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1 QUALITÀ DELLA VITA ED ETICA DELLA SALUTE ATTI DELLA UNDICESIMA ASSEMBLEA DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA Città del Vaticano, 21-23 Febbraio 2005 A cura di : ELIO SGRECCIA IGNACIO CARRASCO DE PAOLA LIBRERIA EDITRICE VATICANA 2006 Presentazione (S.E.R. Mons. ELIO SGRECCIA, Mons.Prof. IGNACIO CARRASCO DE PAULA) Discorso del Santo Padre GIOVANNI PAOLO II CONTRIBUTI DELLA TASK-FORCE S.E.R. Il Card. JAVIER LOZANO BARRAGÁN, A dieci anni dalla "Evangelium vitae." La qualità della vita. Prof. MAURIZIO FAGGIONI, La qualità della vita e la salute alla luce dell'antropologia cristiana Dr. JEAN-MARIE LE MÉNÉ, Etica della salute e gestione della salute mondiale Prof. Mons. MICHEL SCHOOYANS, La "salute riproduttiva" e le politiche demografiche. Il Caso dell'OMS Prof. ALFONSO GÓMEZ-LOBO, Qualità della vita in pazienti non responsivi postcoma Prof. STEFANO ZAMAGNI, Equità, razionamento, diritto alle cure sanitarie. Prof. MARKUS HENGSTSCHLÄGER, Il prodotto farmaceutico come medicina, come prodotto commerciale e come bene di consumo Prof. WALTER. RICCIARDI, Le politiche sanitarie e la qualità di vita nelle democrazie occidentali Prof. MANFRED LÜTZ, La "religione" della salute e la nuova immagine dell'uomo

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QUALITÀ DELLA VITA ED ETICA DELLA SALUTE ATTI DELLA UNDICESIMA ASSEMBLEA DELLA PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA Città del Vaticano, 21-23 Febbraio 2005 A cura di : ELIO SGRECCIA IGNACIO CARRASCO DE PAOLA LIBRERIA EDITRICE VATICANA 2006 Presentazione (S.E.R. Mons. ELIO SGRECCIA, Mons.Prof. IGNACIO CARRASCO DE PAULA) Discorso del Santo Padre GIOVANNI PAOLO II CONTRIBUTI DELLA TASK-FORCE S.E.R. Il Card. JAVIER LOZANO BARRAGÁN, A dieci anni dalla "Evangelium vitae." La qualità della vita. Prof. MAURIZIO FAGGIONI, La qualità della vita e la salute alla luce dell'antropologia cristiana Dr. JEAN-MARIE LE MÉNÉ, Etica della salute e gestione della salute mondiale Prof. Mons. MICHEL SCHOOYANS, La "salute riproduttiva" e le politiche demografiche. Il Caso dell'OMS Prof. ALFONSO GÓMEZ-LOBO, Qualità della vita in pazienti non responsivi postcoma Prof. STEFANO ZAMAGNI, Equità, razionamento, diritto alle cure sanitarie. Prof. MARKUS HENGSTSCHLÄGER, Il prodotto farmaceutico come medicina, come prodotto commerciale e come bene di consumo Prof. WALTER. RICCIARDI, Le politiche sanitarie e la qualità di vita nelle democrazie occidentali Prof. MANFRED LÜTZ, La "religione" della salute e la nuova immagine dell'uomo

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Prof. ANGELO FIORI, La figura del medico e le aspettative dei cittadini: continuità e condizionamento Prof. VICENTE BELLVER CAPELLA, Il diritto alla vita e il diritto all'assistenza sanitaria: significati e limiti INTERVENTI NELLA TAVOLA ROTONDA "Prospettive ed Alternative: Terapie Medico-Chirurgiche e Tecniche di Aiuto, Prevenzione e Adozione" Prof. ALEJANDRO SERANI-MERLO, Dr. PEDORO PAULO MARÍN, Dr. BEATRIZ, ZEGERS PRADO, La qualità di vita in geriatria Prof. PATRICIO VENTURA-JUNCÁ, La qualità di vita in medicina neonatale Prof. WANDA POLTAWSKA, Menomazione mentale e valore della vita Prof. JOANNES. LELKENS, Qualità di vita in pazienti con tumore con prognosi infausta Prof. NOËL SIMARD, Qualità di vita e pazienti con AIDS Rev. Prof. LUIGI POSTIGLIONE, Qualità di vita e ambiente Prof. GIAN LUIGI GIGLI, Dr. MARIAROSARIA VALENTE, Qualità di vita e stato vegetativo

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GIOVANNI  PAOLO  II      Discorso  ai  partecipanti  alla  XI  Assemblea  Generale  della  PAV    Al  venerato  Fratello  Monsignor  ELIO  SGRECCIA  Presidente  della  Pontificia  Accademia  per  la  Vita      1.  Sono  lieto  di  inviare  il  mio  cordiale  saluto  a  quanti  prendono  parte  al  Congresso  di  studio  che  la  Pontificia  Accademia  per  la  Vita  ha  promosso  sul  tema:  "Qualità  di  vita  ed  etica  della  salute".  Saluto  in  particolare  Lei,  venerato  Fratello,  porgendoLe  le  mie  felicitazioni  ed  i  miei  auguri  per  l'incarico  che  da  poco  riveste  di  Presidente  di  detta  Accademia.  Estendo  il  mio  saluto  anche  al  Cancelliere,  Mons.  Ignacio  Carrasco,  al  quale  pure  auguro  fecondi  risultati  nella  sua  nuova  mansione.  Un  pensiero  di  viva  gratitudine  rivolgo  poi  al  benemerito  Prof.  Juan  de  Dios  Vial  Correa,  che  ha  lasciato  la  presidenza  dell'Accademia  dopo  dieci  anni  di  servizio  generoso  e  competente.  Una  parola  di  speciale  riconoscenza  vada  infine  a  tutti  i  membri  della  Pontificia  Accademia  per  il  diligente  lavoro,  più  che  mai  prezioso  in  questi  tempi,  caratterizzati  dall’insorgere  nella  società  di  non  pochi  problemi,  legati  alla  difesa  della  vita  e  della  dignità  della  persona  umana.  A  quanto  è  dato  prevedere  anche  in  futuro  la  Chiesa  sarà  sempre  più  interpellata  su  questi  temi  che  toccano  il  bene  fondamentale  di  ogni  persona  e  di  ogni  società.  Per  questo  la  Pontificia  Accademia  per  la  Vita,  dopo  un  decennio  di  vita,  dovrà  continuare  a  svolgere  un  ruolo  di  delicata  e  preziosa  attività  a  sostegno  degli  Organismi  della  Curia  Romana  e  della  Chiesa  tutta.      2.  Il  tema  preso  in  esame  nel  presente  Congresso  è  di  massima  rilevanza  etica  e  culturale  sia  per  le  società  sviluppate  che  per  quelle  in  via  di  sviluppo.  I  termini  "qualità  di  vita"  e  "promozione  della  salute"  identificano  uno  dei  principali  obiettivi  delle  società  contemporanee,  sollevando  interrogativi  non  privi  di  ambiguità  e,  talvolta,  di  tragiche  contraddizioni,  per  cui  richiedono  un  attento  discernimento  e  una  profonda  chiarificazione.  Nell’Enciclica  Evangelium  Vitae,  a  proposito  della  ricerca  sempre  più  ansiosa  della  "qualità  di  vita"  che  caratterizza  specialmente  le  società  sviluppate,  rilevavo:  "La  cosiddetta  qualità  della  vita  è  interpretata  in  modo  prevalente  o  esclusivo  come  efficienza  economica,  consumismo  disordinato,  bellezza  e  godibilità  della  vita  fisica,  trascurando  le  dimensioni  più  profonde  relazionali,  spirituali  e  religiose  della  esistenza"  (n.  23).  E’  su  queste  dimensioni  più  profonde  che  va  portata  l’attenzione  alla  ricerca  di  un’adeguata  chiarificazione.      3.  Si  deve  innanzitutto  riconoscere  la  qualità  essenziale  che  distingue  ogni  creatura  umana  per  il  fatto  di  essere  creata  a  immagine  e  somiglianza  del  Creatore  stesso.  L’uomo,  costituito  di  corpo  e  spirito  nell’unità  della  persona  -­‐  corpore  et  anima  unus,  come  dice  la  Cost.  Gaudium  et  spes  (n.  14)  -­‐,  è  chiamato  a  un  dialogo  personale  con  il  Creatore.  Perciò,  egli  possiede  una  dignità  superiore  per  essenza  alle  altre  creature  visibili,  viventi  e  non  viventi.  Come  tale,  è  chiamato  a  collaborare  con  Dio  nel  compito  di  soggiogare  la  terra  (cfr  Gn  1,28)  ed  è  destinato,  nel  disegno  redentivo,  a  rivestire  la  dignità  di  figlio  di  Dio.  Questo  livello  di  dignità  e  di  qualità  appartiene  all’ordine  ontologico  ed  è  costitutivo  dell’essere  umano,  permane  in  ogni  momento  della  vita,  dal  primo  istante  del  concepimento  fino  alla  morte  naturale,  e  si  attua  in  pienezza  nella  dimensione  della  vita  eterna.  L’uomo  va  dunque  riconosciuto  e  rispettato  in  qualsiasi  condizione  di  salute,  di  infermità  o  di  disabilità.  

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   4.  Coerentemente  a  questo  primo  ed  essenziale  livello,  in  modo  complementare,  va  riconosciuto  e  promosso  un  secondo  livello  di  qualità  della  vita:  a  partire  dal  riconoscimento  del  diritto  alla  vita  e  della  dignità  peculiare  di  ogni  persona,  la  società  deve  promuovere,  in  collaborazione  con  la  famiglia  e  gli  altri  organismi  intermedi,  le  condizioni  concrete  per  sviluppare  armoniosamente  la  personalità  di  ognuno,  secondo  le  sue  capacità  naturali.  Tutte  le  dimensioni  della  persona  -­‐  la  dimensione  corporea,  quella  psicologica,  quella  spirituale  e  quella  morale  -­‐  vanno  promosse  in  armonia.  Ciò  suppone  la  presenza  di  condizioni  sociali  e  ambientali  atte  a  favorire  tale  armonico  sviluppo.  Ilcontesto  socio-­‐ambientale,  dunque,  caratterizza  questo  secondo  livello  di  qualità  della  vita  umana,  che  dev’essere  riconosciuto  a  tutti  gli  uomini,  anche  a  quelli  che  vivono  in  Paesi  in  via  di  sviluppo.  Uguale  è  infatti  la  dignità  degli  esseri  umani,  a  qualunque  società  appartengano.      5.  Tuttavia,  ai  nostri  giorni  il  significato  che  l’espressione  "qualità  di  vita"  sta  progressivamente  assumendo  si  allontana  spesso  da  questa  basilare  interpretazione,  fondata  su  una  retta  antropologia  filosofica  e  teologica.  Infatti,  sotto  la  spinta  della  società  del  benessere,  si  sta  favorendo  una  nozione  di  qualità  di  vita  che  è,  al  tempo  stesso,riduttiva  e  selettiva:  essa  consisterebbe  nella  capacità  di  godere  e  di  sperimentare  piacere,  o  anche  nella  capacità  di  autocoscienza  e  di  partecipazione  alla  vita  sociale.  In  conseguenza,  è  negata  ogni  qualità  di  vita  agli  esseri  umani  non  ancora  o  non  più  capaci  di  intendere  e  di  volere,  oppure  a  coloro  che  non  sono  più  in  grado  di  godere  la  vita  come  sensazione  e  relazione.      6.  Una  deviazione  analoga  ha  subito  anche  il  concetto  di  salute.  Non  è  certamente  facile  definire  in  termini  logici  e  precisi  un  concetto  complesso  e  antropologicamente  ricco  come  quello  di  salute.  Ma  è  certo  che  con  questo  termine  ci  si  intende  riferire  a  tutte  le  dimensioni  della  persona,  nella  loro  armonica  e  reciproca  unità:  la  dimensione  corporea,  quellapsicologica  e  quella  spirituale  e  morale.  Quest’ultima  dimensione,  quella  morale,  non  può  essere  trascurata.  Ogni  persona  ha  una  responsabilità  sulla  salute  propria  e  su  quella  di  chi  non  ha  raggiunto  la  maturità  o  non  ha  più  la  capacità  di  gestire  se  stesso.  Anzi,  la  persona  è  chiamata  anche  a  trattare  con  responsabilità  l’ambiente,  in  maniera  tale  che  esso  sia  "salutare".  Di  quante  malattie  i  singoli  sono  spesso  responsabili  per  sé  e  per  gli  altri!  Pensiamo  alla  diffusione  dell’alcolismo,  della  tossico-­‐dipendenza  e  dell’AIDS.  Quanta  energia  di  vita  e  quante  vite  di  giovani  potrebbero  essere  risparmiate  e  mantenute  in  salute  se  la  responsabilità  morale  di  ciascuno  sapesse  promuovere  di  più  la  prevenzione  e  la  conservazione  di  quel  prezioso  bene  che  è  la  salute!      7.  Certo,  la  salute  non  è  un  bene  assoluto.  Non  lo  è  soprattutto  quando  viene  intesa  come  semplice  benessere  fisico,  mitizzato  fino  a  coartare  o  trascurare  beni  superiori,  accampando  ragioni  di  salute  persino  nel  rifiuto  della  vita  nascente:  è  quanto  avviene  con  la  cosiddetta  "salute  riproduttiva".  Come  non  riconoscere  in  ciò  una  concezione  riduttiva  e  deviata  della  salute?  Rettamente  intesa,  essa  rimane  comunque  uno  dei  beni  più  importanti  verso  i  quali  abbiamo  una  precisa  responsabilità,  al  punto  che  essa  può  essere  sacrificata  soltanto  per  il  raggiungimento  di  beni  superiori,  come  talvolta  è  richiesto  nel  servizio  verso  Dio,  verso  la  famiglia,  verso  il  prossimo  e  verso  la  società  intera.  

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La  salute  va  dunque  custodita  e  curata  come  equilibrio  fisico-­‐psichico  e  spirituale  dell’essere  umano.  E’  una  grave  responsabilità  etica  e  sociale  lo  sperpero  della  salute  in  conseguenza  di  disordini  di  vario  genere,  per  lo  più  connessi  con  il  degrado  morale  della  persona.      8.  La  rilevanza  etica  del  bene  della  salute  è  tale  da  motivare  un  forte  impegno  di  tutela  e  di  cura  da  parte  della  stessa  società.  E’  un  dovere  di  solidarietà  che  non  esclude  nessuno,  neppure  coloro  che  fossero  causa  essi  stessi  della  perdita  della  propria  salute.  La  dignità  ontologica  della  persona  è  infatti  superiore:  trascende  gli  stessi  comportamenti  sbagliati  e  colpevoli  del  soggetto.  Curare  la  malattia  e  fare  di  tutto  per  prevenirla  sono  compiti  permanenti  del  singolo  e  della  società  proprio  in  omaggio  alla  dignità  della  persona  e  all’importanza  del  bene  della  salute.  L’umanità  di  oggi  si  presenta,  in  vaste  zone  del  mondo,  vittima  del  benessere  che  essa  stessa  ha  creato  e,  in  altre  parti  molto  più  vaste,  vittima  di  malattie  diffuse  e  devastanti,  la  cui  virulenza  deriva  dalla  miseria  e  dal  degrado  ambientale.  Tutte  le  forze  della  scienza  e  della  sapienza  devono  essere  mobilitate  a  servizio  del  bene  vero  della  persona  e  della  società  in  ogni  parte  del  mondo,  alla  luce  di  quel  criterio  di  fondo  che  è  la  dignità  della  persona,  nella  quale  è  impressa  l’immagine  stessa  di  Dio.  Con  questi  voti,  affido  i  lavori  del  Convegno  all’intercessione  di  Colei  che  ha  accolto  nella  propria  vita  la  Vita  del  Verbo  incarnato,  mentre,  in  segno  di  speciale  affetto,  a  tutti  imparto  la  mia  Benedizione.      Dal  Vaticano,  19  Febbraio  2005      (pubblicato  su  L'Osservatore  Romano,  di  Lunedì-­‐Martedì  21-­‐22  Febbraio  2005,  p.  7)  

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JAVIER  LOZANO  BARRAGÁN          A  DIECI  ANNI  DALLA  “EVANGELIUM  VITAE”.  LA  QUALITÀ  DELLA  VITA    Penso  che  l’omaggio  migliore  che  possiamo  offrire  per  commemorare  il  Decimo  Anniversario  dell’Enciclica  Evangelium  Vitae  è  proprio  un  tentativo  di  riflettere  su  quale  sia  la  vera  qualità  di  vita.  Tante  volte  temi  molto  interessanti  si  considerano  in  senso  errato  e  poi  si  cerca  di  non  trattarli  più,  tralasciando  una  ricchezza  molto  grande.  In  questa  Assemblea  si  presenterà  un  approfondimento  sul  tema  e,  data  l’importanza  che  ha  per  il  Pontificio  Consiglio  per  la  Pastorale  della  Salute,  mi  è  sembrato  opportuno  esprimere  anche  qui  alcune  idee  in  merito.  Parlare  di  qualità  di  vita  si  riferisce  a  misurare  la  vita  e  poter  dire  che  questa  vita  ha  migliore  qualità,  quest’altra  invece  no.  È  ovvio  che  per  misurare  serve  una  misura,  un  metro;  immediatamente,  allora,  si  presenta  il  problema:  quale  è  questo  metro,  dove  si  trova?  Quando  nella  storia  dell’umanità  e,  più  concretamente  nella  storia  del  pensiero  umano,  si  è  proposto  questo  problema,  si  è  arrivati  allo  stesso  nucleo  dell’esistenza  umana,  giacché  la  risposta  non  può  essere  diversa  da  quella  che  si  dà  alla  stessa  vita:  cosa  è  la  vita?  In  una  precedente  occasione,  in  questa  stessa  sede,  ho  avuto  l’opportunità  di  presentare  la  mia  riflessione  su  questa  domanda:  cosa  è  la  vita?La  mia  risposta  è  stata:  è  la  totale  donazione  amorosa  che  è  possibile  per  l’opposizione  relativa  fra  il  donatore  ed  il  donante  i  quali,  per  un  divino  paradosso,  mentre  si  donano  a  vicenda  entrambi,  più  e  meglio  si  vive.  Questo  pensiero  mi  pare  che  è  alieno  dal  modo  di  vedere  oggi  le  cose  nella  mentalità  postmoderna,  che  ha  dei  concetti  molti  strani  circa  la  qualità  di  vita.  Di  fronte  a  questo  metro  vitale  che  abbiamo  menzionato,  se  ne  adoperano  tanti  altri  distinti,  secondo  il  modo  che  si  accetta  per  concepire  la  vita.  Per  meglio  intenderci,  vogliamo  riferirci  ad  alcuni  concetti  che  ci  sono  sembrati  paradigmatici:        PROSPETTIVA  PSICOLOGICA  E  QUANTITATIVA  DELLA  QUALITÀ  DELLA  VITA      Pensiero  tecnologico  computerizzato      Per  alcuni,  dominati  dal  pensiero  tecnologico  computerizzato,  la  qualità  di  vita  appare  molto  curiosamente.  Fra  metafora  e  realtà  si  immagina  l’uomo  come  un  computer  che  viene  diretto  dal  cervello.  Il  cervello  diventerebbe  l’“Hardware”  e  la  mente  il  “Software”.  La  qualità  di  vita  si  misurerebbe  dall’aumento  quantitativo  di  entrambi:  secondo  la  maggiore  o  minore  capacitàdi  ricevere  informazioni  e  di  informazioni  attualmente  ricevute.  Avversano  la  qualità  di  vita  le  malattie  che,  come  “virus”,  si  dirigono  a  distruggere  sia  il  “Software”,  sia  proprio  l’“Hardware”.  Queste  saranno  tanti  altri  “bugs”  che  distruggono  l’armonia  informatica  ed  escono  dall’intricato  “internet”  o  grande  autostrada  globale  del  mondo.  Sembrerebbe  impensabile  questa  misura  della  qualità  di  vita,  ma  non  è  lontana  dal  pensiero  moderno  secondo  il  quale  la  misura  è  soltanto  di  stile  quantitativo  meccanicista,  oppure  anche  di  tipo  psicologico,  dove  la  vita  e  la  persona  valgono  per  la  coscienza,  cioè,  la  qualità  si  misura  dal  benessere  oppure  dalla  coscienza  dell’auto  riflessione  e  trasparenza  psicologica.  Così,  già  dalla  lontana  definizione  di  salute  dell’O.M.S.  ad  Alma  Ata  (1948)  intesa  come“lo  stato  perfetto  di  benessere  fisico,  mentale  e  sociale  e  non  soltanto  l’assenza  di  malattie”,  si  puntava  verso  questa  qualità  di  vita,  la  cui  misura  è  quantitativa  o  anche  nel  migliore  dei  casi,  mentale  o  sociale.  

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   Prospettiva  psicologica      Infatti  oggi,  specialmente  nel  nuovo  Paradigma  delle  Nazioni  Unite,  si  punta  di  più  a  questa  linea  mentale  e  sociale;  infatti  si  definì  la  qualità  di  vita  come  “la  conoscenza  dell’individuo  della  sua  posizione  nella  vita,  nel  contesto  della  cultura  e  del  sistema  di  valori  nei  quali  si  trova,  dirigendosi  verso  le  sue  mete,  aspettative,  standard  ed  interessi”.  Ci  sono  anche  le  teorie  della  preferenza:  propongono  al  centro  della  qualità  di  vita  il  ruolo  della  scelta  autonoma  degli  individui  nel  guidare  le  proprie  scelte,  nonché  le  teorie  perfezioniste  che  identificano  la  promozione  della  qualità  di  vita  con  l’esercizio  di  alcune  capacità  propriamente  umane.  Ciò  che  è  essenziale  per  la  promozione  della  qualità  della  vita  sarebbe  la  presenza  di  un’effettiva  capacità  di  sviluppo  in  ambiti  che  appartengono  propriamente  ed  universalmente  agli  esseri  umani,  come  le  relazioni  affettive,  la  riflessione,  la  creatività,  ecc.  Altri  intendono  la  qualità  di  vita  come  il  rapporto  fra  bisogni  e  desideri,  cioè  la  società  che  vuole  svilupparsi  ed  andare  avanti  una  volta  soddisfatti  i  suoi  bisogni  basilari,  che  cerca  la  soddisfazione  dei  suoi  desideri  ed  aspirazioni,  conquistando  sempre  un  maggiore  benessere  che  è  la  qualità  di  vita.  Questo  equivale  a  capire  la  qualità  di  vita  come  esclusivamente  o  principalmente  efficienza  economica,  consumismo,  bellezza  e  gioia  della  vita  nella  sua  dimensione  fisico-­‐corporale[1]  .      Prospettiva  pragmatico  utilitarista      Secondo  una  prospettiva  pragmatico  utilitarista,  una  vita  ha  valore  se  possiede  un  certo  grado  di  “qualità”;  essa  è  valutata  in  rapporto  alla  minimizzazione  del  dolore  e  spesso  dei  costi  economici.  Secondo  questa  prospettiva  basata  su  un’etica  conseguenzialista,  il  valore  della  vita  umana  dipende  dai  diversi  livelli  di  “qualità”  indipendenti  da  qualsiasi  valore  superiore  alla  stessa  vita  in  sé.  Ci  sono  delle  vite  le  cui  qualità  le  rendono  degne  di  essere  vissute  e  ce  ne  sono  altre  che  non  sono  degne  di  essere  vissute.  La  misura  si  è  fissata  in  diverse  maniere.  Alcuni  adottano  i  seguenti  criteri:  minimo  intellettuale  (Q.I.  superiore  a  20-­‐40),  autocoscienza,  autocontrollo,  senso  del  tempo  (presente,  passato,  futuro),  capacità  di  relazione,  interesse  per  gli  altri,  capacità  di  comunicazione,  controllo  dell’esistenza,  curiosità,  capacità  di  cambiare,  equilibrio  tra  ragione  e  sentimento,  funzioni  neocorticali[2].  C’è  anche  una  prospettiva  edonistica  per  misurare  la  qualità  di  vita;  secondo  questo  metro,  la  qualità  di  vitadipende  dalla  presenza  di  stati  mentali  piacevoli  e  dall’assenza  di  stati  mentali  spiacevoli  o  dolori;  quindi  la  qualità  di  vita  si  deve  considerare  positiva  se  mancano  gli  stati  mentali  spiacevoli  o  dolorosi.      Prospettiva  socio  biologica      Da  una  prospettiva  socio  biologica,  per  raggiungere  un  livello  adeguato  di  qualità  della  vita  occorre  affrontare  come  terapia  di  urgenza  la  protezione  dell’ambiente.  L’equilibrio  delle  forme  di  vita  nel  mondo,  la  loro  reciproca  relazione  a  difesa  della  salubrità  dell’ambiente  vitale,  sono  fattori  ritenuti  indispensabili  per  la  qualità  di  vita.  L’uomo  in  questo  sistema  di  interdipendenza  da  queste  forme  di  vita  è  il  fruitore  principale,  il  custode  delle  risorse  e  nello  stesso  tempo  il  maggiore  responsabile  del  loro  degrado  [3].  Ci  sono  anche  altre  prospettive  secondo  le  quali  la  qualità  di  vita  è  rappresentata  dall’insieme  dei  beni  economici  necessari  per  vivere,  i  quali  a  loro  volta  si  misurano  in  riferimento  al  prodotto  nazionale  lordo.  Ma  alcuni  non  accettano  questa  misura,  perché  il  PNL  non  può  diventare  il  criterio  a  motivo  della  polluzione  ambientale  che  causa  la  sua  crescita;  così  si  preferisce  parlare  

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del  BEN,  cioè  del  Benessere  Economico  Netto  che  tiene  conto,  oltre  che  della  produzione,  anche  del  rispetto  dell’ambiente,  delle  condizioni  di  lavoro,  dell’impiego  del  tempo  libero,  etc..  Ma,  per  essere  più  completi,  a  questo  BEN  si  deve  aggiungere  come  dato  essenziale  l’influenza  della  famiglia  e  della  società  [4].  In  queste  descrizioni  della  qualità  di  vita  c’è  un  metro  che  si  ferma  ai  piani  meccanicisti  o  psicologici.  Curiosamente,  il  pensiero  anche  postmoderno  non  supera  la  base  cartesiana  della  realtà  considerata  come  estensione,  e  della  persona  come  coscienza.  Le  misure  trovate  sono  misure  pienamente  intra  umane  che  cadono  nell’errore  fatale  di  confondere  la  misura  con  il  misurato.  Tante  volte  si  è  detto  che  l’uomo  è  la  misura  della  sua  vita,  ma  in  quanto  uomo,  non  uomo  astratto;  ma  poiché  questo  uomo  concreto  muore,  la  morte  come  può  essere  la  misura  della  qualità  di  vita?  Essere  coscienti  di  questo  assurdo  portò  nel  secolo  scorso  in  una  maniera  tragicamente  logica  all’Esistenzialismo  ed  a  trovare  palliativi  per  occultare  la  disgrazia  in  frasi  stereotipate  quali  avere  il  coraggio  di  vivere  per  la  morte,  di  vivere  l’assurdo  con  dignità  e  coraggio.  Frasi  di  paglia  che  non  risolvono  niente.  D’altra  parte,  nel  Marxismo  si  parlava  della  sopravvivenza  nella  futura  collettività,  anche  se,  in  quanto  futura,  non  risolveva  la  presente  disgrazia.  Oggi,  nella  post  modernità  si  preferisce  la  vecchia  soluzione  dello  struzzo,  affondandosi  nella  cultura  del  desiderio,  del  consumismo  e  di  tutta  classe  di  libertà,  creando  la  società  del  piacere,  del  potere,  dell’istinto  e  della  forza  bestiale  senza  riguardare  il  cacciatore,  la  morte.  Ma  come  dicevamo,  queste  misure  non  sono  misure,  sono  esattamente  il  contrario  di  un  metro,  sono  la  sconfitta  nella  lotta  contro  una  realtà  sempre  presente  e  prossima:  la  morte.        VERSO  L’AUTENTICA  QUALITÀ  DELLA  VITA      Penso  che  logicamente  la  qualità  della  vita,  cioè,  la  vita  migliore  non  potrebbe  essere  nessun  altra  che  quella  che  sconfigge  la  morte  e  ci  dona  una  vita  in  continuo  crescendo  fino  alla  vittoria  definitiva.  Questa  qualità  dovrà  essere  tanto  fisica  come  mentale  e  sociale.  Però  qui  i  fatti  ci  contraddicono  anche  dal  punto  di  vista  della  vita  fisica,  giacché  l’invecchiamento  delle  cellule  contraddice  la  loro  continua  crescita.        Qualità  della  vitacome  armonia  universale      Arrivando  a  questo  punto,  di  fronte  all’inevitabilità  della  morte,  alcuni  hanno  pensato  che  la  qualità  della  vita  non  si  dovrebbe  misurare  dal  punto  di  vista  fisico,  ma  si  deve  trascenderlo  attraverso  le  virtù.  Così  secondo  la  vecchia  maniera  stoica  del  conformarsi  con  l’armonia  dell’universo  e  sentirsi  una  particella  della  natura.  Così  si  pensò  anche  nei  concetti  del  Rinascimento  nella  presentazione  organologica  di  Nicola  di  Cusa  o  di  Paracelso  ed  oggi  nella  presentazione  buddista  insieme  all’estinzione  dei  desideri.  Ma  sperimentiamo  che  questa  qualità  di  vita,  fredda  ed  impersonale,  è  lontana  dal  soddisfare  i  bisogni  e  ci  lascia  nel  buio  della  morte.      Qualità  della  vita  come  valori      Oggi  si  dice  che  si  è  persa  la  qualità  della  vita  proprio  perché  si  sono  persi  i  valori.  Valori  come  la  giustizia,  la  lealtà,  la  veracità,  il  rispetto  per  gli  altri,  la  sincerità,  la  laboriositàetc.  Veramente  non  c’è  alcun  dubbio  che  questi  valori  qualificano  positivamente  la  vita  e,  in  qualche  maniera,  possono  essere  misura  per  la  qualità  di  vita.  Ma,  i  valori  in  se  stessi,  benché  siano  così  nobili  e  migliorino  la  vita,  non  sono  adeguatamente  misura  della  qualità  della  vita,  anche  perché  una  vita  costellata  da  loro  non  sfugge  comunque  alla  morte.  

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   Qualità  della  vita  come  donazione      Nella  realtà  della  storia  sappiamo  che,  al  di  là  dei  desideri  d’immortalità  presenti  in  ogni  cultura,  è  successo  un  fatto  meraviglioso,  l’unico  che,  possiamo  dire,  qualifichi  la  vita,  perché  è  un  fatto  che  ha  sconfitto  la  morte:  la  risurrezione  di  Gesù  Cristo.  E  questo  evento  non  rimane  fuori  dall’uomo,  ma  in  tale  forma  aderisce  a  chi  lo  voglia  ricevere,  che  si  converte  per  ognuno  nella  vita  vera  in  tutta  la  sua  pienezza.  Il  modo  con  il  quale  possiamo  acquisire  questa  vita  è  soltanto  attraverso  l’amore  personale  onnipotente  del  Padre  e  dello  stesso  Gesù  Cristo,  che  è  la  persona  dello  Spirito  Santo.  Così  il  Padre  ci  dà  la  vita  che  mai  finisce.  Questa  vita  segue  tutte  le  tracce  della  vita  di  Gesù  Cristo,  che  è  appunto  “il  cammino,  la  verità  e  la  vita”.  La  misura  della  vita  di  Cristo  è  la  misura  della  donazione  della  stessa  vita  e  questa  donazione  ha  come  misura  l’amore  d’identificazione  con  Cristo  che  è  lo  Spirito  Santo.      Qualità  della  vita  come  amore  divino–umano  creativo      Pertanto,  la  qualità  della  vita  ha  una  sola  misura:  l’amore.  Però  non  è  un  amore  qualsiasi,  che  è  perituro,  ma  un  amore  personale  divino  che  si  innamora  del  nostro  amore  umano  e  lo  rende  eterno.  La  misura  è  l’amore  divino  umano  che  il  Padre  ci  invia  col  suo  Spirito.  Questo  Amore  che  frantuma  i  limiti  della  mortalità  è  un  amore  che  ci  identifica  con  Cristo,  il  vincitore  della  morte.  Questo  amore  infinito  ha  una  potenza  creativa.  All’inizio  di  tutto,  “lo  Spirito  aleggiava  sulle  acque”  e  dal  niente,  dalla  confusione,  Dio  ha  creato  tutto.  Oggi  abbiamo  il  niente  oscuro  della  morte.  Lo  Spirito  torna  un’altra  volta  ad  aleggiarsi  sulla  turbolenza  distruttrice  della  morte  e  dalla  morte  e  dalla  distruzione  crea  una  nuova  vita  che  mai  finisce,  crea  la  Risurrezione.  Cristo  nella  croce  ha  affidato  al  Padre  il  suo  Spirito  ed  il  Padre,  con  la  forza  infinita  amorosa  del  suo  Spirito  lo  ha  risuscitato.  Pertanto,  la  vera  misura  della  qualità  della  vita  è  la  misura  della  donazione  dello  Spirito.  Dunque,  la  qualità  della  vita  si  misura  secondo  il  “metro”  di  Cristo  stesso  che  è  donazione  totale  verso  gli  altri  fino  alla  morte.  È  un  amore  che  conduce  alla  morte  come  pienezza  d’amore  e  soltanto  così  converte  il  buio  della  morte  in  luce,  il  finale  in  inizio,  la  tomba  in  culla,  la  sconfitta  in  vittoria.      Qualità  della  vita  come  Santissima  Trinità      Approfondendo  quanto  detto,  la  qualità  della  vita  è  un  motore  più  che  un  metro.  Il  motore  è  la  presenza  nell’uomo  della  Santissima  Trinità.  Così,  la  qualità  della  vita  è  la  qualità  della  vita  della  Santissima  Trinità,  la  quale  consiste  nella  piena  e  vicendevole  donazione  amorosa.  Il  Padre,  tutto  quanto,  si  dona  a  suo  Figlio,  ed  il  Figlio,  tutto  quanto,  si  dona  a  suo  Padre;  da  questa  mutua  donazione  procede  lo  Spirito  Santo.  Così,  la  qualità  della  vita  prima  di  esigere  un’istanza  gnoseologica  è  una  istanza  ontologica:  la  presenza  trinitaria  in  noi  attraverso  Cristo  che  muore  e  risorge.  Conseguentemente,  ognuno  ha  migliore  vita  nella  misura  del  suo  amore,  della  sua  donazione.  Questa  donazione  arriva  al  suo  apice  quando  con  la  propria  morte  si  prende  tutta  la  propria  vita  nelle  mani  ed  amorosamente  la  si  offre  in  totalità  al  Padre  nell’amore  dello  Spirito  Santo.  Questo  è  possibile  soltanto  lasciandosi  penetrare  dall’amore  dello  Spirito.  È  un  dono,  il  maggiore  dono.  Lo  Spirito  così  ci  regala  il  penultimo  gradino  della  qualità  della  vita  che  è  una  morte  come  maturità  feconda  che  fiorisce  nella  risurrezione.  

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Così,  l’autentica  qualità  della  vita  vince  la  paura  della  morte  e  si  trasforma,  con  la  speranza  fiduciosa  dell’amore,  in  un  cantico  di  vittoria.  Qui  la  qualità  della  vita  si  trasforma  in  totale  spiritualità,  giacché  è  l’opera  dello  Spirito  Amore.      Qualità  della  vita  come  benessere      Questa  maniera  di  concepire  la  qualità  della  vita  sembrerebbe  allora  molto  lontana  dalle  descrizioni  iniziali  di  qualità  della  vita  come  benessere,  oppure,  contro  la  qualità  della  vita  come  pienezza  di  vita  fisica,  mentale  e  sociale  qui  nel  mondo.  Ma  non  è  così;  infatti,  ilbenessere  fisico,  psicologico  e  sociale  sarà  la  piena  qualità  di  vita  nella  risurrezione  e  procurarlo  adesso  è  pregustare  la  stessa  risurrezione,  specialmente  nelle  cure  delle  malattie,  benché  si  sia  coscienti  che  questo  benessere  è  soltanto  relativo  e  punta  al  definitivo  della  risurrezione.      Qualità  della  vita  come  consapevolezza      Parlando  della  qualità  della  vita  come  donazione,  forse  si  potrebbe  dire  che  se  qualcuno  non  è  capace  di  donarsi  non  ha  qualità  di  vita.  Conseguentemente,  quelli  che  inizialmente  o  permanentemente  o  transitoriamente  non  sono  coscienti,  come  sarebbe  il  caso  degli  embrioni,  o  degli  handicappati  mentali,  o  dei  malati  incoscienti,  che  non  possono  donarsi,  non  avrebbero  qualità  di  vita.  Abbiamo  detto  che  la  donazione  non  è  una  donazione  umana,  ma  una  donazione  divino  umana,  cioè  è  la  misura  della  ricezione  del  dono  che  è  lo  Spirito  Santo.  E  questo  dono  in  qualche  maniera  si  trova  in  tutti  gli  uomini  dal  primo  istante  del  loro  concepimento.  Pertanto,  si  trova  negli  embrioni  e  nelle  persone  che  per  qualsiasi  ragione  in  un  momento  determinato  siano  incoscienti.  La  donazione  costituisce  la  persona,  giacché  questa  non  può  esistere  se  non  come  frutto  di  donazione.  La  stessa  qualità  di  vita  fonda  la  dignità  della  persona  umana  e  così  si  identifica  con  essa.  E’  certo  che  la  qualità  della  vita  non  è  statica,  ma  può  crescere  secondo  le  circostanze  e  le  azioni  di  ognuno.  Ma  c’è  sempre  una  qualità  essenziale  della  vita  che  è  inerente  ad  ogni  persona  dall’inizio  della  sua  esistenza  e  costituisce  la  sua  originale  dignità.  

 [1]  GIOVANNI  PAOLO  II,  Evangelium  Vitae,  n.23;  CDF,  “Istruzione  Dichiarazione  sull’aborto  procurato”,  18  sett.  1974-­‐  11.  [2]  FLETCHER  J.,  Four  Indicator  of  Humanhood–The  Enquiry  Matures,  HastingsCenter  Report  1975,  4:  4-­‐7.  [3]  SGRECCIA  E.,  Bioetica,  società,  sanità  e  qualità  della  vita,  in  ID.,  Manuale  di  Bioetica,  vol.  II,  Milano:  Vita  e  Pensiero,  2002:  15.  [4]  Cf.  LOZANO  BARRAGÁN  J.,  Teología  e  Medicina,  Bologna:  Ed.  Dehoniane,  2001:  12-­‐13.  

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MAURIZIO  FAGGIONI      LA  QUALITÀ  DELLA  VITA  E  LA  SALUTE    ALLA  LUCE  DELL’ANTROPOLOGIA  CRISTIANA    Il  nostro  titolo  accosta  con  la  tenue  coordinazione  di  un  “e”  due  espressioni  complesse  e  dai  significati  molteplici  collocandole  nella  luce  della  visione  cristiana  della  persona  umana.  Noi,  in  questo  discorso  introduttivo,  esamineremo  sinteticamente  la  valenza  semantica  di  queste  due  categorie  così  ricorrenti  nel  dibattito  bioetico  attuale  e  cercheremo,  quindi,  di  conferire  a  queste  espressioni  polisemiche  un  significato  determinato  che  si  radichi  nella  visione  cristiana  dell’uomo.        SALUTE      La  categoria  di  salute  e  quella  speculare  di  malattia  si  riferiscono  due  situazioni,  a  prima  vista  di  semplice  definizione,  ma  in  effetti  la  loro  precisa  delineazione  risulta  alquanto  complessa  e  non  univoca,  essendo  in  stretta  dipendenza  dei  diversi  modelli  antropologici  sottesi  e  non  sempre  chiaramente  esplicitati[1].  La  categoria  tradizionale  di  salute  era  di  natura  tipicamente  medica  perché  definiva  la  salute  come  assenza  di  malattia  e  prendeva,  quindi,  come  punto  di  partenza  la  malattia  intesa  come  deviazione  dalle  condizioni  ideali  di  funzionamento  e  di  integrità  dell’organismo.  Nel  secolo  XX  si  è  imposta  una  visione  nuova  che  cercava  di  superare  la  medicalizzazione  della  salute  -­‐  per  usare  l’efficace  formula  di  Illich[2]-­‐  e  allargava  la  comprensione  della  salute  alle  strutture  sociali,  lavorative,  ricreative,  educative,  abitative,  alimentari.  A  questa  comprensione  allargata  può  essere  riportata  la  celebre  definizione  di  salute  offerta  dall’Organizzazione  mondiale  della  sanità  (OMS)  nel  Protocollo  di  costituzione,  il  22  luglio  1946:  “La  salute  è  uno  stato  di  completo  benessere  fisico,  psichico  e  sociale,  e  non  solo  l’assenza  di  malattia  o  di  infermità”.  La  promozione  della  salute,  allora,  è  ben  più  che  rimozione  delle  noxae  patogene  o  il  ripristino  di  una  ideale  normalità  organica,  ma  è  promozione  di  comportamenti  e  condizioni  di  vita  che  permettono  alla  persona  il  conseguimento  di  un  pieno  benessere  psichico,  fisico  e  relazionale.  Se  la  salute  è  una  realtà  globale,  essa  deve  essere  pensata  e  promossa  attraverso  una  progettualità  a  tutto  campo  che  abbracci  il  benessere  fisico,  psichico  e  sociale  e  che  non  può  esser  scopo  della  sola  medicina,  ma  vede  la  medicina  e  le  politiche  sanitarie  integrate  all’interno  di  scelte  politiche  di  più  ampio  respiro.  La  stessa  medicina  che  un  tempo  si  occupava  quasi  esclusivamente  di  guarire  le  malattie  ora  si  sente  sempre  più  impegnata  anche  nell’ambito  della  prevenzione  e  nella  promozione  di  stili  di  vita.  La  salute  diventa  sempre  più  un  obiettivo  da  perseguire  collettivamente,  un  indice  del  progresso  di  una  società,  un  banco  di  prova  per  coloro  che  hanno  responsabilità  pubbliche.  Essendo  la  salute  un  bene  essenziale  della  persona,  è  ragionevole  e  doveroso  che  la  società  si  impegni  per  riconoscere  e  promuovere  per  ognuno  il  diritto  alla  salute,  anche  perché  solo  a  livello  sociale  una  salute  intesa  in  modo  tanto  allargato  può  essere  adeguatamente  tutelata.Il  contenuto  preciso  di  questo  diritto,  ovviamente,  dipende  dal  senso  preciso  che  attribuiamo  alla  categoria  di  salute  e  si  può  prestare  anche  ad  equivoci  e  malintesi.  L’espressione  diritto  alla  salute  non  può  indicare  il  diritto  ad  essere  in  salute  perché  la  condizione  di  salute  spesse  volte  non  è  conseguibile  attraverso  la  medicina  o  altri  mezzi  umanamente  accessibili.  Esiste,  piuttosto,  il  diritto  ad  essere  aiutati  dalla  società  e  dalla  medicina  socializzata  a  riacquistare  o  conservare  la  

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propria  salute.  Anche  questa  affermazione  –  apparentemente  pacifica  e  senza  problema  –  nella  prassi  è  tuttavia  carica  di  inquietanti  domande.  Possiamo  davvero  garantire  tutto  a  tutti  nell’ambito  dei  servizi  sanitari?  Possiamo  realmente  mettere  a  disposizione  di  tutti  qualunque  presidio  biomedico  e  garantire  a  tutti  l’accesso  a  ciò  che  di  meglio  si  può  avere?  Una  concezione  allargata  della  salute  può  accontentarsi  di  fornire  a  tutti  soltanto  un  minimo  decente?  E,  infine,  che  cosa  deve  intendersi  per  minimale,  che  cosa  per  decente?  Il  tema  della  salute  si  intreccia  necessariamente  con  il  tema  della  giustizia  e  può  essere  declinato  secondo  i  diversi  livelli  e  aspetti  che  la  giustizia  sanitaria  conosce.  Si  va  dal  problema  della  ripartizione  delle  risorse  sanitarie  a  livello  planetario,  per  cui  l’idea  di  minimo  decente  nel  Nord  del  mondo  corrisponde  ad  un  insieme  di  prestazioni  sanitarie  che  non  sono  neppure  immaginabili  nel  Sud  del  pianeta,  sino  alle  decisioni  quotidiane  di  trattenere  un  paziente  in  un  ospedale  pubblico  un  giorno  in  più  o  in  meno  in  base  ad  un  budget  prefissato  piuttosto  che  in  base  alle  sue  reali  esigenze  cliniche  o,  quel  che  è  più  dilemmatico,  rinunciare  a  fornire  terapie  là  dove  una  vita  non  possa  più  godere  un  benessere  almeno  minimo,  ritenendo  le  terapie  inutili  rispetto  al  loro  scopo  e  negando,  per  ciò  stesso,  il  permanere  del  diritto  ad  accedere  alle  cure.  È  sconcertante  pensare  che  un  diritto  della  persona,  come  il  diritto  alla  salute,  possa  relativizzarsi  a  tal  punto  e  assumere  contorni  così  diversi  nei  diversi  contesti  culturali,  sociali,  politici  ed  esistenziali.  Un  esempio  paradigmatico  e  drammaticamente  attuale  si  ha  nella  diversa  possibilità  di  accesso  alle  cure  per  contrastare  l’AIDS  nei  diversi  contesti  mondiali,  ma  gli  esempi  si  potrebbero  moltiplicare  all’infinito.  Ripetere  lo  slogan  “Salute  per  tutti”  e  pensare  alla  salute  come  “stato  di  completo  benessere”  suona  quasi  offensivo  per  milioni  di  poveri  nel  mondo  ed  evoca  la  retorica  vuota  delle  belle  parole  piuttosto  che  non  un  progetto  che  si  voglia  e  si  possa  responsabilmente  condurre  a  compimento.  A  ben  guardare,  la  definizione  dell’OMS  della  salute  come  “stato  di  completo  benessere”,  pur  presentando  il  pregio  di  proporre  una  visione  multidimensionale  od  olistica  della  salute  e  di  sottolineare  l’aspetto  soggettivo  della  salute  come  percezione  di  una  esistenza  che  si  esplica  con  pienezza  nelle  sue  varie  articolazioni,  rivela  però  anche  i  limiti  derivanti  dal  terreno  culturale  nella  quale  essa  è  sorta.  Prima  di  tutto  questa  definizione,  assunta  nel  contesto  di  una  cultura  della  prestazione,  favorisce  una  lettura  crudamente  efficientista  della  salute  per  lo  stretto  legame  che  tende  ad  instaurarsi  tra  benessere  personale  e  capacità  di  rispondere  alle  attese  sociali.  La  stessa  OMS,  in  un’altra  meno  celebre,  ma  non  meno  significativa  affermazione,  ha  accostato  il  senso  dell’esistere  alla  capacità  produttiva  definendo  la  salute  “lo  stato  di  benessere  fisico  e  mentale  necessario  per  vivere  una  vita  piacevole,  produttiva  e  ricca  di  significato”.  Compito  della  medicina,  in  questa  prospettiva,  è  di  contrastare  e  –  se  possibile  -­‐  eliminare  la  malattia  con  il  suo  corteo  sintomatologico,  in  modo  da  reintrodurre  il  malato  nella  cosiddetta  vita  attiva  o  almeno  ridurne  il  peso  sociale  in  termini  di  necessità  di  assistenza  e  di  cure.  In  secondo  luogo,  la  concezione  della  salute  come  completo  benessere  implica,  infatti,  una  visione  secolarizzata  della  salvezza  nella  persuasione  illusoria  che  l’uomo  può  procurarsi  e  raggiungere  con  i  suoi  mezzi  la  pienezza  del  benessere  in  questa  vita.  Questo,  come  conseguenza,  concorre  a  creare\  attese  irrealistiche  sulla  possibilità  della  medicina  di  rispondere  a  tutti  i  bisogni  e  i  desideri  delle  persone.  Nella  medicina  dei  desideri  la  dimensione  soggettiva  della  salute  viene  enfatizzata  al  punto  di  confondere  il  diritto  alla  salute  con  il  diritto  a  vedere  soddisfatti  i  propri  desideri  e  si  pretende  che  la  medicina  procuri  le  condizioni  per  realizzarli.  La  medicina  dei  desideri,  incentivata  dal  mercato  della  salute,  incrementa  la  richiesta  di  prestazioni  farmacologiche  e  medico-­‐chirurgiche,  assorbe  risorse  pubbliche  oltre  ogni  ragionevolezza  e  dilata,  sino  ad  estenuarla,  la  categoria  di  terapeuticità.        

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QUALITÀ  DELLA  VITA      Le  luci  e  le  ombre  contenute  nella  idea  della  salute  come  benessere  si  sono  riversate  ed  espresse,  a  partire  dagli  anni  ’50,  nella  categoria  di  qualità  di  vita  e  si  può  dire  che  la  categoria  di  qualità  della  vita  è  diventata  un  modo  usuale  per  riferirsi  alla  salute  in  termini  di  benessere,  con  una  enfasi  implicita  sulle  dimensioni  soggettive  della  salute.  Nella  letteratura  bioetica  la  nozione  di  qualità  della  vita  è  un  tema  costante,  ma  non  sempre  adeguatamente  argomentato.  È  facile  verificare  che,  in  genere,  i  sostenitori  della  cosiddetta  bioetica  della  qualità  della  vita  offrono  molti  indici  e  algoritmi  per  calcolarla  e  si  impegnano  seriamente  per  confutare  il  paradigma  rivale,  rappresentato  -­‐  secondo  molti  di  loro  -­‐  dalla  bioetica  della  sacralità  della  vita,  ma  si  dimostrano  più  deboli  quando  si  tratti  di  fondare  e  definire  rigorosamente  la  qualità  della  vita[3].  Dal  punto  di  vistateorico  sono  stati  individuati  diversi  approcci  a  questa  categoria[4],  ma  si  possono  individuare  alcunitratti  comuni  e  ricorrenti.  Prima  di  tutto,  nel  definire  la  qualità  della  vita  si  fa  riferimento  stati  mentali  piacevoli  o  dolorosi  del  soggetto  in  risposta  alle  sue  condizioni  psico-­‐fisiche  e  sociali,  per  cui  si  ritiene  che  promuovere  una  buona  qualità  di  vita  consista  nel  produrre  condizioni  di  vita  gratificanti  e  nel  rimuovere  condizioni  penose  o  dolorose.  A  livello  sociale,  per  esempio,  una  politica  sanitaria  di  allocazione  delle  risorse  sarà  ritenuta  più  o  meno  adeguata  a  promuovere  la  qualità  di  vita  a  seconda  degli  effetti  piacevoli  prodotti  e  delle  situazioni  spiacevoli  rimosse.  L’insistenza  sulla  dimensione  soggettiva  della  qualità  della  vita,  se  viene  estremizzata,  può  introdurre  un  tale  carattere  di  relatività  che,  alla  fine,  ne  è  impedita  una  qualsiasi  valutazione  oggettiva.  Soggetti  diversi,  infatti,  possono  benissimo  dare  valutazioni  diverse  di  che  cosa  sia  una  vita  di  buona  qualità  e  questa  variabilità,  se  non  si  compone  con  criteri  di  oggettività,  sfocia  nella  più  assoluta  indeterminazione,  contro  la  pretesa  di  fondare  la  valutazione  del  valore  della  vita  su  basi  razionali  e  a  partire  da  criteri  verificabili  e  costanti.  Molti  Autori,  cercando  di  superare  le  aporie  derivanti  da  una  accentuazione  unilaterale  della  componente  soggettiva  della  qualità  della  vita  si  sforzano,  di  riportare  la  qualità  della  vita  sul  terreno  dell’oggettività  e  propongono  di  assumere  come  indici  di  essa  la  possibilità  di  esprimere  alcune  capacità  ritenute  propriamente  umane.  C’è  chi,  come  H.  Tr.  Engelhardt,  individua  queste  capacità  nella  integrità  delle  funzioni  cerebrali,  nell’autocoscienza  e  nella  relazionalità  e  c’è  chi,  come  Flettcher,  riconosce  la  qualità  di  una  vita  davvero  umana  a  chi  dimostri  un  minimo  intellettivo,  autocoscienza,  autocontrollo,  senso  del  tempo,  capacità  di  relazione,  interesse  per  l’altro,  capacità  comunicativa,  capacità  di  cambiare,  equilibrio  fra  ragione  e  sentimento,  funzioni  neocorticali.  Ovviamente  occorre  condividere  una  precisa  visione  di  ciò  che  è  tipicamente  umano  e  resta  comunque  irrisolta  la  questione  se  e  per  quali  ragioni  mantenga  un  suo  valore  una  vita  umana  impossibilitata  ad  esprimere  queste  capacità  tipicamente  umane  o  –  che  è  equivalente  –  se  resti  il  dovere  di  tutelare  e  prendersi  cura  di  una  vita  che  non  potrà  mai  esprimere  queste  stesse  capacità.  In  sostanza,  sia  che  si  tratti  di  riportare  la  qualità  della  vita  a  indici  di  fruibilità  di  beni  e  di  piacevolezza,  sia  che  si  cerchi  di  focalizzarla  su  attività  e  capacità  tipicamente  umane  la  categoria  di  qualità  della  vita,  alla  fine,  trascura  le  dimensioni  più  profonde,  ontologiche  e  non  efficientiste  dell’essere[5].  In  questo  senso  si  muove  la  definizione  di  qualità  di  vita  elaborata  da  un  gruppo  di  lavoro  dell’OMS  come  “l’insieme  delle  percezioni  individuali  della  propria  posizione  vitale  nel  contestodei  sistemi  culturali  e  assiologici  in  cui  ciascuno  vive  e  in  rapporto  con  le  proprie  mete,  attese,  standard  e  interessi”.  Anche  la  nozione  di  qualità  della  vita  rimanda  sempre  ad  una  antropologia  che  la  sostanzi  e  la  fondi.  Sarà,  infatti,  l’antropologia  di  riferimento,  spesso  implicita  e  non  tematizzata,  a  dirci  che  

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cosa  si  deve  intendere  per  “una  vita  buona”,  “una  vita  felice”,  “una  vita  piacevole”  o  “degna  d  essere  vissuta”  e,  ancora  più  radicalmente,  chi  è  “umano”  e  quindi  merita  il  nostro  impegno  per  tutelare  e  promuovere  la  sua  qualità  di  vita.  Normalmente,  in  campo  antropologico,  i  fautori  della  qualità  della  vita,  dimostrano  di  presupporre  una  antropologia  piuttosto  semplificata.  Se,  infatti,  promuovere  la  qualità  della  vita  significa  rispondere  in  modo  utilitaristico  alle  attese  o  realizzare  condizioni  di  esistenza  piacevoli,  sarà  necessario  che  il  soggetto  destinatario  del  nostro  interesse  o  della  nostra  tutela  possa  apprezzare  i  risultati,  avere  attese,  serbare  memoria,  percepire  interessi.  Non  molto  diversamente,  in  ambito  neocontrattualista,  ci  sono  Autori  che  tendono  a  riconoscere  come  veramente  umani  in  senso  ontologico  quegli  esseri  che  presentano  in  atto  le  capacità  o  qualità  ritenute  tipiche  della  persona  e  negano  la  cittadinanza  nella  comunità  morale  a  quegli  esseri  umani  che  non  riescono  più  o  non  riescono  ancora  a  manifestare  indici  chiari  di  umanità,  come  l’autocoscienza  o  la  capacità  di  instaurare  relazioni  interpersonali[6].  Per  costoro  la  persona  è  costituita  e  non  rivelata  dai  signa  personae.  Il  valore  di  ciascuna  vita  umana  e  di  una  stessa  vita  in  condizioni  e  tempi  diversi  della  sua  storia  dipende  dalla  presenza  o  meno  di  alcune  caratteristiche  o  qualità  che  sono  ritenute  rilevanti.  Parallelamente  varia  anche  la  valutazione  della  forza  del  diritto  ad  esistere  e  a  ricevere  cure  e  assistenza.  Qui  possiamo  riconoscere  il  corto-­‐circuito  logico  di  tanta  bioetica  laica.  La  nozione  di  qualità  della  vita  è  sostanziata  dall’antropologia  di  riferimento,  ma  l’antropologia  tende  a  identificare  come  veramente  umani  i  soggetti  che  già  vivono  o  potrebbero  vivere  vite  di  buona  qualità.  La  nozione  di  qualità  della  vita,  in  altre  parole,  non  solo  è  criterio  di  eticità  per  stabilire  il  diritto  alla  tutela  e  il  dovere  di  rispettocura,  ma  concorre  anche  a  definire  l’umano.  Esistono  vite  che  non  raggiungono  standard  di  prestazione  adeguati  e  che  non  sono  ritenute  meritevoli  di  tutela  o  della  stessa  tutela  di  cui  godono  le  vite  di  buona  qualità.  L’etica  della  qualità  della  vita,  se  è  intesa  così,  conduce  senza  dubbio  a  introdurre  discriminazioni  fra  gli  esseri  umani  per  quanto  riguarda  la  loro  dignità  e  i  loro  diritti.  L’uguaglianza  fra  tutti  gli  esseri  umani  è  il  fondamento  e  presupposto  condiviso  della  convivenza  sul  nostro  pianeta  e  l’irrinunciabile  principio  che  fonda  la  democrazia  moderna.  La  categoria  di  qualità  della  vita  usata  come  criterio  di  valore  della  vita  umana  nega  il  fondamento  naturale  e  culturale  dell’uguaglianza,  e  introduce  un’etica  della  disuguaglianza.  Ora,  anche  se  è  vero  –  come  annota  Adriano  Pessina  –  che  “la  tesi  dell’uguaglianza  (ontologica)  tra  gli  uomini,  e  quindi  quella  del  loro  valore  intrinseco,  è  storicamente  debitrice  sia  della  filosofia  stoica  sia  della  religione  ebraico-­‐cristiana,  …  queste  origini  non  impediscono  che  si  possa  accedere  ad  un  riconoscimento  della  dignità  dell’uomo  che  non  passi  attraverso  quelle  fondazioni”[7].  Quello  che  è  tragico  è  che  quest’etica  della  disuguaglianza  pretende  di  avere  un’intima  ragionevolezza  e  pretende  di  fondare  su  dati  oggettivi  (atti,  condizioni  psico-­‐fisiche,  fasi  della  vita,  prestazioni  ..)  una  disuguaglianza  che  è  pura  costruzione  culturale.        SALUTE  E  QUALITÀ  DELLA  VITA  IN  PROSPETTIVA  CRISTIANA      All’etica  della  qualità  della  vita  si  suole  contrapporre  –con  un  eccesso  di  semplificazione  -­‐  l’etica  della  sacralità  della  vita.  La  contrapposizione,  come  vedremo,  può  essere  superata,  ma  ha  una  sua  ragion  d’essere  se  noi  teniamo  presente  che,  nel  dibattito  bioetico,  le  due  espressioni  sono  assunte  in  relazione  a  precisi  contesti  antropologici  ed  etici  e,  quindi,  sono  determinate  nel  loro  contenuto  dal  sistema  filosofico  di  riferimento.  La  bioetica  della  qualità  della  vita  presuppone  che  la  vita  sia  eticamente  definita  attraverso  le  sue  qualità  e  ammette  una  disuguaglianza  di  valore  tra  le  diverse  esistenze  umane.  Conl’espressione  sacralità  della  vita  si  possono  intendere  diverse  realtà,  ma  fondamentalmente  si  vuol  esprimere  l’idea  che  il  valore  della  vita  umana  non  dipende  da  un  apprezzamento  e  da  una  valutazione  delle  

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qualità  che  essa  accidentalmente  presenta,  bensì  dal  fatto  stesso  di  essere  una  vita  umana[8].  Affermare  la  sacralità  di  ogni  vita  umana  e  dedurne  l’eguaglianza  di  dignità  e  l’intangibilità  non  nasconde  che  le  diverse  esistenze  manifestano  qualità  diverse,  alcune  desiderabili  ed  indesiderabili,  non  nasconde  che  per  alcuni  e,  forse,  molti  la  vita  non  sia  felice,  compiuta  e  realizzata,  ma  non  per  questo  ritiene  diminuita  la  dignità  e  il  valore  di  quelle  esistenze  fragili  e  dolenti.  L’agente  morale  è,  dunque,  chiamato  non  ad  attribuire  valore,  ma  a  riconoscere  il  valore  intrinseco  di  ogni  vita  umana  in  quanto  umana.  Annota  giustamente  mons.  Carrasco  De  Paula  che  l’espressione  “valore  della  vita  umana”  è  una  forma  abbreviata  “della  più  precisa  locuzione  valore  dell’uomo  vivente  in  quanto  vivente”[9].  La  vita  non  è  un  bene  che  si  possiede  e  che  può  essere  abbandonato  o  estinto  quando  cessa  di  apparire  un  bene  desiderabile  o  utile,  ma  è  l’esperienza  complessiva  del  proprio  esistere.  Io  non  ho  una  vita,  io  sono  un  vivente.  La  categoria  di  sacralità  è  molto  criticata  dalla  bioetica  laica,  che  parte  spesso  da  una  opzione  antireligiosa  e  antimetafisica,  ed  è  anche  molto  fraintesa.  Alcuni  danno  alla  categoria  di  sacralità  una  intonazione  magico-­‐sacrale  e  attribuiscono  alla  morale  cattolica  un  grossolano  vitalismo  o  esaltazione  assoluta  e  incondizionata  della  vita  biologicaderidendola  per  il  suo  attaccamento  a  una  visione  prescientifica  della  vita.  Altri  –  come  la  H.  Kuhse  in  un  celebre  saggio  –  identificano  la  sacralità  della  vita  con  la  sua  intangibilità  e  giustificano  tale  intangibilità  in  modo  nominalistico  attraverso  il  comando  divino:  “Non  uccidere”.  Altri  cercano  di  recuperare  la  categoria  di  sacralità  demitizzandola  e  staccandola  dal  contesto  religioso  in  cui  nasce  e  nel  quale  è  pienamente  intelleggibile:  si  parlerebbe  allora  di  sacralità  della  vita  in  senso  evocativo,  emotivo,  parenetico  per  indicare  il  valore  che  si  attribuisce  alla  vita  umana  e  spingere  la  gente  al  rispetto  per  essa.  Si  cercano  nella  scienza,  soprattutto  nella  teoria  dell’evoluzione,  nelle  neuroscienze,  nell’etologia  e  nella  sociobiologia  prove  di  una  continuità  ininterrotta  fra  vita  umana  e  vita  animale,  per  superare  lo  scarto  ontologico  fra  uomo  e  animale  e  poter  negare  ogni  valore  speciale  e  tanto  meno  sacro  alla  vita  umana.  Il  riduzionismo  antropologico  è  il  vero  sottofondo  di  molta  della  bioetica  laica  e  dell’antropologia  diffusa  nella  cultura  secolarizzata  e  comporta  l’incapacità  di  cogliere  la  multidimensionalità  della  persona  umana,  il  valore  della  sua  vita  il  senso  ultimo  del  suo  esistere[10].  La  convinzione  della  dignità,  del  valore,  della  autonomia  della  persona,  rappresenta  invece  uno  degli  elementi  qualificanti  della  proposta  antropologica  cristiana.  In  sostanza,  rispondere  alle  sfide  del  riduzionismo  antropologico  significa  riaffermare  la  differenza  dell’essere  umano  rispetto  ad  ogni  altro  essere  e  quindi  la  sua  eccellenza  assiologica,  come  si  legge  in  un  famoso  testo  di  Gaudium  et  Spes  dedicato  a  descrivere  i  costitutivi  dell’uomo:  Uno  nell’anima  e  nel  corpo,  l’uomo  per  la  sua  stessa  condizione  corporea  riassume  in  sé  gli  elementi  del  mondo  materiale  …  L’uomo  in  verità  non  si  inganna  quando  si  riconosce  superiore  alle  cose  corporee  …  infatti  con  la  sua  interiorità  supera  la  totalità  delle  cose[11].  Il  pensiero  cristiano,  sin  dai  primi  tentativi  di  pensare  la  fede  da  parte  dei  Padri,  ha  ritenuto  irrinunciabile  l’affermazione  dell’eccedenza  dell’uomo  rispetto  alla  sua  base  o  dimensione  o  componente  biologica  e  materiale  e  ha  trovato  conveniente  esprimere  questa  eccedenza  ricorrendo  al  theologoumenon  dell’anima.  Appunto  in  questo  contesto  si  situa  tradizionalmente  la  categoria  etica  di  sacralità  della  vita[12].  Per  la  bioetica  cattolica  “la  vita  umana  è  sacra  perché,  fin  dal  suo  inizio,  comporta  l’azione  creatrice  di  Dio  e  rimane  per  sempre  in  una  relazione  speciale  con  il  suo  Creatore,  suo  unico  fine”[13].  Questa  creaturalità  dell’uomo  è  un  dato  fondamentale  della  antropologia  cristiana.  L'uomo  è  una  creatura  e  perciò,  come  ogni  altra  creatura,  è  pensabile  solo  in  relazione  con  Dio,  ma  la  relazione  della  creatura  umana  con  Dio  è  assolutamente  unica,  perché  è  una  relazione  

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costitutiva  ed  esclusiva,  una  relazione  personale  che  fa  dell'uomo  una  persona,  una  realtà  aperta  ad  autotrascendersi  nel  Tutto  e  ad  aprirsi  all'Alterità,  in  un  moto  dinamico  che  lo  conduce  verso  una  sempre  maggiore  attuazione  e  un  compimento  definitivo.  Il  valore  della  vita  umana  non  deriva  quindi  da  ciò  che  un  soggetto  fa  o  esprime,  ma  dal  semplice  suo  esistere  e  dal  suo  essere  costituita  in  relazione  con  Dio:  la  radice  del  valore  e  della  inviolabilità  di  ogni  vita  umana  sta  ultimamente  in  Dio.  Giovane  o  adulto,  sano  o  malato,  embrione  o  neonato,  genio  o  idiota,  il  valore  di  ogni  essere  umano  è  del  tutto  indipendente  dalla  qualità  delle  sue  prestazioni  o  della  sua  vita;  ciò  che  conta  è  il  suo  essere  in  relazione  con  Dio.  La  radice  teologale  di  questo  fondamentale  valore  viene  espressa  con  efficacia  in  un  bel  passo  della  istruzione  Donum  Vitae:  La  vita  fisica,  per  cui  ha  inizio  la  vicenda  umana  nel  mondo,  non  esaurisce  certamente  in  sé  tutto  il  valore  della  persona  né  rappresenta  il  bene  supremo  dell'uomo  che  è  chiamato  all'eternità.  Tuttavia  ne  costituisce  in  un  certo  qual  modo  il  valorefondamentale,  proprio  perché  sulla  vita  fisica  si  fondano  e  si  sviluppano  tutti  gli  altri  valori  della  persona.  L'inviolabilità  del  diritto  alla  vita  dell'essere  umano  innocente  dal  momento  del  concepimento  alla  morte  è  un  segno  e  un'esigenza  dell'inviolabilità  stessa  della  persona,  alla  quale  il  Creatore  ha  fatto  il  dono  della  vita[14].  La  visione  cristiana  della  persona  e  del  valore  della  sua  vita  ci  porta  così  a  delineare  una  comprensione  delle  categorie  di  salute  e  di  qualità  di  vita  che  non  rifiuta  gli  apporti  costruttivi  del  pensiero  secolare,  ma  li  rilegge  in  una  prospettiva  originale.  L’antropologia  cristiana,  così  attenta  a  sottolineare  l’unità  della  persona  nella  sua  multidimensionalità,  privilegia  -­‐  è  intuibile  -­‐  una  nozione  olistica  di  salute  e  di  malattia,  in  cui  concorrono  e  interagiscono  elementi  corporei,  psichici  e  spirituali  senza  dimenticare  le  imprescindibili  risonanze  relazionali.  Come  la  vita  umana  non  può  essere  ridotta  alle  sue  sole  dimensioni  biologiche,ma  è  vita  della  persona  nella  sua  multidimensionalità,  così  la  salute  non  può  essere  ridotta  ad  una  o  all’altra  delle  dimensioni  dell’uomo,  maè  armonia  e  integrazione  di  tutte  le  energie  personali,  fisiche,  psichiche  e  spirituali,.  La  salute,  in  questo  senso  molto  ampio,  può  essere  definita,  con  Karl  Barth,  “la  forza  di  essere  uomo”[15].  Promuovere  la  salute  di  un  soggetto,  allora,  non  significa  procuragli  l’assenza  di  qualsiasi  limitazione  o  malattia  o  disagio,  ma  aiutarlo  a  vivere  consapevolmente  la  sua  vita  nel  modo  più  autentico  a  partire  dalla  concretezza  delle  sue  condizioni  psico-­‐fisiche.  D’altra  parte  il  diritto  alla  salute  non  esige  né  la  fruizione  di  qualità  di  vita  standardizzate,  né  la  medesima  possibilità  di  conseguirle.  La  salute  è  equilibrio  e  armonia  della  persona,  ma  un  equilibrio  ed  una  armonia  che  non  sono  dati  una  volta  per  tutte  e  a  tutti  nello  stesso  modo.  Ognuno  deve  essere  aiutato  a  trovare  la  sua  armonia  e  il  suo  equilibrio  nella  propria  particolare  situazione  esistenziale  perché  il  diritto  alla  salute  non  è  limitato  a  coloro  che  godono  di  standard  prefissati  di  qualità  di  vita  prefissati,  ma  deriva  dal  diritto  alla  vita,  diritto  che  è  radicato  in  ogni  persona  umana  in  quanto  soggetto  di  una  vita  che  rimanda  alla  vita  stessa  di  Dio  e  che  si  dispiega  nei  diversi  itinerari  esistenziali  di  ciascuno.  Il  diritto  alla  salute  è  un  diritto  logicamente  e  assiologicamente  precedente  il  suo  riconoscimento  sociale  perché  la  salute,  pur  essendo  percepita  e  declinata  attraverso  categorie  culturalmente  condizionate,  non  è  pura  costruzione  socio-­‐culturale,  ma  si  innesta  sul  nativo  diritto  alla  vita  come  forza  e  capacità  di  vivere  la  propria  vita.  Mentre  l’esaltazione  unilaterale  dei  valori  corporei  sfocia  oggi  in  un  salutismo  estremo,  in  un  idoleggiamento  della  prestanza  e  vigoria  corporea,in  una  ricerca  esasperata  di  efficienza,  in  un  edonismo  neopagano  incapace  di  accettare  l’esperienza  della  malattia  e  della  decadenza  psicofisica  come  possibili  esperienze  di  autenticità,  alla  luce  dell’antropologia  cristiana  è  possibile  stabilire  un  sano  discernimento  fra  una  ragionevole  cura  della  salute  e  l’emergere  di  un  desiderio  infantile  ispirato  da  grandiosità  e  onnipotenza,  è  possibile,  soprattutto,  cogliere  il  

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valore  della  vita  là  dove,  per  lo  scadere  della  salute  psichica,  fisica,  sociale,  la  sua  qualità  si  riduce  a  livelli  minimali.  Anche  là  dove  la  vita  umana  fosse  vissuta  dal  soggetto  e  percepita  dagli  altri  come  una  vita  di  bassa  qualità,  resta  pur  sempre  quella  qualità  essenzialedella  vita  che  non  dipende  dalle  sue  qualità,  ma  dal  valore  in  sé  della  vita  umana.  Tutelare  la  salute  di  un  soggetto  significa  allora  aiutarlo  ad  attuare  l’intrinseca  bontà  della  propria  esistenza  lungo  un  itinerario  che  si  snoda  in  continuità  dal  suo  primo  sorgere,  nel  concepimento,  sino  al  suo  spegnersi,  nella  morte.  Non  sarà  mai  un  bene  per  l’altro  agire  contro  il  suo  esistere  incarnato  (come  nell’eutanasia  e  nel  suicidio  assistito)  perché  nega  il  valore  di  questa  esistenza  invece  che  affermarla,  ma  non  potrà  mai  essere  un  bene  neppure  prendersi  cura  della  salute  dell’altro  negando  dimensioni  veritative  essenziali  del  suo  essere  umano,  quali  la  libertà  o  l’amore  (come  nella  cosiddetta  salute  riproduttiva).  Prendersi  cura  della  salute  propria  e  dell’altro  significa  riconoscere  il  valore  dell’esistere  proprio  e  altrui  in  tutta  la  sua  vastità  e  nelle  sue  molteplici  articolazioni.  Prendersi  cura  è  struttura  etica  fondamentale  che  corrisponde  all’accoglienza  dell’esistenza  dell’altro  come  prossimo  e  similea  me,  prendersi  cura  della  salute  dell’altro  significa  promuovere  la  sua  esistenza  in  quanto  portatrice  di  un  appello  alla  mia  coscienza,  significa  accettare  la  struttura  esistenziale  della  dipendenza  nella  forma  dell’interdipendenza.  Ognuno  di  noi  deriva  da  altri,  dipende  per  il  suo  essere  da  altri  e  questo  può  diventare  cifra  per  cogliere  la  propria  originaria  dipendenza  creaturale.  Nel  momento  infatti  in  cui  accolgo  la  relazione  con  l’altro  e  accetto  che  egli  dipenda  da  me,  la  mente  si  dischiude  a  cogliere,  nel  mistero,  la  nativa  limitatezza  e  la  radicale  dipendenza  creaturale  dell’essere  umano.  Prendersi  cura  della  vita  dell’altro  significa,  perciò,affermare  che  Dio  esiste  e  che  l’uomo  è  la  sua  immagine.  

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 [1]  ASHLEY  B.,  O’ROURKE  K.,  Etica  sanitaria.  Un’analisi  teologica,  Torino  1993,  45-­‐66;  ENGELHARDT  D.  VON,Health  and  Disease.  History  of  a  Concept,  in  REICH  W.  T.  ed.,  Encyclopaedia  of  Bioethics,  vol.  2,  New  York  1995,  1085-­‐1092;  SCHOCKENHOFF  E.,  Etica  della  vita,  Brescia  1997,  219-­‐242;  VIAFORA  C.,  Malattia,  in  COMPAGNONI  F.  ed.,Etica  della  vita,  Cinisello  Balsamo  1996,  81-­‐116.  [2]  ILLICH  I.,  Nemesi  medica.  L’espropriazione  della  salute,  Milano  1976.  [3]  Della  sterminata  letteratura,  vedere  per  esempio:  BOWLING  A.,  Measuring  disease:  a  review  of  disease-­‐specific  quality  of  life  measurement  scales,  Philadelphia  2001;  CATTORINI,  REICHLIN,  L’idea  di  vita  in  bioetica,  “Filosofia  e  Teologia”  10  (1996),  301-­‐317  (313);  DAUM  M.  The  quality  of  life  report,  New  York  2003;LECALDANO  E.,  Questioni  etiche  sui  confini  della  vita,  in  DI  MEO  A.,  MANCINA  C.  curr.,  Bioetica,  Roma-­‐Bari  1989,  19-­‐39;  SHAW  A.,  Defining  the  Quality  of  Life:  a  Formula  without  Numbers,  “Hastings  Center  Report”  7  (1977),  5-­‐11;ID.,  Ql  Revisited,  “Hastings  Center  Report”  18  (1988),  10-­‐12.  [4]  Cfr.  SANDØE  P.,  Quality  of  Life  –  Three  Competing  Views,  in  “Ethical  Theory  and  Moral  Practice”  2  (1999),  11-­‐23.  [5]  In  questo  senso  l’affermazione  di  Evangelium  vitae  secondo  la  quale  “la  cosiddetta  qualità  della  vita  è  interpretata  in  modoprevalente  o  esclusivo  come  efficienza  economica,  consumismo  disordinato,  bellezza  e  godibilità  della  vita  fisica,  trascurando  le  dimensioni  più  profonde  –  relazionali,  spirituali  e  religiose  –  dell’esistenza”.  [6]  Tipica  l’impostazione  di  H.  T.  ENGELHARDT,  The  Foundations  of  Bioethics,  Oxford  1996,  239.  [7]  PESSINA  A.,  Bioetica,  74.  [8]  Una  presentazione  informata:  CHIODI  M.,  Tra  cielo  e  terra.  Il  senso  della  vita  a  partire  dal  dibattito  bioetico,  Assisi  2002,  45-­‐94;  KEENAN  J.  F.,  The  Concept  of  Sanctity  of  Life  and  its  Use  in  Contemporary  Bioethical  Discussion,  in  BAYERTZ  K.  ed.,  Sanctity  of  Life  and  Human  Dignity,  Dordrecht-­‐Bioston-­‐London  1996,  1-­‐18.  [9]  CARRASCO  DE  PAULA  I.,  Dignità  e  vita  umana  nell’etica  medica,  “Medicina  e  Morale”  45  (1995),  213-­‐222  (qui  p.  220).  [10]  Cfr.  FAGGIONI  M.  P.,La  sfida  del  riduzionismo  tecnico  scientifico  al  progetto  uomo,  “Studia  Moralia”  38  (2000),  437-­‐473.  [11]  CONCILIO  ECUMENICO  VATICANO  II,  Cost.  Past.  Gaudium  et  Spes,  14  (EV  1/1363):  “Corpore  et  anima  unus,  homo  per  ipsam  suam  corporalem  condicionem  elementa  mundi  materialis  in  se  colligit…  Homo  vero  non  fallitur,  cum  se  rebus  corporalibus  superiorem  agnoscit  …  Interioritate  enim  sua  universitatem  rerum  excedit”.  [12]  Per  approfondire:  FERNGREN  G.  B.,  The  Imago  Dei  and  the  Sanctity  of  Life:  the  Origins  of  an  Idea,  in  MCMILLAN  R.  C.,  ENGELHARDT  J.  R.,  SPICKER  S.  F.  edd.,  Euthanasia  and  the  Newborn,  Dordrecht  (ND)  1987,  23-­‐45;  KUHSE  H.,The  Sanctity  of  life  Doctrine  in  Medicine.  A  Critique,  Oxford  1987;SPINSANTI  S.,  Qualità  della  vita  o  santità  della  vita?  Oltre  il  dilemma,  in  VIAFORA  C.  cur.,  Centri  di  bioetica  in  Italia.  Orientamenti  a  confronto,  Padova  1993,  212-­‐224.  [13]  CONGR.  DOTTR.  FEDE,  Istr.  Donum  Vitae,  22-­‐2-­‐1987,  Introd.  5.  [14]  CONGR.  DOTTR.  FEDE,  Istr.  Donum  Vitae,  Introduzione,  n.  4.  [15]  BARTH  K.,  Kirchliche  Dogmatik,  vol.  3,  tom.  4,  Zolliken-­‐Zürich  1951,  406.  

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JEAN-­‐MARIE  LE  MÉNÉ      ETICA  SANITARIA  E    GESTIONE  DELLA  SALUTE  MONDIALE    Conosciamo  tutti  la  definizione  di  salute  dell’Organizzazione  Mondiale  della  Sanità:  “La  salute  è  uno  stato  fisico,  mentale  e  sociale  di  completo  benessere  e  non  soltanto  l’assenza  di  malattie  o  infermità”.  Tale  definizione  presenta  i  vantaggi  di  prendere  in  considerazione  sia  il  corpo  sia  l’anima  il  che  rende  più  realistica  la  visione  rispetto  alla  semplice  salute  fisica.  Tuttavia  con  l’espressione  ‘completo  benessere’,  senza  delimitazioni  temporali,  si  finisce  per  attribuire  alla  salute  un  carattere  idealistico  che  non  tiene  conto  della  realtà  della  persona  che  è  chiamata  a  vivere,  ma  anche  a  morire.  La  salute  nel  mondo,  oggi,  corrisponde  molto  poco  a  questo  ideale  e  il  modo  in  cui  si  opera  per  migliorarla  è  ben  lontano  dall’essere  uniforme.  Nel  mondo  sviluppato  la  gestione  dei  sistemi  sanitari  è  ampiamente  condizionata  dalla  domanda,  mentre  nel  terzo  mondo  è  basata  soprattutto  sull’offerta.  Domanda  e  offerta  sono  alla  base  di  tutte  le  teorie  economiche,  che  sono  a  loro  volta  influenzate  da  varie  ideologie.  Ciò  che  bisogna  capire  è  se,  tra  tutti  questi  fattori  che  caratterizzano  la  sanità  mondiale,  ci  sia  spazio  anche  per  l’etica.        NEL  MONDO  SVILUPPATO,  LA  GESTIONE  DELLA  SANITÀ  SI  BASA  SULLA  DOMANDA      Nella  maggior  parte  dei  paesi  industrializzati,  con  economie  forti,  la  situazione  sanitaria  è  caratterizzata  da  tre  elementi.  Innanzitutto  non  esistono  più  epidemie  importanti  di  natura  infettiva  in  grado  di  distruggere  un’intera  popolazione,  e  questo  grazie  al  progresso  medico.  In  secondo  luogo  è  cambiata  la  stessa  natura  delle  patologie  dei  pazienti  ospedalizzati.  In  passato  le  malattie  erano  di  natura  infettiva  e  ad  esordio  acuto,  ora  sono  diventate  ad  andamento  cronico  e  di  origine  spesso  chimica  (cardio-­‐vascolari,  cancro,  reumatismi,  ecc.),  ma  i  governi  e  sistemi  di  sanità  pubblica  hanno  spesso  preso  misure  adeguate  per  assicurare  che  la  stragrande  maggioranza  delle  persone  abbia  uguale  accesso  alla  medicina  preventiva,  anche  se  ancora  molto  può  essere  fatto.  Infine,  la  domanda  sanitaria  sta  gradualmente  cambiando  e  si  sta  orientando  verso  nuovi  bisogni.Tali  bisogni,  seppur  non  specificatamente  medici,  sono  ugualmente  fatti  rientrare  nel  mondo  della  salute.  Essi  hanno  preso  il  posto  di  altri  bisogni  in  maniera  decisa  grazie  ad  una  nuova  domanda.  Questi  nuovi  bisogni  stanno  portando  ad  un  incremento  sempre  maggiore  delle  spese  che  sono  (negativamente)  condizionate  dalla  capacità  economica  di  chi  le  deve  sostenere.        DALLA  SALUTE  AL  BENESSERE:  NUOVE  ESIGENZE  CREATE  DALLE  NUOVE  DOMANDE      La  salute,  nel  mondo  sviluppato,  ha  la  tendenza  ad  andare  oltre  la  “riparazione”  del  corpo  umano  (corpo  e  anima)  e  ad  entrare  in  un  mondo  fantastico,  uno  spazio  ideale  in  cui  diventa  un  bene  di  lusso,  un  prodotto  di  consumo  per  privilegiati.      Nuovi  bisogni:  un  solo  criterio,  il  desiderio      L’elemento  che  meglio  simboleggia  tale  evoluzione  è  il  successo  delle  tecniche  di  procreazione  medicalmente  assistita  che  non  hanno  nessun  altro  obbiettivo  se  non  quello  di  soddisfare  il  desiderio  di  avere  un  figlio.  

