22
ari cristiani! So che molti fra voi, e non gli ultimi, hanno più caro di tutto nel cristianesimo quell’autorità spirituale che esso dà ai suoi legittimi rappresentanti e non per loro particolare vantaggio, ma senza dubbio per il bene comune, poiché su questa autorità si basa il giusto ordine spirituale, nonché la disciplina morale, indispensabile per tutti. Cari fratel- li cattolici! Oh, come capisco il vostro modo di vedere e come vorrei appoggiare la mia potenza sull’autorità del vostro capo spirituale! E perché non crediate che si tratti di lusinghe e di vane parole, noi dichiariamo solennemente: per nostra autocratica volontà, il ve- scovo supremo di tutti i cattolici, il papa romano, da questo momento è reintegrato nel suo seggio di Roma, con tutti i diritti e le prerogative di un tempo, inerenti a questa condizione e a questa cattedra e che un gior- no gli furono conferiti dai nostri predecessori a co- minciare da Costantino il Grande. Ma per questo, fra- telli cattolici, voglio soltanto che dall’intimo del cuore riconosciate in me il vostro unico difensore ed unico protettore. Parole dell’imperatore-anticristo in Vladimir Solov’ëv, La leggenda dell’Anticristo, 1900 Periodico mensile - Anno XXIX, n. 3, marzo 2009 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Re- daz. e amministraz.: 38100 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20 www.il-margine.it C Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno XXIX (2009) n. 3 Piergiorgio Cattani RE MIDA TRIUMPHANS Lorenzo Perego ESILIO DELLA COSCIENZA E RABBIA DEMOCRATICA Fulvio De Giorgi RIAPRIRE LA DISCUSSIONE LIBERA, NELLA CARITÀ IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO Silvio Mengotto LE SUORE E LA RESISTENZA Sergio Apruzzese AGOSTINO GEMELLI: IL RETTORE E IL REGIME Eugen Galasso THE MORNING WATCH E L’ESPERIENZA RELIGIOSA Emanuele Curzel ESCATOLOGIA (DISPERATA) PER TUTTI

quell’autorità spirituale - Casa editrice IL MARGINE ... · con tutti i diritti e le prerogative di un tempo, inerenti a questa condizione e a questa cattedra e che un gior-

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ari cristiani! So che molti fra voi, e non gli ultimi,

hanno più caro di tutto nel cristianesimo

quell’autorità spirituale che esso dà ai suoi legittimi

rappresentanti e non per loro particolare vantaggio,

ma senza dubbio per il bene comune, poiché su questa

autorità si basa il giusto ordine spirituale, nonché la

disciplina morale, indispensabile per tutti. Cari fratel-

li cattolici! Oh, come capisco il vostro modo di vedere

e come vorrei appoggiare la mia potenza sull’autorità

del vostro capo spirituale! E perché non crediate che

si tratti di lusinghe e di vane parole, noi dichiariamo

solennemente: per nostra autocratica volontà, il ve-

scovo supremo di tutti i cattolici, il papa romano, da

questo momento è reintegrato nel suo seggio di Roma,

con tutti i diritti e le prerogative di un tempo, inerenti

a questa condizione e a questa cattedra e che un gior-

no gli furono conferiti dai nostri predecessori a co-

minciare da Costantino il Grande. Ma per questo, fra-

telli cattolici, voglio soltanto che dall’intimo del cuore

riconosciate in me il vostro unico difensore ed unico

protettore. Parole dell’imperatore-anticristo in

Vladimir Solov’ëv, La leggenda dell’Anticristo, 1900

Periodico mensile - Anno XXIX, n. 3, marzo 2009 - Poste Italiane S.P.A. spediz. in abb. postale

- d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - taxe perçue. Re-

daz. e amministraz.: 38100 Trento, cas. post. 359 – Una copia € 2,00 – abb. annuo € 20

www.il-margine.it

C

Mensile dell’associazione culturale Oscar A. Romero Anno XXIX (2009) n. 3

Piergiorgio Cattani

RE MIDA TRIUMPHANS

Lorenzo Perego

ESILIO DELLA COSCIENZA E RABBIA DEMOCRATICA

Fulvio De Giorgi

RIAPRIRE LA DISCUSSIONE LIBERA, NELLA CARITÀ

IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO

Silvio Mengotto

LE SUORE E LA RESISTENZA

Sergio Apruzzese

AGOSTINO GEMELLI: IL RETTORE E IL REGIME

Eugen Galasso

THE MORNING

WATCH

E L’ESPERIENZA RELIGIOSA

Emanuele Curzel

ESCATOLOGIA (DISPERATA) PER TUTTI

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IL MAIL MAIL MAIL MARRRRGINEGINEGINEGINE 3333 MARZO MARZO MARZO MARZO 2009200920092009

