e della distribuzione dei risultati sanitari, della capacità di risposta del sistema sanitario e del livello di equità del finanziamento. La performance aggregata è stata poi
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ponderata per i risultati che si sarebbero attesi in funzione del livello economico e dello sviluppo sociale del Paese. I risultati hanno deliziato alcuni paesi come la Francia, arrivata prima, e l’Italia seconda e fatto infuriare altri come il Brasile giunto 125°ed hanno scatenato un’animata discussione sui principi e sui metodi di questo tipo di valutazione. Nel 2001 il British Medical Journal ha addirittura dedicato un intero numero a questo dibattito da cui sono scaturite alcune interessanti considerazioni:
• la prima riguarda la definizione di sistema sanitario, nel World Health Report l’OMS considera vengano in essa incluse “tutte le attività il cui obiettivo primario sia quello di promuovere, recuperare e mantenere la salute”. Se questo approccio è sicuramente positivo, giacchè enfatizza l’importanza di un’azione intersettoriale nella promozione della salute, sfortunatamente rappresenta un notevole problema pratico poiché non è evidentemente possibile ritrovare la definizione “tutte le attività” in alcuno specifico capitolo di spesa dei bilanci pubblici di nessun paese al mondo. Conseguentemente quelli che vengono comparati sono inputs (cioè risorse umane, finanziarie, logistiche e tecnologiche) dei servizi sanitari nazionali, con risultati che provengono da attività ed interazioni dell’intero sistema produttivo e sociale;
• il secondo problema riguarda la ponderazione dei risultati di salute in funzione dei diversi tipi di attività svolti non solo nell’ambito dei servizi sanitari nazionali, ma nel più ampio contesto nazionale. Vi è ormai una crescente evidenza che guadagni di salute possano derivare oltre che da interventi sanitari, anche da politiche svolte in altri settori, ad esempio la sicurezza stradale o l’educazione scolastica. Ma vi sono ancora innumerevoli determinanti di salute. Ad esempio, nei paesi industrializzati la salute delle popolazioni riflette abitudini alimentari a volte secolari, instauratesi in funzione del clima e della tipologia di produzione agricola, così non è sorprendente che molti dei paesi “più sani” siano caratterizzati da una dieta mediterranea;
• un terzo problema è la disponibilità di dati: molti governi hanno soltanto una vaga idea di quanta gente viva nei propri territori, poiché i censimenti vengono svolti irregolarmente o non svolti affatto. Essenzialmente, non ci si possono inventare i dati dove questi non esistono e quindi ogni passo richiede spesso un elaborato set di stime ed estrapolazioni spesso eroiche, per non dire azzardate, cosa che è stata spesso necessaria nel World Health Report. Egualmente, vi sono problemi sostanziali sulla comparabilità dei dati anche quando questi esistano e sulla correlazione con altre misure, ad esempio quelle relative alla spesa sanitaria ed al livello economico-sociale delle popolazioni. Gli Autori del Report hanno riconosciuto questo problema e sono ricorsi ad un articolato set di procedure per affrontarlo, generando indicatori in funzione dell’aspettativa di vita corretta in funzione della disabilità, essa stessa una misura estremamente controversa, come hanno evidenziato Ellen Nolte e Martin McKee in un loro splendido lavoro su 19 dei circa 200 paesi presenti nella graduatoria dell’OMS.
E’ possibile così rilevare che se viene utilizzato un altro indicatore quale la mortalità evitabile, basato sul concetto che le morti da alcune cause non dovrebbero verificarsi in funzione di un’assistenza sanitaria tempestiva ed efficace indicativa di un sistema sanitario ben funzionante, le cose cambiano. Nessun paese mantiene infatti la stessa posizione in entrambe le graduatorie, e non è probabilmente un caso se le maggiori perdite si verificano in Paesi che attraversano grosse crisi di funzionamento dei propri sistemi sanitari come il Giappone (dal 1° al 13° posto), la Grecia (dal 7° al 12°), la Gran Bretagna (dal 10° al 18°), mentre i maggiori guadagni si hanno in Paesi rinomati per l’ottimo funzionamento dei propri sistemi: Norvegia (dall’11° al 2°), Canada (dal 9° al 4°), Finlandia dal 13° all’8°), Germania (dal 14° al 6°), Danimarca (dal 17° al 10°). In genere, per quanto concerne l’Europa, tutti i paesi nordici aumentano le proprie posizioni, mentre tutti quelli meridionali scendono in graduatoria (la Francia dal 3° al 5°, l’Italia dal 6° al 9°, la Spagna dal 5° al 7°).
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Tutto ciò ad ulteriore conferma che quando si prendano in considerazione indicatori più congruenti con le performance dei sistemi sanitari le graduatorie si modificano e che, se è vero che i progressi nell’assistenza sanitaria hanno contribuito alla diminuzione della mortalità, ad esempioper malattie cardio-vascolari, è egualmente chiaro che importanti differenze di mortalità sono determinati da fattori, quali quelli dietetici, comportamentali ed ambientali, largamente al di fuori dei servizi sanitari. La politica sanitaria era una volta articolata esclusivamente sul finanziamento e sull’erogazione di assistenza medica, ma se l’accesso universale ai servizi sanitari è chiaramente essenziale per prolungare la sopravvivenza e migliorare la prognosi di importanti malattie, molto più importante per la salute delle popolazioni sono le condizioni economiche e sociali che fanno ammalare le persone e le rendono bisognose di assistenza medica. Uno dei palcoscenici su cui negli ultimi 10 anni è stato possibile confermare questa ipotesi è stata l’Europa dell’Est ed in particolare la Germania prima e dopo l’unificazione. 15 anni fa, poco meno di un anno dopo la caduta del muro di Berlino, le due Germanie si sono riunite in un singolo Stato. In un decennio durante il quale l’Europa è stata caratterizzata da un’immensa transizione sociale e politica, l’esperienza della popolazione dell’ex Repubblica Democratica Tedesca è stata unica: le istituzioni e le politiche sviluppate in oltre 45 anni di governo comunista vennero infatti spazzate via quasi istantaneamente. Per quanto concerne la sanità, il trasferimento del modello assicurativo sociale della Germania Federale fu immediatamente esteso all’Est. Dal punto di vista degli indicatori, il periodo immediatamente successivo alla riunificazione fu caratterizzato da un aumento della mortalità all’Est, con un’aspettativa di vita che scese quasi di un anno per gli uomini e ciò essenzialmente a causa dell’aumento delle morti violente da omicidio e da traffico veicolare, conseguenti all’improvvisa disponibilità di veloci vetture occidentali, ma dal 1991 in poi l’aspettativa di vita alla nascita è cresciuta nell’ex Germania orientale più di ogni altro Paese europeo arrivando nel 1997 ad annullare ogni differenza tra le due Germanie. Quali sono i fattori che hanno determinato questo incredibile successo? Gli studi svolti indicano nella rapidissima modifica della dieta uno dei primissimi fattori, con l’improvvisa disponibilità sul mercato orientale di frutta, verdura ed oli vegetali prima impossibili da trovare. Un secondo determinante è il miglioramento nelle condizioni di vita, con standard abitativi, in particolare per gli anziani, assolutamente sconosciuti precedentemente. Un terzo è il sostanziale miglioramento della qualità dei servizi sanitari. Per esempio, il drammatico declino nella mortalità da tumori testicolari è stata attribuita ad un più ampio accesso ai farmaci più moderni e la sostanziale caduta della mortalità neonatale al miglioramento del trattamento per i neonati a basso peso. Ma un'altra costellazione di Paesi in cui è stato possibile confermare la correlazione intersettoriale con le condizioni di salute e la preponderanza di fattori esterni ai servizi sanitari neldeterminismo nella salute delle popolazioni è stata l’ex Unione Sovietica. Mentre infatti nell’ultimo ventennio del secolo scorso l’aspettativa di vita aumentava stabilmente in tutti i paesi ex-comunisti, quella delle Repubbliche sovietiche diminuiva sensibilmente. Nel 1990 la probabilità di morire prima dei 65 anni in Unione Sovietica era il doppio dell’Europa occidentale, l’aspettativa di vita degli uomini era di 64 anni – 9 anni in meno degli europei occidentali - e, benché in tutti i paesi industrializzati gli uomini vivano meno delle donne, questo gap in Russia era considerevolmente più ampio: 10 anni in meno. Molti fattori contribuiscono a questo differenziale, ma il più importante è sicuramente l’eccesso di mortalità nella fascia 35-44 anni a causa di infortuni, violenze e malattie cardio-vascolari. Nel 1997 la mortalità per tutte le cause esterneprima dei 65 anni era nelle ex-Repubbliche Sovietiche più alta del 500%. Per quanto concerne gli infortuni e le violenze, tutti i determinanti di mortalità sono spaventosamente più elevati che in occidente, con un differenziale relativamente basso per gli incidenti stradali (50% in
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più nei confronti dell’Europa dell’Ovest), rispetto al 350% in più dei suicidi ed al 1900% in più degli omicidi. Altre cause comuni di morte sono poi l’annegamento e le ustioni. Purtroppo, gli infortuni e le violenze hanno ricevuto relativamente scarsa attenzione dai policy-makersed in questi paesi mancano ancora molte delle normative alla base della sicurezza e della prevenzione nei luoghi di vita e di lavoro, già da tempo operative nei paesi occidentali, che si affiancano alla scarsa tempestività e qualità dei servizi sanitari che viceversa mostrano indicatori di struttura e di funzionamento assolutamente comparabili a quelli occidentali. Un contributo cruciale all’elevato livello di infortuni e di omicidi nell’ex-Unione Sovietica è l’enorme consumo di alcool. In Russia, il numero di morti per cause esterne riflette il numero di morti per intossicazione alcolica, sia geograficamente che cronologicamente. Molti uomini suicidi mostrano segni di intossicazione e la responsabilità dell’alcolismo in almeno una delle parti coinvolte in un omicidio è una costante quasi assoluta. Per quanto concerne la mortalità per malattie cardio-vascolari i patterns epidemiologici sono, in ex-Unione Sovietica, profondamente diversi rispetto a quelli dell’Europa Occidentale e degli altri Paesi ex-comunisti. La mortalità per questo tipo di patologie è particolarmente alta in giovane età, le morti sono più frequentemente improvvise e molti soggetti mostrano scarsa evidenza di lesioni coronariche. I tradizionali fattori di rischio così importanti in Occidente come il fumo, i livelli lipidici e l’attività fisica hanno in Russia scarso valore predittivo. E’ stato dimostrato che il metabolismo lipidico russo differisce molto profondamente da quello occidentale. Vi è invece una crescente evidenza sul coinvolgimento di altri fattori quali l’alimentazione, caratterizzata non solo da un elevato apporto di grassi animali e, contemporaneamente, da un minimo introito di frutta e vegetali con un conseguente bassissimo livello ematico di antiossidanti, ancora con l’alcool che viene consumato in modo peculiare, ovvero con superalcolici, soprattutto vodka, ed in incontri conviviali fnalizzati ad ubriacarsi, in contrasto con il consumo misto più costante e stabile dei paesi occidentali, ed infine, ma questo è meno comprovato scientificamente, con l’elevato livello di stress psico-sociale. Un ulteriore conferma di questo effetto dirompente è dato dal confronto con Paesi analoghi dal punto di vista della transizione politico-economica, ma diversi nelle abitudini voluttuarie. Anche negli studi condotti in altri Paesi dell’ex-blocco comunista, le condizioni di salute appaiono più profondamente influenzate da fattori socio-economici che strettamente legati si servizi sanitari di quei paesi. E’ evidente, ad esempio, che non tutti i cittadini sono stati egualmente condizionati dal sistema comunista e dalla successiva transizione democratica. Le conseguenze peggiori si sono verificate in quei paesi in cui la transizione economica è stata più brutale, spesso misurata in termini di perdita del posto di lavoro e dei meccanismi di protezione sociale. Gli uomini con basso livello scolastico sono stati quelli più vulnerabili, in particolare se celibi e privi di supporto familiare, non in grado di reagire a cambiamenti così rapidi e di così larga scala. La scadente alimentazione, gli elevati tassi di tabagismo, la facile disponibilità di alcool scadente forniscono ampi sentieri alla morte prematura, soprattutto in società prive di meccanismi protettivi sui luoghi di vita e di lavoro. Ci troviamo così oggi, nei paesi occidentali in una singolare situazione di convivenza di due o più contesti economico-sociali e quindi epidemiologici. Le modifiche che le nostre società stanno oggi affrontando sono analoghe per dimensione a quelle affrontate 150 anni fa nell’epoca d’oro dell’Igiene, di conseguenza abbiamo bisogno di una nuova mappa concettuale per l’azione in Sanità Pubblica che incorpori gli sviluppi scientifici e tecnologici ed un’azione economica, sociale e politica sia a livello nazionale che internazionale e, direi globale.
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Si tratta di riprendere l’insegnamento del Professor Geoffrey Rose, della London School of Hygiene and Tropical Medicine, quando diceva: “i determinanti primari di malattia sono essenzialmente economici e sociali: quindi le soluzioni devono essere economiche e sociali”. Nelle democrazie occidentali ci troviamo ad avere contemporaneamente paesicaratterizzati da:
• un’elevata aspettativa di vita ed un forte invecchiamento della popolazione • un sistema sanitario ampio e costoso • la salute come tema dominante nella discussione sociale e politica • la buona salute come un principale obiettivo personale di vita
e paesi caratterizzati da: - una stabilità o, addirittura, una diminuzione nell’aspettativa di vita - la difficoltà o, addirittura, la mancanza di accesso a servizi sanitari spesso essenziali - la salute come un tema secondario rispetto, ad esempio, allo sviluppo economico - la salute personale come obiettivo, spesso, di mera sopravvivenza. I miti di Igea e di Asclepio simbolizzano la infinita oscillazione tra due differenti punti di vista sulla medicina e, quindi, delle politiche sanitarie. Per i sostenitori, come noi, di Igea, la salute è il naturale ordine delle cose, un attributo positivo a cui gli uomini hanno diritto se essi governano saggiamente le proprie vite. Secondo costoro, la più importante funzione della medicina è scoprire ed insegnare le leggi naturali che consentono ad una persona di avere una mente sana in un corpo sano. Più scettici, o forse più saggi alla luce delle cose umane, i seguaci di Asclepio credono che il compito della medicina sia di trattare le malattie, di restituire la salute correggendo le imperfezioni causate dagli accidenti della nascita o della vita. E’ nel sanare questa contrapposizione, la chiave per la prossima rivoluzione nelle politiche sanitarie delle democrazie occidentali in Sanità Pubblica: affrontare contemporaneamente i problemi legati al miglioramento continuo della comprensione della struttura e del funzionamento del corpo umano e nell’allestire servizi sanitari in grado di intervenire tempestivamente ed appropriatamente quando questo abbia problemi, ma anche essere pienamente consapevoli che la salute non è soltanto garantita da interventi sul funzionamento della macchina stessa, ma anche al miglioramento dell’ambiente e delle condizioni in cui essa opera. Ed allora, quali potrebbero essere i punti per migliorare la salute delle nostre popolazioni sulla base della migliore evidenza scientifica:
• favorire una buona partenza per tutti:perché nascere in buona salute diminuisce il rischio di ammalarsi in età adulta, qui ad esempio è rappresentato il rischio di diabete in funzione del peso alla nascita
• favorire una buona alimentazione: perché mangiare in modo più sano significa vivere di più e meglio
• favorire mezzi di trasporto sani e sicuri: riprendendo modalità più sicure e salutari ormai quasi completamenteabbandonate
• diminuire costantemente il gradiente sociale tra i differenti strati di popolazione: perché sia per gli uomini che per le donne questo significa una maggiore aspettativa di vita
• diminuire l’esclusione sociale: che invece nel nostro paese sta progressivamente e tragicamente aumentando
• migliorare i livelli occupazionali: perché essere disoccupati, ma anche male occupati, incide profondamente sulla salute delle persone
• migliorare le condizioni lavorative: perché anche questo ha un impatto quali-quantitativo rilevante sulla salute
• aumentare le reti di supporto sociale: perché dove non vi è integrazione sociale si muore di più
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• garantire servizi sanitari sempre più efficaci, efficienti, appropriati ed equi: sviluppando una nuova partnership tra operatori e cittadini.
In conclusione di questa carrellata sulle condizioni di salute e la qualità della vita nelle democrazie occidentali mi rendo conto di aver forse generato più interrogativi che fornito risposte, ma la nostra attività di operatori di Sanità Pubblica raramente opera attraverso soluzioni magiche, rapide ed eclatanti, e, contrariamente a molti colleghi clinici, noi abbiamo bisogno di quella che la poetessa Adrienne Rich ha chiamato “pazienza selvaggia”, un insieme di ingenuità, evidenza scientifica, buon senso, passione, il senso dell’urgenza e soprattutto quello della giustizia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità auspica che dopo anni dominati dall’imperativo economico, le riforme dei sistemi sanitari possano ispirarsi all’imperativo etico. La tenuta di un sistema sanitario dipende infatti dalla capacità dei decisori di rendere coerenti la struttura delle istituzioni sanitarie con il sistema di valori diffuso nella popolazione, ma se, nonostante questi suggerimenti, come sembra, le future politiche sanitarie continueranno ad ignorare queste azioni, non solo ignoreranno i più potenti determinanti di salute, non solo non faranno il bene delle proprie popolazioni, ma perderanno anche alcune tra le più importanti istanze di efficienza economica e di giustizia sociale che le società contemporanee si troveranno sempre più pesantemente, drammaticamente ed urgentemente ad affrontare.
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MANFRED LÜTZ LA “RELIGIONE DELLA SALUTE” E LA NUOVA VISIONE DELL’ESSERE UMANO Chiunque pensava che, in seguito alla cosiddetta svolta del 1989, dopo l’effettiva fine del “socialismo reale” globale, la cristianità, provata dalle lotte di sterminio del XX sec., avrebbe avuto una chance unica per diffondere tra la gente, senza particolari resistenze, il vangelo della redenzione universale, è rimasto deluso. Certo le visioni del mondo desumibili da testi, strutture e persone si sono volatilizzati come i brutti sogni, ma hanno lasciato dietro di sé una pericolosa palude fatta di intrecci poco chiari di rassegnazione, scetticismo, nichilismo, ateismo e agnosticismo, più difficili da contrastare proprio perché poco definibili. Non si tratta di una o più visioni del mondo (Weltanschaungen) contestabili con argomenti, fede e pianificazione, ma piuttosto di un’atmosfera che guadagna terreno fin dentro la Chiesa Cristiana e nel singolo cristiano, e nella quale la fede cristiana viene sempre più recepita come corpo estraneo. Se “Al di là del Bene e del Male” (Nietzsche) il successo economico, nel senso di un calvinismo definitivamente secolarizzato[1], diventa criterio insuperabile di valutazione, allora ogni etica che si fondi sulla possibilità di prendere in considerazione per se stessi degli svantaggi, perde ogni valore. Il successo economico, tuttavia, è in fondo irrazionale. Le notizie di borsa sono meno attendibili delle previsioni del tempo. Qui non regna la logica, ma qualcosa come una psico-logica, e lo strumento della psico-logica, accresciuto a dismisura, sono i potenti media che hanno sviluppato una strana dinamica propria, in cui da un lato creano un’atmosfera e, dall’altro, al tempo stesso, dipendono da questa atmosfera in un modo non spiegabile con la logica. Per i cristiani c’è il pericolo, a causa di questa atmosfera pubblica caotica e poco comprensibile, impregnata di molti elementi irrazionali, di ritirarsi in una altrettanto irrazionale atmosfera di gruppo contrapposta al “mondo di fuori” e orientata più al sentimento che alla ragione. Questa è la via delle sette. Papa Giovanni Paolo II indica un’alternativa cattolica quando, nella sua prima enciclica “Redemptor hominis”, in un periodo che era ancora caratterizzato dai dibattiti sulle visioni del mondo, ci mostra l’uomo come via fondamentale di Dio attraverso la storia e da questa antropologia cristiana trae spunto per il suo annuncio, anticipa di fatto ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti: l’epocadei dibattiti sulle visioni del mondo è finita, ed è iniziata l’epoca dei dibattiti sulle “visioni dell’uomo”. In futuro sarà possibile riconoscere i cristiani in base alla loro visione dell’uomo. Secondo Peter Singer[2], e con lui molti altri, l’uomo è un insieme di capacità, la cui dignità dipende dalla presenza attuale di queste capacità; invece, secondo l’intera tradizione cristiana, l’uomo ha la sua completa dignità anche e proprio in situazioni di estremo bisogno. In effetti difficilmente si potrà trovare una differenza più grande di quella che vede contrapposte da una parte l’atmosfera dominante, che tende a negare dignità proprio ai più deboli e bisognosi d’aiuto - gli embrioni, nella fase iniziale della vita, e coloro che hanno gravi danni cerebrali, nella fase finale dell’esistenza – e, dall’altra, la concezione cristiana che, proprio nei più deboli e bisognosi d’aiuto, vede la presenza di Cristo stesso. Dunque nel promuovere oggi il messaggio evangelico, la “lieta novella” della salvezza dell’uomo deve essere portata in primo piano nella discussione. E non si tratta di una salvezza astratta: è, molto concretamente, la liberazione da visioni dell’uomo che sono umanamente indegne e che portano al disprezzo per l’uomo stesso, poiché un progresso che seppellisse l’uomo e la sua dignità sotto i propri passi, costituirebbe forse la prosecuzione dell’evoluzione, ma non più, certamente, un progresso umano. Per questo l’enciclica“Evangelium vitae” è al centro dell’annuncio di Papa Giovanni Paolo II. Alla nostra Accademia viene affidato così un compito centrale nell’evangelizzazione e rievangelizzazione del mondo. Noi siamo obbligati con la luce della ragione che Dio ha dato agli uomini, “a rendere conto della speranza che vive in noi” (1 Pet 3:15), e questo significa soprattutto intraprendere un discorso
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razionale con un mondo che sembra avere dimenticato che cosa sia l’uomo e su cosa si basi la sua dignità. Noi dobbiamo scoprire con lucidità i cambiamenti nella coscienza dei valori e fare valere le convinzioni cristiane con competenza attraverso concrete questioni di bioetica. Questo accade ormai da anni con una crescente attenzione internazionale. A questo punto, però, si pone la domanda se dietro a queste assurde immagini dell’uomo, che oggi sono tanto apprezzate, non vi sia una tendenza unitaria individuabile in una “visione dell’uomo” accessibile ad un discorso etico razionale. Io credo che esista realmente una tale “visione dell’uomo” che oggi sta progressivamente diventando dominante in tutto il mondo, tale visione si potrebbe chiamare la “religione della salute”[3]. Non Dio, ma la salute, la salute individuale, assurge a indiscusso “bene massimo”. Salvezza e redenzione non sono più attese in un qualche “al di là”, ma qui ed ora. Mentre la forza delle escatologie collettive immanenti, come il marxismo-leninismo, si è definitivamente esaurita, sono ora le escatologie individuali immanenti che si propongono all’umanità e raccolgono un successo incomparabilmente maggiore rispetto alle vecchie visioni del mondo. Si aspetta quantitativamente la vita eterna dalla medicina e qualitativamente l’eterna felicità dalla psicoterapia. Impercettibilmente, ma con grandi conseguenze, tutte le convenzioni religiose sono approdate al sistema sanitario. Non abbiamo più solo medici come semidei, abbiamo luoghi di pellegrinaggio, eresie, movimenti “ascetici” dietisti, riti, campagne missionarie per la salute sovvenzionate dallo stato. In un senso quasi pelagiano, la salute, il bene, come quasi tutto nella nostra società, è visto come un prodotto che può essere fabbricato: bisogna fare qualcosa per la salute, da niente non viene niente, chi muore, muore per colpa sua. Vengono prodotti sensi di colpa senza ritegno e il termine ‘peccato’ non viene più usato nelle chiese, ma solo in relazione ai peccati di gola, ad esempio per il divoratore di una torta di panna. Ma soprattutto, il tabù della blasfemia nelle società occidentali non solo viene imitato, ma anzi trasferito completamente dal cristianesimo alla religione della salute. Il che significa che su Gesù Cristo si può fare ogni sorta di scherzo, sulla salute no. Ma se la salute deve rappresentare il valore massimo, sacro e intoccabile, di tutti gli uomini, allora una politica sanitaria assennata diventa impossibile. La politica è l’arte dello sviare. Il “massimo bene” non può essere sviato: per esso bisogna fare tutto il possibile. E così da anni ormai, nei paesi occidentali, non vi è più una vera e propria politica sanitaria. Si modificano i sistemi, si attribuiscono deficit a diversi gruppi di popolazione e si afferma in maniera politicamente corretta, ma senza senso, che “tutto ciò che è necessario dal punto di vista medico” per ogni cittadino deve essere naturalmente finanziato, che non deve esistere una medicina di due classi, etc. quando, invece, si sa che questo già esiste dappertutto. Da sempre le persone ricche hanno vissuto più a lungo dei poveri e questo - grazie a Dio in forma ridotta - vale ancora oggi e non cambierà molto in futuro. Ciò che si dovrebbe ottenere, dal punto di vista politico, è una ragionevole misura di solidarietà. Questo però sarebbe possibile solo se l’ordinamento statale considerasse la salute un valore importante, ma non il massimo dei valori. Ma qualsiasi politico che chiedesse tagli nell’ambito sanitario correrebbe il rischio di non essere rieletto. Pertanto non esiste in politica un ambito in cui si agisca con meno razionalità e buon senso e con maggior populismo e demagogia senza, tra l’altro, risolvere i problemi, soprattutto quelli finanziari. Allo stesso tempo anche l’egoismo della religione della salute prende piede nella società. Mentre il cristianesimo, l’ebraismo, e l’islam hanno sempre anche un impeto sociale, la religione della salute è totalmente egoista. Il credente, nell’ambito della religione della salute, si interessa solo ai suoi risultati di laboratorio, alla sua pressione sanguigna e alla sua prognosi. La solidarietà, della quale si parla così spesso nei dibattiti di politica sanitaria, deve trarre le sue motivazioni altrove. La religione della salute stessa è completamente disinteressata a ciò che concerne il sociale. Le conseguenze etiche di questo nuovo movimento quasi religioso e sovranazionale sono, però, più gravi. Se la salute rappresenta il valore massimo, allora l’uomo sano è anche il vero uomo. E se qualcuno non è sano, e soprattutto, se non può ritornare sano, allora diventa tacitamente un uomo di seconda o terza classe. Siamo arrivati, così, al nocciolo dei dibattiti bioetici degli ultimi anni. È vero che la dominante religione della salute ha prodotto un’enorme incremento dell’attenzione pubblica sui
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metodi di guarigione, ma il messaggio indiretto di tale avido interesse per la guarigione medica è che l’inguaribile, il malato cronico, il portatore di handicap, vengono spinti nell’ombra, per loro c’è posto solo ai margini della società salutista. Viene detto poco e viene diffusa l’opinione, generalmente in modo molto sottile, che lo stesso individuo “certamente non vuole vivere così” e che pertanto a queste persone si deve riconoscere il “diritto ad una buona morte”, l’eutanasia. All’inizio della vita, invece, non si tratta più di evitare l’handicap, ma di evitare l’handicappato. Così in Germania sono sufficienti malformazioni banali come la schisi labiale,per essere uccisi con un’iniezione di potassio al cuore poco prima della nascita, e addirittura nel canale del parto, nel quadro di una “indicazione medica” ampiamente accettata. Tale omicidio in Germania non è né illegale, né punibile, anzi, regolarmente pagato dalle mutue. Queste mostruosità sono praticabili in una società solo se è stata creata l’atmosfera adatta. Questa atmosfera è determinata dalla religione della salute. Particolarmente chiaro diventa il significato della religione della salute in relazione alla scelta dei valori della società nell’ambito della cosiddetta “Etica del guarire”. In Germania questa espressione fu creata nell’ambito del dibattito sull’uso delle cellule staminali embrionali. Si ammise che l’uccisione degli embrioni fosse problematica, ma ci si assolse da soli attraverso l’uso dell’espressione “etica del guarire”: si uccidono gli embrioni per uno scopo altamente nobile, cioè la guarigione. Certo esistevano dubbi etici sull’uccisione degli embrioni, ma vi era anche un’ “etica del guarire”, che imponeva di aiutare le persone malate e per questo era da giustificare anche il sacrificio degli embrioni. Per la filosofia morale un siffatto uso della parola “etica” doveva apparire già sospetto. Certo esiste davvero anche un’etica del guarire, dato che la guarigione si basa su principi etici, ma ciò che si presentò qui come “etica del guarire” era stato pensato per porre fine in modo estremamente efficace e demagogico al razionale dibattito etico, anzi per non farlo proprio sorgere. All’epoca si affermò che tramite le ricerche sulle cellule staminali embrionali fosse possibile curare il morbo di Parkinson, ma dal punto di vista neurologico ciò è improbabile e le esperienze scientifiche in questo campo non sono propriamente incoraggianti. Tuttavia il dibattito pubblico procede diversamente da quello scientifico, nel primo le argomentazioni semplicistiche hanno molto effetto. “Chi guarisce ha diritto”, questa buona e vecchia massima della medicina diviene in questo modo un abuso etico ed è trasformata dall’“etica del guarire” in una cinica formula per giustificare tutto. L’ “etica del guarire” è il fondamentalismo della religione della salute, essa non è più accessibile ad un ragionamento razionale. Proprio questo è il motivo per cui i documenti ecclesiastici, contenenti argomentazioni convincenti su questioni di bioetica, spesso vengono recepiti così poco. L’argomentazione, nei confronti di un’atmosfera sorda, è pressoché impotente. Pertanto mi sembra necessario che si dia inizio ad un fondamentale dibattito pubblico sul rivoluzionario cambiamento dell’immagine dell’uomo in rapporto all’idolatria della salute, soprattutto nelle società occidentali. E da noi cristiani bisogna pretendere l’aspirazione ad una interpretazione cristiana della salute. Allo stesso tempo deve essere evitato il pericolo di cadere nell’estremo opposto, e cioè in un disprezzo della salute di stampo neoplatonico e basato sul disprezzo del corpo. Il cristianesimo ha creduto fin dal principio, con sconcerto dei filosofi neoplatonici, all’incarnazione di Dio, per questo il corpo, quale “Tempio dello Spirito Santo” (1 Cor 6:19), è degno di una grande importanza. Papa Giovanni Paolo II nella sua “Teologia del Corpo”[4]ha formulato concetti importanti per questo tema e per le sue implicazioni etiche. Pertanto anche la salute del corpo, anche se non è il bene massimo, è comunque indiscutibilmente un valore molto importante. Le guarigioni di Gesù ne sono una dimostrazione. Anche le guarigioni degli discepoli sono un segno della dinamica di redenzione veramente olistica della lieta novella, che comprende anima e corpo. I Padri della Chiesa si riferivano a Cristo come al medico, “uno solo è il medico”[5]afferma S. Ignazio d’Antiochia. Ephraem di Siria scrive “Lodo la celeste misericordia, che scese sugli abitanti della terra, cosicché il mondo malato tramite il medico che apparve su di esso sarà guarito”[6]. La completa guarigione ha sempre mosso la speranza dei cristiani fino ai luoghi di pellegrinaggio, dove gli uomini si attendono la guarigione dell’anima e del corpo, come Lourdes. In effetti, la dottrina della resurrezione
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del corpo rende in definitiva il corpo, e le sue condizioni, una categoria centrale del cristianesimo. Mai però, nell’intera tradizione cristiana, la salute ha rappresentato il massimo il valore. La salute è un grande valore, né più, né meno. Tuttavia esiste sempre il pericolo che la vera dottrina cattolica sia resa in modo poco chiaro nella prassi quotidiana, nella vita del singolo cristiano, nella vita parrocchiale, nelle prediche, nelle commemorazioni, ma anche in certi scritti edificanti. E in effetti sembra che la religione della salute si sia inifiltrata anche nella prassi ecclesiastica. Nelle comunità parrocchiali si fanno digiuni di guarigione durante la quaresima, ma il digiuno per morire il più tardi possibile e più sani possibile è tutt’altra cosa rispetto al digiuno cristiano: “attraverso il digiuno del corpo si vince il peccato e si eleva lo spirito...”[7]. L’imprudente osservazione “l’importante è la salute” è ormai comune anche tra i cristiani, persino nelle congratulazioni per la nascita di un bambino. Enti di cultura ecclesiastici offrono una nutrita scelta di corsi salutistici, in confronto ai quali i seminari di Fede fanno una ben magra figura. Discorsi solenni in ospedali cattolici sono talvolta fiammanti apoteosi di guarigione “olistica”, per la quale devono dovutamente comparire anche diverse citazioni bibliche. Anche alcuni testi ecclesiastici fanno rimpiangere la necessaria pacatezza nei confronti della salute. Tutto ciò non accade intenzionalmente, ma più che altro senza riflettere, nell’ingenuo tentativo “di andare incontro agli uomini di oggi”. Naturalmente le preoccupazioni dei cristiani per la salute non sono assolutamente da biasimare, si tratta piuttosto di mettere in guardia dall’eccesso, anche solo nella formulazione di affermazioni. In modo particolare si è imposta al livello mondiale, anche in ambienti ecclesiastici, la psicologia come attraente disciplina per la guarigione “olistica”. La psicologia è una scienza seria che riguarda gli aspetti misurabili e comprensibili dell’animo umano. Il centro d’interesse della psicologia non è la libertà dell’uomo, ma la prevedibilità, la razionalità e la regolarità del comportamento umano. La psicologia costituisce la base della la psicoterapia, con la quale non si identifica e che riscuote un’altissima stima, in genere, e anche all’interno della Chiesa. La psicoterapia è un atto temporale circoscritto e metodico che ha sempre uno scopo, è quindi una relazione artificiale, pagata con denaro. Essa è caratterizzata da una relazione asimmetrica tra l’uomo sofferente in cerca d’aiuto e la persona esperta che usa il metodo. La psicoterapia, a prescindere dal metodo seguito, è sempre manipolativa - nel senso positivo del termine - , il suo compito è infatti quello di “eliminare” nel minor tempo possibile i sintomi di cui soffre l’uomo. Pertanto non si tratta di un rapporto esistenziale come l’amore o l’apprendimento del senso della vita. L’amore ed il senso della vita non si ottengono per mezzo del denaro. Una buona psicoterapia non è pertanto mai “olistica” nel vero senso della parola, non mostra la via per la salvezza. Olistica, ad esempio, è l’assistenza spirituale, intesa come profondo rapporto spirituale, dialogale (nel senso indicato da Martin Buber[8]) o sacramentale. Un siffatto rapporto non è mai circoscritto, né manipolativo, né asimmetrico. Una commistione tra psicoterapia e assistenza spirituale, come viene spesso propagandata, non è pertanto sostenibile, poiché se il rapporto spirituale diventasse manipolativo, asimmetrico ed insieme illimitato, sorgerebbero costellazioni di guru e relative dipendenze negative. Non più Gesù Cristo ne sarebbe il centro, ma un terapeuta “olistico”. Tali mescolanze rovinano sia la psicoterapia sia l’assistenza spirituale. Certamente alcuni disturbi psichici possono impedire a una persona di avere un rapporto più profondo con Dio, in tal caso è necessario un trattamento. Però la terapia non può costruire il rapporto con Dio, può solo aprire porte bloccate: la direzione che prenderà in seguito il paziente, riguarda unicamente il paziente. Le tecniche sanitarie non devono quindi in nessun caso essere ritenute tecniche di salvezza. La salvezza, secondo la convinzione cristiana, non si trova primariamente nella cosiddetta buona salute, ma piuttosto in situazioni limite dell’umana esistenza, che dalla religione della salute vengono disprezzate in quanto da evitare o come deficit da eliminare. Proprio nell’handicap, nella malattia, nel dolore, nella vecchiaia, nel morire e nella morte si può percepire la verità della vita in modo più chiaro e definito rispetto allo scorrere del tempo senza disturbi importanti. Dato che queste situazioni-limite della vita degli uomini si caratterizzano per il fatto di essere inevitabili, il messaggio cristiano può indicare all’uomo di oggi, alla ricerca della
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salvezza, una via piena di forza per colmare la vita, attraverso una visione positiva dell’inevitabile e apparente deficit. “Salvifici doloris” “Sul senso salvifico del dolore umano” è il titolo di uno scritto di forte impatto del nostro Santo Padre all’inizio del suo pontificato. Ciò che scrisse allora il Santo Padre lo sta vivendo oggi, incarnando questo messaggio con grande intensità: è l’alternativa, vissuta, alla dominante follia salutista, che emana dalla sua persona. La religione della salute ruota attorno all’antichissimo tema della religione: il superamento del contingente e soprattutto il superamento dell’esperienza di morte. Però, questa nuova religione induce gli uomini a perdere se stessi nella lotta contro la morte. Ci sono uomini che vivono, per così dire, preventivamente per arrivare sani alla morte. Si potrebbe dire che gli uomini, per evitare la morte, si prendono la vita, cioè l’irripetibile tempo di vita e quando, poi, sul letto di morte accade l’inevitabile- che hanno cercato di evitare con ogni possibile accortezza salutista - si chiederanno se forse non avrebbero dovuto trascorrere un po’ più di tempo con la moglie, con i figli, con gli amici anziché in palestra, oppure se non avrebbero potuto fare qualcosa per gli altri. Il messaggio cristiano acquista la sua più profonda forza e il suo valore più alto quando viene annunciato nell’imminenza della morte. L’Evangelium vitae trae da qui il suo splendore, poiché chi respinge la morte, perde la vita. Cristo annuncia la vita quando dice “Io sono la strada, la verità e la vita” (Gv 14:6). Non è una vita semplice, ma “sofferto…, crocifisso, morto e sepolto, e risorto dai morti”[9]. Questa è “la speranza che vive in noi”.