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Tuttavia,  considerando  la  mancanza  di  un  figlio  come  una  malattia  che  deve  essere  curata  con  ogni  mezzo  a  disposizione,  anche  con  quelli  più  rischiosi  e  dispendiosi,  proprio  come  si  farebbe  per  una  malattia  vera  che  mette  a  rischio  la  vita,  il  mondo  sviluppato  ha  accettato  il  passaggio  dal  concetto  di  salute  a  quello  di  benessere.  La  metafora  medica  è  calzante.  Si  agisce  come  se  la  sofferenza  legata  all’impossibilità  di  avere  figli  fosse  un  sintomo  medico  di  una  patologia  di  cui  la  collettività  possa  farsi  carico  dal  punto  di  vista  assistenziale.  Tutto  sommato,  la  situazione  risulta  essere  paradossale  dato  che  le  tecniche  proposte  curano  solo  i  sintomi  (la  mancanza  di  un  figlio)  e  non  la  causa  (i  problemi  di  fertilità  della  coppia).  Non  dobbiamo  dimenticare  che  una  coppia  rimane  sterile  anche  dopo  la  fecondazione  in  vitro!  La  varietà  dei  metodi  di  procreazione  disponibili  è  presentata  come  una  risposta,  sempre  più  selettiva,  ai  desideri  del  committente  che,  a  sua  volta,  è  spinto  continuamente  a  domandare  sempre  di  più.[1]  Il  desiderio  crescente  di  avere  figli  è  l’esatto  opposto  di  un’altra  esigenza  ugualmente  radicale  e  precedente  dal  punto  di  vista  storico:  quella  di  non  averne.  Per  molto  tempo  il  rifiuto  di  avere  bambini  è  stato  anch’esso  medicalizzato  e  le  assicurazioni  sanitarie  se  ne  sono  fatte  carico.  La  contraccezione,  libera  e  gratuita,  rappresenta  senza  dubbio  il  primo  passo  di  questa  passaggio,  sostenuto  dai  paesi  sviluppati,  dal  concetto  di  salute  a  quello  che  ritengono  sia  il  benessere.  Ma  più  che  il  desiderio  di  avere  un  figlio,  ciò  che  è  inaccettabile  è  che  il  rifiuto  di  un  figlio  sia  considerato  parte  delle  cosiddette  politiche  ‘sanitarie’,  come  se  la  vita  potesse  essere  considerata  come  una  malattia  e  la  morte  come  un  rimedio.  È  ancora  il  desiderio  ad  essere  valorizzato  quando  un  sistema  sanitario  accetta,  organizza  e  finanzia,  nel  nome  del  benessere,  la  soppressione  di  bambini  anormali  non  ancora  nati,  presentandola  come  strumento  di  “prevenzione”  dell’handicap.  Nella  terminologia  usata,  l’interruzione,  terapeutica  o  medica,  della  gravidanza  –  l’illusione  di  rimanere  sempre  nell’ambito  delle  cure  mediche  –  rappresenta  una  sorta  di  sicurezza  morale,  deliberatamente  promossa.  E  inoltre,  non  riusciamo  a  vedere  cosa  abbiano  in  comune  questi  sistemi  sanitari  o  il  personale  sanitario  con  quegli  atti  deliberatamente  volti  a  causare  la  morte.  In  Francia,  fino  ad  oggi,  solo  la  cosiddetta  interruzione  medica  della  gravidanza  è  stata  rimborsata  dal  sistema  sanitario  nazionale,  mentre  gli  aborti  “di  convenienza”  sono  stati  compresi  nel  budget  dello  stato.  Una  delle  prime  misure  adottate  dal  Ministro  della  Salute,  Prof.  Jean-­‐François  Mattei,  è  stata  quella  di  far  rientrare  anche  l’aborto  di  convenienza  tra  le  spese  sostenute  dal  sistema  sanitario  nazionale.  Questo  desiderio  di  potenza  è  ravvisabile  anche  nel  desiderio  della  nostra  società  di  rimanere  eternamente  giovane.  In  tale  contesto  rientra  la  propaganda  dell’uso  di  embrioni  umani  nella  terapia  cellulare,  come  strumento  infallibile  per  combattere  le  malattie  legate  all’invecchiamento,  come  il  morbo  di  Alzheimer  e  il  Parkinson.  L’illusione  dell’eterna  giovinezza  –  e  della  vittoria  finale  sulla  morte  –  ha  radici  fantastiche  e  mitologiche.  Il  desiderio  è  così  forte  che  nell’eventualità  le  cellule  staminali  embrionali,  provenienti  da  embrioni  soprannumerari,  dopo  la  loro  distruzione,dovessero  rivelarsi  incompatibili  con  l’organismo  ricevente,  è  già  stata  annunciata  la  possibilità  di  fare  ricorso  alla  cosiddetta  clonazione  terapeutica  come  panacea  per  curare  tutto.  Ancora  una  volta  il  termine  ‘terapeutico’  ci  riporta  –  erroneamente  -­‐  nella  sfera  della  salute.  Alcuni  paesi  come  il  Belgio  e  la  Gran  Bretagna  hanno  autorizzato  la  clonazione  terapeutica.  Altri,  come  la  Francia  e  la  Germania,  l’hanno  momentaneamente  proibita  nella  legislazione  interna,  ma  la  stanno  appoggiando  a  livello  internazionale  in  vista  di  una  moratoria  da  parte  delle  Nazioni  Unite  sulla  clonazione  a  scopi  riproduttivi.  Va  ricordato  che  la  sete  di  potenza  riguarda  anche  la  bellezza  fisica  e  le  prestazioni  sessuali.  Si  pensi  ai  continui  sforzi  per  rendere  credibile  il  potere  degli  ormoni  della  giovinezza  DHEA  resi  popolari  da  Etienne  Baulieu  (inventore  della  pillola  abortiva  RU  486)  e  agli  sforzi  per  renderli  uno  dei  necessari  componenti  della  salute…  per  star  bene.  Si  pensi  anche  alle  lussuriose  

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pubblicità  nelle  riviste  mediche  di  prodotti  come  il  Viagra  …  che  non  hanno  motivo  di  essere  considerati  come  prodotti  sanitari.  La  lista  potrebbe  allungarsi  ulteriormente,  ma  ciò  che  è  importante  considerare  è  che  chi  ha  capacità  economica  è  ormai  sazio  di  prodotti  sanitari  ordinari.  D’ora  in  poi  i  paesi  sviluppati  saranno  promotori  di  una  nuova  domanda  riguardante  la  creazione  della  vita,  la  giovinezza  eterna,  la  bellezza  e  l’allontanamento  della  morte,  tutti  ambiti  di  enorme  vantaggio  per  il  mercato,  dato  che  è  una  domanda  che  non  potrà  mai  essere  soddisfatta.  Questo  perché  questi  orizzonti  irraggiungibili  non  sono  rivendicati  dai  cittadini  comuni.  Questa  nuova  domanda  è  formulata,  promossa  e  divulgata  da  nuovi  attori.      Una  caratteristica  della  nuova  domanda:  gli  utenti  non  sono  persone  “spontaneamente”  malate      Davanti  ai  grandi  scenari  aperti  da  questi  nuovi  bisogni,  è  di  rigore  un  tono  entusiastico.  Chiunque  non  vi  aderisca  senza  riserve  è  escluso  dall’inesorabile  e  felice  marcia  verso  la  nuova  Terra  Promessa  della  salute.  Questa  prospettiva  è  creata  in  modo  autorevole  dagli  scienziati  il  cui  status  ha  subito  una  profondo  cambiamento.  Siano  essi  medici,  biologi  o  genetisti,  gli  scienziati  sono  stati  promossi  al  rango  di  esperti,  dispensatori  di  verità  e  speranza.  Quando  l’opinione  pubblica  è  inquieta,  quando  i  media  pongono  domande  o  quando  i  politicinon  sanno  che  direzione  prendere,  gli  esperti  sono  chiamati  a  esprimere  la  loro  opinione.  Molto  spesso  sono  chiamati  a  definire  regole,  a  stabilire  limiti,  a  spiegare  significati,  tutti  compiti  che  rientrano  nella  loro  missione  e  competenza.  Tale  ideologia  della  competenza,  secondo  la  quale  la  conoscenza  scientifica  da  sola  può  fondare  una  scelta  politica,  è  un’illusione  che  permette  al  potere  politico  di  essere  alleggerito  della  responsabilità  che  non  vuole  più  assumersi.  Ciò  si  risolve  in  una  eccessiva  rappresentanza  del  punto  di  vista  scientifico  o  tecnologico  negli  organismi  decisionali,  nei  comitati  etici  o  nelle  commissioni  parlamentari.  In  Francia,  dopo  aver  funzionato  per  più  di  vent’anni,  il  comité  national  consultatif  d’éthique,  ha  messo  in  chiaro  che  il  ruolo  degli  esperti  riuniti  nel  comitato,  la  maggior  parte  dei  quali  scienziati,  è  stato  quello  di  rendere  avvezzi  l’opinione  pubblica  e  i  mezzi  di  comunicazione  alla  trasgressione.  Non  sono  pochi  gli  esempi  che  dimostrano  come  il  comitato  di  etica  sia  stato  un  laboratorio,  una  sala  di  registrazione  della  tragressione  con  lo  scopo  di  renderla  accettabile  all’opinione  pubblica.  È  stato  anche  chiamato  “giardino  di  acclimatazione”  per  quelle  innovazioni  scientifiche  considerate  “ancora  inaccettabili”.  Un  genetista  ha  scritto,  “Il  pubblico  non  ha  paura  del  progresso,  ma  della  sua  rapidità.  Lo  scopo  dei  comitati  etici  è  quello  di  agire  da  freno  per  rallentare  l’applicazione  della  tecnologia  ad  una  velocità  accettabile  per  il  pubblico”[2].  Indipendentemente  che  si  avesse  a  che  fare  con  l’estensione  dei  limiti  legali  dell’aborto,  con  le  varie  tecniche  di  procreazione  medicalmente  assistita,  con  l’uso  delle  cellule  staminali  embrionali,  con  la  costruzione  di  “bambini-­‐medicina”  dopo  una  doppia  diagnosi  preimpianto,  con  la  cosiddetta  clonazione  terapeutica,  o  con  l’eutanasia,  la  dialettica  è  sempre  stata  la  stessa.  Inizialmente,  c’è  sempre  un  forte  richiamo  al  principio  del  rispetto  della  vita;  poi,  eccezionalmente,  si  cominciano  ad  ammettere  delle  deroghe  che  in  breve  rimpiazzano  il  principio.  Se  qualche  persona  scoraggiata  mostra  qualche  preoccupazione,  la  posizione  ufficiale  dell’esperienza  rimanderà  alla  necessità  di  un  certo  “disincanto  etico”.  In  altre  parole  il  progresso  scientifico  e  medico  ha  sempre  contemplato  la  trasgressione.  Storicamente  si  citano  tre  esempi:  la  dissezione  dei  cadaveri,  le  trasfusioni  di  sangue  e  i  trapianti  d’organo.  Queste  pratiche  non  hanno  mai  rappresentato  delle  trasgressioni  morali.  Tutt’al  più  hanno  rappresentato  delle  trasgressioni  sociali  all’epoca  in  cui  fecero  la  loro  apparizione.  D’altro  canto,  l’imperativo  industriale,  puramente  utilitaristico,  è  spesso  chiamato  in  causa  come  giustificazione.  La  questione  non  è,  per  i  paesi,  essere  in  ritardo  nella  corsa  alle  biotecnologie  e,  

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soprattutto,  non  per  ragioni  etiche.  La  fuga  di  cervelli  verso  paesi  più  liberali  è  una  spada  di  Damocle,  brandita  spesso:  i  paesi  meno  attenti  all’esigenza  etica  hanno  un  vantaggio  da  un  punto  di  vista  competitivo  e  comparativo.  L’allineamento  sul  “minimo  etico”  diviene  l’unica  regola  per  i  comitati  etici.  A  queste  condizioni  non  è  difficile  cercare  e  ottenere  il  consenso.  Da  questo  imperialismo  della  capacità  tecnico-­‐scientifica  deriva  la  produzione  di  slogan  paradossali  che  accompagnano  la  deriva  della  salute  verso  il  benessere  o  il  confort.  In  tal  modo,  l’aborto  medicalizzato  è  un  fattore  riguardante  la  salute  della  donna  e  del  bambino.  Allo  stesso  modo  la  diagnosi  preimpianto  diventa  un  modo  per  evitare  l’aborto.  L’uso  di  embrioni  a  fini  di  ricerca  sarà  l’occasione  per  sviluppare  la  solidarietà  intergenerazionale:  i  “bambini-­‐medicina”,  dopo  una  doppia  selezione  in  vitro,  saranno  promossi  al  rango  di  “bambini  della  speranza”,  ecc.  Parallelamente  a  questo  diktat  della  capacità,  si  è  sviluppato  il  ruolo  delle  associazioni  dei  malati  come  beneficiarie  nella  domanda  per  la  salute,  ma  in  realtà  come  gruppi  di  pressione.  Dimostrazione  più  eclatanti  di  questo,  sono  le  nuove  forme  di  solidarietà  tessute  intorno  ai  pazienti  con  AIDS  o  con  miopatie.  Per  quanto  riguarda  l’AIDS,  agli  inizi  degli  anni  ’90  alcune  associazioni  militanti  consideravano  gli  studi  sperimentali  come  un  mezzo  per  avere  accesso  a  farmaci  promettenti  ed  erano  fortemente  critiche  verso  la  classica  metodologia  di  sperimentazione.  Inoltre  le  associazioni  hanno  esercitato  pressioni  sulle  industrie  farmaceutiche,  i  governi  e  i  medici  per  rendere  più  rapida  la  circolazione  dei  nuovi  farmaci  prima  che  fossero  autorizzati  all’immissione  in  commercio.  In  nome  della  compassione  per  i  malati  che  stavano  morendo  e  con  mezzi  a  volte  terroristici  (irruzioni  in  programmi  televisivi,  minacce…),  le  associazioni  pretendevano  che  ai  pazienti  fosse  data  la  possibilità  di  accedere  a  molecole  che  non  avevano  ancora  concluso  l’iter  della  sperimentazione  e  della  valutazione.  Dato  che  l’epidemia  di  AIDS  ha  avuto  una  grande  copertura  mediatica,  le  associazioni  hanno  rivestito  un  ruolo  importante  nelle  discussioni.  La  valutazione  dei  fatti  scientifici  non  è  rimasta  in  seno  all’ambiente  specialistico,  ma  è  stata  fatta  oggetto  di  appropriazione  da  parte  di  una  lobby.  Le  decisioni  finanziarie  ne  sono  state  influenzate  a  scapito  di  altre  scelte  sanitarie.  È  emersa  una  formula  mista,  che  ha  visto  uniti  esperti  e  gruppi  di  pressione,  a  guida  della  ricerca  sulle  malattie  genetiche  e  ora  sulla  terapia  cellulare.  Con  gli  ingenti  fondi  raccolti  e  distribuiti  ogni  anno  da  Telethon,  alcune  associazioni  gestionali  sono  diventate  attori-­‐chiave  nella  scelta  dei  temi  e  dei  gruppi  di  ricerca  all’interno  di  organismi  pubblici.  Ma  i  fini  perseguiti  e  i  mezzi  usati  non  sono  esenti  da  critiche.  L’autorizzazione  della  diagnosi  preimpianto  è  stato  il  risultato  diretto  delle  pressioni  esercitate  da  Telethon.  La  nascita  del  primo  bambino  dopo  diagnosi  preimpianto  è  stata  resa  possibile  grazie  ai  finanziamenti  di  Telethon,  che  se  ne  è  rallegrata.  In  passato,  alcune  emittenti  televisive  di  Telethon  avevano  già  presentato  “babythons”,  ossia  bambini  nati  senza  malattie  grazie  alla  diagnosi  prenatale.  Il  passo  successivo  ha  avuto  inizio  con  la  presa  di  posizione  di  Telethon  a  favore  della  ricerca  sulle  cellule  staminali  embrionali  e  sulla  clonazione  terapeutica[3].        COSTI  SEMPRE  PIÙ  ELEVATI,  MAL  REGOLATI  DAL  MERCATO      L’aumento  delle  spese  sanitarie  è  in  gran  parte  legato  all’incremento  delle  attività  sanitarie  per  malattie  che  potrebbero  essere  denominate  “civilizzazionali”  derivanti,  cioè,  dalla  domanda  di  benessere  sopra  descritta.  Finora  la  politica  seguita  è  stata  quella  di  far  ricadere  la  responsabilità  sulla  professione  medica  accusata  di  esagerare  nell’attività  terapeutica  e  di  prescrivere  troppo.  In  realtà,  l’incremento  delle  attività  di  assistenza  sanitaria  è  il  risultato  di  un  cambiamento  della  natura  della  salute  e  di  un  suo  slittamento  verso  la  cura  delle  cosiddette  malattie  “civilizzazionali”.  È  l’esito  fatale  dell’alleanza  tra  scientismo  e  mercato.      

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La  comparsa  di  nuovi  malati:  le  malattie  della  civilizzazione      Bisogna  constatare  che  la  libertà  insieme  a  certe  abitudini  morali,  ambientali  e  sociali,  si  traduce  nell’insorgenza  di  numerose  malattie  o  “malesseri”  che  in  passato  erano  rare  o  sconosciute,  così  come  continuano  ad  essere  nei  paesi  poveri.  I  sistemi  sanitari  si  fanno  carico  di  queste  patologie  solo  da  un  punto  di  vista  curativo,  senza  considerare  la  loro  eziologia  che  rimane  quindi  non  trattata.  Così,  per  quanto  riguarda  le  persone  anziane,  il  principale  problema  di  salute  pubblica  è  ridurre  il  numero  dei  ricoveri  dovuti  agli  effetti  secondari  dei  trattamenti  legati  all’assunzione  di  troppi  farmaci.  Per  quanto  riguarda  le  donne  giovani,  l’obbiettivo  di  salute  pubblica,  è  la  prevenzione  delle  carenze  socio-­‐affettive  e  le  loro  conseguenze:  anoressia  e  obesità.  Per  i  bambini,  la  questione  riguarda  la  prevenzione  dei  disturbi  legati  ai  rapporti  familiari,  l’identificazione  e  l’assistenza  dei  casi  di  maltrattamento.  Gli  studenti  delle  scuole  medie  e  superiori  sono  seguiti  per  evitare  abitudini  che  portano  a  dipendenza  (alcol,  tabacco,  droghe).  Sono  già  stati  programmati  piani  educativi  per  la  contraccezione  e  il  ricorso  alla  contraccezione  d’emergenza  (abortiva)  per  ridurre  l’incidenza  degli  aborti.  Per  i  giovani  alle  prime  esperienze  si  aggiungerà  anche  una  protezione  contro  il  rischio  di  suicidio  e  contro  l’esposizione  all’HIV  e  alle  malattie  sessualmente  trasmesse.  La  medicalizzazione  della  vita,  divenuto  un  fenomeno  diffuso  nei  paesi  sviluppati,  solleva  problemi  particolari  in  relazione  ai  disturbi  mentali  e  ai  disordini  del  comportamento.  Il  centro  della  questione  sono  le  nozioni  di  benessere  e  di  dipendenza.  Sembra  che  ci  sia  stato  uno  slittamento  dalla  cura  dei  malati  alla  cura  di  coloro  che  sono  in  buona  salute,  ma  che  hanno  dei  problemi,  e  quindi  alla  cura  di  persone  sane  col  fine  di  facilitarne  la  vita.  Tuttavia  bisogna  sapere  se  il  ruolo  della  cura  sia  quello  di  dare  a  questi  pazienti  una  “gioia  di  vivere”  costante,  ostacolata  da  uno  sviluppo  tecnologico  slegato  da  qualsiasi  principio  etico.  I  pazienti  non  si  aspettano  forse  dagli  antidepressivi  ciò  che  sono  soliti  aspettarsi  dalle  vacanze?  Tutto  ha  un  costo  elevato:  lo  sviluppo  personale,  la  riconquista  di  sé,  l’apparenza  di  felicità,  il  bisogno  di  agire  e  le  prestazioni  nel  lavoro,  nello  studio  e  nello  sport[4].  In  una  società  guidata  da  principi  morali,  la  questione  è  sapere  se  qualcosa  sia  permessa  o  no  e  se  sia  conforme  al  bene  comune.  Nelle  società  individualistiche  ed  edonistiche  la  questione  è  invece  sapere  se  ciascuno  sarà  in  grado  o  meno  di  arrivare  ai  confini  dei  propri  desideri  e  di  ciò  che  è  possibile  ottenere.  Il  riferimento  a  ciò  che  è  permesso  cede  il  passo  al  riferimento  a  ciò  che  è  possibile,  ma  i  danni  collaterali  sono  ingenti  per  le  società  coinvolte[5].  Il  mercato  non  solo  non  è  in  grado  di  dare  significato  a  questa  evoluzione,  ma  neanche  di  razionalizzarla.  Sembra  che  ci  si  sia  dimenticati  che  la  legge  naturale  non  può  essere  impunemente  violata  senza  pagare  un  prezzo  molto  alto  per  la  salute  dell’uomo.      Una  mancanza  di  regolamentazione  dal  mercato      Nei  paesi  sviluppati,  la  sanità  sta  per  essere  mandata  in  rovina  dai  prevalenti  interessi  economici?  Le  illusioni  legate  alle  biotecnologie  sembrano  accompagnare  l’inizio  del  millennio.  A  breve,  grazie  alle  cellule  staminali  embrionali  e  alla  clonazione  umana,  si  potranno  comprare  anni  di  vita  addizionali,  una  rinnovata  giovinezza,  migliori  performance  sessuali,  una  discendenza  senza  difetti,  un’euforia  permanente  prima  di  una  conclusione  dell’esistenza  che  arriva  senza  accorgersene.  Da  questo  punto  di  vista  la  salute  è  un  mezzo  o  un  fine?  La  salute  come  benessere  e  la  salute  come  confort  non  sono  forse  identificate,  in  una  parodia  della  visione  beatifica,  con  la  salute  individuale,  con  un  Paradiso  ritrovato?  La  visione  liberale,  legittimata  come  nessun’altra,  ci  assicura  che  la  libertà  illimitata  del  mercato  rappresenta  la  nostra  migliore  opportunità  di  incrementare  la  ricchezza  collettiva  e  che  ad  essa  dobbiamo  la  nostra  agiatezza,  il  nostro  

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benessere  e  la  nostra  salute.  Garantire  i  consumi  equivale  a  garantire  la  ricostituzione  costante  della  forza  lavoro  cosicché  il  sistema  non  sarà  paralizzato  dai  problemi  di  salute  dei  lavoratori.  In  questo  modo,  la  salute  è  diventata  anche  un  diritto  individuale  proporzionale  al  dovere  di  darsi  completamente  al  progresso  economico.  La  salute  è  stata  anche  identificata  con  la  capacità  di  guadagnarsi  di  che  vivere.  Gli  incidenti  e  la  malattia  sono  considerati  come  tributi  che  gli  individui  pagano  alla  crescita  economica.  Per  questo  motivo  la  società  deve  prendersi  cura  di  loro.  Ma  ora  che  la  parte  ricca  dell’umanità  è  sazia  di  prodotti  dell’assistenza  sanitaria  primaria,  deve  spostare  l’orizzonte.  Oggi  le  fantasie  associate  allo  sviluppo  della  genetica  e  della  terapia  cellulare  assegnano  un  nuovo  obbiettivo  al  liberalismo  economico  per  farlo  uscire  dalla  crisi.  Tale  obbiettivo  non  è  forse  il  “nuovo  paradigma  della  salute”?  Cinquanta  anni  fa,  parlavamo  della  spesa  sanitaria.  Domani  non  parleremo  forse  della  ricchezza  che  produce  la  sanità?  L’economia  ha  superato  l’etica.        NEI  PAESI  IN  VIA  DI  SVILUPPO  LA  GESTIONE  DELLA  SANITÀ  È  PENALIZZATA  DALL’OFFERTA      È  chiaro  che  tutte  le  possibilità  offerte  dal  mercato  della  salute  nel  vasto  sistema  consumistico  che  abbiamo  descritto,  sono  alla  portata  solo  di  una  minoranza.  Un’offerta  di  questo  tipo  non  sarà  mai  resa  disponibile  a  tutti  gli  esseri  umani  del  pianeta  che  non  siano  paganti.  Nei  paesi  del  Sud,  i  primi  settori  ad  essere  sacrificati  sono  quelli  della  salute  e  dell’educazione.  Ma  l’arretratezza  di  questi  paesi  non  deriva  dalla  scarsità  delle  risorse  del  mondo  –  queste  ci  sono  –  ma  piuttosto  da  una  loro  iniqua  distribuzione,  o  anche  dall’appropriazione  di  queste  da  parte  dei  paesi  ricchi.  Non  è  un’esagerazione  dire  che  le  istituzioni  internazionali  per  lo  sviluppo  hanno  fatto  pagare  ai  paesi  del  Terzo  Mondo  le  loro  esitazioni  ideologiche,  mentre  la  gestione  della  sanità  in  questi  paesi  è  attualmente  vittima  di  varie  forme  di  pirateria.      La  sanità  dei  paesi  in  via  di  sviluppo  a  rischio  di  ideologie      Negli  ultimi  cinquant’anni,  le  organizzazioni  internazionali  hanno  raccomandato  la  realizzazione  di  ampi  programmi  sanitari  nei  paesi  in  via  di  sviluppo  per  assicurare  l’accesso  della  popolazione  ad  un  livello  minimo  di  cure.  I  vari  approcci  proposti  hanno  raggiunto  il  loro  obbiettivo  in  maniera  assolutamente  iniqua.  Le  ideologie  di  fondo  di  questi  approcci  non  sono  estranee  a  questo  fallimento.      La  Dichiarazione  di  Alma-­‐Ata:  l’illusione  socialista      La  conferenza  internazionale  organizzata  dall’OMS  e  dall’UNICEF  nel  1978,  ha  rappresentato  una  vera  svolta  nella  realizzazione  di  programmi  sanitari  nei  paesi  in  via  di  sviluppo.  La  solenne  dichiarazione  proclamata  in  quella  occasione  invitava  tutti  i  paesi  a  fare  della  promozione  dell’assistenza  sanitaria  primaria  il  fulcro  dello  sviluppo  dei  sistemi  sanitari.  La  questione  era  quella  di  assicurare  l’accesso  a  tutte  le  persone  ad  un  livello  di  salute  soddisfacente  entro  l’anno  2000.  Lo  slogan  “Salute  per  tutti  nell’anno  2000”  divenne  un  motto  per  le  politiche  sanitarie  nei  paesi  in  via  di  sviluppo  in  generale  e  in  Africa  in  particolare.  I  paesi  sviluppati  non  presero  parte  a  questo  movimento  che  fu  di  fatto  voluto  per  i  paesi  poveri  del  pianeta.  L’atmosfera  degli  anni  ’70,  sulla  scia  degli  eventi  del  maggio  del  ’68,  era  caratterizzata  dalle  immagini  progressiste  dei  popoli  svantaggiati  liberati  dal  potere  dei  ricchi,  dei  saperi  popolari  più  assennati  delle  illusioni  del  mondo  moderno,  e  della  cultura  tradizionale  più  sana  dell’alienazione  del  denaro…  La  caratteristica  principale  di  questa  scelta  dell’assistenza  sanitaria  

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primaria  era  quindi  rappresentata  dalla  partecipazione  della  gente  al  miglioramento  della  propria  salute  attraverso  attività  che  potevano  essere  realizzate  nei  villaggi  e  nelle  vicine  periferie  urbane  senza  il  bisogno  della  presenza  di  persone  specializzate.  La  grande  copertura  mediatica  dei  comuni  popolari  della  Cina  e  il  successo  dei  combattenti  vietnamiti  contro  l’esercito  americano  fu,  per  un’intera  generazione,  la  dimostrazione  schiacciante  che  la  chiave  dello  sviluppo  dei  paesi  poveri  si  trovava  nell’impegno  della  gente  verso  obbiettivi  comuni  e  che  era  possibile  per  loro  liberarsi  del  sottosviluppo  con  le  proprie  forze.  Al  contrario,  l’appropriazione  della  medicina  da  parte  di  professionisti  della  salute,  ospedali  specializzati  e  tecnologie  sempre  più  perfezionate  fu  riservata  alle  minoranze  più  ricche  e  denunciata  come  fonte  di  esclusione  dei  paesi  poveri.  Ci  fu  una  illusione  rivoluzionaria,  tra  i  militanti  del  Terzo  Mondo,  nell’immaginare  che  poteva  realizzarsi  un’assistenza  sanitaria  per  tutti  a  breve  termine  secondo  i  modelli  dei  medici  scalzi  della  Cina.  A  questo  grande  movimento  in  favore  della  salute  per  tutti  presero  parte  anche  ONG,  agenzie  specializzate  delle  Nazioni  Unite,  la  Banca  Mondiale,  l’Unione  Europea  e  la  gran  parte  di  organizzazioni  bilaterali.  Per  cui  furono  formati  centinaia  di  migliaia  di  professionisti  di  pronto  soccorso,  levatrici  nei  villaggi  e  terapisti  tradizionali  e  si  misero  in  piedi  decine  di  migliaia  di  farmacie  di  villaggio.  Tuttavia  un  gran  numero  di  programmi  e  progetti  fallì.  I  fondi  erano  insufficienti,  gli  operatori  sanitari  erano  stati  formati  ed  equipaggiati  in  maniera  inadeguata  per  i  problemi  che  erano  stati  chiamati  a  risolvere  e  la  qualità  delle  cure  era  scarsa.  In  via  generale,  l’illusione  di  Alma-­‐Ata  fu  quella  di  gestire  la  sanità  dei  paesi  poveri  sulla  base  di  un  modello  di  assistenza  sanitaria  elaborato  solo  idealmente,  ma  inappropriato  e  insufficiente  nella  realtà.  L’errore,  da  parte  delle  organizzazioni  internazionali,  fu  quello  di  inventare  “modelli”  ideologici  ed  imporli  agli  stati  beneficiari,  senza  tenere  sufficientemente  in  considerazione  il  bene  delle  persone.      L’iniziativa  di  Bamako:  la  disillusione  liberale      Alla  metà  degli  anni  ’80,  dopo  aver  preso  atto  delle  difficoltà  in  cui  di  trovavano  i  servizi  di  assistenza  sanitaria  primaria,  si  raggiunse  un  consenso,  tra  le  istituzioni  internazionali,  sulla  necessità  che  gli  stessi  utenti  si  facessero  carico  almeno  di  una  parte  delle  spese  sanitarie.  Fu  James  Grant,  direttore  dell’UNICEF,  a  lanciare  questa  idea  col  nome  di  “iniziativa  di  Bamako”.  Tale  iniziativa  fu  adottata  nel  1978  dalla  37o  Comitato  Regionale  dell’OMS.  Il  principio  di  base  era  il  seguente:  la  vendita  diretta  agli  utenti  di  farmaci  generici  a  prezzo  ribassato  e  rivenduti  con  un  margine  di  profitto  dovrebbe  assicurare  la  ripresa  dell’approvvigionamento  medico  e  la  copertura  dei  costi  d’esercizio  delle  strutture  sanitarie.  Per  questo,  l’iniziativa  di  Bamako  portò  ad  abbandonare  la  gratuità  e  il  finanziamento  della  sanità  con  risorse  di  bilancio,  storicamente  privilegiato.  Volenti  o  nolenti,  tutti  i  paesi  si  adeguarono  verso  la  metà  degli  anni  ’90.  Confrontando  gli  obbiettivi  con  i  risultati  osservati  durante  gli  ultimi  dieci  anni,  si  può  fare  un  moderato  bilancio  dell’iniziativa.  Sebbene  i  fondi  ottenuti  in  questo  contesto  abbiano  reso  possibile  un  certo  recupero  per  i  paesi  meno  avanzati,  la  maggior  parte  dei  problemi  non  è  stata  risolta.  Allo  stesso  tempo  gli  anni  ’80  hanno  portato  un  periodo  di  crisi  economica  globale  in  Africa  alla  quale  i  paesi  industrializzati  hanno  risposto  con  una  serie  di  aggiustamenti  noti  come  “programmi  di  aggiustamento  strutturale”  organizzati  dal  Fondo  Monetario  Internazionale  e  dalla  Banca  Mondiale.  In  questo  modo  le  istituzioni  internazionali  hanno  trasformato  in  maniera  globale  le  economie  dei  paesi  del  Terzo  Mondo  per  adattarle  ai  bisogni  del  mercato  mondiale.  A  quel  tempo  la  maggior  parte  dei  paesi  in  via  di  sviluppo,  fortemente  indebitati,  non  aveva  altra  scelta  se  non  quella  di  accettare  le  condizioni  dei  prestiti  elargiti  da  queste  istituzioni.  Fu  in  

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questo  contesto,  e  per  compensare  l’assenza  di  finanziamenti  pubblici  in  ambito  sanitario,  che  nacque  l’iniziativa  di  Bamako.  Di  fatto,  il  sistema  finanziario  messo  in  piedi  era  destinato  al  collasso:  dato  che  il  tasso  di  frequenza  delle  strutture  sanitarie  non  aumentava  e  le  spese  subivano  un  incremento,  il  tasso  di  recupero  per  le  prestazioni  diminuiva.  Ma  soprattutto,  dal  punto  di  vista  della  popolazione,  il  principio  di  recupero  dei  costi  –  esteso  a  tutti  i  servizi  sanitari  –  portò  all’esclusione  dei  più  svantaggiati  dal  sistema  assistenziale.  Quindi  si  poteva  notare  come  più  il  paese  era  povero,  più  gli  abitanti  erano  obbligati  a  pagare  per  la  propria  assistenza  sanitaria.  Inoltre,  non  sempre  si  è  ottenuto  il  miglioramento  della  qualità  dei  servizi  sanitari  assistenziali,  quindi  dell’offerta,  che  si  pensava  sarebbe  andato  di  pari  passo  con  il  principio  del  pagamento  di  questi  servizi.  Nessun  fattore  indica  un  miglioramento  degno  di  nota  dello  stato  di  salute  delle  persone  dovuto  all’iniziativa  di  Bamako.  Gli  anni  ’90  sono  stati  caratterizzati  da  approcci  settoriali  nei  paesi  in  cui  l’aiuto  esterno  ha  contribuito  ampiamente  a  finanziare  i  sistemi  sanitari.  Al  di  là  degli  ovvi  vantaggi  degli  approcci  settoriali,  questi  sono  esposti  al  rischio  di  coalizione  dei  finanziatori  in  cui  uno  di  loro  può  avere  un  ruolo  dominante  nella  determinazione  dell’offerta.  È  stato  durante  questo  periodo  che  la  Banca  Mondiale  è  diventata  il  primo  finanziatore  pubblico  nell’area  sanitaria.  Di  fatto,  ci  fu  un  trasferimento  di  competenze  e  responsabilità  dall’OMS  alla  Banca  Mondiale  per  le  questioni  riguardanti  la  salute,  a  causa  del  quale  l’OMS  ha  dovuto  fronteggiare  una  crisi  di  affidabilità  e  credibilità.  Tuttavia,  i  progetti  settoriali  finanziati  dalla  Banca  Mondiale  hanno  avuto  difficoltà  nella  fase  di  realizzazione.  L’efficacia  degli  interventi  della  Banca  Mondiale  nell’area  sanitaria  poteva  essere  migliorata  favorendo  il  partenariato  con  molti  altri  attori  dell’ambito  sanitario[6].  L’OMS,  inoltre,  nel  suo  ultimo  rapporto,  fa  espresso  riferimento  alle  associazioni  confessionali  per  la  realizzazione  di  approcci  settoriali.  Tutto  sommato,  gli  aspetti  economici  non  sono  l’unico  fattore  di  esclusione  dall’accesso  all’assistenza  sanitaria,  eccetto  che  per  le  persone  con  reddito  molto  basso  o  addirittura  senza  reddito.  Sembra  che  l’esclusione  si  possa  attribuire  innanzitutto  alla  qualità  delle  strutture  sanitarie.  Né  la  dichiarazione  di  Alma-­‐Ata,  né  l’iniziativa  di  Bamako,  e  neppure  gli  approcci  settoriali  sono  stati  in  grado  di  strutturare  e  rafforzare  la  qualità  dell’offerta  sanitaria.  L’ideologia  sottostante  ai  singoli  interventi  delle  organizzazioni  internazionali  a  favore  del  Terzo  Mondo,  indipendentemente  dall’ispirazione  socialista  o  liberale,  non  hanno  mai  sufficientemente  messo  le  persone  al  centro  della  gestione  sanitaria.        LA  SALUTE  DEI  PAESI  POVERI  A  RISCHIO  DI  PIRATERIA      Anche  il  controllo  sulle  ricchezze  biologiche  del  pianeta  è  stato  oggetto  di  un  conflitto  storico  tra  i  paesi  sviluppati  e  quelli  in  via  di  sviluppo.  La  lotta  per  il  controllo  delle  risorse  biologiche  ha  occupato  a  lungo  l’agenda  dei  convegni  della  FAO.  Il  fatto  che  la  vita  sia  diventata  brevettabile  è  una  caratteristica  dell’era  biotecnologica  ed  è  all’origine  di  una  feroce  competizione  tra  le  multinazionali  che  vogliono  ampliare  la  loro  fetta  di  mercato  e  rafforzare  la  loro  competitività  a  detrimento,  a  volte,  dei  paesi  più  poveri.  La  possibilità  di  autorizzare  la  cosiddetta  clonazione  terapeutica,  che  è  attualmente  oggetto  di  tentativi  di  pirateria  giuridica  presso  le  Nazioni  Unite,  non  rassicura  certo  questi  paesi.      

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Pirateria  biologica:  privatizzazione  del  patrimonio  biologico  dei  paesidel  Sud      Il  conflitto  che  oppone  le  multinazionali  del  Nord  ai  paesi  del  Sud  del  mondo  sul  controllo  del  patrimonio  biologico  mondiale,  promette  di  diventare  una  delle  principali  battaglie  economiche  ed  etiche  dell’era  biotecnologica.  Le  multinazionali  finanziano  spedizioni  in  tutto  l’emisfero  meridionale  in  cerca  di  rare  caratteristiche  genetiche  o  biologiche  da  trasformare  in  valore  commerciale.  La  posta  in  gioco  in  questa  ricerca  –  il  cui  obbiettivo  è  arrivare  a  nuovi  farmaci  –  è  considerevole.  Non  è  questione  di  essere  contrari  alla  brevettabilità  di  procedure  o  tecnologie,  ma  piuttosto  ciò  che  è  inaccettabile  è  la  possibilità  di  brevettare  la  vita  stessa  o  frammenti  di  organismi  viventi.  I  paesi  del  Sud  del  mondo  percepiscono  che  queste  scoperte  rappresentano  un  vero  atto  di  pirateria  nei  confronti  del  loro  patrimonio,  anche  se  le  industrie  producono  un  certo  valore  aggiunto  attraverso  la  manipolazione  di  geni  che  codificano  per  alcune  proteine  particolari.  In  questo  modo,  un  farmaco  prodotto  da  un’industria  farmaceutica  sulla  base  di  una  risorsa  biologica  dell’Africa,  per  esempio  -­‐  risorsa  già  localmente  conosciuta  e  usata  come  tale  -­‐  può  diventare  proprietà  dell’industria  ed  essere  rivenduto  –  sotto  forma  di  prodotto  brevettato  –  anche  al  paese  dal  quale  proviene.  Nel  tentativo  di  limitare  la  sempre  più  ferma  opposizione,  le  multinazionali  stanno  tentando  di  imporre  un  regime  uniforme  di  proprietà  industriale  che  avrà  valore  giuridico  in  tutto  il  mondo  e  che  darà  loro  accesso  a  tutte  le  risorse  biologiche  e  genetiche  del  pianeta,  garantendo  allo  stesso  tempo  protezione  per  i  prodotti  della  loro  manipolazione.  Naturalmente  queste  nuove  forme  di  colonialismo  sono  regolarmente  denunciate  nelle  maggiori  conferenze  internazionali  dedicate  ai  brevetti.  Inoltre  i  tentativi  di  appropriazione  della  materia  vivente  sono  oggetto  di  trattative  in  seno  a  istituzioni  internazionali  (OMC,  FMI,  UNDP)  nonostante  le  assicurazioni  di  voler  “umanizzare”  la  mondializzazione  e  le  sue  conseguenze.  I  paesi  in  via  di  sviluppo  stanno  cominciando  a  capire  che  non  sono  più  le  materie  prime  del  passato  l’oggetto  di  appropriazione,  ma  piuttosto  il  patrimonio  genetico  e  cellulare  dell’uomo  stesso.  Secondo  le  informazioni  dell’organizzazione  mondiale  della  proprietà  intellettuale,  nel  1996  privati  e  industrie  dei  paesi  industrializzati,  in  tutti  i  settori,  detenevano  il  95%  dei  brevetti  dell’Africa  e  il  70%  di  quelli  dell’Asia.  Questo  andamento  è  particolarmente  allarmante  quando  coinvolge  l’industria  farmaceutica  e  attraverso  le  leggi  sui  brevetti  porta  a  penalizzare  l’accesso  dei  paesi  del  Sud  ai  farmaci  o  agli  screening  di  patologie.  Il  conflitto  che  vede  contrapposti  alcuni  paesi  poveri  alle  industrie  che  detengono  il  monopolio  sui  farmaci  (specialmente  quelli  contro  l’AIDS)  o  su  alcuni  geni  (tumore  del  seno)  si  inasprisce  sempre  di  più.  Il  risultato  di  questa  battaglia  etica  su  una  delle  più  grandi  sfide  alla  legge  naturale  ha  evidentemente  ripercussioni  immediate  sull’economia  e  sulle  conseguenze  della  gestione  sanitaria  dei  paesi  poveri.      Pirateria  giuridica:  i  tentativi  di  autorizzare  la  clonazione  al  livello  delle  Nazioni  Unite      Il  6  novembre  2003,  in  seguito  ad  animate  discussioni,  la  Sesta  (legale)  Commissione  delle  Nazioni  Unite  decise  di  rimandare  l’esame  della  proposta  di  elaborare  una  convenzione  internazionale  contro  la  clonazione  degli  esseri  umani,  anche  se  la  maggioranza  dei  paesi  presenti  era  contraria  alla  clonazione  e  nonostante  ci  fosse  bisogno  urgente  di  un  voto  sulla  convenzione.  Alcuni  paesi  sviluppati  sperano  di  autorizzare  realmente  la  clonazione  di  embrioni  umani  (cosiddetta  clonazione  terapeutica)  per  continuare  una  sperimentazione  a  buon  mercato  e  

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liberarsi  da  qualsiasi  regolamentazione  etica,  anche  se,  in  realtà,  le  prospettive  terapeutiche  sono  molto  ridotte.  Fortunatamente,  la  maggior  parte  dei  paesi  del  mondo  –  in  particolare,  i  paesi  in  via  di  sviluppo,  i  paesi  islamici,  gli  Stati  Uniti  e  il  Vaticano  -­‐  sperano  in  una  pura  e  semplice  proibizione  di  qualsiasi  forma  di  clonazione  umana.  Pertanto,  la  piccola  lobby  dei  paesi  ricchi  e  quelli  meno  attenti  all’esigenza  etica  hanno  fatto  in  modo  di  rimandare  la  discussione  con  la  speranza  di  guadagnare  tempo  per  comprare  i  voti  dei  paesi  poveri  e  per  cambiare  la  bilancia  del  potere.  La  clonazione  umana,  indipendentemente  dall’obbiettivo,  rappresenta  un’evoluzione  estremamente  problematica  delle  biotecnologie.  In  tutte  le  sue  forme,  essa  è  intrinsecamente  contraria  all’etica  e  costituisce  un  pericoloso  precedente.  I  paesi  più  svantaggiati  non  sono  i  meno  esposti  a  questi  pericoli,  per  varie  ragioni.  Prima  di  tutto,  se  si  autorizza  la  cosiddetta  clonazione  terapeutica,  si  rischia  di  trasformare  il  corpo  della  donna  in  merce.  Sarà  necessario  abusare  e  pagare  molte  candidate  affinchè  si  sottomettano  a  rischiosi  trattamenti  medici  per  produrre  la  gran  quantità  di  ovuli  necessari  per  la  clonazione.  Sicuramente,  per  ragioni  economiche,  le  donne  dei  paesi  poveri  saranno  l’obbiettivo  prioritario  di  questo  prevedibile  sfruttamento.  In  secondo  luogo,  gli  stessi  paesi  poveri,  le  cui  capacità  di  regolamentazione  e  controllo  sono  spesso  carenti,  saranno  scelti  per  la  delocalizzazione  delle  industrie  biotecnologiche  dedicate  alla  cosiddetta  clonazione  terapeutica  su  larga  scala.  Una  volta  prodotti  in  questo  modo  gli  embrioni  clonati,  sarà  praticamente  impossibile  controllarne  l’impiego.  Si  possono  organizzare  riserve  di  cloni  embrionali;  si  possono  comprare  e  vendere,  anche  trafficare,  senza  che  nessuno  ne  sappia  nulla.  L’impianto  illecito  di  questi  embrioni,  facile  da  realizzare,  sarà  praticato  clandestinamente  senza  conseguenze  per  chi  si  macchia  di  questo  crimine.  Infine,  non  va  dimenticato  che  la  clonazione  è  pericolosa  poiché  le  cellule  embrionali  trapiantate  non  possono  essere  controllate  dall’organismo  ricevente  e  producono  cancro.  E  quindi,  su  quali  organismi,  in  quali  condizioni,  e  davanti  a  quali  false  promesse  questi  tentativi  di  trapianto  di  cellule  provenienti  da  cloni  verranno  sperimentati  nei  paesi  poveri?  Ma  soprattutto,  i  fondi  investiti  in  queste  tecniche  non  potranno  essere  investiti  in  altri  campi.  L’effetto  della  distrazione  dei  fondi  penalizzerà  la  ricerca  sulla  terapia  cellulare  basata  sulle  cellule  staminali  adulte,  che  non  solleva  alcun  problema  etico  e  riguarda  possibilità  terapeutiche  reali.  Questo  penalizzerà  anche  la  realizzazione  di  programmi  settoriali  di  aiuto  riguardanti  i  bisogni  sanitari  primari  dei  paesi  in  via  di  sviluppo.  Per  tutti  questi  motivi,  è  importante  sostenere,  nella  resistenza  a  questi  tentativi  di  pirateria  giuridica  in  sede  ONU,  chi  deve  prendere  le  decisioni  nei  paesi  in  via  di  sviluppo.  In  conclusione,  sembra  difficile  non  accorgersi  che  due  considerazioni  sono  quasi  sempre  assenti  dalle  preoccupazioni  sanitarie  nel  mondo:  cioè,  il  bene  integrale  della  persona,  da  un  lato,  e  la  morte,  dall’altro.  Non  ci  si  interroga  mai  su  cosa  significhi  il  “bene”  dell’uomo.  Al  contrario,  si  ha  la  sensazione  che  sia  i  sistemi  sanitari  che  rispondono  alla  domanda,  sia  quelli  che  impongono  un’offerta  non  tengano  conto  di  ciò  che  è  dovuto,  perché  è  dovuto  e  come,  alla  persona  umana.  Complessivamente,  i  sistemi  sanitari  propongono  o  impongono  soluzioni,  ma  dimenticano  quale  sia  la  questione.  Le  considerazioni  sulla  morte  non  fanno  più  parte  della  discussione.  Come  si  può  costruire  un  sistema  sanitario  coerente  e  funzionale,  che  non  sia  una  fuga  in  avanti,  se  i  suoi  ideatori  sono  spaventati  al  pensiero  di  parlare  della  morte?  La  verità  sulla  morte  non  dà  invece  significato  al  sistema  di  assistenza  sanitaria  e  non  guida  forse  le  sue  scelte?  “Nasciamo  e  moriamo:  nasciamo  per  morire  perché  cominciamo  dal  morire  per  nascere”[7].  

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 [1]  Alcuni  anni  fa  ho  partecipato  ad  una  conferenza  insieme  ad  un  noto  ginecologo  francese,  ex  presidente  dell’Accademia  di  Medicina.  Pur  ritenendosi  cattolico  praticante,  egli  affermò  di  essere  pronto  ad  usare  metodi  di  clonazione  su  qualsiasi  donna  che  lo  avesse  richiesto.  Il  medico  sosteneva  la  sua  posizione  ‘compassionevole’  con  un  argomentazione  molto  precisa:  da  quando  si  sono  sviluppate  le  varie  tecniche  di  procreazione  medicalmente  assistita,  i  loro  benefici  non  sono  mai  stati  rifiutati  a  nessuna  donna  che  ne  avesse  fatto  richiesta.  Nessuno  s’è  mai  arrischiato  a  giudicare  le  richieste  delle  donne.  [2]  Nature,  March  1997.  [3]  Ho  assistito  all’elaborazione  del  consenso  su  questo  argomento  in  Francia.  Innanzitutto,  furono  selezionati  rappresentanti  di  malati  per  ricevere  da  alcuni  esperti,  a  porte  chiuse,  informazioni  sulla  terapia  cellulare.  Tutti  gli  esperti  erano  favorevoli  all’uso  di  embrioni.  In  un  secondo  momento,  i  rappresentanti  dei  pazienti  e  gli  esperti  si  incontrarono  davanti  al  pubblico  e  ai  media.  Il  moderatore  del  dibattito  chiese  ai  rappresentanti  dei  malati  se  volevano  essere  curati.  Alla  loro  risposta  affermativa,  si  rivolse  agli  esperti  e  chiese  loro  cosa  proponevano:  l’uso  di  cellule  embrionali.  Dato  che  tutti  erano  d’accordo,  invitò  i  rappresentanti  dei  malati  ad  elaborare  delle  raccomandazioni  su  questa  linea  per  il  governo  e  il  parlamento.  Il  commento  della  stampa  sulle  Raccomandazioni  cominciava  così:  “I  malati  chiedono  che…”.  Alcuni  mesi  più  tardi,  il  voto  sulla  legge  di  bioetica,  diede  loro  soddisfazione.  [4]  La  diffusione  della  nozione  di  “doping”  ne  è  la  pefetta  dimostrazione:  l’uso  di  sostanze  che  migliorano  le  prestazioni,  conformi  ad  uno  stile  di  vita  caratterizzato  da  un  costante  superamento  di  se  stessi.  [5]  Per  non  parlare  del  sangue  contaminato  e  dell’AIDS,  della  mucca  pazza  e  del  morbo  di  Creutzfeldt-­‐Jacob.  [6]  Questo  è  ciò  che  emerge  da  una  conversazione  che  ho  avuto  con  il  Presidente  della  Repubblica  del  Senegal,  a  Dakar  lo  scorso  4  agosto.  Riguardo  all’HIV/AIDS,  il  Presidente  Abdoulaye  Wade  mi  confermò  che  l’Africa  non  aveva  bisogno  di  ulteriori  finanziamenti,  ma  di  assistenza  concreta  per  la  realizzazione  di  progetti  sul  territorio.  [7]  San  Bernardo  di  Clervaux,  Trattato  dei  diversi  gradi  dell’umiltà  e  dell’orgoglio.  

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MICHEL  SCHOOYANS      “SALUTE  RIPRODUTTIVA”  E    POLITICHE  DEMOGRAFICHE  IL  CASO  DELL’OMS    In  questa  relazione,  limitata  per  spazio,  è  ovviamente  impossibile  esplorare  gli  innumerevoli  documenti  in  cui  gli  organismi  internazionali,  pubblici  o  privati,  prendono  in  considerazione  la  questione  della  “salute  riproduttiva”.  Concentreremo  quindi  la  nostra  analisi  su  un  dossier  pubblicato  dall’Organizzazione  Mondiale  della  Sanità  nel  2004[1]  dedicato  esplicitamente  a  questo  problema.  Il  testo  è  intitolato,  Salute  Riproduttiva  (Reproductive  Health).[2]  Il  termine  salute  riproduttiva,  che  generalmente  è  tradotto  in  francese  con  santé  reproductive,  o  santé  génésique,  è  comparso  circa  quarant’anni  fa  nei  testi  di  diverse  agenzie  delle  Nazioni  Unite  come  l’OMS,  il  Fondo  per  la  popolazione  (UNFPA),  il  Fondo  per  i  bambini  (UNICEF),  il  Programma  per  l’AIDS  (UNAIDS/ONUSIDA),  il  Programma  per  lo  sviluppo  (UNDP),  la  Banca  Mondiale,  ecc.  Noi  useremo  l’espressione  “salute  riproduttiva”  (“santé  reproductive”).  Tale  termine  si  è  ampiamente  diffuso  a  partire  dal  1994,  anno  della  Conferenza  del  Cairo  dedicata  al  tema:  Popolazione  e  Sviluppo.  Il  termine  è  stato  anche  al  centro  della  Conferenza  di  Pechino  sulla  Donna  nel  1995.  Si  potrebbe  pensare  che  l’espressione  indichi  essenzialmente  l’assistenza  preventiva  e  le  cure  disponibili  per  le  donne  durante  la  gravidanza  o  durante  e  dopo  il  parto  o  anche  il  trattamento  terapeutico  disponibile  nei  casi  di  sterilità  o  di  malattie  sessualmente  trasmesse.  In  realtà  l’espressione  ‘salute  riproduttiva’  è  un  prodotto  tipico  di  ingegneria  verbale  e  assume  vari  significati.  Può  avere  le  accezioni  appena  menzionate,  ma  si  può  riferire  anche  alla  contraccezione,  all’aborto  sicuro,  ad  un  certo  tipo  di  educazione  sessuale  per  adolescenti  e  ad  un  cambiamento  nelle  legislazioni  e  nelle  mentalità.  Nella  prima  parte  della  nostra  relazione  prenderemo  come  punto  di  riferimento  il  documento  sulla  Salute  Riproduttiva  che  abbiamo  menzionato.  Riporteremo  letteralmente  alcuni  brani  significativi  tratti  da  questo  documento.[3]  In  seguito  analizzeremo  alcuni  aspetti  politici  della  salute  riproduttiva.  Infine  analizzeremo,  dal  punto  di  vista  etico,  questo  atteggiamento  verso  la  salute.        PRESENTAZIONE  DEL  DOCUMENTO      Una  strategia  per  la  salute  riproduttiva  secondo  l’OMS      Il  rapporto  mette  in  risalto  la  definizione  di  salute  riproduttiva  nata  in  seno  alla  Conferenza  del  Cairo.  Riportiamo  di  seguito  il  testo  ti  tale  definizione:  “La  salute  riproduttiva  è  uno  stato  di  completo  benessere  fisico,  mentale  e  sociale,  e  non  soltanto  assenza  di  malattia  o  infermità,  in  tutti  i  contesti  riguardanti  il  sistema  riproduttivo,  le  sue  funzioni  e  i  suoi  processi.  La  salute  riproduttiva  quindi  implica  che  le  persone  siano  in  grado  di  avere  una  vita  sessuale  soddisfacente  e  sicura  e  che  abbiano  la  capacità  di  riprodursi  e  la  libertà  di  decidere  se,  quando  e  quanto  riprodursi.  In  quest’ultima  condizione  è  implicito  il  diritto  degli  uomini  e  delle  donne  di  essere  informati  e  di  avere  accesso  a  metodi  di  pianificazione  familiare  sicuri,  efficaci,  disponibili  e  accettabili  secondo  la  loro  scelta  così  come  altri  metodi  per  la  regolazione  della  fertilità  che  non  siano  contrari  alla  legge  […].”[4]      

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Rispondenza  ai  bisogni      Il  rapporto  ci  dice  innanzitutto  che  la  55a  Assemblea  dell’OMS  ha  inteso  sviluppare  una  strategia  in  vista  dei  progressi  nell’ambito  della  salute  riproduttiva.  La  decisione  richiama  anche  gli  obbiettivi  e  gli  impegni  presi  al  Cairo  e  a  Pechino  (1),  così  come  gli  obbiettivi  stabiliti  nella  Dichiarazione  del  Millennio  dell’anno  2000  (4).  Si  specifica  che  esistono  molte  discrepanze  tra  gli  obbiettivi  da  raggiungere  e  le  realtà  osservate.  Quindi  è  necessario  definire  una  strategia  e  diffonderla  ampiamente  tra  quelle  persone  che  dovranno  prendere  decisioni  in  merito  (3).  Senza  dubbio,  a  partire  dal  1994  sono  stati  fatti  notevoli  progressi,  ma  la  situazione  globale  mostra  ancora  alcune  deplorevoli  caratteristiche.  Nell’Africa  sub-­‐sahariana,  per  esempio,  1  donna  su  16  è  esposta  al  rischio  di  mortalità  materna  (11).  Nei  paesi  poveri  la  mancanza  di  personale  qualificato  fa  sì  che  le  complicazioni  ginecologiche  e  ostetriche  evitabili  o  trattabili  non  siano  curate  (12).  Nei  paesi  in  via  di  sviluppo  o  in  quelli  in  transizione,  il  bisogno  di  una  contraccezione  sicura  non  è  stato  soddisfatto  per  120  milioni  di  coppie  e  molti  adolescenti  (15  s).  Ogni  anno  80  milioni  di  donne  hanno  una  gravidanza  indesiderata.  Alcune  di  queste  gravidanze  sono  il  risultato  di  una  contraccezione  inefficace,  dato  che  nessun  metodo  contraccettivo  è  efficace  al  100%  (16).  Si  stima  che  ogni  anno  si  verifichino  45milioni  di  aborti,  19  milioni  dei  quali  in  condizioni  non  sicure.  Il  40%  di  questi  aborti  è  operato  in  donne  tra  i  15  e  i  24  anni.  Gli  aborti  in  condizioni  non  sicure  causano  la  morte  di  circa  68.000  donne  ogni  anno,  cioè  il  13%  di  tutte  le  morti  legate  alla  gravidanza  (17).  Ogni  anno  si  verificano  circa  340  milioni  di  nuovi  casi  di  malattie  batteriche  sessualmente  trasmesse  (18),  che  colpiscono  soprattutto  giovani  donne  tra  i  15  e  i  24  anni.  Queste  infezioni  possono  causare  sterilità  (21).      Ostacoli  al  progresso      Esistono  disuguaglianze,  in  ambito  di  salute,  tra  donne  e  uomini  (23).  Le  donne  spesso  sono  vittime  di  violenze,  stupri,  aggressioni  sessuali  anche  da  parte  dei  loro  stessi  compagni.  Le  donne  e  le  ragazze  sono  spesso  vittime  del  traffico  di  esseri  umani  e  della  prostituzione.  Le  conseguenze  di  tali  disuguaglianze  sulla  salute  sessuale  e  riproduttiva  sono  facilmente  immaginabili  (24).  Le  adolescenti  sono  particolarmente  esposte  al  rischio,  in  ambito  di  salute  sessuale  e  riproduttiva,  a  causa  dei  tabù  e  delle  norme  che  impediscono  loro  l’accesso  all’informazione.  All’interno  o  all’esterno  del  matrimonio,  l’attività  sessuale  delle  adolescenti  è  spesso  a  rischio.  Esse  raramente  si  trovano  nella  posizione  di  resistere  a  pressioni  messe  in  atto  col  fine  di  ottenere  dei  rapporti  sessuali,  di  negoziare  un  rapporto  sessuale  sicuro,  o  di  proteggersi  contro  gravidanze  e  malattie  infettive.  Andare  incontro  ai  bisogni  e  proteggere  i  diritti  del  miliardo  e  300  milioni  di  adolescenti,  maschi  e  femmine,  del  nostro  pianeta  è  fondamentale  per  preservare  la  salute  delle  generazioni  future  (25).  Inoltre,  è  superfluo  ricordare  che  la  povertà  va  di  pari  passo  con  le  disuguaglianze  in  ambito  di  servizi  sanitari,  specialmente  di  salute  materna  (26).  Tali  ostacoli  alla  salute  riproduttiva  sono  resi  ancor  più  gravosi  da  un  generale  declino  dello  sviluppo.  È  vero  che  sono  stati  istituiti  nuovi  fondi  per  combattere  l’AIDS,  la  tubercolosi  e  la  malaria,  ma  è  necessario  costruire  un  sistema  sanitario  sostenibile  che  comprenda  anche  servizi  di  salute  sessuale  e  riproduttiva  (28).  Uno  degli  ostacoli  più  grandi  all’espansione  e  al  miglioramento  di  questi  servizi  di  salute  sessuale  e  riproduttiva  in  molte  regioni  è  da  ricercare  nell’inadeguatezza  delle  risorse  umane.  Per  un  progresso  nell’area  dell’assistenza  sanitaria  sessuale  e  riproduttiva  è  di  fondamentale  importanza  un  programma  strategico  per  la  formazione  e  il  mantenimento  di  una  forza  lavoro  di  medici  esperti  (29).  

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Oltre  alle  difficoltà  legate  alla  povertà,  ce  ne  sono  altre  che  derivano  dai  tabù,  da  un  debole  potere  decisionale  delle  donne,  ma  anche  da  pregiudizi  e  atteggiamenti  negativi  dei  membri  della  famiglia  o  degli  operatori  sanitari.  Un  esame  olistico  di  credenze,  atteggiamenti  e  valori,  rappresenta  un  importante  punto  di  partenza  per  superare  questi  ostacoli  fondamentali  (30).  Infine,  in  alcuni  paesi,  le  leggi,  la  politica  e  le  regole  possono  ostacolare  l’accesso  ai  servizi,  limitare  irragionevolmente  il  ruolo  del  personale  sanitario,  impedire  l’accesso  ad  alcuni  servizi  (per  esempio,  la  contraccezione  d’emergenza),  o  limitare  l’importazione  di  alcuni  medicinali  o  di  tecnologie  essenziali.  La  rimozione  di  tali  restrizioni  può  contribuire  in  maniera  significativa  a  migliorare  l’accesso  delle  persone  a  questi  servizi  (32).      La  strategia  per  accelerare  il  progresso      L’obbiettivo  principale  è  accelerare  il  progresso  per  raggiungere  un  accordo,  al  livello  più  alto  possibile,  sugli  obbiettivi  da  raggiungere  nel  settore  della  salute  riproduttiva  per  tutti  (33).  La  strategia  dell’OMS  per  tale  accelerazione  si  basa  sugli  strumenti  internazionali  sui  quali  esista  un  accordo  e  sulle  dichiarazioni  sui  diritti  umani  elaborate  con  consenso  globale.[5]  Affinché  questi  diritti  siano  rispettati,  politiche  programmi  e  interventi  devono  promuovere  l’eguaglianza  dei  “generi”,  cioè  dei  sessi,  per  dare  la  priorità  alle  popolazioni  povere  e  con  minore  accesso  ai  servizi,  specialmente  gli  adolescenti  (34).  Il  maggior  punto  di  accesso  alla  salute  sessuale  e  riproduttiva  sarà  attraverso  servizi  prenatali,  al  parto  e  postpartum  (36).  L’aborto  non  sicuro  deve  essere  considerato  parte  degli  Obbiettivi  di  Sviluppo  del  Millennio[6]  riguardante,  tra  le  altre  cose,  la  salute  materna.  I  servizi  di  pianificazione  familiare  devono  essere  rafforzati  per  prevenire  le  gravidanze  non  desiderate  e,  nei  limiti  di  quanto  stabilito  dalla  legge,  per  assicurare  che  i  servizi  siano  disponibili  e  accessibili.  Sempre  nei  limiti  della  legge,  è  necessario  migliorare  la  formazione  degli  operatori  sanitari  nell’ambito  delle  nuove  tecniche  e  nell’uso  delle  apparecchiature.È  altresì  necessario  garantire  servizi  per  l’aborto  nelle  strutture  sanitarie  a  livello  primario  (37;  cfr.  40).  Le  azioni  da  intraprendere  sono:  rafforzare  le  capacità  dei  sistemi  sanitari,  migliorare  l’informazione  nei  contesti  prioritari,  creare  quadri  legislativi  e  regolatori  di  supporto;  un  triplice  rafforzamento  di  monitoraggio,  valutazione  e  responsabilità  delle  azioni  (42).  La  strategia  richiede  anche  il  rafforzamento  di  meccanismi  finanziari  sostenibili,  una  significativa  parte  dei  quali  sarà  destinata  all’addestramento  del  personale  sanitario  (45-­‐49).  Un’informazione  di  qualità  deve  rendere  possibile  l’individuazione  delle  priorità.  Nella  definizione  di  queste  ultime,  devono  essere  coinvolte  tutte  le  parti  interessate:  governi,  agenzie  bi  e  multilaterali,  associazioni  professionali,  organizzazioni  non  governative,  gruppi  femminili  e  altri  settori  della  società  civile.  Le  parti  coinvolte  dovranno  costruire  un  consenso  (53).  La  creazione  di  un  forte  clima  di  supporto,  a  livello  internazionale,  nazionale  e  locale  e  le  iniziative  giuridiche  nel  campo  della  salute  sessuale  e  riproduttiva,  contribuiranno  a  superare  l’inerzia,  galvanizzare  gli  investimenti  così  come  a  stabilire  standard  elevati  e  meccanismi  di  responsabilità  delle  azioni  (55).  La  rimozioni  di  inutili  restrizioni  nelle  politiche  e  nelle  regole,  per  creare  un  contesto  di  supporto  per  la  salute  sessuale  e  riproduttiva,  contribuirà  significativamente  a  migliorare  l’accesso  ai  servizi  (57).  A  tale  scopo  sarà  necessario  rivedere  e,  se  necessario,  cambiare  leggi  e  orientamenti  politici  (59)  e  includere  la  dimensione  di  “diritti  umani”  della  salute  sessuale  e  riproduttiva.  Per  permettere  che  tale  strategia  abbia  successo,  l’OMS  continuerà  a  consolidare  i  rapporti  con  altre  organizzazioni  all’interno  del  sistema  delle  Nazioni  Unite  (specialmente  con  UNFPA,  UNICEF  

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e  UNAIDS),  la  Banca  Mondiale,  le  associazioni  delle  professioni  sanitarie,  ONG  e  altri  partners  (64).        ANALISI  DEL  DOCUMENTO      L’obiettivo  reale:  il  controllo  della  popolazione  dei  paesi  poveri      In  relazione  a  molti  altri  documenti  precedenti,  il  documento  del  2004  che  abbiamo  appena  presentato  non  contiene  elementi  realmente  nuovi  o  sorprendenti.  I  suoi  elementi  fondamentali  si  possono  rinvenire  nelle  precedenti  pubblicazioni  dell’OMS[7]  e  nel  Programma  d’azione  del  Cairo  (1994)  che  è  stato  più  volte  menzionato.  Sono  stati  trattati  gli  stessi  temi  strutturati  in  maniera  simile.  Questi  argomenti  si  trovano  ancora  nei  documenti  diffusi  da  altri  organismi  delle  Nazioni  Unite,  ma  con  enfasi  diversa.  Mentre  l’OMS  pone  l’accento  sulla  salute  riproduttiva,[8]  l’UNFPA  enfatizza  il  controllo  della  popolazione,  l’UNICEF  l’educazione  degli  adolescenti  e  l’UNAIDS  l’AIDS.  La  Banca  Mondiale  solleva  gli  stessi  problemi  dal  punto  di  vista  economico  e  finanziario.[9]  Senza  dubbio  questi  documenti,  specialmente  quelli  pubblicati  dall’OMS,  raccolgono  raccomandazioni  talmente  condivisibili  che  si  ha  l’impressione  di  avere  a  che  fare  con  verità  lapalissiane.  Di  fatto,  chi  non  sottoscriverebbe  programmi  finalizzati  alla  riduzione  della  morbilità  e  mortalità  materna,  della  mortalità  infantile,  delle  malattie  sessualmente  trasmesse  e,  più  in  generale,  a  rendere  tutti  i  servizi  sanitari  di  base  accessibili  al  maggior  numero  di  persone?  Chi  non  supporterebbe  campagne  di  prevenzione  di  malattie  di  qualsiasi  tipo?  In  realtà  la  proclamazione  di  queste  buone  intenzioni  cela  a  malapena  il  tenore  fortemente  ideologico  del  documento  dell’OMS  dedicato  alla  salute  riproduttiva.  Abbiamo  a  che  fare  con  un  tipico  documento  maltusiano.  Tutto  converge  su  un  punto  focale:  la  presunta  necessità  di  controllare  la  crescita  demografica  dei  paesi  poveri.  Ora,  non  è  mai  stato  dimostrato  un  nesso  tra  il  controllo  della  crescita  di  questa  popolazione  e  lo  sviluppo  dei  paesi  poveri.  Questa  fondamentale  questione  non  è  mai  stata  menzionata,  e  ancor  meno  discussa,  nei  rapporti  dell’OMS  né  in  quelli  di  UNFPA,  UNICEF,  Banca  Mondiale  o  nel  Programma  d’Azione  del  Cairo.  Il  postulato  maltusiano  è  accettato  come  auto-­‐evidente  e  pertanto  non  richiede  alcuna  dimostrazione,  permettendo  di  passare  direttamente  all’azione.  Il  carattere  ideologico  di  questo  pregiudizio  maltusiano  è  confermato  dall’assenza  totale  di  qualsiasi  dato  discordante  come  il  fatto  che  la  caduta  del  tasso  di  fertilità  è  un  fenomeno  mondiale  riconosciuto  anche  dalla  Divisione  Popolazione,  anch’esso  organismo  delle  Nazioni  Unite.  Questo  decremento  non  risparmia  i  paesi  poveri.  Basta  fare  riferimento  alle  figure  del  2003  Data  Sheet  del  Population  Reference  Bureau  (Washington,  DC)  per  vedere  che  un  terzo  dei  paesi  di  tutto  il  mondo  ha  un  tasso  di  fertilità  uguale  o  minore  a  2.1  (la  soglia  oltre  la  quale  una  popolazione  si  avvia  inesorabilmente  ad  invecchiare).  C’è  il  desiderio  di  impressionare  l’opinione  pubblica,  il  personale  sanitario  e  chi  prende  le  decisioni,  attraverso  l’indicazione  di  bisogni  reali,  ma  questi  bisogni  sono  usati  come  esca  per  nascondere  il  vero  obbiettivo  che  è  il  controllo  delle  popolazioni  povere  con  i  mezzi  più  efficaci.  Dato  che  si  è  deciso  di  ignorare  o  nascondere  queste  realtà,  il  documento  si  focalizza  su  tre  temi  ricorrenti  che  sono  considerati  strumenti  per  raggiungere  il  vero  obbiettivo  maltusiano:  aborto  sicuro,  contraccezione,  modifiche  alla  legge  insieme  alla  mobilitazione  dei  leaders.        

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IL  PRIMO  STRUMENTO:  L’ABORTO      Aborto:  indesiderabile  se  non  è  sicuro      Il  programma  di  salute  sessuale  e  riproduttiva  non  dice  nulla  circa  la  questione  della  protezione  dell’essere  umano  prima  della  nascita.  D’altra  parte  dimostra  grande  interesse  per  il  tema  dell’aborto.  Più  volte  è  stata  affermata  la  necessità  di  non  compiere  aborti  se  non  sicuri.  Solo  gli  aborti  non  sicuri  sono  indesiderabili,  precisamente  per  la  mancanza  di  condizioni  sicure  per  la  madre,  naturalmente,  e  non  perché  si  elimina  una  vita  umana.[10]  Tale  posizione  è  confermata  molto  chiaramente  da  altri  documenti  delle  Nazioni  Unite  e  dell’OMS.  Se  ci  riferiamo  alla  definizione  di  salute  riproduttiva  che  appare  nel  summenzionato  Programma  d’Azione  del  Cairo  notiamo  che  tale  definizione  include,  nella  salute  riproduttiva,  il  “controllo  delle  nascite”.  Come  abbiamo  già  detto,  tale  espressione  corrisponde  all’inglese  regulation  of  fertility.  Ma  cosa  si  intende  con  questa  regulation  of  fertility,  questo  “controllo  delle  nascite”?  La  risposta  è  espressa  molto  chiaramente  nel  documento  Definitions  and  Indicators  in  Family  Planning  &  Child  Health  and  Reproductive  Health,  pubblicato  dall’OMS,  in  edizione  aggiornata,  nel  marzo  1999  e  nel  gennaio  2001:      Controllo  della  fertilità      È  il  processo  attraverso  il  quale  gli  individui  e  le  coppie  regolano  la  loro  fertilità.  I  metodi  che  possono  essere  usati  per  tale  scopo  comprendono,  tra  gli  altri,  il  rinvio  della  gravidanza,  l’uso  di  contraccettivi,  di  trattamenti  che  causano  l’infertilità,  l’interruzione  di  gravidanze  non  desiderate  e,  nei  casi  di  madri  con  neonati  o  bambini  piccoli,  l’allattamento  al  seno.  Fonte:  definizione  usata  dallo  Special  Programme  of  Research  and  Research  Training  in  Human  Reproduction,  and  the  Division  of  Family  Health.[11]      Se  le  parole  hanno  un  significato  anche  in  inglese,  così  come  lo  hanno  in  francese,  l’interruzione  di  una  gravidanza  non  desiderata  significa  aborto.  Quindi  l’aborto  è  compreso  nel  concetto  di  salute  riproduttiva  diffuso  dall’OMS  e  da  altre  agenzie  delle  Nazioni  Unite.      Aborto  precoce      Inoltre,  poichè  nel  concetto  di  salute  riproduttiva  è  compreso  l’aborto,  esso  rappresenta  uno  degli  strumenti  da  usare  per  il  controllo  delle  nascite  nei  paesi  in  via  di  sviluppo.  Nel  1992  nel  suo  rapporto  sulla  salute  riproduttiva,  l’OMS  dichiarava:  “I  paesi  in  via  di  sviluppo  hanno  bisogno  di  una  forte  capacità  interna  per  risolvere  i  problemi  di  salute  riproduttiva  delle  loro  popolazioni  in  rapida  crescita”.[12]        SECONDO  STRUMENTO:  LA  CONTRACCEZIONE      Insieme  all’aborto,  la  contraccezione  sembra  essere  uno  strumento  essenziale  per  il  controllo  delle  nascite  nei  paesi  poveri.  Infatti,  si  rimane  impressionati  dalla  quantità  di  risorse  finanziarie  e  umane  stanziate  dall’OMS  per  la  ricerca  su  ciò  che  la  stessa  organizzazione  chiama  “contraccezione”.  Come  per  l’aborto,  la  decisa  inclusione  della  contraccezione  nella  salute  riproduttiva  fornisce  la  conferma  che  l’obbiettivo  principale  della  strategia  elaborata  dall’OMS  sia  in  realtà  il  controllo  delle  nascite.  

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   Contraccezione  e  aborto      Qui  è  necessario  un  importante  chiarimento  riguardante  la  relazione  tra  contraccezione  e  aborto.  In  questo  caso,  infatti,  assistiamo  ad  un  altro  caso  di  ingegneria  verbale.  Cosa  significa  la  parola  aborto  nel  vocabolario  dell’OMS?  La  risposta  la  troviamo  nel  già  citato  Definition  and  Indicators:[13]      Aborto:  Indotto:  o  interruzione  volontaria  della  gravidanza,  si  usa  per  porre  fine  ad  una  gravidanza  già  iniziata  (cioè  un  metodo  che  agisce  dopo  che  l’impianto  è  avvenuto).  […]Division  of  Family  Health  and  Special  Programme  of  Research  and  Research  Training  in  Human  Reproduction.Conferenza  Internazionale  sulla  Popolazione  e  lo  Sviluppo,  Il  Cairo,  Egitto,  5-­‐13  Settembre  1995.[14]  Secondo  tale  definizione  non  si  può  parlare  di  aborto  se  non  dopo  l’impianto.  Il  Segretario  Generale  della  Conferenza  del  Cairo,  signora  Nafis  Said,  conferma  tale  interpretazione  dell’aborto  in  relazione  alla  “contraccezione  d’emergenza”:  “La  contraccezione  d’emergenza  non  interrompe  la  gravidanza  o  causa  aborto.  Come  funziona  la  contraccezione  d’emergenza?  Il  meccanismo  d’azione  delle  pillole  contraccettive  interrompe  il  ciclo  riproduttivo  femminile.  A  seconda  di  quando  vengano  assunte  le  pillole  rispetto  al  ciclo,  esse  possono  prevenire  o  ritardare  l’ovulazione,  interferire  con  la  fecondazione  o  impedire  l’impianto”.[15]  L’Organizzazione  Mondiale  della  Sanità  e  l’ex  direttore  esecutivo  dello  UNFPA  quindi,  hanno  un  modo  piuttosto  particolare  di  presentare  l’aborto.  Secondo  il  loro  ragionamento,  perché  si  possa  parlare  di  aborto,  l’uovo  fecondato  deve  essere  impiantato  nell’utero.  Per  tale  motivo  qualsiasi  cosa  impedisca  l’impianto  si  chiama  contraccettivo.  Pertanto  prendiamo  nota  di  questo  esempio  scolastico  di  circolo  vizioso:  Premessa  maggiore:  Non  c’è  aborto  prima  dell’impianto.  Premessa  minore:  La  pillola  contraccettiva  agisce  prima  dell’impianto  che,  di  fatto,  essa  stessa  impedisce.  Conclusione:  La  pillola  contraccettiva  non  è  abortiva.  Nel  suo  ben  noto  Manuale  di  Bioetica,  Sua  Eccellenza  Monsignor  Sgreccia,  presidente  della  Pontificia  Accademia  per  la  Vita,  fornisce  un  esaustivo  chiarimento  della  questione:  “In  pratica,  ci  riferiamo  ad  alcune  tecniche  di  controllo  delle  nascite,  impropriamente  chiamate  contraccettive,  le  quali  non  impediscono  l’incontro  tra  i  gamenti,  cioè  la  fecondazione,  come  farebbe  pensare  il  termine  «contraccettivo»  o  «antifecondativo».  Il  loro  meccanismo,  in  realtà,  è  quello  di  impedire  all’ovocellula  già  fecondata  di  impiantarsi  nell’utero.  Chi  propaganda  queste  tecniche  si  guarda  bene  dal  chiamarle  abortive  (per  molti  il  termine  aborto  significa  ancora  qualcosa  di  drammatico);  esse  pertanto  vengono  definite  intercettive  se  intercettano  lo  zigote  impedendo  di  annidarsi  o  contragestive  (da  contragestion  in  analogia  a  contraception)  se  impediscono  la  prosecuzione  della  gravidanza  una  volta  che  l’embrione  si  è  già  impiantato  in  utero.”[16]      Il  vaccino  contro  la  gravidanza      È  sorprendente  notare  come  gran  parte  della  ricerca  sponsorizzata  dall’OMS  abbia  avuto,  ed  abbia  tuttora,  come  obbiettivo  la  messa  a  punto  di  metodi  di  aborto  precoce,[17]  soprattutto  ricerca  su  “impianti  contraccettivi  a  lungo  termine”[18],  anelli  vaginali,  ecc.  Sono  in  corso  anche  ricerche  sull’impianto  dell’embrione  con  lo  scopo  di  perfezionare  un  “agente  anti-­‐impianto  o  di  

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induzione  delle  mestruazioni”  da  assumere  una  volta  per  ogni  ciclo  per  continuare  ad  avere  le  mestruazioni  e  impedire  un  possibile  impianto  nell’eventualità  di  un  concepimento.[19]  Un  cenno  particolare  va  fatto  per  i  ritrovati  immuno-­‐contraccettivi,  ossia  i  vaccini  contro  la  gravidanza,  spesso  indicati  col  nome  hCG  immuno-­‐contraccettivi.[20]  Quando  il  “vaccino”  sarà  perfezionato,  costituirà  un  metodo  per  l’aborto  precoce.  La  madre  non  riconoscerà  più  l’embrione  come  un  corpo  da  non  rigettare.  Un  vaccino  di  questo  tipo,  quindi,  elimina  le  profonde  radici  fisiologiche  della  maternità  in  quanto  rende  la  madre  ostile  al  proprio  figlio.        TERZO  STRUMENTO:  LA  MODIFICA  DELLE  LEGGI  E  DELLE  MENTALITÀ      Rimozione  delle  restrizioni  legali      Nel  testo  che  abbiamo  presentato  nella  prima  parte  di  questo  articolo,  così  come  anche  in  molti  altri  testi  dell’OMS,  si  fa  riferimento  a  leggi  e  regolamenti  che  potrebbero  vietare  i  programmi  di  salute  sessuale  e  riproduttiva.  Per  questo  motivo  il  testo  raccomanda  che  vengano  abrogate  le  leggi  restrittive  sulla  contraccezione  e  l’aborto  favorendo  in  questo  modo  lo  sviluppo  dei  paesi  poveri.  Questi  paesi  possono  prendere  come  modello  i  paesi  industrializzati  che  hanno  già  modificato  le  loro  legislazioni  per  adattarle  agli  obbiettivi  della  salute  riproduttiva.  A  questo  proposito  riportiamo  un  brano  della  signora  M.  Berer  pubblicato  su  WHO  Bulletin,  uno  degli  organi  ufficiali  più  conosciuti  dell’OMS:  “Rendere  legale  l’aborto  è  un  prerequisito  essenziale  per  renderlo  sicuro  […]  Per  renderlo  sicuro  è  necessario  che  le  leggi  restrittive  siano  annullate,  emendate  o  sostituite;  leggi  tradizionali  o,  in  alcuni  casi,  religiose  potrebbero  richiedere  una  particolare  attenzione  quando  siano  previsti  cambiamenti  giuridici.  A  questo  scopo  ci  sono  tre  strade  che  possono  essere  intraprese  da  parte  dei  governi:  liberalizzare  le  leggi  esistenti  all’interno  dei  codici  penali  e  criminali;  legalizzare  parzialmente  o  completamente  l’aborto  attraverso  una  legge  positiva  o  ordinanze  giuridiche;  e  depenalizzare  l’aborto  eliminandolo  completamente  dalle  materie  di  legislazione.  Tali  cambiamenti  si  sono  già  verificati  in  quasi  tutti  i  paesi  industrializzati  e  si  stanno  realizzando  anche  in  un  numero  crescente  di  paesi  in  via  di  sviluppo”.[21]  Invocare  i  “nuovi  diritti  umani”  ottenuti  attraverso  il  consenso  faciliterà  questi  cambiamenti  nella  legge.  In  tal  modo,  in  nome  dell’ideologia  di  genere,  l’aborto  sarà  presentato  come  un  “nuovo  diritto  della  donna”.  Allo  stesso  modo  si  potrà  dire  che  i  ragazzi  e  le  ragazze  adolescenti  hanno  il  “diritto  alla  piena  libertà  di  decisione  e  di  scelta”  in  ambito  sessuale  e  di  riproduzione.  I  parenti  non  dovranno  interferire  in  queste  questioni.      Il  coinvolgimento  di  persone  influenti  e  gruppi  religiosi      Ostacoli  ai  programmi  d’azione  per  la  salute  riproduttiva  provengono  anche  da  alcune  credenze  religiose  o  “leggi”,  come  si  evince  dalla  precedente  citazione.  Ma  questi  ostacoli  possono  venire  anche  da  organizzazioni  religiose  e  quindi  da  persone  che  rivestono  un  ruolo  di  responsabilità  e  influenza  in  una  di  queste  organizzazioni.[22]  Queste  persone  influenti,  in  genere  leaders  religiosi,  devono  essere  raggiunti  e  persuasi  senza  riserve  della  bontà  degli  obbiettivi  della  salute  riproduttiva.[23]  Questo  è  quanto  appare  in  un  documento  dell’OMS  intitolato  Key  messages  for  communicators  (messaggi-­‐chiave  per  comunicatori),  dove  si  legge  quanto  segue:  “La  cultura  e  la  religione  influenzano  le  strategie  e  i  messaggi  IEC  [Informazione,  Educazione,  Comunicazione].  Cultura  e  religione  giocano  un  ruolo  di  rilievo  nelle  decisioni  della  gente  relative  all’uso  della  pianificazione  familiare  e  all’accettazione  di  metodi  specifici.  Programmi  che  abbiano  

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successo  devono  tendere  a  conoscere  le  convinzioni  culturali  e  religiose  dei  propri  utenti  e  adattare  messaggi  e  strategie  IEC  a  tali  convinzioni.  In  generale,  le  convinzioni  culturali  e  religiose  degli  utenti  devono  essere  rispettate  dai  programmi  a  meno  che  esse  non  siano  dannose  (come,  ad  esempio,  la  mutilazione  genitale  femminile).  I  comunicatori  dovrebbero  considerare  di  coinvolgere  i  leader  della  comunità  e  quelli  religiosi  nei  loro  programmi  IEC”.[24]  Perciò  è  necessario  identificare  la  popolazione  che  si  vuole  influenzare:  “Identifica  con  precisione  chi  vuoi  influenzare  nella  popolazione.  L’obbiettivo  principale  cui  rivolgere  i  messaggi  di  pianificazione  familiare  potrebbero  essere  le  donne  in  età  fertile,  ma  bisogna  considerare  anche  altri  gruppi  che  per  cultura,  valori  e  comportamenti  potrebbero  esercitare  una  certa  influenza  sulle  convinzioni  e  il  modo  di  agire  delle  donne.  Questi  destinatari  secondari  del  messaggio  potrebbero  essere  i  mariti,  i  partners,  i  genitori,  i  nonni,  i  leader  religiosi  e  civili,  gli  insegnanti,  le  levatrici  tradizionali  e  i  pubblici  ufficiali  locali”.[25]        QUALE  ANTROPOLOGIA?  QUALE  ETICA?      Un  concetto  individualistico  dell’uomo      Ciò  che  sorprende  nel  documento  dell’OMS  è  l’assenza  totale  di  qualsiasi  riferimento  all’istituzione  della  famiglia  in  un  testo  che  tratta  di  riproduzione  sessuale  e  riproduttiva.  Termini  come  ‘famiglia’  e  ‘maternità’  sono  usati  solo  in  contesti  in  cui  si  parla  di  sessualità.  La  salute  riproduttiva  è  al  servizio  di  individui  considerati  grandi  consumatori  nell’ambito  delle  attività  sessuali.  Le  discrete  allusioni  all’ideologia  del  genere  rendono  possibile  l’affermazione  secondo  cui,  nell’ottica  dell’OMS,  gli  individui  scelgono  il  loro  “genere”,  il  loro  sesso  e  i  programmi  di  salute  riproduttiva  devono  essere  messi  al  servizio  di  tali  scelte.  In  questo  modo  la  famiglia  non  solo  è  ignorata,  ma  anche  annientata.  La  sessualità  viene  separata  dall’amore.  Il  testo  dell’OMS  è  un  testo  morto  poiché  trascura  l’amore  coniugale.  L’essere  umano,  pertanto,  non  è  più  una  persona,  un  essere  relazionale,  capace  di  impegno  e  fedeltà  che  aspira  ad  amare  e  ad  essere  amato.  Egli  è  sessualmente  “controllato”.  È  l’oggetto  di  un  nuovo  tipo  di  paternalismo,  quello  dei  tecnocrati  che  sanno  cosa  è  bene  per  ognuno,  specialmente  per  i  poveri.  Di  qui  l’insistenza  sul  monitoraggio,  la  verifica  sulla  realizzazione  dei  programmi  e  le  convocazioni  rivolte  a  paesi  e  regioni  per  presentarsi  alle  conferenze  e  rendere  conto  dei  loro  risultati  nell’applicazione  del  Programma  e  nel  rispetto  delle  scadenze.  In  questo  modo  gli  individui  e  le  coppie  sono  alienati  dalle  proprie  responsabilità.  Devono  solo  essere  educati,  “formattati”  e  mentalmente  riprogrammati  per  praticare  una  sessualità  politicamente  corretta.  Il  loro  consenso  deve  essere  “informato”.  Lo  stesso  deve  essere  per  il  personale  medico.  L’enfasi  posta  sul  bisogno  di  formare  il  personale  e  istruirlosui  servizi  di  salute  riproduttiva  proposti  dalle  Nazioni  Unite,  indica  chiaramente  che  nella  realizzazione  dei  programmi  d’azione  non  ci  sarà  posto  per  le  obiezioni  di  coscienza.  Per  quanto  riguarda  la  legge,  dovrà  essere  messa  al  servizio  dei  programmi  d’azione.  Le  leggi  ad  hoc  saranno  solo  leggi  positive:  cioè  rifletteranno  le  disposizioni  delle  strategie  di  salute  riproduttiva.  Se  necessario,  le  leggi  nazionali  saranno  abolite  o  modificate.  Le  leggi  dovranno  essere  convalidate  dalla  legislazione  internazionale  il  cui  perno  sarà  lo  standard  supremo  teorizzato  da  Kelsen.  Emerge  così  la  questione  principale  relativa  alla  salute  riproduttiva:  che  legittimità  possono  pretendere  l’OMS  e  i  suoi  alleati  nel  portare  avanti  programmi  che  sfuggono  ad  ogni  controllo  parlamentare  e  nel  richiedere  alle  nazioni  sovrane  di  rendere  conto  dell’aderenza  a  programmi  imposti  dall’esterno?      

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Il  punto  di  vista  dell’etica  Cristiana      Le  critiche  che  abbiamo  appena  mosso  sono  di  natura  puramente  filosofica.  Come  abbiamo  visto,  toccano  argomenti  di  antropologia,  filosofia  del  diritto  e  di  filosofia  politica.  La  morale  Cristiana  concorda  con  queste  critiche  basate  su  argomentazioni  razionali.  Inoltre,  il  corpus  della  morale  Cristiana  si  fonda,  per  la  maggior  parte,  sul  giudizio  dei  fatti  accessibili  alla  ragione  e  che  fanno  parte  del  corpus.  Non  è  meno  vero,  tuttavia,  che  il  programma  dell’OMS  sulla  salute  riproduttiva  attira  alcune  critiche  specificatamente  Cristiane.  Dal  punto  di  vista  Cristiano,  l’uomo  è  stato  creato  ad  immagine  e  somiglianza  di  Dio.  Da  questo  egli  trae  la  sua  incommensurabile  dignità.  Da  questo  derivano  i  suoi  diritti  e  i  suoi  doveri.  Per  questo  motivo  egli  è  capace  di  conoscenza,  in  quanto  come  unica  creatura  nella  creazione,  egli  condivide  l’intelligenza  divina  e  può  liberamente  conformare  la  sua  volontà  a  quella  di  Dio.  Illuminato  dalla  Grazia  che  Dio  offre  a  tutti  quelli  che  lo  cercano,  l’uomo  può  riconoscere  nel  suo  simile  un  altro  essere  che  ha  ricevuto  l’esistenza  da  Dio  e  per  il  quale  Gesù  ha  versato  il  suo  sangue.  Questa  è  la  base  della  fraternità  Cristiana.  Per  tutti  gli  uomini  la  vita  è  un  dono  divino  e  per  questo  io  la  devo  rispettare  in  me  e  negli  altri.  Il  Signore  eleverà  tale  precetto  al  suo  massimo  grado  nel  “nuovo  comandamento”:  “Amatevi  gli  uni  gli  altri  come  io  vi  ho  amato”.[26]  Basta  leggere  il  foglietto  illustrativo  dei  farmaci  contraccettivi  o  i  protocolli  elaborati  dalle  industrie  farmaceutiche  per  rendersi  conto  che  il  precetto  dell’amore  verso  il  prossimo  rimane  lettera  mortaquando  si  sa,  o  si  dovrebbe  sapere,  che  leprescrizioni  rilasciate  alle  donne  che  usano  il  contraccettivo  possono  causare  l’aborto  precoce  e  che  loro  stesse  vengono  esposte  a  diversi  e  gravi  rischi.  Ma  l’uomo  non  è  chiamato  a  vivere  da  solo.  Allo  stesso  modo  in  cui  le  Tre  Persone  della  Trinità  non  riservano  nulla,  gelosamente,  per  se  stesse  e  amano  le  altre  senza  riserve,  i  Cristiani  sono  chiamati  a  vivere  insieme  nell’amore  reciproco.  Questo  amore  ha  una  delle  sue  espressioni  più  esemplari  nella  sessualità  umana,  dove  l’uomo  e  la  donna  sono  chiamati  ad  amarsi  reciprocamente  senza  riserve  e  a  donare  la  vita  allo  stesso  modo  in  cui  loro  l’hanno  ricevuta  da  coloro  che  gliel’hanno  data.  Attraverso  questa  normale  vocazione  al  matrimonio,  l’uomo  e  la  donna  sono  assimilati,  in  un  modo  unico,  alla  creazione  divina:  essi  sono  in  grado  di  procreare.  L’uomo  e  la  donna  esercitano  un  potere  divino  attraverso  una  sorta  di  delega,  un  mandato  divino:  il  potere  di  dare  vita  ad  un  altro  essere  umano  che,  come  loro,  non  sarà  un  semplice  individuo  biologicamente  delimitato  dal  suo  destino  mortale,  ma  una  persona  aperta  alle  relazioni  che  gli  permetteranno  di  crescere  e  affermarsi.[27]  A  questo  proposito  si  può  capire  quanto  sia  grave,  dal  punto  di  vista  Cristiano,  usare  la  conoscenza,  che  dovrebbe  essere  al  servizio  della  vita,  per  ostacolarla  bloccando  l’impianto  o  impedendo  alla  madre  di  riconoscere  l’embrione  come  un  essere  che  non  può  rigettare  poiché,  come  lei,  è  immagine  di  Dio.  Inoltre  non  va  dimenticato  che  la  povertà  non  è  né  una  malattia  né  una  fatalità.  La  povertà  non  si  combatte  con  i  rimedi  ormonali  per  la  donna  né  con  l’aborto.  Così  come  l’alcolismo  dei  mariti  non  si  cura  con  la  sterilizzazione  delle  mogli.  Le  agenzie  internazionali  che  propongono  falsi  rimedi  basati  su  diagnosi  sbagliate  farebbero  bene  a  leggere  i  risultati  dei  recenti  studi  che  ridimensionano  i  luoghi  comuni  sulla  povertà.  Il  capitale  più  a  rischio  di  scarsità  è  il  capitale  umano,  ossia  uomini  ben  preparati  fisicamente,  intellettualmente  e  moralmente  ad  affrontare  la  vita  e  a  servire  il  proprio  simile.  Qui  abbiamo  a  che  fare  con  un  problema  di  giustizia  sociale.  Sarebbe  necessario  rivedere  la  distribuzione  dei  fondi  stanziati  per  lo  sviluppo.  Tale  distribuzione  dovrebbe  essere  a  vantaggio  dell’educazione  e  della  formazione  morale.  Come  scrive  Giovanni  Paolo  II  

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nell’Enciclica  Centesimus  Annus  (N.  32),  “oggi  il  fattore  decisivo  è  sempre  più  l'uomo  stesso,  e  cioè  la  sua  capacità  di  conoscenza  che  viene  in  luce  mediante  il  sapere  scientifico,  la  sua  capacità  di  organizzazione  solidale,  la  sua  capacità  di  intuire  e  soddisfare  il  bisogno  dell'altro”.  E,  parlando  a  proposito  dell’ecologia  umana,  il  Papa  aggiunge,  “Non  solo  la  terra  è  stata  data  da  Dio  all'uomo,  […]  ma  l'uomo  è  donato  a  se  stesso  da  Dio”  (N.  38).  Questo  concetto  appare  ancora  nell’Enciclica  Evangelium  Vitae  dove  il  Papa  scrive,  “Dio  affida  l’uomo  all’uomo”  (N.  19).        CONCLUSIONI      Innanzitutto  bisogna  riconoscere  che  l’OMS  ha  fatto  e  continua  a  fare  cose  utili  in  tutto  il  mondo  in  ambito  di  ricerca,  prevenzione  e  assistenza  terapeutica.  L’eradicazione  del  vaiolo  è  una  delle  conquiste  più  importanti  e  abbiamo  tutte  le  ragioni  per  credere  nel  successo  della  lotta  contro  la  malaria  e  forse  l’AIDS.  Allo  stesso  modo,  nell’ambito  della  salute  riproduttiva  –  ma  nel  senso  lato  dell’espressione  –  bisogna  riconoscere  che  l’OMS  compie  sforzi  per  affiancare  la  donne  nel  tentativo  di  contrastare  problemi  ginecologici  ed  ostetrici,  la  sterilità,  per  ridurre  la  mortalità  infantile  e  per  prevenire  e  curare  le  malattie  e  le  infezioni  sessualmente  trasmesse.  Ma  quando  questo  formidabile  potenziale  sanitario  viene  fortemente  deviato  e  messo  al  servizio  dell’ideologia  maltusiana  focalizzata  sul  controllo  della  popolazione  povera,  allora,  purtroppo,  diventa  necessario  mettere  in  guardia  l’OMS  circa  la  manipolazione  di  cui  è  anche  oggetto.  La  povertà  non  si  elimina  attraverso  la  medicina,  in  particolar  modo  quando  questa  causa  danni  ai  corpi,  alle  menti,  alle  coscienze  e  alle  società.  Se  l’OMS  non  intraprende  un  processo  di  autocritica  in  questo  campo  molto  importante,  sarà  presto  accusata  dieugenetica,  un’eugenetica,  in  questo  caso,  rivolta  alle  persone  deboli  e  povere.  Prima  o  poi,  quindi,  sarà  screditata  e  ciò  condizionerà  negativamente  anche  i  suoi  partners  e  si  diffonderà  il  sospetto  sull’intero  sistema  della  Nazioni  Unite.  Ma  forse  c’è  ancora  una  speranza.  Lo  abbiamo  espresso  sin  dall’inizio.  Il  documento  che  abbiamo  analizzato  affronta  gli  stessi  temi,  anche  con  la  stessa  struttura  che  si  riscontra  nei  rapporti  dagli  anni  ’80  e  anche  prima.  Il  prezzo  umano  pagato  da  generazioni  di  gente  povera  conferma,  ancora  una  volta,  l’errore  della  diagnosi  e  della  terapia  suggerite  da  Malthus  e  dai  suoi  eredi  ideologici.  Sarebbe  stato  sicuramente  preferibile  che  l’ideologia  maltusiana  non  fosse  stata  adottata  dalle  grandi  organizzazioni  pubbliche  internazionali.  Perciò  si  spera  che,  a  più  o  meno  breve  termine,  le  realtà  demografiche  alla  fine  avranno  la  meglio  sull’ideologia  maltusiana.  I  programmi  di  salute  pubblica,  specialmente  in  tema  di  riproduzione,  non  possono  sempre,  sistematicamente  trascurare  gli  incontrovertibili  dati  scientifici  riguardanti  due  fenomeni  generalizzati:  la  diminuzione  della  fertilità  e  la  tendenza  all’invecchiamento.      In  conclusione,  vorrei  sottolineare  il  punto  cruciale  del  mio  intervento.  Noi  Cristiani  siamo  troppo  spesso  paralizzati  dalle  nostre  esitazioni,  dalle  nostre  ambiguità  e  dai  nostri  compromessi  quando  si  tratta  di  difendere  la  vita  e  la  famiglia.  La  nostra  fermezza  nel  difenderle  è  spesso  indebolita  dalle  nostre  concessioni.  La  forza  dei  nemici  della  vita  e  della  famiglia  deriva  dal  successo  che  hanno  nell’indebolirci  e  dalla  facilità  con  cui  riescono  a  dividerci.  Durante  il  ventesimo  secolo,  i  Cristiani,  i  Cattolici,  hanno  avuto  il  ruolo  di  abili  innocenti  nel  costruire  alleanze  con  i  movimenti  e  le  ideologie  totalitari.  Alleanze  di  questo  genere  possono  essere  rinvenute  anche  oggi.  Al  giorno  d’oggi  si  può  ravvisare  la  presenza  e  l’opera  di  un  nuovo  genere  di  abili  innocenti:  coloro  che  stringono  alleanze  e  collaborano  con  movimenti  che  non  rispettano  la  vita  o  la  famiglia.  In  un  documento  pubblicato  nel  settembre  del  2004,  Working  from  within,  Lo  UNFPA  si  compiace,  per  esempio,  per  la  buona  relazione  di  partenariato  con  il  

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“Pastoral  Care  of  Children”  in  Brasile.  “Nonostante  la  fine  di  questo  partenariato  (nel  1999),  viene  fuori  un’importante  lezione  per  lo  UNFPA:  le  più  potenti  istituzioni  religiose  non  sono  monolitiche”  (p.  26).  È  necessario,  secondo  OMS  e  UNFPA,  praticare  l’infiltrazione,  infiltrare  gli  ambienti  Cristiani  per  cambiare  la  mentalità  dei  leaders.  Per  questo  motivo  la  pubblicazione  che  abbiamo  appena  citato  è  completata  da  un’altra:  24  Tips  for  Culturally  Sensitive  Programming  (UNFPA,  settembre  2004).  Ciò  che  raccomandano  lo  UNFPA  e  le  agenzie  ad  esso  collegate,  è  una  nuova  rivoluzione  culturale,  un  cambiamento  dei  cuori  e  delle  menti.  E  in  vista  di  questo  cambiamento,  è  necessario  prima  di  tutto  mirare  ai  leaders  religiosi  tradizionalmente  resistenti  e  anche  contrari,  ma  che  oggi  cominciano  a  dare  segni  di  divisione  eufemisticamente  detti  “scuole  di  pensiero”  (loc.  cit.  p.  15).  Attraverso  il  loro  dissenso,  segreto  o  pubblico,  attraverso  la  loro  collaborazione  a  programmi  non  accettati,  i  Cristiani  stanno  indebolendo  dall’interno  l’unità  della  Chiesa  esponendola  al  rischio  di  scisma.  Questa  dissidenza  de  facto  è  resa  ancora  più  pericolosa  dal  silenzio  di  molti  sacerdoti  che  non  pronunciano,  “al  momento  giusto  e  a  quello  sbagliato”,  le  parole  profetiche  che  richiamano  alla  protezione  della  vita  e  alla  promozione  della  famiglia.  A  sua  volta  questo  silenzio  timoroso  contribuisce  a  rafforzare  l’impulso  scismatico.  Tutti  i  Cristiani,  comunque,  non  possono  ignorare  che  ci  sono  valori  umani  e  Cristiani  che  non  sono  negoziabili  e  la  cui  difesa  è  gravemente  compromessa  quando  il  disprezzo  per  la  verità  è  accompagnato  dal  venir  meno  del  coraggio.  