Piergiorgio Cattani 3 Re Mida triumphans

Lorenzo Perego 8 Esilio della coscienza e rabbia democratica

Fulvio De Giorgi 11 Riaprire la discussione libera, nella carità

19 Il vangelo che abbiamo ricevuto.

Invito ai cristiani per un incontro

comune a Firenze Il 16 maggio 2009

Silvio Mengotto 21 Le suore e la resistenza

Sergio Apruzzese 25 Agostino Gemelli: il rettore e il Regime

Eugen Galasso 30 The Morning Watch

e l’esperienza religiosa

Emanuele Curzel 33 Escatologia (disperata) per tutti.

Riflessioni a partire da La Macchina

del tempo di H.G. Wells

Mentre andiamo in stampa… Un mondo libero da bombe atomiche. Da tempo non sentivamo i potenti

della Terra evocare questa prospettiva. Avevamo più volte sentito giudicare

“inaccettabile” la produzione o il possesso di questo tipo di armi, ma di solito si

trattava di un modo per minacciare qualche avversario scomodo. Ora invece Ba-

rak Obama ne ha parlato (a Praga, il 5 aprile) in termini generali, annunciando

passi concreti per riprendere i negoziati con la Russia, per fare in modo che an-

che gli USA ratifichino il trattato che prevede il bando degli esperimenti, e per

giungere a un nuovo trattato internazionale sulla materia. Forse non tutti lo ri-

cordano, ma la presenza degli arsenali nucleari (e in misura prioritaria di quelli

delle due superpotenze) costituisce la più grave minaccia alla sopravvivenza del

pianeta. Sarebbe bello che le parole del presidente statunitense fossero seguite

dalla mobilitazione della società civile e di tutti gli uomini di buona volontà –

comprese le autorità religiose – per raggiungere in breve tempo l’obiettivo.

(E.C.)

I L M A RG I N EI L M A RG I N EI L M A RG I N EI L M A RG I N E

mensile dell’associazione

culturale Oscar A. Romero

Direttore: Emanuele Curzel

In redazione: Alberto Conci, Francesco Ghia,

Pierangelo Santini

Amministrazione e diffusione: Luciano Gottardi

[email protected]

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Webmaster: Maurizio Betti

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Giovanni Colombo, Francesco

Comina, Marco Damilano, Ful-

vio De Giorgi, Marcello Farina,

Guido Formigoni, Paolo Ghezzi

(resp. a norma di legge), Giovan-

ni Kessler, Roberto Lambertini,

Paolo Marangon, Fabrizio Matte-

vi, Michele Nicoletti, Vincenzo

Passerini, Grazia Villa, Silvano

Zucal.

Collaboratori: Carlo Ancona,

Anita Bertoldi, Dario Betti, Omar

Brino, Stefano Bombace, Vereno

Brugiatelli, Luca Cristellon,

Marco Dalbosco, Mirco Elena,

Cornelia Dell’Eva, Michele Do-

rigatti, Michele Dossi, Marco

Furieri, Eugen Galasso, Lucia

Galvagni, Luigi Giorgi, Giancar-

lo Giupponi, Paolo Grigolli, Al-

berto Guasco, Tommaso La Roc-

ca, Paolo Mantovan, Gino Maz-

zoli, Milena Mariani, Pierluigi

Mele, Silvio Mengotto, Walter

Nardon, Francesca Paoli, Rocco

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Pirini, Emanuele Rossi, Flavio

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gelo Scottini, Giorgio Tonini.