[1] Cfr. WEBER M., Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, Tübingen: Verlag J.C.B. Mohr, 1920. [2] Cfr. SINGER P., Practical Ethics,Cambridge: CambridgeUniversity Press, 1979. [3] Cfr. LÜTZ M., Lebenslust – Wider die Diätsadisten, den Gesundheitswahn und den Fitness-Kult, München: Pattloch Verlag, 2002. [4] GIOVANNI PAOLO II; La Catechesi del mercoledì, dal 5 settembre 1979 al 28 novembre 1984. [5] IGNAZIO DI ANTIOCHIA, ad Ephesos, cap. VII. [6] EPHRAIM IL SIRIANO, cit. in: BEINERT W., Hilft Glaube heilen?, Düsseldorf: Patmos Verlag, 1985, p.69. [7] PREFAZIONE DELLA QUARESIMA. [8] BUBER M., Das dialogische Prinzip, Heidelberg: Verlag Lambert Schneider, 1962. [9] SIMBOLO APOSTOLICO
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ANGELO FIORI La figura del medico e le aspettative dei cittadini: continuità e condizionamenti 1. La figura del medico, quale appare attualmente nell’immagine che ne hanno i cittadini è molto difficile da delineare se non se ne restringe il campo all’attuale medicina scientifica occidentale dove pure si possono individuare profili diversi. Sul piano storicoè meno profondo il divario che per millenni ha connotato le ‘medicine empiriche’sviluppatesi nei vari continenti, benchè assai diverse tra loro,da quelloattuale, nel quale è ormai siderale la distanza tra la moderna medicina scientifica e le cosiddettemedicine tradizionali, o alternative, che sopravvivono in varie aree del mondo ed oggisi aspandono, anche nelle zone della medicina occidentale.. La continuità della figura del medico occidentale può individuarsi, a determinate condizioni, nelle linee di sviluppo che hanno per capostipite la medicinaippocratica, la quale continua ad esercitare la sua influenza , mantenendo le sue caratteristiche di fondo , anche ai giorni nostri , con l’avvento, negli ultimi tre secoli, della medicina scientifica le quale, a ben riflettere, nonsolo si ispira alla deontologia ippocratica ma la rafforza nei suoi principi centrali, concentrati nel giuramento ippocratico. Questa linea, infatti, a quanto generalmente si ritiene , prende inizio nell’era ippocratica (460-377 a.C.), ed è successiva alla precedente che attribuiva al medico qualità sacerdotali. Ma , a ben considerare ,non è neppure lontana dalla medicina babilonese e da quella egiziaentrambegravate dal rischio di severe condanne per gli eventuali insuccessi: fino alla condanna a morte comminata in Egitto ai medici il cui paziente non fosse stato trattato con protocolli di cura elaborati attraverso l’esperienza, e ne fosse conseguita la morte che si presumeva pertanto in nesso causale con la violazione delle regole condotta professionale. La medicina ippocratica ,conoscibileattraverso il Corpus Ippocratico, risente dell’interesse del pensiero greco per le tecniche e per il metodo scientifico,elaborato nella seconda metà del secolo V. Essa si è proposta di liberare la medicina da ogni concezione magica per farne una scienza basata su un metodo sicuro e razionale di diagnosi e terapia ed ha avuto come punti centrali l’osservazione del paziente, il colloquio, il successivo dialogoaggiornato nel corso della terapia, l’insieme di essenziali regole deontologiche . Il centro di queste ultime era l’interesse esclusivo del paziente, ma nel contempo era l’autodivieto di superare i limiti che la scuola ippocratica ha puntualmente individuato e che prevedevano l’autonomo rifiuto del medico di fronte a richieste, provenienti dai pazienti, che fossero giudicate estranee alle finalità della medicina. Il rifiuto di praticare l’aborto e l’eutanasia ne sono gli esempi più evidenti ed emblematici di questa posizione ippocratica . Un altro nodo essenziale è l’affermazione della necessità di rispettare i limiti della propria competenza, lasciando agli ‘specialisti’ il compito di occuparsi di casi che richiedevano,appunto, una specifica esperienza. Non sono certo marginali gli altri precetti del decalogo ippocratico, costituiti dal rispetto per i maestri dell’arte medica, il segreto professionale, il divieto di abusare della libertà di accesso nella famiglia e nella casa del paziente, ed infine l’innocenza e lo stile della vita. E’ proprio da questo insieme di regole,sintetizzate in un pur breve giuramento, che emerge la figura del medico che si è tramandata per millenni e che sussiste in parte tuttora com’è desumibile da testi, testimonianze, immagini pittoriche, libri e films e serials televisivi che tuttora disegnano in prevalenza figure di medici impegnati , pronti in qualsiasi momento del giorno e della notte a sacrificarsi, gravati da responsabilità a forte contenuto emotivo, esposti alla sofferenza dell’insuccesso e dell’ingratitudine ma anche gratificati dai risultati positivi molto spessoraggiunti e dalla riconoscenza dei pazienti beneficati,e delle loro famiglie. Lo stesso obiettivo si prefiggono ,questi contributiartistici, quando presentano all’opposto figure di medici che tradiscono la propria missione e vengono additati alla pubblica riprovazione. Non vi è
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dubbio, infatti , che come in tutte le altre professioni – ma con ben diverse conseguenze sull’opinione pubblica che ha sempre privilegiato un’immagine ideale del medico e della medicina– fin dall’antichità sia emersa anche la figura del medico che viola i precetti della propria disciplina: sia per colpevole o incolpevole incapacità, sia per negligenza, sia per avidità –causa di vere e proprie condotte criminali – sia infine per ispirazioni ideologiche. Queste ultime hanno ormai un loro posto particolare. Infatti, mentre le condotte professionali riprovevoli, o presunte tali, subiscono le condanne inflitte dai tribunali penali e civili (analogamente a quanto avveniva nell’antico Egitto, da quanto era previsto nel Codice Hammurabi e da altre sanzioni previste e comminate in altre culture ), e quelle di immagine comminate dai media, dai pazienti danneggiati e dai loro amici e congiunti, dalla stessa collettività quando ne viene informata , le divergenze ideologichedividono la classe medica, in misura più radicale, in schieramenti differenziatiognuno dei quali gode in genere dell’ approvazione della propria ‘parte’ ideologica e soffre la riprovazione dal versante opposto. Questa divisione, che in questo intervento si intende particolarmente considerare perché incrina seriamente e dannosamente “la continuità” dell’immagine del medico occidentale,si è progressivamenteaccentuata, nel secolo scorso e soprattutto negli ultimi cinquant’anni,a causa della cosiddetta‘modernità’, cioè dei grandi progressi della cultura scientifica e dei mezzi tecnici che rendono possibili prestazioni professionali la cui liceità ,o illiceità, etica e deontologica, sono sempre più sottoposte a valutazioni differenziate, spesso radicalmente, attraverso il filtro dell’ideologia politica e/o filosofica. Nei paesi democratici, che sono una minoranza nel panorama mondiale ma rappresentano il fronte avanzato della medicina scientifica - sia nel produrla sia nell’applicarla con ampiezza sempre maggiore - a seconda delle maggioranze democratiche che prevalgono nei parlamenti, si favoriscono infatti , per l’attività medico-chirurgica , norme permissive o restrittive nell’ambito delle qualisi producono veri e propri schieramenti di gruppi di medici. Anche i tribunali, attraverso le variegate sentenze relative a casi che ineriscono la professione medica, producono divisioni del diritto giurisprudenziale che consolidano spesso le radicalizzazioni ideologiche nella società, che si riflettono sui medici a loro volta condizionati ,divisi ed attestati su posizioni di dubbio valenza ippocratica . Questo è solo un aspetto, che potremmo chiamare ‘passivo’ dei condizionamenti subiti dai medici ad opera di settori influenti dell’opinione pubblica (gli intellettuali, la stampa, la televisione, i politologi) , da norme, da orientamenti giurisprudenziali. Ma altrettanto importante, quale fattore di divisione è l’aspetto “attivo” costituito dalla autoctona produzione di propostedi segno non ippocratico, fortemente ideologizzate, ma non sempre motivate intimamente dall’ideologia, bensì ancheda una pluralità di interessi . 2. Numerose sono le linee di queste divise tendenze ed èutile, per questa breve analisi, solo qualche esempio tra i più emblematici. La vastissima e dinamica area dello sviluppo incessante della medicina scientifica ha confini incerti in cui la liceità etica e deontologica si scontra di frequente – ma assai spesso in modo non sempre colto dall’opinione pubblica se non nei casi individuali – con la temerarietà pericolosa, che ha le sue numerose vittime: morti od invalidi. La spinta all’innovazione ed al miglioramento – motivata dall’interesse scientifico ma anchedall’ambizione, dal guadagno, dalla natura stessa dell’uomo che ne ha segnato e ne segna la storia – produce una quantità enorme di effetti collaterali dannosiche sacrificano al progresso il benessere di singoli (in genere inconsapevoli) . Le chirurgia generale e specialistica, l’anestesiologia, l’ostetricia e le ginecologia, ma anche le discipline internistiche percorrono in varia misura questa strada che rifiuta di fatto il principio etico dei limiti e diffonde nella collettività un trionfalismo ingiustificato che favorisce
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l’accettazione, il più spèesso inconsapevole, di partecipare a decisioni ad alto rischio con danni conseguenti. Il principio di beneficialità è spesso marginalizzato in queste circostanze e lo sviluppo dei comitati etici ospedalieri – che il più delle volte non sono chiamati a pronunciarsi sui casi singoli - non è sempre sufficiente a frenare il fenomeno che spesso si manifesta a posteriori molte volte inaspettatamente. Questi comitati rappresentano comunque il segno della consapevolezza dei rischi della sperimentazione non controllata e della ‘invasività ‘ di molti dei trattamenti medici attuali. A questo proposito converrà richiamare il fatto che l’usuale attribuzione, al termine di ‘invasività’ medica, del significato di intervento cruento (anche di minima importanza come nel caso di una banale iniezione) è ritenere ormai superato se si considera il rischio connesso ad una parte rilevante dei trattamenti farmacoterapici i quali, come del resto informano i foglietti illustrativi allegati alle specialità medicinali, possono dare luogo ad effetti collaterali iatrogeni anche molto gravi, talora mortali. In questo settore, in verità, non esistono reali divisioni di principio nella classe medica, se non divisioni di fatto, tra singoli medici, tra coloro che ,per esperienza, cultura e carattere privilegiano le condotte prudenti e non si lasciano facilmente suggestionare dalle nuove proposte, spesso non confermate dalla loro applicazione pratica; e di converso tra coloroche, non sempre sulla base solida di convinzioni scientificamente fondate e di una preliminare esperienza, si avventuranoin attività a rischio ingiustificato, talvolta coronate da successo, altre volte fallimentari sia sotto il profilo dell’insuccesso e dell’inutilità sia anche sotto quello ben più grave di patologia iatrogene, non di rado mortali o permanentemente invalidanti. La stessa opinione pubblica è spesso schierata con i medici più audaci perché suggestionata dai media e dal fascino della ricerca,dal mito del progresso permanente, nonché dalla speranza di una vita migliore. Questo settore, che rappresenta il nucleo della moderna medicina scientifica , non produce in veritàdivisioni di principiorilevanti ,mentre le divisioni – che spesso si riverberano sui mezzi di informazione e gettano ombre sulla ‘intera classe medica -si verificano nei casi singoli e sfociano nell’aumento progressivo ed allarmante dei processi penali e civili e contro i medici , e civili contro le strutture sanitarie pubbliche e private. 3. I settori che invece si caratterizzazione per divisioni più profonde e contrapposte sono altri, ben conosciuti: l’aborto, la contraccezione, la fecondazione assistita, l’eutanasia, la sterilizzazione, l’assistenza psichiatrica. Anche il problema delconsenso informato, che si collega al principio di autonomia, è fonte di non poche divisioni di principio e di fatto. Non si può negare che anche nell’antichità aborto ed eutanasia,e pratiche professionali non solo colposamente, ma non di rado anche dolosamenteincongrue sono state effettuate proprio dai medici. Non a caso la loro immagine è stata spesso denigrata e dileggiata – è sufficiente ricordare le graffianti opere di Molière -senza tuttavia riuscire a scalfire profondamente il rapporto con i pazienti e le loro famiglie, aiutato largamente dalla prevalente obbedienza dei medici ai precettideontologici modellati dalle evoluzioni storiche. Oggi i condizionamenti agiscono profondamente nell’opinione pubblica e si riflettono sui medici, che peraltrone sono spesso anchegli autori. Le proposte della medicina avanzata, che lacerano la bioetica, sono infatti vere e proprie tentazioniche per una molteplicità di interessi stimolano la società e la dividono. Innegabili risultano i successi , profondamente negativi, di questi condizionamenti e la battaglia si fa sempre più aspra restringendo i difensori della bioetica tradizionale - quella autentica delle origini - e della professione medica deontologicamenterigorosa, entro recinti nei quali le loro voci si affievoliscono mentre l’utilitarismotemerario ed imprudente spinge senza sosta verso nuove trasgressioni.
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E’ difficile, in questa situazione, verificare con sicurezza il pensiero dell’intera opinione pubblica, ma si deve prendere atto che le modalità di presentazione di una medicina scientifica trionfante, che occupa spazi sempre più ampi, oltre i confini della terapia (com’è tipicamenteil caso dellachirurgia estetica) stanno provocando uno squilibrio il cui esito finale non si può prevedere ma per ora induce ad un realistico pessimismo. E’ certo che le richieste di larga parte dell’opinione pubblica si concentrano sempre più nell’obiettivo di realizzare qualsiasi desiderio che la medicina possa soddisfare ed è ovvio che in questo contesto il primo dei desideri è quello della salute ad ogni prezzo, di eliminare il dolore, di una sopravvivenza senza limiti. Da queste aspettative irrealistiche nasce, in un numero non limitato di casi , la reazione giudiziaria agli insuccessi. Queste reazioni si manifestano sempre più anche nei trattamenti che riguardano persone in età avanzata, con salute molto compromessa, per le quali si attendono dai medici miracoli : oppure al contrario si manifestano con la proposta di soppressione degli inutili e grandi invalidi, ora estesa all’eutanasia neonatale e pediatrica che si affiancano alla soppressione degli embrioni e dei feti. E’ un quadro in molta misura sconvongente e devastanteche marchia la figura di molti medici riflettendosi negativamente anche sull’immagine dei tanti, probabilmente il maggiore numero,che svolgono un’attività meritoria ed efficace. 4. In questo contesto può appariresingolare e paradossale la diffusione delle cosiddette medicine alternative, non scientifiche . Le contraddizioni che percorrono le società, anche quelle cosiddette ‘più avanzate’ ,sono di per sé una semplice spiegazione. Ma ad un esame più profondo ci si rende conto che questa deriva è il frutto composito della paura della sofferenza, anche di quella indotta inevitabilmente dalla medicina scientifica e della paura degli errori medici. Questa deriva è nel contempo provocata dall’azione consumistica, che nei medici ha molti complici sempre più agguerriti, motivata principalmente da interessi commerciali e professionali, ed attuata con la complicità dei media in cerca di sensazioni e curiosità, capaci di influenzare l’opinione pubblica spregiudicatamente, spesso irresponsabilmente,oltre ogni ragionevole limite, con correlativi rischi e danni. Si può dunque affermare che la medicina occidentale scientifica è oggi esposta ad una serie di fattori condizionanti capaci di alterarne ,perlomeno in parte, l’antica immagine ippocratica , inducendola in tentazioni peraltro nate prevalentemente nel suo seno e travolgendo gli argini che la bioetica autentica –nata a difesa dell’umanità – cerca di erigere, insidiata dalla bioetica ‘promozionale’ che ne tradisce le finalità . Per fortuna molti medici, probabilmente la maggioranza,mantengono viva la fiaccola della tradizione deontologica, e salvaguardano l’immagine tradizionale del medici nel silenzio operoso della loro difficile attività quotidiana. 5. Queste brevi riflessioni su di un tema di grande difficoltà si possono concludere cercando di riassumerne i nodi centrali. La figura del medico, e l’immagine della medicina presentano oggi un polimorfismo ricco di contraddizioni che attraversano non solo i paesi poco sviluppati –alcuni dei quali in fase di rapida evoluzione, come la Cina e l’India -ma anche l’occidente, e l’oriente progredito. Convivono anzitutto, e la convivenza non dà segni di essere transitoria, la medicinabasata sull’evidenza scientifica, ed una grande varietà di pratiche alternative prive oggettivamente di basi scientifiche anche se talora capaci di produrre effetti benefici su patologie minori ,il più delle volte con ilmeccanismo dellasuggestione. La medicina scientifica è quella cui si rivolgono i pazienti per la maggior parte delle malattie, generali o locali, suscettibili di cure reali, spesso risolutive. Vi è nella quasi totalità dei cittadini la consapevolezza che è questa medicina ,moderna e dinamica, che ha assicurato profondi cambiamenti nella salute delle società che se ne possono avvalere appieno come risulta dall’aumento progressivo della vita media che in tali società si è realizzato , invero causato anche dalle migliori condizioni di vita, specie alimentari, di cui possono godere i loro più fortunati abitanti. Sulla medicina scientifica
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poggiano le più autentiche speranze di guarigione ,e di maggiore sopravvivenza, di granparte della popolazione che di tale medicina sacientifica può avvalersinel modo più adeguato edinamicamente aggiornato. E’ in virtù di queste speranze che i paesi più avanzati economicamente accettano di devolvere risorse economiche sempre più rilevantialla ricerca biomedicaed alla gestione pubblica e privata della medicina scientifica: le cui esigenze sono di anno in anno sempre più onerose, sia sotto il profilo dell’aggiornamento tecnologico, che della spesa per terapie e per la complessa organizzazione sanitaria. Si deve tuttavia distinguere tra la valutazione positiva espressa da buona parte dei cittadini nei confronti della Scienza Medica, e la valutazione spesso critica e pessimistica nei confronti dei medici che la praticano. Non vi è ,in genere, consapevolezza adeguata della rischiosità intrinseca della Medicina, dovuta al concorso tra la dannosità delle malattie e la possibile dannosità dei trattamenti diagnostici e soprattutto di quelli terapeutici, chirurgici e medici. Né vi è adeguata consapevolezza dei grandi limiti che connotano anche la medicina più avanzata. Molte malattie sono tuttora a genesi oscura, per molte altre, di varia natura, le terapie disponibili sono a carattere sintomatico e non assicurano la guarigione ma,spesso, solo una maggiore sopravvivenza e la possibilità di sopportare la cronicità della malattia con minori sofferenze. Da questi rischi, e dai limiti della medicina scientifica,conseguono inevitabilmente insuccessi o addirittura conseguenze dannoseiatrogene che in genere non sono addebitate alla Medicina in quanto tale, bensì a singoli medici o gruppi di medici od a deficienze di determinate strutture sanitarie. Sono addebiti molte volte giustificati, altre volte frutto della inadeguata informazione ,sia dei singoli pazienti e dei loro congiunti, sia della collettività intera. Da questa confusa situazione consegue il rischio reale, frequentemente realizzato, dirottura dell’alleanza terapeutica che è una base irrinunciabile della medicina ippocratica. Solo un’opera di coraggiosa ed onesta informazionepotrà ovviare, in qualche misura, a questo deterioramento per realizzare un consensosociale realmente informato idoneo a riportare in equilibrio la bilancia delle relazioni tra società e classe medica. E’ una informazione che, pur senza drammatizzare, deve far comprendere ai cittadini i prezzi reali che tutti, sia pure in varia misura, dobbiamopagare per potere continuare ad avvalerci della medicina moderna, con le sue grandi luci e le non poche ombre. La strada che molti medici, e pazienti, percorrono attraverso il ricorso alle medicine “dolci” alternative, può avere una sua qualche validità nell’allentare la tensione ed i conflitti. Ma tale strada alternativa, oltre a costituire in buona parte dei casi un inganno – perché ricorre ad argomentazioni e mezzi di non comprovata efficacia - che ha i suoi costi economici e le sue delusioni e può anche contribuire ad introdurre elementi di dubbio nella società creando sconcerto ed ambiguità che intorbidano sia l’immagine della Medicina che dei medici. Più grave è tuttavia da ritenere la divisione che si realizza all’interno della classe medica ,ad opera di contrastanti ideologie su temi essenziali della vita e della morte. Il filo nero che congiunge, nel corso dei millenni, progetti ed opere intese a guidare le società sulla base di principi utilitaristici o comunque ideologici, ha visto e continua a vedere i medici mescolarsi a sociologi, filosofi e politici nell’accettare principi che sono in radicale contrasto con la medicina ippocratica: volta al beneficio esclusivo del paziente, e contraria a partecipare a qualsiasi progetto di morte. La sequenza dei progetti, e le modalità di attuarli, si è accentuata nel secolo ventesimo, sia per il prevalere, per molti anni, di movimenti politici assolutistici e privi di attenzione per la vita, sia per i progressi della medicina scientifica che hanno posto i medici, e la società, di fronte a problemi delicati ed angosciosi. La legalizzazione dell’aborto, le leggi permissive sull’eutanasia (anche ‘perìdiatrica’) la produzione di embrioni poi abbandonati od impiegati per la sperimentazione, la selezione-soppressione embrionale tramite la diagnosi preimpianto nella fecondazione assistita e la diagnosi prenatale nel corso della gravidanza,la sterilizzazione , sono esempi di un profondo vulnus alla medicina ippocratica e dei fondamenti di ogni società moderna,trovano purtroppo molti medici schierati sul versante opposto a quello di difesa ad oltranza della vita.
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“Se si tocca il corpo tutto è perduto “ ha affermato accoratamente il grande biologo francese Jean Rostande questo monito, rivolto a coloro che stravolgono la medicina, deve indurre a moltiplicare gli sforzi per riportarla all’interno dell’area della vita, che le appartiene per millenaria tradizione.
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VICENTE BELLVER CAPELLA IL DIRITTO ALLA VITA E IL DIRITTO ALL’ASSISTENZA SANITARIA: SIGNIFICATI E LIMITI Si ritiene, comunemente, che la disciplina della bioetica risalga ai primi anni ’70 quando, quasi simultaneamente, Van Renssaeler Potter, all’Università del Michigan, e Andrè Hellegers, all’Università di Georgetown, coniarono il termine. Personalmente non sono completamente convinto che la Bioetica sia una disciplina recente, ma se bisogna pensarla così, allora ci sono buone ragioni per ritenere che le sue origini siano da rintracciare subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Questo fu il periodo dello sviluppo della tecnologia in ambito biomedico che ha sollevato così tanti nuovi problemi. Fu anche il periodo che vide l’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) e la stesura del Codice di Norimberga (1946). Nella Dichiarazione, per la prima volta nella storia, vengono riconosciuti i due principi che in larga misura sono alla base del discorso della Bioetica contemporanea: il diritto alla vita (art. 3) e il diritto alla salute e alle cure mediche (art. 25). Da parte sua, il Codice di Norimberga stabilì le condizioni necessarie per la legittimità delle sperimentazioni sugli esseri umani. La questione del contenuto e dei limiti del diritto alla vita e alla salute si può affrontare da almeno tre diverse prospettive. Il primo approccio focalizza i testi (leggi e sentenze) che stabiliscono gli scopi di questi diritti negli ordinamenti interni. Un confronto delle leggi nei vari paesi mette in luce le differenze più grandi che esistono tra alcune nazioni ed altre. Questa sarebbe la prospettiva del Diritto Costituzionale e del Diritto Comparativo. In secondo luogo, si potrebbe adottare la prospettiva del Diritto Internazionale e rivedere i documenti di diritto internazionale che stabiliscono le caratteristiche dei diritti summenzionati. Questi documenti, generalmente, sono formulati in termini sufficientemente ampi da garantire flessibilità agli stati nello specificare l’esatto contenuto dei diritti. Infine, si potrebbe adottare un approccio filosofico e chiedersi quale dovrebbe essere il contenuto del diritto alla vita e del diritto alla salute, al di là delle leggi emanate dagli stati e dagli organismi internazionali. Anche se può sembrare un approccio eccessivamente focalizzato sul diritto positivo, inizierò il mio intervento facendo un’analisi dei principali testi di diritto internazionale in cui si fa riferimento ai diritti alla vita e alla salute. Anche se farò qualche riferimento ad alcune leggi nazionali, concentrerò l’attenzione sui testi internazionali poiché questi rendono l’idea del contenuto attribuito ai due diritti nella maggior parte delle regioni del mondo. In secondo luogo, parlerò delle difficoltà che nascono quando si cerca di definire il contenuto, l’oggetto e i titolari dei diritti. Prima di passare a questi due argomenti, è utile una classificazione dei testi giuridici internazionali che fanno riferimento ai diritti umani alla vita e alla salute. LE LEGGI INTERNAZIONALI SUI DIRITTI UMANI I testi giuridici che contengono riferimenti ai diritti umani, possono essere classificati secondo il loro obbiettivo, cioè a seconda che siano testi nazionali o internazionali. Sebbene le norme internazionali sui diritti umani non esistessero prima del ventesimo secolo, queste hanno avuto una crescita esponenziale a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. Queste norme possono avere portata universale oppure regionale. Nel primo caso sono generalmente adottate dalle Nazioni Unite o da una delle Agenzie specializzate (UNESCO, FAO, OMS). Nel secondo caso, invece, sono generalmente redatte da organismi internazionali dedicati esclusivamente o parzialmente alla protezione dei diritti umani in una particolare regione del mondo. In generale, ci sono quattro regioni con organismi di questo tipo: l’Europa (Consiglio d’Europa, Unione Europea), l’Africa (Unione
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Africana), le Americhe (Organizzazione degli Stati Americani) e i Paesi Arabi (Lega degli Stati Arabi, Organizzazione della Conferenza Islamica). A seconda del loro valore vincolante, i testi delle leggi internazionali possono essere classificati come dichiarazioni o come convenzioni. Le Dichiarazioni sono testi che enunciano un accordo di intenti tra gli stati firmatari, ma non possono essere impugnate contro questi stati in caso di infrazione. Le Convenzioni (chiamate anche Patti, Trattati, Protocolli, ecc.) prevedono invece un meccanismo coercitivo per obbligare gli stati firmatari a rispettare gli impegni presi. Nel settore dei diritti umani, gli stati spesso cominciano con l’adottare una Dichiarazione che – come suggerisce lo stesso nome – è una semplice espressione di volontà. Sulla base della Dichiarazione, si cerca poi spesso un consenso per un testo vincolante (Convenzione). I diritti umani si dividono in due categorie principali: diritti civili e politici, e diritti economici sociali e culturali. La prima categoria riguarda i diritti personali fondamentali, come il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla privacy, alla libertà religiosa, ecc. o il diritto di partecipazione alla vita politica (voto passivo e attivo, ma anche il diritto di riunione, di associazione, di manifestare, ecc.). La seconda categoria mira al riconoscimento dei bisogni fondamentali di tutte le persone e al riconoscimento del diritto, uguale per tutti, di partecipare alla vita sociale, culturale ed economica del paese. Il primo gruppo di diritti è relativamente semplice da garantire: è sufficiente che uno stato si astenga dall’interferire negli ambiti della vita personale e organizzi i meccanismi necessari (polizia, giudiziaria e punitiva) per punire chiunque lo faccia. I diritti del secondo gruppo sono più difficili da garantire poiché si richiede allo stato di intervenire attivamente attraverso l’elaborazione di disposizioni necessarie per dare accesso, ai propri cittadini, ad ambiti che sono fondamentali per il loro sviluppo (salute, educazione, cultura, sicurezza sociale, ecc.). La disponibilità di questi diritti è fortemente condizionata dalla capacità economica dello stato e il loro contenuto è quindi notevolmente più limitato nei paesi più poveri. Data questa situazione, alcuni dubitano del fatto che questi possano davvero essere considerati diritti: se i diritti umani sono universali, come possiamo parlare di diritti quando il loro contenuto – e anche la loro stessa esistenza – è condizionata dalla capacità economica? Non mi addentrerò qui in una discussione sulla legittimità dei diritti sociali. Darò per certa, di fatto, la loro esistenza e non come semplici lineeguida da tenere in considerazione per definire politiche pubbliche e per elaborare leggi. Di conseguenza, il diritto alla salute e all’assistenza sanitaria cadrebbero nell’ambito della seconda categoria di diritti umani, mentre il diritto alla vita farebbe parte dei diritti civili e politici, cioè dei diritti la garanzia dei quali non dipende dalla capacità economica dello stato. IL DIRITTO ALLA VITA E IL DIRITTO ALLA SALUTE NELLE NORME INTERNAZIONALI Documenti Universali Nonostante abbia un modesto valore normativo, in quanto semplice Dichiarazione firmata da appena cinquanta stati, non c’è dubbio che il testo più importante a livello mondiale sui diritti umani sia la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. La Dichiarazione fa riferimento al diritto alla vita (art. 3) in questi termini: Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Uno degli aspetti più controversi di questo diritto riguarda la determinazione dei soggetti di tale diritto. Come vedremo in seguito, c’è un importante dibattito sull’interpretazione dell’espressione ogni individuo (“everyone”). Nella Dichiarazione non c’è alcun riferimento specifico alla pena capitale, sebbene l’articolo 5 stabilisca che Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti. Riguardo al diritto alla salute, l’articolo 25 afferma quanto segue: (1) Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia con
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particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. (2) La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della sua stessa protezione sociale. Il riferimento al diritto alla salute è un riferimento preciso, poiché si fa espressa menzione del diritto all’assistenza medica e al fatto che il diritto è proprio degli individui e delle famiglie e protegge in particolare la maternità e l’infanzia. Nel 1966 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato due Patti Internazionali che hanno dato forza di legge alla Dichiarazione Universale del 1948. A quell’epoca il mondo era diviso in due blocchi che non potevano trovarsi d’accordo sui termini di una Convenzione Internazionale sui Diritti Umani. La situazione di stallo portò all’adozione di due Patti: uno sui diritti civili e politici e il secondo sui diritti economici, sociali e culturali. Il primo riconosce il diritto alla vita, il secondo quello alla salute. Il diritto alla vita è riconosciuto dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. In questo documento non si specifica se gli individui non ancora nati siano titolari di questo diritto, sebbene si usi l’espressione ogni essere umano in contrasto con la Dichiarazione del 1948 che usa l’espressione ogni individuo. Non si proibisce la pena di morte, ma si indicano alcune condizioni alle quali si può considerare lecita e si chiarisce anche che gli stati dovrebbero aspirare ad abolirla[1]. Questa disposizione fu più tardi completata da un protocollo addizionale per l’abolizione della pena capitale, adottata nel 1989[2]. L’articolo 7 del Patto proibisce la tortura o il trattamento o la punizione crudele, inumana o degradante e stabilisce che la sperimentazione su esseri umani può aver luogo solo con il consenso della persona coinvolta[3]. Nel Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali si fa riferimento al diritto alla salute in termini ambiziosi[4], in linea con la dottrina espressa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo Statuto. Come nella Dichiarazione Universale, si fa riferimento anche alla protezione a cui hanno diritto l’infanzia e la maternità[5]. Curiosamente, sebbene il diritto sia espresso in termini di più alto standard di salute, le misure considerate per renderlo effettivo sono concrete e riguardano soprattutto le condizioni ambientali e le misure di salute pubblica. In contrasto con la medicalizzazione della società e con lo sviluppo di una forma di medicina incentrata sul trattamento dei problemi critici, in questa sede si sostengono la prevenzione e la protezione ambientale, poiché sono più produttive ed efficaci a medio termine. La speciale protezione a cui ha diritto l’infanzia, e in particolare le condizioni di salute dei bambini, era già stata messa in risalto in un precedente testo delle Nazioni Unite: La Dichiarazione Internazionale sui Diritti del Bambino, adottata nel 1959[6]. Trent’anni più tardi a questa Dichiarazione seguì la Convenzione sui Diritti del Bambino (1989). Mentre la prima conteneva solo dieci principi e riempiva appena due pagine, la Convenzione comprende 54 articoli in 15 pagine. La Dichiarazione sottolineava il principio della protezione del bambino, mentre la Convenzione pone l’accento sul principio di autonomia. Tali differenze sono utili a mettere in luce cambiamenti importanti, e non necessariamente positivi, nel mondo delle norme sui diritti umani: lo scopo dei diritti non è proteggere i beni fondamentali della persona (in questo caso del bambino), ma sottolineare la prevalenza della volontà individuale sulla volontà di altri. Inoltre, i diritti non sono protetti attraverso l’adozione di principi, ma piuttosto attraverso regole con contenuti molto specifici. Tuttavia, la prevalenza dell’autonomia sulla protezione non è apparente negli articoli riguardanti la salute del bambino; qui la Convenzione si pone un limite nello sviluppare ulteriormente i principi già elaborati nella Dichiarazione del 1959 e nel Patto Internazionale del 1966. L’articolo 24 fa riferimento ai più alti standard di salute possibili, ma le misure alle quali si riferisce si basano sulla considerazione delle condizioni ambientali, il cibo, la prevenzione degli infortuni, l’educazione e le cure primarie. In breve, misure essenzialmente preventive[7]. In un riferimento alquanto controverso, l’articolo proibisce anche le pratiche tradizionali pregiudizievoli verso la salute dei bambini. Da un lato, non si stabilisce semplicemente che la salute debba prevalere
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sul rispetto delle culture. Dall’altro, anche se si accetta che la salute debba prevalere sulle pratiche culturali che la pregiudicano, dato che la nozione di salute è condizionata dalla cultura, non risulta sempre facile individuare queste condizioni di conflitto. L’articolo 25 si riferisce ai bambini considerati dal punto di vista delle autorità sanitarie, mentre l’articolo 32 stabilisce che una delle condizioni alle quali i bambini possono lavorare è che il lavoro non pregiudichi la loro salute. La definizione di bambino data nell’articolo 1 della Convenzione non chiarisce se il nasciturus debba o no essere considerato un bambino[8]. Per evitare ambiguità, l’Argentina, al momento della ratifica della Convenzione, ha reso pubblica una dichiarazione in cui si ritiene che l’interpretazione di ‘bambino’, nell’articolo 1, debba comprendere tutti gli esseri umani dal momento del concepimento fino all’età di 18 anni. Vi è una differenza significativa tra la Dichiarazione e la Convenzione riguardo alle cure prenatali e postnatali. La prima afferma che le cure dovrebbero essere rivolte sia alla madre che al bambino, mentre la seconda si riferisce solo alla madre. Il principio n. 4 della Dichiarazione, quindi, implicherebbe che il nasciturus ha il diritto alla protezione della salute e all’assistenza sanitaria, possibilità esclusa, invece, dai termini usati nell’articolo 24 della Convenzione. Un evento cruciale, in relazione al diritto alla salute, fu la creazione, nel 1948, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), un organismo specifico delle Nazioni Unite il cui scopo, secondo il suo Statuto, è il raggiungimento, da parte di tutti, del più alto livello possibile di salute (art. 1). Il Preambolo dell’Atto Costitutivo esprime il concetto di salute e le caratteristiche del diritto alla salute, in termini molto ampi, come vedremo in seguito[9]. Il Preambolo fa riferimento ai principi che guidano le politiche di sanità pubblica – giustizia tra i paesi, la necessità della partecipazione pubblica, rapporto armonioso tra l’uomo e il suo ambiente, ecc. – sui quali esiste un consenso quasi universale, nonostante gli stati li tengano in considerazione e li interpretino anche in maniera diversa. Il concetto di salute e di diritto alla salute espressi nel Preambolo hanno dimostrato di essere molto controversi. Entrambi sono interpretati in maniera talmente ampia che in realtà minano la garanzia di salute per gli individui e le popolazioni. Quando la salute è intesa in maniera onnicomprensiva e tutti hanno diritto a tutto, si finisce col non riconoscere diritti a nessuno. DOCUMENTI REGIONALI Le più importanti regioni del mondo che hanno adottato testi normativi sui diritti umani sono le Americhe, l’Europa, l’Africa e i Paesi Arabi. Le Americhe Durante la cerimonia che ha sancito l’adozione formale della Carta dell’Organizzazione degli Stati Americani (Bogotà, 1948) per la promozione della mutua assistenza tra i membri, è stata adottata anche la Dichiarazione Americana dei Diritti e dei Doveri dell’Uomo, solo pochi mesi prima della firma della Dichiarazione Universale. L’articolo 1 sancisce il diritto alla vita come segue: Ogni essere umano ha il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. La protezione della maternità e dell’infanzia è riconosciuta nell’articolo 7: Tutte le donne, durante la gravidanza e l’allattamento, e tutti i bambini hanno il diritto ad una protezione, un’assistenza e un aiuto particolari. Il diritto alla salute è stabilito nei termini seguenti: Ogni persona ha il diritto alla conservazione della propria salute attraverso misure sanitarie e sociali legate all’alimentazione, al vestiario, all’alloggio e all’assistenza medica, secondo le possibilità offerte dalle risorse pubbliche (articolo 11). In seguito questa Dichiarazione ha dato origine a un testo vincolante, la Convenzione Americana sui Diritti Umani (San José, 1969). Nella Convenzione, l’articolo 4 enuncia il diritto alla vita[10] in termini molto innovativi. Esso riconosce che la tutela della vita comincia col concepimento e, sebbene
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senza proibire in generale la pena capitale, stabilisce che gli stati che l’hanno abolita, non possano restaurarla. A sua volta, la Convenzione Americana è stata integrata dal Protocollo di San Salvador (1989) sui diritti economici, sociali e culturali. L’articolo 10 del Protocollo regola espressamente il diritto alla salute affermando non solo che la salute è un bene pubblico e che le autorità hanno il dovere di assicurare la salute pubblica, ma anche che tutti i cittadini devono ricevere un’assistenza medica adeguata[11]. Nell’enunciazione del diritto alla tutela delle persone anziane, il Protocollo include, tra gli altri obblighi degli stati, la fornitura di servizi adeguati, come il cibo e l’assistenza medica specializzata, per gli individui anziani che non ne dispongano e che non siano in grado di provvedervi (art. 17.a). In relazione al diritto di tutela degli handicappati, si afferma che Ogni individuo con ridotte capacità fisiche o mentali ha diritto a ricevere un’assistenza particolare che lo aiuti a sviluppare al massimo la propria personalità (art. 18). Europa In Europa, due organismi – il Consiglio d’Europa e, da poco, l’Unione Europea – hanno adottato testi rivolti al riconoscimento e alla protezione dei diritti umani. Il Consiglio d’Europa fu istituito nel 1949 col doppio obbiettivo di difendere la democrazia e il principio di legalità e di proteggere i diritti umani e quindi evitare che si ripetessero esperienze come la Seconda Guerra Mondiale appena conclusa. Nel 1950, a Roma, gli stati membri adottarono la Convenzione Europea sui Diritti Umani, il cui maggior contributo fu quello di realizzare, ad un livello superiore rispetto alla giurisdizione nazionale, un sistema giuridico di protezione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione. Quindi, una volta percorse senza successo tutte le vie nazionali per la denuncia della violazione dei propri diritti umani, una persona può cercare soddisfazione presso la Corte Europea dei Diritti Umani. La Convenzione riguarda esclusivamente i diritti civili e politici. L’adozione della Convenzione ha rappresentato un’autentica rivoluzione nella politica legislativa. Per la prima volta dall’avvento dello stato moderno, un gruppo di stati ha rinunciato ad una parte della propria sovranità a favore di un organismo sopranazionale al quale sono stati conferiti i poteri di giudicare e, se del caso, di condannare la loro stessa condotta. Questa riduzione dei poteri sovrani ha dimostrato che, per gli stati, garantire i diritti dei cittadini era più importante del loro stesso potere. Dal momento in cui è stata adottata, la Convenzione è stata integrata da 11 Protocolli addizionali che hanno esteso la portata dei diritti e rafforzato i meccanismi per la loro protezione. L’articolo 2 riconosce il diritto alla vita[12], mentre l’articolo 3 bandisce la tortura[13]. Sebbene la pena capitale non sia stata inizialmente proibita, il Protocollo addizionale alla Convenzione Europea sui Diritti Umani riguardante l’Abolizione della Pena di Morte, firmato a Strasburgo nel 1983, ha introdotto tale divieto, tranne che in tempo di guerra. Il Consiglio d’Europa ha adottato (Torino, 1961) anche la Carta Sociale Europea sui diritti economici, sociali e culturali[14]. Sebbene sia una Convenzione, questa Carta non prevede i meccanismi di garanzia necessari per l’effettivo esercizio dei diritti sanciti dalla Convenzione di Roma. La Carta fa riferimento al diritto alla salute stabilendo una differenza tra il diritto alla tutela della salute[15] e il diritto all’assistenza sociale e sanitaria[16]. Il contenuto di questi diritti è integrato ulteriormente dai riferimenti, presenti un po’ dappertutto nella Carta, a condizioni di lavoro sicure e sane (art. 3), a una particolare protezione della salute dei giovani lavoratori (art. 7) e alla protezione della maternità (art. 9). Oltre a quella citata – che rappresenta la più generale delle sue Convenzioni – il Consiglio d’Europa ha adottato molte altre Convenzioni finalizzate alla protezione di diritti umani specifici contro nuove minacce. Una della più importanti, direttamente riguardante i diritti alla vita e alla salute, è la Convenzione Europea sui Diritti Umani e la Biomedicina del 1997, conosciuta anche come
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Convenzione di Oviedo il cui obbiettivo è quello di proteggere i diritti umani contro le minacce rappresentate dalle tecnologie biomediche. In essa si contempla l’adozione di Protocolli addizionali per regolamentare gli aspetti non compresi dalla Convenzione o per regolamentare più in dettaglio quelli già inclusi[17]. La Convenzione di Oviedo fa riferimento al diritto alla salute e – riferendosi alla protezione da attribuire agli embrioni – anche al diritto alla vita. Il riferimento alla salute è molto generale ed è limitato al requisito che gli stati forniscano equamente l’assistenza sanitaria. L’articolo 3 recita: Le parti, tenendo in considerazione i bisogni sanitari e le risorse disponibili, dovranno adottare misure appropriate per fornire, nell’ambito della loro giurisdizione, un accesso equo ad un’assistenza sanitaria di qualità adeguata. La Convenzione riconosce che gli embrioni debbano essere trattati con rispetto, ma allo stesso tempo, afferma che tale rispetto può essere compatibile con il loro uso a fini di ricerca. Stabilisce, inoltre, una soglia minima di protezione, cioè il divieto di creazione di embrioni a scopo di ricerca[18]. Su questo argomento sono sorti dubbi di interpretazione: la Convenzione permette la creazione di embrioni per fini puramente terapeutici? Un’interpretazione letterale e restrittiva del divieto porterebbe ad una risposta affermativa, sebbene si possa anche concludere che la Convenzione ammetta la creazione di embrioni a scopi industriali o ad altri scopi, ma non per la ricerca. Dalla prospettiva teleologica, tuttavia, sembrerebbe strano che la Convenzione permetta la creazione di embrioni per un uso terapeutico quando essa stessa proibisce espressamente la loro creazione per esperimenti che potrebbero portare a terapie basate sulle cellule embrionali. Questo argomento, a sua volta, può essere contestato asserendo che la Convenzione permetta la ricerca su embrioni che non siano stati usati, o che non lo saranno, in programmi di riproduzione assistita. Da questo punto di vista, la Convenzione stabilisce diversi gradi di tutela, vietando la creazione di embrioni a fini di ricerca (gli studi possono essere condotti solo su embrioni “soprannumerari”), ma non se le cellule embrionali possono essere usate direttamente in procedimenti terapeutici. Il fatto che la Convenzione stessa riconosca che la vita umana inizi con il concepimento e da questo momento meriti tutela[19], sembrerebbe escludere la creazione e la distruzione di embrioni anche per scopi direttamente terapeutici, dato che ciò rappresenterebbe una strumentalizzazione degli embrioni umani e una carenza di protezione richiesta invece dall’articolo 18 della Convenzione. Sebbene L’Unione Europea sia nata inizialmente come organismo sopranazionale a scopi economici e commerciali, oggi essa aspira anche ad un’unione politica. Nel 2000, a Nizza, gli Stati Membri hanno adottato la Dichiarazione Europea dei Diritti Fondamentali che in seguito è andata a formare la seconda parte del Trattato della Costituzione Europea, firmato a Roma il 4 novembre 2004 e intitolato Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. In essa ci sono riferimenti al diritto alla vita[20] e alla salute[21], con particolare attenzione alla salute sul posto di lavoro (art. 31), alla tutela dei lavoratori minorenni (art. 32) e alla maternità (art. 33). Si stabilisce anche una serie di divieti legati alle biotecnologie, come le pratiche eugenetiche, la clonazione umana a fini riproduttivi e lo sfruttamento economico di parti del corpo umano[22]. Il divieto di clonazione si presta a due interpretazioni contraddittorie. Se si riconosce l’embrione come essere umano, allora la clonazione di embrioni è proibita, indipendentemente dalle finalità. Se invece si considera il momento della nascita come inizio dell’essere umano, viene proibita solo la clonazione a scopi riproduttivi. Africa L’Organizzazione per l’Unità Africana[23], nata nel 1963 per promuovere l’unità e la solidarietà tra i paesi africani, ha elaborato un’ampia legislazione sui diritti umani. Il testo più importante è la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, conosciuta anche come Carta di Banjul (1981), che riconosce espressamente il diritto alla vita[24] e il diritto alla salute[25]. Una caratteristica peculiare era rappresentata dal riconoscimento del dovere dello stato di tutelare la salute fisica e morale delle
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famiglie[26]. La Carta Africana sui Diritti e il Benessere del Bambino (1990), adottata anche’essa dall’Unione Africana, stabilisce, nell’articolo 14 sulla salute e i servizi sanitari[27], una serie di criteri molto simili a quelli compresi nell’articolo 24 della Convenzione sui Diritti del Bambino. In contrasto con il carattere di continuità con altri documenti internazionali sui diritti umani, è sorprendente notare che il Protocollo sui Diritti delle Donne in Africa, aggiunto alla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, stabilisce, per la prima volta in un testo giuridico internazionale, il diritto della donna all’aborto in determinate circostanze[28]. Paesi Arabi Nel mondo Arabo troviamo due documenti sui diritti umani. Il primo è la Dichiarazione del Cairo sui Diritti Umani nell’Islam – adottata dalla Conferenza Islamica nel 1990 – che fa riferimento ai diritti alla vita[29] e alla salute[30]. Riguardo al primo, l’eutanasia è esplicitamente proibita in relazione all’obbligo di preservare la vita umana per la durata del tempo stabilita da Dio. Nel 1994 la Lega degli Stati Arabi ha adottato la Carta Araba dei Diritti Umani che riconosce il diritto alla vita, anche se non vieta la pena capitale, e richiede un libero consenso per la sperimentazione su esseri umani[31]. CONCLUSIONI Alla luce di questa analisi, delle convenzioni e delle dichiarazioni universali e regionali sui diritti umani, si possono trarre alcune conclusioni:
1. I documenti sui diritti umani hanno a che fare sia con il diritto alla vita che con il diritto alla salute.
2. Il diritto alla vita solleva due questioni controverse: la pena capitale e il rispetto della vita di feti ed embrioni umani. Mentre in Europa è stato raggiunto l’accordo sull’abolizione della pena capitale, in altre regioni e a livello universale, la regolamentazione è lasciata ai singoli stati.
3. Riguardo alla protezione della vita umana non nata, solo la Convenzione di San Josè riconosce specificamente l’esistenza del diritto alla vita dal momento del concepimento. In generale, i paesi dell’America Latina riconoscono una maggiore tutela giuridica al ‘nascituro’. Tuttavia, in molti di questi paesi l’aborto è lecito in alcune circostanze e le tecniche di riproduzione assistita sono consentite senza particolari limiti per la protezione della vita degli embrioni[32]. Altri documenti lasciano agli stati l’interpretazione del diritto alla vita dei non nati.
4. L’aborto è più o meno depenalizzato nella maggior parte dei paesi del mondo. Ciò non significa che le donne abbiano un diritto all’aborto, ma piuttosto che l’aborto non è punibile. Solo il Protocollo aggiunto alla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli sui Diritti delle Donne in Africa riconosce il diritto della donna all’aborto.
5. Dall’istituzione dell’OMS, i concetti di salute e di diritto alla salute sono diventati estremamente ampi rendendo, quindi, difficile determinare i doveri degli stati per garantire questi diritti. Sebbene vari documenti internazionali sui diritti umani si riferiscano alla tutela della salute e all’assistenza medica quando parlano di diritto alla salute, solo la Carta Sociale Europea li distingue espressamente.
6. Il diritto alla vita gode di un certo numero di meccanismi di protezione giuridica a livello sopranazionale in Europa e nelle Americhe. Ma il diritto alla salute non ha questi strumenti che assicurano la sua tutela effettiva. Ciò è comprensibile se si considera che, per garantire il diritto alla vita, in linea di principio è sufficiente che lo stato si astenga dall’intervenire. Viceversa il diritto alla salute non può essere garantito se lo stato non rende disponibili le necessarie risorse economiche. Nel primo caso il diritto è garantito dall’astensione dello stato mentre, nel secondo, lo stato deve necessariamente intervenire per fornire le risorse e i servizi necessari.
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Inoltre, il concetto di diritto alla salute proposto, è talmente ampio che sarebbe impossibile individuare strumenti di garanzia che lo rendano effettivo.
OGGETTO, CONTENUTO E SOGGETTO DEL DIRITTO ALLA VITA Rispetto all’oggetto del diritto alla vita non sorgono particolari problemi: è la vita di ogni essere umano. Ma i problemi nascono quando si cerca di determinare il contenuto del diritto: riguarda anche il diritto di disporre della propria vita? L’obbligo del rispetto della vita degli esseri umani include anche il divieto della pena capitale? La risposta alla prima domanda, affermativa o negativa, dipende da quale teoria dei diritti prendiamo come riferimento. Se i diritti sono intesi come incarnazione dei desideri preferenziali del soggetto che hanno più valore rispetto ai desideri di tutti gli altri su un determinato argomento, allora il diritto alla vita includerà il diritto di disporre della propria vita. Viceversa, se si ritiene che siano uno strumento di protezione di beni considerati talmente importanti per gli esseri umani che nessuno possa esserne privato, il diritto alla vita includerà anche il dovere di rispettare la propria vita. Questa era l’interpretazione di Kant quando affermò che il suicidio non era una manifestazione del diritto alla vita ma una sua violazione, poiché disponendo della vita di qualcuno, il soggetto non è considerato un fine, ma un semplice mezzo. La questione è se il diritto alla vita sia o meno inalienabile. Tra le caratteristiche fondamentali dei diritti umani – universalità, inviolabilità, inalienabilità e indivisibilità – l’inalienabilità è stata quella più duramente contestata dai teorici del Diritto. Inalienabilità significa che i diritti umani devono essere rispettati dagli stessi titolari che non possono calpestarli o alienarli. Di conseguenza, una persona non ha il diritto di cessare di essere libera, né di rinunciare per sempre alla sua privacy, né di disporre della propria vita. Le dichiarazioni dei diritti, di solito, proclamano la loro natura inalienabile, ma tale natura tende ad essere negata da molti punti di vista filosofici. In merito alla questione se il dovere del rispetto della vita degli esseri umani includa anche il divieto della pena capitale, tale interpretazione, a eccezione dell’Europa, non figura nei documenti internazionali, sebbene questi tendano a manifestare la volontà di abolire la pena capitale secondo un’interpretazione eventualmente più ampia del diritto alla vita. Ciò è particolarmente evidente nella Convenzione di San Josè, che proibisce la restaurazione della pena di morte in quegli stati che l’abbiano già abolita (art. 4.3). Tre tipi di argomentazione sono usati per giustificare la compatibilità della pena di morte con il diritto alla vita. Nel mondo anglofono, il punto di vista più comunemente sostenuto è che chi commette certe azioni perde la propria dignità di persona e quindi non è più degno della tutela dei propri diritti umani, in particolare del diritto alla vita. Si possono sollevare almeno due obbiezioni a questa posizione. Prima di tutto, la dignità umana non dipende dalla condotta morale della persona. I diritti di una persona non esistono, o cessano di esistere, sulla base delle sue qualità morali, ma sono piuttosto intrinseci alla condizione umana. In secondo luogo, un giudizio penale che porti ad una sentenza di morte non è un giudizio giuridico – che stabilisce se l’azione della persona corrisponde ad un determinato atto criminale e, in tal caso, merita la pena adeguata – ma un giudizio etico: una sentenza di morte è un’affermazione in base alla quale si ritiene che un essere umano non meriti più di vivere. Rappresenta quindi un giudizio negativo sull’esistenza di una persona, oltrepassando considerevolmente il tipo di giudizio che compete al Diritto. Un secondo argomento usato per giustificare la legittimità della pena capitale, riguarda la difesa della società. Secondo questo approccio, è lecito porre fine alla vita di coloro che rappresentano una minaccia per la società, purché la minaccia non possa essere eliminata in altro modo. Questo punto di vista potrebbe essere accettabile in termini generali, ma nello specifico, è inconcepibile pensare che la pena di morte possa essere giustificata dal bisogno di salvaguardare il bene comune.
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Un terzo tipo di argomentazione è che le differenze culturali rappresentino una barriera insormontabile. Secondo alcune culture, la pena di morte fa parte della serie di punizioni di cui uno stato si deve poter avvalere per punire chi commette certi crimini. Se le culture, in quanto tali, non possono essere indagate o, dove appropriato, criticate, allora bisogna accettare l’esistenza della pena capitale in alcuni stati. Tuttavia, se riconosciamo il carattere universale dei diritti umani, dobbiamo convenire che essi costituiscono la base necessaria per lo sviluppo delle manifestazioni culturali di una società. I diritti non sono semplicemente il prodotto di una data cultura, essi sono la condizione necessaria per lo sviluppo della vita e della cultura dei popoli. Perciò, e nonostante un drastico cambiamento nelle circostanze future che potrebbero rendere il ricorso alla pena capitale legittimo in alcuni casi eccezionali, sarebbe auspicabile che gli stati e gli organismi internazionali favorissero l’abolizione totale della pena di morte in tutto il mondo. La principale controversia attuale sul diritto alla vita si basa sull’identificazione dei soggetti di tale diritto. Anche in questo caso si può illustrare il problema attraverso tre domande: i nascituri e gli embrioni umani non impiantati sono titolari del diritto alla vita? Lo sono gli animali, o alcuni di essi? Lo sono gli esseri umani in stato vegetativo permanente? Delle tre domande, discuterò in dettagli solo la prima e affronterò le altre solo a grandi linee. Lo status giuridico degli embrioni e dei feti ha riscosso una notevole attenzione nelle discussioni sulla valutazione etica di tre attività estremamente controverse: l’aborto, il congelamento di embrioni e la creazione in laboratorio di embrioni a fini di ricerca. L’aborto. I documenti internazionali sui diritti umani evitano di stabilire un criterio universale che regoli l’aborto, preferendo lasciare agli stati la sua regolamentazione. Neanche la Corte Europea dei Diritti Umani si è espressa sulla possibilità che il nascituro abbia il diritto alla vita[33]. Questa linea riflette i diversi orientamenti adottati dagli stati per affrontare il problema. Si possono individuare almeno quattro approcci diversi: a.- Il nascituro è il soggetto del diritto alla vita è quindi non si può disporre della sua vita. Gli unici due casi in cui l’aborto non è punibile è quando si verifichi un tragico conflitto tra i diritti – la vita della madre vs. il diritto del bambino - o quando la legge non può obbligare la donna ad un comportamento ‘eroico’ (per esempio, costringere la vittima di uno stupro, che abbia avuto come effetto una gravidanza, a portare avanti la gravidanza stessa). Questa è la posizione assunta da diversi paesi dell’America Latina e dall’Irlanda. b.- Il nascituro è il soggetto del diritto alla vita, ma tale diritto può essere subordinato al diritto preferenziale della donna, come accade in Germania dove, sebbene il nascituro sia considerato persona e titolare del diritto alla vita[34], si può ricorrere all’aborto[35] senza particolari problemi. c.- Non si ritiene, o persistono almeno dei dubbi, che il nascituro sia una persona e quindi che detenga il diritto alla vita. Tuttavia, la vita è ritenuta un interesse giuridicamente protetto e la vita umana deve essere protetta dal momento del concepimento, sebbene in determinate circostanze si possa rinunciare a tale protezione a favore di altri interessi giudicati prevalenti.Questa è la posizione assunta dalla Corte Costituzionale spagnola nel 1985 quando si espresse su una questione costituzionale sollevata contro una legge che depenalizzava l’aborto. La posizione è stata adottata in diverse decisioni riguardanti quesiti costituzionali sulle due leggi del 1988, una sulle tecniche di riproduzione assistita e l’altra sulla donazione e l’uso di embrioni e feti umani o di loro cellule, tessuti e organi. d.- Lo stato non si pronuncia sul valore della vita del nascituro, ma sostiene che uno dei diritti fondamentali della persona è quello alla privacy che viene leso se lo stato cerca di imporre la sua volontà alla donna durante la gravidanza. Tale criterio fu formulato dalla famosa sentenza Roe vs. Wade emessa dalla Corte Suprema statunitense nel 1973. Il congelamento di embrioni. Il primo bambino in provetta nacque nel 1978. Per arrivare a questo stadio fu necessario creare molti embrioni e fare ricerche su di essi. Queste ricerche furono possibili grazie al vuoto giuridico cui alcuni paesi hanno cominciato a porre rimedio solo dalla metà degli anni ’80.
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La legislazione sulle tecniche di riproduzione assistita ha riguardato due questioni importanti in relazione alla protezione dell’embrione umano: innanzitutto, se debba essere permessa la creazione di più embrioni rispetto a quelli trasferiti nel grembo della donna e il congelamento di quelli non utilizzati; in secondo luogo, se si possa autorizzare la creazione di embrioni per la ricerca per contribuire al miglioramento delle tecniche riproduttive. In relazione alla prima questione, la posizione tradizionale è stata quella di permettere la fecondazione di un numero di ovuli maggiore rispetto alla quantità necessaria per un primo ciclo di trasferimenti in utero, congelando quelli non utilizzati[36]. L’avvento della possibilità di congelare gli embrioni ha portato alla formazione di una grande quantità di embrioni congelati che sono stati successivamente ‘abbandonati’ dai loro genitori biologici, creando così il problema di cosa farne. Spesso è stato affermato che sia meglio congelarli piuttosto che lasciarli morire. Tuttavia, il motivo del congelamento non era il beneficio dell’embrione, altrimenti si sarebbe presa la decisione di creare solo gli embrioni necessari al trasferimento per ogni ciclo. L’unica ragione per creare più embrioni era ridurre i disturbi causati alla donna dalla stimolazione ovarica e dall’estrazione follicolare. Rispetto al congelamento dell’embrione, dobbiamo chiederci innanzitutto se è contrario o meno al diritto alla vita. Alcuni hanno affermato che questo rappresenti un modo per impedire agli embrioni di non morire e quindi il congelamento non è contrario al diritto alla vita. Altri sostengono che il congelamento rappresenti un’offesa alla dignità degli embrioni in quanto impedisce il loro sviluppo naturale. Al di là della questione se sia lecito o meno il congelamento degli embrioni umani, è sorto un problema estremamente serio riguardo il destino di questi embrioni. Sono state proposte alcune alternative o risposte complementari: donazione ad altre coppie che vogliano riceverli; congelamento indefinito finché il loro sviluppo possa essere garantito; scongelamento; uso sperimentale. Tra tutte le opzioni sostenute, secondo me, lo scongelamento, a differenza delle altre, è l’unica opzione lecita e realistica. Il trasferimento di embrioni congelati ad altre coppie consenzienti è una pratica legittima e estremamente lodevole, ma non risolve del tutto il problema. Creazione e uso di embrioni a scopi riproduttivi. Dal 1998, quando si ottennero per la prima volta in laboratorio cellule staminali embrionali, sono state esercitate notevoli pressione perché si arrivasse a permettere l’uso di embrioni congelati in esperimenti volti ad ottenere linee cellulari staminali. All’improvviso gli embrioni congelati smisero di rappresentare un problema e divennero una risorsa per la ricerca sulle cellule staminali. Ma alcuni andarono oltre, proponendo la creazione di embrioni umani attraverso la fecondazione in vitro e la clonazione per usarli in questo tipo di ricerca. Si sostenne, a favore della clonazione di embrioni a fini di ricerca, che gli embrioni ottenuti in questo modo non dovessero essere chiamati embrioni, né essere trattati alla stregua di quelli ottenuti dalla fusione dei gameti. Dal mio punto di vista, tale forma di clonazione, comunemente ma erroneamente chiamata ‘terapeutica’, è ancora più grave di quella che porta alla nascita di un bambino, poiché implica la creazione della vita umana per essere distrutta. E tuttavia l’opinione pubblica sembra più ostile al secondo tipo di clonazione piuttosto che al primo. Attualmente le Nazioni Unite stanno preparando una Convenzione per assicurare il divieto universale della clonazione umana. L’adozione di un testo appoggiato dalla maggioranza dei paesi sta diventando sempre più difficile poiché un blocco di paesi è favorevole al divieto di clonazione umana in qualsiasi circostanza, mentre altri paesi sono contrari solo alla clonazione a scopi riproduttivi. Finora pochissime leggi nazionali hanno autorizzato la creazione di embrioni umani per la ricerca. Tuttavia, le pressioni per ottenere questa autorizzazione stanno aumentando. Alcuni paesi (Singapore, Israele, Corea del Sud, ecc.) negli ultimi anni hanno emendato le proprie leggi per permettere la creazione di embrioni a scopo di ricerca. Gli animali e il diritto alla vita. Uno dei più famosi filosofi morali del nostro tempo, Peter Singer, è anche il più strenuo difensore dei diritti degli animali[37]. Dal suo punto di vista, riconoscere diritti soltanto ai membri della specie umana rappresenta una forma di ‘specismo’, cioè di discriminazione
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sulla base dell’appartenenza ad una specie. Egli afferma che il valore morale non dovrebbe essere associato all’appartenenza ad una specie, ma alla capacità di provare piacere e dolore. Quindi, la comunità dei soggetti morali verrebbe modificata sostanzialmente e includerebbe anche individui adulti delle specie animali più avanzate, ma escluderebbe anche membri della specie umana con deficit, anche minimi, della capacità di percezione. La posizione di Singer è stata rifiutata dagli ecologisti più radicali e anche da alcuni settori del personalismo. Secondo i primi, usare la capacità di provare piacere e dolore come criterio per l’attribuzione della dignità, è discriminatorio (‘sentienism’), in quanto nega valore morale a forme di vita che non sono in grado di provare sentimenti. Viceversa, i personalisti affermano che solo i soggetti che siano in grado di assumersi delle responsabilità possano essere titolari di diritti e, dato che solo gli esseri umani hanno questa capacità, solo loro sono detentori di diritti. I personalisti sostengono anche che negare diritti agli animali non significhi affatto che l’uomo non abbia degli obblighi importanti nei loro confronti. Il diritto alla vita delle persone in stato vegetativo permanente. Alcuni autori ritengono che quando cessa l’attività del tronco cerebrale non abbiamo più a che fare con un essere umano e quindi sarebbe lecito, e anche doveroso, porre fine alla sua vita fisica. La battaglia per l’approvazione dell’eutanasia fondamentalmente si basa su due concetti: cioè, le persone dovrebbero poter decidere quando porre fine alla loro vita e, in secondo luogo, dovrebbe essere possibile porre fine alle vite di coloro che non recupereranno mai le loro funzioni cerebrali specificatamente umane. Se riteniamo che gli esseri umani non cessino di essere persone solo perché si trovano in uno stato vegetativo permanente, allora non si potrà negare loro il diritto alla vita e le loro vite non potranno essere interrotte. Un’altra questione è decidere in che modo sostenere la loro esistenza e promuovere la loro salute. OGGETTO, CONTENUTO E SOGGETTO DEL DIRITTO ALLA SALUTE Ci sono due aspetti fondamentali del diritto alla salute: il diritto al mantenimento delle condizioni di salute e il diritto all’assistenza medica. In entrambi i casi, l’oggetto del diritto è la salute degli individui e della società. Il problema sorge a causa della mancanza di accordo su cosa si debba intendere col termine ‘salute’. Il concetto più conosciuto è quello espresso nello Statuto dell’OMS: La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia. Questa definizione, estremamente generica, genera grandi aspettative nella gente e rende difficile definire intermini precisi il contenuto di questi diritti. Questo concetto di salute abbraccia virtualmente tutti gli aspetti della vita umana. Tuttavia, la salute diventa anche una categoria soggettiva, un’aspirazione definita completamente dall’individuo. La ricerca della felicità, menzionata nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti come uno dei diritti inalienabili, insieme alla libertà e all’uguaglianza, è rimpiazzata oggi dalla ricerca della salute. Il concetto corrente di salute ci porta alla nozione di salvezza alla quale è etimologicamente associato. Questa salvezza non è escatologica – non si raggiunge in un’altra vita – ma è piuttosto inerente all’esistenza. La salute-salvezza come traguardo esistenziale si ottiene quando si gode di una sensazione di benessere. Fino a tempi recenti, la salute è stata una categoria teleologica interpretata dai medici che decidevano chi era sano e chi aveva bisogno della loro assistenza professionale. Il lavoro dei medici consisteva nella cura del malato piuttosto che nella soddisfazione delle richieste o dei desideri espressi dagli individui. I medici collaboravano con la natura per ristabilire lo stato di salute dei pazienti oppure rimediavano al danno causato alla natura umana quando questa non era in grado di curarsi da sola. L’esito dell’attività medica non era mai completamente prevedibile e quindi non aveva senso stipulare contratti per garantire un determinato risultato. I medici potevano assumersi solo la responsabilità della realizzazione di alcune attività, ma non del conseguimento di risultati che non potevano garantire in modo certo[38].
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Invece, il nuovo concetto di salute è definito dagli stessi individui. Il ruolo del medico non è più curare quella che lui vede come malattia, ma soddisfare la domanda di assistenza sanitaria degli individui. Il concetto di cooperazione con la natura per curare il paziente è ormai perduto. Oggi, l’arte della medicina non solo guarisce, ma trasforma anche. La relazione medico-paziente acquisisce lo status di un contratto in cui si scambiano dei servizi (e anche dei risultati). In questo nuovo concetto di salute, l’autonomia è il principio etico essenziale che regola la relazione medico-paziente. Il paziente ha una sua idea di salute che vorrebbe vedere realizzata e il medico è lì per realizzarla. L’enorme e recente progresso fatto dalla medicina estetica, dalla riproduzione artificiale e dall’uso di psicofarmaci per scopi diversi dalla cura di patologie, sono tutte prove della trasformazione della medicina, a causa della quale la salute è oggi confusa con il desiderio. Attualmente non si realizzano interventi genetici sulla linea germinale in esseri umani. Questi sono vietati da molte leggi nazionali e internazionali (compresa la Convenzione Europea sui Diritti Umani e la Biomedicina e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e il Genoma Umano). In un futuro non molto lontano, tuttavia, sorgerà la questione se tali interventi debbano essere proibiti, se debbano essere autorizzati solo per l’eliminazione di condizioni genetiche molto pericolose o se debbano essere usati per modificare le caratteristiche genetiche della nostra discendenza. Naturalmente, il concetto di salute prevalente in quel momento, determinerà la risposta a queste domande. Il concetto soggettivistico di salute ha tre importanti conseguenze. Impedisce l’elaborazione di un concetto condiviso di salute pubblica, causa lo spostamento dell’assistenza sanitaria verso il settore privato e tende anche a trascurare i problemi di giustizia globale in ambito sanitario. 1.- Se la salute è un concetto elaborato dagli individui, in opposizione ad una ‘norma naturale’ che regola la vita delle persone, allora, in linea di principio, un accordo sull’interpretazione della salute pubblica, si raggiungerà solo al livello del minimo comune denominatore e le misure adottate saranno rarissime. Questo già succede in molti casi con ripercussioni drammatiche sulla salute di intere popolazioni. Fino a relativamente poco tempo fa, per esempio, difendere l’astinenza sessuale o la necessità di limitare i rapporti sessuali ai partner abituali, come modo più efficace di combattere l’AIDS era un taboo. Allo stesso modo, lo scarso interesse rivolto ai problemi dell’inquinamento in molte città, ha comportato l’insorgenza di seri problemi di salute nei bambini. Questa mancanza di attenzione verso alcuni aspetti di sanità pubblica, è accompagnata dallo sviluppo di politiche di sanità pubblica in altre aree sanitarie, in relazione ai costi finanziari e sociali di certe attività o stili di vita: l’obbligo dell’uso delle cinture di sicurezza e del casco, le restrizioni nella vendita di alcolici, gli screening per il tumore al seno ad una certa età, ecc. 2.- Il concetto di salute condiziona il contenuto del diritto all’assistenza medica. Se la salute è considerata una norma naturale – un principio teleologico che governa la vita di tutti gli esseri umani -, il diritto alla salute comprenderà normalmente un dovere, da parte delle autorità pubbliche, di garantire l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini per permettere loro di sviluppare la propria vita personale e sociale. Viceversa, se la salute è identificata con il desiderio individuale, il contenuto del diritto alla salute sarà considerevolmente limitato. Esso garantirà la libertà delle persone di procurarsi l’assistenza sanitaria da loro preferita e lo stato sarà responsabile semplicemente della qualificazione di chi fornirà questi servizi e della sicurezza ed efficacia dei test diagnostici e dei trattamenti. 3.- Infine, il concetto di salute condiziona anche la politica sanitaria a livello internazionale. Se si sostiene un concetto soggettivo di salute, è accettabile che i criteri della sperimentazione umana varino da paese a paese. Il punto non sarà assicurare una copertura sanitaria di base nel mondo. La distanza tra i ricchi e i poveri aumenterà, poiché le risorse che dovrebbero essere utilizzate per combattere i più gravi problemi sanitari nei paesi poveri, saranno invece utilizzate per sviluppare una medicina del piacere in quelli più ricchi. Quindi, le differenze economiche saranno accompagnate da differenze sempre più grandi nei livelli di assistenza sanitaria. Queste forti differenze potrebbero essere ben poca cosa rispetto alle differenze che si potrebbero creare se gli interventi genetici fossero usati per
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migliorare la specie umana[39], tra esseri umani ‘geneticamente avanzati’ ed esseri umani ‘geneticamente naturali’. Al di là di questi dubbi riguardanti il concetto di salute, sorgono dubbi anche rispetto alla stessa esistenza del diritto alla salute. Vari argomenti sono usati a sostegno di questo punto di vista: 1.- I diritti sociali – e, di conseguenza, il diritto alla salute – non esistono. I diritti garantiscono solo le libertà negative, cioè gli spazi in cui possono agire coloro che possiedono i diritti, senza che nessun altro interferisca. Lo stato si astiene dal limitare gli individui e garantisce i meccanismi necessari ad assicurare la giustizia nei casi in cui sia stato leso un diritto. Questo approccio è adottato solo dalle posizioni liberali più estremiste. 2.- Gli unici diritti sociali che esistono sono quelli che possiedono un’adeguata garanzia giuridica che gli conferisce efficacia. Poiché il diritto alla salute non possiede queste garanzie, non può essere propriamente considerato un diritto. In molte Costituzioni, il diritto all’educazione – un diritto sociale – gode degli stessi meccanismi costituzionali di tutela riconosciuti ai diritti civili e politici. Questo è l’unico diritto sociale a beneficiare di tale status, ma esiste solo in un ridotto numero di paesi. Altri diritti sociali, tra cui la salute, ricevono semplicemente una tutela derivata dalle leggi emanate per rendere effettivo il contenuto dei diritti. In sostanza, l’inclusione di tali diritti nelle costituzioni, e ancora di più nei documenti giuridici internazionali, è finalizzata unicamente a stabilire un principio guida per le politiche economiche e sociali degli stati. 3.- I diritti umani sono universali, ma poiché i diritti sociali non lo sono, questi non possono essere considerati diritti umani. C’è accordo sul fatto che il contenuto del diritto alla salute sia fortemente condizionato dalla capacità economica di uno stato e dalle sue politiche pubbliche. Né le misure adottate per preservare la salute, né la fornitura dell’assistenza sanitaria sono, o possono essere, le stesse o simili in un paese ricco e in uno povero, in un paese più socialista e in uno più liberale. Definire il soggetto del diritto alla salute può anche rivelarsi problematico. Se facciamo riferimento alle condizioni per preservare la salute degli individui e delle popolazioni, dovremmo ritenere che il soggetto sia la società, più che l’individuo. Ciò solleva la controversa questione se i diritti siano puramente individuali o se possano essere considerati anche collettivi. Credo che per sostenere l’esistenza del diritto alla salute, non bisogna necessariamente mettere in dubbio il concetto che i diritti sono sempre individuali. È stato affermato che il diritto individuale alla salute(la libertà di disporre della propria salute) entri in conflitto con il diritto collettivo e che, in questi casi, sono spesso necessarie decisioni drammatiche. La Libertà individuale di fumare o di rifiutare un vaccino entrerebbe in conflitto, quindi, con il diritto della società di respirare aria sana in spazi pubblici al chiuso o di non rischiare di prendere un’infezione. Dal mio punto di vista, non è corretta la premessa principale su cui si fondano tali conflitti, poiché il contenuto della libertà individuale riguardante la propria salute non comprende il potere di mettere a rischio la salute di altri.
[1] ART. 6: 1.Il diritto alla vita è inerente alla persona umana. Questo diritto deve esser protetto dalla legge. Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita. 2. Nei paesi in cui la pena di morte non è stata abolita, una sentenza capitale può essere pronunciata soltanto per i delitti più gravi, in conformità alle leggi vigenti al momento in cui il delitto fu commesso e purché ciò non sia in contrasto né con le disposizioni del presente Patto né con la Convenzione per la prevenzione e la punizione del delitto di genocidio. Tale pena può essere eseguita soltanto in virtù di una sentenza definitiva resa da un tribunale competente.
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3. Quando la privazione della vita costituisce delitto di genocidio resta inteso che nessuna disposizione di questo articolo autorizza uno Stato Parte del presente Patto a derogare in alcun modo a qualsiasi obbligo assunto in base alle norme della Convenzione per la prevenzione e la punizione del delitto di genocidio. 4. Ogni condannato a morte ha il diritto di chiedere la grazia o la commutazione della pena. L'amnistia, la grazia o la commutazione della pena di morte possono essere accordate in tutti i casi. 5. Una sentenza capitale non può essere pronunciata per delitti commessi dai minori di 18 anni e non può essere eseguita nei confronti di donne incinte. 6. Nessuna disposizione di questo articolo può essere invocata per ritardare o impedire l'abolizione della pena di morte ad opera di uno StatoPparte del presente Patto. [2] I protocolli addizionali al Patto possono essere ratificati o meno dagli Stati Parti. Se ratificati, assumono lo stesso valore vincolante del Patto. Secondo Protocollo Opzionale al Patto sui Diritti Civili e Politici per l’Abolizione della Pena di Morte, adottato il 15 dicembre 1989 con la Risoluzione 44/128. [3] ART. 7: Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico. [4] ART. 12: 1. Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire. 2. Le misure che gli Stati Parti del presente Patto dovranno prendere per assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno quelle necessarie ai seguenti fini: (a) la diminuzione del numero dei nati-morti e della mortalità infantile, nonché il sano sviluppo dei fanciulli; (b) il miglioramento di tutti gli aspetti dell’igiene ambientale e industriale; (c) la profilassi, la cura e il controllo delle malattie epidemiche, endemiche, professionali e d’altro genere; (d) la creazione di condizioni che assicurino a tutti servizi medici e assistenza medica in caso di malattia. [5] ART 10: Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono che: 1. La protezione e l’assistenza più ampia che sia possibile devono essere accordate alla famiglia, che è il nucleo naturale e fondamentale della società, in particolare per la sua costituzione e fin quando essa abbia la responsabilità del mantenimento e dell’educazione di figli a suo carico. Il matrimonio deve essere celebrato con il libero consenso dei futuri coniugi. 2. Una protezione speciale deve essere accordata alle madri per un periodo di tempo ragionevole prima e dopo il parto. Le lavoratrici madri dovranno beneficiare, durante tale periodo, di un congedo retribuito o di un congedo accompagnato da adeguate prestazioni di sicurezza sociale. 3. Speciali misure di protezione e di assistenza devono essere prese in favore di tutti i fanciulli e gli adolescenti senza discriminazione alcuna per ragioni di filiazione o per altre ragioni. I fanciulli e gli adolescenti devono essere protetti contro lo sfruttamento economico e sociale. Il loro impiego in lavori pregiudizievoli per la loro moralità o per la loro salute, pericolosi per la loro vita, o tali da nuocere al loro normale sviluppo, deve essere punito dalla legge. Gli Stati devono altresì fissare limiti di età al di sotto dei quali il lavoro salariato di manodopera infantile sarà vietato e punito dalla legge. [6] Principio 4:Il bambino deve beneficiare della sicurezza sociale. Deve poter crescere e svilupparsi in modo sano. A tal fine devono essere assicurate, a lui e alla madre le cure mediche e la protezione sociale adeguata, specialmente nel periodo precedente e seguente alla nascita. Il bambino ha diritto ad una alimentazione, a un alloggio, a svaghi e a cure mediche adeguati.