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 [1]  Useremo  l’abbreviazione  OMS  per  Organizzazione  Mondiale  della  Sanità  (WHO,  World  Health  Organization).  Questa  organizzazione  ha  la  sua  sede  principale  a  Ginevra.  [2]  Questo  documento  è  datato  5  aprile  2004  e  catalogato  col  numero  A57/13.  Si  può  consultare  al  seguente  indirizzo:  http:www.who.int.gb/ebwha/pdf_files/WHA57/A57_13-­‐en.pdf  Il  documento  sarà  poi  completato  dal  comunicato  ufficiale  rilasciato  dal  WHO  Media  Center,  datato  22  maggio  2004,  reperibile  all’indirizzo:  http://www.who.int/mediacentre/releases/2004/wha2/fr/index.html  [3]  I  numeri  tra  parentesi  che  appaiono  nel  nostro  testo  si  riferiscono  ai  numeri  del  rapporto  Reproductive  Health.  [4]  Cfr.  Report  of  the  International  Conference  on  Population  and  Development,  Il  Cairo,  5-­‐13  settembre  1994:  numero  del  documento  A/CONF.171/13,  18  ottobre  1994.  La  citazione  si  trova  nel  Capitolo  7,  N.  7.2.  Si  veda  il  rapportoReproductive  Health,  N.  1.  [5]  Si  veda  il  testo  pubblicato  dall’OMS:  http://www.who.int/reproductive-­‐health/publications/RHR_01_5_advancing_safe_motherhood/RHR_01_05_abstract.en.html:  Advancing  Safe  Motherhood  through  Human  Rights.  [6]  Cfr.  http://www.un.org/millenniumgoals/  [7]  Tutti  gli  argomenti  sono  già  apparsi,  per  esempio,  nel  Seventh  Annual  Report  riguardante  Special  Program  of  Research  and  Research  Training  in  Human  Reproduction,  documento  ciclostilato  OMS/WHO,  1978.  [8]  Si  veda  in  particolare:  UNDP/UNFPA/WHO/World  Bank,  Special  Programme  of  Research,  Development  and  Research  Training  in  Human  Reproduction  (HRP).  Pagina  Internet:  http://www.who.int/reproductive-­‐health/hrp/index.html  [9]  Si  veda:  http://www.worldbank.org/wbi/reprohealth  [10]  Si  veda  in  particolare  la  pubblicazione  dell’OMS  del  2003:  Safe  abortion:  Technical  and  policy  guidance  for  health  systems,  reperibile  alla  pagina  Internet:  http://www.who.int/reproductive-­‐health/publications/safe_abortion/safe_abortion.html  [11]  Nostro  corsivo.  Il  brano  si  trova  a  pag.  6  inDefinitions  and  Indicators  in  Family  Planning  &  Child  Health  and  Reproductive  Health  in  uso  presso  il  WHO  Regional  Office  for  Europe,  pubblicato  da:  Reproductive,  Maternal  and  Child  Health  European  Regional  Office  e  l’OMS  (WHO),  edizione  aggiornata  del  marzo  1999  e  gennaio  2001,  disponibile  su:http://www.euro.who.int/document/e68459.pdf  La  fonte  indicata  subito  dopo  la  definizione  è  un  documento  preparato  in  vista  della  Conferenza  del  Cairo.  Si  noti  che  la  stessa  definizione  si  trova  nel  sito  web  della  International  Planned  Parenthood  Federation  (IPPF):http://glossary.ippf.org/GlossaryBrowser.aspx  [12]  Nostro  corsivo.  Si  veda:  Reproductive  Health:  A  Key  to  a  Brighter  Future,  Biennal  Report  1990-­‐1991,  dello  Special  Programme  of  Research,  Development  and  Research  Training  in  Human  Reproduction,  Ginevra,  World  Health  Organization,  1992.  Il  brano  riportato  si  trova  a  pag.  127.  [13]  Si  veda  il  riferimento  citato  nella  nota  11.  [14]  Nostro  corsivo  in  parentesi.  Il  testo  citato  attualmente  è  datato  1995,  mentre  la  Conferenza  del  Cairo  ha  avuto  luogo  nel  1994.  [15]  Nostro  corsivo.  Cfr.  il  documento  IPPF  and  Cairo+5,  Numero  9,  maggio-­‐giugno  1999,  su:http://www.ippf.org/cairo/issues/9906/emergency.htm  [16]  Cfr.  Elio  SGRECCIA,  Manuale  di  Bioetica.  Vol  I,  Fondamenti  ed  etica  biomedica.  Milano,  Vita  e  Pensiero  1999,  pp.  486-­‐7.  Si  veda  anche  quanto  espresso  dallo  stesso  autore  a  pag.  415  e  seg.  

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[17]  Un  buon  riassunto  si  può  trovare  alla  pagina  Internet  (datata  1997):  http://www.who.int/reproductive-­‐health/hrp/progress/44/news44_1.en.html  I  metodi  contraccettivi  sono  confusi  con  i  metodi  per  l’aborto  precoce.  [18]  Si  veda  in  particolare  quello  che  afferma  l’OMS  circa  il  Norplant:  http://www.who.int/reproductive-­‐health/publications/rhr_02_7fr/rhr_02_07q12.html  [19]  Si  veda  il  testo  del  rapporto:  http://www.who.int/reproductive-­‐health/publications/atr_2002/Section_1.pdf  [20]  Nel  1993,  per  esempio,  l’OMS  pubblicò,  in  collaborazione  con  UNDP,  UNFPA  e  Banca  Mondiale,  un  rapporto  suFertility  Regulating  Vaccines  (WHO/HRP/WHO/93.1).  Alla  pagina  15  di  questo  documento  si  legge:  “L’hCG  è  un  ormone  prodotto  dall’ovulo  pochi  giorni  dopo  la  fecondazione.  Tale  ormone  è  necessario  per  completare  il  processo  di  impianto  (inclusione  dell’uovo  fecondato  nella  parete  dell’utero).  Non  è  ancora  chiaro  esattamente  come  l’immunità  all’hCG  prevenga  l’inizio  della  gravidanza  […].  In  ogni  caso,  l’effetto  deve  essere  esercitato  dopo  che  la  fecondazione  ha  avuto  luogo  dato  che  l’hCG  non  è  presente  se  non  dopo  la  fecondazione”.  Le  ricerche  sono  ancora  in  corso  e  se  ne  possono  seguire  gli  andamenti  in  Annual  Technical  Report  of  the  UNDP/UNFPA/WHO/World  Bank  Special  Programme  of  Research,  Development  and  Research  Training  in  Human  Reproduction  pubblicato  sul  sito:http://www.who.int/reproductive-­‐health/pages_resources/listing_programme_reports.htm  [21]  Nostro  corsivo.  Cfr.  M.  BERE  Eliminer  les  risques  lies  a  l’avortement:  le  devoir  d’une  bonne  politique  de  santé  publique,  Thème  special-­‐Santé  génésique,  Dossiers  thématiques,  Pubblicato  in  “Bulletin  de  l’Organisation  Mondiale  de  la  Santé”,  Recueil  d’articles  N.  3  2000,  pp.  117-­‐128.La  nostra  citazione  si  trova  a  p.  119  e  seg.,  reperibile  all’indirizzo:http://www.who.int/bulletin/volumes/en/  Documento  disponibile  all’indirizzo:http://www.policyproject.com/pubs/occasional/op-­‐06fr.pdfAltri  lavori  di  M.  Berer  possono  essere  cercati  con  Google.  [22]  L’ostilità  dello  UNFPA  alla  Chiesa  appare  esplicità  in  una  dichiarazione  del  gennaio  1998  di  Nafis  Sadik  al  tempo  Executive  Director  della  stessa  organizzazione.  Si  veda,  a  questo  proposito,  http://www.c-­‐fam.org/FAX/fax_1998/faxv1n16.html  [23]  Nel  2000  è  stato  pubblicato  uno  studio  di  Justine  TANTCHOU  e  Ellen  WILSON  intitolato  Le  Project  POLICY  in  cui  è  riportata  una  curiosa  lista  d’onore  degli  aiuti  dati  ai  programmi  di  salute  riproduttiva  in  cinque  paesi  africani.  Il  supporto  delle  religioni  è  classificato  “molto  basso”  in  Benin,  “basso”  in  Burkina  Faso,  “medio”  in  Camerun,  “basso”in  Costa  d’Avorio  e  “medio”  in  Mali.  Il  documento  è  disponibile  all’indirizzo:http://www.policyproject.com/pubs/policymatters/pm-­‐06.pdf  [24]  Nostro  corsivo.  Cfr.  Communicating  family  planning  in  reproductive  health.Key  messages  for  communicators,  un  documento  del  1997  classificato  come  WHO/FRH/FPP/97.33.  Si  può  leggere  all’indirizzo:http://www.who.int/reproductive-­‐health/publications/fpp_97_33/fpp_97_33_7.en.html  [25]  Nostro  corsivo.  Si  veda:  http://www.who.int/reproductive-­‐health/publications/fpp_97_33/fpp_97_33_2.en.html  [26]  Gv  13:34.  [27]  Si  veda  l’Enciclica  Evangelium  Vitae,  N.  43  e  92.  

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ALFONSO  GÓMEZ-­‐LOBO        QUALITÀ  DELLA  VITA  IN    PAZIENTI  NON  RESPONSIVI  POST  COMA    In  questo  articolo  cercherò  di  rispondere  a  tre  domande:  (1)  Cos’è  la  qualità  di  vita,  (2)  Se  la  qualità  di  vita  deve  avere  un  ruolo  nelle  difficili  scelte  legate  alla  fine  della  vita,  soprattutto  nei  pazienti  non  responsivi  post  coma  (Post  Coma  Unresponsiveness:  PCU),  e  (3)  Se  le  conclusioni  raggiunte  siano  conformi  alle  direttive  espresse  da  Papa  Giovanni  Paolo  II  nell’allocuzione  pronunciata  nel  marzo  2004.  Il  mio  approccio  sarà  sostanzialmente  filosofico  e  so  bene  che,  per  essere  realmente  soddisfacente,  dovrà  essere  arricchito  da  argomentazioni  teologiche.[1]        QUALITÀ  DI  VITA      L’espressione  “qualità  di  vita”  può  essere  usata  con  vari  significati.[2]  Le  stesse  parole  di  questa  espressione  evocano  l’idea  che  la  vita  possa  essere  migliore  o  peggiore,  cioè  che  la  vita  possa  essere  valutata  in  modo  simile  a  quello  con  cui  valutiamo,  per  esempio,  le  opere  d’arte,  gli  strumenti  e  le  istituzioni.  L’idea  che  la  vita  possa  essere  giudicata  secondo  la  propria  qualità  ci  riporta  ai  filosofi  dell’antica  Grecia  e  ai  loro  sforzi  per  capire  quale  sia  la  vita  buona  (o  migliore).  La  più  alta  qualità  di  vita,  che  loro  identificarono  con  la  felicità  e  la  prosperità,  era  propria  di  una  vita  vissuta  nel  godimento  dei  beni  umani  fondamentali.  Una  scarsa  qualità  di  vita,  al  contrario,  è  la  vita  di  un  individuo  cui  mancano  certi  beni  che  possono  essere  di  vario  tipo,  per  esempio  mentale,  fisico,  sociale  o  strumentale.  Una  persona  menomata  mentalmente,  una  che  soffre  di  una  malattia  cronica,  una  che  non  ha  parenti  o  amici  o  che  non  ha  sufficienti  risorse,  può  essere  considerata  una  persona  con  una  bassa  qualità  di  vita.  In  questo  senso,  la  qualità  di  vita  è  un  concetto  olistico  che  riguarda  diverse  dimensioni  ed  è  quindi  aperto  a  differenti  valutazioni.  Ci  può  essere  unanimità  sulla  qualità  di  vita  di  una  persona  che  manca  di  alcuni  beni  (per  esempio  la  mobilità)  ma  ne  possiede  altri  (la  salute)?  Di  fatto  la  valutazione  della  qualità  di  vita  varierà  a  seconda  delle  tradizioni,  delle  culture  e  dei  gruppi  sociali:  alcuni  individui  considereranno  riluttanti  alcune  forme  di  dipendenza(per  esempio  dovere  essere  alimentato  e  lavato),  mentre  altri  le  considereranno  tollerabili.  Bisognerebbe  anche  distinguere  la  qualità  di  vita  dal  concetto  di  condizione  fisiologica  che  è  un  concetto  più  circoscritto  e  che  ammette  anche  diversi  gradi.  La  salute  di  una  persona  può  essere  migliore  o  peggiore.  Tale  determinazione  della  condizione  di  un  paziente  rappresenta  un  giudizio  diagnostico  che  è  prerogativa  della  professione  medica  ed  è  una  condizione  necessaria  per  decidere  un  effettivo  intervento  terapeutico.  Senza  una  valutazione  attendibile  delle  condizioni  patologiche  del  paziente  è  incomprensibile  come  il  medico  possa  curare  la  sua  malattia  o  alleviare  le  sue  sofferenze,  tuttavia  tale  valutazione  è  sicuramente  cosa  diversa  rispetto  ad  un  giudizio  globale  sulla  qualità  di  vita.  La  bassa  qualità  di  vita  e  la  condizione  patologica  sono  due  concetti  diversi  che  non  coincidono  e  che  devono  essere  tenuti  distinti.          LA  QUALITÀ  DI  VITA  NELLE  DECISIONI  SULLA  FINE  DELLA  VITA      La  qualità  di  vita  deve  avere  un  ruolo  primario  nelle  difficili  decisioni  sulla  fine  della  vita,  soprattutto  nel  caso  di  pazienti  in  PCU?  Facciamo  riferimento  a  questo  tipo  di  pazienti  dato  che  

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essi  rappresentano  il  più  basso  livello  possibile  in  termini  di  qualità  delle  loro  vite.  Diremo  qualcosa  sulla  loro  condizione  dopo  qualche  notazione  generale.  È  cosa  nota  che  l’aspettativa  di  una  bassa  qualità  di  vita  sia  divenuta  una  spiegazione  standard  per  giustificare  l’eutanasia,  soprattutto  tra  i  rappresentanti  dell’utilitarismo  contemporaneo.  Penso  alla  scarsa  qualità  di  vita  dovuta  ad  un’ampia  varietà  di  impedimenti  e  handicap  precedenti  al  PCU.  Poiché  gli  utilitaristi  annoverano  il  dolore  e  la  perdita  (o  la  diminuzione)  della  capacità  di  esperire  il  piacere  tra  i  mali  peggiori  e  poiché  misurano  la  qualità  della  vita  in  relazione  al  piacere  e  al  dolore,  non  sorprende  che  affermino  che  uccidere  intenzionalmente  un  paziente  che  abbia  l’aspettativa  di  una  bassa  qualità  di  vita  sia  un  beneficio  per  il  paziente  stesso.  Oggi  questo  modo  di  pensare  è  profondamente  radicato  nella  cultura  Anglo-­‐Americana  e  si  sta  rapidamente  diffondendo,  sulle  ali  della  globalizzazione,  nell’Europa  continentale,  soprattutto  nei  Paesi  Bassi,  ma  anche  in  altre  parti  del  mondo.  Per  capire  cosa  ci  sia  di  profondamente  sbagliato  in  questo  modo  di  pensare,  è  utile  richiamare  alcune  nozioni  basilari  della  teoria  tradizionale  dell’azione.  In  ogni  azione,  un’analisi  filosofica  adeguata  distingue  tra  (a)  cosa  si  fa  e  (b)  perché  lo  si  fa.[3]  Il  primo  elemento  è  l’azione  in  sé  (che  può  anche  essere  rappresentata  da  un’omissione),  il  secondo  è  il  motivo  che  spinge  l’agente  a  compiere  quell’azione  e  in  genere  consiste  nelle  conseguenze  attese.  Nella  terminologia  tradizionale  questi  due  elementi  sono  definiti  finis  operis  e  finis  operantis,  ossia  l’oggetto  dell’azione  in  sé  e  lo  scopo  del  soggetto  agente.  L’utilitarismo  è  una  posizione  consequenzialista  e  come  tale  fa  derivare  il  proprio  giudizio  morale  non  semplicemente  dalle  intenzioni  dell’agente,  ma  piuttosto  dai  risultati  effettivamente  raggiunti.  Nel  caso  dell’eutanasia,  il  risultato  certamente  è  che  ogni  forma  di  dolore  viene  eliminata,  ma  noi  sappiamo  che  esistono  molti  tipi  di  azione  che  comportano  buoni  risultati  pur  essendo  assolutamente  degne  di  biasimo,  come  ad  esempio  ottenere  la  pace  attraverso  la  distruzione  di  città  su  vasta  scala.  Un  agente  che  ha  come  obbiettivo  l’eutanasia  può  agire,  o  omettere  di  agire,  in  modi  diversi  che  avranno  come  conseguenza  la  morte  del  paziente.  L’aspettativa  di  una  bassa  qualità  di  vita  può  mai  giustificare  questo  tipo  di  azioni  o  omissioni?  Credo  che  ci  siano  buone  motivazioni  filosofiche  per  dare  una  decisa  risposta  negativa  a  tale  domanda  e  per  affermare,  al  contrario,  che  ad  una  persona  in  queste  condizioni  non  dovrebbero  mai  essere  negate  le  cure  e  il  rispetto.  Infatti,  sebbene  una  persona  possa  seriamente  mancare  di  alcuni  beni,  essa  gode  ancora  del  bene  fondamentale  della  vita,  un  bene  distinto  da  qualsiasi  male  cui  la  persona  possa  essere  soggetta.  Inoltre  dal  punto  di  vista  della  stessa  persona,  la  vita,  anche  in  queste  condizioni,  può  essere  desiderabile,  quand’anche  ad  un  osservatore  esterno  ciò  possa  apparire  alquanto  insopportabile.  Sarebbe  pertanto  una  presunzione  intollerabile  quella  di  giudicare  dal  di  fuori  una  vita  come  “non  degna  di  essere  vissuta”.  La  condanna  universale  dell’omicidio  intenzionale  di  un  innocente  si  basa  sul  rispetto  della  dignità  della  persona,  e  la  dignità  umana  è  per  logica  indipendente  da,  e  non  riducibile  a,  la  qualità  di  vita  di  una  persona  poiché  la  dignità  è  una  proprietà  intrinseca  che  non  ammette  gradi.  La  dignità  esprime  il  valore  delle  persone  e,  contrariamente  al  valore  delle  cose,  non  è  soggetta  a  variazioni.  Una  persona  gravemente  handicappata  ha  lo  stesso  valore  di  qualsiasi  altra  persona  e  quindi  dovrebbe  essere  rispettata  come  chiunque  altro.  Ci  sono  buone  ragioni  per  offrire  cure  particolari  a  quelle  persone  che  soffrono  per  una  scarsa  qualità  di  vita  (esse  hanno  bisogno  di  cure  più  di  altri),  ma  non  ci  sono  buone  ragioni  per  giustificare  la  cancellazione  delle  loro  vite  a  causa  della  loro  scarsa  qualità.  Con  la  qualità  di  vita,  paradossalmente,  non  si  misura  la  qualità  della  vita  in  sé  (in  quanto  è  un  bene  fondamentale  non  soggetto  a  variazioni),  ma  piuttosto  di  altri  beni  che  possono  esistere  o  meno  in  relazione  alla  vita.  

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Affermare  che  la  vita  è  un  bene  umano  basilare  non  è  la  stessa  cosa  del  “vitalismo”[4].  Questa  corrente  di  pensiero  ritiene  che  la  vita  umana  sia  un  bene  assoluto  che  abbia  la  precedenza  su  tutti  gli  altri  beni  e  che  debba  essere  preservata  ad  ogni  costo.  Sul  valore  dominante  della  vita  si  fonderebbero  dunque  rigide  regole  morali  che  sarebbero  poi  alla  base  delle  decisioni  mediche  sulla  fine  della  vita.  Per  il  vitalismo  la  preservazione  e  il  prolungamento  della  vita  sono  gli  unici  criterio  che  devono  guidare  l’azione  in  questioni  riguardanti  la  pratica  medica  nei  casi  in  cui  non  si  possa  più  ristabilire  lo  stato  di  salute.  Contro  il  vitalismo,  ribadirei  il  principio  tradizionale  in  base  al  quale  è  razionale  ricercare,  sostenere  e  proteggere  i  beni  (soprattutto,  anche  se  non  esclusivamente,  la  vita  umana),  ma  è  anche  razionale  rinunciare  ad  essi  (in  certe  circostanze  e  in  funzione  di  altri  beni)  purché  uno  non  si  ponga  intenzionalmente  contro  gli  altri.  Con  “rinunciare”  intendo  dire  “to  give  up”,  “renoncer”,  “aufgeben”.  Un  esempio  di  questo  atteggiamento  può  essere  quello  di  chi  afferma  che  avere  dei  figli  sia  un  bene  umano  importante  e  allo  stesso  tempo  rinuncia  al  godimento  di  questo  bene  scegliendo  la  vita  monastica.  Un  altro  esempio  è  quello  di  una  persona  che,  a  causa  di  un  grave  impedimento,  non  possa  godere  il  bene  dell’avere  figli.  Quest’ultimo  non  rinuncia  ad  un  bene.  Egli  semplicemente  accetta  il  fatto  che  le  circostanze  abbiano  posto  tale  bene  al  di  là  delle  sue  capacità  di  raggiungerlo.  Questa  accettazione  (“acceptance”,  “acceptation”,  “Hinnahme”)  non  è  irrazionale  ed  è  assolutamente  compatibile  con  il  riconoscimento  del  valore  del  bene  in  questione.  Per  il  vitalismo,  a  causa  della  sua  fede  nella  tecnologia  e  dell’aperta  resistenza  alla  possibilità  di  rinuncia  alla  vita,  l’idea  dell’accettazione  della  morte  è  fonte  di  rabbia  e  ribellione.  Tale  atteggiamento  si  riscontra  a  volte,  com’è  noto,  nei  parenti  dei  pazienti  affetti  da  tumore  che  vorrebbero  che  il  medico  continuasse  la  chemioterapia  anche  dopo  che  questa  abbia  cessato  di  essere  efficace  e  molto  dopo  che  abbia  cominciato  a  mostrare  i  suoi  effetti  devastanti  nel  paziente  ormai  morente.  Le  speranze  illusorie  o  la  determinazione  arrogante  a  sconfiggere  la  malattia  e  la  morte,  prendono  il  posto  dell’atteggiamento  profondamente  umano  di  accettazione  dell’inevitabile  fine  della  nostra  vita.  Per  chi  invece  si  trova  a  metà  tra  il  vitalismo  e  il  tanatismo,  tra  il  desiderio  di  preservare  la  vita  ad  ogni  costo  e  quello  di  determinare  la  morte  quando  ritenuto  conveniente,  sorge  in  alcuni  casi  particolari  un  difficile  dilemma,  soprattutto  nei  casi  di  pazienti  in  PCU.  Darò  per  prima  cosa  una  spiegazione  terminologica.  La  denominazione  comune  di  questa  condizione  è  “Stato  Vegetativo  Persistente”  (Persistent  Vegetative  State:  PVS)  o,  più  in  generale,  Stato  Vegetativo  (Vegetative  State:  VS).  Queste  denominazioni  sono  basate,  alla  lontana,  sulla  distinzione  aristotelica  delle  facoltà  (dunameis)  negli  esseri  viventi[5].  In  questi  pazienti  le  capacità  razionale  e  sensitiva  dell’anima  non  possono  più  essere  attivate  nel  modo  normale  e  quindi  ciò  che  le  tiene  in  vita  è  solo  il  threptikón,  la  capacità  “vegetativa”  che  è  indipendente  dalla  coscienza  e  dalla  volontà.  Tuttavia  il  termine  “vegetativo”  portafacilmente  ad  immaginare  questi  pazienti  come  “vegetali”  e  quindi  come  non-­‐umani.  Per  evitare  questo  terribile  fraintendimento,  è  stata  proposta  una  nuova  denominazione  “Irresponsività  Post  Coma”  (Post  Coma  Unresponsiveness:  PCU)  che  non  implica  associazioni  fuorvianti.  Per  tale  motivo  utilizzerò  questa  espressione.[6]  Il  contesto  aristotelico,  d’altra  parte,  fornisce  strumenti  concettuali  adatti  a  rifiutare  la  visione  in  base  alla  quale  il  paziente  in  PCU  abbia  smesso  di  essere  persona.[7]  Aristotele  esprime  il  punto  di  vista  del  senso  comune  che  vede  ognuno  di  noi  come  organismo  unico,  una  sostanza  singola  totalmente  unificata  e  che  non  ritiene  che  la  perdita  delle  più  alte  facoltà  rappresenti  la  morte  di  una  sostanza,  chiamata  “la  persona”,  che  risiede  in  una  sostanza  differente  chiamata  “il  corpo”,  come  invece  sostengono  i  dualisti  contemporanei.  La  perdita  della  coscienza  e  della  ragione  è  la  perdita  di  una  parte  di  una  persona,  ed  esattamente  della  capacità  di  attivare  le  facoltà  più  nobili  

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a  causa  di  un  ostacolo  fisiologico,  ma  ciò  non  equivale  alla  morte  della  persona.[8]  Sebbene  un  paziente  in  PCU  possa  non  mostrare  segni  si  risposta  agli  stimoli  ambientali,  questo  non  può  essere  considerato  un  motivo  per  negare  che  quel  paziente  sia  la  stessa  persona  che  era  cosciente  prima  di  subire  il  trauma  che  ha  causato  il  PCU.  Ne  consegue  che  egli  merita  lo  stesso  rispetto  che  meritava  nelle  fasi  precedenti  della  sua  vita.  Il  difficile  dilemma  di  cui  parlavo  poc’anzi,  sorge  dal  fatto  che  la  maggior  parte  dei  pazienti  in  PCU  non  possa  inghiottire  a  causa  della  condizione  patologica  che  li  ha  colpiti  e  quindi  richiede  la  nutrizione  e  l’idratazione  artificiali  (ANH),  anche  intesi  come  nutrizione  e  idratazione  medicalmente  assistiti  (MANH).  Cosa  ci  dice  la  filosofia  morale  a  proposito  del  giusto  modo  di  decidere  se  fornire,  rifiutare  o  togliere  questo  tipo  di  assistenza  al  paziente?  Molti  fattori  ci  indicano  che  è  estremamente  difficile  ottenere  una  risposta  univoca  applicabile  a  tutti  i  casi.  In  primo  luogo  c’è  la  difficoltà  di  decidere  se  la  nutrizione  e  l’idratazione  attraverso  una  sonda  nasogastrica  o  una  gastrostomia  costituisca  una  cura  ordinaria  o  un  trattamento  medico.  Una  volta  inserita  la  sonda  la  nutrizione  può  essere  fatta  anche  da  personale  non  specializzato,  ma  la  decisione  di  inserire  la  sonda,  l’inserzione  stessa  (specialmente  se  è  necessario  un  intervento  chirurgico),  la  prescrizione  delle  sostanze  da  somministrare,  il  monitoraggio  del  paziente  e  di  eventuali  effetti  collaterali  (aspirazione,  infezioni,  ecc.),  sono  naturalmente  prerogative  del  medico.[9]  Dato  che  l’alimentazione  quotidiana,  che  è  la  cura  ordinaria  parte  del  processo,  è  possibile  solo  attraverso  l’inserzione  della  sonda  effettuata  medicalmente,  mi  sembra,  a  rigor  di  logica,  che  la  procedura  globalmente  intesa  debba  considerarsicome  “trattamento  medico”.  Infatti  un  intervento  medico  fornisce  le  condizioni  necessarie  per  iniziare  una  attività  di  cura  ordinaria  e  il  monitoraggio  medico  fa  parte  di  un  responsabile  proseguimento  di  tali  cure.  In  un  villaggio  senza  medici  la  nutrizione  e  l’idratazione  artificiali  in  pazienti  in  PCU  è  impossibile.  La  classificazione  dell’ANH  come  trattamento  medico  non  risolve,  da  sola,  la  questione  morale  più  importante,  cioè  se  il  ricorso  all’ANH  sia  obbligatorio  o  meno.  Essa  ci  aiuta  a  chiarire  la  questione  spingendoci  a  considerare  i  criteri  tradizionali  per  iniziare,  continuare  o  interrompere  il  trattamento,  in  altre  parole  ci  aiuta  a  capire  i  proe  i  contro.[10]  Per  discutere  l’applicazione  di  tali  criteri  alla  MANH  consideriamo  ipoteticamente  l’estremistica  affermazione  in  base  alla  quale  rifiutare  o  togliere  la  MANH  sia  sempre  e  necessariamente  eutanasia  da  omissione.  Questa  affermazione  per  essere  vera  dovrebbe  implicare,  in  questo  caso,  una  connessione  logica  o  concettuale  tra  il  finis  operis  e  il  finis  operantis,  in  altre  parole  l’azione  dovrebbe  essere  compiuta  solo  da  un  agente  che  abbia  una  specifica  intenzione.  Non  può  esserci  eccezione.  Sono  d’accordo  sul  fatto  che  tale  nesso  esista  tra  un  omicidio  attivo  e  l’obbiettivo  dichiarato  dell’eutanasia.  Un  medico  che  fa  un’iniezione  letale  ad  un  paziente  sicuramente  ha  come  scopo  la  morte  del  paziente.  L’atto  in  sé  non  sarebbe  compiuto  se  non  fosse  per  l’intenzione  del  soggetto  agente.  Tale  intenzione  specifica  è  condizione  necessaria  per  la  realizzazione  di  un’azione  che  causa  direttamente  gli  effetti  desiderati.  L’omissione  è  una  cosa  diversa.  Essa  non  causa  attivamente  la  morte.  Essa  di  solito  rimuove  un  ostacolo  per  il  realizzarsi  di  una  causa  differente.  Quando  si  stacca  un  respiratore  e  un  paziente  muore,  ciò  che  causa  la  morte  è  la  sottostante  condizione  patologica  acuta,  non  l’attuale  spegnimento  della  macchina.  Un  paziente  con  una  condizione  patologica  più  lieve  che  fosse  stato  collegato  temporaneamente  ad  un  respiratore  continuerebbe  a  vivere.  Staccare  un  macchinario  di  sostegno  delle  funzioni  vitali,  in  sé,  non  causa  la  morte.  Per  la  natura  della  causalità,  un’omissione  può  essere  legata  ad  una  specifica  intenzione,  ma  può  anche  non  esserlo.  Se  la  connessione  tra  omissione  e  intenzione  non  fosse  contingente  ma  necessaria,  allora  ogni  interruzione  di  trattamento  o  di  supporto  artificiale  delle  funzioni  vitali  

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dovrebbe  essere  considerata  eutanasia.  Nel  linguaggio  tradizionale  ciò  implicherebbe  che  tutti  i  mezzi  dovrebbero  essere  considerati  mezzi  ordinari.  Se  un  medico  negasse  gli  antibiotici  ad  un  paziente  in  PCU  da  vari  anni,  il  medico  potrebbe  essere  sospettato  di  volere  la  morte  del  paziente.  Se  un  medico  interrompesse  la  chemioterapia  su  richiesta  del  paziente  potrebbe  essere  accusato  di  omicidio  assistito.  Tali  assurde  accuse  mostrano  chiaramente  che  il  nesso  tra  finis  operis  e  finis  operantis  nel  caso  delle  omissioni  è  certamente  casuale.  Che  esistano  forme  legittime  di  lasciar  morire  è  un  argomento  centrale  della  posizione  che  dà  valore  alla  vita  e  tuttavia  ne  accetta  i  limiti  temporali,  che  lotta  per  curare  il  malato  ma  rifiuta  l’accanimento  terapeutico.  È  vero  che  certe  omissioni  possono  essere  il  risultato  della  volontà  di  provocare  la  morte  del  paziente.  Ma  non  è  necessario  che  sia  così.  Per  un  osservatore  esterno  potrebbe  non  esserci  una  differenza  percepibile  tra  eutanasia  per  omissione  e  legittimo  lasciar  morire  dato  che  l’intenzione  con  cui  si  compiono  azioni  simili  non  può  essere  giudicata  dall’esterno.  Se  un  medico  scrupoloso  valutasse  attentamente  se  un  trattamento  sia  inutile  o  gravoso  o  entrambe  le  cose  e  decidesse  in  coscienza  di  interromperlo  con  l’intenzione  di  lasciar  morire  il  paziente  per  la  sua  malattia  di  base,  sarebbe  presuntuoso  accusarlo  di  voler  causare  la  morte  del  paziente  e  quindi  di  praticare  l’eutanasia.  Lo  stesso  si  può  dire,  credo,  per  certi  casi  di  PCU.[11]  Ci  sono  casi  in  cui  una  condizione  patologica  di  base  impedisce  al  paziente  di  assumere  cibo  normalmente  cosicché  proprio  la  patologia  richiede,  per  esempio,  l’inserzione  chirurgica  di  una  sonda  gastrostomica.  Si  peccherebbe  di  presunzione  se  si  condannasse  un  medico  che,  dopo  un  lungo  periodo  di  tempo  e  dopo  aver  valutato  la  gravosità  per  lo  stesso  paziente,  per  la  sua  famiglia  e  tanti  altri  fattori  (come  la  mancanza  di  un’assicurazione  sulla  salute),  suggerisse  di  rinunciare  alla  nutrizione  e  idratazione  medicalmente  assistite.[12]  Non  possiamo  sapere  quali  siano  le  sue  reali  intenzioni,  ma  non  sarebbe  corretto  presumere  la  necessità  che  egli  desideri  la  morte  del  paziente.  Come  ho  spiegato,  dal  punto  di  vista  della  teoria  dell’azione,  non  esiste  tale  necessità.  La  sua  intenzione  potrebbe  essere  legata  al  lasciar  morire  per  ragioni  legittime  perché  potrebbe  aver  valutato  ormai  sproporzionata  l’azione  terapeutica.  Questo  non  significa  che  il  paziente  sia  considerato  “senza  valore”  o  “non  produttivo”  o  senza  dignità.  L’inutilità  e  la  gravosità  per  il  paziente,  la  sua  famiglia  e  la  comunità  sarebbero  le  sole  ragioni  legittime  per  decidere.  Riassumendo,  ho  fatto  poche  osservazioni.  Riconosco  che  la  “cultura  della  morte”  ha  fatto  progressi  nei  suoi  sforzi  di  legittimare  l’eutanasia  e  riconosco  anche  i  pericoli  derivanti  dal  progresso  della  tecnologia  medica  che  permette  un  prolungamento,  virtualmente  indefinito,  dell’esistenza.[13]  Ho  cercato  di  prendere  le  distanze  dal  tanatismo  e  dal  vitalismo.  Sono  convinto  che  il  prendersi  cura  dei  portatori  di  handicap  e  di  chi  non  è  cosciente  debba  sempre  essere  la  prima  preoccupazione,  un’obbligazione  che  non  richieda  giustificazioni  perché  è  profondamente  radicata  nel  nostro  essere  umani.  Abbiamo  un  obbligo  particolare  verso  i  sofferenti  e  i  malati  e  la  qualità  di  vita  del  paziente  non  può  influenzare  questa  fondamentale  obbligazione.  La  vita  continua  ad  essere  un  valore  basilare  da  proteggere.  Ma  ho  anche  argomentato  che  non  possiamo  attribuire  intenzioni  moralmente  inaccettabili  in  quei  casi  in  cui  medici  scrupolosi  e  famiglie,  dopo  un’attenta  valutazione  alla  luce  dei  criteri  tradizionali,  optino  per  il  rifiuto  o  l’interruzione  dell’idratazione  e  della  nutrizionein  un  paziente  in  PCU.  Ho  cercato  di  dimostrare  che  il  lasciar  morire  in  certi  casi  può  essere  legittimo.        CONCORDANZA  CON  L’ALLOCUZIONE  PAPALE      In  un  suo  discorso  nel  marzo  del  2004,  Sua  Santità  Papa  Giovanni  Paolo  II  ha  parlato  di  obbligo  di  somministrare  la  nutrizione  e  l’idratazione  ai  pazienti  in  quello  che  si  suol  chiamare  “stato  

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vegetativo  persistente”.[14]  Non  posso  riportare  in  questa  sede  la  ricchezza  di  contenuti  di  quel  documento,  né  ho  la  competenza  per  offrire  un’autorevole  esegesi  di  questo  insegnamento.  Ciòche  farò  è  invece  citare,  senza  commento,  alcuni  passaggi  tratti  dalla  “Nota  informativa  sul  dovere  di  fornire  la  nutrizione  e  l’idratazione”  (“Briefing  Note  on  the  Obligation  to  provide  Nutrition  and  Hydration”)  pubblicato  dalla  Conferenza  Episcopale  Cattolica  Australiana  per  la  Dottrina  e  la  Morale  (Australian  Catholic  Bishops  Committee  for  Doctrine  and  Morals)  e  dal  Comitato  per  l’Assistenza  Sanitaria  (Committee  for  Health  Care)  in  cui  si  trova  una  guida  pastorale  che  spiega  il  retroterra  e  le  implicazioni  dell’allocuzione  papale.[15]  Cito:  “2.  La  somministrazione  di  cibo  e  acqua,  anche  con  mezzi  artificiali,  non  è  in  sé  un  trattamento  medico  che  possa  essere  rifiutato  o  interrotto  unicamente  sulla  base  del  fatto  che  sia  un  trattamento  medico.  (...)  In  sé,  la  somministrazione  di  cibo  e  acqua  (con  qualsiasi  mezzo)  rappresenta  il  modo  ordinario  di  sostenere  la  vita  di  un  paziente  e  la  parte  minimale  dell’attenzione  che  dobbiamo  agli  altri.  (...)”  “3.  Tuttavia  in  casi  particolari  la  nutrizione  e  l’idratazione  cessano  di  essere  obbligatori,  per  esempio  se  il  paziente  non  fosse  in  grado  di  assimilare  le  sostanze  somministrate  o  se  le  stesse  modalità  di  somministrazione  fossero  causa  di  sofferenza  sproporzionata  per  il  paziente  o  implicassero  una  eccessiva  gravosità  per  altri.  (...)  In  Australia  la  nutrizione  attraverso  una  sonda,  normalmente,  non  è  eccessivamente  gravosa  per  altri.  (...)”  “4.  Le  dichiarazioni  del  Papa  non  affrontano  la  questione  se  la  nutrizione  artificiale  implichi  un  atto  o  un  trattamento  medico  rispetto  all’inserzione  e  al  monitoraggio  di  una  sonda  per  il  nutrimento.  Mentre  l’atto  di  nutrire  una  persona  non  è  in  sé  un  atto  medico,  l’inserzione  di  una  sonda,  il  suo  monitoraggio  e  quello  del  paziente,  e  la  prescrizione  delle  sostanze  da  somministrare  implicano  un  certo  grado  abilità  medica  e/o  infermieristica.  Inserire  una  sonda  per  il  nutrimento  è  una  decisione  medica  soggetta  ai  normali  criteri  dell’intervento  medico.”  “5.  Ogni  volta  che  un  trattamento  medico  o  la  somministrazione  di  nutrimento  e  idratazione  sono  rifiutati  o  interrotti  per  motivi  legittimi  (inutilità,  gravosità),  non  si  può  parlare  di  eutanasia.  Come  il  Papa  ha  scritto  nell’Evangelium  Vitae,  ‘Dall’eutanasia  va  distinta  la  decisione  di  rinunciare  ...  a  certi  interventi  medici  non  più  adeguati  alla  reale  situazione  del  malato,  perché  ormai  sproporzionati  ai  risultati  che  si  potrebbero  sperare  o  anche  perché  troppo  gravosi  per  lui  e  per  la  sua  famiglia...  La  rinuncia  a  mezzi  straordinari  o  sproporzionati  non  equivale  al  suicidio  o  all'eutanasia;  esprime  piuttosto  l'accettazione  della  condizione  umana  di  fronte  alla  morte’  (EV  65)”.  I  Vescovi  australiani  terminano  le  loro  considerazioni  con  una  serie  di  conclusioni  che  cito  per  dimostrare  la  concordanza  con  il  punto  di  vista  espresso  in  questo  articolo.  “In  conclusione,  il  discorso  del  Papa  è  un’applicazione  dell’insegnamento  Cattolico  tradizionale  e  non  afferma  né  che  la  nutrizione  e  l’idratazione  debbano  sempre  essere  somministrate,  né  che  non  si  debbano  mai  somministrare  a  pazienti  non  responsivi  e/o  incapaci.  Piuttosto  il  Papa  suggerisce  la  presunzione  in  favore  del  dare  nutrimento  e  idratazione  a  tutti  i  pazienti,  anche  con  mezzi  artificiali,  ma  riconosce  anche  che  in  casi  particolari  tale  presunzione  debba  cedere  il  passo  al  riconoscimento  che  la  somministrazione  di  nutrizione  e  idratazione  sarebbe  inutile  o  eccessivamente  gravosa.”  

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 [1]  Cfr.  SGRECCIA  E.,  Manuale  di  Bioetica,  I.  Fondamenti  ed  Etica  Biomedica,  Milano:  Vita  e  Pensiero,  1988:  40  –  42.  [2]  Per  una  raccolta  di  documenti  e  studi  si  veda:  WALTER  J.  J.  SHANNON  T.  A.  (eds)  Quality  of  Life.  The  New  Medical  Dilemma,  New  York:  Paulist  Press  1990.  [3]  Questa  analisi  è  ulteriormente  sviluppata  in:  GOMEZ-­‐LOBO  A.  Morality  and  the  Human  Goods.  An  Introduction  to  Natural  Law  EthicsWashingtonDC:  GeorgetownUniversity  Press  2002.  [4]  L’uso  di  questa  etichetta  è  relativamente  nuovo  e  non  va  confuso  con  il  vitalismo  come  dottrina  della  filosofia  della  biologia  elaborata  da  Bergson,  Driesch  e  altri.  Cfr.  BECKNER  M.  O.  Vitalism  in  EDWARDS  P.  Encyclopedia  of  PhilosophyNew  York  1967,  8:  253-­‐256.  Sull’importanza  di  considerare  il  vitalismo  sono  debitore  verso  KEOWN  J.Euthanasia.  Ethics  and  Public  Policy.  An  Argument  against  LegislationCambridge:  CambridgeUniversity  Press  2002.  [5]  ARISTOTELIS  De  Anima  recognovit  brevique  adnotatione  instruxit  W.  D.  Ross  Oxford:  Oxford  University  Press  1956.  Si  veda  in  particolare  il  Libro  II  Capitolo  3.  [6]  BOYLE  J.  et  al.  Reflections  on  Artificial  Nutrition  and  Hydration  www.  utoronto.ca/stmikes/bioethics  2004.  Il  PCU  potrebbe  essere  confuso  con  lo  stato  di  coscienza  minimale  (MCS)  pertanto  assume  una  notevole  importanza  la  sua  corretta  diagnosi.  [7]  Per  un’esposizione  concisa  di  questa  visione  ampiamente  condivisa,  si  veda  BRODY  B.  How  much  of  the  brain  must  be  dead?  in  STEINBOCK  B.  ARRAS  J.  D.  LONDON  A.J.  Ethical  Issues  in  Modern  Medicine  New  York:  McGraw  Hill  2003:  281:  “…Il  supporto  vitale  in  questi  casi  può  essere  unilateralmente  sospeso  allorquando  l’organismo  non  rappresenti  più  una  persona  per  il  fatto  che  la  corteccia  non  funziona  più.”  [8]  Si  veda,  ARISTOTELE  De  Anima  I.  4.  408b  18-­‐25.  Bisogna  tener  presente,  comunque,  che  Aristotele  non  ragiona  in  base  ad  un  concetto  più  recente  di  persona.  [9]  Si  veda  anche:  AMERICAN  ACADEMY  OF  NEUROLOGY  Position  of  the  AAN  on  Certain  Aspects  of  the  Care  and  Management  of  the  Persistent  Vegetative  State  Neurology  1989,  39:  125-­‐126Specialmente  II.C.1  in  WALTER  J.  J.  SHANNON  T.  A.  (eds)  Quality  of  Life.  The  New  Medical  Dilemma,  New  York:  Paulist  Press  1990.  [10]  PAPA  PIO  XII  The  Prolongation  of  Life  (24  Nov.  1959)  in  O’ROURKE  K.  Medical  Ethics:  Sources  of  Catholic  Teachings,  Third  Edition,  WashingtonDC:  GeorgetownUniversity  press  1999:  213-­‐214.  [11]  In  questa  breve  (e  insufficiente)  esposizione,  parto  dal  presupposto  che  la  volontà  del  paziente  incosciente  non  si  conosca.  Per  Papa  Pio  XII  la  volontà  presunta  di  un  paziente  adulto  costituiva  il  fondamento  dei  diritti  e  dei  doveri  del  medico  e  della  famiglia.  Cfr.  PAPA  PIO  XII  ibid.  [12]  A  parte  i  rischi  fisici  diretti  per  il  paziente,  come  il  rischio  di  perforazione  dell’intestino,  infezione  o  aspirazione,  ecc.,  Non  si  dovrebbe  minimizzare  lo  stress  emotivo  di  chi  si  prende  cura  del  malato,  specialmente  se  questo  è  un  familiare  stretto.  La  gravosità  può  aumentare  considerevolmente  se  le  risorse  familiari  sono  limitate  e  le  stesse  persone  devono  sobbarcarsi  anche  le  spese  di  ospedalizzazione,  i  servizi  infermieristici  domiciliari  o  l’assistenza  domiciliare  in  paesi  in  cui  non  ci  siano  adeguati  servizi  sanitari  pubblici.  [13]  Il  caso  di  più  lunga  sopravvivenza  in  coma  negli  Stati  Uniti  è  quello  di  Elaine  Esposito  che  visse  in  stato  di  incoscienza  per  più  di  37  anni.  Si  veda:  WALTER  J.  J.  SHANNON  T.  A.  (eds)  Quality  of  Life.  The  New  Medical  Dilemma,  New  York:  Paulist  Press  1990:  86  n.  8.  [14]  Si  veda:  www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2004/march.  [15]  Il  documento  in  questione  può  essere  richiesto  a:  Catholic  Health  Australia,  PO  Box  330,  Deakin  West  Act  2600,  Australia.  

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ALFONSO  GÓMEZ-­‐LOBO        QUALITÀ  DELLA  VITA  IN    PAZIENTI  NON  RESPONSIVI  POST  COMA    In  questo  articolo  cercherò  di  rispondere  a  tre  domande:  (1)  Cos’è  la  qualità  di  vita,  (2)  Se  la  qualità  di  vita  deve  avere  un  ruolo  nelle  difficili  scelte  legate  alla  fine  della  vita,  soprattutto  nei  pazienti  non  responsivi  post  coma  (Post  Coma  Unresponsiveness:  PCU),  e  (3)  Se  le  conclusioni  raggiunte  siano  conformi  alle  direttive  espresse  da  Papa  Giovanni  Paolo  II  nell’allocuzione  pronunciata  nel  marzo  2004.  Il  mio  approccio  sarà  sostanzialmente  filosofico  e  so  bene  che,  per  essere  realmente  soddisfacente,  dovrà  essere  arricchito  da  argomentazioni  teologiche.[1]        QUALITÀ  DI  VITA      L’espressione  “qualità  di  vita”  può  essere  usata  con  vari  significati.[2]  Le  stesse  parole  di  questa  espressione  evocano  l’idea  che  la  vita  possa  essere  migliore  o  peggiore,  cioè  che  la  vita  possa  essere  valutata  in  modo  simile  a  quello  con  cui  valutiamo,  per  esempio,  le  opere  d’arte,  gli  strumenti  e  le  istituzioni.  L’idea  che  la  vita  possa  essere  giudicata  secondo  la  propria  qualità  ci  riporta  ai  filosofi  dell’antica  Grecia  e  ai  loro  sforzi  per  capire  quale  sia  la  vita  buona  (o  migliore).  La  più  alta  qualità  di  vita,  che  loro  identificarono  con  la  felicità  e  la  prosperità,  era  propria  di  una  vita  vissuta  nel  godimento  dei  beni  umani  fondamentali.  Una  scarsa  qualità  di  vita,  al  contrario,  è  la  vita  di  un  individuo  cui  mancano  certi  beni  che  possono  essere  di  vario  tipo,  per  esempio  mentale,  fisico,  sociale  o  strumentale.  Una  persona  menomata  mentalmente,  una  che  soffre  di  una  malattia  cronica,  una  che  non  ha  parenti  o  amici  o  che  non  ha  sufficienti  risorse,  può  essere  considerata  una  persona  con  una  bassa  qualità  di  vita.  In  questo  senso,  la  qualità  di  vita  è  un  concetto  olistico  che  riguarda  diverse  dimensioni  ed  è  quindi  aperto  a  differenti  valutazioni.  Ci  può  essere  unanimità  sulla  qualità  di  vita  di  una  persona  che  manca  di  alcuni  beni  (per  esempio  la  mobilità)  ma  ne  possiede  altri  (la  salute)?  Di  fatto  la  valutazione  della  qualità  di  vita  varierà  a  seconda  delle  tradizioni,  delle  culture  e  dei  gruppi  sociali:  alcuni  individui  considereranno  riluttanti  alcune  forme  di  dipendenza(per  esempio  dovere  essere  alimentato  e  lavato),  mentre  altri  le  considereranno  tollerabili.  Bisognerebbe  anche  distinguere  la  qualità  di  vita  dal  concetto  di  condizione  fisiologica  che  è  un  concetto  più  circoscritto  e  che  ammette  anche  diversi  gradi.  La  salute  di  una  persona  può  essere  migliore  o  peggiore.  Tale  determinazione  della  condizione  di  un  paziente  rappresenta  un  giudizio  diagnostico  che  è  prerogativa  della  professione  medica  ed  è  una  condizione  necessaria  per  decidere  un  effettivo  intervento  terapeutico.  Senza  una  valutazione  attendibile  delle  condizioni  patologiche  del  paziente  è  incomprensibile  come  il  medico  possa  curare  la  sua  malattia  o  alleviare  le  sue  sofferenze,  tuttavia  tale  valutazione  è  sicuramente  cosa  diversa  rispetto  ad  un  giudizio  globale  sulla  qualità  di  vita.  La  bassa  qualità  di  vita  e  la  condizione  patologica  sono  due  concetti  diversi  che  non  coincidono  e  che  devono  essere  tenuti  distinti.          LA  QUALITÀ  DI  VITA  NELLE  DECISIONI  SULLA  FINE  DELLA  VITA      La  qualità  di  vita  deve  avere  un  ruolo  primario  nelle  difficili  decisioni  sulla  fine  della  vita,  soprattutto  nel  caso  di  pazienti  in  PCU?  Facciamo  riferimento  a  questo  tipo  di  pazienti  dato  che  

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essi  rappresentano  il  più  basso  livello  possibile  in  termini  di  qualità  delle  loro  vite.  Diremo  qualcosa  sulla  loro  condizione  dopo  qualche  notazione  generale.  È  cosa  nota  che  l’aspettativa  di  una  bassa  qualità  di  vita  sia  divenuta  una  spiegazione  standard  per  giustificare  l’eutanasia,  soprattutto  tra  i  rappresentanti  dell’utilitarismo  contemporaneo.  Penso  alla  scarsa  qualità  di  vita  dovuta  ad  un’ampia  varietà  di  impedimenti  e  handicap  precedenti  al  PCU.  Poiché  gli  utilitaristi  annoverano  il  dolore  e  la  perdita  (o  la  diminuzione)  della  capacità  di  esperire  il  piacere  tra  i  mali  peggiori  e  poiché  misurano  la  qualità  della  vita  in  relazione  al  piacere  e  al  dolore,  non  sorprende  che  affermino  che  uccidere  intenzionalmente  un  paziente  che  abbia  l’aspettativa  di  una  bassa  qualità  di  vita  sia  un  beneficio  per  il  paziente  stesso.  Oggi  questo  modo  di  pensare  è  profondamente  radicato  nella  cultura  Anglo-­‐Americana  e  si  sta  rapidamente  diffondendo,  sulle  ali  della  globalizzazione,  nell’Europa  continentale,  soprattutto  nei  Paesi  Bassi,  ma  anche  in  altre  parti  del  mondo.  Per  capire  cosa  ci  sia  di  profondamente  sbagliato  in  questo  modo  di  pensare,  è  utile  richiamare  alcune  nozioni  basilari  della  teoria  tradizionale  dell’azione.  In  ogni  azione,  un’analisi  filosofica  adeguata  distingue  tra  (a)  cosa  si  fa  e  (b)  perché  lo  si  fa.[3]  Il  primo  elemento  è  l’azione  in  sé  (che  può  anche  essere  rappresentata  da  un’omissione),  il  secondo  è  il  motivo  che  spinge  l’agente  a  compiere  quell’azione  e  in  genere  consiste  nelle  conseguenze  attese.  Nella  terminologia  tradizionale  questi  due  elementi  sono  definiti  finis  operis  e  finis  operantis,  ossia  l’oggetto  dell’azione  in  sé  e  lo  scopo  del  soggetto  agente.  L’utilitarismo  è  una  posizione  consequenzialista  e  come  tale  fa  derivare  il  proprio  giudizio  morale  non  semplicemente  dalle  intenzioni  dell’agente,  ma  piuttosto  dai  risultati  effettivamente  raggiunti.  Nel  caso  dell’eutanasia,  il  risultato  certamente  è  che  ogni  forma  di  dolore  viene  eliminata,  ma  noi  sappiamo  che  esistono  molti  tipi  di  azione  che  comportano  buoni  risultati  pur  essendo  assolutamente  degne  di  biasimo,  come  ad  esempio  ottenere  la  pace  attraverso  la  distruzione  di  città  su  vasta  scala.  Un  agente  che  ha  come  obbiettivo  l’eutanasia  può  agire,  o  omettere  di  agire,  in  modi  diversi  che  avranno  come  conseguenza  la  morte  del  paziente.  L’aspettativa  di  una  bassa  qualità  di  vita  può  mai  giustificare  questo  tipo  di  azioni  o  omissioni?  Credo  che  ci  siano  buone  motivazioni  filosofiche  per  dare  una  decisa  risposta  negativa  a  tale  domanda  e  per  affermare,  al  contrario,  che  ad  una  persona  in  queste  condizioni  non  dovrebbero  mai  essere  negate  le  cure  e  il  rispetto.  Infatti,  sebbene  una  persona  possa  seriamente  mancare  di  alcuni  beni,  essa  gode  ancora  del  bene  fondamentale  della  vita,  un  bene  distinto  da  qualsiasi  male  cui  la  persona  possa  essere  soggetta.  Inoltre  dal  punto  di  vista  della  stessa  persona,  la  vita,  anche  in  queste  condizioni,  può  essere  desiderabile,  quand’anche  ad  un  osservatore  esterno  ciò  possa  apparire  alquanto  insopportabile.  Sarebbe  pertanto  una  presunzione  intollerabile  quella  di  giudicare  dal  di  fuori  una  vita  come  “non  degna  di  essere  vissuta”.  La  condanna  universale  dell’omicidio  intenzionale  di  un  innocente  si  basa  sul  rispetto  della  dignità  della  persona,  e  la  dignità  umana  è  per  logica  indipendente  da,  e  non  riducibile  a,  la  qualità  di  vita  di  una  persona  poiché  la  dignità  è  una  proprietà  intrinseca  che  non  ammette  gradi.  La  dignità  esprime  il  valore  delle  persone  e,  contrariamente  al  valore  delle  cose,  non  è  soggetta  a  variazioni.  Una  persona  gravemente  handicappata  ha  lo  stesso  valore  di  qualsiasi  altra  persona  e  quindi  dovrebbe  essere  rispettata  come  chiunque  altro.  Ci  sono  buone  ragioni  per  offrire  cure  particolari  a  quelle  persone  che  soffrono  per  una  scarsa  qualità  di  vita  (esse  hanno  bisogno  di  cure  più  di  altri),  ma  non  ci  sono  buone  ragioni  per  giustificare  la  cancellazione  delle  loro  vite  a  causa  della  loro  scarsa  qualità.  Con  la  qualità  di  vita,  paradossalmente,  non  si  misura  la  qualità  della  vita  in  sé  (in  quanto  è  un  bene  fondamentale  non  soggetto  a  variazioni),  ma  piuttosto  di  altri  beni  che  possono  esistere  o  meno  in  relazione  alla  vita.  

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Affermare  che  la  vita  è  un  bene  umano  basilare  non  è  la  stessa  cosa  del  “vitalismo”[4].  Questa  corrente  di  pensiero  ritiene  che  la  vita  umana  sia  un  bene  assoluto  che  abbia  la  precedenza  su  tutti  gli  altri  beni  e  che  debba  essere  preservata  ad  ogni  costo.  Sul  valore  dominante  della  vita  si  fonderebbero  dunque  rigide  regole  morali  che  sarebbero  poi  alla  base  delle  decisioni  mediche  sulla  fine  della  vita.  Per  il  vitalismo  la  preservazione  e  il  prolungamento  della  vita  sono  gli  unici  criterio  che  devono  guidare  l’azione  in  questioni  riguardanti  la  pratica  medica  nei  casi  in  cui  non  si  possa  più  ristabilire  lo  stato  di  salute.  Contro  il  vitalismo,  ribadirei  il  principio  tradizionale  in  base  al  quale  è  razionale  ricercare,  sostenere  e  proteggere  i  beni  (soprattutto,  anche  se  non  esclusivamente,  la  vita  umana),  ma  è  anche  razionale  rinunciare  ad  essi  (in  certe  circostanze  e  in  funzione  di  altri  beni)  purché  uno  non  si  ponga  intenzionalmente  contro  gli  altri.  Con  “rinunciare”  intendo  dire  “to  give  up”,  “renoncer”,  “aufgeben”.  Un  esempio  di  questo  atteggiamento  può  essere  quello  di  chi  afferma  che  avere  dei  figli  sia  un  bene  umano  importante  e  allo  stesso  tempo  rinuncia  al  godimento  di  questo  bene  scegliendo  la  vita  monastica.  Un  altro  esempio  è  quello  di  una  persona  che,  a  causa  di  un  grave  impedimento,  non  possa  godere  il  bene  dell’avere  figli.  Quest’ultimo  non  rinuncia  ad  un  bene.  Egli  semplicemente  accetta  il  fatto  che  le  circostanze  abbiano  posto  tale  bene  al  di  là  delle  sue  capacità  di  raggiungerlo.  Questa  accettazione  (“acceptance”,  “acceptation”,  “Hinnahme”)  non  è  irrazionale  ed  è  assolutamente  compatibile  con  il  riconoscimento  del  valore  del  bene  in  questione.  Per  il  vitalismo,  a  causa  della  sua  fede  nella  tecnologia  e  dell’aperta  resistenza  alla  possibilità  di  rinuncia  alla  vita,  l’idea  dell’accettazione  della  morte  è  fonte  di  rabbia  e  ribellione.  Tale  atteggiamento  si  riscontra  a  volte,  com’è  noto,  nei  parenti  dei  pazienti  affetti  da  tumore  che  vorrebbero  che  il  medico  continuasse  la  chemioterapia  anche  dopo  che  questa  abbia  cessato  di  essere  efficace  e  molto  dopo  che  abbia  cominciato  a  mostrare  i  suoi  effetti  devastanti  nel  paziente  ormai  morente.  Le  speranze  illusorie  o  la  determinazione  arrogante  a  sconfiggere  la  malattia  e  la  morte,  prendono  il  posto  dell’atteggiamento  profondamente  umano  di  accettazione  dell’inevitabile  fine  della  nostra  vita.  Per  chi  invece  si  trova  a  metà  tra  il  vitalismo  e  il  tanatismo,  tra  il  desiderio  di  preservare  la  vita  ad  ogni  costo  e  quello  di  determinare  la  morte  quando  ritenuto  conveniente,  sorge  in  alcuni  casi  particolari  un  difficile  dilemma,  soprattutto  nei  casi  di  pazienti  in  PCU.  Darò  per  prima  cosa  una  spiegazione  terminologica.  La  denominazione  comune  di  questa  condizione  è  “Stato  Vegetativo  Persistente”  (Persistent  Vegetative  State:  PVS)  o,  più  in  generale,  Stato  Vegetativo  (Vegetative  State:  VS).  Queste  denominazioni  sono  basate,  alla  lontana,  sulla  distinzione  aristotelica  delle  facoltà  (dunameis)  negli  esseri  viventi[5].  In  questi  pazienti  le  capacità  razionale  e  sensitiva  dell’anima  non  possono  più  essere  attivate  nel  modo  normale  e  quindi  ciò  che  le  tiene  in  vita  è  solo  il  threptikón,  la  capacità  “vegetativa”  che  è  indipendente  dalla  coscienza  e  dalla  volontà.  Tuttavia  il  termine  “vegetativo”  portafacilmente  ad  immaginare  questi  pazienti  come  “vegetali”  e  quindi  come  non-­‐umani.  Per  evitare  questo  terribile  fraintendimento,  è  stata  proposta  una  nuova  denominazione  “Irresponsività  Post  Coma”  (Post  Coma  Unresponsiveness:  PCU)  che  non  implica  associazioni  fuorvianti.  Per  tale  motivo  utilizzerò  questa  espressione.[6]  Il  contesto  aristotelico,  d’altra  parte,  fornisce  strumenti  concettuali  adatti  a  rifiutare  la  visione  in  base  alla  quale  il  paziente  in  PCU  abbia  smesso  di  essere  persona.[7]  Aristotele  esprime  il  punto  di  vista  del  senso  comune  che  vede  ognuno  di  noi  come  organismo  unico,  una  sostanza  singola  totalmente  unificata  e  che  non  ritiene  che  la  perdita  delle  più  alte  facoltà  rappresenti  la  morte  di  una  sostanza,  chiamata  “la  persona”,  che  risiede  in  una  sostanza  differente  chiamata  “il  corpo”,  come  invece  sostengono  i  dualisti  contemporanei.  La  perdita  della  coscienza  e  della  ragione  è  la  perdita  di  una  parte  di  una  persona,  ed  esattamente  della  capacità  di  attivare  le  facoltà  più  nobili  

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a  causa  di  un  ostacolo  fisiologico,  ma  ciò  non  equivale  alla  morte  della  persona.[8]  Sebbene  un  paziente  in  PCU  possa  non  mostrare  segni  si  risposta  agli  stimoli  ambientali,  questo  non  può  essere  considerato  un  motivo  per  negare  che  quel  paziente  sia  la  stessa  persona  che  era  cosciente  prima  di  subire  il  trauma  che  ha  causato  il  PCU.  Ne  consegue  che  egli  merita  lo  stesso  rispetto  che  meritava  nelle  fasi  precedenti  della  sua  vita.  Il  difficile  dilemma  di  cui  parlavo  poc’anzi,  sorge  dal  fatto  che  la  maggior  parte  dei  pazienti  in  PCU  non  possa  inghiottire  a  causa  della  condizione  patologica  che  li  ha  colpiti  e  quindi  richiede  la  nutrizione  e  l’idratazione  artificiali  (ANH),  anche  intesi  come  nutrizione  e  idratazione  medicalmente  assistiti  (MANH).  Cosa  ci  dice  la  filosofia  morale  a  proposito  del  giusto  modo  di  decidere  se  fornire,  rifiutare  o  togliere  questo  tipo  di  assistenza  al  paziente?  Molti  fattori  ci  indicano  che  è  estremamente  difficile  ottenere  una  risposta  univoca  applicabile  a  tutti  i  casi.  In  primo  luogo  c’è  la  difficoltà  di  decidere  se  la  nutrizione  e  l’idratazione  attraverso  una  sonda  nasogastrica  o  una  gastrostomia  costituisca  una  cura  ordinaria  o  un  trattamento  medico.  Una  volta  inserita  la  sonda  la  nutrizione  può  essere  fatta  anche  da  personale  non  specializzato,  ma  la  decisione  di  inserire  la  sonda,  l’inserzione  stessa  (specialmente  se  è  necessario  un  intervento  chirurgico),  la  prescrizione  delle  sostanze  da  somministrare,  il  monitoraggio  del  paziente  e  di  eventuali  effetti  collaterali  (aspirazione,  infezioni,  ecc.),  sono  naturalmente  prerogative  del  medico.[9]  Dato  che  l’alimentazione  quotidiana,  che  è  la  cura  ordinaria  parte  del  processo,  è  possibile  solo  attraverso  l’inserzione  della  sonda  effettuata  medicalmente,  mi  sembra,  a  rigor  di  logica,  che  la  procedura  globalmente  intesa  debba  considerarsicome  “trattamento  medico”.  Infatti  un  intervento  medico  fornisce  le  condizioni  necessarie  per  iniziare  una  attività  di  cura  ordinaria  e  il  monitoraggio  medico  fa  parte  di  un  responsabile  proseguimento  di  tali  cure.  In  un  villaggio  senza  medici  la  nutrizione  e  l’idratazione  artificiali  in  pazienti  in  PCU  è  impossibile.  La  classificazione  dell’ANH  come  trattamento  medico  non  risolve,  da  sola,  la  questione  morale  più  importante,  cioè  se  il  ricorso  all’ANH  sia  obbligatorio  o  meno.  Essa  ci  aiuta  a  chiarire  la  questione  spingendoci  a  considerare  i  criteri  tradizionali  per  iniziare,  continuare  o  interrompere  il  trattamento,  in  altre  parole  ci  aiuta  a  capire  i  proe  i  contro.[10]  Per  discutere  l’applicazione  di  tali  criteri  alla  MANH  consideriamo  ipoteticamente  l’estremistica  affermazione  in  base  alla  quale  rifiutare  o  togliere  la  MANH  sia  sempre  e  necessariamente  eutanasia  da  omissione.  Questa  affermazione  per  essere  vera  dovrebbe  implicare,  in  questo  caso,  una  connessione  logica  o  concettuale  tra  il  finis  operis  e  il  finis  operantis,  in  altre  parole  l’azione  dovrebbe  essere  compiuta  solo  da  un  agente  che  abbia  una  specifica  intenzione.  Non  può  esserci  eccezione.  Sono  d’accordo  sul  fatto  che  tale  nesso  esista  tra  un  omicidio  attivo  e  l’obbiettivo  dichiarato  dell’eutanasia.  Un  medico  che  fa  un’iniezione  letale  ad  un  paziente  sicuramente  ha  come  scopo  la  morte  del  paziente.  L’atto  in  sé  non  sarebbe  compiuto  se  non  fosse  per  l’intenzione  del  soggetto  agente.  Tale  intenzione  specifica  è  condizione  necessaria  per  la  realizzazione  di  un’azione  che  causa  direttamente  gli  effetti  desiderati.  L’omissione  è  una  cosa  diversa.  Essa  non  causa  attivamente  la  morte.  Essa  di  solito  rimuove  un  ostacolo  per  il  realizzarsi  di  una  causa  differente.  Quando  si  stacca  un  respiratore  e  un  paziente  muore,  ciò  che  causa  la  morte  è  la  sottostante  condizione  patologica  acuta,  non  l’attuale  spegnimento  della  macchina.  Un  paziente  con  una  condizione  patologica  più  lieve  che  fosse  stato  collegato  temporaneamente  ad  un  respiratore  continuerebbe  a  vivere.  Staccare  un  macchinario  di  sostegno  delle  funzioni  vitali,  in  sé,  non  causa  la  morte.  Per  la  natura  della  causalità,  un’omissione  può  essere  legata  ad  una  specifica  intenzione,  ma  può  anche  non  esserlo.  Se  la  connessione  tra  omissione  e  intenzione  non  fosse  contingente  ma  necessaria,  allora  ogni  interruzione  di  trattamento  o  di  supporto  artificiale  delle  funzioni  vitali  

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dovrebbe  essere  considerata  eutanasia.  Nel  linguaggio  tradizionale  ciò  implicherebbe  che  tutti  i  mezzi  dovrebbero  essere  considerati  mezzi  ordinari.  Se  un  medico  negasse  gli  antibiotici  ad  un  paziente  in  PCU  da  vari  anni,  il  medico  potrebbe  essere  sospettato  di  volere  la  morte  del  paziente.  Se  un  medico  interrompesse  la  chemioterapia  su  richiesta  del  paziente  potrebbe  essere  accusato  di  omicidio  assistito.  Tali  assurde  accuse  mostrano  chiaramente  che  il  nesso  tra  finis  operis  e  finis  operantis  nel  caso  delle  omissioni  è  certamente  casuale.  Che  esistano  forme  legittime  di  lasciar  morire  è  un  argomento  centrale  della  posizione  che  dà  valore  alla  vita  e  tuttavia  ne  accetta  i  limiti  temporali,  che  lotta  per  curare  il  malato  ma  rifiuta  l’accanimento  terapeutico.  È  vero  che  certe  omissioni  possono  essere  il  risultato  della  volontà  di  provocare  la  morte  del  paziente.  Ma  non  è  necessario  che  sia  così.  Per  un  osservatore  esterno  potrebbe  non  esserci  una  differenza  percepibile  tra  eutanasia  per  omissione  e  legittimo  lasciar  morire  dato  che  l’intenzione  con  cui  si  compiono  azioni  simili  non  può  essere  giudicata  dall’esterno.  Se  un  medico  scrupoloso  valutasse  attentamente  se  un  trattamento  sia  inutile  o  gravoso  o  entrambe  le  cose  e  decidesse  in  coscienza  di  interromperlo  con  l’intenzione  di  lasciar  morire  il  paziente  per  la  sua  malattia  di  base,  sarebbe  presuntuoso  accusarlo  di  voler  causare  la  morte  del  paziente  e  quindi  di  praticare  l’eutanasia.  Lo  stesso  si  può  dire,  credo,  per  certi  casi  di  PCU.[11]  Ci  sono  casi  in  cui  una  condizione  patologica  di  base  impedisce  al  paziente  di  assumere  cibo  normalmente  cosicché  proprio  la  patologia  richiede,  per  esempio,  l’inserzione  chirurgica  di  una  sonda  gastrostomica.  Si  peccherebbe  di  presunzione  se  si  condannasse  un  medico  che,  dopo  un  lungo  periodo  di  tempo  e  dopo  aver  valutato  la  gravosità  per  lo  stesso  paziente,  per  la  sua  famiglia  e  tanti  altri  fattori  (come  la  mancanza  di  un’assicurazione  sulla  salute),  suggerisse  di  rinunciare  alla  nutrizione  e  idratazione  medicalmente  assistite.[12]  Non  possiamo  sapere  quali  siano  le  sue  reali  intenzioni,  ma  non  sarebbe  corretto  presumere  la  necessità  che  egli  desideri  la  morte  del  paziente.  Come  ho  spiegato,  dal  punto  di  vista  della  teoria  dell’azione,  non  esiste  tale  necessità.  La  sua  intenzione  potrebbe  essere  legata  al  lasciar  morire  per  ragioni  legittime  perché  potrebbe  aver  valutato  ormai  sproporzionata  l’azione  terapeutica.  Questo  non  significa  che  il  paziente  sia  considerato  “senza  valore”  o  “non  produttivo”  o  senza  dignità.  L’inutilità  e  la  gravosità  per  il  paziente,  la  sua  famiglia  e  la  comunità  sarebbero  le  sole  ragioni  legittime  per  decidere.  Riassumendo,  ho  fatto  poche  osservazioni.  Riconosco  che  la  “cultura  della  morte”  ha  fatto  progressi  nei  suoi  sforzi  di  legittimare  l’eutanasia  e  riconosco  anche  i  pericoli  derivanti  dal  progresso  della  tecnologia  medica  che  permette  un  prolungamento,  virtualmente  indefinito,  dell’esistenza.[13]  Ho  cercato  di  prendere  le  distanze  dal  tanatismo  e  dal  vitalismo.  Sono  convinto  che  il  prendersi  cura  dei  portatori  di  handicap  e  di  chi  non  è  cosciente  debba  sempre  essere  la  prima  preoccupazione,  un’obbligazione  che  non  richieda  giustificazioni  perché  è  profondamente  radicata  nel  nostro  essere  umani.  Abbiamo  un  obbligo  particolare  verso  i  sofferenti  e  i  malati  e  la  qualità  di  vita  del  paziente  non  può  influenzare  questa  fondamentale  obbligazione.  La  vita  continua  ad  essere  un  valore  basilare  da  proteggere.  Ma  ho  anche  argomentato  che  non  possiamo  attribuire  intenzioni  moralmente  inaccettabili  in  quei  casi  in  cui  medici  scrupolosi  e  famiglie,  dopo  un’attenta  valutazione  alla  luce  dei  criteri  tradizionali,  optino  per  il  rifiuto  o  l’interruzione  dell’idratazione  e  della  nutrizionein  un  paziente  in  PCU.  Ho  cercato  di  dimostrare  che  il  lasciar  morire  in  certi  casi  può  essere  legittimo.        CONCORDANZA  CON  L’ALLOCUZIONE  PAPALE      In  un  suo  discorso  nel  marzo  del  2004,  Sua  Santità  Papa  Giovanni  Paolo  II  ha  parlato  di  obbligo  di  somministrare  la  nutrizione  e  l’idratazione  ai  pazienti  in  quello  che  si  suol  chiamare  “stato  

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vegetativo  persistente”.[14]  Non  posso  riportare  in  questa  sede  la  ricchezza  di  contenuti  di  quel  documento,  né  ho  la  competenza  per  offrire  un’autorevole  esegesi  di  questo  insegnamento.  Ciòche  farò  è  invece  citare,  senza  commento,  alcuni  passaggi  tratti  dalla  “Nota  informativa  sul  dovere  di  fornire  la  nutrizione  e  l’idratazione”  (“Briefing  Note  on  the  Obligation  to  provide  Nutrition  and  Hydration”)  pubblicato  dalla  Conferenza  Episcopale  Cattolica  Australiana  per  la  Dottrina  e  la  Morale  (Australian  Catholic  Bishops  Committee  for  Doctrine  and  Morals)  e  dal  Comitato  per  l’Assistenza  Sanitaria  (Committee  for  Health  Care)  in  cui  si  trova  una  guida  pastorale  che  spiega  il  retroterra  e  le  implicazioni  dell’allocuzione  papale.[15]  Cito:  “2.  La  somministrazione  di  cibo  e  acqua,  anche  con  mezzi  artificiali,  non  è  in  sé  un  trattamento  medico  che  possa  essere  rifiutato  o  interrotto  unicamente  sulla  base  del  fatto  che  sia  un  trattamento  medico.  (...)  In  sé,  la  somministrazione  di  cibo  e  acqua  (con  qualsiasi  mezzo)  rappresenta  il  modo  ordinario  di  sostenere  la  vita  di  un  paziente  e  la  parte  minimale  dell’attenzione  che  dobbiamo  agli  altri.  (...)”  “3.  Tuttavia  in  casi  particolari  la  nutrizione  e  l’idratazione  cessano  di  essere  obbligatori,  per  esempio  se  il  paziente  non  fosse  in  grado  di  assimilare  le  sostanze  somministrate  o  se  le  stesse  modalità  di  somministrazione  fossero  causa  di  sofferenza  sproporzionata  per  il  paziente  o  implicassero  una  eccessiva  gravosità  per  altri.  (...)  In  Australia  la  nutrizione  attraverso  una  sonda,  normalmente,  non  è  eccessivamente  gravosa  per  altri.  (...)”  “4.  Le  dichiarazioni  del  Papa  non  affrontano  la  questione  se  la  nutrizione  artificiale  implichi  un  atto  o  un  trattamento  medico  rispetto  all’inserzione  e  al  monitoraggio  di  una  sonda  per  il  nutrimento.  Mentre  l’atto  di  nutrire  una  persona  non  è  in  sé  un  atto  medico,  l’inserzione  di  una  sonda,  il  suo  monitoraggio  e  quello  del  paziente,  e  la  prescrizione  delle  sostanze  da  somministrare  implicano  un  certo  grado  abilità  medica  e/o  infermieristica.  Inserire  una  sonda  per  il  nutrimento  è  una  decisione  medica  soggetta  ai  normali  criteri  dell’intervento  medico.”  “5.  Ogni  volta  che  un  trattamento  medico  o  la  somministrazione  di  nutrimento  e  idratazione  sono  rifiutati  o  interrotti  per  motivi  legittimi  (inutilità,  gravosità),  non  si  può  parlare  di  eutanasia.  Come  il  Papa  ha  scritto  nell’Evangelium  Vitae,  ‘Dall’eutanasia  va  distinta  la  decisione  di  rinunciare  ...  a  certi  interventi  medici  non  più  adeguati  alla  reale  situazione  del  malato,  perché  ormai  sproporzionati  ai  risultati  che  si  potrebbero  sperare  o  anche  perché  troppo  gravosi  per  lui  e  per  la  sua  famiglia...  La  rinuncia  a  mezzi  straordinari  o  sproporzionati  non  equivale  al  suicidio  o  all'eutanasia;  esprime  piuttosto  l'accettazione  della  condizione  umana  di  fronte  alla  morte’  (EV  65)”.  I  Vescovi  australiani  terminano  le  loro  considerazioni  con  una  serie  di  conclusioni  che  cito  per  dimostrare  la  concordanza  con  il  punto  di  vista  espresso  in  questo  articolo.  “In  conclusione,  il  discorso  del  Papa  è  un’applicazione  dell’insegnamento  Cattolico  tradizionale  e  non  afferma  né  che  la  nutrizione  e  l’idratazione  debbano  sempre  essere  somministrate,  né  che  non  si  debbano  mai  somministrare  a  pazienti  non  responsivi  e/o  incapaci.  Piuttosto  il  Papa  suggerisce  la  presunzione  in  favore  del  dare  nutrimento  e  idratazione  a  tutti  i  pazienti,  anche  con  mezzi  artificiali,  ma  riconosce  anche  che  in  casi  particolari  tale  presunzione  debba  cedere  il  passo  al  riconoscimento  che  la  somministrazione  di  nutrizione  e  idratazione  sarebbe  inutile  o  eccessivamente  gravosa.”  

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 [1]  Cfr.  SGRECCIA  E.,  Manuale  di  Bioetica,  I.  Fondamenti  ed  Etica  Biomedica,  Milano:  Vita  e  Pensiero,  1988:  40  –  42.  [2]  Per  una  raccolta  di  documenti  e  studi  si  veda:  WALTER  J.  J.  SHANNON  T.  A.  (eds)  Quality  of  Life.  The  New  Medical  Dilemma,  New  York:  Paulist  Press  1990.  [3]  Questa  analisi  è  ulteriormente  sviluppata  in:  GOMEZ-­‐LOBO  A.  Morality  and  the  Human  Goods.  An  Introduction  to  Natural  Law  EthicsWashingtonDC:  GeorgetownUniversity  Press  2002.  [4]  L’uso  di  questa  etichetta  è  relativamente  nuovo  e  non  va  confuso  con  il  vitalismo  come  dottrina  della  filosofia  della  biologia  elaborata  da  Bergson,  Driesch  e  altri.  Cfr.  BECKNER  M.  O.  Vitalism  in  EDWARDS  P.  Encyclopedia  of  PhilosophyNew  York  1967,  8:  253-­‐256.  Sull’importanza  di  considerare  il  vitalismo  sono  debitore  verso  KEOWN  J.Euthanasia.  Ethics  and  Public  Policy.  An  Argument  against  LegislationCambridge:  CambridgeUniversity  Press  2002.  [5]  ARISTOTELIS  De  Anima  recognovit  brevique  adnotatione  instruxit  W.  D.  Ross  Oxford:  Oxford  University  Press  1956.  Si  veda  in  particolare  il  Libro  II  Capitolo  3.  [6]  BOYLE  J.  et  al.  Reflections  on  Artificial  Nutrition  and  Hydration  www.  utoronto.ca/stmikes/bioethics  2004.  Il  PCU  potrebbe  essere  confuso  con  lo  stato  di  coscienza  minimale  (MCS)  pertanto  assume  una  notevole  importanza  la  sua  corretta  diagnosi.  [7]  Per  un’esposizione  concisa  di  questa  visione  ampiamente  condivisa,  si  veda  BRODY  B.  How  much  of  the  brain  must  be  dead?  in  STEINBOCK  B.  ARRAS  J.  D.  LONDON  A.J.  Ethical  Issues  in  Modern  Medicine  New  York:  McGraw  Hill  2003:  281:  “…Il  supporto  vitale  in  questi  casi  può  essere  unilateralmente  sospeso  allorquando  l’organismo  non  rappresenti  più  una  persona  per  il  fatto  che  la  corteccia  non  funziona  più.”  [8]  Si  veda,  ARISTOTELE  De  Anima  I.  4.  408b  18-­‐25.  Bisogna  tener  presente,  comunque,  che  Aristotele  non  ragiona  in  base  ad  un  concetto  più  recente  di  persona.  [9]  Si  veda  anche:  AMERICAN  ACADEMY  OF  NEUROLOGY  Position  of  the  AAN  on  Certain  Aspects  of  the  Care  and  Management  of  the  Persistent  Vegetative  State  Neurology  1989,  39:  125-­‐126Specialmente  II.C.1  in  WALTER  J.  J.  SHANNON  T.  A.  (eds)  Quality  of  Life.  The  New  Medical  Dilemma,  New  York:  Paulist  Press  1990.  [10]  PAPA  PIO  XII  The  Prolongation  of  Life  (24  Nov.  1959)  in  O’ROURKE  K.  Medical  Ethics:  Sources  of  Catholic  Teachings,  Third  Edition,  WashingtonDC:  GeorgetownUniversity  press  1999:  213-­‐214.  [11]  In  questa  breve  (e  insufficiente)  esposizione,  parto  dal  presupposto  che  la  volontà  del  paziente  incosciente  non  si  conosca.  Per  Papa  Pio  XII  la  volontà  presunta  di  un  paziente  adulto  costituiva  il  fondamento  dei  diritti  e  dei  doveri  del  medico  e  della  famiglia.  Cfr.  PAPA  PIO  XII  ibid.  [12]  A  parte  i  rischi  fisici  diretti  per  il  paziente,  come  il  rischio  di  perforazione  dell’intestino,  infezione  o  aspirazione,  ecc.,  Non  si  dovrebbe  minimizzare  lo  stress  emotivo  di  chi  si  prende  cura  del  malato,  specialmente  se  questo  è  un  familiare  stretto.  La  gravosità  può  aumentare  considerevolmente  se  le  risorse  familiari  sono  limitate  e  le  stesse  persone  devono  sobbarcarsi  anche  le  spese  di  ospedalizzazione,  i  servizi  infermieristici  domiciliari  o  l’assistenza  domiciliare  in  paesi  in  cui  non  ci  siano  adeguati  servizi  sanitari  pubblici.  [13]  Il  caso  di  più  lunga  sopravvivenza  in  coma  negli  Stati  Uniti  è  quello  di  Elaine  Esposito  che  visse  in  stato  di  incoscienza  per  più  di  37  anni.  Si  veda:  WALTER  J.  J.  SHANNON  T.  A.  (eds)  Quality  of  Life.  The  New  Medical  Dilemma,  New  York:  Paulist  Press  1990:  86  n.  8.  [14]  Si  veda:  www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2004/march.  [15]  Il  documento  in  questione  può  essere  richiesto  a:  Catholic  Health  Australia,  PO  Box  330,  Deakin  West  Act  2600,  Australia.  