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Principio 5: Il bambino che si trova in situazioni di minorazione fisica, mentale o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l'educazione e le cure speciali di cui abbisogna per il suo stato o per la sua condizione. [7] Articolo 24: 1.Gli Stati parti riconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione. Essi si sforzano di garantire che nessun minore sia privato del diritto di avere accesso a tali servizi. 2. Gli Stati parti si sforzano di garantire l’attuazione integrale del summenzionato diritto e in particolare adottano ogni adeguato provvedimento per: a) diminuire la mortalità tra i bambini lattanti e i fanciulli; b) assicurare a tutti i minori l’assistenza medica e le cure sanitarie necessarie, con particolare attenzione per lo sviluppo delle cure sanitarie primarie; c) lottare contro la malattia e la malnutrizione, anche nell’ambito delle cure sanitarie primarie, in particolare mediante l’utilizzazione di tecniche agevolmente disponibili e la fornitura di alimenti nutritivi e di acqua potabile, tenendo conto dei pericoli e dei rischi di inquinamento dell’ambiente naturale; d) garantire alle madri adeguate cure prenatali e postnatali; e) fare in modo che tutti i gruppi della società, in particolare i genitori e i minori, ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minore, sui vantaggi dell’allattamento al seno, sull’igiene e sulla salubrità dell’ambiente e sulla prevenzione degli incidenti e beneficino di un aiuto che consenta loro di mettere in pratica tali informazioni; f) sviluppare le cure sanitarie preventive, i consigli ai genitori e l’educazione e i servizi in materia di pianificazione familiare. 3. Gli Stati Parti adottano ogni misura efficace atta ad abolire le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute dei minori. 4. Gli Stati parti si impegnano a favorire e incoraggiare la cooperazione internazionale in vista di ottenere gradualmente una completa attuazione del diritto riconosciuto nel presente articolo. A tal fine saranno tenute in particolare considerazione le necessità dei paesi in via di sviluppo. [8] Articolo 1: Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile [9] Gli Stati Parti di questa Costituzione dichiarano, in conformità con quanto espresso nella Carta delle Nazioni Unite, che i seguenti principi sono fondamentali per la felicità, l’armonia delle relazioni e la sicurezza di tutti: La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie. Il godimento del più alto livello di salute possibile è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano senza distinzioni di razza, religione, appartenenza politica, condizioni economiche o sociali. La salute di tutti i popoli è fondamentale per il raggiungimento della pace e della sicurezza e dipende dalla piena collaborazione tra individui e stati. La promozione e la tutela della salute da parte degli stati rappresenta un vantaggio per tutti. Lo sviluppo disuguale nei vari paesi nella promozione della salute e nel controllo delle malattie, specialmente quelle trasmissibili, è un pericolo per tutti. Lo sviluppo sano del bambino è di fondamentale importanza; la possibilità di vivere armoniosamente in un ambiente globale mutevole è essenziale per questo sviluppo. La partecipazione di tutti ai benefici provenienti dalle conoscenze mediche,psicologiche e da altre conoscenze ad esse collegate, è essenziale per il raggiungimento della salute più piena. La conoscenza e la cooperazione attiva da parte del pubblico hanno la massima importanza nel miglioramento della salute della popolazione.
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I governi sono responsabili della salute dei cittadini che può essere garantita solo attraversoadeguate misure sanitarie e sociali. [10] Articolo 4: 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita. Tale diritto è protetto dalla legge e, in generale, dal momento del concepimento. Nessuno sarà arbitrariamente privato della vita. 2. Nei paesi che non hanno abolito la pena di morte, questa può essere imposta solo per i crimini più gravi e a seguito di una sentenza definitiva emessa da un tribunale competente e in base ad una disposizione di legge che preveda tale punizione, adottata prima della commissione del crimine. L’esecuzione della pena capitale non si estende ai crimini per i quali essa non è attualmente prevista. 3. La pena di morte non sarà reintrodotta negli Stati che l’hanno abolita. 4. In nessun caso la pena capitale sarà inflitta per reati politici o per reati comuni connessi a reati politici. 5. La pena capitale non sarà inflitta a persone che, al momento in cui il crimine è stato commesso, erano minori di 18 anni o di età superiore ai 70 anni; non sarà applicata a donne incinte. 6. Ogni persona condannata a morte ha il diritto di chiedere l’amnistia, la grazia o la commutazione della pena; tale diritto sarà garantito in ogni caso. La pena di morte non sarà eseguita durante il tempo in cui la decisione su tale petizione pende davanti all’autorità competente. [11] Articolo 10: 1. Ognuno ha diritto alla salute, inteso come il godimento del più alto livello di benessere fisico, mentale e sociale. 2. Per garantire l’esercizio del diritto alla salute, gli Stati Parti concordano nel riconoscere la salute come un bene pubblico e, soprattutto, nell’adottare le seguenti misure per assicurare tale diritto: a. Assistenza sanitaria primaria, cioè cure sanitarie di base disponibili per tutti gli individui e le famiglie della comunità; b. Estensione dei benefici dei servizi sanitari a tutti gli individui sotto la giurisdizione dello Stato; c. Vaccinazione di tutta la popolazione contro le principali malattie infettive; d. Prevenzione e trattamento di malattie endemiche, occupazionali e di altro tipo. e. Educazione della popolazione alla prevenzione e al trattamento dei problemi di salute, e f. Soddisfacimento delle necessità sanitarie dei gruppi più a rischio e di quelli più vulnerabili a causa della povertà. [12] Articolo 2: 1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena. 2. La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: a) per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale; b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione [13] Articolo 3: Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. [14] La Carta fu completamente modificata nel 1996 e riaperta alla firmae alla ratifica degli Stati Membri del Consiglio d’Europa. Entrò in vigore nel 1999. [15] Articolo 11 – Diritto alla protezione della salute Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto alla protezione della salute, le Parti s’impegnano ad adottare sia direttamente sia in cooperazione con le organizzazioni pubbliche e private, adeguate misure volte in particolare:
1. ad eliminare per, quanto possibile, le cause di una salute deficitaria;
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2. a prevedere consultori e servizi d’istruzione riguardo al miglioramento della salute ed allo sviluppo del senso di responsabilità individuale in materia di salute;
3. a prevenire, per quanto possibile, le malattie epidemiche, endemiche e di altra natura, nonché gli infortuni.
[16] Articolo 13 – Diritto all’assistenza sociale e medica Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto all’assistenza sociale e medica, le Parti s’impegnano:
1. ad accertarsi che ogni persona che non dispone di risorse sufficienti o che non è in grado di procurarsi tali risorse con i propri mezzi o di riceverli da un’altra fonte, in particolare con prestazioni derivanti da un regime di sicurezza sociale, possa ottenere un’assistenza adeguata e, in caso di malattia, le cure di cui necessita in considerazione delle sue condizioni;
2. ad accertarsi che le persone che beneficiano di tale assistenza non subiscano in ragione di ciò, una diminuzione dei loro diritti politici o sociali;
3. a prevedere che ciascuno possa ottenere mediante servizi pertinenti di carattere pubblico o privato, ogni tipo di consulenza e di aiuto personale necessario per prevenire, eliminare o alleviare lo stato di bisogno personale e familiare;
4. ad applicare, a parità con i loro concittadini, le disposizioni di cui ai paragrafi 1, 2 e 3 del presente articolo ai cittadini delle altre Parti che si trovano legalmente sul loro territorio in conformità con gli obblighi assunti ai sensi della Convenzione europea di assistenza sociale e medica firmata a Parigi l’11 dicembre 1953.
[17] Fino ad oggi sono stati adottati tre Protocolli addizionali: sulla clonazione umana (1998), sui trapianti di organi e tessuti umani (2002), sulla ricerca biomedica (2004). [18] Articolo 18 – Ricerca sugli embrioni in vitro 1. Quando la ricerca sugli embrioni in vitro è ammessa dalla legge, questa assicura una protezione adeguata all’embrione. 2. La costituzione di embrioni umani a fini di ricerca è vietata. [19] Il rapporto esplicativo della Convenzione, in relazione all’articolo 1, afferma: La Convenzione usa anche l’espressione “essere umano” per affermare la necessità di proteggere la dignità e l’identità di tutti gli esseri umani. È stato riconosciuto come generalmente accettato il principio che la dignità umana e l’identità dell’essere umano debbano essere rispettati dal momento in cui inizia la vita (n. 19). [20] Articolo II-2: Diritto alla vita.
• Ogni individuo ha diritto alla vita. • Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato.
[21] Articolo IV-35: Protezione della salute Ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana. [22] Articolo I-3: Diritto all’integrità della persona 1. Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: (a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge, (b) il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone, (c) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro, (d) il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani. [23] Nel 2002 questa Organizzazione fu sciolta e sostituita dall’Unione Africana, creata sul modello dell’Unione Europea.
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[24] Articolo 4: La persona umana è inviolabile. Ogni essere umano ha diritto al rispetto della sua vita e all’integrità fisica e morale della sua persona. Nessuno può essere arbitrariamente privato di questo diritto. [25] Articolo 16: 1. Ogni persona ha il diritto di godere del migliore stato di salute fisica e mentale che essa sia in grado di conseguire. 2. Gli Stati Parti alla presente Carta si impegnano a prendere le misure necessarie al fine di proteggere la salute delle loro popolazioni e di assicurare loro l’assistenza medica in caso di malattia. [26] Articolo 18: La famiglia è l’elemento naturale e la base della società. Essa deve essere protetta dallo stato che deve vegliare sulla sua salute fisica e morale [27] Articolo 14: 1. Ogni bambino ha diritto al miglior stato di salute fisica, psichica e spirituale possibile. 2. Gli Stati Parti alla presente Carta si impegnano per la piena realizzazione di questo diritto e in particolare prendono misure: (a) per ridurre il tasso di mortalità infantile; (b) per garantire l’assistenza medica necessaria e le cure sanitarie a tutti i bambini, ein particolar modo lo sviluppo dell’assistenza sanitaria primaria; (c) per garantire un’adeguata nutrizione e l’accesso ad acqua potabile sicura; (d) per combattere malattie e malnutrizione nel quadro dell’assistenza sanitaria primaria attraverso l’applicazione di tecnologie adeguate; (e) per assicurare un’assistenza sanitaria adeguata alle donne in stato di gravidanza e durante l’allattamento; (f) per sviluppare la prevenzione sanitaria, l’educazione alla vita familiare e la fornitura di servizi; (g) per integrare programmi sanitari di base in piani di sviluppo nazionale; (h) per garantire che tutti i settori della società, in particolare genitori, bambini, leader dicomunità e lavoratori, siano informati e supportati nell’uso delle conoscenze di base sulla salute e la nutrizione pediatrica, i vantaggi dell’allattamento al seno, l’igiene e la salute ambientale, e la prevenzione di incidenti domestici edi altro tipo; (i) per assicurare una significativa partecipazione di organizzazioni non governative, comunità locali e della popolazione alla pianificazione e gestione di un programma dei servizi di base per il bambino; (j) per supportare, tecnicamente e finanziariamente, la mobilitazione di risorse della comunità locale per lo sviluppo dell’assistenza sanitaria di base per i bambini. [28] Articolo 14: Diritti in materia di salute e salute riproduttiva 1. Gli Stati Parti assicurano che il diritto delle donne alla salute, compresa la salute sessuale e riproduttiva, sia rispettato e sostenuto. Tale diritto comprende: a) il diritto al controllo sulla propria fertilità; b) il diritto di decidere se avere o non avere figli, il numero di figli e la distanza tra una gravidanza e l’altra; c) il diritto di scegliere l’uno o l’altro mezzo di contraccezione; d) il diritto di tutelarsi e di essere tutelate in relazione alle infezione sessualmente trasmesse, compreso l’HIV/AIDS; e) il diritto di ogni donna ad essere informata in merito al proprio stato di salute e allo stato di salute del proprio partner, in particolare nel caso sia affetto da infezione sessualmente trasmissibile, compreso l’HIV/AIDS, nel rispetto degli standard e delle migliori pratiche internazionalmente riconosciuti; f) il diritto all’educazione alla pianificazione familiare. 2. Gli Stati Parti assumono misure adeguate al fine di: a) fornire servizi sanitari adeguati, a buon prezzo e accessibili, compresi programmi di informazione, di educazione e di comunicazione per le donne, in particolare le donne in aree rurali;
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b) istituire e rafforzare i servizi sanitari e nutrizionali per il parto e le fasi pre- e post-parto e prenatali già esistenti per le donne durante la gravidanza e l’allattamento al seno; c) proteggere i diritti riproduttivi delle donne autorizzando l’aborto terapeutico nei casi di violenza sessuale, stupro, incesto e quando la continuazione della gravidanza comporterebbe pericolo per la salute mentale e fisica della donna o per la vita della donna o del feto. [29] Articolo 2: a) La vita è un dono dato da Dio e il diritto alla vita è garantito ad ogni essere umano. E’ dovere degli individui, delle società e degli Stati proteggere questo diritto da ogni violazione ed è vietato sopprimere la vita tranne che per una ragione prescritta dalla Shari’ah. b) E’ proibito ricorrere ai mezzi che possono provocare il genocidio dell’umanità. c) La difesa della vita umana nel disegno di Dio è un dovere prescritto dalla Shari’ah. d) L’integrità fisica è un diritto garantito. E’ dovere dello Stato proteggerlo ed è vietato infrangerlo senza una ragione prescritta dalla Shari’ah [30] Articolo 17: a) Ognuno ha il diritto di vivere in un ambiente sano, immune dal vizio e dalla corruzione morale, in un ambiente che favorisca il suo autosviluppo; incombe sullo Stato e sulla società in generale il dovere di rispettare tale diritto. b) Ognuno ha il diritto all’assistenza medica e a ogni pubblica agevolazione fornita dalla società e dallo Stato nei limiti delle loro risorse disponibili. c) Lo Stato assicurerà il diritto dell’individuo a una vita dignitosa che gli consenta di rispondere a tutte le esigenze proprie e a quelle che dipendono da lui, compresa l’alimentazione, il vestiario, l’alloggio, l’educazione, le cure mediche e ogni altro bisogno essenziale. [31] Articolo 5: Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona. La legge protegge tali diritti. Articolo 10: La pena di morte può essere imposta solo per i crimini più gravi e chiunque sia stato condannato a morte ha il diritto di chiedere la grazia o la commutazione della pena. Articolo 11: In nessun caso è ammessa la pena di morte per reati politici. Articolo 12: La pena di morte non può essere eseguita sui minori di diciotto anni, su donne in gravidanza fino al parto o su donne con figli in tenera età se non siano trascorsi due anni dalla data del parto. Articolo 13: b) Nessun individuo sarà oggetto di esperimenti medici o scientifici senza il suo libero consenso. [32] L’unico paese che ha dichiarato incostituzionale la legislazione tesa a regolare le tecniche di riproduzione assistita è stato il Costa Rica secondo il quale il rischio posto alla vita degli embrioni da queste tecniche era sproporzionato. [33] Nel 1991 la signora Vo, al sesto mese di gravidanza, subì un’operazione nel corso della quale fu perforato erroneamente il sacco amniotico del feto, rendendo necessario un aborto terapeutico. La donna chiamò in causa il medico e la Corte di Cassazione francese, alla fine, stabilì che il medico non aveva alcuna responsabilità penale. La signora Vo impugnò il verdetto presso la Corte Europea dei Diritti Umani. Questa, nella sentenza dell’8 luglio 2004, stabilì che spettava al singolo stato decidere se l’articolo 2 della Convenzione Europea sui Diritti Umani fosse applicabile al nascituro. [34] Proprio perché il feto è titolare di diritti, la Germania richiede che ogni donna che voglia abortire debba prima essere informata, presso un centro accreditato, sulle implicazioni dell’aborto e sulle possibili alternative. La Chiesa Cattolica gestisce questi consultori per le donne, ma da qualche anno, non emette più i certificati richiesti alle donne per poter abortire. [35] La Corte Costituzionale Tedesca si è espressa in tema di aborto in due occasioni: nel 1975, quando si espresse in merito ad un ricorso costituzionale contro la legge che depenalizzava l’aborto, e nel 1993, quando ci fu l’opposizione alla nuova regolamentazione dell’aborto successiva alla riunificazione. Rhonheimer, M., Derecho a la vida y Estado moderno, Rialp, Madrid, 1998, pp. 40 e seg.
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[36] In Germania, la legge sulla protezione degli embrioni vieta che siano creati più embrioni di quelli che saranno trasferiti in utero e ne vieta altresì il congelamento. Tuttavia, permette il congelamento dell’ovulo in cui sia penetrato le spermatozoo senza che abbia avuto luogo la fusione dei due nuclei. Ciò porta alla domanda relativa a quando inizi ad esistere l’embrione. [37] Singer, P., Animal Liberation, Pimlico, London, 1995. [38] Cfr. Kass, L. R. Towards a more natural science, The Free Press, New York, 1985, pp. [39] Cfr. Silver, L., Remaking Eden. Cloning and beyond in a new brave world, Weideneld and Nicolson, London, 1998.
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ALEJANDRO SERANI-MERLO, PEDORO PAULO MARÍN LARRAÍN, BEATRIZ ZEGERS PRADO QUALITÀ DELLA VITA IN GERIATRIA RIASSUNTO Nelle società moderne la longevità sta dando luogo ad una rivoluzione demografica senza precedenti. La geriatria è in grado di affrontare questo fenomeno da un punto di vista clinico, ma anche di antropologia medica. La suddivisione in stadi della vita umana può essere utile, ma implica un certo grado di arbitrarietà; attualmente l’immagine delle persone oltre i 65 anni di età è drammaticamente cambiata. Il declino della forza e delle capacità è solo una parte del processo di invecchiamento. Molte persone anziane sperimentano un’aumentata autocoscienza e un progresso nell’autonomia personale che non è incompatibile con la dipendenza fisica e i disturbi fisici. Da un punto di vista clinico, proponiamo che la qualità di vita sia intesa in tre modi diversi: 1) essenziale; 2) accidentale o obbiettivo e 3) personale o soggettivo. Questo approccio differenziato alla qualità di vita permette di capire la complessità del concetto, di riconoscere la verità di ciascuna prospettiva e di articolarle in un ordine unitario e gerarchico. INTRODUZIONE Attualmente si vive più a lungo che in passato; questo sembra essere un dato incontrovertibile. Tuttavia, ad un’analisi più attenta del fenomeno, ci si accorge che i dettagli e le implicazioni per la società e la medicina sono argomenti un po’ meno scontati. Il dato comincia ad avere senso se si considera che oggi, nella maggior parte dei paesi, ogni persona che raggiunga i 65 anni di età in uno stato di salute relativamente buono, ha un’aspettativa di vita media di circa venti anni ancora. Se si considera che la proporzione di tutta la popolazione che oggi ha raggiunto i 65 anni in buone condizioni di salute è molto maggiore che in passato, allora si avranno gli elementi necessari per giungere alla conclusione che le società moderne devono confrontarsi con un fenomeno demografico sociale unico nella storia dell’umanità[1]. Siamo solo agli inizi di un confronto con le sfide che questa nuova situazione demografica sta portando alle nostre culture in vari settori: medico, psicologico, sociale, economico e politico. La geriatria e il fenomeno dell’invecchiamento umano La geriatria contemporanea è in grado di affrontare questo problema da due prospettive diverse, ma complementari: il punto di vista dell’antropologia medica, e il punto di vista clinico. Per prima cosa illustreremo la gamma di prospettive dell’antropologia medica, in seguito le completeremo con alcune riflessioni cliniche. Un punto di vista di antropologia medica Il primo argomento riguarda la ragionevolezza della divisione della vita umana in stadi. La vita umana è fondamentalmente un continuum. Se accettiamo questo fatto, la distinzione in stadi definiti, anche se non completamente destituita di fondamento, appare sostanzialmente arbitraria. Nella Roma di S. Agostino le persone erano considerate giovani fino all’età di 50 anni e la vita matura era compresa tra i 50 e i 70. Nella nostra epoca, per esempio, all’età di 18 anni le persone sono considerate
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sufficientemente mature per esprimere il proprio voto, ma non per essere elette. Una persona sana di 60 anni può svolgere delle attività fisiche che una persona malata di 20 anni non può svolgere, e così via. Tutte queste considerazioni, e molte altre ancora, mostrano con sufficiente evidenza che non esistono limiti naturali assoluti e definiti tra i vari stadi della vita umana. In questo senso si può dire che l’anzianità sia più un pregiudizio culturale che una categoria naturale. Con questo non si vuole negare che esistano fatti naturali che giustificano il riconoscimento di modificazioni lungo il ciclo di vita e che tale riconoscimento abbia implicazioni per gli individui e per la società. Uno dei fatti naturali più generali e palesi è che diventare anziani implica la perdita di qualcosa[2]. Alcune capacità acquisite durante lo sviluppo non sono più operative o iniziano a perdersi. Questa realtà biologica e psicologica è forse la causa più importante della sofferenza personale e della stigmatizzazione sociale e rappresenta la sfida più importante che devono affrontare gli individui e la società per far fronte al fenomeno dell’invecchiamento. In contrasto con questa manifesta diminuzione delle capacità fisiche e psicologiche, gli anziani sperimentano il permanere, e anche l’aumento, dell’autoscienza[3]. Tuttavia, questo aspetto cruciale della realtà, non è facilmente riscontrabile da analisi esterne compiute da altre persone. Di conseguenza, l’incapacità di altre persone di afferrare e apprezzare la ricchezza di questa vita interiore rappresenta probabilmente il fattore che più contribuisce a generare il sentimento negativo e il generale e inquietante pregiudizio che la nostra società, globalmente intesa, ha contro gli anziani e che gli anziani hanno contro se stessi. L’antropologia medica non deve solo esaminare le manifestazioni universali dell’invecchiamento nella vita personale, ma deve anche studiare le varianti principali dell’esperienza umana nel processo di fronteggiamento dell’invecchiamento; in tale contesto l’antropologia, la sociologia e la psicologia si completano e chiariscono reciprocamente. La psicologia e la sociologia possono illustrare il fenomeno culturale del rifiuto dell’invecchiamento, la sua realtà e il suo significato[4]. Alcune metafore applicate alla comprensione della vita umana, sono di solito utilizzate per comprendere l’invecchiamento. La vita può essere paragonata ad un viaggio, attraverso un fiume, come una missione, come un progetto. Ognuna di queste metafore focalizza un aspetto reale della vita ed è più o meno pertinente per capire il momento particolare che vivono gli anziani. Insieme ci offrono un approccio globale a noi stessi. Da un punto di vista più propriamente medico o clinico, e basandosi sui fatti summenzionati, si potrebbe denunciare la dicotomia della geriatria che allo stesso tempo è e non è una branca separata della medicina. In un certo senso la geriatria non è più che l’applicazione di principi generali della medicina per adulti ad alcuni pazienti particolari. In un altro senso la geriatria potrebbe essere vista come una specialità a parte, dato che il geriatra ha un interesse, una qualificazione e un’esperienza particolari in relazione all’antropologia di questo gruppo di pazienti, alle manifestazioni più frequenti delle malattie e alla sua risposta ai trattamenti e alla riabilitazione. Si potrebbe anche dire che, da un punto di vista strettamente clinico, l’attenzione medica verso gli anziani sia spesso la sfida più complessa, interessante e impegnativa per i clinici esperti. TRE SIGNIFICATI DIVERSI PER UNA PAROLA E TRE APPROCCI DIVERSI ALLO STESSO PAZIENTE Qualità di vita essenziale Cosa si può dire della qualità di vita nei pazienti geriatrici? A questo punto sarebbe molto pertinente una distinzione filosofica (aristotelica). Da un punto di vista ontologico la qualità ha due significati fondamentali correlati, ma separati: quello sostanziale e quello accidentale. Dal punto di vista sostanziale, la qualificazione di ogni essere umano è legata alla sua essenza. In questo senso la qualità è un fenomeno totale o nullo. Gli enti naturali sono qualificati solo in base a ciò che sono in modo
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assoluto. La qualificazione sostanziale di un essere non ammette gradazioni, né modifiche[5]. In questo senso principale e fondamentale, gli anziani in nessun caso sono diversi da quello che erano in gioventù o dalle altre persone. Essi hanno uguale dignità e stessi diritti. Questa classica e semplice distinzione filosofica è un punto estremamente importante che un’educazione medica di stampo materialistico può facilmente ignorare. La vita umana, in questo senso fondamentale e primario, non si può considerare come avente più o meno qualità. Ogni vita umana ha valore per se stessa, in un senso assoluto, non qualificabile. Qualità di vita accidentale (obbiettiva) Nel suo secondo significato la qualità si riferisce alla qualificazione accidentale della sostanza e in questo senso la sua intensità può essere maggiore o minore. In tutte le entità sostanziali si può riconoscere quindi un grado maggiore o minore di qualche qualità[6]. In questo senso possiamo dire che alcune persone hanno, rispetto ad altre, una vita più ricca o più povera da un punto di vista materiale, sociale, culturale, artistico o spirituale e possiamo inoltre avanzare considerazioni su ognuno di questi aspetti particolari dell’esistenza umana per quanto riguarda l’intensità relativa di quella ‘qualità’. Da questo punto di vista, appare ovvio che la qualità di vita diventa un marametro multidimensionale e che, in linea di principio, si possano considerare tante qualità di vita diverse quanti sono gli aspetti della vita stessa. In linea di principio non si può neanche non condividere quanto espresso dal gruppo internazionale dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che ha identificato quattro, o tutt’al più sei, categorie cui si potrebbero ridurre gli aspetti significativi per la maggior parte delle persone[7]. Il processo attraverso il quale il gruppo dell’OMS è giunto a queste quattro categorie, o dimensioni della qualità di vita, non è privo di interesse. Il gruppo è partito dall’accordo sulla definizione concettuale. La qualità di vita è stata definita come: “la percezione che gli individui hanno della propria posizione nella vita, nel contesto della cultura e del sistema di valori in cui vivono e in relazione ai loro obbiettivi, aspettative, standard e interessi”. In un secondo momento, e attraverso un lavoro in 15 paesi diversi, il gruppo è giunto all’identificazione di ciò che si intende per “aspetto” della vita. Sono stati presi in considerazione 24 aspetti. Nell’ultima fase del lavoro, il gruppo ha aggregato tutti questi aspetti in sei grandi aree che sono state infine ridotte a quattro: 1) salute fisica; 2) salute psicologica; 3) relazioni sociali; 4) ambiente (WHOQOL-BREF Field Trial Version). Vale la pena considerare che nella definizione multidimensionale proposta c’è una valutazione unitaria globale finale espressa da ogni persona. La questione quindi è la seguente: se la qualità di vita, nella sua accezione accidentale, è fortemente diversificata, come può essere valutata in un giudizio unitario globale finale? Qualità di vita personale (soggettiva) Dal punto di vista filosofico, si potrebbe affermare che, anche se fortemente diversificate e anche se le qualità accidentali della vita possono essere gerarchicamente ordinate, ci deve essere una dimensione della vita umana che sia oggettivamente la più importante per tutti. Questa dimensione predominante ha a che fare con ciò che ogni persona considera come la sua realizzazione globale in quanto soggetto libero e deve essere lo stesso criterio in ogni valutazione soggettiva, finale, globale e unitaria. Questa realizzazione globale che in principio tutti cercano, anche se si potrebbero individuare alcuni caratteri comuni, di fatto è, nella sua concreta incarnazione, soggettivamente differente per ogni uomo. Per riassumere, bisogna considerare il fatto che una delle difficoltà rintracciabili nelle discussioni sulla qualità di vita, è la confusione che si verifica comunemente fra i tre aspetti suddetti: qualità di vita sostanziale, qualità di vita accidentale, valutazione soggettiva della realizzazione globale.
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QUALITÀ DI VITA: DIRITTO UMANO O DOVERE UMANO? Un ultimo aspetto da considerare, e che è stato piuttosto trascurato dalle analisi moderne, è la prospettiva della realizzazione globale più come un ideale da raggiungere che come possibilità reale, attuale e concreta. La trascuratezza di questa considerazione è indice del tono punitivo che assume di solito il dibattito sulla qualità di vita negli anziani, come se la società fosse in grado di mettere a disposizione una qualità di vita perfetta. In vista di questa considerazione sulla realizzazione finale della vita, si può comprendere il motivo per cui le discussioni sulla qualità di vita sembrano avere una particolare attualità o urgenza quando si considera il benessere delle persone anziane, più che quando si discute dello stesso argomento in altre categorie di persone. Infatti, le discussioni sulla realizzazione finale nella vita, diventano molto più pertinenti quando hanno a che vedere con l’ultima fase dell’esistenza e, più concretamente, all’approssimarsi della morte. Cosa hanno a che vedere tutte queste considerazioni col nostro approccio ai pazienti geriatrici? Se consideriamo la qualità di vita nella sua accezione primaria e sostanziale, risulta evidente che le persone anziane, come tutti i pazienti, devono essere trattate come persone con la stessa dignità e gli stessi diritti degli altri. Essendo soggetti razionali, in grado di amare e liberi, devono essere trattati come tali. Dobbiamo trattarli innanzitutto come persone intelligenti, trasformandoli in soggetti attivi e consapevoli del proprio processo di salute. In secondo luogo, devono essere amati come ogni altra persona desidererebbe essere amata, e questo amore per gli altri deve sempre essere la principale ragione per curare pazienti di qualsiasi età. Infine devono essere trattati come agenti liberi, rispettando la loro autonomia, promuovendola e aiutandoli nell’esercizio effettivo di tale autonomia[8]. Considerando la qualità di vita nella sua accezione accidentale secondaria, l’approccio medico agli anziani deve essere considerato seriamente come una sfida professionale interessante e impegnativa. L’approccio medico deve prendere in considerazione non solo le cosiddette dimensioni biologiche dell’assistenza sanitaria, ma un approccio integrativo interdisciplinare guidato e informato da una realistica antropologia medica e da una bioetica globale. Infine, quando si considera la valutazione soggettiva del soddisfacimento e della realizzazione, crediamo che la medicina geriatrica non possa ridursi, nella sua dimensione sociale, ad una sorta di attivismo sui diritti umani, ma che debba aprire il dibattito interno per comprendere dimensioni più vaste e complete dell’uomo. Se si realizzasse un cambiamento di prospettiva su questo argomento, allora nella nostra società le persone anziane sarebbero viste non più come un fardello, ma come persone cariche di saggezza e testimoni di una vita migliore.
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[1] CELADE (Centro Latinoamericano y Caribeño de Demografía), Los Adultos Mayores en América Latina y el Caribe: Datos e Indicadores Boletín Informativo con ocasión de la II Asamblea Mundial de Naciones Unidas sobre el Envejecimiento, Madrid, 2002. [2] LOLAS F., Escritos sobre vejez, envejecimiento y muerte, Iquique, Ediciones Campus/Universidad Arturo Prat, 2002. Sono debitore a questo libro, di alcune interessanti osservazioni antropologiche generali. [3] Alcuni autori hanno enfatizzato che il declino non deve essere l’unica propsettiva da cui considerare l’invecchiamento. Le altre sono: il cambiamento, lo sviluppo, la maturazione. Cfr. VAILLANT GE MUKAMAL K,Succesful Aging, Am J Psychiatry 2001, 158: 839-849. [4] ZEGERS B, Psicología del envejecimiento, Santiago de Chile: Documento Docente 36 Universidad de los Andes, 2002. [5] MILLÁN PUELLES A., Léxico Filosófico, Madrid: Rialp, 2002. pp.195-204. [6] Ib. [7] WORLD HEALTH ORGANIZATION, WHOQOL-100 e WHOQOL-BREFinstruments,http://www.who.int/evidence/assessment-instruments/qol/ [8] Questa considerazione generale deve essere adattata ai casi in cui la dipendenza o l’autonomia siano deficitarie.
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PATRICIO VENTURA-JUNCÁ QUALITÀ DI VITA IN MEDICINA NEONATALE LA QUALITÀ DI VITA: UN ARGOMENTO IMPORTANTE E COMPLESSO IN MEDICINA NEONATALE Il concetto di qualità di vita Questo argomento è già stato affrontato dai relatori che mi hanno preceduto. Io lo affronterò dalla prospettiva di un neonatologo interessato alla sua dimensione filosofica e, in particolare, alle sue implicazioni in etica clinica neonatale. Ai fini di questo intervento è necessario innanzitutto chiarire il fatto che non è accettabile la semplice identificazione della qualità di vita con una valutazione ontologica del valore della persona. Il valore intrinseco di un essere umano non dipende dalle sue qualità o dalla capacità di manifestarsi. Questa iniziale distinzione antropologica è indispensabile per un corretto approccio al problema ed è estremamente importante per quel che riguarda il processo decisionale in etica clinica neonatale. Da un lato la qualità di vita dovrebbe essere considerata soprattutto come valutazione globale, da parte degli individui, della loro condizione e della soggettiva sensazione di benessere. D’altro canto esistono molte condizioni oggettive che influenzano la valutazione soggettiva. Una di queste è la salute. La definizione di salute proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)[1] è piuttosto simile ad alcune definizioni di qualità di vita. Ma sebbene la salute sia indubbiamente un valore molto importante, esistono aspetti non medici della vita, come la famiglia, il lavoro, la casa, l’educazione, i fattori ambientali che giocano un ruolo importante nella sensazione soggettiva di benessere, quindi per la qualità di vita. Su queste basi crediamo che sia più appropriato parlare di Qualità di Vita in Relazione alla Salute (HRQL) intesa come impatto della malattia e delle sue conseguenze (menomazioni e disabilità) sulla qualità di vita.[2] L’importanza del periodo neonatale per la qualità di vita Il periodo neonatale è il periodo più vulnerabile della vita umana in relazione al rischio di morte e al verificarsi di problemi di diverso tipo legati allo sviluppo e che possono condizionare la vita futura di una persona. Per questo motivo la medicina neonatale ha, come suo obbiettivo principale, non solo la sopravvivenza, ma una sopravvivenza integra. Ciò che caratterizza il periodo neonatale è la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina.[3] Questo passaggio è un evento fisiologico di estrema importanza in cui praticamente tutti gli organi e i sistemi subiscono un importante cambiamento per adattarsi alle nuove condizioni di vita extrauterina. In alcuni sistemi l’adattamento si deve realizzare in pochi minuti per garantire la sopravvivenza e l’indennità del bambino appena nato. L’esempio più drammatico è l’adattamento cardiopolmonare. In poche parole, al momento della nascita cessa la respirazione placentare e in sua vece deve immediatamente iniziare a funzionare la respirazione polmonare. Ciò presuppone una drastica trasformazione nella circolazione e nel funzionamento cardiaco che deve aver luogo in un lasso di tempo estremamente breve. Questo cruciale adattamento fisiologico può essere alterato per diversi motivi è può causare la morte o danni da ipossia nel neonato. Qualcosa di simile accade con altri organi e sistemi, ma senza l’urgenza e la priorità che caratterizzano l’adattamento cardiopolmonare. I principali problemi che possono influenzare la fisiologia dell’adattamento sono: la prematurità, l’ipossia prenatale, le malformazioni congenite e le infezioni perinatali. Molte di queste patologie possono essere prevenute o anticipate con una buona assistenza prenatale. Quindi, un approccio medico globale alla prevenzione dei fattori che possono influenzare la qualità di vita inizia con una buona assistenza prenatale. Questa deve essere considerata una priorità
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medica ed etica nella medicina perinatale. La medicina neonatale, dunque, segue e cerca di anticipare e supervisionare il corretto processo di questo adattamento, operando gli opportuni e necessari interventi. Qualità di vita: un argomento complesso in medicina neonatale I neonati, naturalmente, non sono in grado di valutare la propria qualità di vita e quindi di esprimere le loro preferenze, fanno eccezione alcune risposte che sono in grado di dare al loro ambiente fisico o psicologico più prossimo, come gridare e muoversi. Rimane il fatto che fondamentalmente una valutazione razionale e soggettiva della loro reale o potenziale qualità di vita non può essere fatta. Ciò che può essere valutato direttamente o attraverso studi di follow up in un periodo di alcuni anni, è il rischio di danni inerenti lo sviluppo neurologico o altri danni che condizionano l’HRQL. Al di là di questo, studi che hannocercato di valutare l’HRQL nella vita successiva non sono stati convalidati, soprattutto quando l’obbiettivo sia l’uso di questo parametro per valutare la qualità della medicina neonatale come tale. Il dr. M. Hack, un ricercatore molto noto in quest’area, ammette che: “le persone disabili potrebbero valutare la loro qualità di vita come buona o accettabile: tuttavia, la loro menomazione e la disabilità che ne consegue rappresenta uno scarso risultato per l’assistenza intensiva neonatale.”[4] Un secondo fattore che complica la valutazione di una futura qualità di vita è la grande plasticità dei bambini e la loro capacità di riprendersi dai problemi che potrebbero verificarsi durante il periodo neonatale. Un terzo fattore da prendere in considerazione è il fatto che la valutazione della qualità dello sviluppo di un determinato gruppo di bambini, anni dopo la loro ospedalizzazione neonatale, è correlata all’assistenza che hanno ricevuto al momento della nascita e non all’assistenza che i neonati ricevono oggi. Questo complica i giudizi prudenziali sulla valutazione della proporzionalità di certi trattamenti in situazioni complesse. La qualità di vita e i genitori La nascita di un figlio è uno degli eventi più importanti e probabilmente una delle esperienze più intense della vita umana. Il figlio è atteso con grande speranza e gioia, ma anche con un certo grado di incertezza. Sarà normale? Avrà qualche problema? La madre ha una capacità particolare di creare un legame con suo figlio durante le prime ore e i primi giorni dopo la nascita.[5] La grande sensibilità della madre in questo periodo deve essere tenuta in considerazione dall’equipe sanitaria quando sia necessario coinvolgerla in scelte riguardanti i problemi del bambino. I genitori sono particolarmente sensibili a qualsiasi problema del loro bambino appena nato. Sono molto preoccupati non solo della sopravvivenza del loro bambino, ma anche di eventuali problemi che potrebbero influenzare la sua vita futura. Una permanenza prolungata del neonato nel reparto di terapia intensiva neonatale di solito è causa di grande stress per i genitori. Il loro coinvolgimento in decisioni particolarmente gravose, in relazione all’andamento della terapia, è emotivamente e psicologicamente molto impegnativo e spesso angoscioso a causa della complessità di certi trattamenti, dei loro rischi e della difficoltà di comprendere tutti i fattori in gioco. Qualità di vita e questioni etico-sanitarie in medicina neonatale I problemi etici relativi alla qualità di vita sono per molti aspetti simili in ogni contesto, ma per altri aspetti differiscono a seconda dello sviluppo e delle risorse di un paese e delle sue prevalenti condizioni e priorità sanitarie. Le cause e la stima della mortalità neonatale e i fattori che condizionano i disordini dello sviluppo sono significativamente diversi nei paesi ricchi e sviluppati rispetto a quelli più poveri e meno sviluppati. Di conseguenza sono diverse anche le sfide sanitarie e quelle etiche. Per tale motivo è
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necessario affrontare l’argomento in due momenti distinti. Concentreremo inizialmente la nostra attenzione sul primo caso. SALUTE NEONATALE E QUALITÀ DI VITA NEI PAESI SVILUPPATI L’impatto della terapia intensiva Importanti cambiamenti nell’assistenza neonatale hanno cominciato a realizzarsi intorno agli anni ‘60 e ’70.[6] L’assistenza tradizionale ai neonati e ai prematuri, che consisteva sostanzialmente nel controllo della temperatura, la prevenzione delle infezioni e un’attenta nutrizione orale, dava luogo ad una forma complessa e aggressiva di intervento che comprendeva un monitoraggio permanente dei segni vitali, la frequente correzione dei parametri vitali e un complesso trattamento in grado di sostituire la funzione dei sistemi vitali ad opera di un’equipe altamente specializzata di infermieri, fisioterapisti respiratori e medici. Molte delle funzioni non ancora sviluppate nei nati prematuri potevano essere temporaneamente rimpiazzate dalla ventilazione artificiale e dalla somministrazione di liquidi e sostanze nutritive. Tutti i progressi derivanti dalle conoscenze tecniche sviluppate nell’era spaziale, in termini di monitoraggio dei segni vitali degli astronauti,[7] furono introdotti nell’assistenza ordinaria dei bambini prematuri. Gli astronauti sono esposti ad un’atmosfera differente dello spazio esterno alla quale non sono fisiologicamente preparati. In modo analogo i neonati prematuri affrontano il mondo extrauterino senza la maturazione fisiologica di molte delle loro funzioni e quindi non sono preparati per il passaggio che devono affrontare. Il risultato del miglioramento della terapia intensiva si è tradotto in un notevole aumento della sopravvivenza neonatale e della prevenzione delle cause conosciute di danni sensoriali e di problemi legati allo sviluppo neurologico.[8],[9]In Cile, un paese di medio livello di sviluppo, all’ospedale dell’Università Cattolica di Santiago, i progressi fatti nei decenni nei paesi sviluppati sono stati introdotti negli anni 1977-78.[10] I risultati, in termini di riduzione della mortalità neonatale, mostrano l’enorme sviluppo di quest’area della medicina (si veda la Tavola 1). La rianimazione alla nascita e un adeguato controllo dell’ossigenazione e della ventilazione diminuiscono l’incidenza dell’encefalopatia ischemica da ipossia e i conseguenti danni per lo sviluppo neurologico, così come l’incidenza della fibroplasia retrocristallina (cecità dovuta alla elevata percentuale di ossigeno nel sangue arterioso) e la paralisi cerebrale. Questo miglioramento si è riflesso innanzitutto sui bambini nati a termine, poi su quelli con basso peso alla nascita (1500-2500g) e infine sui bambini con peso estremamente basso alla nascita (VLBW) tra 1000 e 1500g (si veda la Tavola 2). Tuttavia in questi decenni i risultati del trattamento dei neonati con peso estremamente basso alla nascita (ELBW <1000g) non sono stati così eclatanti e permangono dubbi sui reali benefici della terapia intensiva in questi neonati. Infatti, nel nostro reparto così come in altri, è stata presa la decisione di non applicare la ventilazione meccanica nel trattamento di questi bambini. Tale decisione è stata presa in considerazione della scarsità di risorse e del giudizio di proporzionalità dei trattamenti. Nei decenni successivi sono stati fatti progressi maggiori nel trattamento di neonati ELBW in termini di sopravvivenza e prognosi a lungo termine. Incoraggiati da questi risultati, si sono profusi sforzi maggiori per trattare bambini al di sotto dei 1000g e anche al di sotto dei 750g. In questi casi, i risultati ottenuti in bambini più grandi non si sono potuti paragonare. Ciò è particolarmente vero per i bambini al di sotto dei 750g (3). Oggi circa il 65% dei letti della terapia intensiva sono occupati da neonati al di sotto dei 1000g. La loro degenza è lunga e variabile con molte complicazioni di vario tipo. Il costo del trattamento di questi bambini aumenta significativamente (si veda la Tavola 4).
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Problemi di etica clinica in terapia intensiva neonatale Il maggior problema etico nei reparti di terapia intensiva neonatale (NICU), che si è presentato da subito, è rappresentato dal giudizio prudenziale sulla opportunità o meno di rifiutare o interrompere un trattamento. La giustificazione etica per queste difficili e complesse decisioni è stata espressa in un modo eccessivamente semplicistico: da chi invoca il principio della sacralità della vita per continuare, a tutti i costi e in ogni circostanza, i trattamenti e da chi, invece, attribuisce maggior importanza al principio della “qualità di vita” volendo decidere con leggerezza non solo quando e se sia obbligatorio continuare ad usare mezzi straordinari di supporto della vita e terapie, ma anche quando, secondo il loro punto di vista, anche i mezzi ordinari di supporto della vita (come la nutrizione) siano da interrompere.[11],[12] Esiste una terza posizione tra queste due che dà la priorità alla volontà dei genitori argomentando che essi siano i più adatti a scegliere il programma terapeutico che meglio protegge gli interessi del bambino. Un terzo approccio o aspetto del problema è chi dovrebbe prendere queste difficili decisioni: il direttore sanitario dell’ospedale, i medici, gli infermieri o i genitori. C’è una presa di posizione estremamente diffusa che ha spostato la collocazione del peso decisionale su questi argomenti dall’equipe medica ai genitori, in base al fatto che questi sarebbero più adatti a scegliere il programma terapeutico che meglio risponde agli interessi del bambino. Quando questa posizione viene interpretata non come conseguenza della fiducia nella sensibilità maggiore dei genitori di operare scelte eticamente corrette nel miglior interesse dei loro figli o del loro diritto particolare su di essi, ma come una libertà di decidere anche contro i beni umani universali e a favore di atti intrinsecamente sbagliati, l’eccessiva rilevanza data alle decisioni dei genitori si rivela come conseguenza di una teoria etica che assolutizza il principio di autonomia come motivo sufficiente per determinare l’eticità delle decisioni.[13] Tuttavia ciò cui si deve rispetto in tutte le situazioni non è solo il ruolo legittimo delle decisioni genitoriali, ma anche i beni immutabili eticamente rilevanti; gli imperativi etici da essi derivanti e di carattere universale a volte sono considerati in maniera differente. Per esempio alcuni pediatri ritengono che il “principio della sacralità della vita” indichi l’obbligo di salvare o prolungare la vita ad ogni costo e in ogni circostanza.[14] Altri contrappongono al “principio della sacralità della vita” quello della qualità di vita, affermando che gravi handicap e menomazioni causano una qualità di vita estremamente bassa e quindi priva di qualsiasi valore per il bambino. L’uccisione diretta sarebbe dunque giustificata da una valutazione della qualità di vita.[15] Tale posizione è stata difesa nel caso di Baby Doe. Una terza posizione è quella che tende ad assolutizzare il volere dei genitori come se questi avessero il diritto, in certi casi, sia di chiedere l’interruzione delle terapie proporzionate sia di continuare le terapie di sostegno delle funzioni vitali anche quando siano ormai inutili o sproporzionate. I giudizi prudenziali sulla proporzionalità del trattamento a volte sono considerati alla luce del proporzionalismo etico secondo il quale non esistono valori morali assoluti, il che fondamentalmente significa che in certe situazioni un giudizio proporzionale potrebbe condurre a una decisione che potrebbe giustificare l’omicidio diretto di un neonato o il rifiuto di cure di base quali la nutrizione e l’idratazione. Questa posizione etica è esplicitamente presa in considerazione e rifiutata nella Veritatis Splendor: “Per questo, senza minimamente negare l'influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che «esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto».”[16] In questo contesto un argomento importante è rappresentato dalla corretta interpretazione della distinzione tra “uccidere e lasciar morire”. L’utilitarismo considera solo le conseguenze dell’azione e quindi non considera tale distinzione, come per esempio affermano Beauchamp e Childress “Sostenere, come facciamo noi, che l’uccidere non è moralmente diverso dal lasciar morire equivale a dire semplicemente che la corretta classificazione di un’azione come ‘uccidere’ o come ‘lasciar morire’ non
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determina se una forma di azione sia migliore o peggiore, o più o meno giustificata, rispetto ad un’altra.”[17] Il tradizionale e prudente insegnamento del Magistero della Chiesa, se correttamente interpretato, può chiarire le tre posizioni suddette attraverso la distinzione tra mezzi ordinari e straordinari, proporzionati e sproporzionati e il riconoscimento della dignità della persona umana rafforzata dai diritti fondamentali inalienabili. Ciò chiarisce la corretta interpretazione del concetto di sacralità della vita e il suo ruolo nelle decisioni di etica clinica e anche il giusto peso da attribuire all’HRQL in queste decisioni.[18],[19],[20],[21],[22] L’HQRL è importante, ma la qualità di vita non può mai giustificare nessun atto o omissione finalizzati all’uccisione diretta. Papa Giovanni Paolo II a questo proposito afferma: “ammettere che si possa decidere della vita dell'uomo sulla base di un riconoscimento dall'esterno della sua qualità, equivale a riconoscere che a qualsiasi soggetto possano essere attribuiti dall'esterno livelli crescenti o decrescenti di qualità della vita e quindi di dignità umana, introducendo un principio discriminatorio ed eugenetico nelle relazioni sociali.”[23] Un ulteriore contributo al chiarimento di queste complesse questioni etiche è costituito dalla acuta analisi che S. Tommaso fa della moralità degli atti umani distinguendo tra intenzione, oggetto e fini.[24] In quest’analisi egli considera anche l’importanza etica delle conseguenze prevedibili dell’atto.[25] Questo è ciò che si cerca continuamente di studiare in ambito medico attraverso gli studi di follow up e la statistica. È interessante notare che la Tavola 3 suggerisce “che un approccio sempre più aggressivo verso neonati con peso alla nascita estremamente basso, quelli al di sotto dei 750g, porta sia ad un prolungamento del processo di morte sia ad un aumento dell’incidenza di handicap da moderati a gravi.”[26] Quando poco è troppo poco e molto è troppo Questa espressione indica il grande interesse della comunità medica neonatale rispetto alla necessità di stabilire dove porre i limiti della vitalità e quando i trattamenti iniziano ad essere o sproporzionati e, in alcuni casi, inutili.[27],[28],[29],[30] In base ai risultati degli studi di follow up e alla mortalità dei nati prematuri,[31],[32],[33] è possibile sviluppare un approccio di base legato al peso e all’età gestazionale del bambino per giustificare eticamente i limiti del trattamento: i neonati con un peso superiore a 1000g in generale mostrano buoni risultati in termini di riduzione del tasso di mortalità e di problemi di sviluppo neurologico. I neonati tra i 500 e i 1000g spesso richiedono decisioni complesse riguardanti la negazione o l’interruzione dei trattamenti. I neonati con meno di 23 settimane di età gestazionale e meno di 500g di peso hanno un tasso di mortalità o di sviluppo di handicap importanti quasi del 100%. Ma i dati statistici forniscono solo un criterio di massima per i risultati basati sul peso e l’età gestazionale. Questi devono essere arricchiti da una strategia prognostica individualizzata che consideri anche altri dati clinici. In ogni caso persiste un’incertezza variabile di prognosi e può anche esserci più di una scelta eticamente sostenibile. Quanto detto sopra, circa il modo in cui le decisioni etiche dei genitori sui loro figli appena nati possano essere più assennate e circa la loro vulnerabilità, in nessun caso interferisce con il dovere che hanno i neonatologi, e gli altri membri dell’equipe sanitaria, di discutere le informazioni con la famiglia, quando la disponibilità dei genitori e il loro stato mentale e psichico e altri fattori lo rendano possibile. L’esperienza dimostra come sia difficile in certi casi per i genitori comprendere l’incertezza della prognosi e prendere una decisione da soli. Tuttavia, in generale, i genitori, sia di bambini a termine sia di bambini estremamente prematuri, sono più favorevoli, rispetto al personale medico, ad intervenire per salvare il bambino, indipendentemente dal suo peso o dalle sue condizioni alla nascita. L’opinione e i valori del medico hanno una grande influenza sui genitori. “Pertanto è necessario che venga presa una decisione comune, unendo le conoscenze del medico e la volontà dei genitori.”[34]
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SALUTE NEONATALE E QUALITÀ DI VITA NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO Priorità sanitarie nei paesi in via di sviluppo La situazione dei paesi in via di sviluppo pone il rapporto tra qualità di vita e medicina neonatale in una prospettiva globale. La terapia intensiva neonatale è una forma molto sofisticata e molto dispendiosa di assistenza medica. Il costo medio dell’assistenza medica nel primo anno di vita per i bambini prematuri al di sotto dei 1500g va dai 58.000 ai 272.900 dollari (si veda la Tavola 4). Questo tipo di assistenza non è alla portata dei paesi poveri. C’è una ben nota relazione tra reddito pro capite e indicatori sanitari, specialmente per quanto riguarda la mortalità infantile (si veda la Tavola 5). I paesi con un basso reddito pro capite hanno altre priorità per l’assistenza pediatrica. “Un gran numero di bambini e neonati muore ogni anno per malnutrizione, infezioni e altre cause evitabili.”[35],[36] In tali condizioni possono verificarsi anche ritardi nello sviluppo neurologico. Inoltre, come già affermato in questo lavoro, la qualità di vita è influenzata anche da molti altri fattori come la famiglia, l’educazione, la casa, la nutrizione e l’impiego dei genitori, tutti fattori critici nei paesi in via di sviluppo. Negli ultimi decenni “nell’Africa orientale milioni di bambini sono stati salvati grazie agli sforzi per la nutrizione e alla reidratazione orale.” Allo stesso tempo ci sono ancora milioni di bambini in tutto il mondo non ancora vaccinati contro il morbillo, che rappresenta la prima causa di morte e morbilità nei bambini.[37] Le ineguaglianze tra i vari paesi (si veda la Tavola 5)[38] e in diverse aree dello stesso paese, pongono importanti problemi etici di solidarietà sulla base dei quali appare chiara la necessità di un riorientamento dell’economia globale, dalla difesa militare all’educazione, la casa e la produzione alimentare. Le complesse decisioni etiche cliniche della moderna terapia intensiva neonatale in relazione alla limitazione dei trattamenti, non hanno alcun senso in questi paesi e praticamente la questione neppure si pone. Quando iniziare il trattamento intensivo neonatale in un paese in via di sviluppo In questi paesi esistono molti altri fattori che condizionano la qualità di vita e che sono molto più efficienti economicamente in termini di miglioramento della salute. Tali fattori devono necessariamente riguardare il primo. Come affermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Morbilità e mortalità fetale e neonatale nei paesi in via di sviluppo potrebbero essere notevolmente ridotte attraverso una maggiore diffusione di terapie efficaci durante la gravidanza, il parto, e il periodo successivo al parto.”[39] Quindi solo dopo la realizzazione di queste misure di base si può pensare di migliorare gli aspetti più complessi dell’assistenza medica. La terapia intensiva neonatale è una forma di assistenza medica estremamente costosa. Dunque la questione riguardante la giustificazione etica e la sensatezza dell’introduzione di questo tipo di assistenza medica in una determinata area è da valutare con estrema cura, specialmente nel contesto di paesi in via di sviluppo. Investimenti fatti per i NICU possono essere più utili se indirizzati verso altri settori sanitari con un rapporto costo-efficienza più favorevole, come ad esempio l’assistenza primaria, l’assistenza prenatale, i programmi di vaccinazione, nutrizione, ecc. A questo proposito il Pontificio Consiglio Cor Unum afferma: “È legittimo impiegare risorse di alta tecnologia medica per il beneficio di un solo paziente, mentre altri pazienti non ricevono neppure le cure più elementari? Se alcuni pensano che questa domanda sia «contraria al progresso», i cristiani ne dovrebbero invece tenere conto nelle loro valutazioni.”[40] L’esperienza dimostra che può essere fatto molto per migliorare la salute neonatale con misure generiche, come quelle precedentemente indicate. La mortalità postnatale (da 28 giorni a un anno) dipende soprattutto dalle condizioni sanitarie e dall’assistenza primaria, mentre la mortalità neonatale è legata più direttamente a fattori biologici, come riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: “È comunemente accettato che le morti neonatali siano collegate a fattori biologici e all’assistenza perinatale, la mortalità postnatale dipende in
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maniera predominante da fattori socioeconomici e di aggressività dell’ambiente.”[41] In generale solo quando la mortalità infantile viene ridotta ad un tasso tra il 25 e il 30%, diventa necessario considerare la possibilità di introdurre la terapia intensiva neonatale. La giusta distribuzione e l’uso razionale delle risorse sanitarie neonatali Un approccio globale ad una buona assistenza neonatale, e quindi la sua importanza per la qualità di vita, deve considerare la giusta distribuzione delle risorse e un loro utilizzo razionale. Sebbene ‘distribuzione’ e ‘uso razionale’ delle risorse siano due concetti strettamente collegati tra loro, non possono essere identificati.[42] Di fatto gli indicatori dell’assistenza sanitaria sono rapportati al reddito pro capite di un paese, ma questa correlazione non è lineare. Per esempio i paesi ad alto reddito non necessariamente hanno il più basso tasso di mortalità infantile, come si vede nella Tabella 5. Questo fatto può essere spiegato con una distribuzione non uniforme delle risorse sanitarie tra i diversi livelli socioeconomici di una determinata popolazione, con una valutazione non corretta dei problemi sanitari prioritari all’interno della stessa popolazione, o con un’organizzazione non efficiente delle risorse. Pertanto né l’entità delle risorse economiche destinate all’assistenza sanitaria, né altri tipi di risorse sanitarie, come il numero di medici di un paese, hanno sempre una correlazione lineare con gli indicatori sanitari. In questo contesto deve essere messa in rilievo l’importanza della regionalizzazione dell’assistenza perinatale come aspetto fondamentale dell’uso razionale delle risorse. La regionalizzazione consiste nell’organizzazione di un network nazionale di assistenza sanitaria progressiva in una data area geografica con livelli differenti di assistenza medica sempre più complessa (livelli I-II-III). Tutti questi livelli devono essere efficientemente interconnessi cosicché i neonati possano ricevere un’assistenza adeguata alla loro situazione di rischio. Le risorse dei NICU devono essere concentrate nelle strutture più complesse, di livello III, per garantire lo spazio, il personale e l’attrezzatura adatti a trattare tutti i bambini con malattie gravi di questa specifica regione del paese. L’organizzazione sanitaria regionale ha dato prova di essere altamente efficiente relativamente ai costi non solo da un punto di vista economico, ma anche in termini di qualità dei servizi offerti.[43],[44] Garantendo un numero sufficiente di pazienti, il personale sanitario ha la possibilità di rimanere attivo nel proprio campo, il che gli permette di conservare la propria abilità e capacità e di accumulare un’importante esperienza clinica di cui potranno beneficiare i pazienti futuri. È indispensabile, per i paesi poveri, prendere in considerazione questa esperienza maturata nei paesi sviluppati. L’impatto della regionalizzazione è illustrato nella Tavola 6 e mostra una chiara differenza nel tasso di sopravvivenza dei bambini prematuri secondo il peso alla nascita e il livello di assistenza (livello I, II e III).[45] Inoltre bisogna supporre che la regionalizzazione dei NICU abbia un importante impatto nell’HRQL dei neonati. LA FAMIGLIA: UN FATTORE INTEGRANTE PER LA QUALITÀ DI VITA È noto, come abbiamo detto all’inizio, che esistano componenti oggettive e soggettive della qualità di vita. I neonati e i bambini sono soggetti che hanno legami di dipendenza da altri. La sfida più importante consiste nell’aiutarli a svilupparsi secondo i criteri di un’autentica crescita umana. Ciò è vero non solo per i bambini normali, ma in particolar modo per i bambini portatori di qualche tipo di handicap. In tale contesto la famiglia gioca un ruolo centrale e integrativo, specialmente nel dare ai bambini una testimonianza dei più fondamentali aspetti che contribuiscono ad avere una vita ricca di significato e soddisfazione. Un approccio globale all’argomento, oggi prevalente, della qualità di vita deve riconoscere il ruolo centrale della famiglia e, quindi, non risparmiare sforzi per supportare la struttura e le condizioni che permettono alla famiglia di realizzare il suo importante compito nella società e specificatamente nello sviluppo di ogni bambino. Questo vale per tutti i contesti sociali, indipendentemente da fattori economici o di altro tipo. Vorrei concludere questo intervento citando
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Papa Giovanni Paolo II: “La prima e fondamentale struttura a favore dell'«ecologia umana» è la famiglia, in seno alla quale l'uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé da parte dell'uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino.”[46]
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WANDA POLTAWSKA MENOMAZIONE MENTALE E VALORE DELLA VITA GENEALOGIA DIVINA Lo specifico che,qualifica la vita è determinato dalla sua origine, e il suo valore può essere valutato in maniera diversa a secondo della visione che uno ha dell'origine della vita. La domanda fondamentale sulla vita umana è quindi: da dove veniamo? Chi siamo? E questo non è tanto un problema di conoscenza, quanto oggetto di fede. A questa domanda ha fornito la risposta la nostra fede nell'esistenza di un Dio Creatore. La verità sulla provenienza divina della persona umana rivela immediatamente il valore dell'uomo e della donna creati a immagine di Dio. Questa verità concerne tutte le persone, tutti i tempi e tutte le razze. Non ci sono altre persone al mondo se non quelle create da Dio, persone che rimangono sempre in una particolare relazione con il loro Creatore. SACRALITÀ DELLA VITA UMANA Un essere umano, in quanto creato da Dio a Sua immagine, è destinato all'immortalità e a partecipare eternamente alla vita divina, alla felicità eterna, al paradiso. Questo è il fattore decisivo che determina la sacralità-inviolabilità- della vita umana. Dio dona all'uomo vita ed esistenza. E' Lui che lo chiama, attraverso l'esistenza terrena, alla vita eterna. LA VITA COME IMPEGNO Il dono della vita diventa allora un impegno per la persona che ha ricevuto il dono -la sacralità della vita dovrebbe avere il suo complemento nella santità della persona che la vive. Esiste la tentazione facilmente comprensibile di valutare la vita umana in base alla santità osservabile nella persona o all'assenza di questa santità. A base di questa valutazione non è la consapevolezza della provenienza divina della vita umana, quanto piuttosto la valutazione delle azioni umane e delle loro conseguenze. Le azioni umane, infatti, a causa del grande dono della libertà, del libero arbitrio che è concesso all’essere umano, possono diventare “disumane”, come possiamo facilmente vedere in tutta la storia dell'umanità. SACRALITÀ DELLA PERSONA UMANA COME OBIETTIVO DELLA VITA Tuttavia, creato per il cielo, l'uomo o la donna non passano automaticamente nella dimensione della felicità eterna solo in forza della loro provenienza divina, ma vi accedono mettendo a frutto i doni che essi hanno ricevuto. Ogni persona dovrebbe “realizzare” se stessa nella vita, rispondendo alla propria vocazione. Processo di maturazione verso la santità - verso la realizzazione di sé Per percepire il valore oggettivo della vita umana come dono di Dio, la persona deve essere consapevole della propria identità. Ma noi acquistiamo questa conoscenza gradualmente, man mano che essa si sviluppa nel corso della vita attraverso le circostanze della vita stessa, e in base alla nostra capacità di comprendere. In questo sta la responsabilità di tutti gli educatori. Le persone che sono riuscite a sviluppare pienamente se stesse, sono responsabili della consapevolezza che della loro
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identità hanno le persone che loro possono influenzare. Piena maturità - questa non è altro che la santità raggiunta. MALATTIA MENTALE – UN’OSTACOLO ALLO SVILUPPO Fattori psico-biologici secondari possono essere -e spesso lo sono- ostacolo allo sviluppo corretto della persona. Tuttavia questi fattori non annullano il dono fondamentale della sua provenienza divina, né l'obiettivo della creazione: l'immortalità. Un essere umano è sempre “umano” indipendentemente dallo stadio del suo sviluppo mentale; può anche essere fisicamente malato o minorato psichico, ma la sua umanità, cioè la sua somiglianza con Dio non cessa mai di sussistere. E' la persona umana che volutamente rifiuta il piano di Dio per la sua vita e distrugge i valori a lui concessi in dono che nega la sua umanità. Malattie mentali Alcune malattie mentali hanno un percorso molto lento,cosicché nell'ambiente in cui il soggetto vive può anche avvenire che non ci si renda conto della loro esistenza. Alcune volte i familiari accusano la persona malata di avere intenzioni cattive o un brutto carattere. Alcune psicosi causano eccessiva agitazione e aggressività, che possono diventare pericolose per gli altri. Inoltre, tipico delle malattie mentali è la mancanza di consapevolezza della malattia da parte del soggetto malato e quindi la mancanza di autocritica. Di conseguenza il comportamento della persona malata causa spesso tensione nella famiglia, che invece di cercare l'aiuto del medico, pretende che la persona malata migliori da sola il suo comportamento. Ma anche quando la famiglia si rende conto che la persona è malata di mente, e quindi non è responsabile, sorgono difficoltà per la terapia a causa della sua resistenza a qualunque cura, dal momento che essa si considera perfettamente sana. Molte malattie mentali richiederebbero il ricovero del paziente in ospedale, ma può divenire molto difficile attuarlo dal momento che la legge dello Stato tutela la libertà dell'individuo. In Polonia, per esempio, la legge non permette di mettere un paziente in una struttura “protetta” senza il suo consenso e il paziente spesso non vuole dare tale consenso. “Rinchiudere” un paziente è permesso soltanto quando è pericoloso a se stesso o agli altri. Le famiglie che sopportano il peso di una persona malata di mente vivono un conflitto interiore e, nonostante le migliori intenzioni, i suoi componenti spesso non riescono a mantenere la pace tra di loro. Tali infermità, infatti, sono causa di disgregazione del matrimonio, perché sopporta re la presenza di una moglie o di un marito malato di mente può richiedere una forza superiore a quella di cui dispone il coniuge. In particolare, quando il coniuge malato è la donna, più facilmente si arriva al divorzio perché, in linea di massima, gli uomini hanno minore tolleranza per la malattia della moglie di quanta ne abbiano le mogli verso i mariti malati. La malattia mentale non annulla la validità del Sacramento se essa subentra dopo che il matrimonio è stato contratto. Per questo si consiglia caldamente di essere molto cauti prima del matrimonio. La malattia mentale, invece, rende nulla la capacità di contrarre matrimonio e di accedere agli ordini sacri. Le malattie. mentali possono insorgere a qualunque età e i dati statistici le mostrano in crescita numerica. La cura di questi malati richiede molta pazienza e generosità, soprattutto perché queste malattie sono in genere croniche, spesso incurabili e possono richiedere l'isolamento del paziente per molti mesi o anni. La situazione che si determina quando un membro della famiglia si ammala di mente richiede, da parte degli altri componenti la famiglia, innanzitutto un profonda comprensione del senso della sofferenza. Inoltre le malattie croniche richiedono ingenti mezzi finanziari: i pazienti affetti da malattie mentali assumono per mesi o anni farmaci il cui prezzo può anche essere superiore alle possibilità finanziarie
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della famiglia. Solo nei paesi con una migliore organizzazione del servizio sanitario questo tipo di pazienti riceve assistenza dallo Stato o da organizzazioni sociali. Deficienza mentale Alquanto diverso è il destino di persone che, in conseguenza di vari agenti nocivi, hanno subito un impedimento nel loro sviluppo personale. L'opinione pubblica spesso è discriminante nei confronti di queste persone, in particolare quando la loro menomazione è grave e non è possibile instaurare un rapporto adeguato con loro. La vita delle persone con menomazioni molto gravi di solito è breve, ma una menomazione minore non pregiudica la vita del paziente, che tuttavia non è in grado di bastare a se stesso e ha bisogno di cure per tutta la vita. La comparsa di un figlio così in un famiglia è sempre una prova per i genitori e una verifica del livello “sociale” di un popolo. Tuttavia la necessità di prendersi cura di persone inferme mette in azione le migliori qualità umane: la disposizione a prendersi cura degli altri, la compassione, la buona volontà. Possiamo portare ad esempio la vita del professorJérôme Lejeune che, dopo aver scoperto uno dei fattori che causano la deficienza mentale, non si limitò a svolgere lavori scientifici, ma fondò un’organizzazione che si prendesse cura di questi pazienti. Una cura mirata e la buona volontà possono spesso determinare cambiamenti e sviluppi positivi.Un bambino sottosviluppato e abbandonato, mediante cure appropriate e premurose, può anche sviluppare svariati talenti. Numerose relazioni della ricerca medica ci fanno sempre più sperare nella guarigione di almeno una parte di queste patologie. La vecchiaia Finora la medicina non è stata in grado di scoprire il mistero dell'invecchiamento. Sebbene molte malattie della vecchiaia siano state descritte, non siamo ancora in grado di fare previsioni sul processo di invecchiamento di una persona. Qualche volta la famiglia è sorpresa dall'entità del cambiamento che si verifica in un suo componente, cambiamento che può giungere fino alla perdita della propria identità. Ci può essere un invecchiamento fisiologico e uno patologico. La patologia della vecchiaia ha dato origine allo sviluppo della gerontologia, ma questo non risolve il problema. La descrizione più precisa dei cambiamenti di un organismo non ne elimina le cause. La vecchiaia non si può curare, anche se possiamo curare una persona vecchia. La vecchiaia inevitabilmente porta alla morte. La cura delle persone anziane è diventata oggigiorno un problema sociale e persino politico. Si presenta infatti il problema dei mezzi finanziari, e la gente si pone la domanda fondamentale se non sia fuori luogo dispensare cure mediche agli anziani, atteggiamento, questo, che porta alla diffusione sempre più vasta dell'accettazione dell'eutanasia. L'anziano, che non fa sperare in una guarigione, che non può essere guarito, non sarà più produttivo, diventa un peso per la società. La consapevolezza di questo stato di cose induce talvolta al suicidio persone anziane che, a causa di maltrattamenti, hanno la sensazione di essere inutili. LA FAMIGLIA E LA SOCIETÀ DI FRONTE AL MALATO FISICO O MENTALE Una persona che non è responsabile a causa di una malattia è -o almeno può essere- innocente, anche se le sue azioni sono inaccettabili secondo le regole codificate. Insorge così il difficile problema di proteggere la famiglia e la società dalle conseguenze di queste azioni. In tale situazione, se l'azione deve essere condannata, deve invece essere protetto il suo autore. Garantire questa protezione è compito delle leggi e delle istituzioni sociali. Per questi pazienti vengono istituite case protette. Il valore di un essere umano è determinato dalle sue azioni e dalla responsabilità di quelle azioni. Una persona, che per ragioni che esulano dal suo controllo, non è in grado di valutare adeguatamente le sue azioni e le sue omissioni, non ne è responsabile; tuttavia essa è chiamata alla vita da Dio stesso e deve
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vivere tanto quanto il Creatore vuole che essa viva. (Giovanni Paolo Il disse, durante il funerale di un suo amico: "Una persona umana muore sempre nel momento migliore per lei, perché Dio è buono"). La vita di un essere umano, il suo inizio e la sua fine, è nelle mani del Creatore. Quando noi proviamo a manipolare il concetto dì essere umano o la sua morte, noi andiamo oltre la nostra autorità, ci ribelliamo al Creatore. Qualunque sia l'entità della menomazione un essere umano, al quale è stata data la vita, ha il diritto e persino, in certo modo, l’obbligo di vivere, e la sua presenza non potrà non influire sull'ambiente in cui si trova a vivere. I bambini indifesi e le persone malate pongono alla società l'obbligo di prendersi cura di loro. Durante il primo dibattito del Parlamento francese sulla legalizzazione dell'aborto, il primo gruppo che protestò contro tale legislazione fu l'Organizzazione Mondiale dei Genitori di Figli Disabili. Essi sostenevano, anzitutto, che i figli disabili infliggono meno dolore dei figli sani che non sono all'altezza delle speranze riposte in loro; in secondo luogo, sottolineavano il fatto che la presenza di tali persone nella società salvaguarda nel genere umano l'attitudine all'umanità, perché lo induce all'altruismo verso le persone che non sono in grado di pagare le cure necessarie. Le persone malate richiedono azioni generose, senza le quali l'umanità potrebbe diventare crudele nel suo egoismo. Cristo definisce l'atteggiamento che il cristiano deve avere verso le persone malate identificando se stesso conloro: "Ogni volta che lo avete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo avete fatto a me" (Mt 26,40). L'esistenza di persone bisognose grida aiuto e questo aiuto viene realizzato sia dagli individui che da diverse comunità ecclesiali. Ovviamente la cura dei malati comporta spese materiali e ciò facilmente genera la tendenza a volerli eliminare, tendenza che ora prevale nel mondo (la tendenza a legalizzare l'eutanasia fu ampiamente messa in atto nel piano di Hitler per eliminare i pazienti degli ospedali psichiatrici). Impera la tendenza a un utilitarismo egoistico e spietato, che valuta gli esseri umani esclusivamente in base alla loro capacità di produrre beni materiali; pertanto, le persone non produttive vengono relegate ai margini della società. VALUTAZIONE MORALE Nessuna malattia costituisce una colpa, sebbene alcune malattie siano la conseguenza di una trasgressione. Ogni peccato può essere perdonato grazie all'amore misericordioso di Dio, ma le sue conseguenze, come ad esempio una malattia biologicamente condizionata, non sono soggette a questo annullamento sacramentale e appartengono al destino della persona interessata -un destino che richiede non soltanto alla persona malata, anche alle persone che le sono vicino di affrontare delle difficoltà. Qualunque malattia comporta del disagio, ma questo è particolarmente pesante nel caso di persone malate di mente,perché i sintomi di quel genere di infermità può causare conseguenze dolorose, come -per esempio- la perdita di contatto con una persona amata, l'aggressività, etc. Questo determina una situazione particolarmente difficile, e in tale situazione le persone più vicine al paziente hanno bisogno d’aiuto. Così la vera umanità di una società è in certo modo messa alla prova dalla necessità di organizzare la cura delle persone malate in modo tale che la loro condizione e quella delle loro famiglie possa essere sopportabile. Non trattandosi di “colpa”, una diminuita capacità intellettuale e l'infermità mentale non costituiscono ostacoloper la persona di accostarsi alla Confessione o di riceverela Comunione, a patto che essa sia in grado di capire la natura dei Sacramenti.
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CONCLUSIONE Oggettivamente la vita di ogni essere umano ha ugualevalore, la sacralità della vita umana non dipende dalla con dizione fisica. Tuttavia, nella vita di tutti i giorni può essere difficile percepire questa dimensione della realtà poiché esiste la tendenza a giudicare frettolosamente la malattia come una colpa o un peccato. I pazienti vengono spesso accusati di sintomi che non dipendono da loro, di cui non sono responsabili: è solo il loro duro destino. Allora noi possiamo chiederci:perché? Perché a me? Una volta Giovanni Paolo II ha detto: "La sofferenza dell'innocente è il più grande mistero di Dio, non lo si può capire, lo si deve so lo accettare". Tutte queste persone, indipendentemente dal tipo di menomazione, sono una sfida per la società, in particolare per la società cristiana., poiché è proprio con loro che Cristo si identifica, la loro presenza sollecita comportamenti umani genuini. Il valore di un uomo si può misurare in base al suo atteggiamento nei confronti dei malati, delle persone anziane, dei menomati. Giovanni Paolo II ha scritto: “...L'uomo sofferente nella dimensione spirituale dell'opera della Redenzioneserve, come Cristo, alla salvezza dei suoi fratelli e sorelle. Quindi egli sta adempiendo un servizio insostituibile. E perciò la Chiesa vede in tutti i fratelli e sorelle di Cristo sofferenti una sorta di soggetto molteplice della sua forza soprannaturale...le sorgenti della forza divina sgorgano proprio in mezzo alla debolezza umana. Coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo serbano nelle proprie sofferenze una specialissima particella dell'infinito tesoro della Redenzione del mondo, e possono dividere questo tesoro con gli altri"[1].