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STEFANO  ZAMAGNI      EQUITA’,  RAZIONAMENTO,    DIRITTO  ALLE  CURE  SANITARIE    1.  Introduzione      La  crisi-­‐  nel  senso  etimologico  di  “passaggio”,  “transizione”  –  dello  stato  sociale  è  la  crisi  di  un  particolare  modello  di  gestione  del  medesimo,  quello  statalista,  che  tende  a  scambiare  il  conseguimento  degli  obiettivi  della  sicurezza  sociale  con  la  riduzione  dei  margini  di  scelta  personale  dei  cittadini.Non  è,  invece,  la  crisi  dei  valori  che  lo  hanno  sorretto  fin  dal  suo  nascere,  né  è  la  negazione  del  fatto  che  le  conquiste  dello  stato  socialerappresentano  una  delle  manifestazioni  più  alte  di  progresso  democratico  e  civile  per  la  civiltà  industriale.La  radice  della  crisi  del  modello  statalista  non  è  di  natura  fiscale  –  questa  è  piuttosto  l’effetto,  non  la  causa  -­‐ma  è  da  rinvenirsi  nella  sua  incapacità  di  coniugare,  in  modo  sostenibile,  equità  e  libertà.I  cittadini  delle  nostre  società  avanzate  non  accettano  più  rinunce  alla  loro  libertà  per  conseguire  più  elevati  standard  di  tutela  dai  rischi.Quando  il  perseguimento  della  sicurezza  sociale  entra  in  rotta  di  collisione  con  l’allargamento  degli  spazi  di  libertà  è  l’efficienza  stessa  a  risentirne:  di  qui  la  crisi  fiscale  e  perciò  l’insostenibilità  finanziaria  dello  stato  sociale.  Cosa  c’è  alla  base  della  diversità  di  richieste  dei  cittadini  di  oggi  rispetto  a  quelli  di  ieri  nei  confronti  dello  stato  sociale?C’è  che  –  come  ha  illustrato  A.  Giddens  (1997)  –  nel  passaggio  dalla  fase  fordista  a  quella  post-­‐fordista  della  società  industriale  è  mutata  e  va  mutando  la  natura  propria  dei  rischi  che  lo  stato  sociale  ha  inteso,  fin  dall’origine,  combattere.Proteggere  il  cittadino  dalle  avversità  connesse  agli  andamenti  erratici  del  ciclo  economico  e  agli  eventi  di  natura  (perdita  del  lavoro;  perdita  della  salute;  una  vecchiaia  triste  e  così  via)  è  da  sempre  il  proprium  dei  vari  istituti  del  welfare.  La  novità  è  che,  mentre  nella  fase  di  sviluppo  precedente,  la  sicurezza  è  minacciata  da  fattori  che  sono  esogeni  rispetto  ai  piani  di  vita  dei  singoli  e  della  politica,  nella  fase  attuale  l’incertezza  è  diventata,  in  larga  misura,  endogena,  attribuibile  cioè  al  modo  in  cui  la  società  si  organizza  e,  soprattutto,  al  modo  in  cui  viene  articolata  la  sfera  della  produzione  della  ricchezza.[1]  Quel  grosso  capitolo  dello  stato  sociale  che  si  occupa  di  tutela  della  salute  illustra  molto  bene  tale  inversione  nella  natura  dell’incertezza.Se  il  “vecchio”  sistema  sanitario  poteva  assumere  –  non  del  tutto  plausibilmente  –  che  la  malattia  fosse  qualcosa  di  casuale  e  comunque  di  non  correlato  ai  modi  di  vita,  un  simile  presupposto  non  reggerebbe  certo  in  una  epoca  nella  quale  le  persone  scelgono,  in  una  certa  misura,  il  proprio  stile  di  vita  e  nella  quale  lo  stato  di  salute  è  “funzione”,  oltre  che  delle  cure  sanitarie,  di  fattori  quali  l’ambiente,  i  regimi  alimentari,  i  luoghi  di  lavoro,  i  rapporti  familiari  e  così  via.  Si  pensi,  per  un  esempio  non  tanto  banale,  alle  patologie  tumorali.Ci  viene  detto,  dalle  ricerche  bio-­‐mediche,  che  la  più  parte  di  esse  è  riconducibile  a  fattori  specificamente  ambientali.Se  ilvecchio  stato  sociale  poteva  limitarsi  alla  ricerca  di  terapie  efficaci,  oltre  che  dei  modi  per  alleviare  le  conseguenze,  un  nuovo  stato  sociale  all’altezza  delle  aspettative  dei  cittadini  non  può  non  destinare  risorse  per  intervenire  alla  fonte  –  lotta  al  fumo;  abolizione  di  sostanze  tossiche  nei  luoghi  di  lavoro;  politiche  di  health  promotion;  contenimento  dei  disordini  alimentari  (Un  tempo,  non  tanto  lontano,  erano  la  natura  e  i  cicli  stagionali,  oltre  alla  povertà,  ad  imporre,  di  fatto,  la  dieta  alimentare).  In  presenza  di  mutamenti  del  genere,  pensare  di  conservare  l’impianto  del  vecchio  modello  di  welfare  –  sia  pure  in  versione  aggiornata  e  razionalizzata  –  servirebbe  solo  ad  accelerare  la  trasformazione,  già  in  atto,  dello  stato  sociale  in  uno  “stato  dei  trasferimenti”  –  per  usare  la  

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colorita  espressione  di  Assar  Lindbeck.  Ciò  che  realizzerebbe  ingenti  e  distorsivi  trasferimenti  di  reddito,  non  tantodai  ricchi  ai  poveri,  quanto  da  un  segmento  all’altro  delle  classi  medie  e  medio-­‐alte.L’impulsoalla  conflittualità  per  acquisire  il  consenso  dei  vari  segmenti  di  elettorato  che  deriverebbe  da  trasferimenti  del  genere  non  sarebbe  certo  compatibile  con  le  esigenze  di  stabilità  di  una  democrazia  avanzata.In  altro  modo,  fino  a  che  i  rischi  possono  essere  considerati  esogeni  è  concepibile  cercare  di  farvi  fronte  mediante  la  gestione  diretta  degli  apparati  per  la  sicurezza  da  parte  dello  stato.Non  così  –  come  si  vedrà  più  avanti  –  quando  la  matrice  dei  rischi  diventa  in  gran  parte  endogena.  Il  nuovo  modello  di  stato  sociale  deve  porre  al  centro  della  decisione  politica  il  tema  della  libertà  (in  senso  positivo).Non  si  soddisfano  i  bisogni  ritenuti  essenziali  distribuendo  ai  cittadini  beni  e  servizi  in  forma  paternalistica,prescindendo  cioè  dalle  loro  preferenze  e  dalla  loro  identità.Perché,  come  opportunamente  osserva  A.Margalit  (1998),  non  basta  mirare  ad  una  società  giusta;  quel  che  in  più  si  deve  volere  è  una  “società  decente”,  una  società,  cioè,  che  non  umilia  i  suoi  membri  distribuendo  loro  benefici,  ma  negando  al  tempo  stesso  la  loro  autonomia.La  via  societaria  al  welfarepostula  che  si  pensi  ai  cittadini  come  ad  agenti  responsabili  e  pertanto  che  compito  irrinunciabile  di  un  welfare  declinato  in  forme  civili  sia,  non  solo  assicurare  la  fornitura  di  beni  e  servizi,  ma  anche  promuovere  tutte  quelle  forme  di  azione  collettiva  che  hanno  effetti  pubblici;  postula  cioè  il  superamento  dell’errata  concezione  che  identifica  la  sfera  del  pubblico  con  quella  dello  stato.E’  per  questa  ragione  di  fondo  che  il  nuovo  modello  di  stato  sociale  abbisogna  che  la  società  civile  si  organizzi  (e  si  potenzi)  per  diventare  un  attore  nel  disegno  dei  vari  istituti  del  benessere.  E’  su  tale  sfondo  che  vanno  lette  le  pagine  che  seguono,  alle  quali  assegno  un  duplice  obiettivo.Il  primo  è  quello  di  spiegare  perché  non  esiste  un  assetto  organizzativo  ottimale  del  settore  sanitario,  un  assetto  cioè  capace  di  realizzare,  ad  un  tempo,  gli  obiettivi  dell’equità,  dell’efficacia  e  dell’efficienza  nella  produzione  ed  erogazione  delleprestazioni  sanitarie.Una  tale  presa  d’atto  è  importante  perché,  mentre  ci  libera  dall’illusione  di  poter  arrivare  per  via  di  meccanismi  o  di  interventi  dirigistici  a  sciogliere  i  pervasivi  dilemmi  etici  che  intrigano  l’attività  sanitaria,  ci  sprona  a  ricercare  sul  terreno  delle  scelte  politiche  e  di  una  sapiente  progettualità  pratica  la  via  di  uscita  dai  molteplici  trade-­‐off  che,  come  vedremo,affliggono  il  settore  in  questione.Il  secondo  obiettivo  è  quello  di  portare  argomenti  a  favore  della  tesi  secondo  cui  un  universalismo  sanitario  che  voglia  risultare  sostenibile  non  può,  oggi,che  essere  un  universalismo  categoriale  a  prestazioni  essenziali.Per  sostanziare  questa  tesi  occorre  intervenire  sulle  sue  due  parti.Da  un  lato,  si  tratta  di  produrre  ragioni  per  le  quali  è  bene  che  quello  sanitario  resti  un  servizio  a  copertura  universalistica.Infatti,  chi  scegliesse  la  via  della  selettività  avrebbe  risolto  già  in  partenza  non  pochi  dei  problemi  del  dibattito  corrente  –  soprattutto  quello  della  sostenibilità  finanziaria  –  ma  dovrebbe  poi  dimostrarne  la  sostenibilità  politica  e  sociale.Dall’altro  lato,  occorre  impegnarsi  nella  ricerca  dei  principi  e  dei  criteri  sulla  base  deiquali  è  fattualmente  possibile  arrivare  a  definire  un  pacchetto  di  prestazioni  sanitarie  essenziali.        2.  Perché  il  welfare  sanitario  deve  restare  universalista      Sorge  spontanea  la  domanda:  quali  ragioni  per  così  dire  di  principio  possono  essere  addotte  a  sostegno  delle  tendenze  in  atto  verso  l’applicazione,  in  sede  UE,  di  schemi  universalistici  in  ambito  sanitario?Ve  ne  sono  di  due  tipi:  generali  –  applicabili  cioè  anche  ad  altri  comparti  del  welfare  –  e  specifiche  –  tipiche  cioè  della  sanità.Comincio  dalle  prime.  Una  prima  ragione  è  bene  resa  dall’idea  di  J.  Buchanan  [2]secondo  cui  una  democrazia  stabile  può  sopravvivere  solo  se  i  suoi  programmi  di  welfare  si  ispirano  a  principi  di  “generalità”,  cioè  di  universalismo.L’argomento  è,  in  breve,  il  seguente.Programmi  di  welfare  che  discriminano  fra  i  

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gruppi  sociali,  sottoponendo  i  cittadini  alla  cosiddetta  prova  dei  mezzi  e  agendo  o  sul  versante  della  tassazione  oppure  su  quello  dei  trasferimenti,  finiscono  per  indebolireil  sostegno  della  società  all’intero  processo  politico.  E  ciò  nella  misura,  piuttosto  ampia,  in  cui  programmi  del  genere  generano  incentivi,  tra  la  popolazione,  a  investire  risorse  per  assicurarsi  trattamenti  di  favore  o  per  proteggersi  da  trattamenti  penalizzanti.Pertanto,  uno  stato  sociale  discriminatorio,  se  da  un  lato  favorisce  lo  spreco  delle  risorse  impiegate  in  attività  di  rent-­‐seeking  da  parte  di  gruppi  che  possono  contare  sul  fatto  che,  nei  regimi  a  democrazia  parlamentare,  una  volta  acquisito  un  privilegio  è  praticamente  impossibile  che  esso  possa  venire  annullato  pure  da  una  coalizione  politica  avversaria,dall’altro  lato  esso  finisce  col  frazionare  la  società  erodendo  quel  patto  di  solidarietà  che  è  il  cemento  di  una  democrazia  stabile.  Invero,  è  questo  un  punto  che  già  W.H.  Beveridge,  nel  suo  celebre  rapporto  del  1942  (“Social  insurance  and  allied  services”),  aveva  anticipato  quando  scriveva  che  l’adozione  di  “universal  schemes”  doveva  servire  alla  “solidarity  and  unity  of  the  nation”,  dal  momento  che,  come  si  legge  nel  frontespizio  del  rapporto,  “misery  generates  hate”,  cioè  guerra  civile.  Infatti,  l’esperienza  della  guerra  aveva  insegnato  che  tutti,  indipendentemente  dalla  posizione  sociale  occupata,  correvano  i  medesimi  rischi,  rispetto  ai  quali  non  valeva  la  pena,  né  conveniva  ad  alcuno,  discriminare.E’  dunque  con  la  guerra  –  la  people’s  war  –  che  alle  ragioni  in  termini  di  libertà  dal  bisogno  se  ne  affianca  una  nuova,  quella  dell’eguaglianza  della  cittadinanza  sociale.Ora,  se  il  fondamento  costituito  della  libertà  dal  bisogno  può  essere  compatibile  con  la  selettività  –  si  danno  prestazioni  a  chi  è  portatore  di  specifici  bisogni  –  l’altro  fondamento  postula  di  necessità  l’universalismo.  Si  badi  che  la  validità  di  questo  argomento  non  viene  scalfita  dalla  più  recente  posizione  liberal-­‐liberista  secondo  cui,  essendo  il  benessere  dei  cittadini  funzione  della  prosperità  economica  ed  essendo  quest’ultima  ancorata  all’estensione  delle  relazioni  di  mercato,  la  vera  priorità  per  l’azione  politica  sarebbe  quella  di  assicurare  il  pieno  soddisfacimento  delle  condizioni  (fiscali;  amministrative;  dei  diritti  proprietari  sulle  imprese  e  così  via)  per  la  prosperità  dei  mercati.Di  qui  a  vedere  nello  stato  sociale  –  che  notoriamente  redistribuisce  quote  di  ricchezza  al  di  fuori  del  meccanismo  di  produzione  della  stessa  –  un  impedimento  allo  sviluppo  economico,  il  passo  è  breve.  Di  qui  allora  la  raccomandazione  secondo  cuilo  stato  sociale  deve  occuparsi  solo  di  coloro  che  la  gara  competitiva  di  mercato  lascia  ai  margini  oppure  indietro.  Gli  altri,  quelli  che  riescono  a  rimanere  all’interno  del  circuito  virtuoso  della  crescita,  ricorreranno  alla  tutela  a  mezzo  del  sistema  assicurativo.  Perché  non  regge  una  tale  linea  argomentativa?Per  la  semplice  ragione  che  non  è  vero  –  come  conferma  la  letteratura  teorica  e  come  documenta  l’esperienza  –  che  la  piena  estensione  dell’area  del  mercato  accresce  il  benessere  per  tutti.Non  è  vera  cioè  la  leggenda  che  vuole  che  “una  marea  che  cresce  solleva  tutte  le  barche”.Ma  anche  a  voler  prescindere  da  ciò,  resta  pur  sempre  un  problema  di  libertà.  Se  con  A.  Sen  definiamo  quest’ultima  come  la  capacità  di  esercitare  una  funzione  –  ad  esempio,  la  funzione  di  estrarre  dai  servizi  offerti  il  soddisfacimento  dei  propri  bisogni  –  allora  non  è  sufficiente  volgere  l’attenzione  ai  soli  ammontari  di  beni  e  servizi  a  disposizione  del  soggetto.Questi  potrebbe  non  avere  la  capacità  effettiva  di  servirsene.Un  welfare  che  prende  seriamente  in  considerazione  la  categoria  dei  diritti  –  e  la  capacità  di  esercitare  una  funzione  appartiene  alla  categoria  dei  diritti  –  deve  allora  essere  un  welfare  abilitante:  c’è  un  livello  di  bisogni,  comuni  a  tutti  in  quanto  parte  della  condizione  umana,  che  devono  essere  soddisfatti  prima  ancora  che  i  soggetti  facciano  ingresso  nel  mercato.In  caso  contrario,  ai  cittadini  non  sarebbe  concessa  la  libertà  di  decidere  né  la  composizione  delle  categorie  di  beni  da  produrre  (più  beni  privati  oppure  più  beni  pubblici  oppure  più  beni  relazionali?),  né  le  modalità  di  fornitura  degli  stessi.  A  quest’ultimo  riguardo,  non  si  dimentichi  che  il  beneficio  che  traiamo  dal  consumo  di  un  bene  non  dipende  solo  dalle  sue  caratteristiche  intrinseche,  ma  anche  da  fattori  che  attengono  al  modo  in  cui  quel  bene  ci  viene  erogato.Se  il  mercato  fosse  un’istituzione  

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democratica,  il  problema  qui  sollevato  potrebbe  venire  risolto  con  gli  usuali  metodi,  ma  –  come  già  J.S.  Mill  aveva  intuito  –  il  mercato  è  un’arena  in  cui  i  voti  si  pesano  e  non  semplicemente  si  contano.  Quali  ragioni,  specificamente  riferite  al  settore  sanitario,  parlano  a  favore  dell’universalismo?La  prima  e  più  immediata  risiede  nelle  non  lievi  difficoltà  di  gestione  dei  sistemi  di  selezione:  come  giungere  alla  corretta  identificazione  di  coloro  che  hanno  diritto  alle  prestazioni  e  come  porre  in  atto  procedure  di  controllo  e  di  monitoraggio  della  platea  dei  beneficiari,  chiaramente  destinata  amutare  di  composizione  nel  corso  del  tempo?Come  bene  illustra  Toso  (1998),  un  programma  di  spesa  su  basi  selettive  esige  sia  la  fissazione  di  criteri  di  eleggibilità,  con  cui  si  stabiliscono  i  confini  categoriali  del  programma  (il  diritto  ad  usufruire  di  certe  prestazioni  è  condizionato  al  possesso  di  caratteristiche  di  meritorietà  che  delimitano  i  confini  delle  categorie  degli  aventi  diritto),  sia  l’esecutività  dei  criteri  di  assegnazione  con  i  quali  si  sancisce  l’effettiva  fruibilità  delle  prestazioni  –  ad  esempio,  l’individuazione  delle  variabili  monetarie  da  cui  dipende  la  fruizione.Chiaramente,  ferme  restando  le  regole  di  eleggibilità,  modificazionidi  quelle  di  assegnazione  estendono  o  riducono  la  platea  dei  beneficiari  effettivi  a  seconda  delle  esigenze  del  decisore  pubblico.  Tuttavia,  i  pervasivi  fenomeni  di  asimmetria  informativa,  massicciamente  presenti  nel  settore  sanitario,  e  le  difficoltà  di  raccolta  e  di  gestione  delle  informazioni  necessarie  fanno  sì  che  gli  errori  per  l’identificazione  dei  potenziali  beneficiari  costituiscano  la  regola  piuttosto  che  l’eccezione.E  non  v’è  chi  non  veda  come,  nel  caso  della  tutela  sanitaria,  siano  assai  più  gravi  gli  errori  di  esclusione  –  si  escludono  coloro  che,  in  condizioni  di  perfetta  informazione,  risulterebbero  destinatari  delle  prestazioni  –  che  non  gli  errori  di  inclusione  –  si  includono  i  non  aventi  diritto,  cioè  i  falsi  positivi.In  campo  previdenziale,  invece,  meno  gravi  risultano  essere  gli  errori  di  esclusione,  dal  momento  che  è  più  agevole  riparare  qui  i  danni  arrecati  ai  falsinegativi,  poniamo,  con  forme  varie  di  indennizzo.  Possiamo  sintetizzare  il  ragionamento  che  precede  in  questo  modo.Quello  sanitario  è  un  settore  inesorabilmente  dominato  da  fenomeni  di  asimmetria  informativa.  (Può  essere  interessante  ricordare,  di  sfuggita,  che  le  espressioni  selezione  avversa  e  azzardo  morale  –  espressioni  che  denotano  i  problemi  ascrivibili  all’asimmetria  informativa  –  furono  per  primo  coniate  da  K.  Arrow,  nel  suo  celebre  articolo  del  1963,  proprio  con  riferimento  alla  tutela  sanitaria).  D’altro  canto,  mentre  i  problemi  sul  fronte  dell’efficienza  attribuibili  all’azzardo  morale  (l’assicurazione  medica  ha  per  oggetto  la  cura  a  prescindere  dal  costo  della  stessa)  e  al  rapporto  d’agenzia  (l’agente  non  subisce  i  costi  del  trattamento  che  pratica)  sono  ancora  irrisolti  a  livello  teorico,  per  quelli  attribuibili  alla  selezione  avversa  la  soluzione  “naturale”  esiste  e  questa  si  chiama  universalismo.Va  da  sé  che  ciò  non  significa  che  laddove  la  tutela  sanitaria  è  offerta  su  base  universalistica,  tutti  i  soggetti,  come  è  il  caso  del  nostro  paese,  riescono  nella  realtà  ad  usufruirne.In  effetti,  se  la  tecnologia  di  fruizione  dei  servizi  sanitari  richiede,  in  aggiunta  all’accesso  ai  medesimi,  la  disponibilità  di  altri  input  (livello  adeguato  di  educazione;  condizioni  minime  di  reddito  e  altro),  non  basta  predisporre  uno  schema  universalistico  perché  tutti  i  cittadini  ne  possano  trarre  beneficio.Ma  ciò  nulla  dice  contro  l’universalismo;  anzi,  aggiunge  una  ragione  in  più  per  rafforzarlo.  Alla  luce  dell’argomento  sopra  esposto,  si  riesce  a  misurare  la  insufficiente  formulazione  del  legislatore  costituente  quando  all’art.  32,  c.1  della  nostra  carta  costituzionale  scrive:  “La  Repubblica  tutela  la  salute  come  fondamentale  diritto  dell’individuo  e  interesse  della  collettività  e  garantisce  cure  gratuite  per  gli  indigenti”.  Mentre  si  attribuisce  qui  cogenza  di  diritto  soggettivo  alla  tutela  della  salute  e  si  riconosce  altresì  la  capacità  del  servizio  sanitario  di  generare  esternalità  positive  a  vantaggio  dell’intera  collettività  –  riconoscimenti  entrambi  notevoli  e  all’avanguardia  rispetto  allo  “spirito  dei  tempi”  –  non  si  prende  atto  dei  gravi  inconvenienti  cui  

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darebbe  luogo  un  sistema  sanitario  residuale  nel  quale  gli  abbienti  accedono  alle  cure  sanitarie  per  via  assicurativa  e  i  non  abbienti  per  via  caritativa  ovvero  solidaristica.      C’è  una  seconda  ragione  specifica  su  cui  intendo  soffermarmi.Essa  ha  a  che  vedere  con  una  peculiare  caratteristica  del  processo  di  produzione  dei  servizi  sanitari:  chi  fruisce  di  tali  servizi  attribuisce  importanza,  e  perciò  un  valore  positivo,  non  solamente  all’ottenimento  della  salute  –  il  che  è  ovvio  –  ma  anche  a  altri  risultati  (nel  senso  di  outcomes))  quali  il  rispetto  dell’autonomia  personale,  la  relazionalità,  l’equità.Proviamo  a  chiarire.  Il  rispetto  dell’autonomia  del  paziente,  intesa  come  possibilità  concreta  che  questi  ha  di  prendere  decisioni,  in  un  senso  o  nell’altro,  riguardanti  il  proprio  stato  di  salute,  è  qualcosa  di  più  del  ben  noto  principio  della  sovranità  del  consumatore.Quest’ultimo  dice  che  devono  essere  i  valori  dell’agente  a  contare  nel  processo  decisionale  e  che  a  questi  spetta  la  decisione  di  scelta.  L’autonomia,  invece,  in  quanto  capacità  di  spiegare  le  proprie  scelte  riferendole  ai  propri  scopi,  implica  che  al  paziente  venga  riconosciuto  il  diritto  anche  di  non  scegliere.Questo  significa  che  l’atto  della  scelta  entra,  di  per  sé,  come  argomento  positivo  nella  funzione  di  utilità  del  soggetto,  a  prescindere  dagli  effetti  che  l’esercizio  della  scelta  andrà  poi  a  produrre.  (Ciò  è  quanto  è  implicato  dalla  nozione  di  consumer  empowerment).Eppure,  nella  vasta  letteratura  di  economia  sanitaria,  l’esercizio  della  scelta  è  quasi  sempre  un’opzione  del  medico,  il  quale  opera  o  direttamente  in  qualità  di  agente  del  paziente-­‐principale  oppure  indirettamente  come  fornitore  delle  informazioni  rilevanti  per  la  scelta.[3]Chiaramente,  ciò  è  un  riflesso  dell’impianto  utilitaristico  entro  cui  si  svolge  quella  letteratura:  mentre  il  principio  della  sovranità  del  consumatore  è  compatibile  con  la  matrice  filosofica  dell’utilitarismo,  la  nozione  di  autonomia  personale  non  riesce  a  trovare  posto  all’interno  di  quella  matrice.  Anche  le  modalità  di  erogazione  dei  servizi  sanitari  sono  un  elemento  positivamente  valutato  dall’utente.  Come  una  miriade  di  ricerche  empiriche  conferma  –  in  particolare,  quelle  sullo  stato  di  attuazione  delle  Carte  dei  Servizi  Sanitari  e  dei  Comitati  consultivi  misti  -­‐  il  paziente  è  sempre  più  interessato  alla  cosiddetta  “medicina  di  relazione”.La  discrezione  nella  esecuzione  di  certi  esami  diagnostici  (si  pensi  alla  endoscopia  rettale);  la  decenza  dei  luoghi  di  attesa  per  esami  clinici;  l’accesso  all’informazione  non  distorta  riguardante  il  proprio  stato  di  salute;  le  forme  dell’interazione  medico-­‐paziente  sono  altrettanti  esempi  di  beni  relazionali  che  vengono  domandati  dai  soggetti,  ma  per  i  quali  non  sembrano  esserci  attenzioni  adeguate  dal  versante  dell’offerta.  Grosso  modo,  relazionale  è  quel  bene  (o  servizio)  che  genera  utilità  non  solo  per  le  sue  proprietà  intrinseche,  come  avviene  per  tutti  gli  altri  beni,  ma  anche  per  le  modalità  in  cui  si  svolge  il  processo  di  consumo.  Duplice  è  la  connotazione  dei  beni  relazionali.  Per  quanto  attiene  il  lato  della  produzione,  la  relazionalità  esige  la  compartecipazione  di  tutti  i  membri  dell’organizzazione,  senza  che  i  termini  della  stessa  siano  negoziabili.  Quanto  a  dire  che  l’incentivo  che  induce  dei  soggetti  a  prendere  parte  alla  produzione  del  bene  relazionale  non  può  essere  esterno  alla  relazione  che  lega  tra  loro  quei  soggetti:  l’identità  dell’altro  conta.Relativamente  al  lato  del  consumo,  la  funzione  di  un  bene  relazionale  postula  un  qualche  coinvolgimento  del  soggetto  di  offerta,  perché  il  rapporto  diretto  con  l’altro  è  costitutivo  dell’atto  di  consumo;  ciò  che  spiega  perché  nel  processo  di  consumo  di  tali  beni  la  comunicazione  diviene  elemento  non  secondario.  Infine,  l’equità  come  eguaglianza  delle  opportunità  di  accesso  alle  prestazioni  sanitarie  è  pure  un  risultato  desiderato  del  processo  di  produzione  di  tali  prestazioni.Come  noto,  quella  dell’equità  in  sanità  è  questione  tuttora  ampiamente  dibattuta  in  letteratura,  né  si  vedono  segnali  di  convergenza  verso  soluzioni  sufficientemente  condivise.Delle  tre  principali  nozioni  di  equità  nelle  cure  sanitarie  –  eguaglianza  della  salute;  eguaglianza  d’uso  delle  cure  a  parità  di  bisogno;  

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eguaglianza  di  accesso  alle  cure  –  è  questa  terza  quella  maggiormente  adottata  nei  documenti  di  politica  sanitaria,  ad  eccezione  forse  di  quelli  dell’OMS,  la  quale  pare  privilegiare,  inspiegabilmente,  la  prima  accezione.[4]E’  agevole  comprendere  le  ragioni  della  preferenza  accordata  alla  nozione  di  equità  come  accesso.Essa  si  inscrive  nella  prospettiva  di  valutazione  “process-­‐oriented”,  secondo  cui  è  al  processo  piuttosto  che  allo  stato  finale  che  si  deve  prestare  attenzione  quando  si  devono  valutare  istituzioni  o  politiche  alternative.(Le  altre  due  nozioni  di  equità  si  inscrivono  invece  nella  prospettiva  “end-­‐state”:  solo  il  risultato  finale  del  processo  conta).Pertanto,  un  sistema  sanitario  difendibile  deve  tendere  a  trattare  in  modo  imparziale  le  aspirazioni  di  tutti  i  potenziali  pazienti,  proprio  come  esige  il  celebrato  principio  di  neutralità,  vero  cardine  del  pensiero  liberale.  Ora,  è  bensì  vero  che  almeno  due  versioni  diverse  di  tale  nozione  di  equità  sono  possibili  –  l’accesso  va  riferito  alla  effettiva  utilizzazione  delle  prestazioni  oppure  ai  costi  opportunità  che  i  pazienti  devono  sostenere  per  beneficiare  delle  prestazioni?  –  e  che  a  seconda  di  quale  delle  due  versioni  venga  adottata  si  ottengono  risultati  diversi.E’  tuttavia  innegabile  che  tale  nozione  bene  veicoli  l’idea  che  un  servizio  sanitario  accettabile  da  un  paese  a  democrazia  avanzata  sia  quello  che  garantisce  a  tutti  i  suoi  cittadini  una  eguale  opportunità  di  usare  determinate  prestazioni.Un  servizio,  cioè,  che  abbiacome  suo  scopo,  non  il  livellamento  delle  prestazioni,  ma  l’abilitazione  dei  cittadini  nei  confronti  dei  trattamenti  sanitari.  Usher  (1977)  ha  coniato  l’espressione  “socializzazione  dei  beni”  per  descrivere  una  situazione  in  cui  una  società  decide  di  appropriarsi  dell’intera  quantità  disponibile  di  un  bene  e  di  redistribuirlo  tra  i  suoi  cittadini  in  base  a  criteri  non  di  mercato  ed  ha  individuato  nel  settore  sanitario  l’ambito  tipico  in  cui  tale  situazione  si  riscontra.  In  altri  termini,  i  servizi  sanitari  apparterrebbero  alla  categoria  dei  beni  sociali,  beni  cioè  che  vengono  consumati  in  base  al  bisogno  a  prescindere  dal  grado  in  cui  il  beneficiario  concorre  al  loro  finanziamento.  E’  stato  dimostrato  che  i  sistemi  universalisti  mitigano,  coeteris  paribus,  la  correlazione  esistente  tra  status  socio-­‐economico  delle  persone  e  condizioni  di  salute.  E’  noto,  infatti,  che  i  poveri  e  i  soggetti  poco  educati  soffroo  di  più  alti  tassi  di  morbilità  e  di  mortalità.  In  uno  studio  recente,  S.  Decker  e  D.  Remler  (“How  much  might  universal  health  insurance  reduce  socioeconomic  dispaities  in  health?”,  NBER,  Agosto  2004)  confrontano  la  situazione  in  Canada  e  negli  USA  e  trovano  che  avere  un  reddito  inferiore  al  reddito  mediano  aumenta  la  probabilità  che  una  persona  di  mezza  età  possa  trovarsi  in  cattiva  salute  di  circa  il  15%  negli  USA  e  di  circa  il  7%  in  Canada  (dove  esiste  un  sistema  di  tipo  universalistico).  D’altro  canto,  questa  differenza  di  8  punti  percentuali  tra  i  due  paesi  si  riduce  a  4  punti  relativamente  alle  persone  di  età  oltre  i  65  anni.  (Negli  USA,  gli  ultra  sessantacinquenni  godono  dei  servizi  universalistici  del  Medicare).  In  conclusione,  se  si  ritiene  che  attributi  quali  autonomia,  relazionalità  e  equità  debbano  costituire  parte  integrante  del  patrimonio  della  cittadinanza  e  dunque  da  riconoscersi  a  tutti  i  cittadini  indistintamente,  si  deve  convenire  che  una  sanità  costruita  subasi  selettive  costituirebbe  una  palese  contraddizione  pragmatica  di  tale  principio.  Una  conferma  diretta  ci  viene  dall’esperienza  USA.  In  questo  paese,  nel  2002,  il  15,2%  degli  americani  –  pari  a  circa  43,6  milioni  –  erano  risultati  privi  di  assicurazione  sanitaria  per  l’intera  durata  dell’anno.  Nel  2001,  la  medesima  percentuale  era  stata  del  14,6%.  Per  questa  categoria  di  soggetti,  l’unica  speranza  di  accedere  alle  cure  è  legata  alla  disponibilità  di  offerta  dei  servizi  da  parte  delle  reti  di  sicurezza  rappresentate  dagli  ospedali  pubblici,  dai  centri  comunitari  della  salute,  dalle  varie  organizzazioni  non  profit  operanti  nel  settore.  Chiaramente,  per  le  persone  prive  di  assicurazione  l’accesso  alle  cure  sanitarie  è,  di  fatto,  razionato.  (Si  veda,  C.  Gresenz,  J.  Rogowski,  J.  Escarce,  “Health  care  markets,  the  safety  net  and  access  to  care  among  the  uninsured”,  NBER,  Sett.  2004).  Il  paese  con  i  migliori  ricercatori  al  mondo,  con  le  migliori  terapie  contro  quasi  tutte  le  malattie  

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non  riesce  ad  offrire  a  tutti  i  suoi  pazienti  prestazioni  di  qualità,  pur  spendendo  per  la  sanità  più  del  doppio  degli  altri  paesi  industrializzati  (circa  il  16%  del  PIL  americano).        3.  L’universalismo  sostenibile  in  sanità  e  l’arretratezza  del  dibattitosulle  priorità.      Pronunciarsi  a  favore  dell’universalismo  vuol  forse  dire  sottoscrivere  un  welfare  sanitario  che  promette  “tutto  a  tutti”  ?Certamente  no;  sarebbe  un  non  sequitur  sostenerlo.In  effetti,  dalla  presa  d’atto  che  un  universalismo  completo,  cioè  omnicomprensivo,  è  semplicemente,  nelle  condizioni  odierne,  non  credibile  si  dipartono  due  vie  che  è  possibile  percorrere:  garantire  “tutto  ad  alcuni”,  che  è  la  via  della  concezione  residuale  di  welfare  che  postula  la  selettività,  oppure  garantire  “l’essenziale  a  tutti”,  che  è  la  via  della  concezione  redistributiva  di  welfare  che,  sulla  base  delle  considerazioni  precedenti,  vado  a  difendere.  Come  si  può  comprendere,  il  compito  non  certo  lieve  che  ricade  su  chi  opera  una  tale  sceltaè  quello  di  proporre  criteri,  coerenti  ed  eticamente  accettabili,  in  base  ai  quali  sia  possibile  definire  il  pacchetto  delle  prestazioni  essenziali  (health  care  basket)  da  assicurare  a  tutti  –  “i  livelli  essenziali  di  assistenza”,  appunto.E’  questo  l’oggetto  della  grossa  questione  riguardante  la  fissazione  delle  priorità  ovvero  del  razionamento  in  materia  sanitaria.  Può  essere  interessante  annotare  che  fu  la  sentenza  della  Corte  Costituzionale  n.  356  del  luglio  1992  a  sollevare,  nel  contesto  italiano,  il  velo  sul  problema  delle  priorità,  allorchè  venne  puntualizzata  la  necessità  di  condizionare  alle  effettive  disponibilità  finanziarie  “la  quantità  e  il  livello  delle  prestazioni  sanitarie,  da  determinarsi  previa  valutazione  delle  priorità  e  compatibilità  e  tenuto  conto  ovviamente  delle  fondamentali  esigenze  connesse  alla  tutela  del  diritto  alla  salute”.  Si  pone  la  domanda:perché  il  confronto  critico  sulla  questione  delle  priorità  in  sanità  è  finora  rimasto  virtualmente  ai  margini,  sia  tra  esperti  sia  tra  politici?  [5]Si  possono  indicare  tre  circostanze  diverse,non  mutuamente  escludentisi.La  prima  è  che  come  si  evince  osservando  l’andamento  della  spesa  sanitaria  pubblica  nei  paesi  dell’Occidente  avanzato,  è  solo  in  anni  relativamente  recenti  che  sorge  un  problema  di  compatibilità  finanziaria  per  questo  comparto  della  spesa  sociale.Questo  fatto  ha  contribuito  a  diffondere  il  convincimento,  anche  a  livello  di  cultura  popolare,  secondo  cui  quella  sanitaria  sarebbe  un’attività  non  sottoponibile  al  giudizio  di  efficienza,  sia  tecnica  sia  allocativa.Proprio  in  virtù  delle  caratteristiche  di  meritorietà  dei  servizi  prodotti,  alle  strutture  sanitarie  non  sarebbero  applicabili  i  criteri  di  valutazione  economica  che  valgono  invece  per  tutte  le  altre  attività  umane.Il  medico  –  in  senso  lato  –  non  sarebbe  dunque  tenuto  a  dare  conto  di  inefficienze  di  vario  genere,  di  sprechi  e  duplicazioni  di  spesa  –  episodi  questi  tutt’al  più  qualificabili  come  mali  minori  o  addirittura  inevitabili.Per  un’analisi  interessante  delle  conseguenze  in  termini  sia  di  costi  sia  di  iniquità  nella  allocazione  delle  risorse  in  sanità  derivanti  dalla  ritrosia  dei  medici  di  prendere  atto  che  le  proprie  decisioni  sono  sempre,  in  qualche  modo,  influenzate  dalla  scarsità  delle  risorse,  si  veda  C.  Alexander  et  Al.,  “The  costs  of  denying  scarcity”,  Arch.  Int.  Med,  2004,  164.  In  buona  sostanza,  fin  quando  la  spesa  sanitaria  si  mantiene  entro  livelli  significativamente  bassi  –  in  Italia,  la  spesa  sanitaria  pro-­‐capite  fu,  ancora  nel  1980,  di  600  $,  schizzando  però  a  1236  $  nel  1990  (Oxley  e  MacFarlan,  1994)  –  è  comprensibile  che  non  si  ponga,  e  quindi  non  si  affronti,  il  problema  delle  priorità.      La  seconda  circostanza  cui  sopra  facevo  riferimento  è,  in  un  certo  senso,  speculare  rispetto  alla  prima.Non  è  possibile  avviare  un  dibattito  sereno  e  approfondito  sulle  priorità  in  sanità  in  condizioni  di  emergenza  finanziaria.In  verità,  l’imperativo  categorico  –  contenere  la  spesa  pubblica  per  rientrare  nei  parametri  sanciti  dal  Trattato  di  Maastricht  –  ha  finito  con  il  dirottare  l’attenzione  e  le  preoccupazioni  di  tutti  su  una  unica  priorità:  come  ridurre  la  spesa  sanitaria.E’  così  che,  a  partire  dai  primi  anni  ’80,  si  è  cominciato  a  distinguere  tra  il  momento  del  diritto  alle  

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prestazioni  –  diritto  che  è  rimasto  universale  e  dunque  incondizionato  –  e  il  momento  della  compartecipazione  alla  spesa  sanitaria:  eccetto  gli  esenti,  gli  utenti  vengono  chiamati  al  pagamento  di  ticket  su  prestazioni  quali  ricovero  in  regime  di  day-­‐hospital,  pronto  soccorso  ospedaliero,  spesa  farmaceutica,  diagnostica  specialistica.Questa  sorta  di  “neouniversalismo”  –  ha  fatto  credere,  per  qualche  tempo,  che  per  rendere  finanziariamente  sostenibile  il  SSN  fosse  sufficiente  agire,  oltre  che  sulla  razionalizzazione  organizzativa  del  sistema,  sulla  platea  degli  esenti  intervenendo  in  senso  restrittivo  mediante  opportuni  raffinamenti  dei  criteri  di  merito  per  la  gratuità.  Non  solo,  ma  una  sorta  di  ossessione  finanziaria  ha  finito  con  i  recentipervadere  il  processo  diriforma  del  SSN.Come  si  sa,  il  fuoco  dell’attenzione  si  è  sostanzialmente  posato  sulla  struttura  finanziaria  del  sistema,  così  che  la  scelta  della  natura  della  competizione  e  della  conseguente  ristrutturazione  dell’organizzazione  dell’offerta  vengono  viste  come  variabili  dipendenti.Il  risultato  è  stato  –  almeno  fino  ad  ora  –  un  rovesciamento  dell’ordine  naturale  delle  cose:  anziché  mettersi  alla  ricerca  della  struttura  organizzativa  dell’offerta  di  servizi  sanitari  che  meglio  soddisfacesse  i  requisiti  di  efficienza  e  di  efficacia,  ci  si  è  preoccupati  di  trovare  quale  organizzazione  fosse  maggiormente  capace  di  realizzare  gli  obiettivi  di  contenimento  della  spesa  sanitaria  a  seguito  dell’introduzione  del  nuovo  sistema  di  finanziamento  prospettico  delle  prestazioni  di  assistenza  ospedaliera  specialistica  e  riabilitativa  (le  cosiddette  tariffe  per  DRG).  [6]  Ritengo  sia  giunto  il  momento  di  prendere  finalmente  atto  che  è  necessario  andare  oltre  il  neouniversalismo,  arrivando  a  qualificare  in  modo  nuovo  il  principio  della  comprensività  delle  prestazioni.La  novità  sta  in  ciò  che  si  deve  introdurre  un  criterio  categoriale  non  già  rispetto  ai  beneficiari,  bensì  rispetto  alle  prestazioni  da  erogare  a  tutti.Ma,  chiaramente,  ciò  non  può  avvenire  quando  la  preoccupazione  per  le  compatibilità  di  bilancio  precede  tutte  le  altre.      La  terza  circostanza  che  ha  finora  impedito  che  si  arrivasse,  ad  una  qualche  presa  di  posizione  sul  tema  delle  priorità  nelle  cure  sanitarie  ha  a  che  vedere  con  la  particolare  situazione  dei  rapporti  ancora  esistenti  tra  discipline  economiche,  scienze  mediche  e  filosofia  morale.Il  muro  di  incomunicabilità  che  da  sempre,  ha  tenuto  separate  queste  tre  aree  di  studio  ha  reso  oltremodo  difficile  la  individuazione  di  un  terreno  di  incontro  in  cui  affrontare  congiuntamente  il  problema  qui  in  discussione.  D’altro  canto,  le  priorità  non  potranno  mai  essere  fissate  da  nessuna  delle  tre  aree  isolatamente  dalle  altre.  Per  quanto  attiene  la  disciplina  che  professo,  le  cose  sono  andate,  più  o  meno,  nei  termini  seguenti.Con  l’affermarsi  nella  scienza  economica  della  celebre  tesi  della  avalutatività  –  una  delle  tesi  centrali  dello  statuto  epistemologico  neopositivista  –  si  diffonde  la  tendenza  a  considerare  il  sapere  prodotto  dall’economia  come  un  sapere  libero  da  funzioni  pratico-­‐orientative.Il  sapere  economico  non  accompagna  e  guida  l’azione  dei  decisori,  quali  che  essi  siano,  ma  vede  e  prevede  le  azioni  umane  come  il  fisico  vede  e  prevede  i  movimenti  della  natura.L’assunzione  del  carattere  avalutativo  quale  criterio  di  demarcazione  del  sapere  scientifico,  una  volta  congiunta  all’idea  che  solo  quest’ultimo  possa  dirsi  rigorosamente  razionale,porta  a  concepire  l’avalutatività  come  carattere  inerente  per  essenza  alla  ragione  economica.  Come  dire  che,  per  essere  scienziato,  l’economista  non  può  compromettersi  con  i  giudizi  di  valore.Lo  scarto  che  in  tal  modo  si  apre  tra  ragionee  decisione  risulta  incolmabile.Fini  e  ragioni  vengono  dichiarati  infondabili  dalla  ragione  scientifica,  la  quale  nulla  ha  da  dire  su  di  essi.Di  qui  la  diffusione  di  atteggiamenti  relativistici,  se  non  addirittura  scettici,  tra  non  pochi  economisti,  anche  tra  coloro  che  si  occupano  di  questioni  di  economia  applicata.  Il  disagio  per  questa  astinenza  da  orientamenti  è  ormai  sotto  gli  occhi  di  tutti,  soprattutto  di  quegli  economisti  che  amano  interrogarsi  sull’uso  dei  risultati  della  propria  pratica  

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scientifica.Non  è  difficile  darsene  conto.Se  si  pensa  all’economia  come  ad  uno  dei  modi  –  non  certo  il  solo  –  di  accrescere  la  nostra  comprensione  degli  accadimenti  del  mondo  sociale  e  di  concorrere  a  modificare  per  il  meglio  determinati  assetti  sociali,  come  ad  esempio  il  sistema  di  welfare,  l’economista  non  può  autodelimitare  il  proprio  raggio  di  intervento  alle  sole  questioni  di  efficienza.E  soprattutto  non  può  fingere  di  ignorare  che  quanto  più  ampia  diventa  la  portata  delle  decisioni  da  prendere  –  come  è  il  caso  in  sanità  –  tanto  più  necessario  diviene  il  compito  di  rendere  espliciti  i  criteri  sulla  base  dei  quali  si  operano  scelte.“Pur  sapendo  tutto  questo  –  scrive  Jonas  (1991)  –  il  tecnico  dell’economia  si  sente  ancora  costretto  a  negare  alla  propria  scienza  il  potere  di  fornire  tali  criteri  di  scelta  e,  di  conseguenza,  l’autorità  di  dire  sì  o  no  a  qualunque  fine  venga  proposto,  con  l’eccezione,  ovviamente,  delle  decisioni  che  riguardano  la  mera  fattibilità.Inoltre,  alla  domanda  se  la  conoscenza  economica  debba  essere  giudice  dei  suoi  obiettivio  una  mera  esecutrice,  il  purista  risponde  scegliendo  la  seconda  possibilità.E’  la  risposta  dell’ascetismo  scientifico,  cui  egli  si  attiene  in  nome  della  purezza  scientifica  dell’economia.”  (p.  142).Eppure,  oggi  sappiamo  che  la  ragione  scientifica  può  svolgere  una  funzione  fondante  dei  valori,  come  a  dire  che  valori  e  conoscenza  scientifica  non  necessariamente  hanno  da  opporsi  fra  loro,  come  già  Pascal,  in  epoca  moderna,aveva  coraggiosamente  sostenuto.[7]  Quanto  questo  “ascetismo  scientifico”  abbia  nuociuto  (ritardandolo)  all’avvio  di  un  aperto  dibattito  sul  tema  delle  priorità  in  sanità  è  sotto  gli  occhi  di  tutti.Infatti,  si  è  andata  consolidando  una  irragionevole  e  perversa  divisione  del  lavoro  tra  studiosi,  in  forza  della  quale  l’economista  sanitario  dovrebbe  occuparsi  dei  soli  giudizi  di  efficienza;  al  medico  spetterebbero  i  giudizi  di  efficacia  (e  di  appropriatezza)  degli  interventi;  il  filosofo  (morale  e/o  politico)  dovrebbe  intervenire  sulle  questioni  di  equità.Ma  è  chiaro  che,  partendo  da  una  simile  tripartizione  di  compiti  e  funzioni,  né  i  dilemmi  dell’allocazione  intersettoriale  delle  risorse  (quante  risorse  attribuire  alla  sanità  e  quante  agli  altri  settori  da  cui  pure  dipende  la  salute  dei  cittadini,  come  l'ambiente,  la  sicurezza  del  traffico  e  dei  luoghi  di  lavoro  e  così  via);  né  i  dilemmi  dell’allocazione  intrasettoriale  delle  risorse  (quante  dedicarne  alla  cura  dell’una  patologia  piuttosto  che  dell’altra);  né  i  dilemmi  di  tipo  distributivo  (come  ripartire  i  carichi  finanziari  tra  cittadini  e  regioni),  potranno  mai  venire  sciolti  in  modo  ragionevole  e  soprattutto  politicamente  accettabile.        4.  Approcci  alla  fissazione  delle  priorità  in  sanità      Come  regolarsi  al  proposito?La  crisi  etica  in  cui  si  dibattono  i  sistemi  sanitari  dei  nostri  paesi  ha  la  sua  radice  in  ciò.Tali  sistemi  vennero  creati  allo  scopo  di  alleviare  le  sofferenze  e  di  salvare  la  vita  di  soggetti  senza  esclusione  alcuna  a  priori;  d’altro  canto,  lo  stato  delle  conoscenze  e  soprattutto  la  scarsa  efficacia  della  medicina  non  consentivano  che  interventi  modesti,  tanto  che,  se  l’accesso  alle  cure  mediche  di  epoche  ancora  precedenti  era  riservato  alle  classi  abbienti,  non  era  affatto  certo  che  ciò  si  risolvesse  in  uno  svantaggio  per  gli  esclusi  –  come  la  storia  della  medicina  puntualmente  documenta.Oggi,  la  situazione  si  è  come  capovolta.Il  razionamento  esplicito  –  perché  quello  implicito  c’è  sempre  stato  –  è  divenuto  inevitabile,  ma  non  si  sa  come  venirne  fuori.  “L’etica  medica  –  scrive  M.  Jori  (1994)  –  non  è  più  solamente  l’etica  del  medico  [quella  cioè  riferita  al  rapporto  medico-­‐paziente];  diventa  il  problema  dei  principi  in  base  ai  quali  si  allocano  le  risorse  alla  medicina  nel  suo  complesso  e  si  distribuiscono  all’interno  della  medicina”  (p.  80).E  più  avanti:  “Il  paradosso  etico  cui  ci  troviamo  davanti  è  dunque  che  l’aumento  di  potenza  della  medicina  ha  aumentato,  invece  di  diminuire,  il  numero  delle  scelte  tragiche  che  l’etica  si  trova  davanti  in  campo  medico”  (p.  82).In  verità,  è  questo  un  paradosso  tipico  dell’età  di  sviluppo  in  cui  siamo  entrati.  Due  sono  i  livelli  di  discorso  rilevanti  ai  fini  presenti.A  partire  dagli  obiettivi  generali  che  il  decisore  pubblico  intende  perseguire,  quali  criteri  adottare  per  stabilire  che  cosa  aspettarsi  dal  

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SSN;  cioè  a  dire,  per  decidere  dove  tracciare  i  confini  delle  responsabilità  da  porre  in  capo  ad  una  istituzione  pubblica  come  il  SSN  ?Si  chiedono,  provocatoriamente,  New  e  Le  Grand  (1997):  “Il  National  Health  Service  dovrebbe  dedicare  risorse  alla  rimozione  dei  tatuaggi?  …  E’  compito  del  NHS  fornire  il  trattamento  della  sterilità,  la  fisioterapia  per  incidenti  sportivi,  il  cambiamento  di  sesso,  …la  chirurgia  estetica?”  (pp.  231  e  238).  Si  considerino  anche  i  casi  della  “farmacologia  cosmetica”  e  dei  farmaci  psicotropi.  Come  sappiamo,  si  sta  diffondendo  la  propensione  a  dilatare  il  campo  di  intervento  terapeutico  anche  a  situazioni  semplicemente  spiacevoli.  Si  preferiscono  cioè  scorciatoie  farmacologiche  a  più  impegnativi  interventi  di  tipo  educativo.  La  questione  del  razionamento  in  sanità  si  pone  a  questo  livello  di  discorso.Contrariamente  a  quanto  si  pensa,  oggetto  del  razionamento  sono  le  prestazioni  e  non  già  le  persone  da  selezionare  per  ricevere  undeterminato  trattamento.Per  comprendere  quanto  diffusi  siano  ancora  i  pregiudizi  sul  concetto  di  razionamento,  può  essere  interessante  riferire  l’esperienza  dell’Ethics  Working  Group  costituito  nel  1993  dall’amministrazione  Clinton  nell’ambito  della  Health  Care  Task  Force,  con  il  compito  di  affrontare  il  problema  dell’ordinamento  delle  priorità  dei  servizi  medici.Secondo  il  resoconto  di  N.  Daniels  (1998),  membro  del  gruppo  di  lavoro,  durante  la  seduta  di  insediamento  venne  imposto  al  gruppo  medesimo  di  mai  usare  il  termine  razionamento  nei  documenti  che  questo  avesse  prodotto,  con  la  motivazione  che  tale  termine  avrebbe  spaventato  la  gente,  mettendo  a  repentaglio  la  realizzabilità  della  riforma.Eppure,  la  società  americana  accetta,  come  si  è  ricordato  più  sopra,  che  il  razionamento  delle  cure  mediche  avvenga  sulla  base  della  capacità  di  pagare  dei  soggetti.  Il  secondo  livello  di  discorso  ha  a  che  vedere,  invece,  con  i  “luoghi”  in  cui  applicare  quanto  è  stato  deciso  al  primo  livello  e  soprattutto  ha  a  che  vedere  con  le  procedure  di  decisione  adeguate  ai  fini  della  determinazione  di  “chi  ottiene  cosa”.Ad  esempio,  si  devono  lasciare  queste  decisioni  al  medico  di  base  o  allo  specialista?;  a  comitati  misti  medici-­‐pazienti  o  ad  una  qualche  agenzia  pubblica?Il  razionamento  deve  applicarsi  ai  soli  livelli  alti  del  sistema  sanitario  (prevenzione  e  cura,  ospedali  e  assistenza  di  base)  oppure  deve  spingersi  fino  a  quelli  più  bassi,  poniamo  a  livello  delle  AUSL  ?Se  nel  reparto  rianimazione  di  un  ospedale  vi  è  un  solo  posto  disponibile  e  vi  vengono  ricoverate  due  persone  che  necessitano  entrambe  di  quel  particolare  tipo  di  cura,  quale  delle  due  dovrebbe  occupare  l’unico  posto  disponibile?E  così  via.  In  quel  che  segue,  fisserò  l’attenzione  solamente  sul  primo  livello  di  discorso,  chiaramente  propedeutico  al  secondo[8].Parecchi  sono  gli  approcci  che  sono  stati  proposti  in  letteratura  e,  in  parte,  già  sperimentati  in  alcuni  paesi.I  due  approcci  più  popolari  –  quello  della  fissazione  di  target  e  quello  basato  sugli  studi  di  costo  della  malattia  –  sono  anche  quelli  più  insoddisfacenti.Vediamo  perché.  Il  metodo  della  fissazione  dei  target  di  salute  e  di  cure  sanitarie  ha  conosciuto  una  certa  popolarizzazione  in  seguito  alla  pubblicazione  del  libro  bianco  dell’OMS  (Health  for  all  in  the  year  2000)  nel  quale  vengono  fissati  gli  obiettivi  di  una  maggiore  equità  tra  paesi  nell’accesso  alle  cure;  di  un  più  efficace  coinvolgimento  di  tutti  i  settori  dell’economia  nella  promozione  della  salute;  di  una  più  incisiva  presenza  nei  programmi  scolastici  dei  temi  concernenti  la  salute  e  pochi  altri.  Come  osserva  Mooney  (1994),  si  tratta  di  un  approccio  che  incorpora  quello  basato  sulla  valutazione  dei  bisogni  totali  di  cure  di  una  popolazione,  dove  il  bisogno  è  definito  nei  termini  della  presenza  di  malattie  in  quella  data  popolazione:  più  alto  il  livello  di  malattie,  più  elevato  il  bisogno  di  cure.Le  priorità  vengono  quindi  fissate  sulla  base  del  solo  profilo  epidemiologico,  a  prescindere  dal  fatto  che  tante  o  poche  siano  le  possibilità  di  riuscita  o  di  successo.Non  solo,  ma  un  approccio  del  genere,  come  strumento  di  politica  sanitaria,  tende  a  favorire  lo  status  quo  perché  né  indica  attribuzioni  di  responsabilità  né  suggerisce  le  fonti  cui  attingere  le  risorse  necessarie.In  buona  sostanza,  nulla  più  che  un  wishful  thinking.  

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Non  migliore  è  il  giudizio  che  si  può  esprimere  nei  confronti  della  metodica  basata  sugli  studi  di  costo  delle  malattie  (il  cosiddetto  burden  of  disease),  secondo  cui  se  i  costi  di  una  particolare  patologia  sono  più  elevati  di  quelli  di  un’altra,  allora  la  patologia  a  più  alto  costo  deve  avere  la  priorità.  (In  generale,  i  costi  cui  si  fa  qui  riferimento  sono  quelli  diretti  di  cura  più  quelli  indiretti  attribuibili  all’esperienza  di  malattia,  come  i  costi  per  l’assenza  dal  lavoro).Davey  e  Leeder  (1993)  hanno  opportunamente  osservato  che  la  logica  sottesa  a  tale  approccio  non  tiene  conto  né  dei  benefici  degli  interventi  di  cura,  né  del  costo  marginale  degli  stessi,  ma  solo  del  costo  totale.E’  dunque  ovvio  che  una  proposta  del  genere,  se  accolta,  non  potrebbe  mai  soddisfare  il  vincolo  dell’efficienza.Eppure,  si  tratta  di  un’impostazione  piuttosto  diffusa  –  ad  esempio,  la  Banca  Mondiale  la  suggerisce  ai  paesi  in  via  di  sviluppo  appunto  per  fissare  le  priorità  sanitarie  -­‐  la  cui  popolarità  sembra  un  riflesso,  a  parere  di  Mooney  (1994),  dell’idea  secondo  cui  le  risorse  vanno  allocate,  prioritariamente,  ai  “grossi  problemi”.      Assai  diverso  è  il  giudizio  che  si  deve  dare  degli  approcci  scientificamente  più  validi  e  rigorosi:  quello  delle  tavole  dei  Qaly  (quality  adjusted  life  years);  quello  dell’urgenza  ovvero  della  morte  evitabile;  quello  della  pertinenza.Inizio  dal  primo.  Quello  dei  qaly  è  certamente  l’esempiopiù  noto  di  applicazione  del  metodo  di  analisi  costo-­‐utilità:  le  priorità  vengono  fissate  sulla  base  di  una  procedura  che  vede,  dapprima,  la  definizione  di  un  algoritmo  che  calcola  la  stima  del  prolungamento  della  vita  a  seguito  di  una  certaprestazione,  tenuto  conto  dell’eventuale  grado  di  peggioramento  della  qualità  della  vita  subito  in  conseguenza  della  prestazione  stessa.Viene  poi  costruita  una  tavola  dei  qaly[9]  che  ordina  le  diverse  prestazioni  in  base  al  rispettivo  costo  per  qaly.Infine,  la  regola  di  decisione  è  che  vanno  realizzati  i  programmi  di  intervento  sanitario  e  erogati  i  relativi  servizi  in  ordine  ascendente  di  costo  per  qaly.  L’idea  di  fondo  è  che  le  risorse  sanitarie  devono  essere  impiegate  in  modo  da  produrre  il  maggior  bene  e  i  qaly  sono  una  misura  del  bene  prodotto  da  una  cura,  vale  a  dire  il  beneficio  da  essa  arrecato.Una  cura  medica  può  conseguire  due  tipi  di  risultato.Essa  può  prolungare  la  vita  delle  persone  e  può  migliorare  la  qualità  della  vita.I  qaly  combinano  questi  due  tipi  di  benefici  in  una  misura  singola.  Un  anno  di  vita  in  buona  salute  conta  per  un  qaly;  un  anno  di  vita  trascorso  in  malattia,  invece,  riceve  un  peso  via  via  inferiore  ad  uno  a  seconda  del  grado  di  menomazione  della  salute.L’algoritmo  sulla  cui  base  si  arriva  a  determinare  i  qaly  associati  ai  vari  trattamenti  terapeutici  serve  dunque  a  spezzare  il  trade-­‐off  fra  durata  e  condizioni  di  vita.Se  un  dato  stato  di  salute  riceve  un  fattore  di  aggiustamento,  poniamo,  di  0,5,  questo  significa  che  due  anni  in  tale  stato  equivalgono  ad  un  anno  in  piena  salute.  Originariamente  proposto  da  Torrance  (1985)  in  Canada  e  Williams  (1985  e  1994)  in  Gran  Bretagna  -­‐  autori  che  definiscono  il  qaly  “una  utilità  di  stato  di  salute”  -­‐tale  metodo  ha  conosciuto  un’ampia  risonanza  in  seguito  alla  decisione  dello  Stato  dell’Oregon  di  servirsene  quale  criterio  di  allocazione  delle  risorse  scarse:  assicurare  le  cure  e  l’assistenza  primaria  a  molti  anziché  garantire  l’incerto  esito  di  cure  sofisticate  a  pochi.[10]Inoltre,  secondo  la  rassegna  curata  da  Abel-­‐Smith  (1995)  per  conto  dei  Ministri  della  Sanità  dei  paesi  dell’UE,  il  metodo  in  questione  sarebbe  quello  con  le  maggiori  chance  di  successo  nella  definizione  delle  priorità  sanitarie  –  più  ancora  di  quelle  del  metodo  basato  sul  criterio  dell’urgenza.  Eppure,  non  lievi  sono  i  conflitti  di  ordine  morale  –  tralascio  qui  le  difficoltà  di  ordine  pratico  e  tecnico[11]  -­‐  che  l’adozione  di  un  tale  approccio  andrebbe  a  produrre.Presupponendo  che  ciò  che  conta  nella  determinazione  del  paniere  delle  prestazioni  ammissibili  è  la  massimizzazione  dei  qaly  e  dunque  –  sotto  l’ipotesi  che  i  qaly  rappresentino  una  misura  adeguata  dello  stato  di  salute  –  degli  incrementi  di  salute  estraibili  da  un  dato  ammontare  di  risorse,  questo  approccio,  non  solo  finisce  per  non  tenere  in  alcun  conto  gli  altri  outcome  del  processo  di  cura  di  cui  abbiamo  detto  nella  precedente  sezione  2,  ma  soprattutto  si  dimostra  adeguato  per  trattare  questioni  di  

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sola  efficienza  allocativa.Le  tavole  dei  qaly  nulla  dicono  dell’equità  –  comunque  definita  –  delle  cure  da  riconoscere  ai  cittadini,  mentresappiamo  che  in  tema  di  razionamento  delle  cure  la  dimensione  dell’equità  gioca  un  ruolo  decisivo.  Se,  poniamo,  un  trapianto  di  rene  costasse  3000  $  per  qaly  e  una  protesi  all’anca  costasse  1500  $  per  qaly,  dovremmo  razionare  i  trapianti  di  rene  più  severamente  degli  interventi  ortopedici,  considerato  che  il  denaro  speso  in  questi  ultimi  produce  “più  bene”  di  quello  speso  nei  trapianti  di  rene,  pur  sapendo  che  questi  ultimi  salvano  più  vite  umane?E’  moralmente  accettabile  negare  a  qualcuno  una  chance  di  vita  allo  scopo  di  impiegare  risorse  per  migliorare  la  qualità  di  vita  di  altre  persone?  E’  però  sull’idea  di  fondo  in  base  alla  quale  i  qaly  misurerebbero  il  “bene”  prodotto  da  un  certo  trattamento  sanitario  che  si  appuntano  le  perplessità  più  serie.Il  fatto  è  che  la  metodica  in  questione  discende  da  un  preciso  impianto  filosofico,  quello  dell’utilitarismo  benthamiano,  un  impianto  la  cui  maggiore  debolezza  risiede  proprio  nella  sua  incapacità  di  dare  senso  alla  categoria  di  diritto.Come  noto,  ciò  consegue  alla  visione  alquanto  ristretta  che  l’utilitarismo  ha  della  persona  umana.  “Essenzialmente  –  scrivono  Sen  e  Williams  (1984)  –  l’utilitarismo  vede  le  persone  come  localizzazioni  delle  loro  rispettive  utilità  …  Una  volta  considerata  la  funzione  di  utilità  della  persona,  l’utilitarismo  non  ha  alcun  ulteriore  diretto  interesse  a  qualsiasi  informazione  su  di  essa.”  (p.  9).Invero,  nel  porre  insieme  i  pezzi  di  utilità  in  una  somma  totale  da  massimizzare,  si  perdono  sia  l’identità  dei  soggetti  sia  la  loro  separatezza,  requisiti  questi  indispensabili  per  rendere  possibile  una  attribuzione  di  diritti  alle  persone.E  non  v’è  chi  non  veda  come  tale  lacuna  dell’utilitarismo  risulti  particolarmente  devastante  quando  ci  si  riferisca  ad  un  ambito  come  quello  sanitario,  dove  ciò  che  conta  è  proprio  l’identità  e  la  separatezza  dei  soggetti.Se  dunque  si  vuole  –  come  ritengo  si  debba  volere  –  che  istituzioni  pubbliche  come  il  SSN  mirino  a  realizzare  eguali  opportunità  di  funzionamento  a  tutti  i  cittadini  –  malattie  e  inabilità  restringono  la  gamma  dei  funzionamenti  delle  persone  –  si  capisce  perché  l’utilitarismo  non  costituisca  un  orizzonte  appropriato.Il  che  non  toglie  –  si  badi  –  chel’approccio  dei  qaly  non  possa  venire  convenientemente  utilizzato  in  determinate  circostanze.Ad  esempio,  quando  si  considerassero  trattamenti  alternativi  a  favore  di  uno  stesso  paziente,  non  v’è  dubbio  che  sarebbe  sia  lecito  sia  opportuno  scegliere  quello  per  lui  maggiormente  benefico  in  termini  di  qaly.      L’approccio  dell’urgenza  suggerisce  al  decisore  che  le  priorità  vano  fissate  in  base  al  grado  di  severità  delle  condizioni  disalute  dei  soggetti:  deve  essere  data  priorità  a  quelle  prestazioni  che,  se  applicate  in  tempo,  evitano  conseguenze  mortali  (avoidable  death).Una  apposita  Commissione  della  UE  ha  provveduto  a  stilare  i  cosiddetti  “atlanti  della  salute”  nei  quali  sono  indicati  gli  episodi  morbosi  per  i  quali  sarebbe  possibile  scongiurare  la  morte  anticipata  se  curati,  oltre  che  in  modo  appropriato,  in  tempi  rapidi.  (Cfr.  Holland,  1991).  Il  metodo  della  severità  costituisce  un  raffinamento  di  quello  del  bisogno,  quest’ultimo  inteso  come  capacità  di  trarre  beneficio  dalle  cure:  più  alta  tale  capacità  in  un  gruppo  di  persone,  più  alto  il  bisogno  di  quel  gruppo.Chiaramente,  ciò  è  in  funzione  della  tecnologia  di  cura  in  essere  in  un  determinato  luogo  e  periodo  di  tempo:  in  tanto  si  può  parlare  di  morte  evitabile  in  quanto  si  disponga  di  tecnologie  efficaci.E’  questo  un  punto  diforza  non  secondario  dell’approccio  in  questione,  dal  momento  che  le  risorse  verrebbero  razionate  in  base  alle  effettive  possibilità  di  cura  che  esse  possono  assicurare.Inoltre  –  ed  è  questo  un  secondo  punto  di  forza  –  esso  traduce  abbastanza  fedelmente  l’idea  secondo  cui  l’urgenza  di  una  necessità  conta  più  sia  dei  “meriti”  di  vario  tipo  acquisiti  dal  paziente  sia  della  massimizzazione  dell’utilità  aggregata.  Si  consideri,  infatti,  il  caso  in  cui  due  persone  sono  in  attesa  di  un  trapianto  di  fegato  e  c’è  un  solo  fegato  a  disposizione.Secondo  il  criterio  in  discussione,  il  trapianto  va  praticato  al  soggetto  che  presenta  la  posizione  più  urgente  –  in  Italia,  è  definita  tale  la  posizione  di  chi  morirà  entro  tre  giorni  qualora  non  venga  sottoposto  al  trapianto.Se  il  criterio  fosse  quello  del  maggior  bene,  

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l’urgenza  non  dovrebbe  giocare  alcun  ruolo:  il  trapianto  verrebbe  praticato  al  paziente  che  presenta  le  maggiori  chance  di  successo  in  termini  di  qaly,  indipendentemente  dal  grado  di  urgenza  esibito.E’  agevole  cogliere  la  filosofia  sottostante  il  metodo  della  morte  evitabile.Se  il  paziente  con  bisogno  urgente  non  ottiene  il  trapianto,  questi  perde  la  sua  ultima  possibilità  di  continuare  a  vivere.Chi  invece  si  trova  in  stato  di  non  urgenza  e  non  ottiene  il  trapianto  può  sempre  sperare  in  un’occasione  successiva.Se  ne  trae  che  dando  la  priorità  ai  casi  urgenti,  operiamo  in  modo  da  eguagliare  le  opportunità  di  vita  delle  persone.E  nella  misura  in  cui  la  vita  è  la  condizione  prima  della  libertà,  agendo  in  questo  modo  aumentiamo  il  patrimonio  di  libertànel  sistema.  Tuttavia,  due  sono  le  difficoltà  di  fondo  che  rendono  criticabile  tale  approccio.La  prima  –  segnalata  da  Abel-­‐Smith  (1995,  p.  86)  –  è  che  la  sua  applicazione  nella  pratica  tende  a  generare  risultati  indesiderabili:  a  seconda  della  fascia  di  età  della  popolazione  presa  a  riferimento,  esso  va  a  selezionare  certe  patologie  piuttosto  che  altre.Ad  esempio,  se  si  fissa  l’attenzione  sui  cinquantenni  si  darà  priorità  alla  prevenzione  e  cura  degli  incidenti  stradali;  se  si  scelgono  gli  ultrasessantacinquenni  si  darà  la  precedenza  alle  patologie  cardiovascolari  e  così  via.In  situazioni  del  genere,  o  si  dispone  di  una  metateoria  plausibile  in  grado  di  giustificare  perché  si  debba  privilegiare  una  fascia  d’età  piuttosto  che  un’altra  –  ma  in  questo  caso  il  problema  delle  priorità  è  solo  rinviato  –  oppure  l’approccio  dell’urgenza  è  suscettibile  di  manipolazioni  pericolose.[12]L’altra  difficoltà  è  stata  portata  alla  luce  dal  Lonning  Committee  Report  norvegese  (cfr.  NOU,  1987).La  circostanza  che  una  persona  sia  prossima  alla  morte  è  ragione  sufficiente  perché  la  sua  situazione  venga  posta  in  cima  alle  priorità;  e  ciò  a  prescindere  dai  livelli  di  costo  –  il  che  parrebbe  ovvio  –  e  soprattutto  dal  grado  di  efficacia  dell’intervento.Come  a  dire  che  i  trattamenti  vanno  praticati  assumendo  che  tutti  avranno  il  medesimo  grado  di  efficacia,  il  che  è  manifestamente  falso.  L’applicazione  nella  pratica  di  tale  metodica  potrebbe  condurre  ad  un  ordinamento  lessicografico  tale  che  tutte  le  patologie  della  prima  categoria  avrebbero  la  precedenza  su  quelle  della  seconda  categoria  –  il  Rapporto  Lonning  individua  cinque  categorie  -­‐anche  se  la  patologia  che  occupa  il  primo  posto  della  seconda  categoria  potrebbe  meritare  più  attenzione  e  dunque  risultare  prioritaria  rispetto  alla  patologia  che  occupa  l’ultimo  posto  della  prima  categoria.      Più  rassicurante  mi  sembra  la  via  recentemente  battuta  da  New  e  Le  Grand  (1996)  costruita  sul  principio  di  pertinenza.Per  afferrare  di  che  si  tratta,  conviene  partire  dall’osservazione  che  i  metodi  sopra  esaminati  tendono  a  diffondere  un  certo  scetticismo  tra  gli  addetti  ai  lavori  circa  le  possibilità  di  arrivare  a  definire  un  pacchetto  di  prestazioni  sanitarie  generalmente,  se  non  totalmente,  condiviso  dalla  cittadinanza.La  ragione  è,  semplicemente,  che  poiché  qualsiasi  trattamento  produce  sempre  un  qualche  effetto  positivo  su  almeno  qualcuno,  pur  risultando  inefficace  su  molti  più  soggetti,  e  poiché  la  deontologia  medica  impone  l’accoglimento  del  “principio  dell’alleanza  terapeutica”  –  in  base  al  quale  il  medico  svolge  la  funzione  “simbolica”  di  garante  della  preservazione  del  diritto  soggettivo  all’assistenza  –  si  ha  che  è  praticamente  impossibile  arrivare  a  rendere  esecutori  pacchetti  di  prestazioni  sul  fondamento  di  quelle  metodiche  .Ciò  spiega,  in  particolare,  perché  l’esperimento  dello  Stato  dell’Oregon  non  abbia  avuto  il  seguito  congetturato  –  anzi,  la  Corte  Suprema  USA  ne  ha  impedito  la  replicabilità  altrove  per  questioni  di  principio.  L’idea  di  base  di  New  e  Le  Grand  è,  in  buona  sostanza,  la  seguente.Per  un  sistema  sanitario  a  tutela  pubblica  sono  pertinenti  tutte  quelle  prestazioni  sanitarie  che,  a  causa  delle  loro  caratteristiche  congiuntamente  considerate,  non  sarebbero  erogabili  per  mezzo  di  normali  transazioni  di  mercato.  Le  caratteristiche  prese  in  considerazione  sono  quelle  della  necessarietà,  dell’asimmetria  informativa,  dell’incertezza;  ma  è  la  loro  combinazione  che  conferisce  

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all’assistenza  sanitaria  lo  statuto  di  una  attività  speciale  non  sottoponibile  ai  canoni  regolativi  dello  scambio  di  mercato.[13]Per  esemplificare,  anche  il  cibo,  al  pari  e  forse  più  dei  servizi  sanitari,  è  necessario  per  la  vita,  ma  per  esso  non  valgono  di  certo  le  altre  due  caratteristiche;  ed  infatti  nessuno  proporrà  mai  qualcosa  di  simile  ad  un  servizio  nazionale  dell’alimentazione.Del  pari,  anche  il  settore  degli  autoveicoli  soffre  di  gravi  asimmetrie  informative  ma  –  notano  New  e  Le  Grand  –  a  nessuno  verrebbe  in  mente  di  istituire  una  sorta  di  servizio  nazionale  degli  autoveicoli.Ben  altri  sono  gli  strumenti  alla  portata  dell’autorità  pubblica  per  tutelare,  in  casi  del  genere,  in  modo  adeguato  i  cittadini.Al  tempo  stesso,  non  tutte  le  prestazioni  sanitarie  sono  afflitte  dalle  conseguenze  di  quelle  tre  caratteristiche  con  la  stessa  intensità.Ad  esempio,  l’assistenza  domiciliare  agli  anziani  non  autosufficienti  è  bensì  necessaria,  ma  non  risulta  turbata  da  fenomeni  di  asimmetria  informativa  oppure  da  elevati  livelli  di  incertezza.Pertanto,  essa  non  dovrebbe  essere  di  pertinenza  del  servizio  sanitario  nazionale.  E  così  via.  Come  si  comprende,  il  pregio  notevole  di  tale  approccio  è  quello  di  prescindere  totalmente  dai  giudizi  sia  di  efficacia  sia  di  efficienza  nella  individuazione  del  pacchetto  delle  prestazioni  essenziali.D’altro  canto,  tali  giudizi  verrebbero  utilizzati  al  secondo  livello  decisionale,  quando  cioè  si  trattasse  di  decidere  la  ripartizione  delle  risorse  disponibili  tra  le  prestazioni  giudicate  pertinenti.Può  così  accadere  che  il  SSN  decida  di  non  erogare  un  farmaco  contro  il  cancro  perché  non  sene  è  (ancora)  dimostrata  l’efficacia,  pur  rientrando  il  trattamento  anticancro  nel  pacchetto  delle  prestazioni  pertinenti.Viceversa,  interventi  di  chirurgia  estetica  pur  risultando  di  grande  efficacia  e  appropriatezza  per  persone,  poniamo,  di  spettacolo,  non  rientrerebbero,  in  forza  del  ragionamento  di  cui  sopra,  nel  pacchetto  a  carico  del  SSN.Vi  sono  però  difficoltà  nella  implementazione  di  questa  proposta  –  difficoltà  di  cui  gli  stessi  autori  proponenti  dimostrano  di  essere  ben  consapevoli.Non  penso,  tuttavia,  che  si  tratti  di  difficoltà  particolarmente  serie  e  comunque  tali  da  far  passare  sotto  silenzio  un  approccio  che,  invece,  va  accolto  con  critica  simpatia.      Vado  a  chiudere.  Che  sia  impresa  ardua  quella  di  cercare  di  fissare  priorità  in  campo  sanitario  lo  si  sa  da  sempre.  Ma  lo  si  deve  fare  –  come  abbiamo  visto.Anche  perché  il  non  decidersi  al  riguardo  svela  una  scelta:  la  scelta  di  lasciare  che  siano  le  circostanze  del  caso  oppure  i  rapporti  di  potere  locale  a  guidare  le  allocazioni  in  ambito  sanitario.Quel  che  deve  essere  chiaro  è  che  vana  sarebbe  la  pretesa  di  arrivare  ad  un  metodo,  per  così  dire,  ottimale  e  incontrovertibile  e  ciò  per  la  semplice  ragione  che  un  tale  metodo  non  esiste.Quel  che  invece  si  deve  perseguire  è  l’obiettivo  di  giungere  alla  identificazione  di  una  procedura  che,  da  un  lato,  sappia  incorporare  i  minima  moralia  della  società  civile  di  riferimento  e,  dall’altro,  sia  in  grado  di  funzionare  e  soprattutto  di  migliorare  emendandosi.  Certo,  arrivare,  per  via  di  consenso,  a  delle  linee  guida  perfettibili  anche  se  non  perfette  non  potrà  mai  sostituire  il  dibattito  filosofico  tra  le  visioni  in  gioco  e  la  mediazione  politica  tra  i  portatori  di  interessi  diversi.Servirà,  però,  a  fare  uscire  dalle  secche  di  un  certo  economicismo  la  riflessione  in  corso  nel  nostro  paese  su  come  rendere  sostenibile  un  welfare  sanitario  che  intenda  rimanere  ancorato  al  principio  dell’universalismo.Dico  economicismo  per  riferirmi  alla  posizione  di  chi  ritiene  che  sia  sufficiente  agire  dalla  sola  sponda  dell’efficienza,  operando  per  via  di  razionalizzazioni  e  di  schemi  di  incentivo  di  vario  genere,  per  ottenere  il  risultato  ora  indicato.Trovo  un  riscontro  autorevole  a  una  tale  linea  di  pensiero  in  un  recente  contributo  di  A.O.  Hirschman  (1997)  laddove  si  legge:  “Ciò  di  cui  c’è  realmente  bisogno  per  compiere  progressi  riguardo  ai  problemi  nuovi  che  una  società  incontra  sul  suo  cammino  è  la  capacità  d’iniziativa  politica,  l’immaginazione,  qui  la  pazienza,  là  l’impazienza  e  altre  varietà  ancora  di  ‘virtù’  e  ‘fortuna’  “.  (p.  305).        

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5.  Cosa  possiamo  attenderci  dall’avvio  rapido  di  un  dibattito  sulle  priorità      Quali  risultati,  già  nel  breve  periodo,  è  ragionevole  attendersi  dall’avvio  di  una  riflessione  sistematica  sul  modo  di  arrivare  ad  un  pacchetto  di  prestazioni  sanitarie  essenziali?Innanzitutto,  e  non  sarebbe  cosa  di  poco  conto,  quello  di  alzare  un  po’  il  livello  del  dibattito  sulla  questione  sanitaria.Vi  è  oggi,  sul  processo  riformatore  in  sanità,  un  eccesso  di  opinioni  e  una  scarsità  di  ragioni  circa  il  modo  di  implementare  quel  “patto  di  solidarietà  per  la  salute”  di  cui  si  parla  con  enfasi  in  diversi  ambiti.Alla  mole  di  opinioninon  fanno  riscontro  giustificazioni  accettabili.In  generale,  il  bilancio  delle  opinioni  non  conclude  mai  molto:assai  più  efficace  è  portarsi  sul  terreno  del  confronto  delle  ragioni  che  sottendono  determinate  proposte.Come  si  sa,  le  trasformazioni  degli  assetti  istituzionali  seguono  con  un  certo  ritardo  la  presa  di  coscienza  dei  cittadini  nei  confronti  dei  problemi  cui  quelle  trasformazioni  dovrebbero  dare  risposta.E’  dunque  indispensabile  coinvolgere  nel  dibattito  la  società  civile  organizzata,  cioè  le  formazioni  sociali  intermedie  che  già  operano,  con  successi  alterni,  nel  settore  della  sanità.Si  rinuncia  all’efficienza  quando  si  disegna  un  assetto  di  governance  che  non  utilizzi  appieno  quella  risorsa  straordinaria  che  è  la  responsabilità  degli  attori.E  ciò  sia  perché  la  cura  della  salute  è,  oltre  che  un  diritto,  una  responsabilità  personale  verso  la  vita[14],  sia  perché  lo  “star  bene”  delle  persone  dipende  non  solo  dall’efficacia  e  dall’appropriatezza  delle  cure  sanitarie,  ma  –  come  si  è  detto  sopra  -­‐  anche  dalla  qualità  delle  relazioni  interpersonali,  cioè  dal  modo  in  cui  viene  soddisfatto  il  bisogno  di  relazionalità  dei  pazienti.  Un  secondo  risultato  importante  sarebbe  quello  di  preparare  il  terreno  all’accoglimento  non  traumatico  delle  regole  di  priorità  che  venissero  adottate  per  poter  poi  essere  implementate  in  futuro.Chiaramente,  peccherebbe  di  imprudenza  (di  mancanza  di  phrònesis  del  sapere  pratico)  chi  pensasse  di  applicare,  fin  da  subito,  regole  di  razionamento  che  decretassero  la  cessazione  di  prestazioni  sanitarie  erogate  fino  a  quel  momento.La  conflittualità  sociale  che  ne  conseguirebbe  potrebbe  vanificare  ogni  sforzo.Non  così,  invece,  se  venisse  chiarito  che  quelle  regole  andrebbero  ad  applicarsi  alle  prestazioni  future,  non  ancora  erogate.Nessuno  è  in  grado  di  prevedere,  con  accettabile  approssimazione,  come  il  progresso  scientifico  e  tecnologico  in  medicina  rivoluzionerài  modi  tradizionali  di  risposta  alle  varie  patologie.Allora,  definire  oggi  una  procedura  che  identifichi  le  priorità  sanitarie  svolgerebbe  una  funzione  analoga  a  quella  svolta  dalla  celebre  metafora  rawlsiana  del  “velo  di  ignoranza”.Così  come  i  costituenti  di  Rawls,  protetti  dal  velo  di  ignoranza,  arrivano  a  concordare,  per  via  di  calcolo  razionale,  su  norme  che  configurano  la  giustizia  come  imparzialità  (justice  as  fairness),  allo  stesso  modo  i  cittadini  di  oggi,  conoscendo  le  regole  di  accesso  e  i  livelli  di  erogazione  del  loro  sistema  sanitario  nazionale,  avranno  tutto  il  tempo  e  le  opportunità  per  predisporre  interventi  e  misure  di  carattere  integrativo.  Arrivo  così  ad  un  terzo  risultato  concreto  che  potrebbe  essere  conseguito  in  fretta.Solamente  se  i  cittadini  hanno  la  possibilità  di  conoscere  quali  sono  i  servizi  sanitari  differenziali  in  cambio  dei  quali  si  versano  i  premi  o  le  quote  associative,  potrà  prendere  avvio  un  significativo  sistema  di  mutualità  sanitaria  integrativa.Si  badi,  però,  che  la  mutualità  integrativa  –  o  complementare,  come  taluno  preferisce  chiamarla  –  non  può  essere  confusa  né  con  quella  sostitutiva  (delle  prestazioni  già  erogate  dal  SSN)  né  con  quella  aggiuntiva(che  copre  la  differenza  tra  prezzo  del  servizio  e  quota  garantita  dal  SSN;  i  servizi  al  contorno  delle  prestazioni  pubbliche,  come  quelli  alberghieri;  e  così  via).Mentre  queste  ultime  due  forme  di  mutualità  contraddicono,  nei  fatti,  l’universalismo,  quella  integrativa  realizza  quello  che  abbiamo  chiamato  un  universalismo  sanitario  a  prestazioni  essenziali.Inoltre,  la  mutualità  sostitutiva  e,  in  una  certa  misura,  quella  aggiuntiva  riducono  l’efficienza  del  sistema  perché  i  rischi  relativi  alle  prestazioni  munite  di  doppia  copertura  assicurativa  sono  tra  loro  correlati.Non  così  invece  con  la  mutualità  integrativa.  

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Certo,  non  pochi  sono  i  problemi,  di  varia  natura,  da  quelliteorici  a  quelli  pratici,  che  occorre  risolvere  per  lanciare  un  robusto  settore  di  mutue  sanitarie  (a  base  territoriale).[15]Tra  iproblemi  di  ordine  pratico  segnalo  quelli  che  concernonolagestione  finanziaria.  A  tutt’oggi,  l’assenza  di  disposizioni  di  legge  circa  le  garanzie  patrimoniali  adeguate  nei  confronti  degl  iaventi  diritto  alle  prestazioni  costringe  le  mutue  e  i  fondi  ad  agire  secondo  una  logica  di  breve  periodo.  La  conseguenza  è  che  l’equilibrio  finanziario  viene  perseguitosu  base  annua  attraverso  il  ricalcolo  dei  premi  su  dati  storici.  Quanto  ciò  provochi  maggiori  costi  e  riduca  la  qualitàdeiservizioffertiè  cosafacilmenteimmaginabile.  Non  solo,  ma  la  gestione  diretta  da  parte  delle  mutuestornal’attenzionediqueste  dal  loro  obiettivo  primario  che  è  quello  della  aggregazione  della  domanda.  Ma  non  si  può  non  vedere  nella  mutualità  integrativa  l’occasione  più  immediata  e  seria  di  mettere  al  lavoro  la  società  civile.Se  si  crede  alla  società  civile  come  luogo  delle  solidarietà  concrete  e  come  presupposto  del  pluralismo  sociale  non  si  può  impedire  che,  in  un  ambito  così  delicato  della  vita  associata  come  è  la  sanità,  abbia  luogo  una  fioritura  di  quelle  espressioni  tipiche  dell’economia  civile  che  sono  le  mutue  sanitarie  integrative.  In  uno  studio  empirico  recente,  A.  Castelli  e  A.  Culyer  (“Rationing  health  care  in  Europe”,  Dept.  of  Economics,  Univ.of  York,  2003)  hanno  svolto  un’indagine  campionaria  su  cittadini  inglesi  per  registrare  il  loro  punto  di  vista  a  proposito  del  razionamento  dei  servizi  sanitari.  Contrariamente  alle  aspettative,  i  risultati  evidenziano  un  atteggiamento  largamente  favorevole  nei  confronti  della  fissazione  di  criteri  di  razionamento  espliciti.  La  diversità  di  vedute  si  manifesta  a  proposito  dei  soggetti  cui  demandare  il  compito  di  procedere  al  razionamento  e  a  proposito  deigiudizi  di  valore  da  porre  alla  base  di  tale  procedura.        6.  Il  ruolo  delle  organizazioni  della  società  civile.      Quantoprecedeci  permette  di  capire  perché  si  ha  necessità  di  OSC  che  operano  in  modo  da  autonomizzare  la  domanda,  facendo  sì  che  sia  quest’ultima  a  dirigere  l’offerta.  Come  è  noto,  caratteristicaprecipua  di  una  OSC  è  quella  di  appartenere  ad  una  pluralità  di  stakeholders,  cioè  di  portatori  di  interessi,  quanto  a  dire  che  i  proprietari  di  una  OSC  non  sono  solamente  coloro  che  investono  in  essa  per  trarne  un  vantaggio  in  termini  di  rendimento  sul  capitale  investito.  La  funzione  obiettivo  di  una  OSC  è  piuttosto  quello  di  servire,  in  qualche  modo  specifico,  la  comunità  in  cui  opera  mediante  la  produzione  di  esternalità  sociali  e  la  salvaguardia  delle  ragioni  dell’equità.  (Tecnicamente,  una  esternalità  viene  a  crearsi  tutte  le  volte  in  cui  le  azioni  di  un  soggetto  hanno  un  impatto  –  positivo  o  negativo  –  sul  benessere  di  altri  soggetti,  un  impatto  che  non  risulta  mediato  o  regolato  dal  sistema  dei  prezzi.  D’altro  canto,  un’esternalità  è  sociale,  o  collettiva,  quando  concerne  la  comunità  nel  suo  insieme).  La  salute  pubblica  è  un  esempio  tipico  di  esternalità  sociale,  così  come  lo  è  la  coesione  sociale  oppure  lo  sviluppo  locale.  In  presenza  di  esternalità  sociali,  i  benefici  complessivi  generati  dall’attività  di  un  soggetto  di  offerta  non  sono  solamente  quelli  attribuibili  all’output  ottenuto,  ma  anche  quelli  collegati  al  modo  –  cioè  al  tipo  di  processo  –  in  cui  quell’output  è  stato  ottenuto  e  soprattutto  al  sistema  motivazionale  che  anima  coloro  che  promuovonoquella  certa  attività.  Ne  consegue  che  l’esistenza  di  esternalità  positiva,  mentre  scoraggia  l’impresa  for  profit  dall’accrescere  mil  proprio  investimento,  rappresenta  la  missione  stessa  della  OSC,  la  ragione  cioè  per  la  quale  i  membri  di  quest’ultima  si  uniscono  per  dare  vita  ad  una  attività  economica.  Si  badi  che,  con  ciò,  non  si  vuol  affatto  significare  che  l’impresa  for  profit  non  sia  interessata  a  prendere  in  considerazione  le  esternalità  sociali  oppure  che  non  sia  contenta  di  produrle.  Si  vuol  semplicemente  affermare  che  l’obiettivo  della  massimizzazione  del  profitto  (  o  di  un  qualche  altro  indicatore  di  profittabilità)  non  consente  all’impresa  for  profit  di  “attribuire”  un  qualche  peso  a  tali  esternalità  all’interno  del  proprio  processo  decisionale,  anche  se  resta  vero  che  altri  

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soggetti  (ad  esempio,  un  ente  locale  oppure  un’associazione  di  consumatori)  potrebbero  indurre  o  costringere  l’impresa  for  profit  a  ciò.  Ciò  precisato,  sorge  spontanea  la  domanda:  quali  ragioni  di  ordine  economico  parlano  a  favore  delle  OSC  come  soggetti  erogatori  di  prestazioni  sanitarie?  La  risposta  che  oggi  viene  avanzata  dai  più  è  quella  che  si  appoggia  sulla  teoria  del  vantaggio  comparato,  una  teoria  in  base  alla  quale  hanno  titolo  a  fornire  prestazioni  sanitarie  quelle  imprese  –  non  importa  se  pubbliche,  se  private  o  se  non  profit  –  che  dimostrano  di  risultare  più  efficienti.  Si  badi  che  tale  posizione  teorica  è  stata  ed  è  talmente  influente  e  pervasiva  da  aver  ispirato  o,  quanto  meno,  influenzato  lo  stesso  trattatodi  Amsterdam,  quello  che  ha  dato  il  via  al  processo  di  unificazione  europea.  Come  è  noto,  questo  trattato  prevede  che,  eccetto  che  per  le  prestazioni  che  hanno  diretta  attinenza  con  la  salute  pubblica  (come  ad  esempio  la  prevenzione  di  epidemie),  anche  al  settore  sanitario  vadano  applicate  le  regole  della  competizione.  Concretamente,  questo  significa  che,  tra  breve,  le  ASL  dovranno  seguire  le  medesime  regole  che  già  oggi  gli  enti  locali  devono  rispettare  quando  decidono  di  affidare  all’esterno  l’erogazione  di  determinati  servizi.  Dovranno  cioè  procedere  alla  cosiddetta  valutazione  comparativa:  il  servizio  verrà  affidato  a  quegli  erogatori  che,  ferma  restando  la  qualità,  assicurano  il  costo  più  basso.  Quanto  a  dire  che  quelle  strutture  che  si  dimostreranno  incapaci  di  reggere  alla  valutazione  comparativa  verranno,  prima  o  poi,  spazzate  via  dal  vento  della  competizione.  Occorre  tener  presente  che  l’intensità  con  cui  soffierà  questo  vento  sarà  particolarmente  elevata  quando,  nel  prossimo  futuro,  troveranno  applicazione  i  principi  sanciti  nel  GATS  (General  Agreement  on  Trade  in  Services)  siglato  nel  19094.  Uno  di  tali  principi  è  quello  del  “trattamento  nazionale”:  aziende  straniere  che  siano  presenti  nel  mercato  di  un  dato  paese  devono  beneficiare  di  un  trattamento  favorevole  almeno  quanto  quello  che  godono  le  aziende  nazionali  che  operano  nel  medesimo  mercato.  Come  si  comprende,  il  GATS,  implicando  un  impegno  a  liberalizzare  servizi  attraverso  negoziazioni  periodiche,  avrà  effetti,  anche  rilevanti,  sul  commercio  internazionale  di  servizi  sanitari.  Si  pensi  ai  servizi  di  telemedicina  e  di  diagnostica  tra  paesi  diversi;  ai  servizi  sanitari  offerti  da  aziende  straniere  o  da  multinazionali;  al  consumo  all’estero;  e  così  via.  Quale  il  senso  di  quanto  precede  ai  fini  del  presente  discorso?  Quello  di  suggerire  una  ragione  cogente  dell’incapacità  delle  ONP  a  reggere  il  confronto  competitivo  con  le  imprese  for  profit.  L’argomento  è,  basicamente,  quello  sviluppato  da  H.  Hansmann  (“Economic  Theories  of  non  profit  organizations”,  in  Anheir  H.K.  e  Siebel  W.  (a  cura  di),  The  Third  Sector:  Comparative  Studies  of  Non  Profit  Organizations,  New  York,  De  Grujter,  1990)  con  riferimento  al  settore  bancario  e  assicurativo  negli  USA.  Per  quali  ragioni  –  si  chiede  Hansmann  –  tale  settore  ha  conosciuto  in  anni  recenti  una  marcata  transizione  della  forma  non  profit  a  quella  for  profit,  in  concomitanza  ai  massicci  interventi  regolamentativi  del  governo?  La  risposta  è  che  l’introduzione  di  sofisticate  forme  di  regolazione  da  parte  governativa  ha  reso  vana  la  forma  non  profit  ai  fini  della  prevenzione  di  abusi  a  carico  dei  clienti  da  parte  di  banche  e  assicurazioni.  Non  si  dimentichi,  infatti,  che  la  forma  di  impresa  non  profit,  in  quanto  elimina  l’incentivo  ad  agire  opportunisticamente  per  fare  profitti  sfruttando  le  asimmetrie  informative,  agisce  come  segnale  di  fiducia  nei  confronti  dei  clienti.  Ma  nel  momento  in  cui  le  innovazioni  tecnologiche,  da  un  lato,  e  un’oculata  vigilanza  del  governo,  dall’altro,  impediscono  di  fatto  all’impresa  for  profit  di  sfruttare  a  proprio  favore  il  vantaggio  informativo,  in  quello  stesso  momento  la  forma  non  profit  viene  a  perdere  il  suo  specifico  vantaggio  comparato  e  dunque  la  sua  legittimazione  economica.  Questo  argomento  spiegherebbe  –  secondo  Hansmann  e  molti  altri  autori  (ad  es.  J.  Forder  et  Al.,  “Competition  in  the  English  Mixed  Economy”,  Journal  of  Social  Policy,  25,  1996)  –  la  massiccia  recente  penetrazione  di  imprese  for  profit  in  ambiti,  come  quello  sanitario,  tradizionalmente  considerati  terreno  di  conquista  delle  OSC.  Addirittura,  autori  come  J.  Kendall  (“The  third  sector  

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and  social  care  for  older  people  in  England”,  Civil  Society  WP8,  London  School  of  Economics,  2000)  arrivano  a  sostenere  che,  a  causa  dei  ben  noti  effetti  di  reputazione  e  delle  pressioni  esercitate  dalle  associazioni  dei  consumatori,  sempre  più  informate  e  agguerrite,  l’impresa  for  profit  sarebbe  indotta  ad  operare  in  modo  non  opportunistico  –  anche  se  vorrebbe  farlo  –  e  dunque  a  fare  complessivamente  dell’impresa  non  profit.  Non  è  difficile  cogliere  le  implicazioni  pratiche  di  conclusioni  del  genere.  Non  solamente  non  risulterebbero  più  giustificate  forme  di  sostegno  pubblico,  di  tipo  fiscale  o  di  regime  civilistico,  alle  OSC,  ma  neppure  potrebbero  essere  accolte  forme  di  sussidio  permanente  a  questo  tipo  di  organizzazioni.  La  logica  della  competizione,  in  altri  termini,  impone  che  i  medesimi  contratti  devono  essere  siglati  con  i  soggetti  che  operano  nel  settore  sanitario,  siano  essi  imprese  non  profit  oppure  imprese  for  profit.  Sembra  questa,  ormai,  la  nuova  articolazione  cui  si  è  oggi  giunti  dopo  che  da  parecchi  anni  si  era  andati  dicendo  (e  scrivendo)  che  la  terapia  del  vantaggio  comparato  individuava  nella  esistenza  in  sanità  di  farti  asimmetrie  informative  e  di  rilevanti  esternalità  sociali,  la  causa  della  superiore  efficienza  della  forma  non  profit  rispetto  a  quella  for  profit.  Come  si  è  giunti  a  questa  sorte  di  svolta  ad  U?  Per  duplice  ordine  di  corcostanze,  le  une  di  natura  teorica,  le  altre  di  ordine  pratico.  Consideriamo,  in  breve,  le  prime.  E’  bensì  vero  che  nell’ambito  delle  prestazioni  sanitarie  sono  presenti  fenomeni  sia  di  asimmetria  informativa  sia  di  esternalità  sociali.  Ma  questi  non  sono  né  gli  unici  rilevanti  né  i  più  importanti.  Invero,  le  prestazioni  sanitarie  sono  tipicamente  servizi  alla  persona,  servizi  che  includono  una  fondamentale  dimensione  relazionale  che  non  può  certo  essere  catturato  dall’approccio  del  vantaggio  comparato,  il  quale  non  è  affatto  attrezzato  a  trattare  di  beni  relazionali.  Come  la  più  recente  letteratura  economica  sui  beni  relazionali  ci  informa,  ben  altri,  rispetto  a  quelli  usualmente  applicati  nei  confronti  di  efficienza,  sono  gli  strumenti  che  devono  essere  impiegati  per  tener  conto  della  dimensione  relazionale.  E'  dunque  chiaro  che  se  nel  calcolo  del  vantaggio  comparato  tra  forme  diverse  di  impresa  si  eliminano,  a  priori,  tra  gli  attributi  rilevanti  per  il  confronto,  quelli  che  definiscono  le  c.d.  medicina  di  relazione,  la  forma  di  impresa  non  profit,  che  è  naturalmente  portata  ad  esaltare  la  dimensione  relazionale,  risulta  in  partenza  svantaggiata.  Ma  v'è  di  più.  Gli  standard  di  qualità  in  sanità  sono  un  "moving  target",  non  qualcosa  che  può  essere  definito  ad  intervalli  più  o  meno  regolari  di  tempo.  Ne  deriva  che  anche  il  più  illuminato  e  razionale  degli  schemi  di  regolazione  ad  opera  del  controllore  pubblico  non  potrà  mai  "stare  dietro"  ad  una  realtà  in  costante  evoluzione  come  è  quella  che  contraddistingue  il  settore  sanitario.  Eppure  la  tecnica  di  analisi  con  cui  si  regge  l'approccio  del  vantaggio  comparato  si  avvale  di  un  metodo  essenzialmente  statico,  incapace  di  per  sé  di  dare  conto  del  fatto  che  la  malattia  non  è  semplice  accidente  patologico,  ma  appartiene  ad  un  percorso  esistenziale  segnato  da  una  pluralità  di  eventi.  Di  nuovo,  nella  misura  in  cui  la  dimensione  biografica  del  paziente  non  viene  meno  in  considerazione  a  favore  della  sola  dimensione  bilogica,  è  evidente  che  l'ONP  venga,  coeteris  paribus,  danneggiato  a  vantaggio  di  quella  for  profit.  Una  conferma  parziale,  ma  di  grande  significato,  di  quanto  qui  detto  ci  viene  dalla  recente  indagine  empirica  di  B.A.  Weisbrod,  il  quale  ha  mostrato  come,  negli  USA,  le  case  di  cura  per  anziani  e  disabili  gestito  da  OSC,  espressione  delle  varie  Chiese,  trattino  i  loro  ospiti  "in  modo  più  umano"  delle  analoghe  forme  for  profit.  In  particolare,  Weisbrod  ha  posto  in  evidenza  che  gli  ospedali  non  profit  una  volta  trasformati  in  strutture  for  profit  cessano  di  fornire  servizi  quali  i  "community  advice"  e  di  destinare  risorse  alla  ricerca  per  le  "malattie  orfane"  -­‐  attività  queste  che  non  sono  certamente  funzionali  all'obiettivo  del  profitto.  (Cfr.  "Institutional  form  and  organizational  behaviour",  in  Powell  W.  E  Clemens  E.  (a  cura  di),  Private  action  and  the  public  good,  New  Haven,  Yale  University  Press,  1998).  