[1] GIOVANNI PAOLO II, SalvificiDoloris, n.27.
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JOANNES. LELKENS QUALITÀ DI VITA IN PAZIENTI CON TUMORE A PROGNOSI INFAUSTA Introduzione Le origini dell’espressione “qualità di vita” si possono rintracciare già nella letteratura socio-politica degli anni ’50. Fu l’allora presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, ad affermare, in un discorso del 1964, che i suoi obbiettivi non erano valutabili in termini economici ma di “qualità di vita”[1]. Da allora il concetto di “qualità di vita” è apparso in innumerevoli scritti e programmi. L’espressione “qualità di vita” si presta a più di un’interpretazione e il suo significato non è sempre lo stesso dipendendo, questo, dal contesto in cui si usa tale espressione. A volte queste considerazioni sono rifiutate come moralmente inammissibili, indipendentemente dal loro contenuto. Il concetto di “qualità di vita” non è specifico dell’ambito medico. Come già detto, negli anni ’50 esso era sostanzialmente un argomento della critica culturale e sociale: la qualità della vita opposta ad una visione materialistica dell’esistenza umana. L’espressione “qualità di vita” fu usata per designare il concetto di qualità dell’esistenza o benessere e anche la qualità dell’essere una persona umana. Tutte queste accezioni di qualità della vita sono presenti nella medicina contemporanea. Dopo questa introduzione il mio intervento prenderà in considerazione:
• Il significato di ‘qualità di vita’ • La misura della qualità di vita • La qualità di vita in pazienti affetti da tumore • L’utilità di misurare la qualità di vita • Discussione e conclusioni
1. Il significato della qualità di vita Risulta a tutt’oggi impossibile fornire una definizione adeguata di vita e lo stesso vale naturalmente per la qualità di vita. Dato che è fondamentalmente impossibile pronunciare un giudizio di valore sulla qualità di vita stessa come valore della persona umana, si è scelto di determinare la qualità di una espressione della vita e in particolare dello stato di salute o delbenessere di una persona. La “salute”, al contrario della “vita”, può essere ben definita. Da un punto di vista puramente biologico, possiamo dire che una persona sana è un’entità coordinata ed equilibrata con una circolazione sanguigna, un sistema respiratorio e un sistema nervoso centrale integri. Tuttavia questo non è l’uomo nella sua totalità. La salute è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non come mera assenza di infermità o malattia. Ma anche tale definizione è incompleta e vaga poiché il “benessere” è un fattore alquanto soggettivo ed è quindi impossibile definire esattamente tale stato. Tuttavia oggi si tende a definire e misurare la qualità di vita in base alla possibilità, da parte delle persone, di espletare certe funzioni nel campo (o dimensione) fisico, psicologico e sociale, secondo una valutazione soggettiva[2]. Sebbene si usi l’espressione ‘misurazione della qualità di vita’, in realtà ciò che si misura è solo la qualità di alcuneespressioni della vita e non della vita stessa. Sarebbe pertanto preferibile parlare di misura della Qualità di Vita in Relazione alla Salute (HRQoL).
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Quali conseguenze il risultato di queste misurazioni possa avere per la vita stessa, è un argomento a parte, specialmente se la qualità risulta essere molto bassa. Dunque la qualità della vita in relazione alla salute implica considerazioni oggettive e soggettive. Le considerazioni oggettive riguardano il fatto che qualcuno abbia determinate limitazioni come conseguenza del suo stato di salute. Gli aspetti soggettivi, invece, hanno a che fare con il giudizio della persona sul proprio stato di salute e le proprie limitazioni: non riguarda, per esempio, solo il fatto che una persona non possa salire le scale, ma anche cosa questa persona pensa su questo fatto. 2. La misura della qualità di vita La qualità di vita è un concetto multidimensionale e pertanto riguarda diverse dimensioni o campi. Ci sono tre dimensioni principali: quella fisica, quella psicologica e quella sociale. Le dimensioni possono essere suddivise in elementi come, ad esempio, l’elemento della dimensione fisica, chiamato funzione fisica che, tra le altre cose, contiene domande sulla possibilità di svolgere attività quotidiane come salire le scale, fare la spesa, ecc. La dimensione psicologica o emozionale è relazionata ai disturbi psichici come le sensazioni di panico o la depressione. La dimensione sociale può essere definita come il grado in cui una malattia riduce la possibilità di avere ruoli sociali come nella vita familiare, nel lavoro, nella cerchia degli amici o nel tempo libero. Aspetti non direttamente legati alla malattia e alla cura della salute sono lasciati da parte. Una conseguenza della crescente importanza della ricerca scientifica nell’ambito sanitario è rappresentata dallo sviluppo di un’ampia gamma di strumenti – anche detti costrutti – per la misurazione di nozioni come quella di qualità di vita. Prenderemo in considerazione solo una tra i più vecchi indicatori e due tra quelli più usati oggi. L’indice di Karnofsky L’indice di Karnofsky è stato uno dei primi indicatori (si veda la tavola 1) elaborato da David Karnofsky e Joseph Burchenal nel 1947. Esso è un indice “di attività” per la misurazione dei risultati dei trattamenti antitumorali: lo stato fisico del paziente, le prestazioni e la prognosi successiva all’intervento terapeutico. Tale indice è anche adatto per determinare l’idoneità del paziente alla terapia. Come tutti gli attuali strumenti, l’indice di Karnofsky consiste in un certo numero di domande da somministrare al paziente. A seconda delle risposte, la qualità di vita sarà espressa in percentuale rispetto ad un normale (100%) stato di salute. Le informazioni disponibili oggi sulla qualità della vita sono il risultato di studi in cui sono stati utilizzati strumenti generici di misurazione, cioè strumenti contenenti domande relative alle funzioni fisiche, psicologiche e sociali e quindi non riguardanti malattie specifiche. I più diffusi strumenti generici di questo tipo sono: Il Medical Outcomes Study e l’EuroQol. I Medical Outcomes Study Il Medical Outcomes Study (si veda la tavola 2) è un’Indagine Sanitaria in Forma Breve in 36 Punti (abbreviata in SF-36) e può rappresentare un esempio del modo in cui oggi può essere determinata la qualità di vita. SF-36 è stata sviluppata negli Stati Uniti ed è uno strumento multidimensionale che consta di 8 dimensioni: funzione fisica, limitazioni dovute a problemi fisici, dolore fisico, esperienza di salute, vitalità, funzione sociale, limitazioni dovute a problemi psicologici (emozionali) e salute mentale.
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Ciascuna dimensione contiene uno o più argomenti che sono correlati a quella dimensione. Un punto (extra) chiede di variazioni dello stato di salute. In tutto ci sono 36 punti, da qui il nome SF-36. Le domande alle quali il paziente deve rispondere sono relative a questi punti. Per esempio la dimensione ‘salute mentale’ contiene domande sulle sensazioni di depressione e agitazione. La SF-36 è notevolmente superiore a molti altri strumenti in quanto copre tutto il campo della salute e non è diretta a nessuna malattia o handicap specifici. Il punteggio delle varie voci viene sommato per ciascuna dimensione e riportato in una scala da 0 a 100. Più alto è il punteggio, migliore è lo stato di salute e quindi la qualità di vita. La dimensione ‘funzionalità fisica’ ha 10 voci e ognuna contiene una lista di domande relative alla voce. Una di queste voci si chiama ‘attività quotidiane’. Per esempio una lista di domande che sono collegate alla voce ‘attività quotidiane’ afferiscono alla dimensione ‘funzionalità fisica’ (si veda la tavola 3). L’EuroQoL-5D L’EuroQol-5D, abbreviato in EQ-5D, fu elaborato nel 1989 dall’EuroQol-group[3] ed è un questionario generico (si veda la tavola 4). Chiunque può rispondere alle domande della lista indipendentemente dall’età, lo stato di salute, l’ospedalizzazione o meno. Pertanto è uno strumento non per malattie specifiche che descrive e valuta la qualità di vita in relazione alla salute. Al contrario della SF-36, l’EQ-5D contiene solo 5 dimensioni: mobilità, autonomia, attività normali, dolore/disagio e ansia/depressione. Ogni dimensione prevede tre domande a tre livelli diversi: il livello uno indica chenon ci sono problemi, il due pochi problemi, il tre incapacità o gravi problemi. Ai pazienti viene chiesto di descrivere il proprio stato di salute attraverso questi enunciati descrittivi, non c’è bisogno dell’assistenza di un medico. I punteggi non sono sommati insieme, ma fungono da descrizione dello stato di salute, per esempio lo stato 22213 (si veda la tavola 5) indica alcuni problemi di mobilità, autonomia e nelle attività comuni, nessun dolore o disagio, ma estrema ansia o depressione. Nella maggior parte degli usi clinici ai pazienti viene chiesto anche di definire il proprio stato di salute su un’analoga scala visuale (EQVAS, si veda la figura 1). Il paziente deve tracciare una linea dal riquadro “il tuo stato di salute oggi” al punto che ritiene giusto sul “termometro”. Rispondere alle domande è relativamente semplice e richiede solo pochi minuti. Inoltre il questionario può essere inviato per posta per essere compilato a casa. Molti pazienti preferiscono riempire un questionario piuttosto che parlare dei loro disturbi rischiando di essere considerati lamentosi. 3. Qualità di vita in pazienti con tumore a prognosi infausta In questo contesto una diagnosi e una prognosi infauste, confermate dalla radiografia, dalla TAC e dall’esame istologico, possono avere due significati: il tumore è maligno oppure il tumore oltre ad essere maligno è anche metastatizzato. Sebbene oggi rispetto ad alcuni decenni, fa per esempio, esistano molte più possibilità di guarire anche per i pazienti del secondo gruppo, la comunicazione di tale diagnosi sfavorevole può causare senso di ansia e depressione. Nel primo gruppo rimane il paradosso della cura contro il cancro, ossia la maggior parte dei pazienti dovrà subire gli effetti negativi del trattamento per ottenere un effetto positivo incerto. Questo è il motivo per cui il contesto in cui si devono prendere decisioni sul trattamento antitumorale da somministrare, risulta spesso complesso[4]: 1. non fare nulla implica la morte del paziente; 2. il trattamento causerà gravi disturbi;
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3. è difficile prevedere per quale paziente il trattamento avrà successo e per quale paziente non avrà effetto. Ciò significa che nel trattamento del tumore quasi sempre bisogna operare una scelta tra la possibilità di trarre un vantaggio in termini di sopravvivenza e la possibilità di una perdita in termini di qualità di vita. Pertanto non sorprende che in oncologia la ricerca sulla qualità di vita abbia ricevuto una particolare attenzione. Come è stata modificata la qualità di vita di questi pazienti con tumore? Si possono individuare tre fattori che influenzano la qualità di vita: a. il trattamento medico; b. la malattia stessa; c. le caratteristiche personali del paziente. a. Trattamento medico e qualità di vita I fattori più importanti che determinano la qualità di vita nei pazienti con tumore sembrano essere i disturbi somatici e psicologici. Tali disturbi possono essere una conseguenza del trattamento. La chirurgia spesso comporta mutilazioni, la radioterapia una serie di disturbi comuni e specifici, mentre la chemioterapia è la causa della maggior parte di questi disordini. Per definizione il trattamento antitumorale viene somministrato con estrema cautela: si cerca sempre di somministrare questo trattamento a dosi che siano in grado di colpire in maniera ottimale le cellule tumorali, ma allo stesso tempo che comportino una tossicità accettabile per le cellule sane. b. Malattia e qualità di vita Oltre al trattamento medico, non bisogna mai dimenticare che è anche la malattia in sé causa di disturbi. Sembra, ad esempio, che tra pazienti sottoposti alla stessa chemioterapia, quelli che già avevano metastasi abbiano più disturbi rispetto ai pazienti senza metastasi. Anche questo ha conseguenze per la cura di questi pazienti. In che misura i problemi somatici e psicologici si verifichino in certi momenti, dipende, tra le altre cose, dallo stadio e dal tipo di tumore. Alcuni decenni addietro l’attenzione era focalizzata particolarmente sulla possibilità del trattamento. Oggi si considera che per la qualità di vita sia di primaria importanza partire dai disturbi del paziente per stabilire cosa si possa fare per alleviarli. La ricerca ha dimostrato che il trattamento è meglio tollerato se la prognosi è favorevole. D’altro canto, anche la decisione di interrompere il trattamento finalizzato al prolungamento della vita, comporta spesso un sollievo: può essere fatta maggiore attenzione al benessere del paziente e alle cure palliative, per esempio nel trattamento dei sintomi: in altre parole, la miglior qualità di vita possibile. c. Caratteristiche personali e qualità di vita Nei pazienti con tumore si può notare una forte relazione tra le caratteristiche personali, come l’età e lo stato civile, e l’esperienza dei disturbi. Per esempio, i disturbi sono spesso più sentiti da pazienti soli che da persone sposate. Persone con una elevata autostima sono meno soggetti ai disagi della malattia rispetto ai soggetti nevrotici che necessitano di cure aggiuntive.
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4. L’utilità della misurazione della qualità di vita Se ci limitiamo a considerare l’EQ-5D, vediamo come questa scala fornisca una descrizione della qualità di vita di un paziente con tumore in un dato momento. Misurazioni successive indicano il corso della malattia e i risultati del trattamento, se invece si è scelto uno strumento di misurazione specifico per il tumore verranno indicati tutti gli andamenti. Oggi esistono questionari per quasi tutte la malattie e per ogni tipo di cancro. La cosa più semplice per gli specialisti in questo campo è aggiungere a un questionario EQ-5D generico un certo numero di domande specifiche relative ai possibili problemi di un tipo particolare di tumore, per esempio il tumore della vescica e i problemi collegati alla minzione. Per il medico che riporta i risultati del questionario in una banca-dati, questo significa essere in grado di scegliere il miglior trattamento per i pazienti attuali, sulla base del successo del trattamento nei pazienti precedenti. Inoltre, la banca-dati rivela gli effetti collaterali del trattamento che ci si deve aspettare e in che percentuale di casi. Anche chi fornisce servizi sanitari può quindi mettere a punto le proprie attività in base ai risultati delle rilevazioni della qualità di vita, e prepararsi meglio. Un altro vantaggio derivante dall’uso di uno strumento di misurazione della qualità di vita come l’EQ-5D è la capacità di valutare il rapporto costo-efficacia di una data terapia. In ambito di economia sanitaria alle persone con qualsiasi tipo di malattia o handicap viene chiesto di valutare il proprio stato di salute in una scala da 0 a1 in cui lo stato di piena salute è = 1. Il numero espresso viene moltiplicato per il numero di anni che si prevede di vivere in questa condizione. Per esempio, la qualità di vita di un soggetto che si preveda viva con una data patologia per 50 anni e alla quale patologia sia stato assegnato un punteggio o, come si dice anche, un peso di 0.5, risulta pari a 25 QALY, abbreviazione che sta per ‘anni di vita qualità-relati’ (‘quality adjusted life-years’). Quindi un QALY è un’unità di misura dell’aspettativa di vita di una persona (in anni) aggiustata per la qualità della sua vita. L’aspettativa di vita dipende dall’età media che una persona in un determinato paese può raggiungere. Il rapporto costo-efficacia (CE) di un trattamento è il rapporto tra i costi (economici) e il numero degli anni di vita guadagnati, aggiustati per la qualità. Quindi: CE = costo/numero di QALY. 5. Discussione e conclusioni Da quanto detto finora emerge che, nell’uso comune, con il concetto di ‘qualità di vita’ (QoL) si intende la qualità di vita in relazione allo stato di salute (HRQoL). In tal senso la misurazione della qualità di vita ha dimostrato di essere uno strumento utile in ambito sanitario, nella ricerca medica e farmaceutica e nel processo decisionale in campo politico e sociale. Tuttavia è chiaro che l’espressione ‘qualità di vita’ dice semplicemente qualcosa sul momentaneo stato di salute di un persona. Di fatto, non è nulla di più di una valutazione soggettiva del senso di benessere basata su un altrettanto soggettivo giudizio sulla propria condizione somatica e psicologica. Il risultato di una misurazione della qualità di vita fornita da qualsiasi strumento è un valore, ma ancora un valore soggettivo. Nondimeno, anche in ambito scientifico, esso è accettato come tale in quanto il paziente è l’unico in grado di dare un giudizio sulla propria qualità di vita. Finché qualcuno si limita a determinare la qualità di vita di qualcun’altro come se fosse il proprio stato di salute o benessere, nessuno può avere motivo di obbiettare nulla, neanche la Chiesa Cattolica Romana, se tale pratica è in accordo con i dettami della sua dottrina. Tuttavia il pericolo è che tale valore sia interpretato come qualità della persona umana e sia usato non solo come criterio per valutare il diritto di una persona di ricevere un determinato trattamento medico, ma anche come criterio per giudicare il diritto del paziente di continuare a vivere.
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Non è solo la Chiesa Cattolica Romana[5] a chiedere che la santità della vita rimanga un principio inalterato, ma anche alcune organizzazioni secolari, come ad esempio l’Associazione Medica Mondiale (WMA)[6], affermano che è dovere del medico proteggere la dignità del soggetto umano. Credo che l’obbiezione più fondata contro l’uso del concetto di ‘qualità di vita’ sia la seguente: etichettare uno stato di salute in base alla qualità di vita, offre l’opportunità per un abuso che consiste nella negazione del valore intrinseco della vita della persona umana, sulla base della considerazione del concetto di ‘qualità di vita’ come metro di giudizio per decidere l’esistenza futura di un essere umano concreto o di una categoria di persone[7]. Lo stesso dicasi per l’uso del QALY, dato che il QALY non è un criterio neutrale, esente da valutazioni valoriali[8]. Il QALY ha risvolti negativi soprattutto se applicato a pazienti con tumore a diagnosi sfavorevole e a persone anziane. Innanzitutto nel concetto di QALY il profitto è espresso in numero di anni di prolungamento della vita e, in generale, i pazienti con tumore e gli anziani hanno meno anni di vita davanti a sé rispetto alle persone sane e giovani. In secondo luogo questo stesso effetto è peggiorato dal fatto che nel concetto di QALY il prolungamento della vita è l’obbiettivo principale mentre la conservazione o il miglioramento delle funzionalità normali è considerato un fattore di correzione. Per la maggior parte dei pazienti con tumore a prognosi infausta e per le persone anziane è più importante vivere il più a lungo possibile e con minor numero di disturbi e fastidiosi handicap. Infine vorrei dire che in un certo senso sono la persona sbagliata per parlarvi di qualità di vita in pazienti con tumore. Come abbiamo visto la qualità di vita è una stima soggettiva, fatta dallo stesso malato di cancro, sul proprio stato di salute e benessere. Quindi al mio posto avrebbe dovuto esserci un malato di tumore ad informarvi sulle sensazioni di paura e a volte di rabbia, di speranza e anche di disperazione di chi ha avuto l’orribile diagnosi di un tumore a prognosi infausta. Senza dubbio egli sarebbe stato in grado di dirvi in maniera realistica come ci si sente sapendo di dover lasciare i propri cari e di dover morire in un futuro non troppo lontano. Sono sicuro che non sarebbe stato un arido riassunto delle risposte provenienti da uno strumento di misurazione della qualità di vita.
[1] E. Sgreccia, Rispetto per la vita e ricerca della qualità di vita in medicina: aspetti etici. Dolentium Hominum 28 (1995), pp. 154-160. [2] M. Tijhuis et al., Wat is kwaliteit van leven en hoe wordt het gemeten ? (Cos’è la qualità di vita e come si misura), Nationaal Kompas Volksgezondheid (2004), 19 Maggio, Bilthoven, Paesi Bassi. [3] R. Rabin e F. De Charro EQ-5D: a measure of health status from the EuroQol Group, The Finnish Medical Society Duodecim, Ann. Med. 2001; 33: 337-343. [4] J.C.J.M. de Haes Ziekte/behandeling en de kwaliteit van het leven van kankerpatiënten (Malattia/trattamento e qualità di vita nei pazienti con tumore) Kwaliteit van leven en zorg, L. Boon, Amstelveen (1988); pp. 39:43. [5] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum Vitae (1987), Introduzione, par. 1. [6] Dichiarazione di Helsinki (1964) e ultima revisione del 2000 (Edimburgo, Scozia) [7] W.J. Eijk, Modelli etici per la gestione sanitaria, Dolentium Hominum 37 (1998) p. 61, Città del Vaticano, Roma. [8] A.W. Musschenga, Kwaliteit van leven: een criterium voor medisch handelen? (Qualità della vita: un criterio per la pratica medica?) Ambo, Baarn (1987), pp 142:143.
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NOËL SIMARD QUALITÀ DELLA VITA E PAZIENTI CON AIDS INTRODUZIONE Prima di entrare nel vivo della questione, e usandola come introduzione, vorrei riportare un’esperienza vissuta mentre ero presidente del HIV-AIDS Support Group di Sudbury un paese di minatori con 100.000 abitanti sita a 400 chilometri a nord di Toronto. Il 1 dicembre 1996, giornata mondiale dell’AIDS, il Sudbury HIV-AIDS Support group inaugurò la “House of Peace” (“Casa della Pace”), un centro di accoglienza per offrire ospitalità e alloggio a persone provenienti dal nord Ontario agli ultimi stadi dell’AIDS. Di fatto si presumeva che queste persone andassero a concludere i loro giorni a Toronto, lontano dalle loro famiglie e dall’ambiente sociale. Il primo ospite della “Casa della Pace” era Michel, un giovane di 32 anni. Secondo il suo medico, gli restavano solo pochi mesi da vivere dato che la malattia aveva causato danni gravissimi ai polmoni. Allora molti pensavano che Michel non avesse più una qualità di vita e che fosse preferibile non insistere dal punto di vista terapeutico e lasciarlo morire. Ma Michel era combattivo e amava vivere. Nonostante le sue condizioni fisiche molto critiche, la ridotta aspettativa di vita e nonostante i suoi ripetuti ricoveri in ospedale, grazie al miglioramento dei trattamenti medici e all’atmosfera “familiare” di accoglienza, compassione e rispetto della “Casa della Pace”, Michel si è attaccato alla vita ed è deceduto solo quattro anni più tardi, lasciando la testimonianza di una lotta eroica, una vita di gentilezza e tenerezza e di uno straordinario gusto della vita. Questa storia mostra come, rispetto all’AIDS, il concetto di qualità di vita sia complesso e delicato. In questo campo, bisogna essere attenti alle persone concrete, alle loro situazioni particolari, alle loro condizioni di vita, alle loro speranze e progetti e anche al loro ambiente sociale e spirituale. In questo intervento, cercherò in prima istanza di chiarire il concetto di qualità di vita, in seguito parlerò delle condizioni di vita delle persone affette da AIDS e, infine, metterò a fuoco i principali problemi etici legati al concetto di qualità di vita nei malati di AIDS. QUALITÀ DI VITA: UN TENTATIVO DI CHIARIMENTO Cosa si intende per qualità di vita? Esistono criteri oggettivi per determinare se una vita sia degna o meno di essere vissuta? È possibile stabilire il valore di una vita sulla base di alcuni elementi considerati essenziali? Chi può stabilire tali criteri? Non è piuttosto una questione personale, soggettiva che non dipende dal giudizio di persone estranee alla situazione della persona in questione? Può quindi essere lasciato alle persone sane la facoltà di valutare la qualità di vita di persone affette da AIDS? Anche se la qualità di vita è relativa al modo di concepire la vita proprio degli uomini e delle donne che vivono questa vita, si può dire che il concetto sia solo soggettivo? Non c’è qui una serie completa di condizioni che sono fondamentali e che abbiamo il dovere di realizzare, favorire e preservare per ogni essere umano? Non è dovere di ogni cittadino e, ancora di più, di ogni seguace di Cristo prendere parte alla creazione di un ambiente di vita favorevole allo sviluppo di ogni persona umana? L’espressione “qualità di vita” ha fatto la sua comparsa, nella terminologia medica e paramedica, negli anni ’50 in seguito agli sviluppi economici e sociali seguiti alla Seconda Guerra Mondiale che portarono un notevole benessere nelle società occidentali. A quel tempo la qualità di vita apparve come un nuovo criterio per definire la salute che non si considerava più mera assenza di malattia, ma che inglobava il benessere come requisito essenziale.[1] Tuttavia con l’uso di tecnologie sempre più perfezionate in ambito medico e scientifico, sorsero nuove questioni come la validità dell’uso di questi mezzi e risorse tecnologiche per insistere nel salvare una vita. Per trovare una soluzione al dilemma, ricercatori e medici hanno cercato di stabilire alcuni criteri per misurare la qualità di vita dei pazienti,
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ma tutti si sono limitati troppo spesso a valutare solo il benessere fisico e sociale. Ciò fino al punto di considerare la possibilità che una vita potesse essere non più degna di essere vissuta; i primi ad essere assoggettati a questi criteri furono i bambini con gravi handicap e gli anziani, persone avanti con l’età che avevano poca o nessuna coscienza e scarsa capacità diinterazione con il mondo circostante. Una delle conseguenze di questi sforzi di misurazione della qualità di vita fu una sempre maggiore accettazione dell’eutanasia come risposta a una vita considerata penosa e inutile. Presso il grande pubblico il concetto di qualità di vita assume varie connotazioni. Naturalmente esso comprende un insieme di valori economici necessari per vivere e che vengono misurati secondo parametri quali la produzione, le condizioni di lavoro e il tempo libero. Ma il concetto di qualità di vita si riferisce sempre di più anche alla qualità dell’ambiente – l’avanzamento dei “verdi” in Europa lo dimostra -, all’idea di felicità, alla possibilità del piacere, alla partecipazione, all’armonia, all’accordo sociale, ecc. Di nuovo, troppo spesso ci si limita ad una visione materialistica, economica che conduce facilmente all’individualismo, all’utilitarismo e all’edonismo e trascura le dimensioni morale e spirituale. Come scrive Giovanni Paolo II, “La cosiddetta «qualità della vita» è interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, dimenticando le dimensioni più profonde — relazionali, spirituali e religiose — dell'esistenza”.[2] Questi tentativi di misurare la qualità di vita, e i diversi significati che il concetto di qualità di vita ha e va assumendo, dimostrano l’ambiguità dell’espressione stessa. Dovrebbe dunque, tale espressione, essere abbandonata col rischio di cadere in una forma estrema di vitalismo che richiede che sia fatta qualsiasi cosa per salvare una vita? Come una delle espressioni della nostra epoca, il concetto rimane valido finché si prendono in considerazione tutte le dimensioni dell’esistenza umana, quella morale, quella spirituale così come quella sociale ed economica. Il concetto è accettabile se si basa soprattutto e per prima cosa sulla vocazione integrale dell’essere umano e sulla dignità della persona. Inoltre deve essere ben chiaro che tale dignità non è legata a qualche caratteristica particolare, come l’autonomia, l’autocoscienza, la capacità di intessere relazioni e comunicare, ecc. ma è innata e non viene meno con la scomparsa di una o di tutte queste caratteristiche vitali. In ogni caso, il concetto di qualità di vita non può trasformarsi in strumento di giudizio e di comparazione delle vite personali, come se alcune vite fossero qualitativamente superiori ad altre. Un tale confronto rischia di dimenticare il valore intrinseco di tutta la vita umana. In questo senso è utopistico voler stabilire dei criteri essenziali di valore di una vita oppure ordinarli gerarchicamente[3] poiché facendo ciò si corre il rischio, in definitiva, di discriminare persone la cui capacità intellettiva è gravemente compromessa o che sono considerate inutili per la società o incapaci di godere la vita. Naturalmente quando si pone l’accento sull’utilità sociale di una vita, o sulla capacità di godimento o sul piacere come criterio morale, quando non si riesce a vedere un senso nella sofferenza o quando la vita è considerata senza senso, allora la decisione di porre fine ad una vita piena di sofferenza che non comporta alcuna gioia o che non partecipa in nessun modo alla società, appare come unica scelta possibile. Per quel che riguarda la vita, il concetto di qualità non può offuscare il suo carattere di sacralità che non sarebbe più sostenibile di fronte e condizioni insopportabili. Una volta separato dal principio del carattere sacro della vita, il concetto di qualità finisce col giustificare il suicidio assistito dei pazienti affetti da AIDS che percepiscono la loro vita come non più degna di essere vissuta e che ritengono di avere il diritto di chiedere la soppressione della loro esistenza. Infine, per evitare qualsiasi ambiguità, la misurazione della qualità dovrebbe essere espressa da una parte da criteri oggettivi quantificabili e misurabili che possono essere di aiuto in situazioni complesse e dolorose e, dall’altra parte, dal fattore soggettivo, maggiormente legato al senso della vita e alla percezione che le persone hanno di se stesse e delle loro condizioni di vita. In questo contesto l’opinione che le persone malate hanno di se stesse è rivelante. Infatti, la maggior parte delle volte esse ritengono di avere una qualità di vita più alta di quella loro assegnata sulla base di strumenti di misurazione oggettiva.
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LE CONDIZIONI DI VITA DELLE PERSONE CON AIDS Prima di prendere in considerazione tale questione, è bene ricordare che l’HIV è sempre trasmesso attraverso rapporti sessuali non protetti, l’uso promiscuo di siringhe o materiale per l’iniezione di droghe, la gravidanza, il parto e l’allattamento (dalla madre affetta da HIV al bambino), l’uso di materiale non sterile per forare la pelle (piercing), fare tatuaggi o l’agopuntura, l’esposizione professionale in strutture sanitarie e, sebbene oggi succeda raramente, la trasfusione di sangue infetto. L’AIDS continua ad essere una patologia letale perché nonostante i progressi fatti nelle cure (che hanno reso possibile – soprattutto nei paesi occidentali – di prolungare la vita delle persone con l’HIV/AIDS e di migliorare la loro qualità di vita[4]) oggi alcuni trattamenti risultano inefficaci poiché nuovi ceppi di virus sono diventati resistenti ai farmaci e la triplice terapia è disponibile ancora per un numero troppo limitato di persone in tutto il mondo. Infatti mentre non si conosce con certezza il numero di persone infette dall’HIV che svilupperà in un secondo momento l’AIDS, e nonostante il miglioramento dei trattamenti e delle cure, la maggior parte di queste persone – soprattutto di quelle nei paesi in via di sviluppo – morirà a causa della malattia. La prevenzione rimane l’unico argomento valido fino alla scoperta di una cura o di un vaccino. La storia dell’AIDS è una storia di lotte, battaglie, sofferenza, colpevoli responsabilità e di confronto con il tempo e con la morte.[5] Questo spiega perché le condizioni di vita delle persone con AIDS sono particolari e dolorose. Dal punto di vista biologico, il virus attacca il sistema immunitario dell’organismo che deve combattere continuamente il virus. Dal punto di vista psicologico, l’individuo infetto deve lottare con l’angoscia dell’imminenza della morte, contrastare l’immagine negativa proiettata dalla società e che minaccia la sua salute mentale – anche se tale situazione è migliorata dopo la scoperta del virus. Egli deve lavorare incessantemente per la riorganizzazione psichica del suo essere, sviluppare meccanismi di autodifesa, ecc. Egli deve anche superare molte difficoltà causate dall’HIV: la paura del rifiuto e del giudizio, la paura di soffrire, la vergogna di essere affetto da un virus “infamante” e il senso di colpa per la possibilità di averlo trasmesso, la reazione di isolamento, la difficoltà nel comunicare la propria condizione nel proprio ambiente, l’assenza del contatto sessuale o l’eccessivo investimento in attività sessuali, il superlavoro e la spossatezza, ecc.[6] Egli deve anche lottare perché sia rispettata la sua dignità di persona, per difendere i suoi diritti (all’assistenza sanitaria, a un’accoglienza decente, al lavoro, all’assicurazione, ecc.) per reclamare il suo posto nella società contro tutte queste forme di rifiuto, esclusione o ostracismo. A volte egli deve combattere contro forme di intrusione corporea (per scopi di ricerca o trattamenti sperimentali) e per la sua vita privata (violazione della riservatezza, esposizione dei suoi sentimenti, ecc.). Una persona con AIDS sperimenta anche difficoltà particolari nel cercare le energie necessarie per pensare e comportarsi in maniera positiva quando la malattia entra nella fase acuta. Egli dovrà affrontare gli effetti collaterali che sono molto difficili da sopportare, specialmente sul lungo periodo. Questi effetti sono talmente gravosi che alcuni pazienti hanno cercato di interrompere il trattamento. L’AIDS comporta sofferenza. Esso getta gli uomini e le donne infette in uno stato di afflizione morale e psichica. L’AIDS non solo colpisce il corpo rendendolo vulnerabile, ma mina gli stessi fondamenti dell’esistenza. Le persone affette da questa patologia devono affrontare molte sfide. Questa gente deve convivere con il dolore, la stanchezza e la riduzione della propria attività per un considerevole periodo della loro vita. Devono anche adattarsi a nuovi trattamenti e a ripetuti ricoveri ospedalieri. Devono affrontare nuove emozioni evocate dalla malattia e la crescente angoscia e incertezza del futuro. Le persone affette non solo devono affrontare l’incertezza della loro salute futura, ma spesso devono anche sopportare il dolore di gravi perdite. I pazienti con AIDS possono gradualmente perdere il controllo delle attività quotidiane della loro vita e soffrire per la perdita di controllo sugli eventi. Essi devono anche affrontare le difficoltà derivanti dall’essere inabili al lavoro e dai problemi finanziari. Poiché perdono spesso la loro indipendenza, trovano difficoltà a dipendere da altri per l’assistenza pratica e il
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supporto emotivo. Devono anche avere a che fare con l’esperienza dolorosa della rinuncia ai progetti su se stessi, come avere una famiglia … Le persone affette da AIDS possono sentirsi minacciate nella loro immagine e autostima e provare l’ulteriore sofferenza del rifiuto e della discriminazione. Infine, per molti malati, le sofferenze legate all’AIDS si collocano in un contesto di sensi di colpa. Le persone affette, quando vengono a conoscenza della loro malattia, cercano la causa o l’origine della loro infezione. Magari scoprono la responsabilità di un brutto ambiente. Ma molto presto sviluppano uno schiacciante senso di colpa quando si rendono conto del loro contributo alla diffusione del virus, verso il partner al quale sono legati o un bambino non ancora nato o ancora con la donazione del sangue. Tale senso di colpa è fortemente percepito dalle donne sieropositive che molto spesso sono state infettate senza saperlo e possono quindi aver trasmesso il virus ai bambini che portano in grembo o che allattano al seno. Nei paesi in via di sviluppo la situazione è ancor più seria e tragica. Alla fine del ventesimo secolo, l’HIV aveva già colpito più di 50 milioni di persone e causato la morte di 21.8 milioni. Secondo le stime UNAIDS,[7] il numero di adulti e bambini sieropositivi nel mondo ha raggiunto, alla fine del 2003, la cifra approssimativa di 38 milioni (35-42 milioni), e l’AIDS è stata la causa di 2.9 milioni di decessi (2.6-3.3 milioni) nel 2003. Più di 34 milioni di persone nei paesi in via di sviluppo sono sieropositive e corrispondono al 90% dei sieropositivi di tutto il mondo. Solo nell’Africa sub-sahariana vive il 70% di tutti i sieropositivi. Si è calcolato che nel 2003, in questa stessa regione,ci siano state 3 milioni di nuove infezioni e 2.2 milioni di decessi dovuti a questa malattia, cioè il 75% del totale mondiale. Mancanza di informazione, sistema sanitario inadeguato e una dieta povera – il tutto collegato ad una estrema ed endemica povertà – rendono i più poveri dei paesi più svantaggiati, le persone più vulnerabili all’HIV/AIDS. Per questo motivo HIV e AIDS hanno un impatto ancora maggiore nei paesi poveri e ciò si manifesta, tra le altre cose, in un dannoso rallentamento dello sviluppo. I danni provocati dall’HIV e dall’AIDS non si limitano agli individui; ci sono ripercussioni sulla famiglia, la comunità, la regione, il paese e anche sulla comunità internazionale. Nei paesi in via di sviluppo, HIV e AIDS hanno reso ancor più gravosa la povertà e creato nuove privazioni e bisogni. L’impatto sullo sviluppo è enorme ed è riscontrabile a tutti i livelli: l’economia, il mercato del lavoro, la demografia, la sicurezza alimentare, l’assistenza sanitaria e la vita sociale.[8] In questi paesi, dove l’aspettativa di vita è più bassa del periodo precedente all’emergenza della pandemia, questa malattia è diventata, secondo quanto espresso dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan,“l’ostacolo più grande dei nostri tempi allo sviluppo”. In considerazione dell’allarmante diffusione dell’epidemia, la maggior parte dei paesi africani, tra gli altri, deve ora sopportare un peso economico sproporzionato rispetto alla capacità di reazione. La morte di molti individui adulti in età lavorativa, l’infezione delle donne, specialmente delle madri, e il drammatico aumento del numero degli orfani, solleva, quindi, problemi enormi e di difficile soluzione per il futuro per i governi di questi paesi africani. Come si può leggere in un articolo della ACDI (Agence Canadienne de Développement International), “Quando genitori, insegnanti, agricoltori, lavoratori edili, imprenditori, infermieri e amministratori continuano a morire a migliaia ogni anno, le famiglie, le comunità e i paesi smettono di lavorare. I bambini, costretti a prendersi cura delle loro famiglie lavorando o mendicando per guadagnarsi da vivere, non hanno il tempo di andare a scuola. I campi non sono più coltivati poiché la gente è troppo malata per lavorarvi. Le attività e i servizi di base sono sconvolti, le economie soffrono e le comunità vanno in rovina. A causa dell’HIV/AIDS la gente non è più in grado di uscire dalla povertà, di migliorare le proprie semplici condizioni di vita e di contrastare efficacemente la malattia”.[9] A causa dei gravi problemi economici, i paesi in via di sviluppo non sono in grado di stanziare le risorse necessarie per l’assistenza delle persone con HIV/AIDS. I servizi sanitari in questi paesi sono obsoleti in rapporto ai bisogni e tragicamente mancano di impianti adeguati, equipaggiamenti di protezione e altro materiale che rende possibile l’assistenza ai malati di HIV/AIDS. Attualmente, nell’Africa sub-sahariana, le organizzazioni locali non governative e le reti tradizionali della famiglia
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allargata, gli amici e vicini cercano di riempire il grave vuoto dell’assistenza. Ma tale rete non è più sufficiente per assolvere a questo compito essendoci un limite a ciò che questa gente può fare nel prendersi cura delle persone che hanno a carico e nell’affrontare i costi della loro malattia e dei decessi. ALCUNI DEI MAGGIORI PROBLEMI RELATIVI ALLA QUALITÀ DI VITA DELLE PERSONE AFFETTE DA AIDS I problemi etici più importanti correlati al concetto di qualità di vita nelle persone con AIDS sono diversi a seconda che si considerino i paesi occidentali o quelli in via di sviluppo. Nei paesi occidentali la qualità di vita dei malati di AIDS – in relazione alle condizioni socioeconomiche e all’assistenza sanitaria – è palesemente migliorata dopo la messa a punto della triplice terapia che, grazie alla sua efficacia, ha reso possibile la diminuzione della mortalità dovuta all’AIDS. Sicuramente i trattamenti antiretrovirali, insieme a efficaci misure di prevenzione e a campagne di informazione attentamente studiate, hanno prolungato la vita di questi pazienti e hanno permesso loro di recuperare – nonostante i gravi effetti collaterali – una certa qualità di vita. Tuttavia sono emersi nuovi problemi. La copertura mediatica che ha mostrato i vantaggi attribuiti ai trattamenti antiretrovirali ha portato a credere erroneamente che essi fossero in grado di curare l’AIDS e che si potessero abbandonare le misure di prevenzione. In alcune città degli Stati Uniti si è registrata une recrudescenza della diffusione dell’infezione. Molti preferiscono avere una migliore qualità di vita senza atteggiamenti di prevenzione – questo è quello che dicono – piuttosto che una più lunga aspettativa di vita. Nei paesi occidentali è necessario continuare la prevenzione e le campagne di informazione indirizzate agli adolescenti e ai gruppi vulnerabili. Ciò è urgente da un punto di vista integrale o olistico della persona umana che dovrebbe essere adottato dalle autorità e dai gruppi responsabili della prevenzione, informazione e assistenza. Ciò che è necessario è lavorare sul significato della vita e offrire ai malati di AIDS ragioni per vivere e non solo buone condizioni di vita socioeconomiche, per quanto importanti. Come sottolinea il Dr. Rafael Mazin, “La nostra valutazione della progressione dell’epidemia mostra anche che bisognerebbe dare maggior peso ai bisogni relativi all’assistenza delle persone sieropositive. Questi bisogni non si limitano all’assistenza medica primaria, ma comprendono il trattamento della persona nella sua totalità e la costituzione di una vasta gamma di servizi tra cui l’assistenza psicologica, il supporto emotivo e sociale e le raccomandazioni sulla dieta. Rispondendo a questi bisogni non si migliora solo la condizione fisica dei pazienti, ma anche il loro stato emozionale e la qualità della loro esistenza che permette loro di vivere con dignità e rispetto di sé”.[10] È un vero peccato che il Dr. Mazin non abbia menzionato i bisogni di natura spirituale che, se non soddisfatti, lasciano un vuoto e una carenza di significato in molti malati di AIDS. Non sorprende il fatto che, quando la terapia antiretrovirale non ha più efficacia e l’AIDS comincia a danneggiare l’organismo, la gente malata nei paesi ricchi promuova il diritto all’eutanasia per mettere fine ad una vita considerata ormai inutile e senza valore.[11] Il diritto a morire con dignità, ossia senza sofferenze, con consapevolezza e quando si vuole, è sempre più invocato non solo dai malati di AIDS, ma anche da tutti quelli che, uomini e donne, non se la sentono di affrontare la devastazione degli ultimi stadi di patologie come, ad esempio, l’Alzheimer. Questo crescente consenso verso il suicidio assistito in Canada e in altri paesi occidentali per quei malati allo stadio terminale, la cui speranza di recupero è praticamente nulla, dimostra la necessità di agire non solo per migliorare le condizioni di vita del malato, ma anche per proporre ragioni per vivere e per soffrire. Nei paesi in via di sviluppo, il problema etico maggiore legato alla qualità di vita è il miglioramento delle condizioni socioeconomiche e l’accesso alle cure. Dal 13 al 16 luglio 2003 Parigi ha ospitato la Seconda Conferenza dellaInternational AIDS Society on HIV, pathogenesis and treatments. In occasione di una sessione plenaria straordinaria, Nelson Mandela, il primo presidente del Sudafrica, ha fatto un appello straordinariamente forte ai partecipanti alla conferenza: “Non siamo riusciti a trasformare i nostri progressi scientifici in azione lì dove ce n’è più bisogno, nelle comunità dei paesi in
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via di sviluppo, le regioni più povere del globo. Questo costituisce un’ingiustizia mondiale che non può essere tollerata. È un’onta per i diritti umani su scala mondiale”. Nel contesto di questa Conferenza, la domenica ha avuto luogo un forum che ha permesso ai partecipanti di scambiarsi punti di vista sulle loro aspettative sulla ricerca sia a livello medico sia in relazione all’accesso alle cure. Il forum ha messo in luce ancora una volta la eclatante disuguaglianza nell’accesso ai trattamenti e alle cure tra il Nord e il Sud, che Maria-José Mbuzenkamwe non ha mancato di denunciare. Quest’ultima è un medico, co-presidente del “comitato delle relazioni con la comunità” della conferenza e attivista dellaNational Association per il sostegno dei malati di AIDS del Burundi.[12] Ci sono sicuramente alcuni progetti che stanno dando i loro frutti, ma sono troppo limitati e ridotti per le dimensioni del fenomeno. Pensiamo al coinvolgimento di persone con l’AIDS negli organismi non governativi che ha, per loro, effetti benefici come la prevenzione dell’isolamento, una maggiore conoscenza dell’HIV/AIDS (compresa la terapia e un più facile accesso alla cura), una maggiore accettazione della sieropositività e una maggiore autostima, un lavoro o benefici materiali essenziali per il loro benessere e per quello delle loro famiglie, un cambiamento nel comportamento sessuale, una maggiore accettazione familiare: in breve, un generale miglioramento della loro salute fisica e psicologia.[13] Alcune persone malate nei paesi in via di sviluppo hanno ottenuto il trattamento antiretrovirale che ha permesso loro di recuperare una certa qualità di vita e di prolungare la loro aspettativa di vita. Ma questo fatto è più simbolico che significativo in quanto si verifica solo per una piccola minoranza di persone affette da HIV/AIDS nei paesi in via di sviluppo. Ciò che è necessario è l’accesso alla cura per tutti, in linea con l’argomento della XV Conferenza Internazionale sull’AIDS di Bangkok (11-16 luglio 2004). L’obbiettivo di quella Conferenza era di favorire l’accesso alle scoperte scientifiche essenziali riguardanti l’HIV, la prevenzione, il trattamento e le diverse risorse per i popoli di tutto il mondo. Alcune iniziative sono già state portate avanti in questo senso, in particolare il Fondo Mondiale per la lotta all’AIDS, Tubercolosi e Malaria, l’Emergency Aid Plan for AIDS Victims (PEPFAR), proposto dal presidente Bush per offrire terapie e cure ai quindici paesi più colpiti dalla malaria; e il “Tre milioni da adesso al 2005”, un’iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, un programma il cui obbiettivo è quello di offrire la terapia antiretrovirale a tre milioni di persone malate entro la fine del 2005. Tutto ciò è davvero encomiabile, ma sono necessari più fondi e assistenza tecnica per rafforzare le strutture sanitarie nei paesi in via di sviluppo. Da parte dei paesi ricchi ciò significa dare supporto alle strategie nazionali con l’obbiettivo di formare operatori sanitari, organizzare sistemi di distribuzione e approvvigionamento di medicinali e controllare e valutare i programmi legati all’HIV/AIDS. Questo significa un sostegno per queste iniziative, come la legge canadese C-9, che permette la produzione di versioni a costi ridotti di farmaci coperti da brevetto destinati ai paesi in via di sviluppo. Finché l’accesso alle terapie di combinazione e all’assistenza non sarà generalizzato nei paesi più colpiti dalla pandemia dell’AIDS e finché sarà limitato a gruppi ristretti di malati, la distanza tra Nord e Sud non cesserà di aumentare e mostrerà in maniera ancora più acuta la situazione degli emarginati a causa della pandemia. È urgente dare una risposta a questa esigenza di giustizia e solidarietà se vogliamo fermare la diffusione dell’HIV/AIDS e invertire la tendenza. Questo non può essere fatto senza perseguire altri obbiettivi di sviluppo come la lotta contro la povertà e la fame, il miglioramento dell’educazione e l’uguaglianza tra i sessi. Solo attraverso azioni concordate e un impegno reale da parte dei paesi ricchi, i paesi in via di sviluppo saranno in grado di fronteggiare la sfida dell’AIDS. La questione non è tanto il miglioramento della qualità di vita, ma piuttosto la sopravvivenza di milioni di nostri fratelli e sorelle. CONCLUSIONE Questa breve riflessione sulla qualità di vita in malati con HIV/AIDS ci mostra l’importanza di comprendere adeguatamente il significato di tale espressione. È molto importante mantenere un equilibrio tra i criteri oggettivi e la dimensione soggettiva della percezione della vita così come tra le
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condizioni socioeconomiche di vita e i valori morali e spirituali. Per raggiungere questo equilibrio è necessario un punto di vista integrale sulla persona umana e sul suo destino, rispetto per la sua dignità sostanziale e un impegno concreto per il benessere di tutti i membri della grande famiglia umana. Anche se sussistono alcune somiglianze , le condizioni di vita dei malati di AIDS non sono le stesse nel Nord e nel Sud. La differenza si manifesta anche nei problemi più importanti legati alla qualità di vita: nei paesi ricchi il problema più grande sembra essere relativo alla percezione della vita e al suo significato, mentre nei paesi poveri esso si esprime maggiormente in termini di condizioni socio-economiche, essenziali per una vita dignitosa. Se la Chiesa vuole portare avanti azioni efficaci per migliorare la qualità di vita delle persone con HIV/AIDS deve conoscere questi problemi e trovarvi un rimedio che si possa adattare alle circostanze temporali e locali e rispondere, con discernimento e coraggio, ai diversi e specifici bisogni delle persone, tutto nell’ambito di una reale preoccupazione di incarnare il Vangelo della carità, della giustizia e della compassione di Cristo.
[1] Per un breve approfondimento del concetto di qualità di vita, si veda: Paccini, Renzo, Qualità della vita in Pontificio Consiglio per la Famiglia, LEXICON Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2003, pp. 763-768. [2] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae sul valore dell’inviolabilità della vita umana, N. 23. [3] La ricerca o l’elaborazione di strumenti per misurare la qualità della vita non è, tuttavia, senza utilità. Nell’area sanitaria può aiutare a definire meglio la vita e a capire le sue caratteristiche. Su questo argomento può essere utile leggere il volume, Mesure de la Santé Perceptuelle et de la Qualité de vie: méthodes et applications, a cura di Alain Leplège and Joel Coste, De Boeck, 2002 edition, 336pp. [4] La ricerca “EuroAids”, che ha studiato più di 9800 pazienti seguiti in 70 centri in Europa, Argentina e Israele, ha mostrato che dopo la prescrizione della triplice terapia e la comparsa di nuove molecole anti-AIDS (la nuova generazione di antiretrovirali), l’incidenza dell’AIDS è diminuita del 50% e la mortalità per AIDS è crollata in maniera eclatante (naturalmente solo nei paesi in cui queste terapie sono disponibili), The Lancet, 4 luglio 2003. [5] Per questo argomento, ho tratto spunto dal Capitolo 3 del mio libro Le Sida Enjeu éthiques et spirituels (Mediaspaul, Montreal/Paris, 1995), Le sida et les situations-limite de l’existence, pp. 115-163. [6] Su questo argomento si veda l’articolo di Johanne de Montigny: “Aspects psychosociaux” in Olivier Clément e Thomas Réjean, Le sida: un nouveau défi medical, Association des médecins de langue française du Canada, Montreal, 1991, pp. 256-270. [7] Tavola riassuntiva “the epidemic of HIV infection and AIDS around the world, end of 2003.XV International Conference on AIDS in Bangkok 2004,www.unaids.org/bangkok2004/GAR2004_pdf_fr/GAR2004_Graphics.fr.pdf [8] La “Canadian Agency for International Development” ha pubblicato un articolo molto pertinente sull’impatto dell’HIV/AIDS sullo sviluppo che dimostra che l’epidemia è molto più che un semplice problema sanitario (Les priorités de développement social de l’ACDI, September 4, 2000, http://www.acdicida.gc.ca/sida.htm). [9] Les priorités de développement social de l’ACDI, July 14, 2004, http://www.acdicida.gc.ca/sida.htm [10] Quando scrisse queste righe, il Dr. Mazin era consigliere regionale sulla prevenzione e il trattamento dell’HIV/AIDS dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Ufficio Regionale per le
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Americhe, Pan –American Health Orginzation. Mazink, Rafael, La prevention et le traitement du VIH/sida dans les pays en voie de développement, Dossiers mondiaux, Dec. 2001, Sommaire/Revues IIP, http://usinfo.state.gov/journals/itgic/1201/ijgf/gj-4f.htm [11] Nei primi anni ’90, David Lewis, un consigliere sull’AIDS di Vancouver, Canada, egli stesso affetto da AIDS, sollevò uno scandalo e una discussione di natura etica e legale quando ammise pubblicamente di aver aiutato più di 8 suoi amici malati di AIDS ad assumere una dose letale di farmaci. Anche se il suicidio assistito è considerato un crimine in Canada, Lewis non fu mai perseguito penalmente. [12] In un discorso militante, dopo aver ricordato le promesse fatte dai paesi ricchi e dai loro governanti e dopo aver menzionato – come barlume di speranza – le strategie e le azioni intraprese localmente per la responsabilità globale nel problema dell’AIDS, Marie-Josée Mbuzenkawme denunciò l’ipocrisia occidentale: “Ci sono due realtà: una fatta di parole, che finisce col non avere più senso, alimentata da annunci di impegni mai concretizzati, e un’altra realtà, quella che viviamo noi, dove il numero di decessi e nuove infezioni continua ogni giorno ad aumentare”. Il testo completo del discorso è reperibile sul controverso sito Internet di “Act Up Paris” – www.actupparis.org/article1205/html. [13] Su questo argomento si veda l’articolo, Vers une implication plus significative des personnes vivant avec VIH/SIDApubblicato dalla rivista canadese, VIH/SIDA et DROIT (volume 7, Nos. 2-3, December 2003) e basato su un lavoro di Christophe Corne presentato alla Conferenza di Barcellona nel 2002.
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LUIGI POSTIGLIONE QUALITÀ DELLA VITA ED AMBIENTE AMBIENTE – EFFETTO SERRA L’ambiente, com’è noto, rappresenta la parte fisica dell’ecosistema “Terra”, ed è costituito dalla sfera terrestre (terraferma ed oceani) e dalla fascia gassosa che l’avvolge (atmosfera). Continui ed incessanti sono gli scambi e le interrelazioni tra terra ferma ed atmosfera e tra questa e gli oceani. In tali scambi e relazioni intervengono anche i bionti (piante, animali e uomo), i quali, a loro volta, sono altamente intercorrelati tra loro e con i fenomeni che si svolgono nella parte fisica. Tra i diversi componenti si stabilisce sempre un equilibrio, e, quando per cause diverse, uno di tali elementi subisce una variazione, l’intero ecosistema, grazie al suo potere di autoregolazione, si attesta su nuovi equilibri. Oggi, però, la componente “uomo”, prima con l’impiego dei prodotti fossili per ricavarne energia e poi, gradualmente con lo sviluppo delle nuove tecnologie, soprattutto nel settore chimico, riesce a turbare in maniera consistente i corretti rapporti tra i vari elementi, immettendo direttamente o indirettamente nel sistema prodotti inquinanti ossia sostanze che possono avere effetti nocivi sulla salute umana o sull’ambiente nel suo complesso. L’esempio più noto del turbamento indotto dall’uomo nel sistema è il continuo aumento nell’atmosfera dell’anidride carbonica e di alcuni altri gas, dovuto alla combustione di prodotti fossili nei motori delle auto, negli impianti industriali e nel riscaldamento domestico.[1] Tale aumento determina l’”effetto serra”, per il quale la temperatura del pianeta va gradualmente aumentando, secondo i vari modelli, da 1,5 a4,5 °C (Kerr, 1984) fino a 5,5 (Adams et al., 1990),da 1,4. a 5,8 tra il 1990 e i1 2100 secondo l’IPCC (2002). Come conseguenza, nel tempo, si avrà lo scioglimento di parte dei ghiacciai, l’aumento del livello del mare (stimato in 5-6 metri, Abelson, 1984) e quindi la scomparsa di pianure costiere e di parti basse delle città. L’effetto serra determina, essenzialmente, un cambiamento climatico che comporterà anche una considerevole variazione del regime delle piogge, con riflessi sulle colture e quindi sulla vita delle popolazioni residenti. Per ridurre l’anidride carbonica nell’aria, bisognerebbe allora limitare l’impiego dei prodotti fossili per ottenere energia. Alla riduzione dell’anidride carbonica, invero, può contribuire in maniera consistente la vegetazione (agricola, forestale, ornamentale) perché le piante assorbono anidride carbonica nel processo di fotosintesi in misura varia, secondo la specie, l’età, e lo stato di sviluppo, e restituiscono all’atmosfera ossigeno purissimo nella misura di un terzo dell’anidride assorbita. In larga media da un ettaro di arbusti ed alberi ornamentali vengono assorbiti 114 kg di anidride carbonica il giorno. Occorrerebbe pertanto ricoprire tutti i terreni disponibili d'alberi, arbusti, pascoli e colture varie, ossia creare una vera e propria “cultura del verde”. Si potrà, così, anche favorire la produzione di combustibili dalle biomasse vegetali. Con l’impiego di questi ultimi come fonte di energia, vi è il grande vantaggio di immettere nell’atmosfera solo una parte dell’anidride carbonica assorbita dalle piante da cui derivano, e una quota minima degli inquinanti che, invece, si sviluppano nella combustione dei prodotti fossili, INQUINAMENTO ARIA ATMOSFERICA Allo stato, l’aspetto più grave della combustione dei prodotti fossili è dato, però, dalla continua immissione nell’aria, di sostanze chimiche altamente molto nocive per la salute dell’uomo e degli altri bionti, alle quali si aggiungono i prodotti gassosi e i fumi di alcune industrie. Notevole è pure l’apporto
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di sostanze nocive derivanti dalla gestione dei rifiuti urbani: discariche, impianti di termovalorizzazione, inceneritori[2]. Per l’inquinamento dell’aria atmosferica i primi composti sotto accusa sono i vari ossidi di azoto, l’anidride solforosa, l’idrogeno solforato, l’ossido di carbonio, l’ammoniaca, il piombo, i composti organici volatili (COV), e la serie è molto lunga; a loro bisogna aggiungere poi la maggior parte degli antiparassitari e dei diserbanti usati irrazionalmente in agricoltura. Tutti questi sono detti inquinanti “primari”; vi sono poi alcuni inquinanti “secondari”, come l’ozono (nella troposfera), e il nitrato di perossiacetile (PAN) originatati, per reazioni fotochimiche da O2, NOX, COV, secondari per la loro formazione, ma non certo per i danni che producono (Gasparini et al., 2002). Questi composti in linea generale inquinano l’aria causando determinate patologie, che riguardano principalmente la sfera polmonare. Essi, con le piogge, inquinano poi il terreno e le colture presenti con effetti sfavorevoli sulla salubrità dei prodotti alimentari. Infatti, quando cadono su ortaggi e frutta o penetrano in essi attraverso il terreno, sono causa di patologie gastro-intestinali[3]. Inoltre, in alcune circostanze. determinano le “piogge acide”, estremamente pericolose per la vegetazione. Infine, molto spesso, attraverso il terreno, giungono sulla falda freatica, rendendo le acque non potabili[4]. Nell’aria, inoltre, possono essere sospese particelle di diametro compreso tra 0,005 e 50-150 µm che costituiscono il “particolato”[5]; sono composte da diverse sostanze: prevalentemente polveri di metalli vari e particelle carboniose non completamente combuste; possono esservi presenti anche cemento, calcinacci vari per il decadimento di alcuni edifici, talora anche di monumenti. Queste ed altre forme di inquinamento sono frequenti soprattutto nelle città, nelle quali, per la concentrazione del traffico veicolare, per gli impianti di riscaldamento degli edifici, e per la presenza di alcune industrie, le emissioni di anidride carbonica, di prodotti nitrici, di composti solforati e di COV sono molto elevate. Va detto, inoltre, che spesso in queste città per l’eccessiva agglomerazione di case, per la presenza di edifici molto alti e per la ristrettezza delle strade (cañòn di cemento), inquinanti e particolato ristagnano e producono danni maggiori alla salute. Vanno ricordati, infine, i danni prodotti dall’amianto, l’uso del quale, però, adesso è vietato. INQUINAMENTI IN AMBIENTI CHIUSI Un inquinamento del tutto particolare è quello che si verifica in alcuni ambienti chiusi, dai laboratori chimici agli opifici delle varie industrie. In questi ultimi si va dall’eccesso di particolato e di sostanze tossiche, secondo la tipologia dell’industria, all’eccesso di umidità nei locali per la lavorazione del tabacco o di alcune derrate alimentari, con patologie specifiche per ogni tipo d’inquinamento. Così nelle serre nelle quali, per sostenere la produzione di due o tre colture l’anno, s’impiegano dosi elevatissime di concimi e di fitofarmaci, questi prodotti inquinano sia l’atmosfera protetta sia quella esterna, e spesso si ritrovano negli ortaggi e nella frutta che vi si coltivano.[6] Naturalmente, poi, pericolose sono tutte le attrezzature che usano radiazioni varie, attrezzature concentrate nei laboratori degli ospedali, ma presenti anche negli studimedici disseminati in tutta la città. Si ricordano pure i danni (cancro al polmone, in prevalenza) derivanti dall’esposizione al Radon[7] al quale sono soggetti coloro che lavorano nei tunnel, metropolitane, sottovie, catacombe, grotte, in stabilimenti termali e miniere, nonché il personale navigante sugli aerei. Ed infine non va trascurato l’inquinamento da onde elettromagnetiche, onde con le quali, tra antenne radio- e tele-trasmittenti da una parte e telefonini dall’altra, ormai conviviamo e che da molti sono ritenute causa di gravi patologie. Negli opifici bisogna tener conto anche dell’inquinamento acustico, che raggiunge il massimo in alcune industriemetal-meccaniche, con valori che determinano alterazioni spesso gravi all’apparato uditivo. L’inquinamento acustico, invero, è frequente ora anche nelle città a causa del grande traffico e dell’uso, spesso irrazionale, di clacson e segnalatori vari, nonché per gli eccessivi rumori dei motori di alcune motociclette.
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AMBIENTI CHIUSI PARTICOLARI Un discorso a parte meritano le discoteche e i locali similari frequentati dal cosiddetto “popolo della notte”. In tali locali generalmente l’aria è viziata dalla mescolanza di fumo, d'alcool e spesso di droghe, sia naturali che di sintesi chimica. All’aria viziata si devono aggiungere poi le musiche che superano sempre il livello comune di decibel e poi le luci psichedeliche. Dalla combinazione di tutti questi fattori sfavorevoli si determina un ambiente nel quale il semplice stordimento rappresenta il danno minimo per coloro che lo frequentano. Se poi si aggiunge che queste persone di norma vi entrano a notte già inoltrata per uscirne all’alba, ci si rende conto dei frequenti incidenti automobilistici spesso mortali. Ma, anche senza arrivare ai disastri estremi, vi è da dire che questo popolo della notte dice di aver cambiato i propri bioritmi, tuttavia il vivere di notte, senzaavere i benefici della radiazione solare, avrà, a lungo andare, conseguenze negative sulla salute. INQUINAMENTO DEL SUOLO Nel suolo, oltre all’inquinamento e ai danni per la salute provocati dal deposito di sostanze tossiche vaganti nell’atmosfera o portate dalle acque, di alcune delle quali ho già fatto cenno, si riscontra spesso la presenza dimetalli pesanti, come Ferro, Piombo, Manganese, Zinco, Cromo, Rame, Nichel. Di questi qualcuno deriva dalla decomposizione d'alcune rocce, i più vi sono apportati con i gas di scarico dei motori, oppure con i fumi e le acque di lavaggio di alcune industrie (Adamo et al., 2003). Comunque, quando uno di questi metalli supera il proprio valore limite per la sicurezza, valore minimo per alcuni, viene assorbito dalle piante, e si ritrova negli alimenti e causa patologie varie. QUANTITÀ E QUALITÀ DELL’ACQUA Tra i problemi emergenti nel nostro pianeta un posto principale occupa l’acqua per gli usi domestici, industriali ed agricoli. Questa risorsa, preziosa per la vita e la sua salubrità, comincia a scarseggiare un po’ dappertutto, senza contare che nei Paesi della fascia equatoriale, e particolarmente nei climi aridi, è spesso assente per alcuni periodi. E la ricerca dell’acqua, prevalentemente dal sottosuolo, o il suo trasporto dalle zone che ne sono fornite mediante lunghe canalizzazioni e gallerie, costituiscono la premessa per garantire condizioni di vita anche minimali per diverse popolazioni della terra. Oggi poi, oltre alla carenza, vi è un altro aspetto che preoccupa, ossia quello della qualità. Infatti, a parte le varie forme d’inquinamento alle quali ho fatto cenno, l’acqua presenta oggi un lento ma progressivo aumento del contenuto salino, e ciò sia per l’innalzamento della temperatura che favorisce l’evaporazione e quindi una maggiore concentrazione dei sali (evapora solo il solvente, l’acqua, e non il soluto, il sale), sia perché ormai quasi dovunque, per gli usi civili, industriali e soprattutto agricoli, si utilizza acqua sollevata dal sottosuolo, e, a furia d’emungere, la falda si abbassa, onde si è costretti ad approfondire i pozzi e spesso si raggiungono strati salini. Questi fenomeni costituiscono causa di grande preoccupazione perché l’impiego d’acque saline danneggia le colture agrarie e comporta la salinizzazione dei suoli che è il primo passo verso la desertificazione (Postiglione, 2002). Parlando dell’acqua non posso non ricordare altre due forme d’inquinamento, ossia quella dovuta ad eccessiva presenza di fosfati e nitrati nelle acque che riversandosi nei litorali marini e lacustri danno luogo al fenomeno della eutrofizzazione, onde fanno diventare le acque di questi litorali difficilmente pescose e non utilizzabili per la balneazione. La seconda forma d’inquinamento riguarda la presenza di sostanze molto tossiche (piombo, mercurio) nelle acque delle fogne che giungono al mare, rendendo non commestibili pesci ed altri animali marini, tipici delle zone costiere.
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DIFESA E CONSERVAZIONE DEL SUOLO Anche la risorsa suolo, così importante per la vita dell’uomo e per la produzione dei principali alimenti, corre oggi seri pericoli. Di particolare gravità, infatti, è il fenomeno della desertificazione che interessa in maniera diversa la maggior parte delle terre emerse e, secondo una recente stima, sottrarrebbe alla coltivazione ben 12 milioni d'ettari di terreno l’anno (ONU Desertificazione, SOLIDEA, 2002). Si tratta quindi di un fenomeno che in pianura inizia, come ho detto, con la salinizzazione dell’acqua e del suolo ed è aggravato da altre concause, quali la siccità, le lavorazioni irrazionali, le concimazioni eccessive, la monocoltura, la carenza di materia organica. Il primo passo è costituito dalla degradazione del suolo la quale dà l’avvio all’indebolimento del potenziale fisico, chimico e biologico della terra, e giunge a causare l’impossibilità di produrre e quindi la sopravvivenza delle persone che vi vivono. Nelle regioni del Mediterraneo il fenomeno si verifica anche nelle colline, e nei terreni in pendio in genere, a causa delle piogge che hanno una cattiva distribuzione assumendo spesso carattere temporalesco. Le piogge molto intense, anche se di breve durata, determinano in prima istanza l’erosione, ossia il distacco e l’allontanamento delle particelle più piccole. Queste sono generalmente le più fertili e, per essere le più ricche in sostanza organica, sono quelle che contribuiscono a mantenere sodo il terreno. Con eventi piovosi più intensi si verificano smottamenti e, spesso, le frane che talora sono causa di tanti morti. Il fenomeno, in collina è aggravato dall’abbandono, da parte dei contadini, di queste terre perché sono meno produttive, onde non vi si provvede più alla sistemazione del suolo e all’esecuzione delle colture che pure contribuivano alla difesa e conservazione del terreno. SALUBRITÀ DEGLI ALIMENTI(CENNI) Vi è, infine, il problema della salubrità degli alimenti, che, per i suoi effetti sulla salute e per la sua estensione, merita un’apposita trattazione. Qui, però, non posso non aggiungere ai cenni già fatti sulla presenza di alcuni inquinanti sulle derrate alimentari, la frequente carenza di alcuni elementi, come Ferro, Zinco, Iodio (alcuni, in dosi elevate, sono tossici, come ho detto) o di sostanze di alto valore biologico, come la Vitamina A. Da sottolineare, inoltre, la presenza di formazioni tossiche negli alimenti conservati in barattoli, oggi di largo impiego date le modificate condizioni di vita, formazioni dovute alla presenza di agenti come Chlostridium, micotossine, e con conseguenze più gravi, Salmonelle. A limitare i pericoli e garantire la genuinità dei prodotti, vi è ora la norma di legge sulla tracciabilità dell’intera filiera, dall’acquisto del seme, alla tecnica colturale alla trasformazione industriale e alla commercializzazione, con la possibilità di rintracciabilità. Comunque, sia le carenze che la presenza d'inquinanti e di agenti tossici causano nell’uomo, patologie varie, in alcuni casi, letali. Novità importanti sono gli O.G.M., dei vantaggi e della possibile pericolosità dei quali oggi largamente si discute, e la costituzione di piante che forniscano “alimenti funzionali”, ossia ricchi d'alcuni principi utili per la salute umana (antiossidanti, vitamine, ecc.). LE PROSPETTIVE E LE ALTERNATIVE: TECNICHE D’AIUTO, PREVENZIONE E ADOZIONE Nel tentativo di salvaguardare il futuro del Pianeta dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, dovuti all’effetto serra, e dalle varie forme di inquinamento, sono state organizzate diverse Conferenze mondiali sull’ambiente. In particolare, nella Conferenza di Kyoto (dicembre 1997) fu redatto un protocollo in base al quale gli Stati[8] s'impegnavano a ridurre, entro il 2008-2012, l’anidride carbonica nella misura del 5% del contenuto del 1990 valutato a circa 353 ppm. Però, nella Conferenza
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successiva (Nuova Delhi, ottobre 2002) si dové constatare che in nessuna parte del mondo tale riduzione era cominciata. Il discorso sull’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera, poi, è intimamente legato all’inquinamento dovuto all’immissione nell’aria dei composti nitrici, solforati, dell’ossido di carbonio, dei composti organici volatili, e di tanti altri che si sviluppano nella combustione dei prodotti petroliferi. Naturalmente l’inquinamento è aggravato dall’immissione di prodotti tossici dell’industria, e dall’impiego irrazionale di concimi e antiparassitari in agricoltura. Pertanto, al fine di limitare l’effetto serra e l’inquinamento, bisognerebbe eliminare o almeno ridurre l’impiego di prodotti fossili nei motori delle macchine e delle industrie e per il riscaldamento domestico. Al loro posto si dovrebbero impiegare fonti d'energia “alternative”, quali: -energia pulita: eolica, solare, idrica (micro), da mare, geotermica; -energia rinnovabile: da biomasse, idrogeno; -energia con forti rischi: nucleare. In realtà, le fonti d'energia pulita sono già impiegate in numerosi Paesi, così alcune biomasse: legno utilizzato con le moderne tecnologie, oli vegetali per biodiesel e bioetanolo per i motori a scoppio. I risultati sono favorevoli, però il loro apporto è ancora modesto rispetto al fabbisogno energetico totale. Molto ci si attende, ora, dall’adozione dell’idrogeno, però la sua produzione “economica” in termini energetici è ancora in fase di studio, come il suo impiego nei motori dei veicoli. Per il nucleare, vietato in Italia, il discorso, prima ancora che tecnico. è di natura etica. Tuttavia la questione andrebbe ridiscussa soprattutto a livello internazionale. Inoltre, per limitare i danni da inquinamento dell’aria atmosferica, le industrie che producono sostanze tossiche o che emettono attraverso i fumi composti dannosi o particolato, andrebbero poste lontano dai grandi centri abitati. Andrebbe, nello stesso tempo, rigorosamente osservata la legislazione sui filtri meccanici o chimici e sui sistemi di depurazione per l’abbattimento delle emissioni nocive dai fumi e dagli scarichi vari. Discorso analogo va fatto per le discariche, i termovalorizzatori, e tutti gli impianti di trasformazione o di distruzione dei rifiuti solidi urbani. In particolare, poi, per la tutela della salute, i dipendenti che operano negli ambienti chiusi delle industrie a rischio di patologie specifiche devono essere sottoposti a visite mediche e a controlli vari, con la frequenza del caso, per evitare l’istallarsi di determinate patologie, mentre maschere, tute speciali, impianti di aria condizionata, docce ecc. dovrebbero contribuire a prevenire i danni. In tal senso anche le attrezzature scientifiche e mediche che impiegano radiazioni diverse, ormai disseminate in tutte le città, dovrebbero essere rigorosamente controllate con una periodicità ben definita, e così la salute degli operatori. Per la risorsa acqua, preziosa ma limitata soprattutto in alcune zone, andrebbe fatta ampia propaganda per ridurre gli sprechi. Un buon esempio è dato dall’agricoltura nella quale, con i moderni sistemi di irrigazione a goccia, si ottiene un consistente risparmio, e, con altri accorgimenti, si arriva al riuso di acqua già utilizzata. Inoltre con canalizzazioni varie e con gallerie l’acqua andrebbe portata dalle zone ove abbonda a quelle dove è carente. Anche l’attingimento dal sottosuolo, mediante pozzi, andrebbe potenziato. Resta però il problema della presenza di sostanze inquinanti in alcune falde acquifere, che, insieme con la salininizzazione, ne rende impossibile l’uso. Correlato alla salinizzazione dell’acqua è il progressivo aumento del fenomeno della desertificazione dei suoli, che determina l’allontanamento di intere popolazioni dalle zone colpite, diventate non più produttive. Pari discorso va fatto per l’erosione e per le frane nei terreni in pendio. Per la desertificazione e le frane è possibile tentare di limitare i danni con l’esercizio di un’agricoltura razionale. Però in questi casi gli operatori più che agricoltori andrebbero considerati come custodi del territorio e compensati in misura adeguata. Quanto alla salubrità degli alimenti andrebbero eseguiti rigorosi controlli in ciascuna fase della filiera, oltre che sul prodotto finale.
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Per ultimo, ma non certo in ordine d’importanza, vi è il problema delle città. Queste, è augurabile, d’ora in poi andrebbero costruite a misura d’uomo. Non più gli enormi aggregati, con milioni d’abitanti, grattacieli, strade strette, assenza di palestre e servizi vari, di verde urbano. E’ bello auspicare per il futuro piccoli centri cittadini, naturalmente collegati tra loro, con case magari alte ma non colossi di cemento, con strade larghe per la circolazione dei veicoli e principalmente dell’aria, con palestre, con piscine e soprattutto avvolte nel verde con un’abbondanza di parchi, giardini, viali alberati, e con aiuole al centro di ogni piazza. Con l’impianto di parchi e giardini, la vegetazione assorbirà dall’aria buona parte dell’anidride carbonica e vi restituirà ossigeno puro nella misura di un terzo dell’anidride carbonica sottratta, onde sarà possibile limitare i danni dell’inquinamento atmosferico. Si otterrà così un effettivo miglioramento della qualità della vita, unito a notevoli vantaggi sociali ed etici. Con tali impianti, infatti, si dà possibilità ai bambini di passare delle ore all'aria aperta, di respirare aria pura, di giocare insieme con gli altri bambini del quartiere, quindi di socializzare; di imparare a conoscere, a rispettare ed amare le piante, a prendere dimestichezza con uccelli e piccoli animali che inevitabilmente: frequenteranno questi parchi. Anche le mamme che accompagneranno o andranno a prendere i loro figli cominceranno a parlare tra loro e si conosceranno. Gli anziani poi potranno incontrarsi ed intrattenersi con i loro coetanei, disputare una partita a carte all’ombra di un bel pergolato di viti americane, giocare a bocce in un campo circondato da alberi fronzuti. Si creerà cosi un vero e proprio sistema vivente (uomini, piante, animali, natura), ed in particolare gli abitanti del rione non saranno più monadi che non si conoscono neppure ma costituiranno un'autentica comunità di persone vive.