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Il  secondo  insieme  di  circostanze  cui  sopra  alludevo  ha  a  che  vedere  con  il  fatto  che,  per  ragioni  varie  che  qui  non  posso  portare  alla  luce,  gran  parte  delle  OSC  operanti  in  ambito  sanitario  non  sono  state  in  grado  di  dimostrare,  in  tempi  recenti,  il  loro  specifico  valore  aggiunto  nel  modo  di  erogazione  dei  servizi  forniti.  Generalizzando  un  istante,  ciò  accade  tutte  le  volte  in  cui  una  OSC  "sceglie"  la  strategia  dell'isomorfismo,  vale  a  dire  sceglie  di  diventare  simile  all'impresa  rivale  for  profit,  concentrando  tutti  i  propri  sforzi  sull'obiettivo  dell'efficienza  e  dunque  accogliendo,  al  proprio  interno,  quegli  schemi  organizzativi  e  manageriali  che  sono  tipici  dell'impresa  for  prfit.  In  altro  modo,  quando  una  OSC  cessa  di  mostrare  con  i  fatti  di  essere  in  grado  di  tradurre  in  pratica  una  specifica  concezione  di  qualità  sociale  -­‐  capace  di  tener  conto  e  del  processo  e  del  prodotto  -­‐  si  ha  che  solamente  quegli  attributi  di  qualità  che  possono  essere  assicurati  anche  da  un'impresa  for  profit  vengano  riconosciuti  come  meritevoli  di  attenzione  dall'ente  pubblico  e  pertanto  da  questi  regolamentati.  Ed  è  allora  ovvio  che,  così  riduttivamente  interpretata,  la  qualità  sociale  cessi  di  essere  un  tratto  caratterizzante  l'azione  di  una  OSC,  la  quale  non  potrà  poi  pretendere  o  reclamare  per  sé  "eccezioni"  di  sorta.  Per  dirla  in  maniera  più  esplicita,  una  volta  che  la  qualità  sociale  sia  stata  ridotta  al  rango  di  ciò  che  è  quantificabile  sulla  scorta  dei  familiari  metodi  di  rilevazione  statistica,  è  chiaro  che  si  giunga  a  scoprire  che,  rispetto  a  questa  nozione  di  qualità,  le  OSC  non  possa  "fare  meglio"  dell'impresa  for  profit.  Con  il  che  la  complessa  problematica  del  c.d.  welfare  mix  in  sanità  si  riduce  alla  questione,  bensì  importante  ma  non  certo  unico,  riguardante  la  tipologia  di  contratti  che  le  autorità  pubbliche  devono  siglare  con  i  vari  soggetti  di  offerta,  quale  che  sia  la  loro  natura  specifica.  In  tal  modo,  il  grosso  tema  del  pluralismo  nella  sanità  viene  ridotto  alla  vecchia  e  obsoleta  alternativa  fra  stato  e  mercato:  tra  più  stato  e  meno  mercato  oppure  il  viceversa.  Il  ruolo  propulsivo  e  creativo  della  società  civile,  organizzata,  come  soggetto  generatoredi  "capitale  sociale",  viene  così  svuotato  di  significato  o  tutt'alpiù  visto  come  mero  supporto  funzionale  al  mercato.  Per  concludere.  Il  problema  non  è  affatto  quello  -­‐  come  taluno  ha  interessare  a  far  credere  -­‐  di  eliminare  la  categoria  di  competizione  in  un  ambito  come  quello  sanitario.  Piuttosto,  il  problema  è  quello  di  arricchire  tale  categoria  per  farvi  si  che  soggetti  di  offerta  portatori  di  specifiche  abilità  -­‐  come  quelle  che  sono  richieste  per  dare  risalto  ad  una  concezione  piena  di  qualità  sociale  -­‐  possano  gareggiare  alla  pari  con  soggetti  di  offerta  portatori  di  altra  abilità  lasciando  che  siano  i  cittadini-­‐consumatori  dei  servizi  sanitari  a  decidere  quanta  rilevanza  deve  avere,  cioè  quanto  spazio  economico  deve  occupare  l'un  tipo  o  l'altro  di  soggetto  di  offerta.  In  buona  sostanza,  chi  ha  a  cuore  le  ragioni  della  libertà  non  può  accettare  che  si  preselezionismo  i  soggetti  chiamatia  competere  nel  settore  sanitario  sulla  base  di  un  criterio,  quale  quello  dell'efficienza  economica,  che  non  può  tener  conto,  per  sua  natura,  di  attributi  quali  quello  della  qualità  sociale  o  della  produzione  di  esternalità  collettive;  attributi  -­‐  si  badi  bene  -­‐  che  i  cittadini  dichiarano  di  apprezzare  ma  anche  di  essere  disposti  a  battersi  per  averli  realizzati.  Continuare  a  non  cogliere  il  punto  significherebbe  cadere  vittime  della  trappola  culturale  dell'economicismo.        7.  Un’annotazione  finale      L’argomento  sviluppato  in  questo  scritto  ha  un  fine  ultimo,  quello  di  mostrare  che  il  governo  di  un  sistema  complesso  come  è  il  sistema  sanitario  non  può  essere  messo  in  opera  restando  all’interno  della  tradizionale  contrapposizione  tra  una  visione  statalista  ed  una  liberista  dell’ordine  politico-­‐economico.Secondo  tale  concezione,  controllo  statuale  e  meccanismo  di  mercato  vengono  visti  come  alternative  antitetiche  per  il  disegno  di  un  sistema  sanitario.Eppure,  è  cosa  ormai  nota  che  né  l’istituzione  stato  né  l’istituzione  mercato  sono  in  grado,  da  sole,  di  

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risolvere  conflitti  fondamentali  e,  in  particolare,  di  sciogliere  in  modo  accettabile  quelle  “scelte  tragiche”  che  si  presentano  in  sanità  in  modo  sistematico  e  non  occasionale.  Rispetto  a  tale  concettualizzazione  dicotomica  –  invero,  alquanto  obsoleta  –  giudico  più  promettente  la  via  di  un  rapporto  cooperativo  tra  dimensione  pubblica  e  privata  secondo  cui  lo  stato  assume,  da  un  lato,  la  funzione  di  stimolatore  dell’evoluzione  di  assetti  organizzativi  chiamati  ad  annullare  le  sacche  di  inefficienza  endemicamente  presenti  in  sanità  e,  dall’altro,  la  funzione  di  regolatore,  cioè  di  ordinatore  che  agisce  in  modo  promozionale  della  società  civile  per  scongiurare  i  rischi  del  privatismo  sanitario.  (Sarebbe  questo  un  antagonista  serio  di  quella  coesione  sociale  che  è  stata  ed  è  l’elemento  centrale  del  processo  di  sviluppo  italiano).Al  tempo  stesso,  al  mercato,  che  deve  articolarsi  nelle  forme  diverse  ma  complementari  dell’economia  privata  e  dell’economia  civile,[16]  spetta  il  duplice  compito  di  fornire  le  risorse  aggiuntive  rispetto  a  quelle  raccolte  con  la  fiscalità  generale  per  rendere  sostenibile  un  welfare  sanitario  di  tipo  universalistico,  e  di  contrastare  le  tentazioni  ricorrenti  di  dirigismo  economico  e  politico  mostrando,  con  i  fatti,  come  si  possa  arrivare  ad  esiti  socialmente  ottimali  in  sanità.  Quanto  sopra  rinvia  alla  nozione  di  “  stato  limitato”  -­‐  come  mi  piace  chiamarlo.Lo  stato  limitato  si  contrappone  sia  allo  “stato  minimo”  –  nozione  cara  al  pensiero  liberal-­‐individualista  secondo  cui  lo  stato  deve  garantire  poche  cose:  le  leggi,  l’ordine  pubblico,  la  moneta,  la  difesa  –  sia  allo  “stato  assistenziale”  che  decide  paternalisticamente  e  fornisce  direttamente  ciò  che  è  bene  per  i  cittadini.Lo  stato  limitato,  invece,è  uno  stato  che  interviene,  magari  in  maniera  forte,  ma  in  certi  ambiti  e  non  in  altri,  mentre  riconosce  –  ma  non  autorizza,  né  concede  -­‐la  più  ampia  autonomia  al  libero  articolarsi  della  società  civile.Scriveva  Lord  Beveridge  nel  suo  celebre  L’azione  volontaria:  “La  formazione  di  unabuona  società  dipende  non  dallo  stato,  ma  dai  cittadini,  che  agiscono  individualmente  o  in  libere  associazioni  …  La  felicità  o  l’infelicità  della  società  in  cui  viviamo  dipende  da  noi  stessi  quali  cittadini,  non  dallo  strumento  del  potere  politico  che  noi  chiamiamo  stato.  Lo  stato  deve  incoraggiare  l’azione  volontaria  di  ogni  specie  per  il  progresso  sociale”.E’  questa,  in  fondo,  l’idea  di  uno  stato  sociale  sussidiario,  uno  stato  cioè  che  promuove  e  incentiva  tutte  quelle  forme  di  azione  collettiva  che  hanno  effetti  pubblici,  come  appunto  accade  in  campo  sanitario.  

 Abel-­‐Smith,  B.  et  Al.  (1995),  Changes  in  Health  Policy  –  An  agenda  for  the  European  Union,  Dartmouth,  Aldershot.  Daniels,  N.  (1998),  “Rationing  medical  care:  a  philosopher’s  perspective  on  outcomes  and  process”,  Economics  and  Philosophy,  14,  27-­‐50.  Davey,  P.  e  Leeder,  S.R.  (1993),  “The  cost  of  cost-­‐of-­‐illness  studies”,  Medical  Journal  of  Australia,  158,  583-­‐4.  Hirschman,  A.O.  (1997),  Autosovversione,  Bologna,  Il  Mulino.  Holland,  W.  (1991),  European  Community  atlas  of  “avoidable  death”,  II  ed.,  Oxford,  Oxford  University  Press.  Jonas,  H.  (12991),  Dalla  fede  antica  allk’uomo  tecnologico,  Bologna,  Il  Mulino.  Jori,  M.  (1997),  “Rivoluzione  in  etica  medica.  Tra  libertà  e  vincoli  sociali”,  Politeia,  47/48,  78/82.  Mooney,  G.  (1994),  Key  issues  in  health  economics,New  York,  Harvester.  New,  B.  e  Le  Grand,  J.  (1996),  Rationing  int  the  NHS:  principles  and  pragmatism,London,  King’s  Fund.  New,  B.  e  Le  Grand,  J.  (1997),  “Perchè  definire  un  pacchetto  di  prestazioni  sanitarie  di  competenza  del  NHS  britannico”,Assistenza  Sociale,  2,  231-­‐8.  

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mediante  una  cura  rara  e  costosa,  come  la  dialisi  cronica,  solo  i  soggetti  che  dimostravano  di  possedere  qualità  come  il  decoro  e  il  senso  di  responsabilità.  Una  qualsiasi  una  incarcerazione  vicenda  di  devianza  sociale,  per  esempio,  qualsiasi  indizio  del  fatto  che  la  vita  matrimoniale  non  era  immacolata  e  priva  di  scandali  costituivano  altrettanti  gravi  controindicazioni  ai  fini  della  selezione”.  [9]  Sulle  tecniche  impiegate  per  giungere  a  misurare  i  qaly  per  le  varie  patologie  e  sui  metodi  di  costruzione  di  una  tavola  dei  qaly,  si  può  vedere  G.  Mooney,  op.  cit.,  1994.  [10]  Già  nel  1987,  in  Oregon  fece  scalpore  la  vicenda  di  Jacoby  Howard,  un  bimbo  di  11  anni  morto  di  leucemia  perché  i  genitori  non  trovarono  in  tempo  i  100.000  dollari  necessari  per  il  trapianto  di  midollo.  Se  Jacoby  si  fosse  ammalato  un  anno  prima,  il  trapianto  sarebbe  stato  effettuato  a  spese  dello  Stato.  Il  parlamento  dello  Stato  dell’Oregon,  posto  di  fronte  al  dilemma  se,  con  le  risorse  a  disposizione,  fosse  stato  più  opportuno  estendere  le  cure  primarie  a  1.500  persone(soprattutto  bambini)  che  ne  erano  prive  o  continuare  a  finanziare  i  trapianti  di  organi  per  venti  persone  circa  all’anno,  aveva  optato,  nel  1986,  per  la  prima  alternativa,  proprio  applicando  la  metodologia  dei  qaly.  [11]  J.  Broome,  “Qalys”,  Journal  of  Public  Economics,  50,  1993,  pp.  149-­‐167  –  che  si  dichiara,  tutto  sommato,  a  favore  dell’approccio  in  questione  –  sostiene  che  il  metodo  del  tempo  seguito  per  giungere  a  pesare  la  qualità  della  vita  è  compatibile  con  le  preferenze  individuali  solo  se  gli  anni  di  vita  non  vengono  scontati.  D’altronde,  il  metodo  probabilistico  risulta  compatibile  sempre  con  le  preferenze  individuali  solo  se  i  soggetti  sono  neutrali  al  rischio.  Ma  M.Johannensson,  “Qalys:  a  comment”,  in  Journal  of  Public  Economics,  56,  1995,  pp.  327-­‐8,  mostra  che,  sotto  specifiche  condizioni,  così  non  è.  [12]  Adesempio,  I.  Kamm,  Morality  and  mortality,  vol.  I,  Oxford  University  Press,  Oxford,  1993sostiene  che  il  bisogno  varia  direttamente  con  l’età:  stiamo  peggio  se  moriamo  all’età  n  che  non  se  moriamo  all’età  (n  +  1).  Se  il  criterio  è  quello  di  aiutare  chi  sta  peggio,  il  razionamento  da  realizzare  allora  è  quello  per  età.  [13]  Si  può  notare  che  è  proprio  la  contemporanea  presenza  di  tutte  e  tre  queste  caratteristiche  a  determinare  l’esistenza,  in  sanità,  di  così  tanti  trade-­‐off  quali  non  si  riscontrano  in  alcun  altro  settore.P.  Diamond,  “Rationing  medical  care:  an  economist’s  perspective”,  Economics  and  Philosophy,  14,  1998,  pp.  1-­‐26,  osserva  come  i  fenomeni  di  incoerenza  temporale  delle  preferenze  dei  soggetti  possono  avere  conseguenze  particolarmente  catastrofiche  nel  caso  della  sanità.  Che  non  decida,  oggi,  di  acquistare  il  biglietto  per  una  partita  di  baseball  di  domani,  quando  le  mie  preferenze  potranno  divergere  da  quelle  odierne,  è  questione  di  poco  conto.  Ma  se  non  decido,  oggi,  di  assicurarmi  per  avere  assistenza  sanitaria  in  futuro,  ciò  può  causare  danni  assai  gravi  sia  per  il  livello  della  spesa  sia  per  l’incertezza  sulle  condizioni  di  vita.  E’  anche  per  questo  che  la  copertura  sanitaria  rientra  nella  categoria  dei  grandi  rischi,  rispetto  ai  quali  i  mercati  assicurativi,  notoriamente,  non  funzionano  bene.  [14]  Secondo  la  ben  nota  definizione  del  1947dcll’OMS,  la  salute  è  “uno  stato  di  completo  ben  essere  fisico,  mentale  e  sociale”.Una  definizione,  questa,  che  dice,  ad  un  tempo,  troppo  –  il  completo  ben  essere  è  vera  e  propria  utopia  –  e  troppo  poco,perché  trascurala  responsabilità  del  singolo  a  porre  in  essere  comportamenti  volti  a  prevenire  o  riparare  danni  alla  salute.  [15]  M.  Gouveia,  “Majority  rule  and  the  public  provision  of  a  private  good”,  Public  Choice,  93,  1997,  pp.  221-­‐44,  è  forse  il  primo  modello  teorico  che  dimostra  l’esistenza,  sotto  la  regola  di  maggioranza,  di  une  quilibrio  politico  per  la  fornitura  di  servizi  sanitari  in  cui  l’offerta  privata  è  integrativa  di  quella  pubblica.  [16]  Ho  sviluppato  il  nesso  tra  società  civile  ed  economia  civile  nel  saggio  L.  Bruni,S.  Zamagni,  “Economia  civile,  Il  Mulino,  Bologna,  2004.  

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MARKUS  HENGSTSCHLÄGER      IL  PRODOTTO  FARMACEUTICO  COME  MEDICINA,    COME  PRODOTTO  COMMERCIALE  E    COME  BENE  DI  CONSUMO     INTRODUZIONE      Guarire  i  malati  è  l’obbiettivo  principale  di  ricercatori,  medici  e  infermieri.  Uno  degli  approcci  più  efficaci  per  raggiungere  tale  obbiettivo  è  rappresentato  dall’uso  di  prodotti  farmaceutici.  I  farmaci  sono  estremamente  importanti  in  quanto  mettono  a  disposizione  dei  consumatori  una  miriade  di  trattamenti  e  cure.  Per  milioni  di  persone  essi  rappresentano  la  possibilità  di  aumentare  la  speranza  di  vita  e  migliorarne  la  qualità.  La  valorizzazione  dell’industria  farmaceutica  attiva  nel  settore  della  ricerca  e  sviluppo  di  nuovi  farmaci  è  pertanto  fondamentale  e  imprescindibile.  D’altra  parte  la  varietà  di  questi  prodotti  è  straordinariamente  ampia.      Prodotti  farmaceutici  -­‐  farmaci  da  prescrizione  e  non,  medicazioni  e  terapie  -­‐  antibiotici  -­‐  farmaci  antivirali  e  antitumorali  -­‐  farmaci  analgesici  e  antinfiammatori  -­‐  prodotti  cardiovascolari  -­‐  prodotti  immunitari  e  antistaminici  -­‐  prodotti  della  ricerca  cellulare  per  profilassi  e  terapia  -­‐  prodotti  cosmetici,  ad  esempio  prodotti  per  la  cura  della  pelle  e  dei  capelli.      Vi  trovano  spazio  una  vasta  gamma  di  farmaci  da  prescrizione  e  non,  medicamenti,  farmaci  terapeutici,  antibiotici  di  ultima  generazione,  antivirali  e  antitumorali,  analgesici  e  antinfiammatori,  prodotti  cardiovascolari,  immunitari  e  antistaminici,  prodotti  della  ricerca  cellulare  più  avanzata  per  farmaci  profilattici  e  terapeutici,  ma  anche  prodotti  cosmetici  come  quelli  per  la  cura  della  pelle  e  dei  capelli.  Ma  qual  è  il  confine  tra  i  prodotti  farmaceutici  ad  esclusivo  uso  dell’industria  cosmetica  e  i  prodotti  realmente  importanti  per  il  trattamento  di  patologie  umane?  Chi  stabilisce,  e  come,  quali  stati  possono  essere  considerati  patologici  e  quali  no?  Per  chiarire  la  discussione,  l’Organizzazione  Mondiale  della  Sanità  ha  introdotto  l’espressione  “farmaci  essenziali”.  “I  farmaci  essenziali  sono  quei  farmaci  che  rispondono  alle  esigenze  sanitarie  prioritarie  della  popolazione.  Sono  selezionati  in  relazione  alla  loro  importanza  per  la  salute  pubblica,  evidenza  di  efficacia  e  sicurezza  e  al  rapporto  comparativo  costo-­‐efficacia.  I  farmaci  essenziali  devono  essere  disponibili  all’interno  di  un  efficiente  sistema  sanitario  in  ogni  momento  e  inquantità  adeguate,  nella  forma  di  dosaggio  appropriata,  qualitativamente  sicuri,  con  informazioni  adatte  e  a  un  prezzo  accessibile  ai  singoli  individui  e  alla  comunità.  Il  concetto  di  farmaci  essenziali  deve  essere  flessibile  e  adattabile  alle  differenti  situazioni;  la  determinazione  dei  farmaci  come  essenziali  rimane  a  discrezione  dei  singoli  stati”(Organizzazione  Mondiale  della  Sanità,  2002).  Anche  la  definizione  di  buona  pratica  di  fabbricazione  (GMP)  nella  produzione  farmaceutica  è  di  estrema  importanza.  I  farmaci  di  scarsa  qualità,  per  esempio  quelli  contenenti  sostanze  tossiche  aggiunte  non  intenzionalmente,  rappresentano  non  solo  un  grave  pericolo  per  la  salute,  ma  anche  

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uno  spreco  di  risorse  economiche  sia  per  i  governi  che  per  i  singoli  consumatori.  E’  di  fondamentale  importanza  che  tutti  i  paesi  accettino  di  importare  e  vendere  esclusivamente  prodotti  farmaceutici  realizzati  in  base  alle  norme  di  buona  pratica  di  fabbricazione  internazionalmente  riconosciute  (Organizzazione  Mondiale  della  Sanità,  2002).  In  questa  sede  saranno  messi  a  confronto  e  discussi  i  diversi  punti  di  vista  sulle  modalità  d’uso  dei  prodotti  farmaceutici,  con  particolare  attenzione  alle  caratteristiche  delle  indicazioni  mediche  per  l’uso  di  tali  prodotti  e  agli  interessi  commerciali  dell’industria  farmaceutica.      Organizzazione  Mondiale  della  Sanità,  criteri  per  la  definizione  dei  farmaci  essenziali  -­‐  soddisfare  i  bisogni  sanitari  prioritari  -­‐  rilevanza  per  la  salute  pubblica  -­‐  evidenza  sull’efficacia  e  la  sicurezza  -­‐  rapporto  costo-­‐efficacia  -­‐  disponibilità:  in  qualsiasi  momento,  quantità  adeguate,  forme  di  dosaggio  appropriate  -­‐  qualità  garantita  -­‐  informazioni  adeguate  -­‐  prezzo  ragionevole          IL  PROCESSO  DI  SCOPERTA  E  SVILUPPO  DI  UN  NUOVO  FARMACO      Una  discussione  obbiettiva  sugli  argomenti  suddetti  deve  partire  dal  riconoscimento  degli  straordinari  sforzi  economici  che  compiono  le  industrie  farmaceutiche  per  sviluppare  un  nuovo  farmaco.  Alcune  note  industrie  farmaceutiche  investono  nella  ricerca  somme  che  raggiungono  i  30  miliardi  di  dollari  per  anno.  Si  calcola  che  lo  sviluppo  di  un  farmaco,  a  partire  dalla  ricerca  di  laboratorio  fino  alla  commercializzazione,  costi  approssimativamente  500  milioni  di  dollari.  Di  questi,  circa  il  70%  viene  speso  per  prodotti  che  falliscono  durante  la  fase  pre-­‐clinica  della  ricerca  e  il  tempo  medio  per  lo  sviluppo  di  un  farmaco  viene  calcolato  intorno  ai  15  anni  (Robbins-­‐Roth,  2000;  Furness  e  Pollock,  2001;  Rohmann  et  al.,  2002).  Inizialmente  la  ricerca  viene  effettuata  nei  laboratori  al  fine  di  identificare  gli  obbiettivi,  agenti  patologici  di  malattie  specifiche  che  il  nuovo  farmaco  dovrà  contrastare.  Speranza  di  ricercatori  e  pazienti  è  che  le  sostanze  che  interagiscono  con  questi  obbiettivi  siano  in  grado  di  modificare  lo  sviluppo  della  patologia.  Progetti  di  ricerca  di  questo  tipo  durano  dai  due  ai  dieci  anni  e  producono  sostanze  farmacologiche  che  verranno  testate  nella  fase  successiva,  quella  clinica.  Nelle  sperimentazioni  cliniche  di  fase  I,  II  e  III  la  domanda  alla  quale  si  deve  dare  una  risposta  è  se  realmente  è  stato  sviluppato  un  nuovo  farmaco  che  risponde  a  necessità  sanitarie  ancora  insoddisfatte  attraverso  una  maggiore  efficacia,  una  tossicità  ridotta  e  una  minore  probabilità  di  eventi  avversi  (vedi  Figura  1.  ,  ripresa  e  modificata  da  Furness  e  Pollock,  2001).  Ma  perchè  si  investono  così  tante  risorse?  Le  ricadute  vantaggiose  per  l’industria  farmaceutica  appaiono  evidenti  dalle  statistiche  che  mostrano  come  negli  Stati  Uniti  d’America,  in  media,  un  farmaco  da  prescrizione  frutta  circa  1.5  milioni  di  dollari  al  giorno  (Getz  and  De  Bruin,  2000).        LA  RICERCA  SU  E  CON  PRODOTTI  FARMACEUTICI      Da  quanto  detto  finora,  emerge  un  importante  aspetto  etico.  Cosa  succede  se  la  stima  di  prevalenza  di  una  patologia  è  bassa?  Ovviamente  i  benefici  per  l’industria  farmaceutica  che  sviluppa  un  farmaco  per  la  cura  di  tale  patologia  risulteranno  essere  molto  inferiori  rispetto  a  patologie  più  comuni.  D’altra  parte  gli  sforzi  messi  in  atto  per  scoprire  e  sviluppare  un  farmaco  

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sono  gli  stessi  indipendentemente  dalla  prevalenza  della  malattia.  In  altre  parole,  l’industria  farmaceutica  investe  per  lo  sviluppo  di  farmaci  contro  le  patologie  più  comuni,  mentre  la  ricerca  relativa  alle  cosiddette  patologie  orfane  è  alquanto  carente.  Una  malattia  orfana  è  una  condizione  patologica  che  non  interessa  all’industria  in  quanto  la  produzione  e  la  commercializzazione  di  nuovi  farmaci  per  la  prevenzione  o  la  cura  di  tipo  di  malattie  produce  scarse  ricadute  economiche  per  il  settore  privato.  Secondo  i  criteri  adottati  dagli  USA,  una  malattia  orfana  è  una  malattia  che  colpisce  meno  di  200.000  persone.  Esistono  più  di  5000  patologie  che  rispondono  a  questo  criterio.  Una  malattia  orfana  può  anche  essere  una  malattia  comune,  ma  ignorata  (come  la  tubercolosi,  il  colera,  la  malaria),  in  quanto  molto  più  diffusa  nei  paesi  in  via  di  sviluppo  rispetto  al  mondo  sviluppato.  Negli  ultimi  venti  anni  Stati  Uniti,  Giappone,  Australia  e  Unione  Europea  hanno  prodotto  una  legislazione  specifica  sui  farmaci  orfani  che  prevede  esclusività  commerciale  e  incentivi  fiscali  per  la  ricerca  e  le  sperimentazioni  cliniche  su  prodotti  farmaceutici  destinati  alla  cura  di  malattie  rare,  comprese  le  malattie  tropicali  e  altre  patologie  prevalenti  nei  paesi  in  via  di  sviluppo  (Robbins-­‐Roth,  2000).  Bisogna  sottolineare  che  continuare  su  questa  strada  rappresenta  una  sfida  molto  importante  per  la  politica,  la  società  e  la  ricerca  farmacologica.  Data  l’ingente  quantità  di  risorse  necessarie  non  sorprende  che  un  numero  sempre  crescente  di  progetti  di  ricerca  e  sperimentazioni  cliniche,  a  tutti  i  livelli  di  produzione  di  un  farmaco,  sia  finanziato  dall’industria  farmaceutica.  Ciò  comporta  un  problema  etico  fondamentale.  Quale  influenza  hanno  gli  interessi  dell’industria  farmaceutica  sui  risultati  ottenuti  da  questi  progetti  di  ricerca  e  sperimentazioni  cliniche?  E’  importante  notare  che  tale  influenza  può  essere  diretta,  ma  anche  indiretta  a  seconda  che  gli  studi  siano  realizzati  all’interno  delle  strutture  dell’industria  o  all’esterno  da  ricercatori,  medici  e  consulenti  pagati  da  una  casa  farmaceutica  (Anis  e  Gagnon,  2000).  Risultati  sfavorevoli  per  l’industria  che  sponsorizza  la  ricerca  possono  creare  rischi  finanziari  per  la  compagnia.  Naturalmente  nessuna  compagnia  è  disposta  a  sprecare  risorse  economiche  per  dimostrare  che  uno  dei  suoi  farmaci  è  clinicamente  meno  efficace,  o  ha  un  rapporto  sfavorevole  costo-­‐efficacia  o  è  meno  sicuri  di  altri  farmaci  usati  per  la  stessa  patologia.  Pressioni  affinchè  lo  studio  produca  risultati  positivi  potrebbero  essere  causa  di  bias  nel  disegno,  nei  risultati  e  nella  presentazione  della  ricerca  sponsorizzata  dall’industria  (Bero  e  Rennie,  1996).  Di  conseguenza  è  di  fondamentale  importanza  sapere  se  il  finanziamento  dello  studio  di  un  farmaco  da  parte  dell’industria  influenzi  i  risultati  positivi  per  il  finanziatore  e  se  i  metodi  d’indagine  usati  nelle  ricerche  sponsorizzate  dal  settore  privato  differiscano  da  quelli  usati  in  studi  realizzati  con  altre  fonti  di  finanziamento.  Un’analisi  sistematica  dell’impatto  dei  conflitti  economici  nella  ricerca  biomedica  ha  dimostrato  che  gli  studi  finanziati  dall’industria  farmaceutica,  sebbene  rigorosi  come  altri  studi,  producono  sempre  risultati  favorevoli  per  lo  sponsor  (Bekelman  et  al.,  2003).  Una  recente  ricerca  su  questo  argomento  ha  provato  che  il  fatto  che  la  ricerca  finanziata  dalle  compagnie  farmaceutiche  produca  con  maggiore  probabilità  risultati  favorevoli  al  prodotto  dello  sponsor  rispetto  alla  ricerca  finanziata  da  altre  fonti,  non  può  essere  spiegato  con  la  qualità  dei  metodi  usati  nella  ricerca  finanziata  dall’industria.  Con  più  probabilità  i  risultati  sono  dovuti  all’uso  di  comparatori  inappropriati  o  a  bias  di  pubblicazione  (Lexchin  et  al.,  2003).  Recentemente  alcune  delle  più  importanti  riviste  di  ricerca  medica  hanno  introdotto  una  nuova  politica  in  base  alla  quale  chiedono  agli  autori  di  manoscritti,  che  riportano  i  risultati  della  ricerca  di  base  e/o  risultati  di  sperimentazioni  cliniche  relativi  a  specifiche  sostanze  farmaceutiche,  di  dichiarare  ufficialmente  eventuali  legami  con  le  case  farmaceutiche  o  eventuali  contributi  da  esse  ricevuti.  Sebbene  questo  rappresenti  un  importante  passo  nella  giusta  direzione,  è  lecito  dubitare  della  sua  efficacia  nell’evitare  l’ingerenza  dell’industria.      

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 BREVETTO  E  FARMACI  GENERICI      Dal  punto  di  vista  dell’industria  farmaceutica  un  farmaco  che  ha  superato  tutti  i  test  è  un  vero  e  proprio  prodotto  commerciale.  Lo  sviluppo  di  nuovi  prodotti  farmaceutici  è  di  estrema  importanza  per  i  consumatori  in  quanto  mette  a  disposizione  nuove  strategie  per  il  trattamento  e  la  cura  di  un’ampia  varietà  di  “vecchie  e  nuove”  patologie.  Come  già  detto,  il  processo  di  identificazione  e  sviluppo  di  un  nuovo  farmaco  è  estremamente  costoso  e  rischioso.  E’  pertanto  nell’interesse  dell’industria  e  dei  pazienti  adottare  incentivi  per  lo  sviluppo  di  nuovi  farmaci.  Sembra  ovvio  dunque  che  offrire  incentivi  appropriati  per  l’industria  contribuisca  a  un  rapido  sviluppo  delle  conoscenze  sulle  patologie  e  a  generare  nuove  strategie  terapeutiche  anche  per  il  futuro.  La  possibilità  di  brevettare  le  nuove  invenzioni  rappresenta  pertanto  l’opportunità  più  interessante  per  l’industria  dal  punto  di  vista  degli  incentivi.  Il  brevetto  fornisce  i  diritti  di  esclusiva  per  l’uso  e  lo  sfruttamento  commerciale  di  nuovi  ritrovati  farmacologici  per  un  dato  periodo  di  tempo.  Dopo  aver  investito  ingenti  risorse  economiche  e  temporali  nel  processo  di  scoperta  e  sviluppo  di  un  nuovo  farmaco,  è  ovvio  che  l’industria  sia  fortemente  interessata  alla  sua  commercializzazione.  I  diritti  di  esclusività  per  l’uso  e  lo  sfruttamento  dell’invenzione  impediscono  ad  altri  di  usare  commercialmente  l’invenzione  brevettata,  il  che  naturalmente  comporta  una  notevole  riduzione  della  competizione  e  una  maggiore  affermazione  dell’industria  sul  mercato.  Il  brevetto,  in  altre  parole,  rappresenta  la  motivazione  maggiore  per  lo  sviluppo  di  un  prodotto  in  vista  della  sua  immissione  in  commercio.  D’altra  parte  se  l’industria  decidesse  di  non  sfruttare  il  brevetto  in  sé,  potrebbe  sempre  vendere  il  brevetto  oppure  cedere  i  diritti  della  commercializzazione  ad  un’altra  industria.  Oggigiorno,  partners  commerciali,  investitori  e  azionisti  guardano  al  portafoglio  brevetti  di  un’azienda  come  indice  dell’alto  livello  di  competenze,  specializzazione  e  capacità  tecnologica  di  un’industria  farmaceutica.  E’  importante  notare  che  questi  criteri  valgono  anche  per  i  laboratori  di  ricerca  delle  università  statali.  Il  brevetto  di  nuove  invenzioni  nel  campo  delle  scienze  della  vita  hanno  un  ruolo  ancora  più  importante  per  la  buona  immagine  di  un’istituto  di  ricerca.  Alla  stregua  delle  pubblicazioni  su  giornali  internazionali  “peer-­‐reviewed”,  il  brevetto  è  considerato  come  importante  indice  di  successo  scientifico.  Infine,  ma  non  per  importanza,  anche  per  l’università  possedere  un  brevetto  può  essere  motivo  di  interesse  commerciale  (Robbins-­‐Roth,  2000;  Knoppers,  2001;  Rohmann  et  al.,  2002;  Rohnke,  2002).      Motivazioni  per  la  richiesta  del  brevetto  -­‐  Diritti  esclusivi  di  uso  -­‐  commercializzazione  –  ingenti  ricadute  economiche  -­‐  riduzione  della  competizione  che  porta  ad  una  posizione  più  forte  sul  mercato  -­‐  vendita  dell’invenzione  ad  un’altra  industria      Dal  punto  di  vista  etico  la  domanda  più  rilevante  riguarda  ciò  che  si  può  brevettare.  Nell’ambito  della  biomedicina  e  dell’industria  farmaceutica  tale  domanda  si  traduce  nei  dubbi  sulla  possibilità  di  brevettare  la  vita.  E’  stato  stabilito  che  mentre  sono  brevettabili  i  procedimenti  utilizzati  per  ottenere  ciò  che  in  natura  già  esiste,  non  possono  essere  invece  brevettati  gli  oggetti  della  scoperta.  Questi  infatti  non  rappresentano  un’invenzione  né,  in  quanto  classe  di  oggetti,  può  essere  attribuita  a  qualcuno  la  loro  proprietà  esclusiva.  I  più  recenti  sviluppi  nella  ricerca  biomedica  sollevano  diverse  questioni  proprio  su  questo  argomento.  Stando  a  quanto  appena  detto,  non  possono  essere  brevettate  parti  di  DNA,  di  geni,  cellule  staminali  umane  né  naturalmente  embrioni  umani  interi  a  qualsiasi  stadio  di  sviluppo.  Certamente,  per  quanto  

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riguarda  l’embrione,  entrano  in  gioco  molti  altri  aspetti  specifici  dell’essere  umano  (accanto  al  fatto  della  “esistenza  naturale”)  che  chiaramente  costituiscono  una  ulteriore  motivazione  contro  il  loro  utilizzo  a  fini  commerciali.  Tuttavia  brevetti  su  alcuni  geni  e  cellule  staminali  sono  già  stati  concessi.  Allo  stesso  tempo,  però,  molti  di  questi  sono  stati  ritirati.  Ma  cosa  succede  quando  si  ha  a  che  fare  con  la  vita  organica  artificialmente  manipolata?  E’  noto  che  sono  stati  approvati  brevetti  per  topi  transgenici  portatori  di  geni  umani.  Per  giustificare  la  richiesta  di  questi  brevetti,  è  stato  argomentato  che  questi  animali  non  esistono  in  natura,  ma  rappresentano  un  “prodotto  artificiale”.  D’altra  parte  l’approccio  di  considerare  gli  organismi  viventi  manipolati  geneticamente  semplicemente  come  una  ulteriore  classe  di  invenzioni  umane  brevettabili  con  le  stesse  regole  e  criteri  di  qualsiasi  altra  invenzione,  è  naturalmente  discutibile,  in  particolar  modo  se  si  considerano  i  possibili  sviluppi  futuri  della  terapia  genica  (Knoppers,  2001;  Rohnke,  2002;  Schneider,  2002;  Mieth,  2002;  Capurro,  2002).      Cosa  è  brevettabile?  NO:  oggetti  scoperti  in  natura  SI:  procedimenti  per  ricavare  o  analizzare  oggetti  naturali      Come  già  accennato,  tra  i  criteri  stabiliti  dall’Organizzazione  Mondiale  della  Sanità  per  la  definizione  dei  farmaci  essenziali  vi  è  la  disponibilità  del  farmaco  ad  un  prezzo  sostenibile  per  il  singolo  cittadino  e  la  comunità.  Da  un  punto  di  vista  commerciale  lo  sviluppo  di  farmaci  da  cui  possono  trarre  beneficio  solo  pochi  pazienti  attira  scarso  interesse.  Lo  stesso  vale  per  lo  sviluppo  di  farmaci  da  cui  possono  trarre  beneficio  milioni  di  persone  nei  paesi  in  via  di  sviluppo,  troppo  poveri  per  pagare  il  nuovo  farmaco.  Ad  esempio,  mentre  l’AIDS,  la  malaria  e  la  tubercolosi  colpiscono  paesi  che  insieme  costituiscono  il  90%  della  popolazione  mondiale,  solo  circa  il  10%  dei  finanziamenti  per  la  ricerca  medica  ha  come  obbiettivo  queste  patologie.  Ciò  ha  aperto  una  discussione  su  un  accordo  che  potrebbe  permettere  ai  paesi  poveri,  che  si  trovino  a  fronteggiare  a  crisi  umanitarie  causate  da  malattie  come  l’AIDS  e  la  malaria,  di  importare  controverse  versioni  generiche  di  farmaci  sotto  brevetto.  Un  farmaco  generico  è  sicuro,  efficace  ed  equivalente  a  un  farmaco  di  marca.  Normalmente  costa  notevolmente  meno  di  quest’ultimo.  I  farmaci  generici  devono  rispondere  agli  stessi  standard  di  qualità  dei  farmaci  di  marca  e  alla  stessa  stregua  di  questi  sono  prodotti  per  avere  lo  stesso  effetto  sulla  salute.  Spesso  i  farmaci  generici  diventano  disponibili  quando  scade  il  brevetto  del  farmaco  di  marca.  Secondo  il  Congressional  Budget  Office  statunitense  i  farmaci  generici  permettono  di  risparmiare  al  dettaglio  dagli  8  ai  10  miliardi  di  dollari  all’anno.  Miliardi  di  dollari  si  risparmiano  comunque  anche  se  i  generici  sono  usati  da  strutture  ospedaliere.  I  marchi  farmaceutici  che  possiedono  i  brevetti  si  sono  per  lungo  tempo  schierati  contro  l’importazione  dei  fermaci  generici,  argomentando  che  gli  ampi  margini  di  profitto  sono  indispensabili  per  finanziare  il  processo  di  scoperta  e  sviluppo  di  nuovi  prodotti  farmacologici.  Inoltre  l’industria  farmaceutica  teme  che  tali  farmaci  possano  essere  inferiori  a  quelli  di  marca  e  invadere  il  mercato  statunitense  e  quello  europeo  a  prezzi  bassi.  Un  esempio  calzante  a  questo  proposito  è  il  dibattito  sui  farmaci  contro  l’AIDS.  Il  Brasile  ha  registrato  versioni  generiche  di  diversi  farmaci  anti  AIDS  e  li  produce  per  il  fabbisogno  interno  e  per  altri  paesi  in  via  di  sviluppo.  Per  rispondere  alle  pressioni  provenienti  da  tutte  le  parti  del  mondo,  le  industrie  farmaceutiche  hanno  acconsentito  a  vendere  alcuni  farmaci  contro  l’AIDS  a  prezzi  estremamente  ridotti  per  i  paesi  in  via  di  sviluppo.  Tuttavia,  anche  con  tali  sconti,  il  prezzo  rimane  molto  più  alto  rispetto  a  quello  delle  versioni  generiche  limitando  il  numero  dei  malati  di  AIDS  che  potrebbe  essere  curato  nei  paesi  poveri.  Si  possono  ipotizzare,  come  soluzione  a  tale  problema,  due  prezzi  differenti  per  lo  stesso  prodotto  farmaceutico,  il  più  alto  per  i  mercati  degli  Stati  Uniti  e  dell’Europa  per  

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mantenere  gli  incentivi  appropriati  per  l’industria  farmaceutica,  il  più  basso  per  il  paesi  in  via  di  sviluppo?  Questa  possibilità  dovrebbe  essere  accompagnata  dalla  proibizione,  attraverso  rigorose  leggi  internazionali,  di  ri-­‐esportare  di  farmaci  a  basso  costo  dai  paesi  in  via  di  sviluppo  ai  mercati  occidentali  (US  Food  and  Drug  Administration,  2004).        QUAL  E’  LO  SCOPO  DI  UN  PRODOTTO  FARMACEUTICO?      La  scoperta  e  lo  sviluppo  di  nuovi  farmaci,  insieme  alla  ricerca  sui  meccanismi  molecolari  delle  malattie,  offre  nuove  possibilità  per  la  prevenzione  e  la  terapia.  Tuttavia  molti  farmaci  sono  potenzialmente  soggetti  ad  abuso.  Ne  possono  abusare  persone  per  le  quali  questi  stessi  farmaci  non  rappresentano  una  terapia.  Per  esempio,  Ritalin  (metilfenidato)  è  un  trattamento  per  soggetti  (spesso  bambini)  affetti  da  iperattività  o  deficit  di  attenzione  caratterizzati  da  comportamento  agitato  e  incapacità  di  focalizzarsi  su  obbiettivi.  Ritalin  è  anche  occasionalmente  prescritto  per  il  trattamento  della  narcolessia.  Ritalin  è  uno  stimolante  del  sistema  nervoso  centrale  con  notevoli  effetti  calmanti  su  bambini  iperattivi  e  con  effetti  che  favoriscono  la  concentrazione  in  bambini  con  deficit  di  attenzione.  Quando  è  assunto  secondo  la  prescrizione,  Ritalin  risulta  essere  un  farmaco  valido  e  non  produce  dipendenza.  A  causa  delle  sue  proprietà  stimolanti  è  altresì  ab-­‐usato  da  soggetti  che  ne  ricercano  gli  effetti  collaterali:  soppressione  dell’appetito,  insonnia,  aumento  della  concentrazione  ed  euforia  (National  Institute  on  Drug  Abuse,  2000;  Hengstschläger,  2003;Spencer  et  al.,  2004).  Studi  recenti  hanno  evidenziato  il  numero  crescente  di  adolescenti  e  adulti  che  fanno  uso  di  antidolorifici,  come  ad  esempio  i  farmaci  da  prescrizione  Vicodin  e  OxyContin.  Entrambi  sono  oppiacei  molto  potenti  contro  il  dolore,  ma  devono  essere  assunti  sotto  stretto  controllo  medico.  Questi  stessi  farmaci,  se  assunti  in  maniera  non  appropriata  possono  portare  a  dipendenza  in  quanto  agiscono  negli  stessi  luoghi  cerebrali  dell’eroina.  Il  National  Institute  on  Drug  Abuse  ha  registrato  un  incremento  nell’abuso  di  questi  antidolorifici  per  ragioni  non  mediche  (Volkow,  2004).  Un’altra  forma  di  abuso  di  prodotti  farmaceutici  molto  nota  è  il  doping  sportivo.  L’agenzia  mondiale  antidoping  è  una  forma  di  collaborazione  internazionale  di  organizzazioni  e  governi  uniti  nello  sforzo  di  arrivare  ad  uno  sport  completamente  libero  dai  farmaci.  Il  Codice  Mondiale  Antidoping  del  2004  è  stato  elaborato  da  organizzazioni  sportive  prima  dei  Giochi  Olimpici  di  Atene.  Questo  Codice  dovrebbe  garantire,  per  la  prima  volta,  che  i  regolamenti  antidoping  siano  gli  stessi  in  tutti  gli  sport  e  in  tutti  i  paesi  (World  Anti-­‐Doping  Agency,  2004).  L’abuso  di  farmaci  da  prescrizione  può  causare  seri  danni  tra  cui  anche  la  morte  o  l’overdose.        LE  NON-­‐MALATTIE      Molti  vantaggi  economici  possono  derivare  da  persone  sane  che  credono  di  essere  malate.  Le  industrie  farmaceutiche  sponsorizzano  malattie  e  le  promuovono  presso  chi  prescrive  i  farmaci  e  presso  i  consumatori  (Moynihan  et  al.,  2002).  Per  espandere  i  mercati  di  nuovi  prodotti  farmaceutici  sono  emerse  alleanze  informali  che  hanno  ampliato  i  confini  delle  malattie  trattabili.  La  strategia  di  punta  ha  come  obbiettivo  le  notizie  veicolate  dai  media.  Queste  vengono  alimentate  con  storie  create  ad  hoc  per  generare  paura  su  una  condizione  o  una  malattia  e  per  attrarre  l’attenzione  sull’ultimo  farmaco  o  ritrovato.  La  medicalizzazione  della  calvizie  è  un  buon  esempio  di  quanto  appena  detto.  Ogni  qual  volta  nuovi  farmaci  per  la  crescita  dei  capelli  vengono  approvati,  sembra  che  questo  processo  naturale  si  trasformi  in  fenomeno  medico.  I  risultati  di  un  nuovo  progetto  di  ricerca  sono  riportati  asserendo  che  la  perdita  di  capelli  può  portare  a  panico  e  ad  altri  problemi  emotivi  e  può  avere  ricadute  sulle  prospettive  lavorative  e  sul  benessere  

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mentale.  Molto  spesso,  però,  i  mass  media  non  dichiarano  che  tale  ricerca  è  stata  finanziata  dall’industria  farmaceutiche  che  vende  un  nuovo  farmaco  per  la  crescita  dei  capelli.  Il  “commercio  di  malattie”,  una  forma  di  medicalizzazione,  può  comprendere  la  trasformazione  di  disturbi  ordinari  in  problemi  medici,  l’interpretazione  di  sintomi  lievi  come  seri,  trattare  problemi  personali  come  se  fossero  problemi  medici,  considerare  semplici  rischi  come  malattie  e  formulare  stime  di  prevalenza  per  massimizzare  il  potenziale  commerciale  di  un  prodotto  farmaceutico.  Per  fermare  questo  mercato  di  malattie  è  necessario  definire  ciò  che  non  è  una  malattia,  ma  che  potrebbe  essere  considerato  tale  a  seconda  di  obbiettivi  specifici.  Per  sottolineare  questo  aspetto  è  stato  creato  il  termine  “non-­‐malattia”.  Il  British  Medical  Journal  ha  indetto  una  votazione  per  identificare  le  maggiori  non-­‐malattie  con  lo  scopo  di  aprire  un  dibattito  su  cosa  sia  e  cosa  non  sia  una  malattia  e  di  attirare  l’attenzione  sulla  crescente  tendenza  di  classificare  i  problemi  delle  persone  come  malattie.  Una  “non-­‐malattia”  è  stata  definita  come  “un  processo  o  problema  umano  che  alcuni  definiscono  come  condizione  medica,  ma  la  cui  soluzione  potrebbe  essere  più  facilmente  raggiunta  se  tale  problema  o  processo  non  fosse  definito  in  questo  modo”  (Smith,  2002).      Le  prime  20  non-­‐malattie  (Smith,  2002)  1  Invecchiamento   11  Parto  2  Lavoro   12  Allergia  al  21o  secolo  3  Noia   13  Jet  lag  4  Borse  sotto  gli  occhi   14  Infelicità  

5  Ignoranza   15  Cellulite  

6  Calvizie   16  Stato  di  confusione  da  abuso  di  alcohol  

7  Lentiggini   17  Ansietà  da  dimensione/invidia  del  pene  

8  Orecchie  grandi   18  Gravidanza  9  Capelli  grigi   19  “Furia  da  strada”  10  Bruttezza   20  Solitudine      Tale  immotivata  medicalizzazione  può  indurre  paure  ingiustificate,  può  provocare  sprechi  economici  e  probabilmente  distrae  risorse  economiche  dal  trattamento  e  prevenzione  di  patologie  più  serie.  Nell’opinione  di  chi  scrive,  Moynihan  e  collaboratori  (Moynihan  et  al.,  2002)  hanno  riassunto  un  maniera  ottimale  ciò  di  cui  si  ha  bisogno:  Il  pubblico  ha  diritto  di  conoscere  il  dibattito  intorno  alla  definizione  di  malattia,  l’auto-­‐limitazione  e  il  corso  naturale  relativamente  benigno  di  molte  condizioni.  C’è  urgente  bisogno  di  un  programma  di  “de-­‐medicalizzazione”  indipendente  e  finanziato  con  fondi  pubblici,  basato  sul  rispetto  della  dignità  umana,  piuttosto  che  sul  valore  delle  quote  di  mercato  o  sull’arroganza  professionale.  

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WALTER. RICCIARDI LE POLITICHE SANITARIE E LA QUALITÀ DELLA VITA NELLE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI Tutti noi siamo perfettamente edotti sulla definizione di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dagli anni ’50 guida le politiche sanitarie di tutti i Paesi del mondo. Forse meno universalmente conosciuta è quella più recente di “buona salute” e cioè “lo stato di benessere fisico e mentale necessario per vivere una vita piacevole, produttiva e densa di significato” che è ormai parte integrante del funzionamento delle moderne società occidentali, una pietra miliare nelle economie di successo ed un principio assolutamente condiviso in tutte le democrazie del pianeta. Le popolazioni delle democrazie occidentali vivono oggi nelle migliori condizioni di salute a memoria d’uomo, ciò non significa che questa situazione sia equamente distribuita, ma uno stato di buona salute per tutti è un obiettivo ancora lontano dalla realtà. Non solo, il differenziale tra coloro che sono in buona salute e quelli che invece hanno condizioni di salute scadenti sta continuamente aumentando. Godere di buona salute dipende oggi essenzialmente da dove si vive, da come ci si comporta, da quanto si guadagna. I poveri, gli esclusi e le minoranze sono gruppi particolarmente interessati da cattive condizioni di salute. Se guardiamo all’Unione Europea allargata a 25 paesi, le differenze sono rilevanti. L’aspettativa di vita per gli uomini varia dai 64 anni della Lettonia ai 78 della Svezia, l’incidenza del cancro del polmone varia del 500%, dai 21 casi per 100.000 della Svezia ai 102 per 100.000 dell’Ungheria, quello della tubercolosi del 1300 % dai 6.4 casi per 100.000 dell’Italia agli 86 per 100.000 della Lituania. I tassi di mortalità per cardiopatia ischemicanelle femmine variano da 29 casi per 100.000 in Francia ai 226 della Slovacchia, quelli per suicidio nei maschi da 4.9 casi per 100.000 in Grecia ai 44 dell’Ungheria. Per quanto riguarda più specificamente il nostro Paese, nel corso degli ultimi 40 anni l’Italia ha fatto segnare progressi importanti e, per molti versi positivamente sorprendenti: ad esempio, i guadagni di durata della vita tra il 1960 ed il 1998, pari all’11,5% per gli uomini e al 12,4% nelle donne, sono risultati superiori ai corrispondenti incrementi (10,7% e 11%) realizzati nel complesso dei 15 Paesi dell’Unione Europea. Gli uomini e le donne italiani sono oggi entrambi al quarto posto in Europa nella graduatoria per l’aspettativa di vitaalla nascita con quasi 82 anni per le donne e 75 per i maschi. L’Italia si trova in una posizione favorevole anche relativamente alla popolazione anziana, con una speranza di vita a 65 anni superiore alla media europea sia per gli uomini che per le donne. Gli indicatori tradizionali delineano dunque un quadro comparativo positivo per il nostro paese. Ma quanto di questi risultati è attribuibile alle performance del nostro Servizio Sanitario? E perché questi indicatori risultano così positivianche in confronto a Paesi i cui sistemi sanitari sono tradizionalmente riconosciuti come maggiormente efficaci ed efficienti, ad esempio quelli dei Paesi scandinavi o, più in generale, dei paesi anglo-sassoni? Come è noto, l’OMS nel Report sulla Salute del Mondo nell’anno 2000 ha pubblicato una classifica dei sistemi sanitari mondiali. In sintesi, la performance complessiva dei sistemi è stata valutata secondo un indicatore composito inclusivo della valutazione dei livelli e della distribuzione dei risultati sanitari, della capacità di risposta del sistema sanitario e del livello di equità del finanziamento. La performance aggregata è stata poi

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ponderata per i risultati che si sarebbero attesi in funzione del livello economico e dello sviluppo sociale del Paese. I risultati hanno deliziato alcuni paesi come la Francia, arrivata prima, e l’Italia seconda e fatto infuriare altri come il Brasile giunto 125°ed hanno scatenato un’animata discussione sui principi e sui metodi di questo tipo di valutazione. Nel 2001 il British Medical Journal ha addirittura dedicato un intero numero a questo dibattito da cui sono scaturite alcune interessanti considerazioni:

• la prima riguarda la definizione di sistema sanitario, nel World Health Report l’OMS considera vengano in essa incluse “tutte le attività il cui obiettivo primario sia quello di promuovere, recuperare e mantenere la salute”. Se questo approccio è sicuramente positivo, giacchè enfatizza l’importanza di un’azione intersettoriale nella promozione della salute, sfortunatamente rappresenta un notevole problema pratico poiché non è evidentemente possibile ritrovare la definizione “tutte le attività” in alcuno specifico capitolo di spesa dei bilanci pubblici di nessun paese al mondo. Conseguentemente quelli che vengono comparati sono inputs (cioè risorse umane, finanziarie, logistiche e tecnologiche) dei servizi sanitari nazionali, con risultati che provengono da attività ed interazioni dell’intero sistema produttivo e sociale;

• il secondo problema riguarda la ponderazione dei risultati di salute in funzione dei diversi tipi di attività svolti non solo nell’ambito dei servizi sanitari nazionali, ma nel più ampio contesto nazionale. Vi è ormai una crescente evidenza che guadagni di salute possano derivare oltre che da interventi sanitari, anche da politiche svolte in altri settori, ad esempio la sicurezza stradale o l’educazione scolastica. Ma vi sono ancora innumerevoli determinanti di salute. Ad esempio, nei paesi industrializzati la salute delle popolazioni riflette abitudini alimentari a volte secolari, instauratesi in funzione del clima e della tipologia di produzione agricola, così non è sorprendente che molti dei paesi “più sani” siano caratterizzati da una dieta mediterranea;

• un terzo problema è la disponibilità di dati: molti governi hanno soltanto una vaga idea di quanta gente viva nei propri territori, poiché i censimenti vengono svolti irregolarmente o non svolti affatto. Essenzialmente, non ci si possono inventare i dati dove questi non esistono e quindi ogni passo richiede spesso un elaborato set di stime ed estrapolazioni spesso eroiche, per non dire azzardate, cosa che è stata spesso necessaria nel World Health Report. Egualmente, vi sono problemi sostanziali sulla comparabilità dei dati anche quando questi esistano e sulla correlazione con altre misure, ad esempio quelle relative alla spesa sanitaria ed al livello economico-sociale delle popolazioni. Gli Autori del Report hanno riconosciuto questo problema e sono ricorsi ad un articolato set di procedure per affrontarlo, generando indicatori in funzione dell’aspettativa di vita corretta in funzione della disabilità, essa stessa una misura estremamente controversa, come hanno evidenziato Ellen Nolte e Martin McKee in un loro splendido lavoro su 19 dei circa 200 paesi presenti nella graduatoria dell’OMS.

E’ possibile così rilevare che se viene utilizzato un altro indicatore quale la mortalità evitabile, basato sul concetto che le morti da alcune cause non dovrebbero verificarsi in funzione di un’assistenza sanitaria tempestiva ed efficace indicativa di un sistema sanitario ben funzionante, le cose cambiano. Nessun paese mantiene infatti la stessa posizione in entrambe le graduatorie, e non è probabilmente un caso se le maggiori perdite si verificano in Paesi che attraversano grosse crisi di funzionamento dei propri sistemi sanitari come il Giappone (dal 1° al 13° posto), la Grecia (dal 7° al 12°), la Gran Bretagna (dal 10° al 18°), mentre i maggiori guadagni si hanno in Paesi rinomati per l’ottimo funzionamento dei propri sistemi: Norvegia (dall’11° al 2°), Canada (dal 9° al 4°), Finlandia dal 13° all’8°), Germania (dal 14° al 6°), Danimarca (dal 17° al 10°). In genere, per quanto concerne l’Europa, tutti i paesi nordici aumentano le proprie posizioni, mentre tutti quelli meridionali scendono in graduatoria (la Francia dal 3° al 5°, l’Italia dal 6° al 9°, la Spagna dal 5° al 7°).

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Tutto ciò ad ulteriore conferma che quando si prendano in considerazione indicatori più congruenti con le performance dei sistemi sanitari le graduatorie si modificano e che, se è vero che i progressi nell’assistenza sanitaria hanno contribuito alla diminuzione della mortalità, ad esempioper malattie cardio-vascolari, è egualmente chiaro che importanti differenze di mortalità sono determinati da fattori, quali quelli dietetici, comportamentali ed ambientali, largamente al di fuori dei servizi sanitari. La politica sanitaria era una volta articolata esclusivamente sul finanziamento e sull’erogazione di assistenza medica, ma se l’accesso universale ai servizi sanitari è chiaramente essenziale per prolungare la sopravvivenza e migliorare la prognosi di importanti malattie, molto più importante per la salute delle popolazioni sono le condizioni economiche e sociali che fanno ammalare le persone e le rendono bisognose di assistenza medica. Uno dei palcoscenici su cui negli ultimi 10 anni è stato possibile confermare questa ipotesi è stata l’Europa dell’Est ed in particolare la Germania prima e dopo l’unificazione. 15 anni fa, poco meno di un anno dopo la caduta del muro di Berlino, le due Germanie si sono riunite in un singolo Stato. In un decennio durante il quale l’Europa è stata caratterizzata da un’immensa transizione sociale e politica, l’esperienza della popolazione dell’ex Repubblica Democratica Tedesca è stata unica: le istituzioni e le politiche sviluppate in oltre 45 anni di governo comunista vennero infatti spazzate via quasi istantaneamente. Per quanto concerne la sanità, il trasferimento del modello assicurativo sociale della Germania Federale fu immediatamente esteso all’Est. Dal punto di vista degli indicatori, il periodo immediatamente successivo alla riunificazione fu caratterizzato da un aumento della mortalità all’Est, con un’aspettativa di vita che scese quasi di un anno per gli uomini e ciò essenzialmente a causa dell’aumento delle morti violente da omicidio e da traffico veicolare, conseguenti all’improvvisa disponibilità di veloci vetture occidentali, ma dal 1991 in poi l’aspettativa di vita alla nascita è cresciuta nell’ex Germania orientale più di ogni altro Paese europeo arrivando nel 1997 ad annullare ogni differenza tra le due Germanie. Quali sono i fattori che hanno determinato questo incredibile successo? Gli studi svolti indicano nella rapidissima modifica della dieta uno dei primissimi fattori, con l’improvvisa disponibilità sul mercato orientale di frutta, verdura ed oli vegetali prima impossibili da trovare. Un secondo determinante è il miglioramento nelle condizioni di vita, con standard abitativi, in particolare per gli anziani, assolutamente sconosciuti precedentemente. Un terzo è il sostanziale miglioramento della qualità dei servizi sanitari. Per esempio, il drammatico declino nella mortalità da tumori testicolari è stata attribuita ad un più ampio accesso ai farmaci più moderni e la sostanziale caduta della mortalità neonatale al miglioramento del trattamento per i neonati a basso peso. Ma un'altra costellazione di Paesi in cui è stato possibile confermare la correlazione intersettoriale con le condizioni di salute e la preponderanza di fattori esterni ai servizi sanitari neldeterminismo nella salute delle popolazioni è stata l’ex Unione Sovietica. Mentre infatti nell’ultimo ventennio del secolo scorso l’aspettativa di vita aumentava stabilmente in tutti i paesi ex-comunisti, quella delle Repubbliche sovietiche diminuiva sensibilmente. Nel 1990 la probabilità di morire prima dei 65 anni in Unione Sovietica era il doppio dell’Europa occidentale, l’aspettativa di vita degli uomini era di 64 anni – 9 anni in meno degli europei occidentali - e, benché in tutti i paesi industrializzati gli uomini vivano meno delle donne, questo gap in Russia era considerevolmente più ampio: 10 anni in meno. Molti fattori contribuiscono a questo differenziale, ma il più importante è sicuramente l’eccesso di mortalità nella fascia 35-44 anni a causa di infortuni, violenze e malattie cardio-vascolari. Nel 1997 la mortalità per tutte le cause esterneprima dei 65 anni era nelle ex-Repubbliche Sovietiche più alta del 500%. Per quanto concerne gli infortuni e le violenze, tutti i determinanti di mortalità sono spaventosamente più elevati che in occidente, con un differenziale relativamente basso per gli incidenti stradali (50% in

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più nei confronti dell’Europa dell’Ovest), rispetto al 350% in più dei suicidi ed al 1900% in più degli omicidi. Altre cause comuni di morte sono poi l’annegamento e le ustioni. Purtroppo, gli infortuni e le violenze hanno ricevuto relativamente scarsa attenzione dai policy-makersed in questi paesi mancano ancora molte delle normative alla base della sicurezza e della prevenzione nei luoghi di vita e di lavoro, già da tempo operative nei paesi occidentali, che si affiancano alla scarsa tempestività e qualità dei servizi sanitari che viceversa mostrano indicatori di struttura e di funzionamento assolutamente comparabili a quelli occidentali. Un contributo cruciale all’elevato livello di infortuni e di omicidi nell’ex-Unione Sovietica è l’enorme consumo di alcool. In Russia, il numero di morti per cause esterne riflette il numero di morti per intossicazione alcolica, sia geograficamente che cronologicamente. Molti uomini suicidi mostrano segni di intossicazione e la responsabilità dell’alcolismo in almeno una delle parti coinvolte in un omicidio è una costante quasi assoluta. Per quanto concerne la mortalità per malattie cardio-vascolari i patterns epidemiologici sono, in ex-Unione Sovietica, profondamente diversi rispetto a quelli dell’Europa Occidentale e degli altri Paesi ex-comunisti. La mortalità per questo tipo di patologie è particolarmente alta in giovane età, le morti sono più frequentemente improvvise e molti soggetti mostrano scarsa evidenza di lesioni coronariche. I tradizionali fattori di rischio così importanti in Occidente come il fumo, i livelli lipidici e l’attività fisica hanno in Russia scarso valore predittivo. E’ stato dimostrato che il metabolismo lipidico russo differisce molto profondamente da quello occidentale. Vi è invece una crescente evidenza sul coinvolgimento di altri fattori quali l’alimentazione, caratterizzata non solo da un elevato apporto di grassi animali e, contemporaneamente, da un minimo introito di frutta e vegetali con un conseguente bassissimo livello ematico di antiossidanti, ancora con l’alcool che viene consumato in modo peculiare, ovvero con superalcolici, soprattutto vodka, ed in incontri conviviali fnalizzati ad ubriacarsi, in contrasto con il consumo misto più costante e stabile dei paesi occidentali, ed infine, ma questo è meno comprovato scientificamente, con l’elevato livello di stress psico-sociale. Un ulteriore conferma di questo effetto dirompente è dato dal confronto con Paesi analoghi dal punto di vista della transizione politico-economica, ma diversi nelle abitudini voluttuarie. Anche negli studi condotti in altri Paesi dell’ex-blocco comunista, le condizioni di salute appaiono più profondamente influenzate da fattori socio-economici che strettamente legati si servizi sanitari di quei paesi. E’ evidente, ad esempio, che non tutti i cittadini sono stati egualmente condizionati dal sistema comunista e dalla successiva transizione democratica. Le conseguenze peggiori si sono verificate in quei paesi in cui la transizione economica è stata più brutale, spesso misurata in termini di perdita del posto di lavoro e dei meccanismi di protezione sociale. Gli uomini con basso livello scolastico sono stati quelli più vulnerabili, in particolare se celibi e privi di supporto familiare, non in grado di reagire a cambiamenti così rapidi e di così larga scala. La scadente alimentazione, gli elevati tassi di tabagismo, la facile disponibilità di alcool scadente forniscono ampi sentieri alla morte prematura, soprattutto in società prive di meccanismi protettivi sui luoghi di vita e di lavoro. Ci troviamo così oggi, nei paesi occidentali in una singolare situazione di convivenza di due o più contesti economico-sociali e quindi epidemiologici. Le modifiche che le nostre società stanno oggi affrontando sono analoghe per dimensione a quelle affrontate 150 anni fa nell’epoca d’oro dell’Igiene, di conseguenza abbiamo bisogno di una nuova mappa concettuale per l’azione in Sanità Pubblica che incorpori gli sviluppi scientifici e tecnologici ed un’azione economica, sociale e politica sia a livello nazionale che internazionale e, direi globale.

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Si tratta di riprendere l’insegnamento del Professor Geoffrey Rose, della London School of Hygiene and Tropical Medicine, quando diceva: “i determinanti primari di malattia sono essenzialmente economici e sociali: quindi le soluzioni devono essere economiche e sociali”. Nelle democrazie occidentali ci troviamo ad avere contemporaneamente paesicaratterizzati da:

• un’elevata aspettativa di vita ed un forte invecchiamento della popolazione • un sistema sanitario ampio e costoso • la salute come tema dominante nella discussione sociale e politica • la buona salute come un principale obiettivo personale di vita

e paesi caratterizzati da: - una stabilità o, addirittura, una diminuzione nell’aspettativa di vita - la difficoltà o, addirittura, la mancanza di accesso a servizi sanitari spesso essenziali - la salute come un tema secondario rispetto, ad esempio, allo sviluppo economico - la salute personale come obiettivo, spesso, di mera sopravvivenza. I miti di Igea e di Asclepio simbolizzano la infinita oscillazione tra due differenti punti di vista sulla medicina e, quindi, delle politiche sanitarie. Per i sostenitori, come noi, di Igea, la salute è il naturale ordine delle cose, un attributo positivo a cui gli uomini hanno diritto se essi governano saggiamente le proprie vite. Secondo costoro, la più importante funzione della medicina è scoprire ed insegnare le leggi naturali che consentono ad una persona di avere una mente sana in un corpo sano. Più scettici, o forse più saggi alla luce delle cose umane, i seguaci di Asclepio credono che il compito della medicina sia di trattare le malattie, di restituire la salute correggendo le imperfezioni causate dagli accidenti della nascita o della vita. E’ nel sanare questa contrapposizione, la chiave per la prossima rivoluzione nelle politiche sanitarie delle democrazie occidentali in Sanità Pubblica: affrontare contemporaneamente i problemi legati al miglioramento continuo della comprensione della struttura e del funzionamento del corpo umano e nell’allestire servizi sanitari in grado di intervenire tempestivamente ed appropriatamente quando questo abbia problemi, ma anche essere pienamente consapevoli che la salute non è soltanto garantita da interventi sul funzionamento della macchina stessa, ma anche al miglioramento dell’ambiente e delle condizioni in cui essa opera. Ed allora, quali potrebbero essere i punti per migliorare la salute delle nostre popolazioni sulla base della migliore evidenza scientifica:

• favorire una buona partenza per tutti:perché nascere in buona salute diminuisce il rischio di ammalarsi in età adulta, qui ad esempio è rappresentato il rischio di diabete in funzione del peso alla nascita

• favorire una buona alimentazione: perché mangiare in modo più sano significa vivere di più e meglio

• favorire mezzi di trasporto sani e sicuri: riprendendo modalità più sicure e salutari ormai quasi completamenteabbandonate

• diminuire costantemente il gradiente sociale tra i differenti strati di popolazione: perché sia per gli uomini che per le donne questo significa una maggiore aspettativa di vita

• diminuire l’esclusione sociale: che invece nel nostro paese sta progressivamente e tragicamente aumentando

• migliorare i livelli occupazionali: perché essere disoccupati, ma anche male occupati, incide profondamente sulla salute delle persone

• migliorare le condizioni lavorative: perché anche questo ha un impatto quali-quantitativo rilevante sulla salute

• aumentare le reti di supporto sociale: perché dove non vi è integrazione sociale si muore di più

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• garantire servizi sanitari sempre più efficaci, efficienti, appropriati ed equi: sviluppando una nuova partnership tra operatori e cittadini.

In conclusione di questa carrellata sulle condizioni di salute e la qualità della vita nelle democrazie occidentali mi rendo conto di aver forse generato più interrogativi che fornito risposte, ma la nostra attività di operatori di Sanità Pubblica raramente opera attraverso soluzioni magiche, rapide ed eclatanti, e, contrariamente a molti colleghi clinici, noi abbiamo bisogno di quella che la poetessa Adrienne Rich ha chiamato “pazienza selvaggia”, un insieme di ingenuità, evidenza scientifica, buon senso, passione, il senso dell’urgenza e soprattutto quello della giustizia. L’Organizzazione Mondiale della Sanità auspica che dopo anni dominati dall’imperativo economico, le riforme dei sistemi sanitari possano ispirarsi all’imperativo etico. La tenuta di un sistema sanitario dipende infatti dalla capacità dei decisori di rendere coerenti la struttura delle istituzioni sanitarie con il sistema di valori diffuso nella popolazione, ma se, nonostante questi suggerimenti, come sembra, le future politiche sanitarie continueranno ad ignorare queste azioni, non solo ignoreranno i più potenti determinanti di salute, non solo non faranno il bene delle proprie popolazioni, ma perderanno anche alcune tra le più importanti istanze di efficienza economica e di giustizia sociale che le società contemporanee si troveranno sempre più pesantemente, drammaticamente ed urgentemente ad affrontare.

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MANFRED LÜTZ LA “RELIGIONE DELLA SALUTE” E LA NUOVA VISIONE DELL’ESSERE UMANO Chiunque pensava che, in seguito alla cosiddetta svolta del 1989, dopo l’effettiva fine del “socialismo reale” globale, la cristianità, provata dalle lotte di sterminio del XX sec., avrebbe avuto una chance unica per diffondere tra la gente, senza particolari resistenze, il vangelo della redenzione universale, è rimasto deluso. Certo le visioni del mondo desumibili da testi, strutture e persone si sono volatilizzati come i brutti sogni, ma hanno lasciato dietro di sé una pericolosa palude fatta di intrecci poco chiari di rassegnazione, scetticismo, nichilismo, ateismo e agnosticismo, più difficili da contrastare proprio perché poco definibili. Non si tratta di una o più visioni del mondo (Weltanschaungen) contestabili con argomenti, fede e pianificazione, ma piuttosto di un’atmosfera che guadagna terreno fin dentro la Chiesa Cristiana e nel singolo cristiano, e nella quale la fede cristiana viene sempre più recepita come corpo estraneo. Se “Al di là del Bene e del Male” (Nietzsche) il successo economico, nel senso di un calvinismo definitivamente secolarizzato[1], diventa criterio insuperabile di valutazione, allora ogni etica che si fondi sulla possibilità di prendere in considerazione per se stessi degli svantaggi, perde ogni valore. Il successo economico, tuttavia, è in fondo irrazionale. Le notizie di borsa sono meno attendibili delle previsioni del tempo. Qui non regna la logica, ma qualcosa come una psico-logica, e lo strumento della psico-logica, accresciuto a dismisura, sono i potenti media che hanno sviluppato una strana dinamica propria, in cui da un lato creano un’atmosfera e, dall’altro, al tempo stesso, dipendono da questa atmosfera in un modo non spiegabile con la logica. Per i cristiani c’è il pericolo, a causa di questa atmosfera pubblica caotica e poco comprensibile, impregnata di molti elementi irrazionali, di ritirarsi in una altrettanto irrazionale atmosfera di gruppo contrapposta al “mondo di fuori” e orientata più al sentimento che alla ragione. Questa è la via delle sette. Papa Giovanni Paolo II indica un’alternativa cattolica quando, nella sua prima enciclica “Redemptor hominis”, in un periodo che era ancora caratterizzato dai dibattiti sulle visioni del mondo, ci mostra l’uomo come via fondamentale di Dio attraverso la storia e da questa antropologia cristiana trae spunto per il suo annuncio, anticipa di fatto ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti: l’epocadei dibattiti sulle visioni del mondo è finita, ed è iniziata l’epoca dei dibattiti sulle “visioni dell’uomo”. In futuro sarà possibile riconoscere i cristiani in base alla loro visione dell’uomo. Secondo Peter Singer[2], e con lui molti altri, l’uomo è un insieme di capacità, la cui dignità dipende dalla presenza attuale di queste capacità; invece, secondo l’intera tradizione cristiana, l’uomo ha la sua completa dignità anche e proprio in situazioni di estremo bisogno. In effetti difficilmente si potrà trovare una differenza più grande di quella che vede contrapposte da una parte l’atmosfera dominante, che tende a negare dignità proprio ai più deboli e bisognosi d’aiuto - gli embrioni, nella fase iniziale della vita, e coloro che hanno gravi danni cerebrali, nella fase finale dell’esistenza – e, dall’altra, la concezione cristiana che, proprio nei più deboli e bisognosi d’aiuto, vede la presenza di Cristo stesso. Dunque nel promuovere oggi il messaggio evangelico, la “lieta novella” della salvezza dell’uomo deve essere portata in primo piano nella discussione. E non si tratta di una salvezza astratta: è, molto concretamente, la liberazione da visioni dell’uomo che sono umanamente indegne e che portano al disprezzo per l’uomo stesso, poiché un progresso che seppellisse l’uomo e la sua dignità sotto i propri passi, costituirebbe forse la prosecuzione dell’evoluzione, ma non più, certamente, un progresso umano. Per questo l’enciclica“Evangelium vitae” è al centro dell’annuncio di Papa Giovanni Paolo II. Alla nostra Accademia viene affidato così un compito centrale nell’evangelizzazione e rievangelizzazione del mondo. Noi siamo obbligati con la luce della ragione che Dio ha dato agli uomini, “a rendere conto della speranza che vive in noi” (1 Pet 3:15), e questo significa soprattutto intraprendere un discorso

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razionale con un mondo che sembra avere dimenticato che cosa sia l’uomo e su cosa si basi la sua dignità. Noi dobbiamo scoprire con lucidità i cambiamenti nella coscienza dei valori e fare valere le convinzioni cristiane con competenza attraverso concrete questioni di bioetica. Questo accade ormai da anni con una crescente attenzione internazionale. A questo punto, però, si pone la domanda se dietro a queste assurde immagini dell’uomo, che oggi sono tanto apprezzate, non vi sia una tendenza unitaria individuabile in una “visione dell’uomo” accessibile ad un discorso etico razionale. Io credo che esista realmente una tale “visione dell’uomo” che oggi sta progressivamente diventando dominante in tutto il mondo, tale visione si potrebbe chiamare la “religione della salute”[3]. Non Dio, ma la salute, la salute individuale, assurge a indiscusso “bene massimo”. Salvezza e redenzione non sono più attese in un qualche “al di là”, ma qui ed ora. Mentre la forza delle escatologie collettive immanenti, come il marxismo-leninismo, si è definitivamente esaurita, sono ora le escatologie individuali immanenti che si propongono all’umanità e raccolgono un successo incomparabilmente maggiore rispetto alle vecchie visioni del mondo. Si aspetta quantitativamente la vita eterna dalla medicina e qualitativamente l’eterna felicità dalla psicoterapia. Impercettibilmente, ma con grandi conseguenze, tutte le convenzioni religiose sono approdate al sistema sanitario. Non abbiamo più solo medici come semidei, abbiamo luoghi di pellegrinaggio, eresie, movimenti “ascetici” dietisti, riti, campagne missionarie per la salute sovvenzionate dallo stato. In un senso quasi pelagiano, la salute, il bene, come quasi tutto nella nostra società, è visto come un prodotto che può essere fabbricato: bisogna fare qualcosa per la salute, da niente non viene niente, chi muore, muore per colpa sua. Vengono prodotti sensi di colpa senza ritegno e il termine ‘peccato’ non viene più usato nelle chiese, ma solo in relazione ai peccati di gola, ad esempio per il divoratore di una torta di panna. Ma soprattutto, il tabù della blasfemia nelle società occidentali non solo viene imitato, ma anzi trasferito completamente dal cristianesimo alla religione della salute. Il che significa che su Gesù Cristo si può fare ogni sorta di scherzo, sulla salute no. Ma se la salute deve rappresentare il valore massimo, sacro e intoccabile, di tutti gli uomini, allora una politica sanitaria assennata diventa impossibile. La politica è l’arte dello sviare. Il “massimo bene” non può essere sviato: per esso bisogna fare tutto il possibile. E così da anni ormai, nei paesi occidentali, non vi è più una vera e propria politica sanitaria. Si modificano i sistemi, si attribuiscono deficit a diversi gruppi di popolazione e si afferma in maniera politicamente corretta, ma senza senso, che “tutto ciò che è necessario dal punto di vista medico” per ogni cittadino deve essere naturalmente finanziato, che non deve esistere una medicina di due classi, etc. quando, invece, si sa che questo già esiste dappertutto. Da sempre le persone ricche hanno vissuto più a lungo dei poveri e questo - grazie a Dio in forma ridotta - vale ancora oggi e non cambierà molto in futuro. Ciò che si dovrebbe ottenere, dal punto di vista politico, è una ragionevole misura di solidarietà. Questo però sarebbe possibile solo se l’ordinamento statale considerasse la salute un valore importante, ma non il massimo dei valori. Ma qualsiasi politico che chiedesse tagli nell’ambito sanitario correrebbe il rischio di non essere rieletto. Pertanto non esiste in politica un ambito in cui si agisca con meno razionalità e buon senso e con maggior populismo e demagogia senza, tra l’altro, risolvere i problemi, soprattutto quelli finanziari. Allo stesso tempo anche l’egoismo della religione della salute prende piede nella società. Mentre il cristianesimo, l’ebraismo, e l’islam hanno sempre anche un impeto sociale, la religione della salute è totalmente egoista. Il credente, nell’ambito della religione della salute, si interessa solo ai suoi risultati di laboratorio, alla sua pressione sanguigna e alla sua prognosi. La solidarietà, della quale si parla così spesso nei dibattiti di politica sanitaria, deve trarre le sue motivazioni altrove. La religione della salute stessa è completamente disinteressata a ciò che concerne il sociale. Le conseguenze etiche di questo nuovo movimento quasi religioso e sovranazionale sono, però, più gravi. Se la salute rappresenta il valore massimo, allora l’uomo sano è anche il vero uomo. E se qualcuno non è sano, e soprattutto, se non può ritornare sano, allora diventa tacitamente un uomo di seconda o terza classe. Siamo arrivati, così, al nocciolo dei dibattiti bioetici degli ultimi anni. È vero che la dominante religione della salute ha prodotto un’enorme incremento dell’attenzione pubblica sui

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metodi di guarigione, ma il messaggio indiretto di tale avido interesse per la guarigione medica è che l’inguaribile, il malato cronico, il portatore di handicap, vengono spinti nell’ombra, per loro c’è posto solo ai margini della società salutista. Viene detto poco e viene diffusa l’opinione, generalmente in modo molto sottile, che lo stesso individuo “certamente non vuole vivere così” e che pertanto a queste persone si deve riconoscere il “diritto ad una buona morte”, l’eutanasia. All’inizio della vita, invece, non si tratta più di evitare l’handicap, ma di evitare l’handicappato. Così in Germania sono sufficienti malformazioni banali come la schisi labiale,per essere uccisi con un’iniezione di potassio al cuore poco prima della nascita, e addirittura nel canale del parto, nel quadro di una “indicazione medica” ampiamente accettata. Tale omicidio in Germania non è né illegale, né punibile, anzi, regolarmente pagato dalle mutue. Queste mostruosità sono praticabili in una società solo se è stata creata l’atmosfera adatta. Questa atmosfera è determinata dalla religione della salute. Particolarmente chiaro diventa il significato della religione della salute in relazione alla scelta dei valori della società nell’ambito della cosiddetta “Etica del guarire”. In Germania questa espressione fu creata nell’ambito del dibattito sull’uso delle cellule staminali embrionali. Si ammise che l’uccisione degli embrioni fosse problematica, ma ci si assolse da soli attraverso l’uso dell’espressione “etica del guarire”: si uccidono gli embrioni per uno scopo altamente nobile, cioè la guarigione. Certo esistevano dubbi etici sull’uccisione degli embrioni, ma vi era anche un’ “etica del guarire”, che imponeva di aiutare le persone malate e per questo era da giustificare anche il sacrificio degli embrioni. Per la filosofia morale un siffatto uso della parola “etica” doveva apparire già sospetto. Certo esiste davvero anche un’etica del guarire, dato che la guarigione si basa su principi etici, ma ciò che si presentò qui come “etica del guarire” era stato pensato per porre fine in modo estremamente efficace e demagogico al razionale dibattito etico, anzi per non farlo proprio sorgere. All’epoca si affermò che tramite le ricerche sulle cellule staminali embrionali fosse possibile curare il morbo di Parkinson, ma dal punto di vista neurologico ciò è improbabile e le esperienze scientifiche in questo campo non sono propriamente incoraggianti. Tuttavia il dibattito pubblico procede diversamente da quello scientifico, nel primo le argomentazioni semplicistiche hanno molto effetto. “Chi guarisce ha diritto”, questa buona e vecchia massima della medicina diviene in questo modo un abuso etico ed è trasformata dall’“etica del guarire” in una cinica formula per giustificare tutto. L’ “etica del guarire” è il fondamentalismo della religione della salute, essa non è più accessibile ad un ragionamento razionale. Proprio questo è il motivo per cui i documenti ecclesiastici, contenenti argomentazioni convincenti su questioni di bioetica, spesso vengono recepiti così poco. L’argomentazione, nei confronti di un’atmosfera sorda, è pressoché impotente. Pertanto mi sembra necessario che si dia inizio ad un fondamentale dibattito pubblico sul rivoluzionario cambiamento dell’immagine dell’uomo in rapporto all’idolatria della salute, soprattutto nelle società occidentali. E da noi cristiani bisogna pretendere l’aspirazione ad una interpretazione cristiana della salute. Allo stesso tempo deve essere evitato il pericolo di cadere nell’estremo opposto, e cioè in un disprezzo della salute di stampo neoplatonico e basato sul disprezzo del corpo. Il cristianesimo ha creduto fin dal principio, con sconcerto dei filosofi neoplatonici, all’incarnazione di Dio, per questo il corpo, quale “Tempio dello Spirito Santo” (1 Cor 6:19), è degno di una grande importanza. Papa Giovanni Paolo II nella sua “Teologia del Corpo”[4]ha formulato concetti importanti per questo tema e per le sue implicazioni etiche. Pertanto anche la salute del corpo, anche se non è il bene massimo, è comunque indiscutibilmente un valore molto importante. Le guarigioni di Gesù ne sono una dimostrazione. Anche le guarigioni degli discepoli sono un segno della dinamica di redenzione veramente olistica della lieta novella, che comprende anima e corpo. I Padri della Chiesa si riferivano a Cristo come al medico, “uno solo è il medico”[5]afferma S. Ignazio d’Antiochia. Ephraem di Siria scrive “Lodo la celeste misericordia, che scese sugli abitanti della terra, cosicché il mondo malato tramite il medico che apparve su di esso sarà guarito”[6]. La completa guarigione ha sempre mosso la speranza dei cristiani fino ai luoghi di pellegrinaggio, dove gli uomini si attendono la guarigione dell’anima e del corpo, come Lourdes. In effetti, la dottrina della resurrezione

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del corpo rende in definitiva il corpo, e le sue condizioni, una categoria centrale del cristianesimo. Mai però, nell’intera tradizione cristiana, la salute ha rappresentato il massimo il valore. La salute è un grande valore, né più, né meno. Tuttavia esiste sempre il pericolo che la vera dottrina cattolica sia resa in modo poco chiaro nella prassi quotidiana, nella vita del singolo cristiano, nella vita parrocchiale, nelle prediche, nelle commemorazioni, ma anche in certi scritti edificanti. E in effetti sembra che la religione della salute si sia inifiltrata anche nella prassi ecclesiastica. Nelle comunità parrocchiali si fanno digiuni di guarigione durante la quaresima, ma il digiuno per morire il più tardi possibile e più sani possibile è tutt’altra cosa rispetto al digiuno cristiano: “attraverso il digiuno del corpo si vince il peccato e si eleva lo spirito...”[7]. L’imprudente osservazione “l’importante è la salute” è ormai comune anche tra i cristiani, persino nelle congratulazioni per la nascita di un bambino. Enti di cultura ecclesiastici offrono una nutrita scelta di corsi salutistici, in confronto ai quali i seminari di Fede fanno una ben magra figura. Discorsi solenni in ospedali cattolici sono talvolta fiammanti apoteosi di guarigione “olistica”, per la quale devono dovutamente comparire anche diverse citazioni bibliche. Anche alcuni testi ecclesiastici fanno rimpiangere la necessaria pacatezza nei confronti della salute. Tutto ciò non accade intenzionalmente, ma più che altro senza riflettere, nell’ingenuo tentativo “di andare incontro agli uomini di oggi”. Naturalmente le preoccupazioni dei cristiani per la salute non sono assolutamente da biasimare, si tratta piuttosto di mettere in guardia dall’eccesso, anche solo nella formulazione di affermazioni. In modo particolare si è imposta al livello mondiale, anche in ambienti ecclesiastici, la psicologia come attraente disciplina per la guarigione “olistica”. La psicologia è una scienza seria che riguarda gli aspetti misurabili e comprensibili dell’animo umano. Il centro d’interesse della psicologia non è la libertà dell’uomo, ma la prevedibilità, la razionalità e la regolarità del comportamento umano. La psicologia costituisce la base della la psicoterapia, con la quale non si identifica e che riscuote un’altissima stima, in genere, e anche all’interno della Chiesa. La psicoterapia è un atto temporale circoscritto e metodico che ha sempre uno scopo, è quindi una relazione artificiale, pagata con denaro. Essa è caratterizzata da una relazione asimmetrica tra l’uomo sofferente in cerca d’aiuto e la persona esperta che usa il metodo. La psicoterapia, a prescindere dal metodo seguito, è sempre manipolativa - nel senso positivo del termine - , il suo compito è infatti quello di “eliminare” nel minor tempo possibile i sintomi di cui soffre l’uomo. Pertanto non si tratta di un rapporto esistenziale come l’amore o l’apprendimento del senso della vita. L’amore ed il senso della vita non si ottengono per mezzo del denaro. Una buona psicoterapia non è pertanto mai “olistica” nel vero senso della parola, non mostra la via per la salvezza. Olistica, ad esempio, è l’assistenza spirituale, intesa come profondo rapporto spirituale, dialogale (nel senso indicato da Martin Buber[8]) o sacramentale. Un siffatto rapporto non è mai circoscritto, né manipolativo, né asimmetrico. Una commistione tra psicoterapia e assistenza spirituale, come viene spesso propagandata, non è pertanto sostenibile, poiché se il rapporto spirituale diventasse manipolativo, asimmetrico ed insieme illimitato, sorgerebbero costellazioni di guru e relative dipendenze negative. Non più Gesù Cristo ne sarebbe il centro, ma un terapeuta “olistico”. Tali mescolanze rovinano sia la psicoterapia sia l’assistenza spirituale. Certamente alcuni disturbi psichici possono impedire a una persona di avere un rapporto più profondo con Dio, in tal caso è necessario un trattamento. Però la terapia non può costruire il rapporto con Dio, può solo aprire porte bloccate: la direzione che prenderà in seguito il paziente, riguarda unicamente il paziente. Le tecniche sanitarie non devono quindi in nessun caso essere ritenute tecniche di salvezza. La salvezza, secondo la convinzione cristiana, non si trova primariamente nella cosiddetta buona salute, ma piuttosto in situazioni limite dell’umana esistenza, che dalla religione della salute vengono disprezzate in quanto da evitare o come deficit da eliminare. Proprio nell’handicap, nella malattia, nel dolore, nella vecchiaia, nel morire e nella morte si può percepire la verità della vita in modo più chiaro e definito rispetto allo scorrere del tempo senza disturbi importanti. Dato che queste situazioni-limite della vita degli uomini si caratterizzano per il fatto di essere inevitabili, il messaggio cristiano può indicare all’uomo di oggi, alla ricerca della

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salvezza, una via piena di forza per colmare la vita, attraverso una visione positiva dell’inevitabile e apparente deficit. “Salvifici doloris” “Sul senso salvifico del dolore umano” è il titolo di uno scritto di forte impatto del nostro Santo Padre all’inizio del suo pontificato. Ciò che scrisse allora il Santo Padre lo sta vivendo oggi, incarnando questo messaggio con grande intensità: è l’alternativa, vissuta, alla dominante follia salutista, che emana dalla sua persona. La religione della salute ruota attorno all’antichissimo tema della religione: il superamento del contingente e soprattutto il superamento dell’esperienza di morte. Però, questa nuova religione induce gli uomini a perdere se stessi nella lotta contro la morte. Ci sono uomini che vivono, per così dire, preventivamente per arrivare sani alla morte. Si potrebbe dire che gli uomini, per evitare la morte, si prendono la vita, cioè l’irripetibile tempo di vita e quando, poi, sul letto di morte accade l’inevitabile- che hanno cercato di evitare con ogni possibile accortezza salutista - si chiederanno se forse non avrebbero dovuto trascorrere un po’ più di tempo con la moglie, con i figli, con gli amici anziché in palestra, oppure se non avrebbero potuto fare qualcosa per gli altri. Il messaggio cristiano acquista la sua più profonda forza e il suo valore più alto quando viene annunciato nell’imminenza della morte. L’Evangelium vitae trae da qui il suo splendore, poiché chi respinge la morte, perde la vita. Cristo annuncia la vita quando dice “Io sono la strada, la verità e la vita” (Gv 14:6). Non è una vita semplice, ma “sofferto…, crocifisso, morto e sepolto, e risorto dai morti”[9]. Questa è “la speranza che vive in noi”.

[1] Cfr. WEBER M., Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, Tübingen: Verlag J.C.B. Mohr, 1920. [2] Cfr. SINGER P., Practical Ethics,Cambridge: CambridgeUniversity Press, 1979. [3] Cfr. LÜTZ M., Lebenslust – Wider die Diätsadisten, den Gesundheitswahn und den Fitness-Kult, München: Pattloch Verlag, 2002. [4] GIOVANNI PAOLO II; La Catechesi del mercoledì, dal 5 settembre 1979 al 28 novembre 1984. [5] IGNAZIO DI ANTIOCHIA, ad Ephesos, cap. VII. [6] EPHRAIM IL SIRIANO, cit. in: BEINERT W., Hilft Glaube heilen?, Düsseldorf: Patmos Verlag, 1985, p.69. [7] PREFAZIONE DELLA QUARESIMA. [8] BUBER M., Das dialogische Prinzip, Heidelberg: Verlag Lambert Schneider, 1962. [9] SIMBOLO APOSTOLICO

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ANGELO FIORI La figura del medico e le aspettative dei cittadini: continuità e condizionamenti 1. La figura del medico, quale appare attualmente nell’immagine che ne hanno i cittadini è molto difficile da delineare se non se ne restringe il campo all’attuale medicina scientifica occidentale dove pure si possono individuare profili diversi. Sul piano storicoè meno profondo il divario che per millenni ha connotato le ‘medicine empiriche’sviluppatesi nei vari continenti, benchè assai diverse tra loro,da quelloattuale, nel quale è ormai siderale la distanza tra la moderna medicina scientifica e le cosiddettemedicine tradizionali, o alternative, che sopravvivono in varie aree del mondo ed oggisi aspandono, anche nelle zone della medicina occidentale.. La continuità della figura del medico occidentale può individuarsi, a determinate condizioni, nelle linee di sviluppo che hanno per capostipite la medicinaippocratica, la quale continua ad esercitare la sua influenza , mantenendo le sue caratteristiche di fondo , anche ai giorni nostri , con l’avvento, negli ultimi tre secoli, della medicina scientifica le quale, a ben riflettere, nonsolo si ispira alla deontologia ippocratica ma la rafforza nei suoi principi centrali, concentrati nel giuramento ippocratico. Questa linea, infatti, a quanto generalmente si ritiene , prende inizio nell’era ippocratica (460-377 a.C.), ed è successiva alla precedente che attribuiva al medico qualità sacerdotali. Ma , a ben considerare ,non è neppure lontana dalla medicina babilonese e da quella egiziaentrambegravate dal rischio di severe condanne per gli eventuali insuccessi: fino alla condanna a morte comminata in Egitto ai medici il cui paziente non fosse stato trattato con protocolli di cura elaborati attraverso l’esperienza, e ne fosse conseguita la morte che si presumeva pertanto in nesso causale con la violazione delle regole condotta professionale. La medicina ippocratica ,conoscibileattraverso il Corpus Ippocratico, risente dell’interesse del pensiero greco per le tecniche e per il metodo scientifico,elaborato nella seconda metà del secolo V. Essa si è proposta di liberare la medicina da ogni concezione magica per farne una scienza basata su un metodo sicuro e razionale di diagnosi e terapia ed ha avuto come punti centrali l’osservazione del paziente, il colloquio, il successivo dialogoaggiornato nel corso della terapia, l’insieme di essenziali regole deontologiche . Il centro di queste ultime era l’interesse esclusivo del paziente, ma nel contempo era l’autodivieto di superare i limiti che la scuola ippocratica ha puntualmente individuato e che prevedevano l’autonomo rifiuto del medico di fronte a richieste, provenienti dai pazienti, che fossero giudicate estranee alle finalità della medicina. Il rifiuto di praticare l’aborto e l’eutanasia ne sono gli esempi più evidenti ed emblematici di questa posizione ippocratica . Un altro nodo essenziale è l’affermazione della necessità di rispettare i limiti della propria competenza, lasciando agli ‘specialisti’ il compito di occuparsi di casi che richiedevano,appunto, una specifica esperienza. Non sono certo marginali gli altri precetti del decalogo ippocratico, costituiti dal rispetto per i maestri dell’arte medica, il segreto professionale, il divieto di abusare della libertà di accesso nella famiglia e nella casa del paziente, ed infine l’innocenza e lo stile della vita. E’ proprio da questo insieme di regole,sintetizzate in un pur breve giuramento, che emerge la figura del medico che si è tramandata per millenni e che sussiste in parte tuttora com’è desumibile da testi, testimonianze, immagini pittoriche, libri e films e serials televisivi che tuttora disegnano in prevalenza figure di medici impegnati , pronti in qualsiasi momento del giorno e della notte a sacrificarsi, gravati da responsabilità a forte contenuto emotivo, esposti alla sofferenza dell’insuccesso e dell’ingratitudine ma anche gratificati dai risultati positivi molto spessoraggiunti e dalla riconoscenza dei pazienti beneficati,e delle loro famiglie. Lo stesso obiettivo si prefiggono ,questi contributiartistici, quando presentano all’opposto figure di medici che tradiscono la propria missione e vengono additati alla pubblica riprovazione. Non vi è

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dubbio, infatti , che come in tutte le altre professioni – ma con ben diverse conseguenze sull’opinione pubblica che ha sempre privilegiato un’immagine ideale del medico e della medicina– fin dall’antichità sia emersa anche la figura del medico che viola i precetti della propria disciplina: sia per colpevole o incolpevole incapacità, sia per negligenza, sia per avidità –causa di vere e proprie condotte criminali – sia infine per ispirazioni ideologiche. Queste ultime hanno ormai un loro posto particolare. Infatti, mentre le condotte professionali riprovevoli, o presunte tali, subiscono le condanne inflitte dai tribunali penali e civili (analogamente a quanto avveniva nell’antico Egitto, da quanto era previsto nel Codice Hammurabi e da altre sanzioni previste e comminate in altre culture ), e quelle di immagine comminate dai media, dai pazienti danneggiati e dai loro amici e congiunti, dalla stessa collettività quando ne viene informata , le divergenze ideologichedividono la classe medica, in misura più radicale, in schieramenti differenziatiognuno dei quali gode in genere dell’ approvazione della propria ‘parte’ ideologica e soffre la riprovazione dal versante opposto. Questa divisione, che in questo intervento si intende particolarmente considerare perché incrina seriamente e dannosamente “la continuità” dell’immagine del medico occidentale,si è progressivamenteaccentuata, nel secolo scorso e soprattutto negli ultimi cinquant’anni,a causa della cosiddetta‘modernità’, cioè dei grandi progressi della cultura scientifica e dei mezzi tecnici che rendono possibili prestazioni professionali la cui liceità ,o illiceità, etica e deontologica, sono sempre più sottoposte a valutazioni differenziate, spesso radicalmente, attraverso il filtro dell’ideologia politica e/o filosofica. Nei paesi democratici, che sono una minoranza nel panorama mondiale ma rappresentano il fronte avanzato della medicina scientifica - sia nel produrla sia nell’applicarla con ampiezza sempre maggiore - a seconda delle maggioranze democratiche che prevalgono nei parlamenti, si favoriscono infatti , per l’attività medico-chirurgica , norme permissive o restrittive nell’ambito delle qualisi producono veri e propri schieramenti di gruppi di medici. Anche i tribunali, attraverso le variegate sentenze relative a casi che ineriscono la professione medica, producono divisioni del diritto giurisprudenziale che consolidano spesso le radicalizzazioni ideologiche nella società, che si riflettono sui medici a loro volta condizionati ,divisi ed attestati su posizioni di dubbio valenza ippocratica . Questo è solo un aspetto, che potremmo chiamare ‘passivo’ dei condizionamenti subiti dai medici ad opera di settori influenti dell’opinione pubblica (gli intellettuali, la stampa, la televisione, i politologi) , da norme, da orientamenti giurisprudenziali. Ma altrettanto importante, quale fattore di divisione è l’aspetto “attivo” costituito dalla autoctona produzione di propostedi segno non ippocratico, fortemente ideologizzate, ma non sempre motivate intimamente dall’ideologia, bensì ancheda una pluralità di interessi . 2. Numerose sono le linee di queste divise tendenze ed èutile, per questa breve analisi, solo qualche esempio tra i più emblematici. La vastissima e dinamica area dello sviluppo incessante della medicina scientifica ha confini incerti in cui la liceità etica e deontologica si scontra di frequente – ma assai spesso in modo non sempre colto dall’opinione pubblica se non nei casi individuali – con la temerarietà pericolosa, che ha le sue numerose vittime: morti od invalidi. La spinta all’innovazione ed al miglioramento – motivata dall’interesse scientifico ma anchedall’ambizione, dal guadagno, dalla natura stessa dell’uomo che ne ha segnato e ne segna la storia – produce una quantità enorme di effetti collaterali dannosiche sacrificano al progresso il benessere di singoli (in genere inconsapevoli) . Le chirurgia generale e specialistica, l’anestesiologia, l’ostetricia e le ginecologia, ma anche le discipline internistiche percorrono in varia misura questa strada che rifiuta di fatto il principio etico dei limiti e diffonde nella collettività un trionfalismo ingiustificato che favorisce

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l’accettazione, il più spèesso inconsapevole, di partecipare a decisioni ad alto rischio con danni conseguenti. Il principio di beneficialità è spesso marginalizzato in queste circostanze e lo sviluppo dei comitati etici ospedalieri – che il più delle volte non sono chiamati a pronunciarsi sui casi singoli - non è sempre sufficiente a frenare il fenomeno che spesso si manifesta a posteriori molte volte inaspettatamente. Questi comitati rappresentano comunque il segno della consapevolezza dei rischi della sperimentazione non controllata e della ‘invasività ‘ di molti dei trattamenti medici attuali. A questo proposito converrà richiamare il fatto che l’usuale attribuzione, al termine di ‘invasività’ medica, del significato di intervento cruento (anche di minima importanza come nel caso di una banale iniezione) è ritenere ormai superato se si considera il rischio connesso ad una parte rilevante dei trattamenti farmacoterapici i quali, come del resto informano i foglietti illustrativi allegati alle specialità medicinali, possono dare luogo ad effetti collaterali iatrogeni anche molto gravi, talora mortali. In questo settore, in verità, non esistono reali divisioni di principio nella classe medica, se non divisioni di fatto, tra singoli medici, tra coloro che ,per esperienza, cultura e carattere privilegiano le condotte prudenti e non si lasciano facilmente suggestionare dalle nuove proposte, spesso non confermate dalla loro applicazione pratica; e di converso tra coloroche, non sempre sulla base solida di convinzioni scientificamente fondate e di una preliminare esperienza, si avventuranoin attività a rischio ingiustificato, talvolta coronate da successo, altre volte fallimentari sia sotto il profilo dell’insuccesso e dell’inutilità sia anche sotto quello ben più grave di patologia iatrogene, non di rado mortali o permanentemente invalidanti. La stessa opinione pubblica è spesso schierata con i medici più audaci perché suggestionata dai media e dal fascino della ricerca,dal mito del progresso permanente, nonché dalla speranza di una vita migliore. Questo settore, che rappresenta il nucleo della moderna medicina scientifica , non produce in veritàdivisioni di principiorilevanti ,mentre le divisioni – che spesso si riverberano sui mezzi di informazione e gettano ombre sulla ‘intera classe medica -si verificano nei casi singoli e sfociano nell’aumento progressivo ed allarmante dei processi penali e civili e contro i medici , e civili contro le strutture sanitarie pubbliche e private. 3. I settori che invece si caratterizzazione per divisioni più profonde e contrapposte sono altri, ben conosciuti: l’aborto, la contraccezione, la fecondazione assistita, l’eutanasia, la sterilizzazione, l’assistenza psichiatrica. Anche il problema delconsenso informato, che si collega al principio di autonomia, è fonte di non poche divisioni di principio e di fatto. Non si può negare che anche nell’antichità aborto ed eutanasia,e pratiche professionali non solo colposamente, ma non di rado anche dolosamenteincongrue sono state effettuate proprio dai medici. Non a caso la loro immagine è stata spesso denigrata e dileggiata – è sufficiente ricordare le graffianti opere di Molière -senza tuttavia riuscire a scalfire profondamente il rapporto con i pazienti e le loro famiglie, aiutato largamente dalla prevalente obbedienza dei medici ai precettideontologici modellati dalle evoluzioni storiche. Oggi i condizionamenti agiscono profondamente nell’opinione pubblica e si riflettono sui medici, che peraltrone sono spesso anchegli autori. Le proposte della medicina avanzata, che lacerano la bioetica, sono infatti vere e proprie tentazioniche per una molteplicità di interessi stimolano la società e la dividono. Innegabili risultano i successi , profondamente negativi, di questi condizionamenti e la battaglia si fa sempre più aspra restringendo i difensori della bioetica tradizionale - quella autentica delle origini - e della professione medica deontologicamenterigorosa, entro recinti nei quali le loro voci si affievoliscono mentre l’utilitarismotemerario ed imprudente spinge senza sosta verso nuove trasgressioni.

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E’ difficile, in questa situazione, verificare con sicurezza il pensiero dell’intera opinione pubblica, ma si deve prendere atto che le modalità di presentazione di una medicina scientifica trionfante, che occupa spazi sempre più ampi, oltre i confini della terapia (com’è tipicamenteil caso dellachirurgia estetica) stanno provocando uno squilibrio il cui esito finale non si può prevedere ma per ora induce ad un realistico pessimismo. E’ certo che le richieste di larga parte dell’opinione pubblica si concentrano sempre più nell’obiettivo di realizzare qualsiasi desiderio che la medicina possa soddisfare ed è ovvio che in questo contesto il primo dei desideri è quello della salute ad ogni prezzo, di eliminare il dolore, di una sopravvivenza senza limiti. Da queste aspettative irrealistiche nasce, in un numero non limitato di casi , la reazione giudiziaria agli insuccessi. Queste reazioni si manifestano sempre più anche nei trattamenti che riguardano persone in età avanzata, con salute molto compromessa, per le quali si attendono dai medici miracoli : oppure al contrario si manifestano con la proposta di soppressione degli inutili e grandi invalidi, ora estesa all’eutanasia neonatale e pediatrica che si affiancano alla soppressione degli embrioni e dei feti. E’ un quadro in molta misura sconvongente e devastanteche marchia la figura di molti medici riflettendosi negativamente anche sull’immagine dei tanti, probabilmente il maggiore numero,che svolgono un’attività meritoria ed efficace. 4. In questo contesto può appariresingolare e paradossale la diffusione delle cosiddette medicine alternative, non scientifiche . Le contraddizioni che percorrono le società, anche quelle cosiddette ‘più avanzate’ ,sono di per sé una semplice spiegazione. Ma ad un esame più profondo ci si rende conto che questa deriva è il frutto composito della paura della sofferenza, anche di quella indotta inevitabilmente dalla medicina scientifica e della paura degli errori medici. Questa deriva è nel contempo provocata dall’azione consumistica, che nei medici ha molti complici sempre più agguerriti, motivata principalmente da interessi commerciali e professionali, ed attuata con la complicità dei media in cerca di sensazioni e curiosità, capaci di influenzare l’opinione pubblica spregiudicatamente, spesso irresponsabilmente,oltre ogni ragionevole limite, con correlativi rischi e danni. Si può dunque affermare che la medicina occidentale scientifica è oggi esposta ad una serie di fattori condizionanti capaci di alterarne ,perlomeno in parte, l’antica immagine ippocratica , inducendola in tentazioni peraltro nate prevalentemente nel suo seno e travolgendo gli argini che la bioetica autentica –nata a difesa dell’umanità – cerca di erigere, insidiata dalla bioetica ‘promozionale’ che ne tradisce le finalità . Per fortuna molti medici, probabilmente la maggioranza,mantengono viva la fiaccola della tradizione deontologica, e salvaguardano l’immagine tradizionale del medici nel silenzio operoso della loro difficile attività quotidiana. 5. Queste brevi riflessioni su di un tema di grande difficoltà si possono concludere cercando di riassumerne i nodi centrali. La figura del medico, e l’immagine della medicina presentano oggi un polimorfismo ricco di contraddizioni che attraversano non solo i paesi poco sviluppati –alcuni dei quali in fase di rapida evoluzione, come la Cina e l’India -ma anche l’occidente, e l’oriente progredito. Convivono anzitutto, e la convivenza non dà segni di essere transitoria, la medicinabasata sull’evidenza scientifica, ed una grande varietà di pratiche alternative prive oggettivamente di basi scientifiche anche se talora capaci di produrre effetti benefici su patologie minori ,il più delle volte con ilmeccanismo dellasuggestione. La medicina scientifica è quella cui si rivolgono i pazienti per la maggior parte delle malattie, generali o locali, suscettibili di cure reali, spesso risolutive. Vi è nella quasi totalità dei cittadini la consapevolezza che è questa medicina ,moderna e dinamica, che ha assicurato profondi cambiamenti nella salute delle società che se ne possono avvalere appieno come risulta dall’aumento progressivo della vita media che in tali società si è realizzato , invero causato anche dalle migliori condizioni di vita, specie alimentari, di cui possono godere i loro più fortunati abitanti. Sulla medicina scientifica

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poggiano le più autentiche speranze di guarigione ,e di maggiore sopravvivenza, di granparte della popolazione che di tale medicina sacientifica può avvalersinel modo più adeguato edinamicamente aggiornato. E’ in virtù di queste speranze che i paesi più avanzati economicamente accettano di devolvere risorse economiche sempre più rilevantialla ricerca biomedicaed alla gestione pubblica e privata della medicina scientifica: le cui esigenze sono di anno in anno sempre più onerose, sia sotto il profilo dell’aggiornamento tecnologico, che della spesa per terapie e per la complessa organizzazione sanitaria. Si deve tuttavia distinguere tra la valutazione positiva espressa da buona parte dei cittadini nei confronti della Scienza Medica, e la valutazione spesso critica e pessimistica nei confronti dei medici che la praticano. Non vi è ,in genere, consapevolezza adeguata della rischiosità intrinseca della Medicina, dovuta al concorso tra la dannosità delle malattie e la possibile dannosità dei trattamenti diagnostici e soprattutto di quelli terapeutici, chirurgici e medici. Né vi è adeguata consapevolezza dei grandi limiti che connotano anche la medicina più avanzata. Molte malattie sono tuttora a genesi oscura, per molte altre, di varia natura, le terapie disponibili sono a carattere sintomatico e non assicurano la guarigione ma,spesso, solo una maggiore sopravvivenza e la possibilità di sopportare la cronicità della malattia con minori sofferenze. Da questi rischi, e dai limiti della medicina scientifica,conseguono inevitabilmente insuccessi o addirittura conseguenze dannoseiatrogene che in genere non sono addebitate alla Medicina in quanto tale, bensì a singoli medici o gruppi di medici od a deficienze di determinate strutture sanitarie. Sono addebiti molte volte giustificati, altre volte frutto della inadeguata informazione ,sia dei singoli pazienti e dei loro congiunti, sia della collettività intera. Da questa confusa situazione consegue il rischio reale, frequentemente realizzato, dirottura dell’alleanza terapeutica che è una base irrinunciabile della medicina ippocratica. Solo un’opera di coraggiosa ed onesta informazionepotrà ovviare, in qualche misura, a questo deterioramento per realizzare un consensosociale realmente informato idoneo a riportare in equilibrio la bilancia delle relazioni tra società e classe medica. E’ una informazione che, pur senza drammatizzare, deve far comprendere ai cittadini i prezzi reali che tutti, sia pure in varia misura, dobbiamopagare per potere continuare ad avvalerci della medicina moderna, con le sue grandi luci e le non poche ombre. La strada che molti medici, e pazienti, percorrono attraverso il ricorso alle medicine “dolci” alternative, può avere una sua qualche validità nell’allentare la tensione ed i conflitti. Ma tale strada alternativa, oltre a costituire in buona parte dei casi un inganno – perché ricorre ad argomentazioni e mezzi di non comprovata efficacia - che ha i suoi costi economici e le sue delusioni e può anche contribuire ad introdurre elementi di dubbio nella società creando sconcerto ed ambiguità che intorbidano sia l’immagine della Medicina che dei medici. Più grave è tuttavia da ritenere la divisione che si realizza all’interno della classe medica ,ad opera di contrastanti ideologie su temi essenziali della vita e della morte. Il filo nero che congiunge, nel corso dei millenni, progetti ed opere intese a guidare le società sulla base di principi utilitaristici o comunque ideologici, ha visto e continua a vedere i medici mescolarsi a sociologi, filosofi e politici nell’accettare principi che sono in radicale contrasto con la medicina ippocratica: volta al beneficio esclusivo del paziente, e contraria a partecipare a qualsiasi progetto di morte. La sequenza dei progetti, e le modalità di attuarli, si è accentuata nel secolo ventesimo, sia per il prevalere, per molti anni, di movimenti politici assolutistici e privi di attenzione per la vita, sia per i progressi della medicina scientifica che hanno posto i medici, e la società, di fronte a problemi delicati ed angosciosi. La legalizzazione dell’aborto, le leggi permissive sull’eutanasia (anche ‘perìdiatrica’) la produzione di embrioni poi abbandonati od impiegati per la sperimentazione, la selezione-soppressione embrionale tramite la diagnosi preimpianto nella fecondazione assistita e la diagnosi prenatale nel corso della gravidanza,la sterilizzazione , sono esempi di un profondo vulnus alla medicina ippocratica e dei fondamenti di ogni società moderna,trovano purtroppo molti medici schierati sul versante opposto a quello di difesa ad oltranza della vita.

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“Se si tocca il corpo tutto è perduto “ ha affermato accoratamente il grande biologo francese Jean Rostande questo monito, rivolto a coloro che stravolgono la medicina, deve indurre a moltiplicare gli sforzi per riportarla all’interno dell’area della vita, che le appartiene per millenaria tradizione.

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VICENTE BELLVER CAPELLA IL DIRITTO ALLA VITA E IL DIRITTO ALL’ASSISTENZA SANITARIA: SIGNIFICATI E LIMITI Si ritiene, comunemente, che la disciplina della bioetica risalga ai primi anni ’70 quando, quasi simultaneamente, Van Renssaeler Potter, all’Università del Michigan, e Andrè Hellegers, all’Università di Georgetown, coniarono il termine. Personalmente non sono completamente convinto che la Bioetica sia una disciplina recente, ma se bisogna pensarla così, allora ci sono buone ragioni per ritenere che le sue origini siano da rintracciare subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Questo fu il periodo dello sviluppo della tecnologia in ambito biomedico che ha sollevato così tanti nuovi problemi. Fu anche il periodo che vide l’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) e la stesura del Codice di Norimberga (1946). Nella Dichiarazione, per la prima volta nella storia, vengono riconosciuti i due principi che in larga misura sono alla base del discorso della Bioetica contemporanea: il diritto alla vita (art. 3) e il diritto alla salute e alle cure mediche (art. 25). Da parte sua, il Codice di Norimberga stabilì le condizioni necessarie per la legittimità delle sperimentazioni sugli esseri umani. La questione del contenuto e dei limiti del diritto alla vita e alla salute si può affrontare da almeno tre diverse prospettive. Il primo approccio focalizza i testi (leggi e sentenze) che stabiliscono gli scopi di questi diritti negli ordinamenti interni. Un confronto delle leggi nei vari paesi mette in luce le differenze più grandi che esistono tra alcune nazioni ed altre. Questa sarebbe la prospettiva del Diritto Costituzionale e del Diritto Comparativo. In secondo luogo, si potrebbe adottare la prospettiva del Diritto Internazionale e rivedere i documenti di diritto internazionale che stabiliscono le caratteristiche dei diritti summenzionati. Questi documenti, generalmente, sono formulati in termini sufficientemente ampi da garantire flessibilità agli stati nello specificare l’esatto contenuto dei diritti. Infine, si potrebbe adottare un approccio filosofico e chiedersi quale dovrebbe essere il contenuto del diritto alla vita e del diritto alla salute, al di là delle leggi emanate dagli stati e dagli organismi internazionali. Anche se può sembrare un approccio eccessivamente focalizzato sul diritto positivo, inizierò il mio intervento facendo un’analisi dei principali testi di diritto internazionale in cui si fa riferimento ai diritti alla vita e alla salute. Anche se farò qualche riferimento ad alcune leggi nazionali, concentrerò l’attenzione sui testi internazionali poiché questi rendono l’idea del contenuto attribuito ai due diritti nella maggior parte delle regioni del mondo. In secondo luogo, parlerò delle difficoltà che nascono quando si cerca di definire il contenuto, l’oggetto e i titolari dei diritti. Prima di passare a questi due argomenti, è utile una classificazione dei testi giuridici internazionali che fanno riferimento ai diritti umani alla vita e alla salute. LE LEGGI INTERNAZIONALI SUI DIRITTI UMANI I testi giuridici che contengono riferimenti ai diritti umani, possono essere classificati secondo il loro obbiettivo, cioè a seconda che siano testi nazionali o internazionali. Sebbene le norme internazionali sui diritti umani non esistessero prima del ventesimo secolo, queste hanno avuto una crescita esponenziale a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. Queste norme possono avere portata universale oppure regionale. Nel primo caso sono generalmente adottate dalle Nazioni Unite o da una delle Agenzie specializzate (UNESCO, FAO, OMS). Nel secondo caso, invece, sono generalmente redatte da organismi internazionali dedicati esclusivamente o parzialmente alla protezione dei diritti umani in una particolare regione del mondo. In generale, ci sono quattro regioni con organismi di questo tipo: l’Europa (Consiglio d’Europa, Unione Europea), l’Africa (Unione

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Africana), le Americhe (Organizzazione degli Stati Americani) e i Paesi Arabi (Lega degli Stati Arabi, Organizzazione della Conferenza Islamica). A seconda del loro valore vincolante, i testi delle leggi internazionali possono essere classificati come dichiarazioni o come convenzioni. Le Dichiarazioni sono testi che enunciano un accordo di intenti tra gli stati firmatari, ma non possono essere impugnate contro questi stati in caso di infrazione. Le Convenzioni (chiamate anche Patti, Trattati, Protocolli, ecc.) prevedono invece un meccanismo coercitivo per obbligare gli stati firmatari a rispettare gli impegni presi. Nel settore dei diritti umani, gli stati spesso cominciano con l’adottare una Dichiarazione che – come suggerisce lo stesso nome – è una semplice espressione di volontà. Sulla base della Dichiarazione, si cerca poi spesso un consenso per un testo vincolante (Convenzione). I diritti umani si dividono in due categorie principali: diritti civili e politici, e diritti economici sociali e culturali. La prima categoria riguarda i diritti personali fondamentali, come il diritto alla vita, all’integrità fisica, alla privacy, alla libertà religiosa, ecc. o il diritto di partecipazione alla vita politica (voto passivo e attivo, ma anche il diritto di riunione, di associazione, di manifestare, ecc.). La seconda categoria mira al riconoscimento dei bisogni fondamentali di tutte le persone e al riconoscimento del diritto, uguale per tutti, di partecipare alla vita sociale, culturale ed economica del paese. Il primo gruppo di diritti è relativamente semplice da garantire: è sufficiente che uno stato si astenga dall’interferire negli ambiti della vita personale e organizzi i meccanismi necessari (polizia, giudiziaria e punitiva) per punire chiunque lo faccia. I diritti del secondo gruppo sono più difficili da garantire poiché si richiede allo stato di intervenire attivamente attraverso l’elaborazione di disposizioni necessarie per dare accesso, ai propri cittadini, ad ambiti che sono fondamentali per il loro sviluppo (salute, educazione, cultura, sicurezza sociale, ecc.). La disponibilità di questi diritti è fortemente condizionata dalla capacità economica dello stato e il loro contenuto è quindi notevolmente più limitato nei paesi più poveri. Data questa situazione, alcuni dubitano del fatto che questi possano davvero essere considerati diritti: se i diritti umani sono universali, come possiamo parlare di diritti quando il loro contenuto – e anche la loro stessa esistenza – è condizionata dalla capacità economica? Non mi addentrerò qui in una discussione sulla legittimità dei diritti sociali. Darò per certa, di fatto, la loro esistenza e non come semplici lineeguida da tenere in considerazione per definire politiche pubbliche e per elaborare leggi. Di conseguenza, il diritto alla salute e all’assistenza sanitaria cadrebbero nell’ambito della seconda categoria di diritti umani, mentre il diritto alla vita farebbe parte dei diritti civili e politici, cioè dei diritti la garanzia dei quali non dipende dalla capacità economica dello stato. IL DIRITTO ALLA VITA E IL DIRITTO ALLA SALUTE NELLE NORME INTERNAZIONALI Documenti Universali Nonostante abbia un modesto valore normativo, in quanto semplice Dichiarazione firmata da appena cinquanta stati, non c’è dubbio che il testo più importante a livello mondiale sui diritti umani sia la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. La Dichiarazione fa riferimento al diritto alla vita (art. 3) in questi termini: Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Uno degli aspetti più controversi di questo diritto riguarda la determinazione dei soggetti di tale diritto. Come vedremo in seguito, c’è un importante dibattito sull’interpretazione dell’espressione ogni individuo (“everyone”). Nella Dichiarazione non c’è alcun riferimento specifico alla pena capitale, sebbene l’articolo 5 stabilisca che Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti. Riguardo al diritto alla salute, l’articolo 25 afferma quanto segue: (1) Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia con

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particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. (2) La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della sua stessa protezione sociale. Il riferimento al diritto alla salute è un riferimento preciso, poiché si fa espressa menzione del diritto all’assistenza medica e al fatto che il diritto è proprio degli individui e delle famiglie e protegge in particolare la maternità e l’infanzia. Nel 1966 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato due Patti Internazionali che hanno dato forza di legge alla Dichiarazione Universale del 1948. A quell’epoca il mondo era diviso in due blocchi che non potevano trovarsi d’accordo sui termini di una Convenzione Internazionale sui Diritti Umani. La situazione di stallo portò all’adozione di due Patti: uno sui diritti civili e politici e il secondo sui diritti economici, sociali e culturali. Il primo riconosce il diritto alla vita, il secondo quello alla salute. Il diritto alla vita è riconosciuto dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. In questo documento non si specifica se gli individui non ancora nati siano titolari di questo diritto, sebbene si usi l’espressione ogni essere umano in contrasto con la Dichiarazione del 1948 che usa l’espressione ogni individuo. Non si proibisce la pena di morte, ma si indicano alcune condizioni alle quali si può considerare lecita e si chiarisce anche che gli stati dovrebbero aspirare ad abolirla[1]. Questa disposizione fu più tardi completata da un protocollo addizionale per l’abolizione della pena capitale, adottata nel 1989[2]. L’articolo 7 del Patto proibisce la tortura o il trattamento o la punizione crudele, inumana o degradante e stabilisce che la sperimentazione su esseri umani può aver luogo solo con il consenso della persona coinvolta[3]. Nel Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali si fa riferimento al diritto alla salute in termini ambiziosi[4], in linea con la dottrina espressa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo Statuto. Come nella Dichiarazione Universale, si fa riferimento anche alla protezione a cui hanno diritto l’infanzia e la maternità[5]. Curiosamente, sebbene il diritto sia espresso in termini di più alto standard di salute, le misure considerate per renderlo effettivo sono concrete e riguardano soprattutto le condizioni ambientali e le misure di salute pubblica. In contrasto con la medicalizzazione della società e con lo sviluppo di una forma di medicina incentrata sul trattamento dei problemi critici, in questa sede si sostengono la prevenzione e la protezione ambientale, poiché sono più produttive ed efficaci a medio termine. La speciale protezione a cui ha diritto l’infanzia, e in particolare le condizioni di salute dei bambini, era già stata messa in risalto in un precedente testo delle Nazioni Unite: La Dichiarazione Internazionale sui Diritti del Bambino, adottata nel 1959[6]. Trent’anni più tardi a questa Dichiarazione seguì la Convenzione sui Diritti del Bambino (1989). Mentre la prima conteneva solo dieci principi e riempiva appena due pagine, la Convenzione comprende 54 articoli in 15 pagine. La Dichiarazione sottolineava il principio della protezione del bambino, mentre la Convenzione pone l’accento sul principio di autonomia. Tali differenze sono utili a mettere in luce cambiamenti importanti, e non necessariamente positivi, nel mondo delle norme sui diritti umani: lo scopo dei diritti non è proteggere i beni fondamentali della persona (in questo caso del bambino), ma sottolineare la prevalenza della volontà individuale sulla volontà di altri. Inoltre, i diritti non sono protetti attraverso l’adozione di principi, ma piuttosto attraverso regole con contenuti molto specifici. Tuttavia, la prevalenza dell’autonomia sulla protezione non è apparente negli articoli riguardanti la salute del bambino; qui la Convenzione si pone un limite nello sviluppare ulteriormente i principi già elaborati nella Dichiarazione del 1959 e nel Patto Internazionale del 1966. L’articolo 24 fa riferimento ai più alti standard di salute possibili, ma le misure alle quali si riferisce si basano sulla considerazione delle condizioni ambientali, il cibo, la prevenzione degli infortuni, l’educazione e le cure primarie. In breve, misure essenzialmente preventive[7]. In un riferimento alquanto controverso, l’articolo proibisce anche le pratiche tradizionali pregiudizievoli verso la salute dei bambini. Da un lato, non si stabilisce semplicemente che la salute debba prevalere

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sul rispetto delle culture. Dall’altro, anche se si accetta che la salute debba prevalere sulle pratiche culturali che la pregiudicano, dato che la nozione di salute è condizionata dalla cultura, non risulta sempre facile individuare queste condizioni di conflitto. L’articolo 25 si riferisce ai bambini considerati dal punto di vista delle autorità sanitarie, mentre l’articolo 32 stabilisce che una delle condizioni alle quali i bambini possono lavorare è che il lavoro non pregiudichi la loro salute. La definizione di bambino data nell’articolo 1 della Convenzione non chiarisce se il nasciturus debba o no essere considerato un bambino[8]. Per evitare ambiguità, l’Argentina, al momento della ratifica della Convenzione, ha reso pubblica una dichiarazione in cui si ritiene che l’interpretazione di ‘bambino’, nell’articolo 1, debba comprendere tutti gli esseri umani dal momento del concepimento fino all’età di 18 anni. Vi è una differenza significativa tra la Dichiarazione e la Convenzione riguardo alle cure prenatali e postnatali. La prima afferma che le cure dovrebbero essere rivolte sia alla madre che al bambino, mentre la seconda si riferisce solo alla madre. Il principio n. 4 della Dichiarazione, quindi, implicherebbe che il nasciturus ha il diritto alla protezione della salute e all’assistenza sanitaria, possibilità esclusa, invece, dai termini usati nell’articolo 24 della Convenzione. Un evento cruciale, in relazione al diritto alla salute, fu la creazione, nel 1948, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), un organismo specifico delle Nazioni Unite il cui scopo, secondo il suo Statuto, è il raggiungimento, da parte di tutti, del più alto livello possibile di salute (art. 1). Il Preambolo dell’Atto Costitutivo esprime il concetto di salute e le caratteristiche del diritto alla salute, in termini molto ampi, come vedremo in seguito[9]. Il Preambolo fa riferimento ai principi che guidano le politiche di sanità pubblica – giustizia tra i paesi, la necessità della partecipazione pubblica, rapporto armonioso tra l’uomo e il suo ambiente, ecc. – sui quali esiste un consenso quasi universale, nonostante gli stati li tengano in considerazione e li interpretino anche in maniera diversa. Il concetto di salute e di diritto alla salute espressi nel Preambolo hanno dimostrato di essere molto controversi. Entrambi sono interpretati in maniera talmente ampia che in realtà minano la garanzia di salute per gli individui e le popolazioni. Quando la salute è intesa in maniera onnicomprensiva e tutti hanno diritto a tutto, si finisce col non riconoscere diritti a nessuno. DOCUMENTI REGIONALI Le più importanti regioni del mondo che hanno adottato testi normativi sui diritti umani sono le Americhe, l’Europa, l’Africa e i Paesi Arabi. Le Americhe Durante la cerimonia che ha sancito l’adozione formale della Carta dell’Organizzazione degli Stati Americani (Bogotà, 1948) per la promozione della mutua assistenza tra i membri, è stata adottata anche la Dichiarazione Americana dei Diritti e dei Doveri dell’Uomo, solo pochi mesi prima della firma della Dichiarazione Universale. L’articolo 1 sancisce il diritto alla vita come segue: Ogni essere umano ha il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona. La protezione della maternità e dell’infanzia è riconosciuta nell’articolo 7: Tutte le donne, durante la gravidanza e l’allattamento, e tutti i bambini hanno il diritto ad una protezione, un’assistenza e un aiuto particolari. Il diritto alla salute è stabilito nei termini seguenti: Ogni persona ha il diritto alla conservazione della propria salute attraverso misure sanitarie e sociali legate all’alimentazione, al vestiario, all’alloggio e all’assistenza medica, secondo le possibilità offerte dalle risorse pubbliche (articolo 11). In seguito questa Dichiarazione ha dato origine a un testo vincolante, la Convenzione Americana sui Diritti Umani (San José, 1969). Nella Convenzione, l’articolo 4 enuncia il diritto alla vita[10] in termini molto innovativi. Esso riconosce che la tutela della vita comincia col concepimento e, sebbene

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senza proibire in generale la pena capitale, stabilisce che gli stati che l’hanno abolita, non possano restaurarla. A sua volta, la Convenzione Americana è stata integrata dal Protocollo di San Salvador (1989) sui diritti economici, sociali e culturali. L’articolo 10 del Protocollo regola espressamente il diritto alla salute affermando non solo che la salute è un bene pubblico e che le autorità hanno il dovere di assicurare la salute pubblica, ma anche che tutti i cittadini devono ricevere un’assistenza medica adeguata[11]. Nell’enunciazione del diritto alla tutela delle persone anziane, il Protocollo include, tra gli altri obblighi degli stati, la fornitura di servizi adeguati, come il cibo e l’assistenza medica specializzata, per gli individui anziani che non ne dispongano e che non siano in grado di provvedervi (art. 17.a). In relazione al diritto di tutela degli handicappati, si afferma che Ogni individuo con ridotte capacità fisiche o mentali ha diritto a ricevere un’assistenza particolare che lo aiuti a sviluppare al massimo la propria personalità (art. 18). Europa In Europa, due organismi – il Consiglio d’Europa e, da poco, l’Unione Europea – hanno adottato testi rivolti al riconoscimento e alla protezione dei diritti umani. Il Consiglio d’Europa fu istituito nel 1949 col doppio obbiettivo di difendere la democrazia e il principio di legalità e di proteggere i diritti umani e quindi evitare che si ripetessero esperienze come la Seconda Guerra Mondiale appena conclusa. Nel 1950, a Roma, gli stati membri adottarono la Convenzione Europea sui Diritti Umani, il cui maggior contributo fu quello di realizzare, ad un livello superiore rispetto alla giurisdizione nazionale, un sistema giuridico di protezione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione. Quindi, una volta percorse senza successo tutte le vie nazionali per la denuncia della violazione dei propri diritti umani, una persona può cercare soddisfazione presso la Corte Europea dei Diritti Umani. La Convenzione riguarda esclusivamente i diritti civili e politici. L’adozione della Convenzione ha rappresentato un’autentica rivoluzione nella politica legislativa. Per la prima volta dall’avvento dello stato moderno, un gruppo di stati ha rinunciato ad una parte della propria sovranità a favore di un organismo sopranazionale al quale sono stati conferiti i poteri di giudicare e, se del caso, di condannare la loro stessa condotta. Questa riduzione dei poteri sovrani ha dimostrato che, per gli stati, garantire i diritti dei cittadini era più importante del loro stesso potere. Dal momento in cui è stata adottata, la Convenzione è stata integrata da 11 Protocolli addizionali che hanno esteso la portata dei diritti e rafforzato i meccanismi per la loro protezione. L’articolo 2 riconosce il diritto alla vita[12], mentre l’articolo 3 bandisce la tortura[13]. Sebbene la pena capitale non sia stata inizialmente proibita, il Protocollo addizionale alla Convenzione Europea sui Diritti Umani riguardante l’Abolizione della Pena di Morte, firmato a Strasburgo nel 1983, ha introdotto tale divieto, tranne che in tempo di guerra. Il Consiglio d’Europa ha adottato (Torino, 1961) anche la Carta Sociale Europea sui diritti economici, sociali e culturali[14]. Sebbene sia una Convenzione, questa Carta non prevede i meccanismi di garanzia necessari per l’effettivo esercizio dei diritti sanciti dalla Convenzione di Roma. La Carta fa riferimento al diritto alla salute stabilendo una differenza tra il diritto alla tutela della salute[15] e il diritto all’assistenza sociale e sanitaria[16]. Il contenuto di questi diritti è integrato ulteriormente dai riferimenti, presenti un po’ dappertutto nella Carta, a condizioni di lavoro sicure e sane (art. 3), a una particolare protezione della salute dei giovani lavoratori (art. 7) e alla protezione della maternità (art. 9). Oltre a quella citata – che rappresenta la più generale delle sue Convenzioni – il Consiglio d’Europa ha adottato molte altre Convenzioni finalizzate alla protezione di diritti umani specifici contro nuove minacce. Una della più importanti, direttamente riguardante i diritti alla vita e alla salute, è la Convenzione Europea sui Diritti Umani e la Biomedicina del 1997, conosciuta anche come

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Convenzione di Oviedo il cui obbiettivo è quello di proteggere i diritti umani contro le minacce rappresentate dalle tecnologie biomediche. In essa si contempla l’adozione di Protocolli addizionali per regolamentare gli aspetti non compresi dalla Convenzione o per regolamentare più in dettaglio quelli già inclusi[17]. La Convenzione di Oviedo fa riferimento al diritto alla salute e – riferendosi alla protezione da attribuire agli embrioni – anche al diritto alla vita. Il riferimento alla salute è molto generale ed è limitato al requisito che gli stati forniscano equamente l’assistenza sanitaria. L’articolo 3 recita: Le parti, tenendo in considerazione i bisogni sanitari e le risorse disponibili, dovranno adottare misure appropriate per fornire, nell’ambito della loro giurisdizione, un accesso equo ad un’assistenza sanitaria di qualità adeguata. La Convenzione riconosce che gli embrioni debbano essere trattati con rispetto, ma allo stesso tempo, afferma che tale rispetto può essere compatibile con il loro uso a fini di ricerca. Stabilisce, inoltre, una soglia minima di protezione, cioè il divieto di creazione di embrioni a scopo di ricerca[18]. Su questo argomento sono sorti dubbi di interpretazione: la Convenzione permette la creazione di embrioni per fini puramente terapeutici? Un’interpretazione letterale e restrittiva del divieto porterebbe ad una risposta affermativa, sebbene si possa anche concludere che la Convenzione ammetta la creazione di embrioni a scopi industriali o ad altri scopi, ma non per la ricerca. Dalla prospettiva teleologica, tuttavia, sembrerebbe strano che la Convenzione permetta la creazione di embrioni per un uso terapeutico quando essa stessa proibisce espressamente la loro creazione per esperimenti che potrebbero portare a terapie basate sulle cellule embrionali. Questo argomento, a sua volta, può essere contestato asserendo che la Convenzione permetta la ricerca su embrioni che non siano stati usati, o che non lo saranno, in programmi di riproduzione assistita. Da questo punto di vista, la Convenzione stabilisce diversi gradi di tutela, vietando la creazione di embrioni a fini di ricerca (gli studi possono essere condotti solo su embrioni “soprannumerari”), ma non se le cellule embrionali possono essere usate direttamente in procedimenti terapeutici. Il fatto che la Convenzione stessa riconosca che la vita umana inizi con il concepimento e da questo momento meriti tutela[19], sembrerebbe escludere la creazione e la distruzione di embrioni anche per scopi direttamente terapeutici, dato che ciò rappresenterebbe una strumentalizzazione degli embrioni umani e una carenza di protezione richiesta invece dall’articolo 18 della Convenzione. Sebbene L’Unione Europea sia nata inizialmente come organismo sopranazionale a scopi economici e commerciali, oggi essa aspira anche ad un’unione politica. Nel 2000, a Nizza, gli Stati Membri hanno adottato la Dichiarazione Europea dei Diritti Fondamentali che in seguito è andata a formare la seconda parte del Trattato della Costituzione Europea, firmato a Roma il 4 novembre 2004 e intitolato Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. In essa ci sono riferimenti al diritto alla vita[20] e alla salute[21], con particolare attenzione alla salute sul posto di lavoro (art. 31), alla tutela dei lavoratori minorenni (art. 32) e alla maternità (art. 33). Si stabilisce anche una serie di divieti legati alle biotecnologie, come le pratiche eugenetiche, la clonazione umana a fini riproduttivi e lo sfruttamento economico di parti del corpo umano[22]. Il divieto di clonazione si presta a due interpretazioni contraddittorie. Se si riconosce l’embrione come essere umano, allora la clonazione di embrioni è proibita, indipendentemente dalle finalità. Se invece si considera il momento della nascita come inizio dell’essere umano, viene proibita solo la clonazione a scopi riproduttivi. Africa L’Organizzazione per l’Unità Africana[23], nata nel 1963 per promuovere l’unità e la solidarietà tra i paesi africani, ha elaborato un’ampia legislazione sui diritti umani. Il testo più importante è la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, conosciuta anche come Carta di Banjul (1981), che riconosce espressamente il diritto alla vita[24] e il diritto alla salute[25]. Una caratteristica peculiare era rappresentata dal riconoscimento del dovere dello stato di tutelare la salute fisica e morale delle

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famiglie[26]. La Carta Africana sui Diritti e il Benessere del Bambino (1990), adottata anche’essa dall’Unione Africana, stabilisce, nell’articolo 14 sulla salute e i servizi sanitari[27], una serie di criteri molto simili a quelli compresi nell’articolo 24 della Convenzione sui Diritti del Bambino. In contrasto con il carattere di continuità con altri documenti internazionali sui diritti umani, è sorprendente notare che il Protocollo sui Diritti delle Donne in Africa, aggiunto alla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, stabilisce, per la prima volta in un testo giuridico internazionale, il diritto della donna all’aborto in determinate circostanze[28]. Paesi Arabi Nel mondo Arabo troviamo due documenti sui diritti umani. Il primo è la Dichiarazione del Cairo sui Diritti Umani nell’Islam – adottata dalla Conferenza Islamica nel 1990 – che fa riferimento ai diritti alla vita[29] e alla salute[30]. Riguardo al primo, l’eutanasia è esplicitamente proibita in relazione all’obbligo di preservare la vita umana per la durata del tempo stabilita da Dio. Nel 1994 la Lega degli Stati Arabi ha adottato la Carta Araba dei Diritti Umani che riconosce il diritto alla vita, anche se non vieta la pena capitale, e richiede un libero consenso per la sperimentazione su esseri umani[31]. CONCLUSIONI Alla luce di questa analisi, delle convenzioni e delle dichiarazioni universali e regionali sui diritti umani, si possono trarre alcune conclusioni:

1. I documenti sui diritti umani hanno a che fare sia con il diritto alla vita che con il diritto alla salute.

2. Il diritto alla vita solleva due questioni controverse: la pena capitale e il rispetto della vita di feti ed embrioni umani. Mentre in Europa è stato raggiunto l’accordo sull’abolizione della pena capitale, in altre regioni e a livello universale, la regolamentazione è lasciata ai singoli stati.

3. Riguardo alla protezione della vita umana non nata, solo la Convenzione di San Josè riconosce specificamente l’esistenza del diritto alla vita dal momento del concepimento. In generale, i paesi dell’America Latina riconoscono una maggiore tutela giuridica al ‘nascituro’. Tuttavia, in molti di questi paesi l’aborto è lecito in alcune circostanze e le tecniche di riproduzione assistita sono consentite senza particolari limiti per la protezione della vita degli embrioni[32]. Altri documenti lasciano agli stati l’interpretazione del diritto alla vita dei non nati.

4. L’aborto è più o meno depenalizzato nella maggior parte dei paesi del mondo. Ciò non significa che le donne abbiano un diritto all’aborto, ma piuttosto che l’aborto non è punibile. Solo il Protocollo aggiunto alla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli sui Diritti delle Donne in Africa riconosce il diritto della donna all’aborto.

5. Dall’istituzione dell’OMS, i concetti di salute e di diritto alla salute sono diventati estremamente ampi rendendo, quindi, difficile determinare i doveri degli stati per garantire questi diritti. Sebbene vari documenti internazionali sui diritti umani si riferiscano alla tutela della salute e all’assistenza medica quando parlano di diritto alla salute, solo la Carta Sociale Europea li distingue espressamente.

6. Il diritto alla vita gode di un certo numero di meccanismi di protezione giuridica a livello sopranazionale in Europa e nelle Americhe. Ma il diritto alla salute non ha questi strumenti che assicurano la sua tutela effettiva. Ciò è comprensibile se si considera che, per garantire il diritto alla vita, in linea di principio è sufficiente che lo stato si astenga dall’intervenire. Viceversa il diritto alla salute non può essere garantito se lo stato non rende disponibili le necessarie risorse economiche. Nel primo caso il diritto è garantito dall’astensione dello stato mentre, nel secondo, lo stato deve necessariamente intervenire per fornire le risorse e i servizi necessari.

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Inoltre, il concetto di diritto alla salute proposto, è talmente ampio che sarebbe impossibile individuare strumenti di garanzia che lo rendano effettivo.

OGGETTO, CONTENUTO E SOGGETTO DEL DIRITTO ALLA VITA Rispetto all’oggetto del diritto alla vita non sorgono particolari problemi: è la vita di ogni essere umano. Ma i problemi nascono quando si cerca di determinare il contenuto del diritto: riguarda anche il diritto di disporre della propria vita? L’obbligo del rispetto della vita degli esseri umani include anche il divieto della pena capitale? La risposta alla prima domanda, affermativa o negativa, dipende da quale teoria dei diritti prendiamo come riferimento. Se i diritti sono intesi come incarnazione dei desideri preferenziali del soggetto che hanno più valore rispetto ai desideri di tutti gli altri su un determinato argomento, allora il diritto alla vita includerà il diritto di disporre della propria vita. Viceversa, se si ritiene che siano uno strumento di protezione di beni considerati talmente importanti per gli esseri umani che nessuno possa esserne privato, il diritto alla vita includerà anche il dovere di rispettare la propria vita. Questa era l’interpretazione di Kant quando affermò che il suicidio non era una manifestazione del diritto alla vita ma una sua violazione, poiché disponendo della vita di qualcuno, il soggetto non è considerato un fine, ma un semplice mezzo. La questione è se il diritto alla vita sia o meno inalienabile. Tra le caratteristiche fondamentali dei diritti umani – universalità, inviolabilità, inalienabilità e indivisibilità – l’inalienabilità è stata quella più duramente contestata dai teorici del Diritto. Inalienabilità significa che i diritti umani devono essere rispettati dagli stessi titolari che non possono calpestarli o alienarli. Di conseguenza, una persona non ha il diritto di cessare di essere libera, né di rinunciare per sempre alla sua privacy, né di disporre della propria vita. Le dichiarazioni dei diritti, di solito, proclamano la loro natura inalienabile, ma tale natura tende ad essere negata da molti punti di vista filosofici. In merito alla questione se il dovere del rispetto della vita degli esseri umani includa anche il divieto della pena capitale, tale interpretazione, a eccezione dell’Europa, non figura nei documenti internazionali, sebbene questi tendano a manifestare la volontà di abolire la pena capitale secondo un’interpretazione eventualmente più ampia del diritto alla vita. Ciò è particolarmente evidente nella Convenzione di San Josè, che proibisce la restaurazione della pena di morte in quegli stati che l’abbiano già abolita (art. 4.3). Tre tipi di argomentazione sono usati per giustificare la compatibilità della pena di morte con il diritto alla vita. Nel mondo anglofono, il punto di vista più comunemente sostenuto è che chi commette certe azioni perde la propria dignità di persona e quindi non è più degno della tutela dei propri diritti umani, in particolare del diritto alla vita. Si possono sollevare almeno due obbiezioni a questa posizione. Prima di tutto, la dignità umana non dipende dalla condotta morale della persona. I diritti di una persona non esistono, o cessano di esistere, sulla base delle sue qualità morali, ma sono piuttosto intrinseci alla condizione umana. In secondo luogo, un giudizio penale che porti ad una sentenza di morte non è un giudizio giuridico – che stabilisce se l’azione della persona corrisponde ad un determinato atto criminale e, in tal caso, merita la pena adeguata – ma un giudizio etico: una sentenza di morte è un’affermazione in base alla quale si ritiene che un essere umano non meriti più di vivere. Rappresenta quindi un giudizio negativo sull’esistenza di una persona, oltrepassando considerevolmente il tipo di giudizio che compete al Diritto. Un secondo argomento usato per giustificare la legittimità della pena capitale, riguarda la difesa della società. Secondo questo approccio, è lecito porre fine alla vita di coloro che rappresentano una minaccia per la società, purché la minaccia non possa essere eliminata in altro modo. Questo punto di vista potrebbe essere accettabile in termini generali, ma nello specifico, è inconcepibile pensare che la pena di morte possa essere giustificata dal bisogno di salvaguardare il bene comune.

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Un terzo tipo di argomentazione è che le differenze culturali rappresentino una barriera insormontabile. Secondo alcune culture, la pena di morte fa parte della serie di punizioni di cui uno stato si deve poter avvalere per punire chi commette certi crimini. Se le culture, in quanto tali, non possono essere indagate o, dove appropriato, criticate, allora bisogna accettare l’esistenza della pena capitale in alcuni stati. Tuttavia, se riconosciamo il carattere universale dei diritti umani, dobbiamo convenire che essi costituiscono la base necessaria per lo sviluppo delle manifestazioni culturali di una società. I diritti non sono semplicemente il prodotto di una data cultura, essi sono la condizione necessaria per lo sviluppo della vita e della cultura dei popoli. Perciò, e nonostante un drastico cambiamento nelle circostanze future che potrebbero rendere il ricorso alla pena capitale legittimo in alcuni casi eccezionali, sarebbe auspicabile che gli stati e gli organismi internazionali favorissero l’abolizione totale della pena di morte in tutto il mondo. La principale controversia attuale sul diritto alla vita si basa sull’identificazione dei soggetti di tale diritto. Anche in questo caso si può illustrare il problema attraverso tre domande: i nascituri e gli embrioni umani non impiantati sono titolari del diritto alla vita? Lo sono gli animali, o alcuni di essi? Lo sono gli esseri umani in stato vegetativo permanente? Delle tre domande, discuterò in dettagli solo la prima e affronterò le altre solo a grandi linee. Lo status giuridico degli embrioni e dei feti ha riscosso una notevole attenzione nelle discussioni sulla valutazione etica di tre attività estremamente controverse: l’aborto, il congelamento di embrioni e la creazione in laboratorio di embrioni a fini di ricerca. L’aborto. I documenti internazionali sui diritti umani evitano di stabilire un criterio universale che regoli l’aborto, preferendo lasciare agli stati la sua regolamentazione. Neanche la Corte Europea dei Diritti Umani si è espressa sulla possibilità che il nascituro abbia il diritto alla vita[33]. Questa linea riflette i diversi orientamenti adottati dagli stati per affrontare il problema. Si possono individuare almeno quattro approcci diversi: a.- Il nascituro è il soggetto del diritto alla vita è quindi non si può disporre della sua vita. Gli unici due casi in cui l’aborto non è punibile è quando si verifichi un tragico conflitto tra i diritti – la vita della madre vs. il diritto del bambino - o quando la legge non può obbligare la donna ad un comportamento ‘eroico’ (per esempio, costringere la vittima di uno stupro, che abbia avuto come effetto una gravidanza, a portare avanti la gravidanza stessa). Questa è la posizione assunta da diversi paesi dell’America Latina e dall’Irlanda. b.- Il nascituro è il soggetto del diritto alla vita, ma tale diritto può essere subordinato al diritto preferenziale della donna, come accade in Germania dove, sebbene il nascituro sia considerato persona e titolare del diritto alla vita[34], si può ricorrere all’aborto[35] senza particolari problemi. c.- Non si ritiene, o persistono almeno dei dubbi, che il nascituro sia una persona e quindi che detenga il diritto alla vita. Tuttavia, la vita è ritenuta un interesse giuridicamente protetto e la vita umana deve essere protetta dal momento del concepimento, sebbene in determinate circostanze si possa rinunciare a tale protezione a favore di altri interessi giudicati prevalenti.Questa è la posizione assunta dalla Corte Costituzionale spagnola nel 1985 quando si espresse su una questione costituzionale sollevata contro una legge che depenalizzava l’aborto. La posizione è stata adottata in diverse decisioni riguardanti quesiti costituzionali sulle due leggi del 1988, una sulle tecniche di riproduzione assistita e l’altra sulla donazione e l’uso di embrioni e feti umani o di loro cellule, tessuti e organi. d.- Lo stato non si pronuncia sul valore della vita del nascituro, ma sostiene che uno dei diritti fondamentali della persona è quello alla privacy che viene leso se lo stato cerca di imporre la sua volontà alla donna durante la gravidanza. Tale criterio fu formulato dalla famosa sentenza Roe vs. Wade emessa dalla Corte Suprema statunitense nel 1973. Il congelamento di embrioni. Il primo bambino in provetta nacque nel 1978. Per arrivare a questo stadio fu necessario creare molti embrioni e fare ricerche su di essi. Queste ricerche furono possibili grazie al vuoto giuridico cui alcuni paesi hanno cominciato a porre rimedio solo dalla metà degli anni ’80.

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La legislazione sulle tecniche di riproduzione assistita ha riguardato due questioni importanti in relazione alla protezione dell’embrione umano: innanzitutto, se debba essere permessa la creazione di più embrioni rispetto a quelli trasferiti nel grembo della donna e il congelamento di quelli non utilizzati; in secondo luogo, se si possa autorizzare la creazione di embrioni per la ricerca per contribuire al miglioramento delle tecniche riproduttive. In relazione alla prima questione, la posizione tradizionale è stata quella di permettere la fecondazione di un numero di ovuli maggiore rispetto alla quantità necessaria per un primo ciclo di trasferimenti in utero, congelando quelli non utilizzati[36]. L’avvento della possibilità di congelare gli embrioni ha portato alla formazione di una grande quantità di embrioni congelati che sono stati successivamente ‘abbandonati’ dai loro genitori biologici, creando così il problema di cosa farne. Spesso è stato affermato che sia meglio congelarli piuttosto che lasciarli morire. Tuttavia, il motivo del congelamento non era il beneficio dell’embrione, altrimenti si sarebbe presa la decisione di creare solo gli embrioni necessari al trasferimento per ogni ciclo. L’unica ragione per creare più embrioni era ridurre i disturbi causati alla donna dalla stimolazione ovarica e dall’estrazione follicolare. Rispetto al congelamento dell’embrione, dobbiamo chiederci innanzitutto se è contrario o meno al diritto alla vita. Alcuni hanno affermato che questo rappresenti un modo per impedire agli embrioni di non morire e quindi il congelamento non è contrario al diritto alla vita. Altri sostengono che il congelamento rappresenti un’offesa alla dignità degli embrioni in quanto impedisce il loro sviluppo naturale. Al di là della questione se sia lecito o meno il congelamento degli embrioni umani, è sorto un problema estremamente serio riguardo il destino di questi embrioni. Sono state proposte alcune alternative o risposte complementari: donazione ad altre coppie che vogliano riceverli; congelamento indefinito finché il loro sviluppo possa essere garantito; scongelamento; uso sperimentale. Tra tutte le opzioni sostenute, secondo me, lo scongelamento, a differenza delle altre, è l’unica opzione lecita e realistica. Il trasferimento di embrioni congelati ad altre coppie consenzienti è una pratica legittima e estremamente lodevole, ma non risolve del tutto il problema. Creazione e uso di embrioni a scopi riproduttivi. Dal 1998, quando si ottennero per la prima volta in laboratorio cellule staminali embrionali, sono state esercitate notevoli pressione perché si arrivasse a permettere l’uso di embrioni congelati in esperimenti volti ad ottenere linee cellulari staminali. All’improvviso gli embrioni congelati smisero di rappresentare un problema e divennero una risorsa per la ricerca sulle cellule staminali. Ma alcuni andarono oltre, proponendo la creazione di embrioni umani attraverso la fecondazione in vitro e la clonazione per usarli in questo tipo di ricerca. Si sostenne, a favore della clonazione di embrioni a fini di ricerca, che gli embrioni ottenuti in questo modo non dovessero essere chiamati embrioni, né essere trattati alla stregua di quelli ottenuti dalla fusione dei gameti. Dal mio punto di vista, tale forma di clonazione, comunemente ma erroneamente chiamata ‘terapeutica’, è ancora più grave di quella che porta alla nascita di un bambino, poiché implica la creazione della vita umana per essere distrutta. E tuttavia l’opinione pubblica sembra più ostile al secondo tipo di clonazione piuttosto che al primo. Attualmente le Nazioni Unite stanno preparando una Convenzione per assicurare il divieto universale della clonazione umana. L’adozione di un testo appoggiato dalla maggioranza dei paesi sta diventando sempre più difficile poiché un blocco di paesi è favorevole al divieto di clonazione umana in qualsiasi circostanza, mentre altri paesi sono contrari solo alla clonazione a scopi riproduttivi. Finora pochissime leggi nazionali hanno autorizzato la creazione di embrioni umani per la ricerca. Tuttavia, le pressioni per ottenere questa autorizzazione stanno aumentando. Alcuni paesi (Singapore, Israele, Corea del Sud, ecc.) negli ultimi anni hanno emendato le proprie leggi per permettere la creazione di embrioni a scopo di ricerca. Gli animali e il diritto alla vita. Uno dei più famosi filosofi morali del nostro tempo, Peter Singer, è anche il più strenuo difensore dei diritti degli animali[37]. Dal suo punto di vista, riconoscere diritti soltanto ai membri della specie umana rappresenta una forma di ‘specismo’, cioè di discriminazione

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sulla base dell’appartenenza ad una specie. Egli afferma che il valore morale non dovrebbe essere associato all’appartenenza ad una specie, ma alla capacità di provare piacere e dolore. Quindi, la comunità dei soggetti morali verrebbe modificata sostanzialmente e includerebbe anche individui adulti delle specie animali più avanzate, ma escluderebbe anche membri della specie umana con deficit, anche minimi, della capacità di percezione. La posizione di Singer è stata rifiutata dagli ecologisti più radicali e anche da alcuni settori del personalismo. Secondo i primi, usare la capacità di provare piacere e dolore come criterio per l’attribuzione della dignità, è discriminatorio (‘sentienism’), in quanto nega valore morale a forme di vita che non sono in grado di provare sentimenti. Viceversa, i personalisti affermano che solo i soggetti che siano in grado di assumersi delle responsabilità possano essere titolari di diritti e, dato che solo gli esseri umani hanno questa capacità, solo loro sono detentori di diritti. I personalisti sostengono anche che negare diritti agli animali non significhi affatto che l’uomo non abbia degli obblighi importanti nei loro confronti. Il diritto alla vita delle persone in stato vegetativo permanente. Alcuni autori ritengono che quando cessa l’attività del tronco cerebrale non abbiamo più a che fare con un essere umano e quindi sarebbe lecito, e anche doveroso, porre fine alla sua vita fisica. La battaglia per l’approvazione dell’eutanasia fondamentalmente si basa su due concetti: cioè, le persone dovrebbero poter decidere quando porre fine alla loro vita e, in secondo luogo, dovrebbe essere possibile porre fine alle vite di coloro che non recupereranno mai le loro funzioni cerebrali specificatamente umane. Se riteniamo che gli esseri umani non cessino di essere persone solo perché si trovano in uno stato vegetativo permanente, allora non si potrà negare loro il diritto alla vita e le loro vite non potranno essere interrotte. Un’altra questione è decidere in che modo sostenere la loro esistenza e promuovere la loro salute. OGGETTO, CONTENUTO E SOGGETTO DEL DIRITTO ALLA SALUTE Ci sono due aspetti fondamentali del diritto alla salute: il diritto al mantenimento delle condizioni di salute e il diritto all’assistenza medica. In entrambi i casi, l’oggetto del diritto è la salute degli individui e della società. Il problema sorge a causa della mancanza di accordo su cosa si debba intendere col termine ‘salute’. Il concetto più conosciuto è quello espresso nello Statuto dell’OMS: La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattia. Questa definizione, estremamente generica, genera grandi aspettative nella gente e rende difficile definire intermini precisi il contenuto di questi diritti. Questo concetto di salute abbraccia virtualmente tutti gli aspetti della vita umana. Tuttavia, la salute diventa anche una categoria soggettiva, un’aspirazione definita completamente dall’individuo. La ricerca della felicità, menzionata nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti come uno dei diritti inalienabili, insieme alla libertà e all’uguaglianza, è rimpiazzata oggi dalla ricerca della salute. Il concetto corrente di salute ci porta alla nozione di salvezza alla quale è etimologicamente associato. Questa salvezza non è escatologica – non si raggiunge in un’altra vita – ma è piuttosto inerente all’esistenza. La salute-salvezza come traguardo esistenziale si ottiene quando si gode di una sensazione di benessere. Fino a tempi recenti, la salute è stata una categoria teleologica interpretata dai medici che decidevano chi era sano e chi aveva bisogno della loro assistenza professionale. Il lavoro dei medici consisteva nella cura del malato piuttosto che nella soddisfazione delle richieste o dei desideri espressi dagli individui. I medici collaboravano con la natura per ristabilire lo stato di salute dei pazienti oppure rimediavano al danno causato alla natura umana quando questa non era in grado di curarsi da sola. L’esito dell’attività medica non era mai completamente prevedibile e quindi non aveva senso stipulare contratti per garantire un determinato risultato. I medici potevano assumersi solo la responsabilità della realizzazione di alcune attività, ma non del conseguimento di risultati che non potevano garantire in modo certo[38].

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Invece, il nuovo concetto di salute è definito dagli stessi individui. Il ruolo del medico non è più curare quella che lui vede come malattia, ma soddisfare la domanda di assistenza sanitaria degli individui. Il concetto di cooperazione con la natura per curare il paziente è ormai perduto. Oggi, l’arte della medicina non solo guarisce, ma trasforma anche. La relazione medico-paziente acquisisce lo status di un contratto in cui si scambiano dei servizi (e anche dei risultati). In questo nuovo concetto di salute, l’autonomia è il principio etico essenziale che regola la relazione medico-paziente. Il paziente ha una sua idea di salute che vorrebbe vedere realizzata e il medico è lì per realizzarla. L’enorme e recente progresso fatto dalla medicina estetica, dalla riproduzione artificiale e dall’uso di psicofarmaci per scopi diversi dalla cura di patologie, sono tutte prove della trasformazione della medicina, a causa della quale la salute è oggi confusa con il desiderio. Attualmente non si realizzano interventi genetici sulla linea germinale in esseri umani. Questi sono vietati da molte leggi nazionali e internazionali (compresa la Convenzione Europea sui Diritti Umani e la Biomedicina e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e il Genoma Umano). In un futuro non molto lontano, tuttavia, sorgerà la questione se tali interventi debbano essere proibiti, se debbano essere autorizzati solo per l’eliminazione di condizioni genetiche molto pericolose o se debbano essere usati per modificare le caratteristiche genetiche della nostra discendenza. Naturalmente, il concetto di salute prevalente in quel momento, determinerà la risposta a queste domande. Il concetto soggettivistico di salute ha tre importanti conseguenze. Impedisce l’elaborazione di un concetto condiviso di salute pubblica, causa lo spostamento dell’assistenza sanitaria verso il settore privato e tende anche a trascurare i problemi di giustizia globale in ambito sanitario. 1.- Se la salute è un concetto elaborato dagli individui, in opposizione ad una ‘norma naturale’ che regola la vita delle persone, allora, in linea di principio, un accordo sull’interpretazione della salute pubblica, si raggiungerà solo al livello del minimo comune denominatore e le misure adottate saranno rarissime. Questo già succede in molti casi con ripercussioni drammatiche sulla salute di intere popolazioni. Fino a relativamente poco tempo fa, per esempio, difendere l’astinenza sessuale o la necessità di limitare i rapporti sessuali ai partner abituali, come modo più efficace di combattere l’AIDS era un taboo. Allo stesso modo, lo scarso interesse rivolto ai problemi dell’inquinamento in molte città, ha comportato l’insorgenza di seri problemi di salute nei bambini. Questa mancanza di attenzione verso alcuni aspetti di sanità pubblica, è accompagnata dallo sviluppo di politiche di sanità pubblica in altre aree sanitarie, in relazione ai costi finanziari e sociali di certe attività o stili di vita: l’obbligo dell’uso delle cinture di sicurezza e del casco, le restrizioni nella vendita di alcolici, gli screening per il tumore al seno ad una certa età, ecc. 2.- Il concetto di salute condiziona il contenuto del diritto all’assistenza medica. Se la salute è considerata una norma naturale – un principio teleologico che governa la vita di tutti gli esseri umani -, il diritto alla salute comprenderà normalmente un dovere, da parte delle autorità pubbliche, di garantire l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini per permettere loro di sviluppare la propria vita personale e sociale. Viceversa, se la salute è identificata con il desiderio individuale, il contenuto del diritto alla salute sarà considerevolmente limitato. Esso garantirà la libertà delle persone di procurarsi l’assistenza sanitaria da loro preferita e lo stato sarà responsabile semplicemente della qualificazione di chi fornirà questi servizi e della sicurezza ed efficacia dei test diagnostici e dei trattamenti. 3.- Infine, il concetto di salute condiziona anche la politica sanitaria a livello internazionale. Se si sostiene un concetto soggettivo di salute, è accettabile che i criteri della sperimentazione umana varino da paese a paese. Il punto non sarà assicurare una copertura sanitaria di base nel mondo. La distanza tra i ricchi e i poveri aumenterà, poiché le risorse che dovrebbero essere utilizzate per combattere i più gravi problemi sanitari nei paesi poveri, saranno invece utilizzate per sviluppare una medicina del piacere in quelli più ricchi. Quindi, le differenze economiche saranno accompagnate da differenze sempre più grandi nei livelli di assistenza sanitaria. Queste forti differenze potrebbero essere ben poca cosa rispetto alle differenze che si potrebbero creare se gli interventi genetici fossero usati per

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migliorare la specie umana[39], tra esseri umani ‘geneticamente avanzati’ ed esseri umani ‘geneticamente naturali’. Al di là di questi dubbi riguardanti il concetto di salute, sorgono dubbi anche rispetto alla stessa esistenza del diritto alla salute. Vari argomenti sono usati a sostegno di questo punto di vista: 1.- I diritti sociali – e, di conseguenza, il diritto alla salute – non esistono. I diritti garantiscono solo le libertà negative, cioè gli spazi in cui possono agire coloro che possiedono i diritti, senza che nessun altro interferisca. Lo stato si astiene dal limitare gli individui e garantisce i meccanismi necessari ad assicurare la giustizia nei casi in cui sia stato leso un diritto. Questo approccio è adottato solo dalle posizioni liberali più estremiste. 2.- Gli unici diritti sociali che esistono sono quelli che possiedono un’adeguata garanzia giuridica che gli conferisce efficacia. Poiché il diritto alla salute non possiede queste garanzie, non può essere propriamente considerato un diritto. In molte Costituzioni, il diritto all’educazione – un diritto sociale – gode degli stessi meccanismi costituzionali di tutela riconosciuti ai diritti civili e politici. Questo è l’unico diritto sociale a beneficiare di tale status, ma esiste solo in un ridotto numero di paesi. Altri diritti sociali, tra cui la salute, ricevono semplicemente una tutela derivata dalle leggi emanate per rendere effettivo il contenuto dei diritti. In sostanza, l’inclusione di tali diritti nelle costituzioni, e ancora di più nei documenti giuridici internazionali, è finalizzata unicamente a stabilire un principio guida per le politiche economiche e sociali degli stati. 3.- I diritti umani sono universali, ma poiché i diritti sociali non lo sono, questi non possono essere considerati diritti umani. C’è accordo sul fatto che il contenuto del diritto alla salute sia fortemente condizionato dalla capacità economica di uno stato e dalle sue politiche pubbliche. Né le misure adottate per preservare la salute, né la fornitura dell’assistenza sanitaria sono, o possono essere, le stesse o simili in un paese ricco e in uno povero, in un paese più socialista e in uno più liberale. Definire il soggetto del diritto alla salute può anche rivelarsi problematico. Se facciamo riferimento alle condizioni per preservare la salute degli individui e delle popolazioni, dovremmo ritenere che il soggetto sia la società, più che l’individuo. Ciò solleva la controversa questione se i diritti siano puramente individuali o se possano essere considerati anche collettivi. Credo che per sostenere l’esistenza del diritto alla salute, non bisogna necessariamente mettere in dubbio il concetto che i diritti sono sempre individuali. È stato affermato che il diritto individuale alla salute(la libertà di disporre della propria salute) entri in conflitto con il diritto collettivo e che, in questi casi, sono spesso necessarie decisioni drammatiche. La Libertà individuale di fumare o di rifiutare un vaccino entrerebbe in conflitto, quindi, con il diritto della società di respirare aria sana in spazi pubblici al chiuso o di non rischiare di prendere un’infezione. Dal mio punto di vista, non è corretta la premessa principale su cui si fondano tali conflitti, poiché il contenuto della libertà individuale riguardante la propria salute non comprende il potere di mettere a rischio la salute di altri.

[1] ART. 6: 1.Il diritto alla vita è inerente alla persona umana. Questo diritto deve esser protetto dalla legge. Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita. 2. Nei paesi in cui la pena di morte non è stata abolita, una sentenza capitale può essere pronunciata soltanto per i delitti più gravi, in conformità alle leggi vigenti al momento in cui il delitto fu commesso e purché ciò non sia in contrasto né con le disposizioni del presente Patto né con la Convenzione per la prevenzione e la punizione del delitto di genocidio. Tale pena può essere eseguita soltanto in virtù di una sentenza definitiva resa da un tribunale competente.

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3. Quando la privazione della vita costituisce delitto di genocidio resta inteso che nessuna disposizione di questo articolo autorizza uno Stato Parte del presente Patto a derogare in alcun modo a qualsiasi obbligo assunto in base alle norme della Convenzione per la prevenzione e la punizione del delitto di genocidio. 4. Ogni condannato a morte ha il diritto di chiedere la grazia o la commutazione della pena. L'amnistia, la grazia o la commutazione della pena di morte possono essere accordate in tutti i casi. 5. Una sentenza capitale non può essere pronunciata per delitti commessi dai minori di 18 anni e non può essere eseguita nei confronti di donne incinte. 6. Nessuna disposizione di questo articolo può essere invocata per ritardare o impedire l'abolizione della pena di morte ad opera di uno StatoPparte del presente Patto. [2] I protocolli addizionali al Patto possono essere ratificati o meno dagli Stati Parti. Se ratificati, assumono lo stesso valore vincolante del Patto. Secondo Protocollo Opzionale al Patto sui Diritti Civili e Politici per l’Abolizione della Pena di Morte, adottato il 15 dicembre 1989 con la Risoluzione 44/128. [3] ART. 7: Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico. [4] ART. 12: 1. Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo a godere delle migliori condizioni di salute fisica e mentale che sia in grado di conseguire. 2. Le misure che gli Stati Parti del presente Patto dovranno prendere per assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno quelle necessarie ai seguenti fini: (a) la diminuzione del numero dei nati-morti e della mortalità infantile, nonché il sano sviluppo dei fanciulli; (b) il miglioramento di tutti gli aspetti dell’igiene ambientale e industriale; (c) la profilassi, la cura e il controllo delle malattie epidemiche, endemiche, professionali e d’altro genere; (d) la creazione di condizioni che assicurino a tutti servizi medici e assistenza medica in caso di malattia. [5] ART 10: Gli Stati Parti del presente Patto riconoscono che: 1. La protezione e l’assistenza più ampia che sia possibile devono essere accordate alla famiglia, che è il nucleo naturale e fondamentale della società, in particolare per la sua costituzione e fin quando essa abbia la responsabilità del mantenimento e dell’educazione di figli a suo carico. Il matrimonio deve essere celebrato con il libero consenso dei futuri coniugi. 2. Una protezione speciale deve essere accordata alle madri per un periodo di tempo ragionevole prima e dopo il parto. Le lavoratrici madri dovranno beneficiare, durante tale periodo, di un congedo retribuito o di un congedo accompagnato da adeguate prestazioni di sicurezza sociale. 3. Speciali misure di protezione e di assistenza devono essere prese in favore di tutti i fanciulli e gli adolescenti senza discriminazione alcuna per ragioni di filiazione o per altre ragioni. I fanciulli e gli adolescenti devono essere protetti contro lo sfruttamento economico e sociale. Il loro impiego in lavori pregiudizievoli per la loro moralità o per la loro salute, pericolosi per la loro vita, o tali da nuocere al loro normale sviluppo, deve essere punito dalla legge. Gli Stati devono altresì fissare limiti di età al di sotto dei quali il lavoro salariato di manodopera infantile sarà vietato e punito dalla legge. [6] Principio 4:Il bambino deve beneficiare della sicurezza sociale. Deve poter crescere e svilupparsi in modo sano. A tal fine devono essere assicurate, a lui e alla madre le cure mediche e la protezione sociale adeguata, specialmente nel periodo precedente e seguente alla nascita. Il bambino ha diritto ad una alimentazione, a un alloggio, a svaghi e a cure mediche adeguati.

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Principio 5: Il bambino che si trova in situazioni di minorazione fisica, mentale o sociale ha diritto a ricevere il trattamento, l'educazione e le cure speciali di cui abbisogna per il suo stato o per la sua condizione. [7] Articolo 24: 1.Gli Stati parti riconoscono il diritto del minore di godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici e di riabilitazione. Essi si sforzano di garantire che nessun minore sia privato del diritto di avere accesso a tali servizi. 2. Gli Stati parti si sforzano di garantire l’attuazione integrale del summenzionato diritto e in particolare adottano ogni adeguato provvedimento per: a) diminuire la mortalità tra i bambini lattanti e i fanciulli; b) assicurare a tutti i minori l’assistenza medica e le cure sanitarie necessarie, con particolare attenzione per lo sviluppo delle cure sanitarie primarie; c) lottare contro la malattia e la malnutrizione, anche nell’ambito delle cure sanitarie primarie, in particolare mediante l’utilizzazione di tecniche agevolmente disponibili e la fornitura di alimenti nutritivi e di acqua potabile, tenendo conto dei pericoli e dei rischi di inquinamento dell’ambiente naturale; d) garantire alle madri adeguate cure prenatali e postnatali; e) fare in modo che tutti i gruppi della società, in particolare i genitori e i minori, ricevano informazioni sulla salute e sulla nutrizione del minore, sui vantaggi dell’allattamento al seno, sull’igiene e sulla salubrità dell’ambiente e sulla prevenzione degli incidenti e beneficino di un aiuto che consenta loro di mettere in pratica tali informazioni; f) sviluppare le cure sanitarie preventive, i consigli ai genitori e l’educazione e i servizi in materia di pianificazione familiare. 3. Gli Stati Parti adottano ogni misura efficace atta ad abolire le pratiche tradizionali pregiudizievoli per la salute dei minori. 4. Gli Stati parti si impegnano a favorire e incoraggiare la cooperazione internazionale in vista di ottenere gradualmente una completa attuazione del diritto riconosciuto nel presente articolo. A tal fine saranno tenute in particolare considerazione le necessità dei paesi in via di sviluppo. [8] Articolo 1: Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile [9] Gli Stati Parti di questa Costituzione dichiarano, in conformità con quanto espresso nella Carta delle Nazioni Unite, che i seguenti principi sono fondamentali per la felicità, l’armonia delle relazioni e la sicurezza di tutti: La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie. Il godimento del più alto livello di salute possibile è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano senza distinzioni di razza, religione, appartenenza politica, condizioni economiche o sociali. La salute di tutti i popoli è fondamentale per il raggiungimento della pace e della sicurezza e dipende dalla piena collaborazione tra individui e stati. La promozione e la tutela della salute da parte degli stati rappresenta un vantaggio per tutti. Lo sviluppo disuguale nei vari paesi nella promozione della salute e nel controllo delle malattie, specialmente quelle trasmissibili, è un pericolo per tutti. Lo sviluppo sano del bambino è di fondamentale importanza; la possibilità di vivere armoniosamente in un ambiente globale mutevole è essenziale per questo sviluppo. La partecipazione di tutti ai benefici provenienti dalle conoscenze mediche,psicologiche e da altre conoscenze ad esse collegate, è essenziale per il raggiungimento della salute più piena. La conoscenza e la cooperazione attiva da parte del pubblico hanno la massima importanza nel miglioramento della salute della popolazione.

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I governi sono responsabili della salute dei cittadini che può essere garantita solo attraversoadeguate misure sanitarie e sociali. [10] Articolo 4: 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita. Tale diritto è protetto dalla legge e, in generale, dal momento del concepimento. Nessuno sarà arbitrariamente privato della vita. 2. Nei paesi che non hanno abolito la pena di morte, questa può essere imposta solo per i crimini più gravi e a seguito di una sentenza definitiva emessa da un tribunale competente e in base ad una disposizione di legge che preveda tale punizione, adottata prima della commissione del crimine. L’esecuzione della pena capitale non si estende ai crimini per i quali essa non è attualmente prevista. 3. La pena di morte non sarà reintrodotta negli Stati che l’hanno abolita. 4. In nessun caso la pena capitale sarà inflitta per reati politici o per reati comuni connessi a reati politici. 5. La pena capitale non sarà inflitta a persone che, al momento in cui il crimine è stato commesso, erano minori di 18 anni o di età superiore ai 70 anni; non sarà applicata a donne incinte. 6. Ogni persona condannata a morte ha il diritto di chiedere l’amnistia, la grazia o la commutazione della pena; tale diritto sarà garantito in ogni caso. La pena di morte non sarà eseguita durante il tempo in cui la decisione su tale petizione pende davanti all’autorità competente. [11] Articolo 10: 1. Ognuno ha diritto alla salute, inteso come il godimento del più alto livello di benessere fisico, mentale e sociale. 2. Per garantire l’esercizio del diritto alla salute, gli Stati Parti concordano nel riconoscere la salute come un bene pubblico e, soprattutto, nell’adottare le seguenti misure per assicurare tale diritto: a. Assistenza sanitaria primaria, cioè cure sanitarie di base disponibili per tutti gli individui e le famiglie della comunità; b. Estensione dei benefici dei servizi sanitari a tutti gli individui sotto la giurisdizione dello Stato; c. Vaccinazione di tutta la popolazione contro le principali malattie infettive; d. Prevenzione e trattamento di malattie endemiche, occupazionali e di altro tipo. e. Educazione della popolazione alla prevenzione e al trattamento dei problemi di salute, e f. Soddisfacimento delle necessità sanitarie dei gruppi più a rischio e di quelli più vulnerabili a causa della povertà. [12] Articolo 2: 1. Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il delitto è punito dalla legge con tale pena. 2. La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: a) per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale; b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o una insurrezione [13] Articolo 3: Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. [14] La Carta fu completamente modificata nel 1996 e riaperta alla firmae alla ratifica degli Stati Membri del Consiglio d’Europa. Entrò in vigore nel 1999. [15] Articolo 11 – Diritto alla protezione della salute Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto alla protezione della salute, le Parti s’impegnano ad adottare sia direttamente sia in cooperazione con le organizzazioni pubbliche e private, adeguate misure volte in particolare:

1. ad eliminare per, quanto possibile, le cause di una salute deficitaria;

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2. a prevedere consultori e servizi d’istruzione riguardo al miglioramento della salute ed allo sviluppo del senso di responsabilità individuale in materia di salute;

3. a prevenire, per quanto possibile, le malattie epidemiche, endemiche e di altra natura, nonché gli infortuni.

[16] Articolo 13 – Diritto all’assistenza sociale e medica Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto all’assistenza sociale e medica, le Parti s’impegnano:

1. ad accertarsi che ogni persona che non dispone di risorse sufficienti o che non è in grado di procurarsi tali risorse con i propri mezzi o di riceverli da un’altra fonte, in particolare con prestazioni derivanti da un regime di sicurezza sociale, possa ottenere un’assistenza adeguata e, in caso di malattia, le cure di cui necessita in considerazione delle sue condizioni;

2. ad accertarsi che le persone che beneficiano di tale assistenza non subiscano in ragione di ciò, una diminuzione dei loro diritti politici o sociali;

3. a prevedere che ciascuno possa ottenere mediante servizi pertinenti di carattere pubblico o privato, ogni tipo di consulenza e di aiuto personale necessario per prevenire, eliminare o alleviare lo stato di bisogno personale e familiare;

4. ad applicare, a parità con i loro concittadini, le disposizioni di cui ai paragrafi 1, 2 e 3 del presente articolo ai cittadini delle altre Parti che si trovano legalmente sul loro territorio in conformità con gli obblighi assunti ai sensi della Convenzione europea di assistenza sociale e medica firmata a Parigi l’11 dicembre 1953.

[17] Fino ad oggi sono stati adottati tre Protocolli addizionali: sulla clonazione umana (1998), sui trapianti di organi e tessuti umani (2002), sulla ricerca biomedica (2004). [18] Articolo 18 – Ricerca sugli embrioni in vitro 1. Quando la ricerca sugli embrioni in vitro è ammessa dalla legge, questa assicura una protezione adeguata all’embrione. 2. La costituzione di embrioni umani a fini di ricerca è vietata. [19] Il rapporto esplicativo della Convenzione, in relazione all’articolo 1, afferma: La Convenzione usa anche l’espressione “essere umano” per affermare la necessità di proteggere la dignità e l’identità di tutti gli esseri umani. È stato riconosciuto come generalmente accettato il principio che la dignità umana e l’identità dell’essere umano debbano essere rispettati dal momento in cui inizia la vita (n. 19). [20] Articolo II-2: Diritto alla vita.

• Ogni individuo ha diritto alla vita. • Nessuno può essere condannato alla pena di morte, né giustiziato.

[21] Articolo IV-35: Protezione della salute Ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana. [22] Articolo I-3: Diritto all’integrità della persona 1. Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: (a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge, (b) il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone, (c) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro, (d) il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani. [23] Nel 2002 questa Organizzazione fu sciolta e sostituita dall’Unione Africana, creata sul modello dell’Unione Europea.