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GIAN LUIGI GIGLI, MARIAROSARIA VALENTE QUALITÀ DI VITA E STATO VEGETATIVO INTRODUZIONE Quella che stiamo vivendo, è un’epoca rivoluzionaria in campo medico. Nell’arco di una generazione, siamo passati da una medicina basata sull’Esperienza, ad una medicina basata sull’Evidenza. Oggi la stessa generazione si sta confrontando con un altro importante cambiamento, lo sviluppo di una medicina basata sulla Tecnologia. Senza dubbio, lo sviluppo tecnologico ha creato nuove e straordinarie possibilità per il miglioramento della diagnosi e delle cure. Ma le applicazioni di tali straordinarie scoperte, se non accompagnate da un serio dibattito etico, possono trasformarsi in strumenti di oppressione per gli esseri umani. L’era tecnologica fa propria la maggior parte dei vecchi assiomi dello scientismo e li sviluppa ulteriormente: 1) Il rifiuto di Dio (non esiste nulla al di fuori dell’universo), è spinto fino al punto di trasformare la tecnologia stessa in un Dio onnipotente, che ha il potere illimitato di migliorare la qualità di vita, anche in campo medico. 2) La neutralità della scienza (la scienza è neutra per definizione) diventa, per la tecnologia, l’assenza di qualsiasi responsabilità per le applicazioni delle scoperte. Essa pretende di essere amorale, ma in questo modo diviene immorale, negando ogni responsabilità personale per le conseguenze delle proprie azioni. 3) L’uomo, degradato a specie animale tra le altre specie, nell’era tecnologica diventa un oggetto di cui disporre e che può essere sottoposto a processi selettivi. Si fondono insieme la fede nel potere senza limiti della tecnologia di migliorare la qualità di vita e la mancanza di principi morali. Il potere tecnologico, sebbene intrinsecamente amorale/immorale, sente tuttavia di avere un dovere morale da assolvere: tutto ciò che può essere fatto, deve essere fatto. Il potere tecnologico, ricorrendo spesso all’ingegneria linguistica per ottenere l’approvazione sociale, ha il suo proprio codice etico: ogni azione è lecita nella misura in cui risulti da una libera scelta (cosiddetta “teoria liberale”); ogni azione è legittima se socialmente utile (teoria utilitaristica); è lecito tutto ciò che si basa su comportamenti comuni e accettati (teoria contrattualistica, basata sul consenso del corpo sociale composto da persone adulte). Il risultato, in campo medico, è lo svuotamento della bioetica. Tuttavia in medicina, forse più che in altre discipline, il non seguire principi morali comporta il rischio di diventare sempre più dipendenti dai poteri civili o dalle politiche di controllo dei costi. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da una drammatica riduzione del tasso di natalità in tutte le società occidentali. Ciò, insieme ai progressi della medicina, ha portato all’invecchiamento delle popolazioni e al rovesciamento della piramide demografica. L’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle possibilità di sopravvivenza dovuto alle moderne terapie (in particolare alle tecniche di rianimazione) stanno causando un importante aumento dell’onere globale di persone anziane e disabili cronici (soprattutto persone con invalidità neurologiche). Mentre si realizzavano questi importanti cambiamenti epidemiologici, si è potuto osservare anche un indebolimento del concetto di sacralità della vita e della solidarietà sociale. La combinazione di questi elementi ha reso eccessivamente gravoso il peso finanziario sostenuto dalla società per il gran numero di pazienti cronici, totalmente dipendenti. Se si aggiunge l’insufficienza del supporto dato alle famiglie per coprire i costi dell’assistenza prolungata ai loro cari, si capisce come ciò abbia portato ad un graduale aumento della pressione per l’eliminazione del peso rappresentato da quelli la cui vita è apparentemente senza significato e che creano costi e sottraggono risorse ad altri scopi. Tra le persone cronicamente totalmente dipendenti, con handicap neurologici, ci sono i pazienti in stato vegetativo che non sono malati terminali e che possono rimanere nella propria condizione di apparente
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incoscienza di sé e del mondo circostante, anche per anni se si forniscono costantemente una buona assistenza infermieristica, la nutrizione e l’idratazione. Dal punto di vista fisiopatologico, lo stato vegetativo è una condizione di cui non si ha ancora una conoscenza completa e che può dipendere da varie lesioni anatomiche[1]. Non si può escludere una elementare percezione del dolore attraverso la stimolazione algica somatosensoriale che attiva il mesencefalo, il talamo controlaterale e la corteccia somatosensoriale primaria in tutti i pazienti in stato vegetativo, anche in assenza di potenziali evocati corticali rilevabili[2]. In modo analogo, negli stessi pazienti, la stimolazione uditiva attiva le cortecce uditive primarie bilaterali, ma non associative[3]. Esistono anche alcune modalità di riconoscimento e distinzione degli stimoli sia uditivi[4] sia visivi[5], che indicano la possibilità della persistenza di forme elementari di comunicazione. In mancanza di termini di correlazione neurali della coscienza umana generalmente accettati, resta estremamente difficile interpretare i dati del neuroimaging funzionale di pazienti con gravi danni cerebrali come prova della loro coscienza o ‘non coscienza’[6]. Questo stato è ancora caratterizzato da importanti incertezze cliniche che spesso portano a diagnosi errate[7],[8]. Dal punto di vista clinico non esistono differenze tra lo stato vegetativo (comune) e lo stato vegetativo persistente e allo stato attuale è impossibile predire, su base individuale, quali pazienti abbiano probabilità di recupero. Per questi motivi, l’uso del termine persistente, inteso a suggerire la natura irreversibile dello stato vegetativo (SV), è stato scoraggiato. Tuttavia, più di recente, si è incoraggiato l’uso del termine permanente, teso ad indicare l’irreversibilità della condizione patologica. Un paziente in SV si considera permanentemente vegetativo quando la diagnosi di irreversibilità ha un alto grado di certezza clinica, ossia quando la probabilità di recuperare coscienza diventa estremamente remota[9]. Nondimeno, esistono casi documentati in cui si è avuto il recupero della coscienza dopo che si erano riscontrati i criteri della permanenza della condizione patologica[10],[11],[12], mentre ci sono bambini atelencefalici che non sono vegetativi nonostante la completa mancanza delle strutture telencefaliche[13]. Questo stato prolungato di vita vigile, ma apparentemente non cosciente, ha attirato l’attenzione degli eticisti, in seguito alla proposta di interruzione della nutrizione e idratazione assistite una volta che la condizione di stato vegetativo sia ritenuta ormai permanente. Tale atteggiamento può essere molto pericoloso per le sue conseguenze psicologiche e per gli stravolgimenti che potrebbe provocare all’integrità della professione medica. Inoltre, sebbene ben definita in ambito medico e di opinione pubblica, tale proposta è intenzionalmente sostenuta da correnti di pensiero che hanno prospettive e obbiettivi molto più ampi. Obbiettivi di questa relazione sono: l’analisi delle conseguenze, per lo status etico e giuridico della professione medica, che potrebbero derivare da questo tipo di approccio (sostenuto da diverse società scientifiche, da troppe strutture ospedaliere e da alcune famiglie) e l’impatto che potrebbe avere sulla società in senso lato. I pazienti con invalidità cronica (specialmente di natura neurologica) sono sempre più considerati come persone non più in vita. Tuttavia, i gruppi che sostengono il diritto-di-morire e che promuovono questo tipo di soluzione sono coscienti della difficoltà di convincere la popolazione comune a pensarla come loro a meno di non cambiare prima l’atteggiamento dei medici a favore della conservazione della vita. Il punto focale di questo mutamento di atteggiamento è stata la definizione di nutrizione e idratazione assistite (ANH), cioè la nutrizione e l’idratazione somministrate per via non naturale, ma “artificiale” e non più come forma di assistenza ordinaria di base (come è spesso stato proposto da taluni), ma come forma di “trattamento medico”[14] che, in analogia con altre forme di trattamento di sostegno vitale, come l’uso del respiratore, “possono essere interrotte secondo i principi e le norme pratiche che regolano il rifiuto e l’interruzione di altre forme di trattamento medico”[15]. Una volta definita come forma di trattamento medico, l’ANH potrebbe anche essere rifiutata dal paziente stesso. Poiché i pazienti in SV non sono in grado, per definizione, di comunicare le loro decisioni, il trattamento può essere rifiutato da un loro sostituto o da un rappresentante legalmente
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riconosciuto. Inizialmente si riteneva che si dovessero prendere in esame le intenzioni precedentemente espresse dai pazienti in stato vegetativo con lo scopo di accertare la loro opinione sul trattamento “artificiale”, preferibilmente attraverso direttive anticipate formalmente scritte, ma anche attraverso qualsiasi altra evidenza disponibile delle precedenti opinioni espresse su questa forma di “trattamento”. In seguito è stato stabilito che il rappresentante legale può interpretare la volontà del paziente cercando di agire nel migliore interesse della persona malata. I pazienti in stato vegetativo con scarse probabilità di recupero, sono considerati, da coloro che sono a favore dell’interruzione della nutrizione e dell’idratazione, come persone morenti naturalmente a causa delle loro condizioni di base (tra cui la parziale o totale incapacità di deglutire cibo per via ordinaria). Essi ritengono che, intervenire per fermare questo processo naturale di morte, richiede una giustificazione particolare, come la prospettiva di far regredire la condizione patologica. Da questo punto di vista, il semplice mantenimento in vita in uno stato di incoscienza non è di alcun beneficio poiché sostiene solo una “esistenza biologica” che non può aspirare ai più alti “fini spirituali” ai quali la vita terrena è finalizzata. Secondo questa teoria, una volta diagnosticato lo stato vegetativo come “permanente”, dovrebbe esserci la presunzione contro la nutrizione assistita. In questi casi, infatti, la “terapia” per mezzo dell’ANH dovrebbe essere considerata: inefficace e inutile, poiché sostiene le funzioni vitali pur non essendo in grado di provocare alcun recupero del paziente; straordinaria, cioè sproporzionata per l’obbiettivo sperato; e gravosa per il paziente, la famiglia (stress psicologico per un lento processo di morte senza la percezione di un beneficio per il paziente, e onere finanziario) e la società (spreco di risorse del sistema sanitario, che potrebbero essere meglio impiegate per scopi più benefici). Secondo quest’ottica, la morte indotta dall’interruzione dell’idratazione e della nutrizione deve essere considerata come morte naturale dovuta all’incapacità del paziente di alimentarsi normalmente, una sorta di morte che dovrebbe essere accettata come conclusione del processo naturale della malattia di base. Per queste ragioni, l’interruzione dell’ANH non dovrebbe essere considerata come procedura eutanasica. Al contrario, secondo queste persone, è la somministrazione “artificiale” di nutrizione e idratazione che non rispetta la dignità umana. È importante chiarire che la nutrizione e l’idratazione sono di fatto molto utili (nel mantenimento dell’omeostasi del corpo) e che i pazienti non muoiono a causa dello stato vegetativo (se così fosse, non ci sarebbe motivo di interrompere la somministrazione di sostanze nutritive), ma della malnutrizione e dell’insufficienza renale, che sono più propriamente le conseguenze volute dell’interruzione della nutrizione e idratazione. Il risultato (la morte) è assolutamente desiderato. Inoltre, le stesse procedure di nutrizione e idratazione, in altre situazioni cliniche di trattamenti prolungati, sono ben accette senza essere considerate in alcun modo lesive della dignità umana (come nel caso della stenosi faringea ed esofagea, della sclerosi laterale amiotrofica o del coma prolungato postraumatico). Si pensa che le famiglie che rifiutano l’equazione nutrizione-trattamento e sostengono che la nutrizione rappresenti un’operazione di cura interpersonale, rifiutino la malattia, siano spaventate dalla morte, ragionino in maniera istintiva o anche che violino l’autonomia dei loro cari. Sulla base di queste considerazioni diventa possibile che si decida sempre, dietro richiesta del rappresentante legalmente riconosciuto, di interrompere la nutrizione e l’idratazione a meno che i pazienti non abbiano espresso parere favorevole alla continuazione della nutrizione e dell’idratazione assistite. L’interruzione è ritenuta lecita, quando non si conosce la volontà reale del paziente, per non costringerlo ad un trattamento artificiale di durata indefinita. Ciò permetterebbe al paziente di concludere il suo viaggio, di lasciarlo morire. Questo ragionamento circolare e autoreferenziale è stato ampiamente criticato in articoli precedenti[16],[17]. I casi per i quali è stata considerata l’interruzione dell’ANH, specialmente quelli discussi dalle Corti statunitensi, sono i casi di pazienti in SV, o di pazienti che hanno subito gravi episodi traumatici che hanno compromesso la capacità di deglutizione, o di pazienti anziani e dementi troppo difficili da nutrire. In questi casi, indipendentemente da ciò che si possa pensare della loro “qualità di vita”, gli
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unici motivi per cui morirebbero in caso di rimozione della sonda dell’alimentazione, è la disidratazione e la malnutrizione. In altre parole la morte è la conseguenza inevitabile dell’interruzione dell’ANH. Naturalmente, lo scopo della rimozione della sonda dell’alimentazione è affrettare la morte che altrimenti si presume arrivi in tempi troppo lunghi per il paziente, è quindi una forma genuina di “eutanasia da omissione”, praticata solo per abbreviare la vita del paziente considerata ormai senza valore. In una lettera all’editor, in cui si commentava un articolo di R. Cranford[18], che aveva argomentato che la rimozione della sonda dell’alimentazione non rappresenta suicidio assistito né eutanasia, Andrews scriveva: “È curioso che l’unico motivo per cui la sonda dell’alimentazione sia considerata un “trattamento” è perché possa essere rimossa. La gran parte del dibattito riguarda la questione se la sonda sia un trattamento inutile. Io direi che la sonda dell’alimentazione è estremamente efficace in quanto realizza il compito che noi ci aspettiamo che realizzi. Ciò che in realtà si pone in questione è l’inutilità della vita del paziente – di qui il bisogno di trovare una strada per porre fine a quella vita. Una volta presa questa decisione, indipendentemente dal mezzo che si usa per porre fine a quella vita, questo deve essere l’obbiettivo definitivo – cioè l’eutanasia. Il desiderio della medicina di non sembrare apertamente a favore dell’eutanasia ha prodotto un ragionamento tortuoso per dimostrare che non siamo i responsabili della morte. In questo modo sottoponiamo il paziente, la famiglia e l’equipe assistenziale a un lento processo di morte. Se invece agiamo per porre fine alla vita in maniera più veloce, allora si mostrerà più rispetto per il paziente e la famiglia”[19]. Conformemente a quanto espresso da Andrews, siamo convinti che il motivo reale, ma non sempre esplicito, dell’interruzione dell’ANH non sia né il rispetto del corso naturale di una malattia mortale, né l’inappropriatezza della sonda dell’alimentazione in se stessa, ma l’inappropriatezza della capacità della sonda di mantenere vivi pazienti la cui vita è considerata di qualità insufficiente per meritare il trattamento. Per questa ragione è importante approfondire la riflessione sulla questione della qualità di vita. LA QUALITÀ DELLA VITA UMANA NELLE PERSONE CON GRAVI PROBLEMI NEUROLOGICI Sebbene la medicina globalmente intesa, oltre ad essere una scienza, sia in sé anche un’arte, le considerazioni sulla qualità di vita di un paziente soffrono di un’intrinseca mancanza di oggettività. Ciò risulta vero, senza alcun ragionevole dubbio, agli occhi di chi valuta dall’esterno. Ancor più importante, come sostenuto da Andrews, è il fatto che “la gravità della malattia, così come percepita da un osservatore, può avere poca rispondenza nell’opinione espressa dalla stessa persona malata. Lo stesso disagio che provano le persone fisicamente sane nel cercare di comunicare con una persona gravemente disabile dal punto di vista neurologico, si esprime spesso con la sensazione che sarebbe meglio, per la persona disabile, se morisse”[20]. “La qualità di vita è soggettiva e quindi non ha alcun valore il nostro punto di vista sul grado di qualità di vita di un’altra persona, l’unico test significativo è quello che la persona sente. Nella mia esperienza di lavoro con persone gravemente disabili, sono stato sorpreso dalla loro accettazione, e dalla capacità di sopportazione, di condizioni che consideravo pressoché intollerabili”[21]. Secondo noi, la discussione sulla qualità di vita spesso nasconde un tipo di valutazione tipica delle relazioni interpersonali della nostra società, basata sulla capacità di produrre e di essere utile. In questa società, non solo le vite dei pazienti in SV, ma anche quelle dei pazienti gravemente disabili e di ogni persona che vive al margine del sistema produttivo, sono considerate di minor valore. Questo riguarda anche l’uso delle risorse sanitarie, che si considerano ben spese se riportano il paziente ad una vita produttiva o almeno indipendente, ma sono considerate sprecate quando prolungano soltanto una cronicità dipendente. Ciò è vero in particolar modo per le nostre società occidentali dove ogni
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incremento della spesa sanitaria è posto sotto accusa, ma anche per i paesi ricchi con porzioni significative di popolazione prive di qualsiasi tipo di assistenza sanitaria. Secondo Andrews, “l’attuale tendenza a ‘valutare in termini economici’ e secondo la quale le risorse dovrebbero essere utilizzate solo per risultati clinici dimostrabili, lascia la persona disabile dipendente non solo dall’aiuto, ma anche dalla buona volontà delle persone sane”[22]. Questo atteggiamento può provocare nelle persone disabili o con gravi invalidità neurologiche, non solo perdita di autostima, ma anche preoccupazione per il peso economico che causano alla società o, peggio, alla famiglia, soprattutto in quelle società che non offrono un aiuto sufficiente a sopportare il peso dell’invalidità. Dal punto di vista di Andrews, “I problemi etici dell’handicap cronico non hanno a che fare tanto con la gravità della invalidità fisica, quanto con la capacità di accettare l’handicap risultante da una menomazione e con il condizionamento derivante dall’atteggiamento della società, spesso negativo, verso l’invalidità. Ciò richiede che si compiano tutti gli sforzi necessari per creare servizi che migliorino la qualità di vita anche delle persone più colpite dall’invalidità. Dal punto di vista etico è essenziale offrire la possibilità di vivere (in tutti i sensi) prima di fornire gli strumenti per morire”[23]. Il punto in discussione è il seguente: i pazienti in SV hanno sempre l’opportunità di vivere di cui parla Andrews oppure le famiglie sono sotto pressione per porre fine ad una vita considerata, dalla società di cui fanno parte, non degna di essere vissuta? Tornando alla definizione iniziale di ANH come trattamento gravoso, potremmo anche chiederci: è il “trattamento” gravoso o sono semplicemente questi pazienti (e molti altri pazienti con altri tipi di invalidità) ad essere un peso per le nostre società e per le (limitate) risorse economiche che investiamo nei sistemi sanitari? CONSENSO INFORMATO E QUALITÀ DI VITA Questo ci porta a considerare il problema del consenso per l’interruzione dell’ANH. Per i pazienti inSV, il consenso dovrebbe essere espresso da un rappresentante indicato nelle direttive anticipate o nominato da un giudice. Tuttavia i rappresentanti agiscono sempre nel legittimo interesse del paziente, liberi, quindi, da qualsiasi pressione? Quando i pazienti non sono in grado di esprimere il loro consenso, bisognerebbe prendere decisioni in base ai loro interessi medici e assistenziali piuttosto che in base alla volontà dei loro parenti sebbene, naturalmente, questi ultimi vadano sempre consultati. Infatti, a differenza delle persone prossime alla morte capaci di esprimere il loro consenso e in grado di decidere di accettare la propria morte, nel caso di pazienti con gravi danni neurologici, abbiamo a che fare con persone incapaci la cui morte non è imminente, ma è anticipata in quanto morte artificiale e non naturale. Non solo, anche se non influenzato da pressioni finanziarie o psicologiche, il rappresentante (e il giudice), potrebbero erroneamente ritenere che lasciare il paziente senza nutrizione e idratazione sia nel suo migliore interesse in base al criterio di una presunta assenza di qualità di vita. Abbiamo già visto che la valutazione della qualità di vita può essere diversa a seconda che a valutare siano persone disabili oppure osservatori sani (compresi i parenti): tale differenza può essere causa di gravi errori di valutazione nell’ambito della famiglia nel momento in cui si dovessero prendere decisioni riguardanti il porre fine alla vita di un membro disabile della famiglia stessa. Inoltre ci sono pressioni psicologiche che possono essere percepite dalla famiglia di una persona disabile. Queste due considerazioni sollevano il sospetto di un possibile conflitto di interessi quando la famiglia, o qualsiasi altro rappresentante del paziente nel processo decisionale, decide di porre fine alla vita di una persona a causa di una scarsa qualità di vita. In altre parole, possiamo domandarci se un paziente in uno SV molto prolungato possa avere attualmente qualche interesse (tranne che per la vita e una speranza molto debole di recupero) piuttosto che chiederci quale sia il suo migliore o peggiore interesse.Secondo Andrews, “se fosse così, allora si prenderebbero decisioni per il beneficio di altri, un processo decisionale piuttosto equivoco”[24].
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Certamente, quando il consenso viene espresso attraverso le direttive avanzate, esso può aiutare almeno ad identificare la volontà del paziente. D’altro canto, però, rimane sempre il sospetto che tale consenso non sia esaustivamente informato, nelle direttive c’è spesso la mancanza di specificità. Inoltre la decisione potrebbe essere stata presa da un paziente mentalmente sofferente, in particolare a causa di depressione, nel qual caso la decisione potrebbe non essere stata presa razionalmente. Si aggiunga che, nel caso di malattie progressive (per esempio, lo stato vegetativo provocato dalla demenza degenerativa) la decisione potrebbe essere viziata da qualche tipo di pressione che abbiamo cercato di descrivere in precedenza, senza considerare il fatto che la persona disabile potrebbe aver cambiato idea e non aver avuto la possibilità di esprimere la sua volontà più recente. Infatti, come messo in luce da Andrews, è frequente incontrare “persone che avevano dichiarato, quando erano in buona salute, di non volere continuare a vivere in caso fossero state colpite da gravi invalidità, ma che hanno cambiato opinione trovandosi in questa situazione”[25]. Infine le direttive anticipate, raramente precise nell’indicazione della gravità e durata della condizione richiesta per porre fine alla vita, potrebbero essere state scritte molti anni prima delle decisioni attuali sulla terapia e la cura, senza una sufficiente considerazione dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche e di eventuali nuove opportunità terapeutiche. Riassumendo, il dibattito sull’interruzione della nutrizione e dell’idratazione assistite nello stato vegetativo è viziato da alcuni fattori: a) una valutazione prognostica sull’esito è trasformata in diagnosi di una condizione clinica caratterizzata dalla permanenza; b) le cure sanitarie di base sono trasformate in trattamento medico, soggetto alla possibilità di rifiuto da parte del paziente; c) il consenso su decisioni riguardanti la vita umana è affidato a dei sostituti, senza considerare che la vita è sempre stata considerata giuridicamente come un bene indisponibile; d) le valutazioni sulla qualità di vita sono state trasformate in giudizi sulla possibilità che la vita umana non sia degna di essere vissuta. Queste premesse sono state prese per giustificare un modo di agire che attualmente è caratterizzato da: a) la negazione dell’assistenza sanitaria di base ai pazienti, il che inevitabilmente li porta alla morte, b) l’obbiettivo di anticiparne la morte, in quanto le loro vite sono ritenute non più degne di essere vissute. In maniera ancor più inaccettabile, ciò potrebbe accadere per una condizione clinica, come lo SV, di cui la fisiopatologia non è chiara, la diagnosi imprecisa e la prognosi solo probabilistica. IL PENDIO SCIVOLOSO DELLE CONSEGUENZE I pazienti con gravi invalidità neurologiche sono persone incapaci che non si trovano in punto di morte a causa di altre ragioni cliniche e la cui morte è anticipata poiché non arriva per vie naturali. Questo atteggiamento, e il messaggio in esso implicito, non sono senza conseguenze. Coloro che sottovalutano le conseguenze dell’interruzione e della nutrizione e dell’idratazione dovrebbero tenere in considerazione il modo in cui la nostra percezione di questi problemi è già cambiata negli ultimi dieci anni e il modo in cui cambierà in futuro. All’epoca dei casi Quinlan e Cruzan, l’onere della prova spettava a coloro che chiedevano l’interruzione dell’assistenza di base per quelle persone che avevano subito gravi danni cerebrali. Oggi, l’onere della prova pesa invece su chi vorrebbe proseguire questo tipo di cure. Se questo non è un pendio scivoloso, allora cos’è?[26]. L’interruzione dell’ANH come via per l’accettazione e la diffusione dell’eutanasia da omissione “Negli Stati Uniti alcune sentenze molto pubblicizzate, riguardanti pazienti con varie patologie, hanno costituito un precedente legale per negare o interrompere l’ANH. Allo stesso tempo i corpi legislativi hanno emanato leggi che hanno rafforzato ulteriormente tale pratica come diritto legale. Oggi, le leggi sulle direttive mediche anticipate (che regolano l’applicazione del Living Will o della Delega
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Prolungata) sono comuni e diffuse in tutti gli Stati Uniti. Tali leggi permettono al paziente di rinunciare agli interventi di sostegno vitale, compresa l’ANH, in caso di incapacità e di diagnosi di condizione limitante. Inizialmente, le uniche condizioni limitanti erano una malattia terminale o uno stato vegetativo persistente. Prevedibilmente, tuttavia, altre condizioni vagamente descritte, come la debilitazione grave e l’assenza di un grado significativo di coscienza sarebbero state aggiunte alla lista. Di conseguenza, alcuni hanno proposto la negazione o l’interruzione dell’ANH anche per i pazienti con morbo di Alzheimer e altre forme di demenza”[27]. Come neurologo, vorrei solo ricordare un articolo storico pubblicato venti anni fa sul NEJM in cui si considerava “eticamente ammissibile” rifiutare “la nutrizione attraverso … una sonda gastrica” a “pazienti affetti da forme di demenza grave e irreversibile” così come alle persone anziane[28]. Nel Regno Unito è in corso un ampio dibattito sul progetto di legge sulla capacità mentale (Mental Capacity Bill), presentato al Parlamento inglese il 17 giugno 2004, dopo un periodo di confronti pubblici e l’esame del Parliamentary Scrutiny Committee[29]. Sebbene finalizzato a chiarire le procedure legali per le decisioni mediche e finanziarie riguardanti le persone non in grado di prendere decisioni autonamente a causa di una malattia o di un incidente, il progetto apre legalmente la porta alla possibilità di lasciar morire per malnutrizione e disidratazione le persone che soffrono di demenza, quelle che hanno subito un danno cerebrale da trauma così come quelle colpite da altre patologie. Accettazione sociale dell’eutanasia attiva L’eutanasia attiva è illegale in tutto il mondo, tranne che in Olanda e in Belgio. L’interruzione della nutrizione e dell’idratazione artificiali potrebbe essere la chiave per rompere le ancora forti barrierecontro la legalizzazione dell’eutanasia nella maggior parte dei paesi. I bioeticisti a favore dell’eutanasia sono ben coscienti di questo da molto tempo. Già nel settembre del 1984, alla quinta Conferenza Biennale della World Federation of Right to Die Societies (Federazione mondiale delle società per il diritto a morire) tenutasi a Nizza, il bioeticista australiano Dr. Helga Kuhse spiegò la strategia dei sostenitori dell’eutanasia: “Se riuscissimo a far accettare alla gente l’interruzione di qualsiasi trattamento e assistenza – specialmente del cibo e dei liquidi – ci si accorgerebbe di come sia doloroso questo modo di morire e quindi, nel migliore interesse del paziente, si accetterebbe l’iniezione letale”. Gli studiosi sono coscienti delle conseguenze della decisione di interrompere la nutrizione e l’idratazione[30],[31]. “Qualunque semantica si adotti, rifiutare o interrompere il trattamento avrà lo stesso risultato eutanasico, cioè il clinico avrà deciso che il paziente deve morire”[32]. La morte per inedia e disidratazione “nega il rispetto per le persone morenti. Anche una persona deceduta è trattata con rispetto e non faremmo nulla ad un corpo senza vita solo perché non è in grado di sentire. La società si trova quindi di fronte ad un dilemma – essa ritiene che il paziente debba morire, ma non vuole una morte rapida poiché ciò sarebbe considerato eutanasia”[33]. La conclusione di Andrews ha una logica molto rigorosa: “Quando sono il paziente, la famiglia e l’equipe medica a decidere che sia inappropriato continuare a vivere, allora la qualità del processo di morte deve essere del più alto standard. L’attuale atteggiamento verso la morte del paziente attraverso l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione è altamente insoddisfacente, se non inumano,l’opzione dell’eutanasia costituirebbe, quindi, una soluzione molto più accettabile”[34]. Noi pensiamo che, sebbene involontariamente, l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione in pazienti in stato vegetativo e la sua applicazione anche ad altri pazienti con malattie neurodegenerative e con grave ritardo mentale, possa diventare, a lungo termine, il cavallo di Troia per rendere accettabile, alle società e alle professioni sanitarie, l’eutanasia attiva.
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Pazienti in SV come potenziali donatori d’organo Un allargamento ancor più deprecabile del concetto di paziente in SV come soggetto la cui vita non vale più la pena di essere vissuta, riguarda il campo della raccolta degli organi destinati al trapianto. Autorevoli studiosi cominciano a suggerire che la vita mantenuta in uno stato di incoscienza non dovrebbe essere considerata avente lo stesso valore della donazione degli organi e che tale decisione possa essere presa dallo stesso paziente (prima di perdere coscienza) o da un rappresentante. La vita (non cosciente) diventa così un bene disponibile, di cui può disporre un delegato[35]. Decisioni sulla qualità di vita e pressioni sul personale sanitario Nonostante Norimberga, sembra che ancora oggi il medico sia chiamato a decidere sul valore della vita umana e a porre fine anzitempo a quelle vite che sono ritenute di qualità insufficiente per essere vissute. A lungo andare, ciò potrebbe compromettere la relazione di fiducia tra il medico e il paziente. Infatti, la relazione di fiducia che deve prevalere tra il medico e il paziente sarebbe minacciata dal potere del primo di porre fine legalmente alla vita del secondo. Non solo, si cominciano a registrare pressioni esercitate sui medici (sia come individui sia come professione) affinché agiscano contro le proprie convinzioni e contro la Convenzione sui Diritti dell’Uomo di Ginevra che stabilisce che il medico deve avere “il massimo rispetto per la vita umana dal concepimento, anche sotto minaccia” e di non usare la propria “conoscenza medica in maniera contraria alle leggi dell’umanità”[36]. Come è già successo a ginecologi e ostetrici in alcuni paesi in relazione all’aborto, c’è il rischio che l’esercizio della professione medica sia precluso in futuro ai medici che non accettino di praticare l’eutanasia o il suicidio assistito. La possibile divisione di medici e infermieri tra coloro che partecipano e coloro che non partecipano a queste procedure è fonte di grande apprensione. Tuttavia, è più grave la prospettiva di un consenso sull’opinione che l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione non sia da considerare come una forma di eutanasia passiva, ma piuttosto come procedura di buona pratica clinica. Se così fosse, i medici e gli infermieri che rispettano la sacralità della vita e l’integrità delle professioni sanitarie, potrebbero probabilmente dover accondiscendere a tali pratiche deplorevoli non avendo neanche diritto all’obiezione di coscienza. I medici, e gli infermieri soprattutto, saranno posti sotto pressione da parte delle famiglie, degli ospedali, dei tribunali. Saranno chiamati a giustificare il loro rifiuto di anticipare la morte per condizioni per le quali non c’è un’apparente motivo di continuare a vivere, essendo il diritto alla vita basato sul riconoscimento esterno di un sufficiente livello della qualità della vita stessa. La società potrebbe pretendere un diritto sulla vita umana Il primo rischio è che i medici, essendo diventati i veri giudici della qualità di vita dei pazienti, possano decidere di andare oltre il desiderio del paziente. Questo è quello che sta già succedendo in Olanda. Sebbene sia quasi impossibile ottenere dati attendibili sulla situazione olandese, sono arrivati all’attenzione del pubblico molti rapporti affidabili su medici che tolgono la vita a pazienti che non hanno mai chiesto l’eutanasia e su pazienti cui è stata negata l’assistenza medica dopo aver rifiutato l’eutanasia. Riguardo la tendenza verso la cosiddetta eutanasia non volontaria in Olanda[37],[38], va detto, come minimo, che in Olanda “i pazienti, o i loro rappresentanti, non danno sempre il consenso informato; i medici riconoscono il loro desiderio di porre fine alla propria esistenza e non cercano costantemente un approccio meno drastico per alleviarne le sofferenze”[39].
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Se è pericoloso dare il potere di uccidere alla professione medica, è ancor più pericoloso dare questi diritti alla società. Molti pazienti in SV possono vivere per anni con la PEG (Percutaneous Endoscopic Gastrostomy). Ciò è visto come indicazione di trattamento “gravoso”. Tuttavia, l’argomento può essere rovesciato. Infatti, se un “trattamento” può protrarsi per anni senza problemi, proprio per questo può essere classificato come non-gravoso. Sembra quindi che sia la vita del paziente ad essere considerata gravosa per la società e (a volte) per i familiari. Le famiglie dovrebbero essere supportate (finanziariamente, moralmente e psicologicamente) e le società, se non vogliono diventare inumane e rinunciare gli standard della loro civilizzazione, devono accettare il “peso” dei loro membri fragili. Per la società, il peso non è la PEG, ma la cura assistenziale che può diventare costosa. Tuttavia, se fosse questa la giustificazione reale per interrompere l’alimentazione, si dovrebbe interrompere, allo stesso modo, anche la somministrazione per bocca di cibo e acqua così come tutti i tipi di assistenza infermieristica, dato che è quest’ultima a costare tanto. Di fatto, c’è l’opinione diffusa che l’aumento dell’età media della società porterà in futuro ad affrontare problemi sempre più gravi. Coloro che guardano all’invecchiamento della società come ad una catastrofe e coloro che sono restii a impiegare risorse per la salute sono uniti nel prevedere i letti d’ospedale bloccati da malati cronici che sopravvivono per anni con le PEG con l’impossibilità di aiutare invece coloro che trarrebbero un reale beneficio dall’essere ricoverati. Da un punto di vista logico e pratico, risulta impossibile fornire un contesto che prevenga gli abusi. Si possono esercitare pressioni sul medico affinché ponga fine alla vita dei pazienti anche su un piano non medico, inclusa la non disponibilità di posti letto in un ospedale, la prospettiva di un guadagno economico o anche motivazioni politiche. Si finirà inevitabilmente per cadere in un “pendio scivoloso” che porta all’eutanasia involontaria (da parte del medico) e non-richiesta (dal paziente). Si uccideranno persone che non hanno mai chiesto di morire e che avrebbero potuto trarre giovamento dalle cure palliative. I medici (che hanno la loro idea su quale sia il miglior interesse per il paziente) e le autorità sanitarie e i tribunali (che valutano il miglior interesse per la società) prenderanno le loro decisioni senza alcun ostacolo, a meno che non interferiscano le famiglie maldisposte ad accettare le loro decisioni, così come accaduto nel famoso caso di Terry Schiavo. CONCLUSIONI Il punto in questione è che l’interruzione dell’ANH inevitabilmente desensibilizza la società nei confronti dell’eutanasia. Infatti: “se questo tipo di vita non ha senso, allora perché continuare l’alimentazione?” Ma se è così, perché dobbiamo mantenerli in vita? La società si troverà inevitabilmente a dover affrontare la confusione tra la qualità di vita e la dignità intrinseca di ogni singolo essere umano: è umano ciò che non ha utilità, finalità, che non è in grado di avere un rapporto sociale? Una volta accettato il fatto che l’umanità si possa misurare sulla qualità di vita, e che la valutazione abbia come oggetto l’utilità e la capacità di relazione, allora sarà lo stesso concetto di cosa sia umano ad essere messo in dubbio. Le conseguenze possono essere davvero estreme, come nei criteri proposti da Engelhardt per il riconoscimento della persona[40]. La confusione tra la qualità di vita e la dignità intrinseca di ogni singolo essere umano, può soltanto portare ad un atteggiamento selettivo nel riconoscimento dei diritti umani. Ciò costituirebbe indubitabilmente un regresso per l’umanità. Oggi ci sentiamo ancora sotto pressione perché ci si chiede di riconoscere una gradualità nella dignità umana, ma dovremmo essere sufficientemente saggi da ricordare che ogni volta che abbiamo umiliato la dignità umana, conferendole diversi gradi e operando delle discriminazioni, abbiamo soltanto creato le premesse per una nuova violenza e per la morte. Perché dovremmo interessarci al modo in cui vengono trattati i pazienti in SV? Tutta la storia sull’interruzione della nutrizione e dell’idratazione rappresenta un punto cruciale per la nostra civiltà, essa è indicativa della direzione che vogliamo far prendere alle nostre relazioni reciproche, del modo in cui vogliamo prenderci cura e relazionarci in futuro alle persone anziane, handicappate e non coscienti.
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Esiste il rischio concreto di un ulteriore allentamento dei lacci della solidarietà all’interno delle famiglie e del corpo sociale. In conclusione, la nutrizione e l’idratazione dovrebbero sempre essere somministrate ai pazienti (compresi quelli in SV) a meno che il loro organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze nutritive, siano inutili ai fini del sostegno della vita, o la loro unica modalità di somministrazione costituisca un grave peso per il paziente o per altri. Se l’alimentazione attraverso PEG può continuare per anni, essa non può essere considerata gravosa per il paziente. Normalmente, l’ANH non dovrebbe rappresentare un peso per le società dei paesi sviluppati. Il nostro mondo è sempre più contrario a spendere per gli anziani, gli handicappati, i comatosi, i pazienti in SV, ecc. I medici e gli infermieri non dovrebbero assecondare la tendenza generale ad una società egoista, ma piuttosto ri-affermare la natura profondamente compassionevole della loro professione scegliendo l’opzione preferenziale della cura dei più fragili tra i propri simili. Ciò non significa curarli oltre il dovuto, ma opporsi in maniera assolutamente cosciente all’equazione che identifica i pazienti cronicamente non autosufficienti a occupanti impropri di letti d’ospedale e ad un peso per le finanze pubbliche.
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