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[24] Articolo 4: La persona umana è inviolabile. Ogni essere umano ha diritto al rispetto della sua vita e all’integrità fisica e morale della sua persona. Nessuno può essere arbitrariamente privato di questo diritto. [25] Articolo 16: 1. Ogni persona ha il diritto di godere del migliore stato di salute fisica e mentale che essa sia in grado di conseguire. 2. Gli Stati Parti alla presente Carta si impegnano a prendere le misure necessarie al fine di proteggere la salute delle loro popolazioni e di assicurare loro l’assistenza medica in caso di malattia. [26] Articolo 18: La famiglia è l’elemento naturale e la base della società. Essa deve essere protetta dallo stato che deve vegliare sulla sua salute fisica e morale [27] Articolo 14: 1. Ogni bambino ha diritto al miglior stato di salute fisica, psichica e spirituale possibile. 2. Gli Stati Parti alla presente Carta si impegnano per la piena realizzazione di questo diritto e in particolare prendono misure: (a) per ridurre il tasso di mortalità infantile; (b) per garantire l’assistenza medica necessaria e le cure sanitarie a tutti i bambini, ein particolar modo lo sviluppo dell’assistenza sanitaria primaria; (c) per garantire un’adeguata nutrizione e l’accesso ad acqua potabile sicura; (d) per combattere malattie e malnutrizione nel quadro dell’assistenza sanitaria primaria attraverso l’applicazione di tecnologie adeguate; (e) per assicurare un’assistenza sanitaria adeguata alle donne in stato di gravidanza e durante l’allattamento; (f) per sviluppare la prevenzione sanitaria, l’educazione alla vita familiare e la fornitura di servizi; (g) per integrare programmi sanitari di base in piani di sviluppo nazionale; (h) per garantire che tutti i settori della società, in particolare genitori, bambini, leader dicomunità e lavoratori, siano informati e supportati nell’uso delle conoscenze di base sulla salute e la nutrizione pediatrica, i vantaggi dell’allattamento al seno, l’igiene e la salute ambientale, e la prevenzione di incidenti domestici edi altro tipo; (i) per assicurare una significativa partecipazione di organizzazioni non governative, comunità locali e della popolazione alla pianificazione e gestione di un programma dei servizi di base per il bambino; (j) per supportare, tecnicamente e finanziariamente, la mobilitazione di risorse della comunità locale per lo sviluppo dell’assistenza sanitaria di base per i bambini. [28] Articolo 14: Diritti in materia di salute e salute riproduttiva 1. Gli Stati Parti assicurano che il diritto delle donne alla salute, compresa la salute sessuale e riproduttiva, sia rispettato e sostenuto. Tale diritto comprende: a) il diritto al controllo sulla propria fertilità; b) il diritto di decidere se avere o non avere figli, il numero di figli e la distanza tra una gravidanza e l’altra; c) il diritto di scegliere l’uno o l’altro mezzo di contraccezione; d) il diritto di tutelarsi e di essere tutelate in relazione alle infezione sessualmente trasmesse, compreso l’HIV/AIDS; e) il diritto di ogni donna ad essere informata in merito al proprio stato di salute e allo stato di salute del proprio partner, in particolare nel caso sia affetto da infezione sessualmente trasmissibile, compreso l’HIV/AIDS, nel rispetto degli standard e delle migliori pratiche internazionalmente riconosciuti; f) il diritto all’educazione alla pianificazione familiare. 2. Gli Stati Parti assumono misure adeguate al fine di: a) fornire servizi sanitari adeguati, a buon prezzo e accessibili, compresi programmi di informazione, di educazione e di comunicazione per le donne, in particolare le donne in aree rurali;

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b) istituire e rafforzare i servizi sanitari e nutrizionali per il parto e le fasi pre- e post-parto e prenatali già esistenti per le donne durante la gravidanza e l’allattamento al seno; c) proteggere i diritti riproduttivi delle donne autorizzando l’aborto terapeutico nei casi di violenza sessuale, stupro, incesto e quando la continuazione della gravidanza comporterebbe pericolo per la salute mentale e fisica della donna o per la vita della donna o del feto. [29] Articolo 2: a) La vita è un dono dato da Dio e il diritto alla vita è garantito ad ogni essere umano. E’ dovere degli individui, delle società e degli Stati proteggere questo diritto da ogni violazione ed è vietato sopprimere la vita tranne che per una ragione prescritta dalla Shari’ah. b) E’ proibito ricorrere ai mezzi che possono provocare il genocidio dell’umanità. c) La difesa della vita umana nel disegno di Dio è un dovere prescritto dalla Shari’ah. d) L’integrità fisica è un diritto garantito. E’ dovere dello Stato proteggerlo ed è vietato infrangerlo senza una ragione prescritta dalla Shari’ah [30] Articolo 17: a) Ognuno ha il diritto di vivere in un ambiente sano, immune dal vizio e dalla corruzione morale, in un ambiente che favorisca il suo autosviluppo; incombe sullo Stato e sulla società in generale il dovere di rispettare tale diritto. b) Ognuno ha il diritto all’assistenza medica e a ogni pubblica agevolazione fornita dalla società e dallo Stato nei limiti delle loro risorse disponibili. c) Lo Stato assicurerà il diritto dell’individuo a una vita dignitosa che gli consenta di rispondere a tutte le esigenze proprie e a quelle che dipendono da lui, compresa l’alimentazione, il vestiario, l’alloggio, l’educazione, le cure mediche e ogni altro bisogno essenziale. [31] Articolo 5: Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona. La legge protegge tali diritti. Articolo 10: La pena di morte può essere imposta solo per i crimini più gravi e chiunque sia stato condannato a morte ha il diritto di chiedere la grazia o la commutazione della pena. Articolo 11: In nessun caso è ammessa la pena di morte per reati politici. Articolo 12: La pena di morte non può essere eseguita sui minori di diciotto anni, su donne in gravidanza fino al parto o su donne con figli in tenera età se non siano trascorsi due anni dalla data del parto. Articolo 13: b) Nessun individuo sarà oggetto di esperimenti medici o scientifici senza il suo libero consenso. [32] L’unico paese che ha dichiarato incostituzionale la legislazione tesa a regolare le tecniche di riproduzione assistita è stato il Costa Rica secondo il quale il rischio posto alla vita degli embrioni da queste tecniche era sproporzionato. [33] Nel 1991 la signora Vo, al sesto mese di gravidanza, subì un’operazione nel corso della quale fu perforato erroneamente il sacco amniotico del feto, rendendo necessario un aborto terapeutico. La donna chiamò in causa il medico e la Corte di Cassazione francese, alla fine, stabilì che il medico non aveva alcuna responsabilità penale. La signora Vo impugnò il verdetto presso la Corte Europea dei Diritti Umani. Questa, nella sentenza dell’8 luglio 2004, stabilì che spettava al singolo stato decidere se l’articolo 2 della Convenzione Europea sui Diritti Umani fosse applicabile al nascituro. [34] Proprio perché il feto è titolare di diritti, la Germania richiede che ogni donna che voglia abortire debba prima essere informata, presso un centro accreditato, sulle implicazioni dell’aborto e sulle possibili alternative. La Chiesa Cattolica gestisce questi consultori per le donne, ma da qualche anno, non emette più i certificati richiesti alle donne per poter abortire. [35] La Corte Costituzionale Tedesca si è espressa in tema di aborto in due occasioni: nel 1975, quando si espresse in merito ad un ricorso costituzionale contro la legge che depenalizzava l’aborto, e nel 1993, quando ci fu l’opposizione alla nuova regolamentazione dell’aborto successiva alla riunificazione. Rhonheimer, M., Derecho a la vida y Estado moderno, Rialp, Madrid, 1998, pp. 40 e seg.

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[36] In Germania, la legge sulla protezione degli embrioni vieta che siano creati più embrioni di quelli che saranno trasferiti in utero e ne vieta altresì il congelamento. Tuttavia, permette il congelamento dell’ovulo in cui sia penetrato le spermatozoo senza che abbia avuto luogo la fusione dei due nuclei. Ciò porta alla domanda relativa a quando inizi ad esistere l’embrione. [37] Singer, P., Animal Liberation, Pimlico, London, 1995. [38] Cfr. Kass, L. R. Towards a more natural science, The Free Press, New York, 1985, pp. [39] Cfr. Silver, L., Remaking Eden. Cloning and beyond in a new brave world, Weideneld and Nicolson, London, 1998.

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ALEJANDRO SERANI-MERLO, PEDORO PAULO MARÍN LARRAÍN, BEATRIZ ZEGERS PRADO QUALITÀ DELLA VITA IN GERIATRIA RIASSUNTO Nelle società moderne la longevità sta dando luogo ad una rivoluzione demografica senza precedenti. La geriatria è in grado di affrontare questo fenomeno da un punto di vista clinico, ma anche di antropologia medica. La suddivisione in stadi della vita umana può essere utile, ma implica un certo grado di arbitrarietà; attualmente l’immagine delle persone oltre i 65 anni di età è drammaticamente cambiata. Il declino della forza e delle capacità è solo una parte del processo di invecchiamento. Molte persone anziane sperimentano un’aumentata autocoscienza e un progresso nell’autonomia personale che non è incompatibile con la dipendenza fisica e i disturbi fisici. Da un punto di vista clinico, proponiamo che la qualità di vita sia intesa in tre modi diversi: 1) essenziale; 2) accidentale o obbiettivo e 3) personale o soggettivo. Questo approccio differenziato alla qualità di vita permette di capire la complessità del concetto, di riconoscere la verità di ciascuna prospettiva e di articolarle in un ordine unitario e gerarchico. INTRODUZIONE Attualmente si vive più a lungo che in passato; questo sembra essere un dato incontrovertibile. Tuttavia, ad un’analisi più attenta del fenomeno, ci si accorge che i dettagli e le implicazioni per la società e la medicina sono argomenti un po’ meno scontati. Il dato comincia ad avere senso se si considera che oggi, nella maggior parte dei paesi, ogni persona che raggiunga i 65 anni di età in uno stato di salute relativamente buono, ha un’aspettativa di vita media di circa venti anni ancora. Se si considera che la proporzione di tutta la popolazione che oggi ha raggiunto i 65 anni in buone condizioni di salute è molto maggiore che in passato, allora si avranno gli elementi necessari per giungere alla conclusione che le società moderne devono confrontarsi con un fenomeno demografico sociale unico nella storia dell’umanità[1]. Siamo solo agli inizi di un confronto con le sfide che questa nuova situazione demografica sta portando alle nostre culture in vari settori: medico, psicologico, sociale, economico e politico. La geriatria e il fenomeno dell’invecchiamento umano La geriatria contemporanea è in grado di affrontare questo problema da due prospettive diverse, ma complementari: il punto di vista dell’antropologia medica, e il punto di vista clinico. Per prima cosa illustreremo la gamma di prospettive dell’antropologia medica, in seguito le completeremo con alcune riflessioni cliniche. Un punto di vista di antropologia medica Il primo argomento riguarda la ragionevolezza della divisione della vita umana in stadi. La vita umana è fondamentalmente un continuum. Se accettiamo questo fatto, la distinzione in stadi definiti, anche se non completamente destituita di fondamento, appare sostanzialmente arbitraria. Nella Roma di S. Agostino le persone erano considerate giovani fino all’età di 50 anni e la vita matura era compresa tra i 50 e i 70. Nella nostra epoca, per esempio, all’età di 18 anni le persone sono considerate

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sufficientemente mature per esprimere il proprio voto, ma non per essere elette. Una persona sana di 60 anni può svolgere delle attività fisiche che una persona malata di 20 anni non può svolgere, e così via. Tutte queste considerazioni, e molte altre ancora, mostrano con sufficiente evidenza che non esistono limiti naturali assoluti e definiti tra i vari stadi della vita umana. In questo senso si può dire che l’anzianità sia più un pregiudizio culturale che una categoria naturale. Con questo non si vuole negare che esistano fatti naturali che giustificano il riconoscimento di modificazioni lungo il ciclo di vita e che tale riconoscimento abbia implicazioni per gli individui e per la società. Uno dei fatti naturali più generali e palesi è che diventare anziani implica la perdita di qualcosa[2]. Alcune capacità acquisite durante lo sviluppo non sono più operative o iniziano a perdersi. Questa realtà biologica e psicologica è forse la causa più importante della sofferenza personale e della stigmatizzazione sociale e rappresenta la sfida più importante che devono affrontare gli individui e la società per far fronte al fenomeno dell’invecchiamento. In contrasto con questa manifesta diminuzione delle capacità fisiche e psicologiche, gli anziani sperimentano il permanere, e anche l’aumento, dell’autoscienza[3]. Tuttavia, questo aspetto cruciale della realtà, non è facilmente riscontrabile da analisi esterne compiute da altre persone. Di conseguenza, l’incapacità di altre persone di afferrare e apprezzare la ricchezza di questa vita interiore rappresenta probabilmente il fattore che più contribuisce a generare il sentimento negativo e il generale e inquietante pregiudizio che la nostra società, globalmente intesa, ha contro gli anziani e che gli anziani hanno contro se stessi. L’antropologia medica non deve solo esaminare le manifestazioni universali dell’invecchiamento nella vita personale, ma deve anche studiare le varianti principali dell’esperienza umana nel processo di fronteggiamento dell’invecchiamento; in tale contesto l’antropologia, la sociologia e la psicologia si completano e chiariscono reciprocamente. La psicologia e la sociologia possono illustrare il fenomeno culturale del rifiuto dell’invecchiamento, la sua realtà e il suo significato[4]. Alcune metafore applicate alla comprensione della vita umana, sono di solito utilizzate per comprendere l’invecchiamento. La vita può essere paragonata ad un viaggio, attraverso un fiume, come una missione, come un progetto. Ognuna di queste metafore focalizza un aspetto reale della vita ed è più o meno pertinente per capire il momento particolare che vivono gli anziani. Insieme ci offrono un approccio globale a noi stessi. Da un punto di vista più propriamente medico o clinico, e basandosi sui fatti summenzionati, si potrebbe denunciare la dicotomia della geriatria che allo stesso tempo è e non è una branca separata della medicina. In un certo senso la geriatria non è più che l’applicazione di principi generali della medicina per adulti ad alcuni pazienti particolari. In un altro senso la geriatria potrebbe essere vista come una specialità a parte, dato che il geriatra ha un interesse, una qualificazione e un’esperienza particolari in relazione all’antropologia di questo gruppo di pazienti, alle manifestazioni più frequenti delle malattie e alla sua risposta ai trattamenti e alla riabilitazione. Si potrebbe anche dire che, da un punto di vista strettamente clinico, l’attenzione medica verso gli anziani sia spesso la sfida più complessa, interessante e impegnativa per i clinici esperti. TRE SIGNIFICATI DIVERSI PER UNA PAROLA E TRE APPROCCI DIVERSI ALLO STESSO PAZIENTE Qualità di vita essenziale Cosa si può dire della qualità di vita nei pazienti geriatrici? A questo punto sarebbe molto pertinente una distinzione filosofica (aristotelica). Da un punto di vista ontologico la qualità ha due significati fondamentali correlati, ma separati: quello sostanziale e quello accidentale. Dal punto di vista sostanziale, la qualificazione di ogni essere umano è legata alla sua essenza. In questo senso la qualità è un fenomeno totale o nullo. Gli enti naturali sono qualificati solo in base a ciò che sono in modo

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assoluto. La qualificazione sostanziale di un essere non ammette gradazioni, né modifiche[5]. In questo senso principale e fondamentale, gli anziani in nessun caso sono diversi da quello che erano in gioventù o dalle altre persone. Essi hanno uguale dignità e stessi diritti. Questa classica e semplice distinzione filosofica è un punto estremamente importante che un’educazione medica di stampo materialistico può facilmente ignorare. La vita umana, in questo senso fondamentale e primario, non si può considerare come avente più o meno qualità. Ogni vita umana ha valore per se stessa, in un senso assoluto, non qualificabile. Qualità di vita accidentale (obbiettiva) Nel suo secondo significato la qualità si riferisce alla qualificazione accidentale della sostanza e in questo senso la sua intensità può essere maggiore o minore. In tutte le entità sostanziali si può riconoscere quindi un grado maggiore o minore di qualche qualità[6]. In questo senso possiamo dire che alcune persone hanno, rispetto ad altre, una vita più ricca o più povera da un punto di vista materiale, sociale, culturale, artistico o spirituale e possiamo inoltre avanzare considerazioni su ognuno di questi aspetti particolari dell’esistenza umana per quanto riguarda l’intensità relativa di quella ‘qualità’. Da questo punto di vista, appare ovvio che la qualità di vita diventa un marametro multidimensionale e che, in linea di principio, si possano considerare tante qualità di vita diverse quanti sono gli aspetti della vita stessa. In linea di principio non si può neanche non condividere quanto espresso dal gruppo internazionale dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) che ha identificato quattro, o tutt’al più sei, categorie cui si potrebbero ridurre gli aspetti significativi per la maggior parte delle persone[7]. Il processo attraverso il quale il gruppo dell’OMS è giunto a queste quattro categorie, o dimensioni della qualità di vita, non è privo di interesse. Il gruppo è partito dall’accordo sulla definizione concettuale. La qualità di vita è stata definita come: “la percezione che gli individui hanno della propria posizione nella vita, nel contesto della cultura e del sistema di valori in cui vivono e in relazione ai loro obbiettivi, aspettative, standard e interessi”. In un secondo momento, e attraverso un lavoro in 15 paesi diversi, il gruppo è giunto all’identificazione di ciò che si intende per “aspetto” della vita. Sono stati presi in considerazione 24 aspetti. Nell’ultima fase del lavoro, il gruppo ha aggregato tutti questi aspetti in sei grandi aree che sono state infine ridotte a quattro: 1) salute fisica; 2) salute psicologica; 3) relazioni sociali; 4) ambiente (WHOQOL-BREF Field Trial Version). Vale la pena considerare che nella definizione multidimensionale proposta c’è una valutazione unitaria globale finale espressa da ogni persona. La questione quindi è la seguente: se la qualità di vita, nella sua accezione accidentale, è fortemente diversificata, come può essere valutata in un giudizio unitario globale finale? Qualità di vita personale (soggettiva) Dal punto di vista filosofico, si potrebbe affermare che, anche se fortemente diversificate e anche se le qualità accidentali della vita possono essere gerarchicamente ordinate, ci deve essere una dimensione della vita umana che sia oggettivamente la più importante per tutti. Questa dimensione predominante ha a che fare con ciò che ogni persona considera come la sua realizzazione globale in quanto soggetto libero e deve essere lo stesso criterio in ogni valutazione soggettiva, finale, globale e unitaria. Questa realizzazione globale che in principio tutti cercano, anche se si potrebbero individuare alcuni caratteri comuni, di fatto è, nella sua concreta incarnazione, soggettivamente differente per ogni uomo. Per riassumere, bisogna considerare il fatto che una delle difficoltà rintracciabili nelle discussioni sulla qualità di vita, è la confusione che si verifica comunemente fra i tre aspetti suddetti: qualità di vita sostanziale, qualità di vita accidentale, valutazione soggettiva della realizzazione globale.

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QUALITÀ DI VITA: DIRITTO UMANO O DOVERE UMANO? Un ultimo aspetto da considerare, e che è stato piuttosto trascurato dalle analisi moderne, è la prospettiva della realizzazione globale più come un ideale da raggiungere che come possibilità reale, attuale e concreta. La trascuratezza di questa considerazione è indice del tono punitivo che assume di solito il dibattito sulla qualità di vita negli anziani, come se la società fosse in grado di mettere a disposizione una qualità di vita perfetta. In vista di questa considerazione sulla realizzazione finale della vita, si può comprendere il motivo per cui le discussioni sulla qualità di vita sembrano avere una particolare attualità o urgenza quando si considera il benessere delle persone anziane, più che quando si discute dello stesso argomento in altre categorie di persone. Infatti, le discussioni sulla realizzazione finale nella vita, diventano molto più pertinenti quando hanno a che vedere con l’ultima fase dell’esistenza e, più concretamente, all’approssimarsi della morte. Cosa hanno a che vedere tutte queste considerazioni col nostro approccio ai pazienti geriatrici? Se consideriamo la qualità di vita nella sua accezione primaria e sostanziale, risulta evidente che le persone anziane, come tutti i pazienti, devono essere trattate come persone con la stessa dignità e gli stessi diritti degli altri. Essendo soggetti razionali, in grado di amare e liberi, devono essere trattati come tali. Dobbiamo trattarli innanzitutto come persone intelligenti, trasformandoli in soggetti attivi e consapevoli del proprio processo di salute. In secondo luogo, devono essere amati come ogni altra persona desidererebbe essere amata, e questo amore per gli altri deve sempre essere la principale ragione per curare pazienti di qualsiasi età. Infine devono essere trattati come agenti liberi, rispettando la loro autonomia, promuovendola e aiutandoli nell’esercizio effettivo di tale autonomia[8]. Considerando la qualità di vita nella sua accezione accidentale secondaria, l’approccio medico agli anziani deve essere considerato seriamente come una sfida professionale interessante e impegnativa. L’approccio medico deve prendere in considerazione non solo le cosiddette dimensioni biologiche dell’assistenza sanitaria, ma un approccio integrativo interdisciplinare guidato e informato da una realistica antropologia medica e da una bioetica globale. Infine, quando si considera la valutazione soggettiva del soddisfacimento e della realizzazione, crediamo che la medicina geriatrica non possa ridursi, nella sua dimensione sociale, ad una sorta di attivismo sui diritti umani, ma che debba aprire il dibattito interno per comprendere dimensioni più vaste e complete dell’uomo. Se si realizzasse un cambiamento di prospettiva su questo argomento, allora nella nostra società le persone anziane sarebbero viste non più come un fardello, ma come persone cariche di saggezza e testimoni di una vita migliore.

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[1] CELADE (Centro Latinoamericano y Caribeño de Demografía), Los Adultos Mayores en América Latina y el Caribe: Datos e Indicadores Boletín Informativo con ocasión de la II Asamblea Mundial de Naciones Unidas sobre el Envejecimiento, Madrid, 2002. [2] LOLAS F., Escritos sobre vejez, envejecimiento y muerte, Iquique, Ediciones Campus/Universidad Arturo Prat, 2002. Sono debitore a questo libro, di alcune interessanti osservazioni antropologiche generali. [3] Alcuni autori hanno enfatizzato che il declino non deve essere l’unica propsettiva da cui considerare l’invecchiamento. Le altre sono: il cambiamento, lo sviluppo, la maturazione. Cfr. VAILLANT GE MUKAMAL K,Succesful Aging, Am J Psychiatry 2001, 158: 839-849. [4] ZEGERS B, Psicología del envejecimiento, Santiago de Chile: Documento Docente 36 Universidad de los Andes, 2002. [5] MILLÁN PUELLES A., Léxico Filosófico, Madrid: Rialp, 2002. pp.195-204. [6] Ib. [7] WORLD HEALTH ORGANIZATION, WHOQOL-100 e WHOQOL-BREFinstruments,http://www.who.int/evidence/assessment-instruments/qol/ [8] Questa considerazione generale deve essere adattata ai casi in cui la dipendenza o l’autonomia siano deficitarie.

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PATRICIO VENTURA-JUNCÁ QUALITÀ DI VITA IN MEDICINA NEONATALE LA QUALITÀ DI VITA: UN ARGOMENTO IMPORTANTE E COMPLESSO IN MEDICINA NEONATALE Il concetto di qualità di vita Questo argomento è già stato affrontato dai relatori che mi hanno preceduto. Io lo affronterò dalla prospettiva di un neonatologo interessato alla sua dimensione filosofica e, in particolare, alle sue implicazioni in etica clinica neonatale. Ai fini di questo intervento è necessario innanzitutto chiarire il fatto che non è accettabile la semplice identificazione della qualità di vita con una valutazione ontologica del valore della persona. Il valore intrinseco di un essere umano non dipende dalle sue qualità o dalla capacità di manifestarsi. Questa iniziale distinzione antropologica è indispensabile per un corretto approccio al problema ed è estremamente importante per quel che riguarda il processo decisionale in etica clinica neonatale. Da un lato la qualità di vita dovrebbe essere considerata soprattutto come valutazione globale, da parte degli individui, della loro condizione e della soggettiva sensazione di benessere. D’altro canto esistono molte condizioni oggettive che influenzano la valutazione soggettiva. Una di queste è la salute. La definizione di salute proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)[1] è piuttosto simile ad alcune definizioni di qualità di vita. Ma sebbene la salute sia indubbiamente un valore molto importante, esistono aspetti non medici della vita, come la famiglia, il lavoro, la casa, l’educazione, i fattori ambientali che giocano un ruolo importante nella sensazione soggettiva di benessere, quindi per la qualità di vita. Su queste basi crediamo che sia più appropriato parlare di Qualità di Vita in Relazione alla Salute (HRQL) intesa come impatto della malattia e delle sue conseguenze (menomazioni e disabilità) sulla qualità di vita.[2] L’importanza del periodo neonatale per la qualità di vita Il periodo neonatale è il periodo più vulnerabile della vita umana in relazione al rischio di morte e al verificarsi di problemi di diverso tipo legati allo sviluppo e che possono condizionare la vita futura di una persona. Per questo motivo la medicina neonatale ha, come suo obbiettivo principale, non solo la sopravvivenza, ma una sopravvivenza integra. Ciò che caratterizza il periodo neonatale è la transizione dalla vita intrauterina a quella extrauterina.[3] Questo passaggio è un evento fisiologico di estrema importanza in cui praticamente tutti gli organi e i sistemi subiscono un importante cambiamento per adattarsi alle nuove condizioni di vita extrauterina. In alcuni sistemi l’adattamento si deve realizzare in pochi minuti per garantire la sopravvivenza e l’indennità del bambino appena nato. L’esempio più drammatico è l’adattamento cardiopolmonare. In poche parole, al momento della nascita cessa la respirazione placentare e in sua vece deve immediatamente iniziare a funzionare la respirazione polmonare. Ciò presuppone una drastica trasformazione nella circolazione e nel funzionamento cardiaco che deve aver luogo in un lasso di tempo estremamente breve. Questo cruciale adattamento fisiologico può essere alterato per diversi motivi è può causare la morte o danni da ipossia nel neonato. Qualcosa di simile accade con altri organi e sistemi, ma senza l’urgenza e la priorità che caratterizzano l’adattamento cardiopolmonare. I principali problemi che possono influenzare la fisiologia dell’adattamento sono: la prematurità, l’ipossia prenatale, le malformazioni congenite e le infezioni perinatali. Molte di queste patologie possono essere prevenute o anticipate con una buona assistenza prenatale. Quindi, un approccio medico globale alla prevenzione dei fattori che possono influenzare la qualità di vita inizia con una buona assistenza prenatale. Questa deve essere considerata una priorità

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medica ed etica nella medicina perinatale. La medicina neonatale, dunque, segue e cerca di anticipare e supervisionare il corretto processo di questo adattamento, operando gli opportuni e necessari interventi. Qualità di vita: un argomento complesso in medicina neonatale I neonati, naturalmente, non sono in grado di valutare la propria qualità di vita e quindi di esprimere le loro preferenze, fanno eccezione alcune risposte che sono in grado di dare al loro ambiente fisico o psicologico più prossimo, come gridare e muoversi. Rimane il fatto che fondamentalmente una valutazione razionale e soggettiva della loro reale o potenziale qualità di vita non può essere fatta. Ciò che può essere valutato direttamente o attraverso studi di follow up in un periodo di alcuni anni, è il rischio di danni inerenti lo sviluppo neurologico o altri danni che condizionano l’HRQL. Al di là di questo, studi che hannocercato di valutare l’HRQL nella vita successiva non sono stati convalidati, soprattutto quando l’obbiettivo sia l’uso di questo parametro per valutare la qualità della medicina neonatale come tale. Il dr. M. Hack, un ricercatore molto noto in quest’area, ammette che: “le persone disabili potrebbero valutare la loro qualità di vita come buona o accettabile: tuttavia, la loro menomazione e la disabilità che ne consegue rappresenta uno scarso risultato per l’assistenza intensiva neonatale.”[4] Un secondo fattore che complica la valutazione di una futura qualità di vita è la grande plasticità dei bambini e la loro capacità di riprendersi dai problemi che potrebbero verificarsi durante il periodo neonatale. Un terzo fattore da prendere in considerazione è il fatto che la valutazione della qualità dello sviluppo di un determinato gruppo di bambini, anni dopo la loro ospedalizzazione neonatale, è correlata all’assistenza che hanno ricevuto al momento della nascita e non all’assistenza che i neonati ricevono oggi. Questo complica i giudizi prudenziali sulla valutazione della proporzionalità di certi trattamenti in situazioni complesse. La qualità di vita e i genitori La nascita di un figlio è uno degli eventi più importanti e probabilmente una delle esperienze più intense della vita umana. Il figlio è atteso con grande speranza e gioia, ma anche con un certo grado di incertezza. Sarà normale? Avrà qualche problema? La madre ha una capacità particolare di creare un legame con suo figlio durante le prime ore e i primi giorni dopo la nascita.[5] La grande sensibilità della madre in questo periodo deve essere tenuta in considerazione dall’equipe sanitaria quando sia necessario coinvolgerla in scelte riguardanti i problemi del bambino. I genitori sono particolarmente sensibili a qualsiasi problema del loro bambino appena nato. Sono molto preoccupati non solo della sopravvivenza del loro bambino, ma anche di eventuali problemi che potrebbero influenzare la sua vita futura. Una permanenza prolungata del neonato nel reparto di terapia intensiva neonatale di solito è causa di grande stress per i genitori. Il loro coinvolgimento in decisioni particolarmente gravose, in relazione all’andamento della terapia, è emotivamente e psicologicamente molto impegnativo e spesso angoscioso a causa della complessità di certi trattamenti, dei loro rischi e della difficoltà di comprendere tutti i fattori in gioco. Qualità di vita e questioni etico-sanitarie in medicina neonatale I problemi etici relativi alla qualità di vita sono per molti aspetti simili in ogni contesto, ma per altri aspetti differiscono a seconda dello sviluppo e delle risorse di un paese e delle sue prevalenti condizioni e priorità sanitarie. Le cause e la stima della mortalità neonatale e i fattori che condizionano i disordini dello sviluppo sono significativamente diversi nei paesi ricchi e sviluppati rispetto a quelli più poveri e meno sviluppati. Di conseguenza sono diverse anche le sfide sanitarie e quelle etiche. Per tale motivo è

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necessario affrontare l’argomento in due momenti distinti. Concentreremo inizialmente la nostra attenzione sul primo caso. SALUTE NEONATALE E QUALITÀ DI VITA NEI PAESI SVILUPPATI L’impatto della terapia intensiva Importanti cambiamenti nell’assistenza neonatale hanno cominciato a realizzarsi intorno agli anni ‘60 e ’70.[6] L’assistenza tradizionale ai neonati e ai prematuri, che consisteva sostanzialmente nel controllo della temperatura, la prevenzione delle infezioni e un’attenta nutrizione orale, dava luogo ad una forma complessa e aggressiva di intervento che comprendeva un monitoraggio permanente dei segni vitali, la frequente correzione dei parametri vitali e un complesso trattamento in grado di sostituire la funzione dei sistemi vitali ad opera di un’equipe altamente specializzata di infermieri, fisioterapisti respiratori e medici. Molte delle funzioni non ancora sviluppate nei nati prematuri potevano essere temporaneamente rimpiazzate dalla ventilazione artificiale e dalla somministrazione di liquidi e sostanze nutritive. Tutti i progressi derivanti dalle conoscenze tecniche sviluppate nell’era spaziale, in termini di monitoraggio dei segni vitali degli astronauti,[7] furono introdotti nell’assistenza ordinaria dei bambini prematuri. Gli astronauti sono esposti ad un’atmosfera differente dello spazio esterno alla quale non sono fisiologicamente preparati. In modo analogo i neonati prematuri affrontano il mondo extrauterino senza la maturazione fisiologica di molte delle loro funzioni e quindi non sono preparati per il passaggio che devono affrontare. Il risultato del miglioramento della terapia intensiva si è tradotto in un notevole aumento della sopravvivenza neonatale e della prevenzione delle cause conosciute di danni sensoriali e di problemi legati allo sviluppo neurologico.[8],[9]In Cile, un paese di medio livello di sviluppo, all’ospedale dell’Università Cattolica di Santiago, i progressi fatti nei decenni nei paesi sviluppati sono stati introdotti negli anni 1977-78.[10] I risultati, in termini di riduzione della mortalità neonatale, mostrano l’enorme sviluppo di quest’area della medicina (si veda la Tavola 1). La rianimazione alla nascita e un adeguato controllo dell’ossigenazione e della ventilazione diminuiscono l’incidenza dell’encefalopatia ischemica da ipossia e i conseguenti danni per lo sviluppo neurologico, così come l’incidenza della fibroplasia retrocristallina (cecità dovuta alla elevata percentuale di ossigeno nel sangue arterioso) e la paralisi cerebrale. Questo miglioramento si è riflesso innanzitutto sui bambini nati a termine, poi su quelli con basso peso alla nascita (1500-2500g) e infine sui bambini con peso estremamente basso alla nascita (VLBW) tra 1000 e 1500g (si veda la Tavola 2). Tuttavia in questi decenni i risultati del trattamento dei neonati con peso estremamente basso alla nascita (ELBW <1000g) non sono stati così eclatanti e permangono dubbi sui reali benefici della terapia intensiva in questi neonati. Infatti, nel nostro reparto così come in altri, è stata presa la decisione di non applicare la ventilazione meccanica nel trattamento di questi bambini. Tale decisione è stata presa in considerazione della scarsità di risorse e del giudizio di proporzionalità dei trattamenti. Nei decenni successivi sono stati fatti progressi maggiori nel trattamento di neonati ELBW in termini di sopravvivenza e prognosi a lungo termine. Incoraggiati da questi risultati, si sono profusi sforzi maggiori per trattare bambini al di sotto dei 1000g e anche al di sotto dei 750g. In questi casi, i risultati ottenuti in bambini più grandi non si sono potuti paragonare. Ciò è particolarmente vero per i bambini al di sotto dei 750g (3). Oggi circa il 65% dei letti della terapia intensiva sono occupati da neonati al di sotto dei 1000g. La loro degenza è lunga e variabile con molte complicazioni di vario tipo. Il costo del trattamento di questi bambini aumenta significativamente (si veda la Tavola 4).

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Problemi di etica clinica in terapia intensiva neonatale Il maggior problema etico nei reparti di terapia intensiva neonatale (NICU), che si è presentato da subito, è rappresentato dal giudizio prudenziale sulla opportunità o meno di rifiutare o interrompere un trattamento. La giustificazione etica per queste difficili e complesse decisioni è stata espressa in un modo eccessivamente semplicistico: da chi invoca il principio della sacralità della vita per continuare, a tutti i costi e in ogni circostanza, i trattamenti e da chi, invece, attribuisce maggior importanza al principio della “qualità di vita” volendo decidere con leggerezza non solo quando e se sia obbligatorio continuare ad usare mezzi straordinari di supporto della vita e terapie, ma anche quando, secondo il loro punto di vista, anche i mezzi ordinari di supporto della vita (come la nutrizione) siano da interrompere.[11],[12] Esiste una terza posizione tra queste due che dà la priorità alla volontà dei genitori argomentando che essi siano i più adatti a scegliere il programma terapeutico che meglio protegge gli interessi del bambino. Un terzo approccio o aspetto del problema è chi dovrebbe prendere queste difficili decisioni: il direttore sanitario dell’ospedale, i medici, gli infermieri o i genitori. C’è una presa di posizione estremamente diffusa che ha spostato la collocazione del peso decisionale su questi argomenti dall’equipe medica ai genitori, in base al fatto che questi sarebbero più adatti a scegliere il programma terapeutico che meglio risponde agli interessi del bambino. Quando questa posizione viene interpretata non come conseguenza della fiducia nella sensibilità maggiore dei genitori di operare scelte eticamente corrette nel miglior interesse dei loro figli o del loro diritto particolare su di essi, ma come una libertà di decidere anche contro i beni umani universali e a favore di atti intrinsecamente sbagliati, l’eccessiva rilevanza data alle decisioni dei genitori si rivela come conseguenza di una teoria etica che assolutizza il principio di autonomia come motivo sufficiente per determinare l’eticità delle decisioni.[13] Tuttavia ciò cui si deve rispetto in tutte le situazioni non è solo il ruolo legittimo delle decisioni genitoriali, ma anche i beni immutabili eticamente rilevanti; gli imperativi etici da essi derivanti e di carattere universale a volte sono considerati in maniera differente. Per esempio alcuni pediatri ritengono che il “principio della sacralità della vita” indichi l’obbligo di salvare o prolungare la vita ad ogni costo e in ogni circostanza.[14] Altri contrappongono al “principio della sacralità della vita” quello della qualità di vita, affermando che gravi handicap e menomazioni causano una qualità di vita estremamente bassa e quindi priva di qualsiasi valore per il bambino. L’uccisione diretta sarebbe dunque giustificata da una valutazione della qualità di vita.[15] Tale posizione è stata difesa nel caso di Baby Doe. Una terza posizione è quella che tende ad assolutizzare il volere dei genitori come se questi avessero il diritto, in certi casi, sia di chiedere l’interruzione delle terapie proporzionate sia di continuare le terapie di sostegno delle funzioni vitali anche quando siano ormai inutili o sproporzionate. I giudizi prudenziali sulla proporzionalità del trattamento a volte sono considerati alla luce del proporzionalismo etico secondo il quale non esistono valori morali assoluti, il che fondamentalmente significa che in certe situazioni un giudizio proporzionale potrebbe condurre a una decisione che potrebbe giustificare l’omicidio diretto di un neonato o il rifiuto di cure di base quali la nutrizione e l’idratazione. Questa posizione etica è esplicitamente presa in considerazione e rifiutata nella Veritatis Splendor: “Per questo, senza minimamente negare l'influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che «esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto».”[16] In questo contesto un argomento importante è rappresentato dalla corretta interpretazione della distinzione tra “uccidere e lasciar morire”. L’utilitarismo considera solo le conseguenze dell’azione e quindi non considera tale distinzione, come per esempio affermano Beauchamp e Childress “Sostenere, come facciamo noi, che l’uccidere non è moralmente diverso dal lasciar morire equivale a dire semplicemente che la corretta classificazione di un’azione come ‘uccidere’ o come ‘lasciar morire’ non

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determina se una forma di azione sia migliore o peggiore, o più o meno giustificata, rispetto ad un’altra.”[17] Il tradizionale e prudente insegnamento del Magistero della Chiesa, se correttamente interpretato, può chiarire le tre posizioni suddette attraverso la distinzione tra mezzi ordinari e straordinari, proporzionati e sproporzionati e il riconoscimento della dignità della persona umana rafforzata dai diritti fondamentali inalienabili. Ciò chiarisce la corretta interpretazione del concetto di sacralità della vita e il suo ruolo nelle decisioni di etica clinica e anche il giusto peso da attribuire all’HRQL in queste decisioni.[18],[19],[20],[21],[22] L’HQRL è importante, ma la qualità di vita non può mai giustificare nessun atto o omissione finalizzati all’uccisione diretta. Papa Giovanni Paolo II a questo proposito afferma: “ammettere che si possa decidere della vita dell'uomo sulla base di un riconoscimento dall'esterno della sua qualità, equivale a riconoscere che a qualsiasi soggetto possano essere attribuiti dall'esterno livelli crescenti o decrescenti di qualità della vita e quindi di dignità umana, introducendo un principio discriminatorio ed eugenetico nelle relazioni sociali.”[23] Un ulteriore contributo al chiarimento di queste complesse questioni etiche è costituito dalla acuta analisi che S. Tommaso fa della moralità degli atti umani distinguendo tra intenzione, oggetto e fini.[24] In quest’analisi egli considera anche l’importanza etica delle conseguenze prevedibili dell’atto.[25] Questo è ciò che si cerca continuamente di studiare in ambito medico attraverso gli studi di follow up e la statistica. È interessante notare che la Tavola 3 suggerisce “che un approccio sempre più aggressivo verso neonati con peso alla nascita estremamente basso, quelli al di sotto dei 750g, porta sia ad un prolungamento del processo di morte sia ad un aumento dell’incidenza di handicap da moderati a gravi.”[26] Quando poco è troppo poco e molto è troppo Questa espressione indica il grande interesse della comunità medica neonatale rispetto alla necessità di stabilire dove porre i limiti della vitalità e quando i trattamenti iniziano ad essere o sproporzionati e, in alcuni casi, inutili.[27],[28],[29],[30] In base ai risultati degli studi di follow up e alla mortalità dei nati prematuri,[31],[32],[33] è possibile sviluppare un approccio di base legato al peso e all’età gestazionale del bambino per giustificare eticamente i limiti del trattamento: i neonati con un peso superiore a 1000g in generale mostrano buoni risultati in termini di riduzione del tasso di mortalità e di problemi di sviluppo neurologico. I neonati tra i 500 e i 1000g spesso richiedono decisioni complesse riguardanti la negazione o l’interruzione dei trattamenti. I neonati con meno di 23 settimane di età gestazionale e meno di 500g di peso hanno un tasso di mortalità o di sviluppo di handicap importanti quasi del 100%. Ma i dati statistici forniscono solo un criterio di massima per i risultati basati sul peso e l’età gestazionale. Questi devono essere arricchiti da una strategia prognostica individualizzata che consideri anche altri dati clinici. In ogni caso persiste un’incertezza variabile di prognosi e può anche esserci più di una scelta eticamente sostenibile. Quanto detto sopra, circa il modo in cui le decisioni etiche dei genitori sui loro figli appena nati possano essere più assennate e circa la loro vulnerabilità, in nessun caso interferisce con il dovere che hanno i neonatologi, e gli altri membri dell’equipe sanitaria, di discutere le informazioni con la famiglia, quando la disponibilità dei genitori e il loro stato mentale e psichico e altri fattori lo rendano possibile. L’esperienza dimostra come sia difficile in certi casi per i genitori comprendere l’incertezza della prognosi e prendere una decisione da soli. Tuttavia, in generale, i genitori, sia di bambini a termine sia di bambini estremamente prematuri, sono più favorevoli, rispetto al personale medico, ad intervenire per salvare il bambino, indipendentemente dal suo peso o dalle sue condizioni alla nascita. L’opinione e i valori del medico hanno una grande influenza sui genitori. “Pertanto è necessario che venga presa una decisione comune, unendo le conoscenze del medico e la volontà dei genitori.”[34]

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SALUTE NEONATALE E QUALITÀ DI VITA NEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO Priorità sanitarie nei paesi in via di sviluppo La situazione dei paesi in via di sviluppo pone il rapporto tra qualità di vita e medicina neonatale in una prospettiva globale. La terapia intensiva neonatale è una forma molto sofisticata e molto dispendiosa di assistenza medica. Il costo medio dell’assistenza medica nel primo anno di vita per i bambini prematuri al di sotto dei 1500g va dai 58.000 ai 272.900 dollari (si veda la Tavola 4). Questo tipo di assistenza non è alla portata dei paesi poveri. C’è una ben nota relazione tra reddito pro capite e indicatori sanitari, specialmente per quanto riguarda la mortalità infantile (si veda la Tavola 5). I paesi con un basso reddito pro capite hanno altre priorità per l’assistenza pediatrica. “Un gran numero di bambini e neonati muore ogni anno per malnutrizione, infezioni e altre cause evitabili.”[35],[36] In tali condizioni possono verificarsi anche ritardi nello sviluppo neurologico. Inoltre, come già affermato in questo lavoro, la qualità di vita è influenzata anche da molti altri fattori come la famiglia, l’educazione, la casa, la nutrizione e l’impiego dei genitori, tutti fattori critici nei paesi in via di sviluppo. Negli ultimi decenni “nell’Africa orientale milioni di bambini sono stati salvati grazie agli sforzi per la nutrizione e alla reidratazione orale.” Allo stesso tempo ci sono ancora milioni di bambini in tutto il mondo non ancora vaccinati contro il morbillo, che rappresenta la prima causa di morte e morbilità nei bambini.[37] Le ineguaglianze tra i vari paesi (si veda la Tavola 5)[38] e in diverse aree dello stesso paese, pongono importanti problemi etici di solidarietà sulla base dei quali appare chiara la necessità di un riorientamento dell’economia globale, dalla difesa militare all’educazione, la casa e la produzione alimentare. Le complesse decisioni etiche cliniche della moderna terapia intensiva neonatale in relazione alla limitazione dei trattamenti, non hanno alcun senso in questi paesi e praticamente la questione neppure si pone. Quando iniziare il trattamento intensivo neonatale in un paese in via di sviluppo In questi paesi esistono molti altri fattori che condizionano la qualità di vita e che sono molto più efficienti economicamente in termini di miglioramento della salute. Tali fattori devono necessariamente riguardare il primo. Come affermato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: “Morbilità e mortalità fetale e neonatale nei paesi in via di sviluppo potrebbero essere notevolmente ridotte attraverso una maggiore diffusione di terapie efficaci durante la gravidanza, il parto, e il periodo successivo al parto.”[39] Quindi solo dopo la realizzazione di queste misure di base si può pensare di migliorare gli aspetti più complessi dell’assistenza medica. La terapia intensiva neonatale è una forma di assistenza medica estremamente costosa. Dunque la questione riguardante la giustificazione etica e la sensatezza dell’introduzione di questo tipo di assistenza medica in una determinata area è da valutare con estrema cura, specialmente nel contesto di paesi in via di sviluppo. Investimenti fatti per i NICU possono essere più utili se indirizzati verso altri settori sanitari con un rapporto costo-efficienza più favorevole, come ad esempio l’assistenza primaria, l’assistenza prenatale, i programmi di vaccinazione, nutrizione, ecc. A questo proposito il Pontificio Consiglio Cor Unum afferma: “È legittimo impiegare risorse di alta tecnologia medica per il beneficio di un solo paziente, mentre altri pazienti non ricevono neppure le cure più elementari? Se alcuni pensano che questa domanda sia «contraria al progresso», i cristiani ne dovrebbero invece tenere conto nelle loro valutazioni.”[40] L’esperienza dimostra che può essere fatto molto per migliorare la salute neonatale con misure generiche, come quelle precedentemente indicate. La mortalità postnatale (da 28 giorni a un anno) dipende soprattutto dalle condizioni sanitarie e dall’assistenza primaria, mentre la mortalità neonatale è legata più direttamente a fattori biologici, come riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: “È comunemente accettato che le morti neonatali siano collegate a fattori biologici e all’assistenza perinatale, la mortalità postnatale dipende in

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maniera predominante da fattori socioeconomici e di aggressività dell’ambiente.”[41] In generale solo quando la mortalità infantile viene ridotta ad un tasso tra il 25 e il 30%, diventa necessario considerare la possibilità di introdurre la terapia intensiva neonatale. La giusta distribuzione e l’uso razionale delle risorse sanitarie neonatali Un approccio globale ad una buona assistenza neonatale, e quindi la sua importanza per la qualità di vita, deve considerare la giusta distribuzione delle risorse e un loro utilizzo razionale. Sebbene ‘distribuzione’ e ‘uso razionale’ delle risorse siano due concetti strettamente collegati tra loro, non possono essere identificati.[42] Di fatto gli indicatori dell’assistenza sanitaria sono rapportati al reddito pro capite di un paese, ma questa correlazione non è lineare. Per esempio i paesi ad alto reddito non necessariamente hanno il più basso tasso di mortalità infantile, come si vede nella Tabella 5. Questo fatto può essere spiegato con una distribuzione non uniforme delle risorse sanitarie tra i diversi livelli socioeconomici di una determinata popolazione, con una valutazione non corretta dei problemi sanitari prioritari all’interno della stessa popolazione, o con un’organizzazione non efficiente delle risorse. Pertanto né l’entità delle risorse economiche destinate all’assistenza sanitaria, né altri tipi di risorse sanitarie, come il numero di medici di un paese, hanno sempre una correlazione lineare con gli indicatori sanitari. In questo contesto deve essere messa in rilievo l’importanza della regionalizzazione dell’assistenza perinatale come aspetto fondamentale dell’uso razionale delle risorse. La regionalizzazione consiste nell’organizzazione di un network nazionale di assistenza sanitaria progressiva in una data area geografica con livelli differenti di assistenza medica sempre più complessa (livelli I-II-III). Tutti questi livelli devono essere efficientemente interconnessi cosicché i neonati possano ricevere un’assistenza adeguata alla loro situazione di rischio. Le risorse dei NICU devono essere concentrate nelle strutture più complesse, di livello III, per garantire lo spazio, il personale e l’attrezzatura adatti a trattare tutti i bambini con malattie gravi di questa specifica regione del paese. L’organizzazione sanitaria regionale ha dato prova di essere altamente efficiente relativamente ai costi non solo da un punto di vista economico, ma anche in termini di qualità dei servizi offerti.[43],[44] Garantendo un numero sufficiente di pazienti, il personale sanitario ha la possibilità di rimanere attivo nel proprio campo, il che gli permette di conservare la propria abilità e capacità e di accumulare un’importante esperienza clinica di cui potranno beneficiare i pazienti futuri. È indispensabile, per i paesi poveri, prendere in considerazione questa esperienza maturata nei paesi sviluppati. L’impatto della regionalizzazione è illustrato nella Tavola 6 e mostra una chiara differenza nel tasso di sopravvivenza dei bambini prematuri secondo il peso alla nascita e il livello di assistenza (livello I, II e III).[45] Inoltre bisogna supporre che la regionalizzazione dei NICU abbia un importante impatto nell’HRQL dei neonati. LA FAMIGLIA: UN FATTORE INTEGRANTE PER LA QUALITÀ DI VITA È noto, come abbiamo detto all’inizio, che esistano componenti oggettive e soggettive della qualità di vita. I neonati e i bambini sono soggetti che hanno legami di dipendenza da altri. La sfida più importante consiste nell’aiutarli a svilupparsi secondo i criteri di un’autentica crescita umana. Ciò è vero non solo per i bambini normali, ma in particolar modo per i bambini portatori di qualche tipo di handicap. In tale contesto la famiglia gioca un ruolo centrale e integrativo, specialmente nel dare ai bambini una testimonianza dei più fondamentali aspetti che contribuiscono ad avere una vita ricca di significato e soddisfazione. Un approccio globale all’argomento, oggi prevalente, della qualità di vita deve riconoscere il ruolo centrale della famiglia e, quindi, non risparmiare sforzi per supportare la struttura e le condizioni che permettono alla famiglia di realizzare il suo importante compito nella società e specificatamente nello sviluppo di ogni bambino. Questo vale per tutti i contesti sociali, indipendentemente da fattori economici o di altro tipo. Vorrei concludere questo intervento citando

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Papa Giovanni Paolo II: “La prima e fondamentale struttura a favore dell'«ecologia umana» è la famiglia, in seno alla quale l'uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé da parte dell'uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino.”[46]

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[23] Giovanni Paolo II, ai partecipanti al Congresso Internazionale su “I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici”, marzo 2004. [24] S. Tommaso D’Aquino, S. Theo; I-II: q 18. [25] S. Tommaso D’Aquino. S. Theo; I-II: q 20, a 5. [26] Hack M, Fanaroff AA: Outcomes of extremely low-birth weight infants between 1982 and 1988. N Eng J Med1989; 321:1642-1647. [27] Schechner S. For the 1980: How Small is Too Small. Clin Perinatol1980 ; 7: 135- 143. [28] Hack M. Fanarof AA, How Small Too Small? Considerations in evaluating the outcome of the tinyinfant. Clin Perinatol 1988; 15: 773-788. [29] Peabody Jl, Martin GI. From How Small Is Too Small To How Much is Too Much: Ethical Issues at the Limits of Neonatal Viability. Clin Perinatol1996 ; 23: 473-489. [30] Hack M. Fanarof AA, Outcomes of extremely immature infants – a perinatal dilemma. . N Eng J Medc1993; 329:16499-1650. [31] AmericanAcademy of Pediatrics, Clinical Report, Guidance for the Clinician in Rendering Pediatric Care. Pediatrics 2002; 110:1024-1027. [32] Kilbride HW, Thostad K, Daily DK, Preschool Outcome of Less Than 801-gram Preterm Infants Compared With Full-Term Siblings. Pediatrics 2004;113:742-747. [33] Meadow W, Lee G, Lin K et al. Changes in Mortality for Extremely Loe Birth Weight Infants in the 90s: Implications for Treatment Decisions and Resources Use. Pediatrics 2004; 113:1223-1229. [34] Steiner DL, Saigal S, Burrows E, et al. Attitudes of Parents and Health Care Professionals Toward Active Treatment of Extremely Premature Infants Pediatrics 2001; 308:152-157. [35] Vaux K, Ethical Issues in Caring for Tiny Infants. Clin Perinatol 1986;13(2):477-484. [36] Pelletire DL, Frongillo EA, Schroeder DG, et al. The effects of malnutrition on child mortality in developing countries. Bull World Health Organ. 1995;93(4):443-448. [37] WanyanaC. Africa’s largest measles vaccination campaign could reduce childhood mortality in 20%. Bull World Health Organ, 2002; 80(12):989. [38] United Nations Development Programme, 2001 Human Development Indicators Report, New York, Oxford University Press, 2001. 141-145. [39] Darmstadt GL, Lawn JE, Costello A. Advancing the state of world’s newborns. Bull World Health Organ, 2003; 81(3):224-225. [40] Pontificio Consiglio “Cor Unum”, Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti. 1981. N° 7.3: Terapie intensive e scelta delle persone da curare. [41] Pan American Health Organization. Materno-infantil y Atención primaria en las Amétricas 1984 Scientific publications;461:114-115. [42] Ventura-Juncá P A commentary on Consensus Statement ofthe Working Group on Roman Catholic Approaches to Determining Appropriate Critical Care. Christ Bioeth 2001;7(2):271-289. [43] Paneth N, Kiely J, Wallenstein S, Susser M Thechoice of place of delivery: effect of hospital level on mortalityon all singleton births in New York City. AmJ Dis Child. 1987; 141:60-64. [44] Horbar JD, Badger GJ, Lewit EM, Rogowski J, et al.Hospital and patient characteristics associated with variation in 28-day mortality rates for very low birth weight infants. VermontOxford Network. Pediatrics. 1997 Feb;99(2):149-56. [45] Yeast J. Poskin M. Stockbauer J, Schaffer.Changing patterns in regionalization of perinatal care and the impact on neonatal mortality.Am J Obstet Gynecol 1998; 178 (1):131-135. [46] Papa Giovanni Paolo II. Centesimus Annus, 1991; 39.

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WANDA POLTAWSKA MENOMAZIONE MENTALE E VALORE DELLA VITA GENEALOGIA DIVINA Lo specifico che,qualifica la vita è determinato dalla sua origine, e il suo valore può essere valutato in maniera diversa a secondo della visione che uno ha dell'origine della vita. La domanda fondamentale sulla vita umana è quindi: da dove veniamo? Chi siamo? E questo non è tanto un problema di conoscenza, quanto oggetto di fede. A questa domanda ha fornito la risposta la nostra fede nell'esistenza di un Dio Creatore. La verità sulla provenienza divina della persona umana rivela immediatamente il valore dell'uomo e della donna creati a immagine di Dio. Questa verità concerne tutte le persone, tutti i tempi e tutte le razze. Non ci sono altre persone al mondo se non quelle create da Dio, persone che rimangono sempre in una particolare relazione con il loro Creatore. SACRALITÀ DELLA VITA UMANA Un essere umano, in quanto creato da Dio a Sua immagine, è destinato all'immortalità e a partecipare eternamente alla vita divina, alla felicità eterna, al paradiso. Questo è il fattore decisivo che determina la sacralità-inviolabilità- della vita umana. Dio dona all'uomo vita ed esistenza. E' Lui che lo chiama, attraverso l'esistenza terrena, alla vita eterna. LA VITA COME IMPEGNO Il dono della vita diventa allora un impegno per la persona che ha ricevuto il dono -la sacralità della vita dovrebbe avere il suo complemento nella santità della persona che la vive. Esiste la tentazione facilmente comprensibile di valutare la vita umana in base alla santità osservabile nella persona o all'assenza di questa santità. A base di questa valutazione non è la consapevolezza della provenienza divina della vita umana, quanto piuttosto la valutazione delle azioni umane e delle loro conseguenze. Le azioni umane, infatti, a causa del grande dono della libertà, del libero arbitrio che è concesso all’essere umano, possono diventare “disumane”, come possiamo facilmente vedere in tutta la storia dell'umanità. SACRALITÀ DELLA PERSONA UMANA COME OBIETTIVO DELLA VITA Tuttavia, creato per il cielo, l'uomo o la donna non passano automaticamente nella dimensione della felicità eterna solo in forza della loro provenienza divina, ma vi accedono mettendo a frutto i doni che essi hanno ricevuto. Ogni persona dovrebbe “realizzare” se stessa nella vita, rispondendo alla propria vocazione. Processo di maturazione verso la santità - verso la realizzazione di sé Per percepire il valore oggettivo della vita umana come dono di Dio, la persona deve essere consapevole della propria identità. Ma noi acquistiamo questa conoscenza gradualmente, man mano che essa si sviluppa nel corso della vita attraverso le circostanze della vita stessa, e in base alla nostra capacità di comprendere. In questo sta la responsabilità di tutti gli educatori. Le persone che sono riuscite a sviluppare pienamente se stesse, sono responsabili della consapevolezza che della loro

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identità hanno le persone che loro possono influenzare. Piena maturità - questa non è altro che la santità raggiunta. MALATTIA MENTALE – UN’OSTACOLO ALLO SVILUPPO Fattori psico-biologici secondari possono essere -e spesso lo sono- ostacolo allo sviluppo corretto della persona. Tuttavia questi fattori non annullano il dono fondamentale della sua provenienza divina, né l'obiettivo della creazione: l'immortalità. Un essere umano è sempre “umano” indipendentemente dallo stadio del suo sviluppo mentale; può anche essere fisicamente malato o minorato psichico, ma la sua umanità, cioè la sua somiglianza con Dio non cessa mai di sussistere. E' la persona umana che volutamente rifiuta il piano di Dio per la sua vita e distrugge i valori a lui concessi in dono che nega la sua umanità. Malattie mentali Alcune malattie mentali hanno un percorso molto lento,cosicché nell'ambiente in cui il soggetto vive può anche avvenire che non ci si renda conto della loro esistenza. Alcune volte i familiari accusano la persona malata di avere intenzioni cattive o un brutto carattere. Alcune psicosi causano eccessiva agitazione e aggressività, che possono diventare pericolose per gli altri. Inoltre, tipico delle malattie mentali è la mancanza di consapevolezza della malattia da parte del soggetto malato e quindi la mancanza di autocritica. Di conseguenza il comportamento della persona malata causa spesso tensione nella famiglia, che invece di cercare l'aiuto del medico, pretende che la persona malata migliori da sola il suo comportamento. Ma anche quando la famiglia si rende conto che la persona è malata di mente, e quindi non è responsabile, sorgono difficoltà per la terapia a causa della sua resistenza a qualunque cura, dal momento che essa si considera perfettamente sana. Molte malattie mentali richiederebbero il ricovero del paziente in ospedale, ma può divenire molto difficile attuarlo dal momento che la legge dello Stato tutela la libertà dell'individuo. In Polonia, per esempio, la legge non permette di mettere un paziente in una struttura “protetta” senza il suo consenso e il paziente spesso non vuole dare tale consenso. “Rinchiudere” un paziente è permesso soltanto quando è pericoloso a se stesso o agli altri. Le famiglie che sopportano il peso di una persona malata di mente vivono un conflitto interiore e, nonostante le migliori intenzioni, i suoi componenti spesso non riescono a mantenere la pace tra di loro. Tali infermità, infatti, sono causa di disgregazione del matrimonio, perché sopporta re la presenza di una moglie o di un marito malato di mente può richiedere una forza superiore a quella di cui dispone il coniuge. In particolare, quando il coniuge malato è la donna, più facilmente si arriva al divorzio perché, in linea di massima, gli uomini hanno minore tolleranza per la malattia della moglie di quanta ne abbiano le mogli verso i mariti malati. La malattia mentale non annulla la validità del Sacramento se essa subentra dopo che il matrimonio è stato contratto. Per questo si consiglia caldamente di essere molto cauti prima del matrimonio. La malattia mentale, invece, rende nulla la capacità di contrarre matrimonio e di accedere agli ordini sacri. Le malattie. mentali possono insorgere a qualunque età e i dati statistici le mostrano in crescita numerica. La cura di questi malati richiede molta pazienza e generosità, soprattutto perché queste malattie sono in genere croniche, spesso incurabili e possono richiedere l'isolamento del paziente per molti mesi o anni. La situazione che si determina quando un membro della famiglia si ammala di mente richiede, da parte degli altri componenti la famiglia, innanzitutto un profonda comprensione del senso della sofferenza. Inoltre le malattie croniche richiedono ingenti mezzi finanziari: i pazienti affetti da malattie mentali assumono per mesi o anni farmaci il cui prezzo può anche essere superiore alle possibilità finanziarie

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della famiglia. Solo nei paesi con una migliore organizzazione del servizio sanitario questo tipo di pazienti riceve assistenza dallo Stato o da organizzazioni sociali. Deficienza mentale Alquanto diverso è il destino di persone che, in conseguenza di vari agenti nocivi, hanno subito un impedimento nel loro sviluppo personale. L'opinione pubblica spesso è discriminante nei confronti di queste persone, in particolare quando la loro menomazione è grave e non è possibile instaurare un rapporto adeguato con loro. La vita delle persone con menomazioni molto gravi di solito è breve, ma una menomazione minore non pregiudica la vita del paziente, che tuttavia non è in grado di bastare a se stesso e ha bisogno di cure per tutta la vita. La comparsa di un figlio così in un famiglia è sempre una prova per i genitori e una verifica del livello “sociale” di un popolo. Tuttavia la necessità di prendersi cura di persone inferme mette in azione le migliori qualità umane: la disposizione a prendersi cura degli altri, la compassione, la buona volontà. Possiamo portare ad esempio la vita del professorJérôme Lejeune che, dopo aver scoperto uno dei fattori che causano la deficienza mentale, non si limitò a svolgere lavori scientifici, ma fondò un’organizzazione che si prendesse cura di questi pazienti. Una cura mirata e la buona volontà possono spesso determinare cambiamenti e sviluppi positivi.Un bambino sottosviluppato e abbandonato, mediante cure appropriate e premurose, può anche sviluppare svariati talenti. Numerose relazioni della ricerca medica ci fanno sempre più sperare nella guarigione di almeno una parte di queste patologie. La vecchiaia Finora la medicina non è stata in grado di scoprire il mistero dell'invecchiamento. Sebbene molte malattie della vecchiaia siano state descritte, non siamo ancora in grado di fare previsioni sul processo di invecchiamento di una persona. Qualche volta la famiglia è sorpresa dall'entità del cambiamento che si verifica in un suo componente, cambiamento che può giungere fino alla perdita della propria identità. Ci può essere un invecchiamento fisiologico e uno patologico. La patologia della vecchiaia ha dato origine allo sviluppo della gerontologia, ma questo non risolve il problema. La descrizione più precisa dei cambiamenti di un organismo non ne elimina le cause. La vecchiaia non si può curare, anche se possiamo curare una persona vecchia. La vecchiaia inevitabilmente porta alla morte. La cura delle persone anziane è diventata oggigiorno un problema sociale e persino politico. Si presenta infatti il problema dei mezzi finanziari, e la gente si pone la domanda fondamentale se non sia fuori luogo dispensare cure mediche agli anziani, atteggiamento, questo, che porta alla diffusione sempre più vasta dell'accettazione dell'eutanasia. L'anziano, che non fa sperare in una guarigione, che non può essere guarito, non sarà più produttivo, diventa un peso per la società. La consapevolezza di questo stato di cose induce talvolta al suicidio persone anziane che, a causa di maltrattamenti, hanno la sensazione di essere inutili. LA FAMIGLIA E LA SOCIETÀ DI FRONTE AL MALATO FISICO O MENTALE Una persona che non è responsabile a causa di una malattia è -o almeno può essere- innocente, anche se le sue azioni sono inaccettabili secondo le regole codificate. Insorge così il difficile problema di proteggere la famiglia e la società dalle conseguenze di queste azioni. In tale situazione, se l'azione deve essere condannata, deve invece essere protetto il suo autore. Garantire questa protezione è compito delle leggi e delle istituzioni sociali. Per questi pazienti vengono istituite case protette. Il valore di un essere umano è determinato dalle sue azioni e dalla responsabilità di quelle azioni. Una persona, che per ragioni che esulano dal suo controllo, non è in grado di valutare adeguatamente le sue azioni e le sue omissioni, non ne è responsabile; tuttavia essa è chiamata alla vita da Dio stesso e deve

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vivere tanto quanto il Creatore vuole che essa viva. (Giovanni Paolo Il disse, durante il funerale di un suo amico: "Una persona umana muore sempre nel momento migliore per lei, perché Dio è buono"). La vita di un essere umano, il suo inizio e la sua fine, è nelle mani del Creatore. Quando noi proviamo a manipolare il concetto dì essere umano o la sua morte, noi andiamo oltre la nostra autorità, ci ribelliamo al Creatore. Qualunque sia l'entità della menomazione un essere umano, al quale è stata data la vita, ha il diritto e persino, in certo modo, l’obbligo di vivere, e la sua presenza non potrà non influire sull'ambiente in cui si trova a vivere. I bambini indifesi e le persone malate pongono alla società l'obbligo di prendersi cura di loro. Durante il primo dibattito del Parlamento francese sulla legalizzazione dell'aborto, il primo gruppo che protestò contro tale legislazione fu l'Organizzazione Mondiale dei Genitori di Figli Disabili. Essi sostenevano, anzitutto, che i figli disabili infliggono meno dolore dei figli sani che non sono all'altezza delle speranze riposte in loro; in secondo luogo, sottolineavano il fatto che la presenza di tali persone nella società salvaguarda nel genere umano l'attitudine all'umanità, perché lo induce all'altruismo verso le persone che non sono in grado di pagare le cure necessarie. Le persone malate richiedono azioni generose, senza le quali l'umanità potrebbe diventare crudele nel suo egoismo. Cristo definisce l'atteggiamento che il cristiano deve avere verso le persone malate identificando se stesso conloro: "Ogni volta che lo avete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo avete fatto a me" (Mt 26,40). L'esistenza di persone bisognose grida aiuto e questo aiuto viene realizzato sia dagli individui che da diverse comunità ecclesiali. Ovviamente la cura dei malati comporta spese materiali e ciò facilmente genera la tendenza a volerli eliminare, tendenza che ora prevale nel mondo (la tendenza a legalizzare l'eutanasia fu ampiamente messa in atto nel piano di Hitler per eliminare i pazienti degli ospedali psichiatrici). Impera la tendenza a un utilitarismo egoistico e spietato, che valuta gli esseri umani esclusivamente in base alla loro capacità di produrre beni materiali; pertanto, le persone non produttive vengono relegate ai margini della società. VALUTAZIONE MORALE Nessuna malattia costituisce una colpa, sebbene alcune malattie siano la conseguenza di una trasgressione. Ogni peccato può essere perdonato grazie all'amore misericordioso di Dio, ma le sue conseguenze, come ad esempio una malattia biologicamente condizionata, non sono soggette a questo annullamento sacramentale e appartengono al destino della persona interessata -un destino che richiede non soltanto alla persona malata, anche alle persone che le sono vicino di affrontare delle difficoltà. Qualunque malattia comporta del disagio, ma questo è particolarmente pesante nel caso di persone malate di mente,perché i sintomi di quel genere di infermità può causare conseguenze dolorose, come -per esempio- la perdita di contatto con una persona amata, l'aggressività, etc. Questo determina una situazione particolarmente difficile, e in tale situazione le persone più vicine al paziente hanno bisogno d’aiuto. Così la vera umanità di una società è in certo modo messa alla prova dalla necessità di organizzare la cura delle persone malate in modo tale che la loro condizione e quella delle loro famiglie possa essere sopportabile. Non trattandosi di “colpa”, una diminuita capacità intellettuale e l'infermità mentale non costituiscono ostacoloper la persona di accostarsi alla Confessione o di riceverela Comunione, a patto che essa sia in grado di capire la natura dei Sacramenti.

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CONCLUSIONE Oggettivamente la vita di ogni essere umano ha ugualevalore, la sacralità della vita umana non dipende dalla con dizione fisica. Tuttavia, nella vita di tutti i giorni può essere difficile percepire questa dimensione della realtà poiché esiste la tendenza a giudicare frettolosamente la malattia come una colpa o un peccato. I pazienti vengono spesso accusati di sintomi che non dipendono da loro, di cui non sono responsabili: è solo il loro duro destino. Allora noi possiamo chiederci:perché? Perché a me? Una volta Giovanni Paolo II ha detto: "La sofferenza dell'innocente è il più grande mistero di Dio, non lo si può capire, lo si deve so lo accettare". Tutte queste persone, indipendentemente dal tipo di menomazione, sono una sfida per la società, in particolare per la società cristiana., poiché è proprio con loro che Cristo si identifica, la loro presenza sollecita comportamenti umani genuini. Il valore di un uomo si può misurare in base al suo atteggiamento nei confronti dei malati, delle persone anziane, dei menomati. Giovanni Paolo II ha scritto: “...L'uomo sofferente nella dimensione spirituale dell'opera della Redenzioneserve, come Cristo, alla salvezza dei suoi fratelli e sorelle. Quindi egli sta adempiendo un servizio insostituibile. E perciò la Chiesa vede in tutti i fratelli e sorelle di Cristo sofferenti una sorta di soggetto molteplice della sua forza soprannaturale...le sorgenti della forza divina sgorgano proprio in mezzo alla debolezza umana. Coloro che partecipano alle sofferenze di Cristo serbano nelle proprie sofferenze una specialissima particella dell'infinito tesoro della Redenzione del mondo, e possono dividere questo tesoro con gli altri"[1].

[1] GIOVANNI PAOLO II, SalvificiDoloris, n.27.

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JOANNES. LELKENS QUALITÀ DI VITA IN PAZIENTI CON TUMORE A PROGNOSI INFAUSTA Introduzione Le origini dell’espressione “qualità di vita” si possono rintracciare già nella letteratura socio-politica degli anni ’50. Fu l’allora presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, ad affermare, in un discorso del 1964, che i suoi obbiettivi non erano valutabili in termini economici ma di “qualità di vita”[1]. Da allora il concetto di “qualità di vita” è apparso in innumerevoli scritti e programmi. L’espressione “qualità di vita” si presta a più di un’interpretazione e il suo significato non è sempre lo stesso dipendendo, questo, dal contesto in cui si usa tale espressione. A volte queste considerazioni sono rifiutate come moralmente inammissibili, indipendentemente dal loro contenuto. Il concetto di “qualità di vita” non è specifico dell’ambito medico. Come già detto, negli anni ’50 esso era sostanzialmente un argomento della critica culturale e sociale: la qualità della vita opposta ad una visione materialistica dell’esistenza umana. L’espressione “qualità di vita” fu usata per designare il concetto di qualità dell’esistenza o benessere e anche la qualità dell’essere una persona umana. Tutte queste accezioni di qualità della vita sono presenti nella medicina contemporanea. Dopo questa introduzione il mio intervento prenderà in considerazione:

• Il significato di ‘qualità di vita’ • La misura della qualità di vita • La qualità di vita in pazienti affetti da tumore • L’utilità di misurare la qualità di vita • Discussione e conclusioni

1. Il significato della qualità di vita Risulta a tutt’oggi impossibile fornire una definizione adeguata di vita e lo stesso vale naturalmente per la qualità di vita. Dato che è fondamentalmente impossibile pronunciare un giudizio di valore sulla qualità di vita stessa come valore della persona umana, si è scelto di determinare la qualità di una espressione della vita e in particolare dello stato di salute o delbenessere di una persona. La “salute”, al contrario della “vita”, può essere ben definita. Da un punto di vista puramente biologico, possiamo dire che una persona sana è un’entità coordinata ed equilibrata con una circolazione sanguigna, un sistema respiratorio e un sistema nervoso centrale integri. Tuttavia questo non è l’uomo nella sua totalità. La salute è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come uno stato di benessere fisico, mentale e sociale e non come mera assenza di infermità o malattia. Ma anche tale definizione è incompleta e vaga poiché il “benessere” è un fattore alquanto soggettivo ed è quindi impossibile definire esattamente tale stato. Tuttavia oggi si tende a definire e misurare la qualità di vita in base alla possibilità, da parte delle persone, di espletare certe funzioni nel campo (o dimensione) fisico, psicologico e sociale, secondo una valutazione soggettiva[2]. Sebbene si usi l’espressione ‘misurazione della qualità di vita’, in realtà ciò che si misura è solo la qualità di alcuneespressioni della vita e non della vita stessa. Sarebbe pertanto preferibile parlare di misura della Qualità di Vita in Relazione alla Salute (HRQoL).

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Quali conseguenze il risultato di queste misurazioni possa avere per la vita stessa, è un argomento a parte, specialmente se la qualità risulta essere molto bassa. Dunque la qualità della vita in relazione alla salute implica considerazioni oggettive e soggettive. Le considerazioni oggettive riguardano il fatto che qualcuno abbia determinate limitazioni come conseguenza del suo stato di salute. Gli aspetti soggettivi, invece, hanno a che fare con il giudizio della persona sul proprio stato di salute e le proprie limitazioni: non riguarda, per esempio, solo il fatto che una persona non possa salire le scale, ma anche cosa questa persona pensa su questo fatto. 2. La misura della qualità di vita La qualità di vita è un concetto multidimensionale e pertanto riguarda diverse dimensioni o campi. Ci sono tre dimensioni principali: quella fisica, quella psicologica e quella sociale. Le dimensioni possono essere suddivise in elementi come, ad esempio, l’elemento della dimensione fisica, chiamato funzione fisica che, tra le altre cose, contiene domande sulla possibilità di svolgere attività quotidiane come salire le scale, fare la spesa, ecc. La dimensione psicologica o emozionale è relazionata ai disturbi psichici come le sensazioni di panico o la depressione. La dimensione sociale può essere definita come il grado in cui una malattia riduce la possibilità di avere ruoli sociali come nella vita familiare, nel lavoro, nella cerchia degli amici o nel tempo libero. Aspetti non direttamente legati alla malattia e alla cura della salute sono lasciati da parte. Una conseguenza della crescente importanza della ricerca scientifica nell’ambito sanitario è rappresentata dallo sviluppo di un’ampia gamma di strumenti – anche detti costrutti – per la misurazione di nozioni come quella di qualità di vita. Prenderemo in considerazione solo una tra i più vecchi indicatori e due tra quelli più usati oggi. L’indice di Karnofsky L’indice di Karnofsky è stato uno dei primi indicatori (si veda la tavola 1) elaborato da David Karnofsky e Joseph Burchenal nel 1947. Esso è un indice “di attività” per la misurazione dei risultati dei trattamenti antitumorali: lo stato fisico del paziente, le prestazioni e la prognosi successiva all’intervento terapeutico. Tale indice è anche adatto per determinare l’idoneità del paziente alla terapia. Come tutti gli attuali strumenti, l’indice di Karnofsky consiste in un certo numero di domande da somministrare al paziente. A seconda delle risposte, la qualità di vita sarà espressa in percentuale rispetto ad un normale (100%) stato di salute. Le informazioni disponibili oggi sulla qualità della vita sono il risultato di studi in cui sono stati utilizzati strumenti generici di misurazione, cioè strumenti contenenti domande relative alle funzioni fisiche, psicologiche e sociali e quindi non riguardanti malattie specifiche. I più diffusi strumenti generici di questo tipo sono: Il Medical Outcomes Study e l’EuroQol. I Medical Outcomes Study Il Medical Outcomes Study (si veda la tavola 2) è un’Indagine Sanitaria in Forma Breve in 36 Punti (abbreviata in SF-36) e può rappresentare un esempio del modo in cui oggi può essere determinata la qualità di vita. SF-36 è stata sviluppata negli Stati Uniti ed è uno strumento multidimensionale che consta di 8 dimensioni: funzione fisica, limitazioni dovute a problemi fisici, dolore fisico, esperienza di salute, vitalità, funzione sociale, limitazioni dovute a problemi psicologici (emozionali) e salute mentale.

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Ciascuna dimensione contiene uno o più argomenti che sono correlati a quella dimensione. Un punto (extra) chiede di variazioni dello stato di salute. In tutto ci sono 36 punti, da qui il nome SF-36. Le domande alle quali il paziente deve rispondere sono relative a questi punti. Per esempio la dimensione ‘salute mentale’ contiene domande sulle sensazioni di depressione e agitazione. La SF-36 è notevolmente superiore a molti altri strumenti in quanto copre tutto il campo della salute e non è diretta a nessuna malattia o handicap specifici. Il punteggio delle varie voci viene sommato per ciascuna dimensione e riportato in una scala da 0 a 100. Più alto è il punteggio, migliore è lo stato di salute e quindi la qualità di vita. La dimensione ‘funzionalità fisica’ ha 10 voci e ognuna contiene una lista di domande relative alla voce. Una di queste voci si chiama ‘attività quotidiane’. Per esempio una lista di domande che sono collegate alla voce ‘attività quotidiane’ afferiscono alla dimensione ‘funzionalità fisica’ (si veda la tavola 3). L’EuroQoL-5D L’EuroQol-5D, abbreviato in EQ-5D, fu elaborato nel 1989 dall’EuroQol-group[3] ed è un questionario generico (si veda la tavola 4). Chiunque può rispondere alle domande della lista indipendentemente dall’età, lo stato di salute, l’ospedalizzazione o meno. Pertanto è uno strumento non per malattie specifiche che descrive e valuta la qualità di vita in relazione alla salute. Al contrario della SF-36, l’EQ-5D contiene solo 5 dimensioni: mobilità, autonomia, attività normali, dolore/disagio e ansia/depressione. Ogni dimensione prevede tre domande a tre livelli diversi: il livello uno indica chenon ci sono problemi, il due pochi problemi, il tre incapacità o gravi problemi. Ai pazienti viene chiesto di descrivere il proprio stato di salute attraverso questi enunciati descrittivi, non c’è bisogno dell’assistenza di un medico. I punteggi non sono sommati insieme, ma fungono da descrizione dello stato di salute, per esempio lo stato 22213 (si veda la tavola 5) indica alcuni problemi di mobilità, autonomia e nelle attività comuni, nessun dolore o disagio, ma estrema ansia o depressione. Nella maggior parte degli usi clinici ai pazienti viene chiesto anche di definire il proprio stato di salute su un’analoga scala visuale (EQVAS, si veda la figura 1). Il paziente deve tracciare una linea dal riquadro “il tuo stato di salute oggi” al punto che ritiene giusto sul “termometro”. Rispondere alle domande è relativamente semplice e richiede solo pochi minuti. Inoltre il questionario può essere inviato per posta per essere compilato a casa. Molti pazienti preferiscono riempire un questionario piuttosto che parlare dei loro disturbi rischiando di essere considerati lamentosi. 3. Qualità di vita in pazienti con tumore a prognosi infausta In questo contesto una diagnosi e una prognosi infauste, confermate dalla radiografia, dalla TAC e dall’esame istologico, possono avere due significati: il tumore è maligno oppure il tumore oltre ad essere maligno è anche metastatizzato. Sebbene oggi rispetto ad alcuni decenni, fa per esempio, esistano molte più possibilità di guarire anche per i pazienti del secondo gruppo, la comunicazione di tale diagnosi sfavorevole può causare senso di ansia e depressione. Nel primo gruppo rimane il paradosso della cura contro il cancro, ossia la maggior parte dei pazienti dovrà subire gli effetti negativi del trattamento per ottenere un effetto positivo incerto. Questo è il motivo per cui il contesto in cui si devono prendere decisioni sul trattamento antitumorale da somministrare, risulta spesso complesso[4]: 1. non fare nulla implica la morte del paziente; 2. il trattamento causerà gravi disturbi;

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3. è difficile prevedere per quale paziente il trattamento avrà successo e per quale paziente non avrà effetto. Ciò significa che nel trattamento del tumore quasi sempre bisogna operare una scelta tra la possibilità di trarre un vantaggio in termini di sopravvivenza e la possibilità di una perdita in termini di qualità di vita. Pertanto non sorprende che in oncologia la ricerca sulla qualità di vita abbia ricevuto una particolare attenzione. Come è stata modificata la qualità di vita di questi pazienti con tumore? Si possono individuare tre fattori che influenzano la qualità di vita: a. il trattamento medico; b. la malattia stessa; c. le caratteristiche personali del paziente. a. Trattamento medico e qualità di vita I fattori più importanti che determinano la qualità di vita nei pazienti con tumore sembrano essere i disturbi somatici e psicologici. Tali disturbi possono essere una conseguenza del trattamento. La chirurgia spesso comporta mutilazioni, la radioterapia una serie di disturbi comuni e specifici, mentre la chemioterapia è la causa della maggior parte di questi disordini. Per definizione il trattamento antitumorale viene somministrato con estrema cautela: si cerca sempre di somministrare questo trattamento a dosi che siano in grado di colpire in maniera ottimale le cellule tumorali, ma allo stesso tempo che comportino una tossicità accettabile per le cellule sane. b. Malattia e qualità di vita Oltre al trattamento medico, non bisogna mai dimenticare che è anche la malattia in sé causa di disturbi. Sembra, ad esempio, che tra pazienti sottoposti alla stessa chemioterapia, quelli che già avevano metastasi abbiano più disturbi rispetto ai pazienti senza metastasi. Anche questo ha conseguenze per la cura di questi pazienti. In che misura i problemi somatici e psicologici si verifichino in certi momenti, dipende, tra le altre cose, dallo stadio e dal tipo di tumore. Alcuni decenni addietro l’attenzione era focalizzata particolarmente sulla possibilità del trattamento. Oggi si considera che per la qualità di vita sia di primaria importanza partire dai disturbi del paziente per stabilire cosa si possa fare per alleviarli. La ricerca ha dimostrato che il trattamento è meglio tollerato se la prognosi è favorevole. D’altro canto, anche la decisione di interrompere il trattamento finalizzato al prolungamento della vita, comporta spesso un sollievo: può essere fatta maggiore attenzione al benessere del paziente e alle cure palliative, per esempio nel trattamento dei sintomi: in altre parole, la miglior qualità di vita possibile. c. Caratteristiche personali e qualità di vita Nei pazienti con tumore si può notare una forte relazione tra le caratteristiche personali, come l’età e lo stato civile, e l’esperienza dei disturbi. Per esempio, i disturbi sono spesso più sentiti da pazienti soli che da persone sposate. Persone con una elevata autostima sono meno soggetti ai disagi della malattia rispetto ai soggetti nevrotici che necessitano di cure aggiuntive.

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4. L’utilità della misurazione della qualità di vita Se ci limitiamo a considerare l’EQ-5D, vediamo come questa scala fornisca una descrizione della qualità di vita di un paziente con tumore in un dato momento. Misurazioni successive indicano il corso della malattia e i risultati del trattamento, se invece si è scelto uno strumento di misurazione specifico per il tumore verranno indicati tutti gli andamenti. Oggi esistono questionari per quasi tutte la malattie e per ogni tipo di cancro. La cosa più semplice per gli specialisti in questo campo è aggiungere a un questionario EQ-5D generico un certo numero di domande specifiche relative ai possibili problemi di un tipo particolare di tumore, per esempio il tumore della vescica e i problemi collegati alla minzione. Per il medico che riporta i risultati del questionario in una banca-dati, questo significa essere in grado di scegliere il miglior trattamento per i pazienti attuali, sulla base del successo del trattamento nei pazienti precedenti. Inoltre, la banca-dati rivela gli effetti collaterali del trattamento che ci si deve aspettare e in che percentuale di casi. Anche chi fornisce servizi sanitari può quindi mettere a punto le proprie attività in base ai risultati delle rilevazioni della qualità di vita, e prepararsi meglio. Un altro vantaggio derivante dall’uso di uno strumento di misurazione della qualità di vita come l’EQ-5D è la capacità di valutare il rapporto costo-efficacia di una data terapia. In ambito di economia sanitaria alle persone con qualsiasi tipo di malattia o handicap viene chiesto di valutare il proprio stato di salute in una scala da 0 a1 in cui lo stato di piena salute è = 1. Il numero espresso viene moltiplicato per il numero di anni che si prevede di vivere in questa condizione. Per esempio, la qualità di vita di un soggetto che si preveda viva con una data patologia per 50 anni e alla quale patologia sia stato assegnato un punteggio o, come si dice anche, un peso di 0.5, risulta pari a 25 QALY, abbreviazione che sta per ‘anni di vita qualità-relati’ (‘quality adjusted life-years’). Quindi un QALY è un’unità di misura dell’aspettativa di vita di una persona (in anni) aggiustata per la qualità della sua vita. L’aspettativa di vita dipende dall’età media che una persona in un determinato paese può raggiungere. Il rapporto costo-efficacia (CE) di un trattamento è il rapporto tra i costi (economici) e il numero degli anni di vita guadagnati, aggiustati per la qualità. Quindi: CE = costo/numero di QALY. 5. Discussione e conclusioni Da quanto detto finora emerge che, nell’uso comune, con il concetto di ‘qualità di vita’ (QoL) si intende la qualità di vita in relazione allo stato di salute (HRQoL). In tal senso la misurazione della qualità di vita ha dimostrato di essere uno strumento utile in ambito sanitario, nella ricerca medica e farmaceutica e nel processo decisionale in campo politico e sociale. Tuttavia è chiaro che l’espressione ‘qualità di vita’ dice semplicemente qualcosa sul momentaneo stato di salute di un persona. Di fatto, non è nulla di più di una valutazione soggettiva del senso di benessere basata su un altrettanto soggettivo giudizio sulla propria condizione somatica e psicologica. Il risultato di una misurazione della qualità di vita fornita da qualsiasi strumento è un valore, ma ancora un valore soggettivo. Nondimeno, anche in ambito scientifico, esso è accettato come tale in quanto il paziente è l’unico in grado di dare un giudizio sulla propria qualità di vita. Finché qualcuno si limita a determinare la qualità di vita di qualcun’altro come se fosse il proprio stato di salute o benessere, nessuno può avere motivo di obbiettare nulla, neanche la Chiesa Cattolica Romana, se tale pratica è in accordo con i dettami della sua dottrina. Tuttavia il pericolo è che tale valore sia interpretato come qualità della persona umana e sia usato non solo come criterio per valutare il diritto di una persona di ricevere un determinato trattamento medico, ma anche come criterio per giudicare il diritto del paziente di continuare a vivere.

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Non è solo la Chiesa Cattolica Romana[5] a chiedere che la santità della vita rimanga un principio inalterato, ma anche alcune organizzazioni secolari, come ad esempio l’Associazione Medica Mondiale (WMA)[6], affermano che è dovere del medico proteggere la dignità del soggetto umano. Credo che l’obbiezione più fondata contro l’uso del concetto di ‘qualità di vita’ sia la seguente: etichettare uno stato di salute in base alla qualità di vita, offre l’opportunità per un abuso che consiste nella negazione del valore intrinseco della vita della persona umana, sulla base della considerazione del concetto di ‘qualità di vita’ come metro di giudizio per decidere l’esistenza futura di un essere umano concreto o di una categoria di persone[7]. Lo stesso dicasi per l’uso del QALY, dato che il QALY non è un criterio neutrale, esente da valutazioni valoriali[8]. Il QALY ha risvolti negativi soprattutto se applicato a pazienti con tumore a diagnosi sfavorevole e a persone anziane. Innanzitutto nel concetto di QALY il profitto è espresso in numero di anni di prolungamento della vita e, in generale, i pazienti con tumore e gli anziani hanno meno anni di vita davanti a sé rispetto alle persone sane e giovani. In secondo luogo questo stesso effetto è peggiorato dal fatto che nel concetto di QALY il prolungamento della vita è l’obbiettivo principale mentre la conservazione o il miglioramento delle funzionalità normali è considerato un fattore di correzione. Per la maggior parte dei pazienti con tumore a prognosi infausta e per le persone anziane è più importante vivere il più a lungo possibile e con minor numero di disturbi e fastidiosi handicap. Infine vorrei dire che in un certo senso sono la persona sbagliata per parlarvi di qualità di vita in pazienti con tumore. Come abbiamo visto la qualità di vita è una stima soggettiva, fatta dallo stesso malato di cancro, sul proprio stato di salute e benessere. Quindi al mio posto avrebbe dovuto esserci un malato di tumore ad informarvi sulle sensazioni di paura e a volte di rabbia, di speranza e anche di disperazione di chi ha avuto l’orribile diagnosi di un tumore a prognosi infausta. Senza dubbio egli sarebbe stato in grado di dirvi in maniera realistica come ci si sente sapendo di dover lasciare i propri cari e di dover morire in un futuro non troppo lontano. Sono sicuro che non sarebbe stato un arido riassunto delle risposte provenienti da uno strumento di misurazione della qualità di vita.

[1] E. Sgreccia, Rispetto per la vita e ricerca della qualità di vita in medicina: aspetti etici. Dolentium Hominum 28 (1995), pp. 154-160. [2] M. Tijhuis et al., Wat is kwaliteit van leven en hoe wordt het gemeten ? (Cos’è la qualità di vita e come si misura), Nationaal Kompas Volksgezondheid (2004), 19 Maggio, Bilthoven, Paesi Bassi. [3] R. Rabin e F. De Charro EQ-5D: a measure of health status from the EuroQol Group, The Finnish Medical Society Duodecim, Ann. Med. 2001; 33: 337-343. [4] J.C.J.M. de Haes Ziekte/behandeling en de kwaliteit van het leven van kankerpatiënten (Malattia/trattamento e qualità di vita nei pazienti con tumore) Kwaliteit van leven en zorg, L. Boon, Amstelveen (1988); pp. 39:43. [5] Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum Vitae (1987), Introduzione, par. 1. [6] Dichiarazione di Helsinki (1964) e ultima revisione del 2000 (Edimburgo, Scozia) [7] W.J. Eijk, Modelli etici per la gestione sanitaria, Dolentium Hominum 37 (1998) p. 61, Città del Vaticano, Roma. [8] A.W. Musschenga, Kwaliteit van leven: een criterium voor medisch handelen? (Qualità della vita: un criterio per la pratica medica?) Ambo, Baarn (1987), pp 142:143.

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NOËL SIMARD QUALITÀ DELLA VITA E PAZIENTI CON AIDS INTRODUZIONE Prima di entrare nel vivo della questione, e usandola come introduzione, vorrei riportare un’esperienza vissuta mentre ero presidente del HIV-AIDS Support Group di Sudbury un paese di minatori con 100.000 abitanti sita a 400 chilometri a nord di Toronto. Il 1 dicembre 1996, giornata mondiale dell’AIDS, il Sudbury HIV-AIDS Support group inaugurò la “House of Peace” (“Casa della Pace”), un centro di accoglienza per offrire ospitalità e alloggio a persone provenienti dal nord Ontario agli ultimi stadi dell’AIDS. Di fatto si presumeva che queste persone andassero a concludere i loro giorni a Toronto, lontano dalle loro famiglie e dall’ambiente sociale. Il primo ospite della “Casa della Pace” era Michel, un giovane di 32 anni. Secondo il suo medico, gli restavano solo pochi mesi da vivere dato che la malattia aveva causato danni gravissimi ai polmoni. Allora molti pensavano che Michel non avesse più una qualità di vita e che fosse preferibile non insistere dal punto di vista terapeutico e lasciarlo morire. Ma Michel era combattivo e amava vivere. Nonostante le sue condizioni fisiche molto critiche, la ridotta aspettativa di vita e nonostante i suoi ripetuti ricoveri in ospedale, grazie al miglioramento dei trattamenti medici e all’atmosfera “familiare” di accoglienza, compassione e rispetto della “Casa della Pace”, Michel si è attaccato alla vita ed è deceduto solo quattro anni più tardi, lasciando la testimonianza di una lotta eroica, una vita di gentilezza e tenerezza e di uno straordinario gusto della vita. Questa storia mostra come, rispetto all’AIDS, il concetto di qualità di vita sia complesso e delicato. In questo campo, bisogna essere attenti alle persone concrete, alle loro situazioni particolari, alle loro condizioni di vita, alle loro speranze e progetti e anche al loro ambiente sociale e spirituale. In questo intervento, cercherò in prima istanza di chiarire il concetto di qualità di vita, in seguito parlerò delle condizioni di vita delle persone affette da AIDS e, infine, metterò a fuoco i principali problemi etici legati al concetto di qualità di vita nei malati di AIDS. QUALITÀ DI VITA: UN TENTATIVO DI CHIARIMENTO Cosa si intende per qualità di vita? Esistono criteri oggettivi per determinare se una vita sia degna o meno di essere vissuta? È possibile stabilire il valore di una vita sulla base di alcuni elementi considerati essenziali? Chi può stabilire tali criteri? Non è piuttosto una questione personale, soggettiva che non dipende dal giudizio di persone estranee alla situazione della persona in questione? Può quindi essere lasciato alle persone sane la facoltà di valutare la qualità di vita di persone affette da AIDS? Anche se la qualità di vita è relativa al modo di concepire la vita proprio degli uomini e delle donne che vivono questa vita, si può dire che il concetto sia solo soggettivo? Non c’è qui una serie completa di condizioni che sono fondamentali e che abbiamo il dovere di realizzare, favorire e preservare per ogni essere umano? Non è dovere di ogni cittadino e, ancora di più, di ogni seguace di Cristo prendere parte alla creazione di un ambiente di vita favorevole allo sviluppo di ogni persona umana? L’espressione “qualità di vita” ha fatto la sua comparsa, nella terminologia medica e paramedica, negli anni ’50 in seguito agli sviluppi economici e sociali seguiti alla Seconda Guerra Mondiale che portarono un notevole benessere nelle società occidentali. A quel tempo la qualità di vita apparve come un nuovo criterio per definire la salute che non si considerava più mera assenza di malattia, ma che inglobava il benessere come requisito essenziale.[1] Tuttavia con l’uso di tecnologie sempre più perfezionate in ambito medico e scientifico, sorsero nuove questioni come la validità dell’uso di questi mezzi e risorse tecnologiche per insistere nel salvare una vita. Per trovare una soluzione al dilemma, ricercatori e medici hanno cercato di stabilire alcuni criteri per misurare la qualità di vita dei pazienti,

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ma tutti si sono limitati troppo spesso a valutare solo il benessere fisico e sociale. Ciò fino al punto di considerare la possibilità che una vita potesse essere non più degna di essere vissuta; i primi ad essere assoggettati a questi criteri furono i bambini con gravi handicap e gli anziani, persone avanti con l’età che avevano poca o nessuna coscienza e scarsa capacità diinterazione con il mondo circostante. Una delle conseguenze di questi sforzi di misurazione della qualità di vita fu una sempre maggiore accettazione dell’eutanasia come risposta a una vita considerata penosa e inutile. Presso il grande pubblico il concetto di qualità di vita assume varie connotazioni. Naturalmente esso comprende un insieme di valori economici necessari per vivere e che vengono misurati secondo parametri quali la produzione, le condizioni di lavoro e il tempo libero. Ma il concetto di qualità di vita si riferisce sempre di più anche alla qualità dell’ambiente – l’avanzamento dei “verdi” in Europa lo dimostra -, all’idea di felicità, alla possibilità del piacere, alla partecipazione, all’armonia, all’accordo sociale, ecc. Di nuovo, troppo spesso ci si limita ad una visione materialistica, economica che conduce facilmente all’individualismo, all’utilitarismo e all’edonismo e trascura le dimensioni morale e spirituale. Come scrive Giovanni Paolo II, “La cosiddetta «qualità della vita» è interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, dimenticando le dimensioni più profonde — relazionali, spirituali e religiose — dell'esistenza”.[2] Questi tentativi di misurare la qualità di vita, e i diversi significati che il concetto di qualità di vita ha e va assumendo, dimostrano l’ambiguità dell’espressione stessa. Dovrebbe dunque, tale espressione, essere abbandonata col rischio di cadere in una forma estrema di vitalismo che richiede che sia fatta qualsiasi cosa per salvare una vita? Come una delle espressioni della nostra epoca, il concetto rimane valido finché si prendono in considerazione tutte le dimensioni dell’esistenza umana, quella morale, quella spirituale così come quella sociale ed economica. Il concetto è accettabile se si basa soprattutto e per prima cosa sulla vocazione integrale dell’essere umano e sulla dignità della persona. Inoltre deve essere ben chiaro che tale dignità non è legata a qualche caratteristica particolare, come l’autonomia, l’autocoscienza, la capacità di intessere relazioni e comunicare, ecc. ma è innata e non viene meno con la scomparsa di una o di tutte queste caratteristiche vitali. In ogni caso, il concetto di qualità di vita non può trasformarsi in strumento di giudizio e di comparazione delle vite personali, come se alcune vite fossero qualitativamente superiori ad altre. Un tale confronto rischia di dimenticare il valore intrinseco di tutta la vita umana. In questo senso è utopistico voler stabilire dei criteri essenziali di valore di una vita oppure ordinarli gerarchicamente[3] poiché facendo ciò si corre il rischio, in definitiva, di discriminare persone la cui capacità intellettiva è gravemente compromessa o che sono considerate inutili per la società o incapaci di godere la vita. Naturalmente quando si pone l’accento sull’utilità sociale di una vita, o sulla capacità di godimento o sul piacere come criterio morale, quando non si riesce a vedere un senso nella sofferenza o quando la vita è considerata senza senso, allora la decisione di porre fine ad una vita piena di sofferenza che non comporta alcuna gioia o che non partecipa in nessun modo alla società, appare come unica scelta possibile. Per quel che riguarda la vita, il concetto di qualità non può offuscare il suo carattere di sacralità che non sarebbe più sostenibile di fronte e condizioni insopportabili. Una volta separato dal principio del carattere sacro della vita, il concetto di qualità finisce col giustificare il suicidio assistito dei pazienti affetti da AIDS che percepiscono la loro vita come non più degna di essere vissuta e che ritengono di avere il diritto di chiedere la soppressione della loro esistenza. Infine, per evitare qualsiasi ambiguità, la misurazione della qualità dovrebbe essere espressa da una parte da criteri oggettivi quantificabili e misurabili che possono essere di aiuto in situazioni complesse e dolorose e, dall’altra parte, dal fattore soggettivo, maggiormente legato al senso della vita e alla percezione che le persone hanno di se stesse e delle loro condizioni di vita. In questo contesto l’opinione che le persone malate hanno di se stesse è rivelante. Infatti, la maggior parte delle volte esse ritengono di avere una qualità di vita più alta di quella loro assegnata sulla base di strumenti di misurazione oggettiva.

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LE CONDIZIONI DI VITA DELLE PERSONE CON AIDS Prima di prendere in considerazione tale questione, è bene ricordare che l’HIV è sempre trasmesso attraverso rapporti sessuali non protetti, l’uso promiscuo di siringhe o materiale per l’iniezione di droghe, la gravidanza, il parto e l’allattamento (dalla madre affetta da HIV al bambino), l’uso di materiale non sterile per forare la pelle (piercing), fare tatuaggi o l’agopuntura, l’esposizione professionale in strutture sanitarie e, sebbene oggi succeda raramente, la trasfusione di sangue infetto. L’AIDS continua ad essere una patologia letale perché nonostante i progressi fatti nelle cure (che hanno reso possibile – soprattutto nei paesi occidentali – di prolungare la vita delle persone con l’HIV/AIDS e di migliorare la loro qualità di vita[4]) oggi alcuni trattamenti risultano inefficaci poiché nuovi ceppi di virus sono diventati resistenti ai farmaci e la triplice terapia è disponibile ancora per un numero troppo limitato di persone in tutto il mondo. Infatti mentre non si conosce con certezza il numero di persone infette dall’HIV che svilupperà in un secondo momento l’AIDS, e nonostante il miglioramento dei trattamenti e delle cure, la maggior parte di queste persone – soprattutto di quelle nei paesi in via di sviluppo – morirà a causa della malattia. La prevenzione rimane l’unico argomento valido fino alla scoperta di una cura o di un vaccino. La storia dell’AIDS è una storia di lotte, battaglie, sofferenza, colpevoli responsabilità e di confronto con il tempo e con la morte.[5] Questo spiega perché le condizioni di vita delle persone con AIDS sono particolari e dolorose. Dal punto di vista biologico, il virus attacca il sistema immunitario dell’organismo che deve combattere continuamente il virus. Dal punto di vista psicologico, l’individuo infetto deve lottare con l’angoscia dell’imminenza della morte, contrastare l’immagine negativa proiettata dalla società e che minaccia la sua salute mentale – anche se tale situazione è migliorata dopo la scoperta del virus. Egli deve lavorare incessantemente per la riorganizzazione psichica del suo essere, sviluppare meccanismi di autodifesa, ecc. Egli deve anche superare molte difficoltà causate dall’HIV: la paura del rifiuto e del giudizio, la paura di soffrire, la vergogna di essere affetto da un virus “infamante” e il senso di colpa per la possibilità di averlo trasmesso, la reazione di isolamento, la difficoltà nel comunicare la propria condizione nel proprio ambiente, l’assenza del contatto sessuale o l’eccessivo investimento in attività sessuali, il superlavoro e la spossatezza, ecc.[6] Egli deve anche lottare perché sia rispettata la sua dignità di persona, per difendere i suoi diritti (all’assistenza sanitaria, a un’accoglienza decente, al lavoro, all’assicurazione, ecc.) per reclamare il suo posto nella società contro tutte queste forme di rifiuto, esclusione o ostracismo. A volte egli deve combattere contro forme di intrusione corporea (per scopi di ricerca o trattamenti sperimentali) e per la sua vita privata (violazione della riservatezza, esposizione dei suoi sentimenti, ecc.). Una persona con AIDS sperimenta anche difficoltà particolari nel cercare le energie necessarie per pensare e comportarsi in maniera positiva quando la malattia entra nella fase acuta. Egli dovrà affrontare gli effetti collaterali che sono molto difficili da sopportare, specialmente sul lungo periodo. Questi effetti sono talmente gravosi che alcuni pazienti hanno cercato di interrompere il trattamento. L’AIDS comporta sofferenza. Esso getta gli uomini e le donne infette in uno stato di afflizione morale e psichica. L’AIDS non solo colpisce il corpo rendendolo vulnerabile, ma mina gli stessi fondamenti dell’esistenza. Le persone affette da questa patologia devono affrontare molte sfide. Questa gente deve convivere con il dolore, la stanchezza e la riduzione della propria attività per un considerevole periodo della loro vita. Devono anche adattarsi a nuovi trattamenti e a ripetuti ricoveri ospedalieri. Devono affrontare nuove emozioni evocate dalla malattia e la crescente angoscia e incertezza del futuro. Le persone affette non solo devono affrontare l’incertezza della loro salute futura, ma spesso devono anche sopportare il dolore di gravi perdite. I pazienti con AIDS possono gradualmente perdere il controllo delle attività quotidiane della loro vita e soffrire per la perdita di controllo sugli eventi. Essi devono anche affrontare le difficoltà derivanti dall’essere inabili al lavoro e dai problemi finanziari. Poiché perdono spesso la loro indipendenza, trovano difficoltà a dipendere da altri per l’assistenza pratica e il

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supporto emotivo. Devono anche avere a che fare con l’esperienza dolorosa della rinuncia ai progetti su se stessi, come avere una famiglia … Le persone affette da AIDS possono sentirsi minacciate nella loro immagine e autostima e provare l’ulteriore sofferenza del rifiuto e della discriminazione. Infine, per molti malati, le sofferenze legate all’AIDS si collocano in un contesto di sensi di colpa. Le persone affette, quando vengono a conoscenza della loro malattia, cercano la causa o l’origine della loro infezione. Magari scoprono la responsabilità di un brutto ambiente. Ma molto presto sviluppano uno schiacciante senso di colpa quando si rendono conto del loro contributo alla diffusione del virus, verso il partner al quale sono legati o un bambino non ancora nato o ancora con la donazione del sangue. Tale senso di colpa è fortemente percepito dalle donne sieropositive che molto spesso sono state infettate senza saperlo e possono quindi aver trasmesso il virus ai bambini che portano in grembo o che allattano al seno. Nei paesi in via di sviluppo la situazione è ancor più seria e tragica. Alla fine del ventesimo secolo, l’HIV aveva già colpito più di 50 milioni di persone e causato la morte di 21.8 milioni. Secondo le stime UNAIDS,[7] il numero di adulti e bambini sieropositivi nel mondo ha raggiunto, alla fine del 2003, la cifra approssimativa di 38 milioni (35-42 milioni), e l’AIDS è stata la causa di 2.9 milioni di decessi (2.6-3.3 milioni) nel 2003. Più di 34 milioni di persone nei paesi in via di sviluppo sono sieropositive e corrispondono al 90% dei sieropositivi di tutto il mondo. Solo nell’Africa sub-sahariana vive il 70% di tutti i sieropositivi. Si è calcolato che nel 2003, in questa stessa regione,ci siano state 3 milioni di nuove infezioni e 2.2 milioni di decessi dovuti a questa malattia, cioè il 75% del totale mondiale. Mancanza di informazione, sistema sanitario inadeguato e una dieta povera – il tutto collegato ad una estrema ed endemica povertà – rendono i più poveri dei paesi più svantaggiati, le persone più vulnerabili all’HIV/AIDS. Per questo motivo HIV e AIDS hanno un impatto ancora maggiore nei paesi poveri e ciò si manifesta, tra le altre cose, in un dannoso rallentamento dello sviluppo. I danni provocati dall’HIV e dall’AIDS non si limitano agli individui; ci sono ripercussioni sulla famiglia, la comunità, la regione, il paese e anche sulla comunità internazionale. Nei paesi in via di sviluppo, HIV e AIDS hanno reso ancor più gravosa la povertà e creato nuove privazioni e bisogni. L’impatto sullo sviluppo è enorme ed è riscontrabile a tutti i livelli: l’economia, il mercato del lavoro, la demografia, la sicurezza alimentare, l’assistenza sanitaria e la vita sociale.[8] In questi paesi, dove l’aspettativa di vita è più bassa del periodo precedente all’emergenza della pandemia, questa malattia è diventata, secondo quanto espresso dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan,“l’ostacolo più grande dei nostri tempi allo sviluppo”. In considerazione dell’allarmante diffusione dell’epidemia, la maggior parte dei paesi africani, tra gli altri, deve ora sopportare un peso economico sproporzionato rispetto alla capacità di reazione. La morte di molti individui adulti in età lavorativa, l’infezione delle donne, specialmente delle madri, e il drammatico aumento del numero degli orfani, solleva, quindi, problemi enormi e di difficile soluzione per il futuro per i governi di questi paesi africani. Come si può leggere in un articolo della ACDI (Agence Canadienne de Développement International), “Quando genitori, insegnanti, agricoltori, lavoratori edili, imprenditori, infermieri e amministratori continuano a morire a migliaia ogni anno, le famiglie, le comunità e i paesi smettono di lavorare. I bambini, costretti a prendersi cura delle loro famiglie lavorando o mendicando per guadagnarsi da vivere, non hanno il tempo di andare a scuola. I campi non sono più coltivati poiché la gente è troppo malata per lavorarvi. Le attività e i servizi di base sono sconvolti, le economie soffrono e le comunità vanno in rovina. A causa dell’HIV/AIDS la gente non è più in grado di uscire dalla povertà, di migliorare le proprie semplici condizioni di vita e di contrastare efficacemente la malattia”.[9] A causa dei gravi problemi economici, i paesi in via di sviluppo non sono in grado di stanziare le risorse necessarie per l’assistenza delle persone con HIV/AIDS. I servizi sanitari in questi paesi sono obsoleti in rapporto ai bisogni e tragicamente mancano di impianti adeguati, equipaggiamenti di protezione e altro materiale che rende possibile l’assistenza ai malati di HIV/AIDS. Attualmente, nell’Africa sub-sahariana, le organizzazioni locali non governative e le reti tradizionali della famiglia

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allargata, gli amici e vicini cercano di riempire il grave vuoto dell’assistenza. Ma tale rete non è più sufficiente per assolvere a questo compito essendoci un limite a ciò che questa gente può fare nel prendersi cura delle persone che hanno a carico e nell’affrontare i costi della loro malattia e dei decessi. ALCUNI DEI MAGGIORI PROBLEMI RELATIVI ALLA QUALITÀ DI VITA DELLE PERSONE AFFETTE DA AIDS I problemi etici più importanti correlati al concetto di qualità di vita nelle persone con AIDS sono diversi a seconda che si considerino i paesi occidentali o quelli in via di sviluppo. Nei paesi occidentali la qualità di vita dei malati di AIDS – in relazione alle condizioni socioeconomiche e all’assistenza sanitaria – è palesemente migliorata dopo la messa a punto della triplice terapia che, grazie alla sua efficacia, ha reso possibile la diminuzione della mortalità dovuta all’AIDS. Sicuramente i trattamenti antiretrovirali, insieme a efficaci misure di prevenzione e a campagne di informazione attentamente studiate, hanno prolungato la vita di questi pazienti e hanno permesso loro di recuperare – nonostante i gravi effetti collaterali – una certa qualità di vita. Tuttavia sono emersi nuovi problemi. La copertura mediatica che ha mostrato i vantaggi attribuiti ai trattamenti antiretrovirali ha portato a credere erroneamente che essi fossero in grado di curare l’AIDS e che si potessero abbandonare le misure di prevenzione. In alcune città degli Stati Uniti si è registrata une recrudescenza della diffusione dell’infezione. Molti preferiscono avere una migliore qualità di vita senza atteggiamenti di prevenzione – questo è quello che dicono – piuttosto che una più lunga aspettativa di vita. Nei paesi occidentali è necessario continuare la prevenzione e le campagne di informazione indirizzate agli adolescenti e ai gruppi vulnerabili. Ciò è urgente da un punto di vista integrale o olistico della persona umana che dovrebbe essere adottato dalle autorità e dai gruppi responsabili della prevenzione, informazione e assistenza. Ciò che è necessario è lavorare sul significato della vita e offrire ai malati di AIDS ragioni per vivere e non solo buone condizioni di vita socioeconomiche, per quanto importanti. Come sottolinea il Dr. Rafael Mazin, “La nostra valutazione della progressione dell’epidemia mostra anche che bisognerebbe dare maggior peso ai bisogni relativi all’assistenza delle persone sieropositive. Questi bisogni non si limitano all’assistenza medica primaria, ma comprendono il trattamento della persona nella sua totalità e la costituzione di una vasta gamma di servizi tra cui l’assistenza psicologica, il supporto emotivo e sociale e le raccomandazioni sulla dieta. Rispondendo a questi bisogni non si migliora solo la condizione fisica dei pazienti, ma anche il loro stato emozionale e la qualità della loro esistenza che permette loro di vivere con dignità e rispetto di sé”.[10] È un vero peccato che il Dr. Mazin non abbia menzionato i bisogni di natura spirituale che, se non soddisfatti, lasciano un vuoto e una carenza di significato in molti malati di AIDS. Non sorprende il fatto che, quando la terapia antiretrovirale non ha più efficacia e l’AIDS comincia a danneggiare l’organismo, la gente malata nei paesi ricchi promuova il diritto all’eutanasia per mettere fine ad una vita considerata ormai inutile e senza valore.[11] Il diritto a morire con dignità, ossia senza sofferenze, con consapevolezza e quando si vuole, è sempre più invocato non solo dai malati di AIDS, ma anche da tutti quelli che, uomini e donne, non se la sentono di affrontare la devastazione degli ultimi stadi di patologie come, ad esempio, l’Alzheimer. Questo crescente consenso verso il suicidio assistito in Canada e in altri paesi occidentali per quei malati allo stadio terminale, la cui speranza di recupero è praticamente nulla, dimostra la necessità di agire non solo per migliorare le condizioni di vita del malato, ma anche per proporre ragioni per vivere e per soffrire. Nei paesi in via di sviluppo, il problema etico maggiore legato alla qualità di vita è il miglioramento delle condizioni socioeconomiche e l’accesso alle cure. Dal 13 al 16 luglio 2003 Parigi ha ospitato la Seconda Conferenza dellaInternational AIDS Society on HIV, pathogenesis and treatments. In occasione di una sessione plenaria straordinaria, Nelson Mandela, il primo presidente del Sudafrica, ha fatto un appello straordinariamente forte ai partecipanti alla conferenza: “Non siamo riusciti a trasformare i nostri progressi scientifici in azione lì dove ce n’è più bisogno, nelle comunità dei paesi in

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via di sviluppo, le regioni più povere del globo. Questo costituisce un’ingiustizia mondiale che non può essere tollerata. È un’onta per i diritti umani su scala mondiale”. Nel contesto di questa Conferenza, la domenica ha avuto luogo un forum che ha permesso ai partecipanti di scambiarsi punti di vista sulle loro aspettative sulla ricerca sia a livello medico sia in relazione all’accesso alle cure. Il forum ha messo in luce ancora una volta la eclatante disuguaglianza nell’accesso ai trattamenti e alle cure tra il Nord e il Sud, che Maria-José Mbuzenkamwe non ha mancato di denunciare. Quest’ultima è un medico, co-presidente del “comitato delle relazioni con la comunità” della conferenza e attivista dellaNational Association per il sostegno dei malati di AIDS del Burundi.[12] Ci sono sicuramente alcuni progetti che stanno dando i loro frutti, ma sono troppo limitati e ridotti per le dimensioni del fenomeno. Pensiamo al coinvolgimento di persone con l’AIDS negli organismi non governativi che ha, per loro, effetti benefici come la prevenzione dell’isolamento, una maggiore conoscenza dell’HIV/AIDS (compresa la terapia e un più facile accesso alla cura), una maggiore accettazione della sieropositività e una maggiore autostima, un lavoro o benefici materiali essenziali per il loro benessere e per quello delle loro famiglie, un cambiamento nel comportamento sessuale, una maggiore accettazione familiare: in breve, un generale miglioramento della loro salute fisica e psicologia.[13] Alcune persone malate nei paesi in via di sviluppo hanno ottenuto il trattamento antiretrovirale che ha permesso loro di recuperare una certa qualità di vita e di prolungare la loro aspettativa di vita. Ma questo fatto è più simbolico che significativo in quanto si verifica solo per una piccola minoranza di persone affette da HIV/AIDS nei paesi in via di sviluppo. Ciò che è necessario è l’accesso alla cura per tutti, in linea con l’argomento della XV Conferenza Internazionale sull’AIDS di Bangkok (11-16 luglio 2004). L’obbiettivo di quella Conferenza era di favorire l’accesso alle scoperte scientifiche essenziali riguardanti l’HIV, la prevenzione, il trattamento e le diverse risorse per i popoli di tutto il mondo. Alcune iniziative sono già state portate avanti in questo senso, in particolare il Fondo Mondiale per la lotta all’AIDS, Tubercolosi e Malaria, l’Emergency Aid Plan for AIDS Victims (PEPFAR), proposto dal presidente Bush per offrire terapie e cure ai quindici paesi più colpiti dalla malaria; e il “Tre milioni da adesso al 2005”, un’iniziativa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, un programma il cui obbiettivo è quello di offrire la terapia antiretrovirale a tre milioni di persone malate entro la fine del 2005. Tutto ciò è davvero encomiabile, ma sono necessari più fondi e assistenza tecnica per rafforzare le strutture sanitarie nei paesi in via di sviluppo. Da parte dei paesi ricchi ciò significa dare supporto alle strategie nazionali con l’obbiettivo di formare operatori sanitari, organizzare sistemi di distribuzione e approvvigionamento di medicinali e controllare e valutare i programmi legati all’HIV/AIDS. Questo significa un sostegno per queste iniziative, come la legge canadese C-9, che permette la produzione di versioni a costi ridotti di farmaci coperti da brevetto destinati ai paesi in via di sviluppo. Finché l’accesso alle terapie di combinazione e all’assistenza non sarà generalizzato nei paesi più colpiti dalla pandemia dell’AIDS e finché sarà limitato a gruppi ristretti di malati, la distanza tra Nord e Sud non cesserà di aumentare e mostrerà in maniera ancora più acuta la situazione degli emarginati a causa della pandemia. È urgente dare una risposta a questa esigenza di giustizia e solidarietà se vogliamo fermare la diffusione dell’HIV/AIDS e invertire la tendenza. Questo non può essere fatto senza perseguire altri obbiettivi di sviluppo come la lotta contro la povertà e la fame, il miglioramento dell’educazione e l’uguaglianza tra i sessi. Solo attraverso azioni concordate e un impegno reale da parte dei paesi ricchi, i paesi in via di sviluppo saranno in grado di fronteggiare la sfida dell’AIDS. La questione non è tanto il miglioramento della qualità di vita, ma piuttosto la sopravvivenza di milioni di nostri fratelli e sorelle. CONCLUSIONE Questa breve riflessione sulla qualità di vita in malati con HIV/AIDS ci mostra l’importanza di comprendere adeguatamente il significato di tale espressione. È molto importante mantenere un equilibrio tra i criteri oggettivi e la dimensione soggettiva della percezione della vita così come tra le

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condizioni socioeconomiche di vita e i valori morali e spirituali. Per raggiungere questo equilibrio è necessario un punto di vista integrale sulla persona umana e sul suo destino, rispetto per la sua dignità sostanziale e un impegno concreto per il benessere di tutti i membri della grande famiglia umana. Anche se sussistono alcune somiglianze , le condizioni di vita dei malati di AIDS non sono le stesse nel Nord e nel Sud. La differenza si manifesta anche nei problemi più importanti legati alla qualità di vita: nei paesi ricchi il problema più grande sembra essere relativo alla percezione della vita e al suo significato, mentre nei paesi poveri esso si esprime maggiormente in termini di condizioni socio-economiche, essenziali per una vita dignitosa. Se la Chiesa vuole portare avanti azioni efficaci per migliorare la qualità di vita delle persone con HIV/AIDS deve conoscere questi problemi e trovarvi un rimedio che si possa adattare alle circostanze temporali e locali e rispondere, con discernimento e coraggio, ai diversi e specifici bisogni delle persone, tutto nell’ambito di una reale preoccupazione di incarnare il Vangelo della carità, della giustizia e della compassione di Cristo.

[1] Per un breve approfondimento del concetto di qualità di vita, si veda: Paccini, Renzo, Qualità della vita in Pontificio Consiglio per la Famiglia, LEXICON Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, Edizioni Dehoniane, Bologna, 2003, pp. 763-768. [2] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae sul valore dell’inviolabilità della vita umana, N. 23. [3] La ricerca o l’elaborazione di strumenti per misurare la qualità della vita non è, tuttavia, senza utilità. Nell’area sanitaria può aiutare a definire meglio la vita e a capire le sue caratteristiche. Su questo argomento può essere utile leggere il volume, Mesure de la Santé Perceptuelle et de la Qualité de vie: méthodes et applications, a cura di Alain Leplège and Joel Coste, De Boeck, 2002 edition, 336pp. [4] La ricerca “EuroAids”, che ha studiato più di 9800 pazienti seguiti in 70 centri in Europa, Argentina e Israele, ha mostrato che dopo la prescrizione della triplice terapia e la comparsa di nuove molecole anti-AIDS (la nuova generazione di antiretrovirali), l’incidenza dell’AIDS è diminuita del 50% e la mortalità per AIDS è crollata in maniera eclatante (naturalmente solo nei paesi in cui queste terapie sono disponibili), The Lancet, 4 luglio 2003. [5] Per questo argomento, ho tratto spunto dal Capitolo 3 del mio libro Le Sida Enjeu éthiques et spirituels (Mediaspaul, Montreal/Paris, 1995), Le sida et les situations-limite de l’existence, pp. 115-163. [6] Su questo argomento si veda l’articolo di Johanne de Montigny: “Aspects psychosociaux” in Olivier Clément e Thomas Réjean, Le sida: un nouveau défi medical, Association des médecins de langue française du Canada, Montreal, 1991, pp. 256-270. [7] Tavola riassuntiva “the epidemic of HIV infection and AIDS around the world, end of 2003.XV International Conference on AIDS in Bangkok 2004,www.unaids.org/bangkok2004/GAR2004_pdf_fr/GAR2004_Graphics.fr.pdf [8] La “Canadian Agency for International Development” ha pubblicato un articolo molto pertinente sull’impatto dell’HIV/AIDS sullo sviluppo che dimostra che l’epidemia è molto più che un semplice problema sanitario (Les priorités de développement social de l’ACDI, September 4, 2000, http://www.acdicida.gc.ca/sida.htm). [9] Les priorités de développement social de l’ACDI, July 14, 2004, http://www.acdicida.gc.ca/sida.htm [10] Quando scrisse queste righe, il Dr. Mazin era consigliere regionale sulla prevenzione e il trattamento dell’HIV/AIDS dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Ufficio Regionale per le

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Americhe, Pan –American Health Orginzation. Mazink, Rafael, La prevention et le traitement du VIH/sida dans les pays en voie de développement, Dossiers mondiaux, Dec. 2001, Sommaire/Revues IIP, http://usinfo.state.gov/journals/itgic/1201/ijgf/gj-4f.htm [11] Nei primi anni ’90, David Lewis, un consigliere sull’AIDS di Vancouver, Canada, egli stesso affetto da AIDS, sollevò uno scandalo e una discussione di natura etica e legale quando ammise pubblicamente di aver aiutato più di 8 suoi amici malati di AIDS ad assumere una dose letale di farmaci. Anche se il suicidio assistito è considerato un crimine in Canada, Lewis non fu mai perseguito penalmente. [12] In un discorso militante, dopo aver ricordato le promesse fatte dai paesi ricchi e dai loro governanti e dopo aver menzionato – come barlume di speranza – le strategie e le azioni intraprese localmente per la responsabilità globale nel problema dell’AIDS, Marie-Josée Mbuzenkawme denunciò l’ipocrisia occidentale: “Ci sono due realtà: una fatta di parole, che finisce col non avere più senso, alimentata da annunci di impegni mai concretizzati, e un’altra realtà, quella che viviamo noi, dove il numero di decessi e nuove infezioni continua ogni giorno ad aumentare”. Il testo completo del discorso è reperibile sul controverso sito Internet di “Act Up Paris” – www.actupparis.org/article1205/html. [13] Su questo argomento si veda l’articolo, Vers une implication plus significative des personnes vivant avec VIH/SIDApubblicato dalla rivista canadese, VIH/SIDA et DROIT (volume 7, Nos. 2-3, December 2003) e basato su un lavoro di Christophe Corne presentato alla Conferenza di Barcellona nel 2002.

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LUIGI POSTIGLIONE QUALITÀ DELLA VITA ED AMBIENTE AMBIENTE – EFFETTO SERRA L’ambiente, com’è noto, rappresenta la parte fisica dell’ecosistema “Terra”, ed è costituito dalla sfera terrestre (terraferma ed oceani) e dalla fascia gassosa che l’avvolge (atmosfera). Continui ed incessanti sono gli scambi e le interrelazioni tra terra ferma ed atmosfera e tra questa e gli oceani. In tali scambi e relazioni intervengono anche i bionti (piante, animali e uomo), i quali, a loro volta, sono altamente intercorrelati tra loro e con i fenomeni che si svolgono nella parte fisica. Tra i diversi componenti si stabilisce sempre un equilibrio, e, quando per cause diverse, uno di tali elementi subisce una variazione, l’intero ecosistema, grazie al suo potere di autoregolazione, si attesta su nuovi equilibri. Oggi, però, la componente “uomo”, prima con l’impiego dei prodotti fossili per ricavarne energia e poi, gradualmente con lo sviluppo delle nuove tecnologie, soprattutto nel settore chimico, riesce a turbare in maniera consistente i corretti rapporti tra i vari elementi, immettendo direttamente o indirettamente nel sistema prodotti inquinanti ossia sostanze che possono avere effetti nocivi sulla salute umana o sull’ambiente nel suo complesso. L’esempio più noto del turbamento indotto dall’uomo nel sistema è il continuo aumento nell’atmosfera dell’anidride carbonica e di alcuni altri gas, dovuto alla combustione di prodotti fossili nei motori delle auto, negli impianti industriali e nel riscaldamento domestico.[1] Tale aumento determina l’”effetto serra”, per il quale la temperatura del pianeta va gradualmente aumentando, secondo i vari modelli, da 1,5 a4,5 °C (Kerr, 1984) fino a 5,5 (Adams et al., 1990),da 1,4. a 5,8 tra il 1990 e i1 2100 secondo l’IPCC (2002). Come conseguenza, nel tempo, si avrà lo scioglimento di parte dei ghiacciai, l’aumento del livello del mare (stimato in 5-6 metri, Abelson, 1984) e quindi la scomparsa di pianure costiere e di parti basse delle città. L’effetto serra determina, essenzialmente, un cambiamento climatico che comporterà anche una considerevole variazione del regime delle piogge, con riflessi sulle colture e quindi sulla vita delle popolazioni residenti. Per ridurre l’anidride carbonica nell’aria, bisognerebbe allora limitare l’impiego dei prodotti fossili per ottenere energia. Alla riduzione dell’anidride carbonica, invero, può contribuire in maniera consistente la vegetazione (agricola, forestale, ornamentale) perché le piante assorbono anidride carbonica nel processo di fotosintesi in misura varia, secondo la specie, l’età, e lo stato di sviluppo, e restituiscono all’atmosfera ossigeno purissimo nella misura di un terzo dell’anidride assorbita. In larga media da un ettaro di arbusti ed alberi ornamentali vengono assorbiti 114 kg di anidride carbonica il giorno. Occorrerebbe pertanto ricoprire tutti i terreni disponibili d'alberi, arbusti, pascoli e colture varie, ossia creare una vera e propria “cultura del verde”. Si potrà, così, anche favorire la produzione di combustibili dalle biomasse vegetali. Con l’impiego di questi ultimi come fonte di energia, vi è il grande vantaggio di immettere nell’atmosfera solo una parte dell’anidride carbonica assorbita dalle piante da cui derivano, e una quota minima degli inquinanti che, invece, si sviluppano nella combustione dei prodotti fossili, INQUINAMENTO ARIA ATMOSFERICA Allo stato, l’aspetto più grave della combustione dei prodotti fossili è dato, però, dalla continua immissione nell’aria, di sostanze chimiche altamente molto nocive per la salute dell’uomo e degli altri bionti, alle quali si aggiungono i prodotti gassosi e i fumi di alcune industrie. Notevole è pure l’apporto

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di sostanze nocive derivanti dalla gestione dei rifiuti urbani: discariche, impianti di termovalorizzazione, inceneritori[2]. Per l’inquinamento dell’aria atmosferica i primi composti sotto accusa sono i vari ossidi di azoto, l’anidride solforosa, l’idrogeno solforato, l’ossido di carbonio, l’ammoniaca, il piombo, i composti organici volatili (COV), e la serie è molto lunga; a loro bisogna aggiungere poi la maggior parte degli antiparassitari e dei diserbanti usati irrazionalmente in agricoltura. Tutti questi sono detti inquinanti “primari”; vi sono poi alcuni inquinanti “secondari”, come l’ozono (nella troposfera), e il nitrato di perossiacetile (PAN) originatati, per reazioni fotochimiche da O2, NOX, COV, secondari per la loro formazione, ma non certo per i danni che producono (Gasparini et al., 2002). Questi composti in linea generale inquinano l’aria causando determinate patologie, che riguardano principalmente la sfera polmonare. Essi, con le piogge, inquinano poi il terreno e le colture presenti con effetti sfavorevoli sulla salubrità dei prodotti alimentari. Infatti, quando cadono su ortaggi e frutta o penetrano in essi attraverso il terreno, sono causa di patologie gastro-intestinali[3]. Inoltre, in alcune circostanze. determinano le “piogge acide”, estremamente pericolose per la vegetazione. Infine, molto spesso, attraverso il terreno, giungono sulla falda freatica, rendendo le acque non potabili[4]. Nell’aria, inoltre, possono essere sospese particelle di diametro compreso tra 0,005 e 50-150 µm che costituiscono il “particolato”[5]; sono composte da diverse sostanze: prevalentemente polveri di metalli vari e particelle carboniose non completamente combuste; possono esservi presenti anche cemento, calcinacci vari per il decadimento di alcuni edifici, talora anche di monumenti. Queste ed altre forme di inquinamento sono frequenti soprattutto nelle città, nelle quali, per la concentrazione del traffico veicolare, per gli impianti di riscaldamento degli edifici, e per la presenza di alcune industrie, le emissioni di anidride carbonica, di prodotti nitrici, di composti solforati e di COV sono molto elevate. Va detto, inoltre, che spesso in queste città per l’eccessiva agglomerazione di case, per la presenza di edifici molto alti e per la ristrettezza delle strade (cañòn di cemento), inquinanti e particolato ristagnano e producono danni maggiori alla salute. Vanno ricordati, infine, i danni prodotti dall’amianto, l’uso del quale, però, adesso è vietato. INQUINAMENTI IN AMBIENTI CHIUSI Un inquinamento del tutto particolare è quello che si verifica in alcuni ambienti chiusi, dai laboratori chimici agli opifici delle varie industrie. In questi ultimi si va dall’eccesso di particolato e di sostanze tossiche, secondo la tipologia dell’industria, all’eccesso di umidità nei locali per la lavorazione del tabacco o di alcune derrate alimentari, con patologie specifiche per ogni tipo d’inquinamento. Così nelle serre nelle quali, per sostenere la produzione di due o tre colture l’anno, s’impiegano dosi elevatissime di concimi e di fitofarmaci, questi prodotti inquinano sia l’atmosfera protetta sia quella esterna, e spesso si ritrovano negli ortaggi e nella frutta che vi si coltivano.[6] Naturalmente, poi, pericolose sono tutte le attrezzature che usano radiazioni varie, attrezzature concentrate nei laboratori degli ospedali, ma presenti anche negli studimedici disseminati in tutta la città. Si ricordano pure i danni (cancro al polmone, in prevalenza) derivanti dall’esposizione al Radon[7] al quale sono soggetti coloro che lavorano nei tunnel, metropolitane, sottovie, catacombe, grotte, in stabilimenti termali e miniere, nonché il personale navigante sugli aerei. Ed infine non va trascurato l’inquinamento da onde elettromagnetiche, onde con le quali, tra antenne radio- e tele-trasmittenti da una parte e telefonini dall’altra, ormai conviviamo e che da molti sono ritenute causa di gravi patologie. Negli opifici bisogna tener conto anche dell’inquinamento acustico, che raggiunge il massimo in alcune industriemetal-meccaniche, con valori che determinano alterazioni spesso gravi all’apparato uditivo. L’inquinamento acustico, invero, è frequente ora anche nelle città a causa del grande traffico e dell’uso, spesso irrazionale, di clacson e segnalatori vari, nonché per gli eccessivi rumori dei motori di alcune motociclette.

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AMBIENTI CHIUSI PARTICOLARI Un discorso a parte meritano le discoteche e i locali similari frequentati dal cosiddetto “popolo della notte”. In tali locali generalmente l’aria è viziata dalla mescolanza di fumo, d'alcool e spesso di droghe, sia naturali che di sintesi chimica. All’aria viziata si devono aggiungere poi le musiche che superano sempre il livello comune di decibel e poi le luci psichedeliche. Dalla combinazione di tutti questi fattori sfavorevoli si determina un ambiente nel quale il semplice stordimento rappresenta il danno minimo per coloro che lo frequentano. Se poi si aggiunge che queste persone di norma vi entrano a notte già inoltrata per uscirne all’alba, ci si rende conto dei frequenti incidenti automobilistici spesso mortali. Ma, anche senza arrivare ai disastri estremi, vi è da dire che questo popolo della notte dice di aver cambiato i propri bioritmi, tuttavia il vivere di notte, senzaavere i benefici della radiazione solare, avrà, a lungo andare, conseguenze negative sulla salute. INQUINAMENTO DEL SUOLO Nel suolo, oltre all’inquinamento e ai danni per la salute provocati dal deposito di sostanze tossiche vaganti nell’atmosfera o portate dalle acque, di alcune delle quali ho già fatto cenno, si riscontra spesso la presenza dimetalli pesanti, come Ferro, Piombo, Manganese, Zinco, Cromo, Rame, Nichel. Di questi qualcuno deriva dalla decomposizione d'alcune rocce, i più vi sono apportati con i gas di scarico dei motori, oppure con i fumi e le acque di lavaggio di alcune industrie (Adamo et al., 2003). Comunque, quando uno di questi metalli supera il proprio valore limite per la sicurezza, valore minimo per alcuni, viene assorbito dalle piante, e si ritrova negli alimenti e causa patologie varie. QUANTITÀ E QUALITÀ DELL’ACQUA Tra i problemi emergenti nel nostro pianeta un posto principale occupa l’acqua per gli usi domestici, industriali ed agricoli. Questa risorsa, preziosa per la vita e la sua salubrità, comincia a scarseggiare un po’ dappertutto, senza contare che nei Paesi della fascia equatoriale, e particolarmente nei climi aridi, è spesso assente per alcuni periodi. E la ricerca dell’acqua, prevalentemente dal sottosuolo, o il suo trasporto dalle zone che ne sono fornite mediante lunghe canalizzazioni e gallerie, costituiscono la premessa per garantire condizioni di vita anche minimali per diverse popolazioni della terra. Oggi poi, oltre alla carenza, vi è un altro aspetto che preoccupa, ossia quello della qualità. Infatti, a parte le varie forme d’inquinamento alle quali ho fatto cenno, l’acqua presenta oggi un lento ma progressivo aumento del contenuto salino, e ciò sia per l’innalzamento della temperatura che favorisce l’evaporazione e quindi una maggiore concentrazione dei sali (evapora solo il solvente, l’acqua, e non il soluto, il sale), sia perché ormai quasi dovunque, per gli usi civili, industriali e soprattutto agricoli, si utilizza acqua sollevata dal sottosuolo, e, a furia d’emungere, la falda si abbassa, onde si è costretti ad approfondire i pozzi e spesso si raggiungono strati salini. Questi fenomeni costituiscono causa di grande preoccupazione perché l’impiego d’acque saline danneggia le colture agrarie e comporta la salinizzazione dei suoli che è il primo passo verso la desertificazione (Postiglione, 2002). Parlando dell’acqua non posso non ricordare altre due forme d’inquinamento, ossia quella dovuta ad eccessiva presenza di fosfati e nitrati nelle acque che riversandosi nei litorali marini e lacustri danno luogo al fenomeno della eutrofizzazione, onde fanno diventare le acque di questi litorali difficilmente pescose e non utilizzabili per la balneazione. La seconda forma d’inquinamento riguarda la presenza di sostanze molto tossiche (piombo, mercurio) nelle acque delle fogne che giungono al mare, rendendo non commestibili pesci ed altri animali marini, tipici delle zone costiere.

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DIFESA E CONSERVAZIONE DEL SUOLO Anche la risorsa suolo, così importante per la vita dell’uomo e per la produzione dei principali alimenti, corre oggi seri pericoli. Di particolare gravità, infatti, è il fenomeno della desertificazione che interessa in maniera diversa la maggior parte delle terre emerse e, secondo una recente stima, sottrarrebbe alla coltivazione ben 12 milioni d'ettari di terreno l’anno (ONU Desertificazione, SOLIDEA, 2002). Si tratta quindi di un fenomeno che in pianura inizia, come ho detto, con la salinizzazione dell’acqua e del suolo ed è aggravato da altre concause, quali la siccità, le lavorazioni irrazionali, le concimazioni eccessive, la monocoltura, la carenza di materia organica. Il primo passo è costituito dalla degradazione del suolo la quale dà l’avvio all’indebolimento del potenziale fisico, chimico e biologico della terra, e giunge a causare l’impossibilità di produrre e quindi la sopravvivenza delle persone che vi vivono. Nelle regioni del Mediterraneo il fenomeno si verifica anche nelle colline, e nei terreni in pendio in genere, a causa delle piogge che hanno una cattiva distribuzione assumendo spesso carattere temporalesco. Le piogge molto intense, anche se di breve durata, determinano in prima istanza l’erosione, ossia il distacco e l’allontanamento delle particelle più piccole. Queste sono generalmente le più fertili e, per essere le più ricche in sostanza organica, sono quelle che contribuiscono a mantenere sodo il terreno. Con eventi piovosi più intensi si verificano smottamenti e, spesso, le frane che talora sono causa di tanti morti. Il fenomeno, in collina è aggravato dall’abbandono, da parte dei contadini, di queste terre perché sono meno produttive, onde non vi si provvede più alla sistemazione del suolo e all’esecuzione delle colture che pure contribuivano alla difesa e conservazione del terreno. SALUBRITÀ DEGLI ALIMENTI(CENNI) Vi è, infine, il problema della salubrità degli alimenti, che, per i suoi effetti sulla salute e per la sua estensione, merita un’apposita trattazione. Qui, però, non posso non aggiungere ai cenni già fatti sulla presenza di alcuni inquinanti sulle derrate alimentari, la frequente carenza di alcuni elementi, come Ferro, Zinco, Iodio (alcuni, in dosi elevate, sono tossici, come ho detto) o di sostanze di alto valore biologico, come la Vitamina A. Da sottolineare, inoltre, la presenza di formazioni tossiche negli alimenti conservati in barattoli, oggi di largo impiego date le modificate condizioni di vita, formazioni dovute alla presenza di agenti come Chlostridium, micotossine, e con conseguenze più gravi, Salmonelle. A limitare i pericoli e garantire la genuinità dei prodotti, vi è ora la norma di legge sulla tracciabilità dell’intera filiera, dall’acquisto del seme, alla tecnica colturale alla trasformazione industriale e alla commercializzazione, con la possibilità di rintracciabilità. Comunque, sia le carenze che la presenza d'inquinanti e di agenti tossici causano nell’uomo, patologie varie, in alcuni casi, letali. Novità importanti sono gli O.G.M., dei vantaggi e della possibile pericolosità dei quali oggi largamente si discute, e la costituzione di piante che forniscano “alimenti funzionali”, ossia ricchi d'alcuni principi utili per la salute umana (antiossidanti, vitamine, ecc.). LE PROSPETTIVE E LE ALTERNATIVE: TECNICHE D’AIUTO, PREVENZIONE E ADOZIONE Nel tentativo di salvaguardare il futuro del Pianeta dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, dovuti all’effetto serra, e dalle varie forme di inquinamento, sono state organizzate diverse Conferenze mondiali sull’ambiente. In particolare, nella Conferenza di Kyoto (dicembre 1997) fu redatto un protocollo in base al quale gli Stati[8] s'impegnavano a ridurre, entro il 2008-2012, l’anidride carbonica nella misura del 5% del contenuto del 1990 valutato a circa 353 ppm. Però, nella Conferenza

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successiva (Nuova Delhi, ottobre 2002) si dové constatare che in nessuna parte del mondo tale riduzione era cominciata. Il discorso sull’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera, poi, è intimamente legato all’inquinamento dovuto all’immissione nell’aria dei composti nitrici, solforati, dell’ossido di carbonio, dei composti organici volatili, e di tanti altri che si sviluppano nella combustione dei prodotti petroliferi. Naturalmente l’inquinamento è aggravato dall’immissione di prodotti tossici dell’industria, e dall’impiego irrazionale di concimi e antiparassitari in agricoltura. Pertanto, al fine di limitare l’effetto serra e l’inquinamento, bisognerebbe eliminare o almeno ridurre l’impiego di prodotti fossili nei motori delle macchine e delle industrie e per il riscaldamento domestico. Al loro posto si dovrebbero impiegare fonti d'energia “alternative”, quali: -energia pulita: eolica, solare, idrica (micro), da mare, geotermica; -energia rinnovabile: da biomasse, idrogeno; -energia con forti rischi: nucleare. In realtà, le fonti d'energia pulita sono già impiegate in numerosi Paesi, così alcune biomasse: legno utilizzato con le moderne tecnologie, oli vegetali per biodiesel e bioetanolo per i motori a scoppio. I risultati sono favorevoli, però il loro apporto è ancora modesto rispetto al fabbisogno energetico totale. Molto ci si attende, ora, dall’adozione dell’idrogeno, però la sua produzione “economica” in termini energetici è ancora in fase di studio, come il suo impiego nei motori dei veicoli. Per il nucleare, vietato in Italia, il discorso, prima ancora che tecnico. è di natura etica. Tuttavia la questione andrebbe ridiscussa soprattutto a livello internazionale. Inoltre, per limitare i danni da inquinamento dell’aria atmosferica, le industrie che producono sostanze tossiche o che emettono attraverso i fumi composti dannosi o particolato, andrebbero poste lontano dai grandi centri abitati. Andrebbe, nello stesso tempo, rigorosamente osservata la legislazione sui filtri meccanici o chimici e sui sistemi di depurazione per l’abbattimento delle emissioni nocive dai fumi e dagli scarichi vari. Discorso analogo va fatto per le discariche, i termovalorizzatori, e tutti gli impianti di trasformazione o di distruzione dei rifiuti solidi urbani. In particolare, poi, per la tutela della salute, i dipendenti che operano negli ambienti chiusi delle industrie a rischio di patologie specifiche devono essere sottoposti a visite mediche e a controlli vari, con la frequenza del caso, per evitare l’istallarsi di determinate patologie, mentre maschere, tute speciali, impianti di aria condizionata, docce ecc. dovrebbero contribuire a prevenire i danni. In tal senso anche le attrezzature scientifiche e mediche che impiegano radiazioni diverse, ormai disseminate in tutte le città, dovrebbero essere rigorosamente controllate con una periodicità ben definita, e così la salute degli operatori. Per la risorsa acqua, preziosa ma limitata soprattutto in alcune zone, andrebbe fatta ampia propaganda per ridurre gli sprechi. Un buon esempio è dato dall’agricoltura nella quale, con i moderni sistemi di irrigazione a goccia, si ottiene un consistente risparmio, e, con altri accorgimenti, si arriva al riuso di acqua già utilizzata. Inoltre con canalizzazioni varie e con gallerie l’acqua andrebbe portata dalle zone ove abbonda a quelle dove è carente. Anche l’attingimento dal sottosuolo, mediante pozzi, andrebbe potenziato. Resta però il problema della presenza di sostanze inquinanti in alcune falde acquifere, che, insieme con la salininizzazione, ne rende impossibile l’uso. Correlato alla salinizzazione dell’acqua è il progressivo aumento del fenomeno della desertificazione dei suoli, che determina l’allontanamento di intere popolazioni dalle zone colpite, diventate non più produttive. Pari discorso va fatto per l’erosione e per le frane nei terreni in pendio. Per la desertificazione e le frane è possibile tentare di limitare i danni con l’esercizio di un’agricoltura razionale. Però in questi casi gli operatori più che agricoltori andrebbero considerati come custodi del territorio e compensati in misura adeguata. Quanto alla salubrità degli alimenti andrebbero eseguiti rigorosi controlli in ciascuna fase della filiera, oltre che sul prodotto finale.

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Per ultimo, ma non certo in ordine d’importanza, vi è il problema delle città. Queste, è augurabile, d’ora in poi andrebbero costruite a misura d’uomo. Non più gli enormi aggregati, con milioni d’abitanti, grattacieli, strade strette, assenza di palestre e servizi vari, di verde urbano. E’ bello auspicare per il futuro piccoli centri cittadini, naturalmente collegati tra loro, con case magari alte ma non colossi di cemento, con strade larghe per la circolazione dei veicoli e principalmente dell’aria, con palestre, con piscine e soprattutto avvolte nel verde con un’abbondanza di parchi, giardini, viali alberati, e con aiuole al centro di ogni piazza. Con l’impianto di parchi e giardini, la vegetazione assorbirà dall’aria buona parte dell’anidride carbonica e vi restituirà ossigeno puro nella misura di un terzo dell’anidride carbonica sottratta, onde sarà possibile limitare i danni dell’inquinamento atmosferico. Si otterrà così un effettivo miglioramento della qualità della vita, unito a notevoli vantaggi sociali ed etici. Con tali impianti, infatti, si dà possibilità ai bambini di passare delle ore all'aria aperta, di respirare aria pura, di giocare insieme con gli altri bambini del quartiere, quindi di socializzare; di imparare a conoscere, a rispettare ed amare le piante, a prendere dimestichezza con uccelli e piccoli animali che inevitabilmente: frequenteranno questi parchi. Anche le mamme che accompagneranno o andranno a prendere i loro figli cominceranno a parlare tra loro e si conosceranno. Gli anziani poi potranno incontrarsi ed intrattenersi con i loro coetanei, disputare una partita a carte all’ombra di un bel pergolato di viti americane, giocare a bocce in un campo circondato da alberi fronzuti. Si creerà cosi un vero e proprio sistema vivente (uomini, piante, animali, natura), ed in particolare gli abitanti del rione non saranno più monadi che non si conoscono neppure ma costituiranno un'autentica comunità di persone vive.

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GIAN LUIGI GIGLI, MARIAROSARIA VALENTE QUALITÀ DI VITA E STATO VEGETATIVO INTRODUZIONE Quella che stiamo vivendo, è un’epoca rivoluzionaria in campo medico. Nell’arco di una generazione, siamo passati da una medicina basata sull’Esperienza, ad una medicina basata sull’Evidenza. Oggi la stessa generazione si sta confrontando con un altro importante cambiamento, lo sviluppo di una medicina basata sulla Tecnologia. Senza dubbio, lo sviluppo tecnologico ha creato nuove e straordinarie possibilità per il miglioramento della diagnosi e delle cure. Ma le applicazioni di tali straordinarie scoperte, se non accompagnate da un serio dibattito etico, possono trasformarsi in strumenti di oppressione per gli esseri umani. L’era tecnologica fa propria la maggior parte dei vecchi assiomi dello scientismo e li sviluppa ulteriormente: 1) Il rifiuto di Dio (non esiste nulla al di fuori dell’universo), è spinto fino al punto di trasformare la tecnologia stessa in un Dio onnipotente, che ha il potere illimitato di migliorare la qualità di vita, anche in campo medico. 2) La neutralità della scienza (la scienza è neutra per definizione) diventa, per la tecnologia, l’assenza di qualsiasi responsabilità per le applicazioni delle scoperte. Essa pretende di essere amorale, ma in questo modo diviene immorale, negando ogni responsabilità personale per le conseguenze delle proprie azioni. 3) L’uomo, degradato a specie animale tra le altre specie, nell’era tecnologica diventa un oggetto di cui disporre e che può essere sottoposto a processi selettivi. Si fondono insieme la fede nel potere senza limiti della tecnologia di migliorare la qualità di vita e la mancanza di principi morali. Il potere tecnologico, sebbene intrinsecamente amorale/immorale, sente tuttavia di avere un dovere morale da assolvere: tutto ciò che può essere fatto, deve essere fatto. Il potere tecnologico, ricorrendo spesso all’ingegneria linguistica per ottenere l’approvazione sociale, ha il suo proprio codice etico: ogni azione è lecita nella misura in cui risulti da una libera scelta (cosiddetta “teoria liberale”); ogni azione è legittima se socialmente utile (teoria utilitaristica); è lecito tutto ciò che si basa su comportamenti comuni e accettati (teoria contrattualistica, basata sul consenso del corpo sociale composto da persone adulte). Il risultato, in campo medico, è lo svuotamento della bioetica. Tuttavia in medicina, forse più che in altre discipline, il non seguire principi morali comporta il rischio di diventare sempre più dipendenti dai poteri civili o dalle politiche di controllo dei costi. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da una drammatica riduzione del tasso di natalità in tutte le società occidentali. Ciò, insieme ai progressi della medicina, ha portato all’invecchiamento delle popolazioni e al rovesciamento della piramide demografica. L’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle possibilità di sopravvivenza dovuto alle moderne terapie (in particolare alle tecniche di rianimazione) stanno causando un importante aumento dell’onere globale di persone anziane e disabili cronici (soprattutto persone con invalidità neurologiche). Mentre si realizzavano questi importanti cambiamenti epidemiologici, si è potuto osservare anche un indebolimento del concetto di sacralità della vita e della solidarietà sociale. La combinazione di questi elementi ha reso eccessivamente gravoso il peso finanziario sostenuto dalla società per il gran numero di pazienti cronici, totalmente dipendenti. Se si aggiunge l’insufficienza del supporto dato alle famiglie per coprire i costi dell’assistenza prolungata ai loro cari, si capisce come ciò abbia portato ad un graduale aumento della pressione per l’eliminazione del peso rappresentato da quelli la cui vita è apparentemente senza significato e che creano costi e sottraggono risorse ad altri scopi. Tra le persone cronicamente totalmente dipendenti, con handicap neurologici, ci sono i pazienti in stato vegetativo che non sono malati terminali e che possono rimanere nella propria condizione di apparente

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incoscienza di sé e del mondo circostante, anche per anni se si forniscono costantemente una buona assistenza infermieristica, la nutrizione e l’idratazione. Dal punto di vista fisiopatologico, lo stato vegetativo è una condizione di cui non si ha ancora una conoscenza completa e che può dipendere da varie lesioni anatomiche[1]. Non si può escludere una elementare percezione del dolore attraverso la stimolazione algica somatosensoriale che attiva il mesencefalo, il talamo controlaterale e la corteccia somatosensoriale primaria in tutti i pazienti in stato vegetativo, anche in assenza di potenziali evocati corticali rilevabili[2]. In modo analogo, negli stessi pazienti, la stimolazione uditiva attiva le cortecce uditive primarie bilaterali, ma non associative[3]. Esistono anche alcune modalità di riconoscimento e distinzione degli stimoli sia uditivi[4] sia visivi[5], che indicano la possibilità della persistenza di forme elementari di comunicazione. In mancanza di termini di correlazione neurali della coscienza umana generalmente accettati, resta estremamente difficile interpretare i dati del neuroimaging funzionale di pazienti con gravi danni cerebrali come prova della loro coscienza o ‘non coscienza’[6]. Questo stato è ancora caratterizzato da importanti incertezze cliniche che spesso portano a diagnosi errate[7],[8]. Dal punto di vista clinico non esistono differenze tra lo stato vegetativo (comune) e lo stato vegetativo persistente e allo stato attuale è impossibile predire, su base individuale, quali pazienti abbiano probabilità di recupero. Per questi motivi, l’uso del termine persistente, inteso a suggerire la natura irreversibile dello stato vegetativo (SV), è stato scoraggiato. Tuttavia, più di recente, si è incoraggiato l’uso del termine permanente, teso ad indicare l’irreversibilità della condizione patologica. Un paziente in SV si considera permanentemente vegetativo quando la diagnosi di irreversibilità ha un alto grado di certezza clinica, ossia quando la probabilità di recuperare coscienza diventa estremamente remota[9]. Nondimeno, esistono casi documentati in cui si è avuto il recupero della coscienza dopo che si erano riscontrati i criteri della permanenza della condizione patologica[10],[11],[12], mentre ci sono bambini atelencefalici che non sono vegetativi nonostante la completa mancanza delle strutture telencefaliche[13]. Questo stato prolungato di vita vigile, ma apparentemente non cosciente, ha attirato l’attenzione degli eticisti, in seguito alla proposta di interruzione della nutrizione e idratazione assistite una volta che la condizione di stato vegetativo sia ritenuta ormai permanente. Tale atteggiamento può essere molto pericoloso per le sue conseguenze psicologiche e per gli stravolgimenti che potrebbe provocare all’integrità della professione medica. Inoltre, sebbene ben definita in ambito medico e di opinione pubblica, tale proposta è intenzionalmente sostenuta da correnti di pensiero che hanno prospettive e obbiettivi molto più ampi. Obbiettivi di questa relazione sono: l’analisi delle conseguenze, per lo status etico e giuridico della professione medica, che potrebbero derivare da questo tipo di approccio (sostenuto da diverse società scientifiche, da troppe strutture ospedaliere e da alcune famiglie) e l’impatto che potrebbe avere sulla società in senso lato. I pazienti con invalidità cronica (specialmente di natura neurologica) sono sempre più considerati come persone non più in vita. Tuttavia, i gruppi che sostengono il diritto-di-morire e che promuovono questo tipo di soluzione sono coscienti della difficoltà di convincere la popolazione comune a pensarla come loro a meno di non cambiare prima l’atteggiamento dei medici a favore della conservazione della vita. Il punto focale di questo mutamento di atteggiamento è stata la definizione di nutrizione e idratazione assistite (ANH), cioè la nutrizione e l’idratazione somministrate per via non naturale, ma “artificiale” e non più come forma di assistenza ordinaria di base (come è spesso stato proposto da taluni), ma come forma di “trattamento medico”[14] che, in analogia con altre forme di trattamento di sostegno vitale, come l’uso del respiratore, “possono essere interrotte secondo i principi e le norme pratiche che regolano il rifiuto e l’interruzione di altre forme di trattamento medico”[15]. Una volta definita come forma di trattamento medico, l’ANH potrebbe anche essere rifiutata dal paziente stesso. Poiché i pazienti in SV non sono in grado, per definizione, di comunicare le loro decisioni, il trattamento può essere rifiutato da un loro sostituto o da un rappresentante legalmente

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riconosciuto. Inizialmente si riteneva che si dovessero prendere in esame le intenzioni precedentemente espresse dai pazienti in stato vegetativo con lo scopo di accertare la loro opinione sul trattamento “artificiale”, preferibilmente attraverso direttive anticipate formalmente scritte, ma anche attraverso qualsiasi altra evidenza disponibile delle precedenti opinioni espresse su questa forma di “trattamento”. In seguito è stato stabilito che il rappresentante legale può interpretare la volontà del paziente cercando di agire nel migliore interesse della persona malata. I pazienti in stato vegetativo con scarse probabilità di recupero, sono considerati, da coloro che sono a favore dell’interruzione della nutrizione e dell’idratazione, come persone morenti naturalmente a causa delle loro condizioni di base (tra cui la parziale o totale incapacità di deglutire cibo per via ordinaria). Essi ritengono che, intervenire per fermare questo processo naturale di morte, richiede una giustificazione particolare, come la prospettiva di far regredire la condizione patologica. Da questo punto di vista, il semplice mantenimento in vita in uno stato di incoscienza non è di alcun beneficio poiché sostiene solo una “esistenza biologica” che non può aspirare ai più alti “fini spirituali” ai quali la vita terrena è finalizzata. Secondo questa teoria, una volta diagnosticato lo stato vegetativo come “permanente”, dovrebbe esserci la presunzione contro la nutrizione assistita. In questi casi, infatti, la “terapia” per mezzo dell’ANH dovrebbe essere considerata: inefficace e inutile, poiché sostiene le funzioni vitali pur non essendo in grado di provocare alcun recupero del paziente; straordinaria, cioè sproporzionata per l’obbiettivo sperato; e gravosa per il paziente, la famiglia (stress psicologico per un lento processo di morte senza la percezione di un beneficio per il paziente, e onere finanziario) e la società (spreco di risorse del sistema sanitario, che potrebbero essere meglio impiegate per scopi più benefici). Secondo quest’ottica, la morte indotta dall’interruzione dell’idratazione e della nutrizione deve essere considerata come morte naturale dovuta all’incapacità del paziente di alimentarsi normalmente, una sorta di morte che dovrebbe essere accettata come conclusione del processo naturale della malattia di base. Per queste ragioni, l’interruzione dell’ANH non dovrebbe essere considerata come procedura eutanasica. Al contrario, secondo queste persone, è la somministrazione “artificiale” di nutrizione e idratazione che non rispetta la dignità umana. È importante chiarire che la nutrizione e l’idratazione sono di fatto molto utili (nel mantenimento dell’omeostasi del corpo) e che i pazienti non muoiono a causa dello stato vegetativo (se così fosse, non ci sarebbe motivo di interrompere la somministrazione di sostanze nutritive), ma della malnutrizione e dell’insufficienza renale, che sono più propriamente le conseguenze volute dell’interruzione della nutrizione e idratazione. Il risultato (la morte) è assolutamente desiderato. Inoltre, le stesse procedure di nutrizione e idratazione, in altre situazioni cliniche di trattamenti prolungati, sono ben accette senza essere considerate in alcun modo lesive della dignità umana (come nel caso della stenosi faringea ed esofagea, della sclerosi laterale amiotrofica o del coma prolungato postraumatico). Si pensa che le famiglie che rifiutano l’equazione nutrizione-trattamento e sostengono che la nutrizione rappresenti un’operazione di cura interpersonale, rifiutino la malattia, siano spaventate dalla morte, ragionino in maniera istintiva o anche che violino l’autonomia dei loro cari. Sulla base di queste considerazioni diventa possibile che si decida sempre, dietro richiesta del rappresentante legalmente riconosciuto, di interrompere la nutrizione e l’idratazione a meno che i pazienti non abbiano espresso parere favorevole alla continuazione della nutrizione e dell’idratazione assistite. L’interruzione è ritenuta lecita, quando non si conosce la volontà reale del paziente, per non costringerlo ad un trattamento artificiale di durata indefinita. Ciò permetterebbe al paziente di concludere il suo viaggio, di lasciarlo morire. Questo ragionamento circolare e autoreferenziale è stato ampiamente criticato in articoli precedenti[16],[17]. I casi per i quali è stata considerata l’interruzione dell’ANH, specialmente quelli discussi dalle Corti statunitensi, sono i casi di pazienti in SV, o di pazienti che hanno subito gravi episodi traumatici che hanno compromesso la capacità di deglutizione, o di pazienti anziani e dementi troppo difficili da nutrire. In questi casi, indipendentemente da ciò che si possa pensare della loro “qualità di vita”, gli

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unici motivi per cui morirebbero in caso di rimozione della sonda dell’alimentazione, è la disidratazione e la malnutrizione. In altre parole la morte è la conseguenza inevitabile dell’interruzione dell’ANH. Naturalmente, lo scopo della rimozione della sonda dell’alimentazione è affrettare la morte che altrimenti si presume arrivi in tempi troppo lunghi per il paziente, è quindi una forma genuina di “eutanasia da omissione”, praticata solo per abbreviare la vita del paziente considerata ormai senza valore. In una lettera all’editor, in cui si commentava un articolo di R. Cranford[18], che aveva argomentato che la rimozione della sonda dell’alimentazione non rappresenta suicidio assistito né eutanasia, Andrews scriveva: “È curioso che l’unico motivo per cui la sonda dell’alimentazione sia considerata un “trattamento” è perché possa essere rimossa. La gran parte del dibattito riguarda la questione se la sonda sia un trattamento inutile. Io direi che la sonda dell’alimentazione è estremamente efficace in quanto realizza il compito che noi ci aspettiamo che realizzi. Ciò che in realtà si pone in questione è l’inutilità della vita del paziente – di qui il bisogno di trovare una strada per porre fine a quella vita. Una volta presa questa decisione, indipendentemente dal mezzo che si usa per porre fine a quella vita, questo deve essere l’obbiettivo definitivo – cioè l’eutanasia. Il desiderio della medicina di non sembrare apertamente a favore dell’eutanasia ha prodotto un ragionamento tortuoso per dimostrare che non siamo i responsabili della morte. In questo modo sottoponiamo il paziente, la famiglia e l’equipe assistenziale a un lento processo di morte. Se invece agiamo per porre fine alla vita in maniera più veloce, allora si mostrerà più rispetto per il paziente e la famiglia”[19]. Conformemente a quanto espresso da Andrews, siamo convinti che il motivo reale, ma non sempre esplicito, dell’interruzione dell’ANH non sia né il rispetto del corso naturale di una malattia mortale, né l’inappropriatezza della sonda dell’alimentazione in se stessa, ma l’inappropriatezza della capacità della sonda di mantenere vivi pazienti la cui vita è considerata di qualità insufficiente per meritare il trattamento. Per questa ragione è importante approfondire la riflessione sulla questione della qualità di vita. LA QUALITÀ DELLA VITA UMANA NELLE PERSONE CON GRAVI PROBLEMI NEUROLOGICI Sebbene la medicina globalmente intesa, oltre ad essere una scienza, sia in sé anche un’arte, le considerazioni sulla qualità di vita di un paziente soffrono di un’intrinseca mancanza di oggettività. Ciò risulta vero, senza alcun ragionevole dubbio, agli occhi di chi valuta dall’esterno. Ancor più importante, come sostenuto da Andrews, è il fatto che “la gravità della malattia, così come percepita da un osservatore, può avere poca rispondenza nell’opinione espressa dalla stessa persona malata. Lo stesso disagio che provano le persone fisicamente sane nel cercare di comunicare con una persona gravemente disabile dal punto di vista neurologico, si esprime spesso con la sensazione che sarebbe meglio, per la persona disabile, se morisse”[20]. “La qualità di vita è soggettiva e quindi non ha alcun valore il nostro punto di vista sul grado di qualità di vita di un’altra persona, l’unico test significativo è quello che la persona sente. Nella mia esperienza di lavoro con persone gravemente disabili, sono stato sorpreso dalla loro accettazione, e dalla capacità di sopportazione, di condizioni che consideravo pressoché intollerabili”[21]. Secondo noi, la discussione sulla qualità di vita spesso nasconde un tipo di valutazione tipica delle relazioni interpersonali della nostra società, basata sulla capacità di produrre e di essere utile. In questa società, non solo le vite dei pazienti in SV, ma anche quelle dei pazienti gravemente disabili e di ogni persona che vive al margine del sistema produttivo, sono considerate di minor valore. Questo riguarda anche l’uso delle risorse sanitarie, che si considerano ben spese se riportano il paziente ad una vita produttiva o almeno indipendente, ma sono considerate sprecate quando prolungano soltanto una cronicità dipendente. Ciò è vero in particolar modo per le nostre società occidentali dove ogni

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incremento della spesa sanitaria è posto sotto accusa, ma anche per i paesi ricchi con porzioni significative di popolazione prive di qualsiasi tipo di assistenza sanitaria. Secondo Andrews, “l’attuale tendenza a ‘valutare in termini economici’ e secondo la quale le risorse dovrebbero essere utilizzate solo per risultati clinici dimostrabili, lascia la persona disabile dipendente non solo dall’aiuto, ma anche dalla buona volontà delle persone sane”[22]. Questo atteggiamento può provocare nelle persone disabili o con gravi invalidità neurologiche, non solo perdita di autostima, ma anche preoccupazione per il peso economico che causano alla società o, peggio, alla famiglia, soprattutto in quelle società che non offrono un aiuto sufficiente a sopportare il peso dell’invalidità. Dal punto di vista di Andrews, “I problemi etici dell’handicap cronico non hanno a che fare tanto con la gravità della invalidità fisica, quanto con la capacità di accettare l’handicap risultante da una menomazione e con il condizionamento derivante dall’atteggiamento della società, spesso negativo, verso l’invalidità. Ciò richiede che si compiano tutti gli sforzi necessari per creare servizi che migliorino la qualità di vita anche delle persone più colpite dall’invalidità. Dal punto di vista etico è essenziale offrire la possibilità di vivere (in tutti i sensi) prima di fornire gli strumenti per morire”[23]. Il punto in discussione è il seguente: i pazienti in SV hanno sempre l’opportunità di vivere di cui parla Andrews oppure le famiglie sono sotto pressione per porre fine ad una vita considerata, dalla società di cui fanno parte, non degna di essere vissuta? Tornando alla definizione iniziale di ANH come trattamento gravoso, potremmo anche chiederci: è il “trattamento” gravoso o sono semplicemente questi pazienti (e molti altri pazienti con altri tipi di invalidità) ad essere un peso per le nostre società e per le (limitate) risorse economiche che investiamo nei sistemi sanitari? CONSENSO INFORMATO E QUALITÀ DI VITA Questo ci porta a considerare il problema del consenso per l’interruzione dell’ANH. Per i pazienti inSV, il consenso dovrebbe essere espresso da un rappresentante indicato nelle direttive anticipate o nominato da un giudice. Tuttavia i rappresentanti agiscono sempre nel legittimo interesse del paziente, liberi, quindi, da qualsiasi pressione? Quando i pazienti non sono in grado di esprimere il loro consenso, bisognerebbe prendere decisioni in base ai loro interessi medici e assistenziali piuttosto che in base alla volontà dei loro parenti sebbene, naturalmente, questi ultimi vadano sempre consultati. Infatti, a differenza delle persone prossime alla morte capaci di esprimere il loro consenso e in grado di decidere di accettare la propria morte, nel caso di pazienti con gravi danni neurologici, abbiamo a che fare con persone incapaci la cui morte non è imminente, ma è anticipata in quanto morte artificiale e non naturale. Non solo, anche se non influenzato da pressioni finanziarie o psicologiche, il rappresentante (e il giudice), potrebbero erroneamente ritenere che lasciare il paziente senza nutrizione e idratazione sia nel suo migliore interesse in base al criterio di una presunta assenza di qualità di vita. Abbiamo già visto che la valutazione della qualità di vita può essere diversa a seconda che a valutare siano persone disabili oppure osservatori sani (compresi i parenti): tale differenza può essere causa di gravi errori di valutazione nell’ambito della famiglia nel momento in cui si dovessero prendere decisioni riguardanti il porre fine alla vita di un membro disabile della famiglia stessa. Inoltre ci sono pressioni psicologiche che possono essere percepite dalla famiglia di una persona disabile. Queste due considerazioni sollevano il sospetto di un possibile conflitto di interessi quando la famiglia, o qualsiasi altro rappresentante del paziente nel processo decisionale, decide di porre fine alla vita di una persona a causa di una scarsa qualità di vita. In altre parole, possiamo domandarci se un paziente in uno SV molto prolungato possa avere attualmente qualche interesse (tranne che per la vita e una speranza molto debole di recupero) piuttosto che chiederci quale sia il suo migliore o peggiore interesse.Secondo Andrews, “se fosse così, allora si prenderebbero decisioni per il beneficio di altri, un processo decisionale piuttosto equivoco”[24].

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Certamente, quando il consenso viene espresso attraverso le direttive avanzate, esso può aiutare almeno ad identificare la volontà del paziente. D’altro canto, però, rimane sempre il sospetto che tale consenso non sia esaustivamente informato, nelle direttive c’è spesso la mancanza di specificità. Inoltre la decisione potrebbe essere stata presa da un paziente mentalmente sofferente, in particolare a causa di depressione, nel qual caso la decisione potrebbe non essere stata presa razionalmente. Si aggiunga che, nel caso di malattie progressive (per esempio, lo stato vegetativo provocato dalla demenza degenerativa) la decisione potrebbe essere viziata da qualche tipo di pressione che abbiamo cercato di descrivere in precedenza, senza considerare il fatto che la persona disabile potrebbe aver cambiato idea e non aver avuto la possibilità di esprimere la sua volontà più recente. Infatti, come messo in luce da Andrews, è frequente incontrare “persone che avevano dichiarato, quando erano in buona salute, di non volere continuare a vivere in caso fossero state colpite da gravi invalidità, ma che hanno cambiato opinione trovandosi in questa situazione”[25]. Infine le direttive anticipate, raramente precise nell’indicazione della gravità e durata della condizione richiesta per porre fine alla vita, potrebbero essere state scritte molti anni prima delle decisioni attuali sulla terapia e la cura, senza una sufficiente considerazione dell’evoluzione delle conoscenze scientifiche e di eventuali nuove opportunità terapeutiche. Riassumendo, il dibattito sull’interruzione della nutrizione e dell’idratazione assistite nello stato vegetativo è viziato da alcuni fattori: a) una valutazione prognostica sull’esito è trasformata in diagnosi di una condizione clinica caratterizzata dalla permanenza; b) le cure sanitarie di base sono trasformate in trattamento medico, soggetto alla possibilità di rifiuto da parte del paziente; c) il consenso su decisioni riguardanti la vita umana è affidato a dei sostituti, senza considerare che la vita è sempre stata considerata giuridicamente come un bene indisponibile; d) le valutazioni sulla qualità di vita sono state trasformate in giudizi sulla possibilità che la vita umana non sia degna di essere vissuta. Queste premesse sono state prese per giustificare un modo di agire che attualmente è caratterizzato da: a) la negazione dell’assistenza sanitaria di base ai pazienti, il che inevitabilmente li porta alla morte, b) l’obbiettivo di anticiparne la morte, in quanto le loro vite sono ritenute non più degne di essere vissute. In maniera ancor più inaccettabile, ciò potrebbe accadere per una condizione clinica, come lo SV, di cui la fisiopatologia non è chiara, la diagnosi imprecisa e la prognosi solo probabilistica. IL PENDIO SCIVOLOSO DELLE CONSEGUENZE I pazienti con gravi invalidità neurologiche sono persone incapaci che non si trovano in punto di morte a causa di altre ragioni cliniche e la cui morte è anticipata poiché non arriva per vie naturali. Questo atteggiamento, e il messaggio in esso implicito, non sono senza conseguenze. Coloro che sottovalutano le conseguenze dell’interruzione e della nutrizione e dell’idratazione dovrebbero tenere in considerazione il modo in cui la nostra percezione di questi problemi è già cambiata negli ultimi dieci anni e il modo in cui cambierà in futuro. All’epoca dei casi Quinlan e Cruzan, l’onere della prova spettava a coloro che chiedevano l’interruzione dell’assistenza di base per quelle persone che avevano subito gravi danni cerebrali. Oggi, l’onere della prova pesa invece su chi vorrebbe proseguire questo tipo di cure. Se questo non è un pendio scivoloso, allora cos’è?[26]. L’interruzione dell’ANH come via per l’accettazione e la diffusione dell’eutanasia da omissione “Negli Stati Uniti alcune sentenze molto pubblicizzate, riguardanti pazienti con varie patologie, hanno costituito un precedente legale per negare o interrompere l’ANH. Allo stesso tempo i corpi legislativi hanno emanato leggi che hanno rafforzato ulteriormente tale pratica come diritto legale. Oggi, le leggi sulle direttive mediche anticipate (che regolano l’applicazione del Living Will o della Delega

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Prolungata) sono comuni e diffuse in tutti gli Stati Uniti. Tali leggi permettono al paziente di rinunciare agli interventi di sostegno vitale, compresa l’ANH, in caso di incapacità e di diagnosi di condizione limitante. Inizialmente, le uniche condizioni limitanti erano una malattia terminale o uno stato vegetativo persistente. Prevedibilmente, tuttavia, altre condizioni vagamente descritte, come la debilitazione grave e l’assenza di un grado significativo di coscienza sarebbero state aggiunte alla lista. Di conseguenza, alcuni hanno proposto la negazione o l’interruzione dell’ANH anche per i pazienti con morbo di Alzheimer e altre forme di demenza”[27]. Come neurologo, vorrei solo ricordare un articolo storico pubblicato venti anni fa sul NEJM in cui si considerava “eticamente ammissibile” rifiutare “la nutrizione attraverso … una sonda gastrica” a “pazienti affetti da forme di demenza grave e irreversibile” così come alle persone anziane[28]. Nel Regno Unito è in corso un ampio dibattito sul progetto di legge sulla capacità mentale (Mental Capacity Bill), presentato al Parlamento inglese il 17 giugno 2004, dopo un periodo di confronti pubblici e l’esame del Parliamentary Scrutiny Committee[29]. Sebbene finalizzato a chiarire le procedure legali per le decisioni mediche e finanziarie riguardanti le persone non in grado di prendere decisioni autonamente a causa di una malattia o di un incidente, il progetto apre legalmente la porta alla possibilità di lasciar morire per malnutrizione e disidratazione le persone che soffrono di demenza, quelle che hanno subito un danno cerebrale da trauma così come quelle colpite da altre patologie. Accettazione sociale dell’eutanasia attiva L’eutanasia attiva è illegale in tutto il mondo, tranne che in Olanda e in Belgio. L’interruzione della nutrizione e dell’idratazione artificiali potrebbe essere la chiave per rompere le ancora forti barrierecontro la legalizzazione dell’eutanasia nella maggior parte dei paesi. I bioeticisti a favore dell’eutanasia sono ben coscienti di questo da molto tempo. Già nel settembre del 1984, alla quinta Conferenza Biennale della World Federation of Right to Die Societies (Federazione mondiale delle società per il diritto a morire) tenutasi a Nizza, il bioeticista australiano Dr. Helga Kuhse spiegò la strategia dei sostenitori dell’eutanasia: “Se riuscissimo a far accettare alla gente l’interruzione di qualsiasi trattamento e assistenza – specialmente del cibo e dei liquidi – ci si accorgerebbe di come sia doloroso questo modo di morire e quindi, nel migliore interesse del paziente, si accetterebbe l’iniezione letale”. Gli studiosi sono coscienti delle conseguenze della decisione di interrompere la nutrizione e l’idratazione[30],[31]. “Qualunque semantica si adotti, rifiutare o interrompere il trattamento avrà lo stesso risultato eutanasico, cioè il clinico avrà deciso che il paziente deve morire”[32]. La morte per inedia e disidratazione “nega il rispetto per le persone morenti. Anche una persona deceduta è trattata con rispetto e non faremmo nulla ad un corpo senza vita solo perché non è in grado di sentire. La società si trova quindi di fronte ad un dilemma – essa ritiene che il paziente debba morire, ma non vuole una morte rapida poiché ciò sarebbe considerato eutanasia”[33]. La conclusione di Andrews ha una logica molto rigorosa: “Quando sono il paziente, la famiglia e l’equipe medica a decidere che sia inappropriato continuare a vivere, allora la qualità del processo di morte deve essere del più alto standard. L’attuale atteggiamento verso la morte del paziente attraverso l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione è altamente insoddisfacente, se non inumano,l’opzione dell’eutanasia costituirebbe, quindi, una soluzione molto più accettabile”[34]. Noi pensiamo che, sebbene involontariamente, l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione in pazienti in stato vegetativo e la sua applicazione anche ad altri pazienti con malattie neurodegenerative e con grave ritardo mentale, possa diventare, a lungo termine, il cavallo di Troia per rendere accettabile, alle società e alle professioni sanitarie, l’eutanasia attiva.

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Pazienti in SV come potenziali donatori d’organo Un allargamento ancor più deprecabile del concetto di paziente in SV come soggetto la cui vita non vale più la pena di essere vissuta, riguarda il campo della raccolta degli organi destinati al trapianto. Autorevoli studiosi cominciano a suggerire che la vita mantenuta in uno stato di incoscienza non dovrebbe essere considerata avente lo stesso valore della donazione degli organi e che tale decisione possa essere presa dallo stesso paziente (prima di perdere coscienza) o da un rappresentante. La vita (non cosciente) diventa così un bene disponibile, di cui può disporre un delegato[35]. Decisioni sulla qualità di vita e pressioni sul personale sanitario Nonostante Norimberga, sembra che ancora oggi il medico sia chiamato a decidere sul valore della vita umana e a porre fine anzitempo a quelle vite che sono ritenute di qualità insufficiente per essere vissute. A lungo andare, ciò potrebbe compromettere la relazione di fiducia tra il medico e il paziente. Infatti, la relazione di fiducia che deve prevalere tra il medico e il paziente sarebbe minacciata dal potere del primo di porre fine legalmente alla vita del secondo. Non solo, si cominciano a registrare pressioni esercitate sui medici (sia come individui sia come professione) affinché agiscano contro le proprie convinzioni e contro la Convenzione sui Diritti dell’Uomo di Ginevra che stabilisce che il medico deve avere “il massimo rispetto per la vita umana dal concepimento, anche sotto minaccia” e di non usare la propria “conoscenza medica in maniera contraria alle leggi dell’umanità”[36]. Come è già successo a ginecologi e ostetrici in alcuni paesi in relazione all’aborto, c’è il rischio che l’esercizio della professione medica sia precluso in futuro ai medici che non accettino di praticare l’eutanasia o il suicidio assistito. La possibile divisione di medici e infermieri tra coloro che partecipano e coloro che non partecipano a queste procedure è fonte di grande apprensione. Tuttavia, è più grave la prospettiva di un consenso sull’opinione che l’interruzione della nutrizione e dell’idratazione non sia da considerare come una forma di eutanasia passiva, ma piuttosto come procedura di buona pratica clinica. Se così fosse, i medici e gli infermieri che rispettano la sacralità della vita e l’integrità delle professioni sanitarie, potrebbero probabilmente dover accondiscendere a tali pratiche deplorevoli non avendo neanche diritto all’obiezione di coscienza. I medici, e gli infermieri soprattutto, saranno posti sotto pressione da parte delle famiglie, degli ospedali, dei tribunali. Saranno chiamati a giustificare il loro rifiuto di anticipare la morte per condizioni per le quali non c’è un’apparente motivo di continuare a vivere, essendo il diritto alla vita basato sul riconoscimento esterno di un sufficiente livello della qualità della vita stessa. La società potrebbe pretendere un diritto sulla vita umana Il primo rischio è che i medici, essendo diventati i veri giudici della qualità di vita dei pazienti, possano decidere di andare oltre il desiderio del paziente. Questo è quello che sta già succedendo in Olanda. Sebbene sia quasi impossibile ottenere dati attendibili sulla situazione olandese, sono arrivati all’attenzione del pubblico molti rapporti affidabili su medici che tolgono la vita a pazienti che non hanno mai chiesto l’eutanasia e su pazienti cui è stata negata l’assistenza medica dopo aver rifiutato l’eutanasia. Riguardo la tendenza verso la cosiddetta eutanasia non volontaria in Olanda[37],[38], va detto, come minimo, che in Olanda “i pazienti, o i loro rappresentanti, non danno sempre il consenso informato; i medici riconoscono il loro desiderio di porre fine alla propria esistenza e non cercano costantemente un approccio meno drastico per alleviarne le sofferenze”[39].

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Se è pericoloso dare il potere di uccidere alla professione medica, è ancor più pericoloso dare questi diritti alla società. Molti pazienti in SV possono vivere per anni con la PEG (Percutaneous Endoscopic Gastrostomy). Ciò è visto come indicazione di trattamento “gravoso”. Tuttavia, l’argomento può essere rovesciato. Infatti, se un “trattamento” può protrarsi per anni senza problemi, proprio per questo può essere classificato come non-gravoso. Sembra quindi che sia la vita del paziente ad essere considerata gravosa per la società e (a volte) per i familiari. Le famiglie dovrebbero essere supportate (finanziariamente, moralmente e psicologicamente) e le società, se non vogliono diventare inumane e rinunciare gli standard della loro civilizzazione, devono accettare il “peso” dei loro membri fragili. Per la società, il peso non è la PEG, ma la cura assistenziale che può diventare costosa. Tuttavia, se fosse questa la giustificazione reale per interrompere l’alimentazione, si dovrebbe interrompere, allo stesso modo, anche la somministrazione per bocca di cibo e acqua così come tutti i tipi di assistenza infermieristica, dato che è quest’ultima a costare tanto. Di fatto, c’è l’opinione diffusa che l’aumento dell’età media della società porterà in futuro ad affrontare problemi sempre più gravi. Coloro che guardano all’invecchiamento della società come ad una catastrofe e coloro che sono restii a impiegare risorse per la salute sono uniti nel prevedere i letti d’ospedale bloccati da malati cronici che sopravvivono per anni con le PEG con l’impossibilità di aiutare invece coloro che trarrebbero un reale beneficio dall’essere ricoverati. Da un punto di vista logico e pratico, risulta impossibile fornire un contesto che prevenga gli abusi. Si possono esercitare pressioni sul medico affinché ponga fine alla vita dei pazienti anche su un piano non medico, inclusa la non disponibilità di posti letto in un ospedale, la prospettiva di un guadagno economico o anche motivazioni politiche. Si finirà inevitabilmente per cadere in un “pendio scivoloso” che porta all’eutanasia involontaria (da parte del medico) e non-richiesta (dal paziente). Si uccideranno persone che non hanno mai chiesto di morire e che avrebbero potuto trarre giovamento dalle cure palliative. I medici (che hanno la loro idea su quale sia il miglior interesse per il paziente) e le autorità sanitarie e i tribunali (che valutano il miglior interesse per la società) prenderanno le loro decisioni senza alcun ostacolo, a meno che non interferiscano le famiglie maldisposte ad accettare le loro decisioni, così come accaduto nel famoso caso di Terry Schiavo. CONCLUSIONI Il punto in questione è che l’interruzione dell’ANH inevitabilmente desensibilizza la società nei confronti dell’eutanasia. Infatti: “se questo tipo di vita non ha senso, allora perché continuare l’alimentazione?” Ma se è così, perché dobbiamo mantenerli in vita? La società si troverà inevitabilmente a dover affrontare la confusione tra la qualità di vita e la dignità intrinseca di ogni singolo essere umano: è umano ciò che non ha utilità, finalità, che non è in grado di avere un rapporto sociale? Una volta accettato il fatto che l’umanità si possa misurare sulla qualità di vita, e che la valutazione abbia come oggetto l’utilità e la capacità di relazione, allora sarà lo stesso concetto di cosa sia umano ad essere messo in dubbio. Le conseguenze possono essere davvero estreme, come nei criteri proposti da Engelhardt per il riconoscimento della persona[40]. La confusione tra la qualità di vita e la dignità intrinseca di ogni singolo essere umano, può soltanto portare ad un atteggiamento selettivo nel riconoscimento dei diritti umani. Ciò costituirebbe indubitabilmente un regresso per l’umanità. Oggi ci sentiamo ancora sotto pressione perché ci si chiede di riconoscere una gradualità nella dignità umana, ma dovremmo essere sufficientemente saggi da ricordare che ogni volta che abbiamo umiliato la dignità umana, conferendole diversi gradi e operando delle discriminazioni, abbiamo soltanto creato le premesse per una nuova violenza e per la morte. Perché dovremmo interessarci al modo in cui vengono trattati i pazienti in SV? Tutta la storia sull’interruzione della nutrizione e dell’idratazione rappresenta un punto cruciale per la nostra civiltà, essa è indicativa della direzione che vogliamo far prendere alle nostre relazioni reciproche, del modo in cui vogliamo prenderci cura e relazionarci in futuro alle persone anziane, handicappate e non coscienti.

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Esiste il rischio concreto di un ulteriore allentamento dei lacci della solidarietà all’interno delle famiglie e del corpo sociale. In conclusione, la nutrizione e l’idratazione dovrebbero sempre essere somministrate ai pazienti (compresi quelli in SV) a meno che il loro organismo non sia più in grado di assimilare le sostanze nutritive, siano inutili ai fini del sostegno della vita, o la loro unica modalità di somministrazione costituisca un grave peso per il paziente o per altri. Se l’alimentazione attraverso PEG può continuare per anni, essa non può essere considerata gravosa per il paziente. Normalmente, l’ANH non dovrebbe rappresentare un peso per le società dei paesi sviluppati. Il nostro mondo è sempre più contrario a spendere per gli anziani, gli handicappati, i comatosi, i pazienti in SV, ecc. I medici e gli infermieri non dovrebbero assecondare la tendenza generale ad una società egoista, ma piuttosto ri-affermare la natura profondamente compassionevole della loro professione scegliendo l’opzione preferenziale della cura dei più fragili tra i propri simili. Ciò non significa curarli oltre il dovuto, ma opporsi in maniera assolutamente cosciente all’equazione che identifica i pazienti cronicamente non autosufficienti a occupanti impropri di letti d’ospedale e ad un peso per le finanze pubbliche.

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[22] Ibidem. [23] Ibidem. [24] Ibidem. [25] Ibidem. [26] Smith S., The Human Rorschach Test, TCS Tech Central Station, Published 12 December 2003http://www.techcentralstation.com/120403B.html. [27] McMahon K.T.Catholic moral teaching, medically assisted nutrition and hydration and the vegetative state, Neurorehabilitation 19 (2004), 373-379. [28] S.H. WANZER, S.J. ADELSTEIN, R.E. CRANFORD, D.D. FEDERMAN, E.D. HOOK, C.G. MOERTEL, P. SAFAR, A. STONE, H.B. TAUSSIG and J. VAN EYS, The physician's responsibility toward hopelessly ill patients, New England Journal of Medicine, 310(1984), 955-9. [29] Parliament of the United Kingdom, The Mental Capacity Bill, Presented on 17th June 2004http://www.publications.parliament.uk/pa/cm200304/cmbills/120/2004120.htm [30] Roth M., Euthanasia and related ethical issues in dementias of later life with special reference to Alzheimer’s disease, British Medical Bulletin 52 (1996), 263-279. [31] McLean S.A., Legal and ethical aspects of the vegetative state.Journal of Clinical Pathology, 52 (1999), 490-3. [32] Si veda la nota 20. [33] Ibidem. [34] Ibidem. [35] R.D. TRUOG and W.M. ROBINSON, Role of brain death and the dead-donor rule in the ethics of organ transplantation, Critical Care Medicine, 31(2003), 2391-6. [36] Declaration of Geneva (1948), Adottata dall’Assemblea Generale dell’Associazione Medica Mondiale a Ginevra, Svizzera, nel settembre del 1948 ed emendate dalla 22a Assemblea a Sydney, Australia, nell’agosto del 1968. [37] Onwuteaka-Philipsen B.D., van der Heide A., Koper D., et al., Euthanasia and other end-of-life decisions in the Netherlands in 1990, 1995, and 2001, 362 Lancet(2003),395-9. [38] Rietjens JA, van der Heide A, Vrakking AM, et al., Physician reports of terminal sedation without hydration or nutrition for patients nearing death in the Netherlands. Annals of Internal Medicine, 141 (2004), 178-85. [39] Gillick M.R., Terminal sedation: an acceptable exit strategy? , Annals of Internal Medicine, 141 (2004), 236-7. [40] Engelhardt H.T., The Foundations of Bioethics, OxfordUniversity Press, New York - Oxford 1986, pp. 104.