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via Larga 7 - a Monza presso

“Libreria Ancora”, via Pavoni 5.

editore della rivista:

ASSASSASSASSOOOOCIAZCIAZCIAZCIAZIONE IONE IONE IONE

OSCAR ROMEROOSCAR ROMEROOSCAR ROMEROOSCAR ROMERO

Presidente: Piergiorgio Cattani

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Segretaria: Veronica Salvetti

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Editoriale

3

Re Mida triumphansRe Mida triumphansRe Mida triumphansRe Mida triumphans

PIERGIORGIO CATTANI ola sull’enorme palco della nuova fiera di Roma, Annagrazia Calabria, la più giovane deputata del PDL e del parlamento intero (nominata, non

eletta, è bene ricordarlo), attende con trepidazione il Suo arrivo. Alla fine, con la voce rotta dall’emozione, l’onorevole ventisettenne, biancovestita, bella e spigliata come una velina, scandisce poche parole: «Sono emozio-nantissima. È arrivato il momento…chiamo sul palco il Presidente Silvio Berlusconi». Applausi, bandiere, delirio. Le note di Meno male che Silvio c’è. È l’incoronazione. È questo il giorno del trionfo che sovrasta anche la scontata acclamazione di Berlusconi di due giorni dopo a Presidente del ne-onato partito, quando le pungenti questioni poste da Fini avevano offuscato un poco la gloria dell’uomo solo al comando.

Il 27 marzo dell’Anno del Signore 2009, esattamente 15 anni dopo la sua prima vittoria elettorale, Berlusconi ha raggiunto un altro traguardo che gli consente di continuare a stare al centro della scena per i prossimi anni. Al tempo della sua “discesa in campo”, dettata dalla paura della bancarotta e della galera ma anche calibrata per riempire il vuoto politico del dopo Tan-gentopoli, pochi si resero conto che stava per abbattersi sul paese un ciclone metapolitico basato sul mito della ricchezza, sul culto della personalità, sull’accentramento dei media, sulla contiguità mai chiarita con poteri occulti e eversivi (per esempio con la P2) e sulla mobilitazione di interessi econo-mici ben determinati. La sinistra non seppe mai far fronte a questa situazio-ne e quanti si mobilitarono per denunciarla e fermarla (sarebbe bastata, nel 1996-1997, l’approvazione di una legge sul conflitto di interessi “seria”, propria di una democrazia matura) furono sacrificati sul tavolo di accordi, bicamerali, legittimazioni reciproche finiti sempre e solo per puntellare la derìva post-democratica berlusconiana. Solo Prodi riuscì per due volte a in-terromperla, ma sappiamo come andò a finire.

S

4

Re Mida: il messia postmoderno

È un grande giorno per Berlusconi, tristissimo per il Paese. Il giorno in

cui una persona che ha inneggiato per tutta la vita alle sue prestazioni ses-suali può difendere il Papa sul preservativo e può dire di essere lui a soste-nere i valori cristiani. Non si fa più caso alla ritualità pagana di cui si am-manta, dello scenario luccicante ma in fondo cupo e inquietante che fa da coreografia di ogni sua uscita. Il corifeo della “lucida follia” berlusconiana, Giuliano Ferrara, giunge perfino ad evocare il “messia postmoderno” il cui destino finale non è la croce, bensì un happy end fantasmagorico.

In un congresso show il “partito-televisione”, o meglio il “partito-azienda televisiva”, diventa realtà. Nato grazie alla televisione Berlusconi è riuscito a trasformare la politica in un evento mediatico di cui lui è produtto-re, regista, unico protagonista. Dopo aver creato un partito, ora guida un po-polo e in futuro vuole incarnare la nazione intera. Infatti ha già interpretato la biografia di una nazione, l’Italia che, a differenza della Germania, pensa-va che bastasse piazzale Loreto per fare i conti con il passato fascista ri-sparmiandosi quel doloroso scavo nella memoria collettiva che sta alla base della democrazia tedesca e la rende ben diversamente solida. Berlusconi ha da un lato interpretato lo spirito dell’Italia profonda, indifferente alle regole e immersa nel familismo amorale, ma dall’altro ha anche intercettato il so-gno, il desiderio di poter sfondare. Il dio Silvio è quello che ha dato agli ita-liani la televisione gratis e di questo i cittadini-telespettatori-teledipendenti gli sono perennemente riconoscenti. Berlusconi ha fatto davvero miracoli: ha convertito ai valori cattolici “non negoziabili” laici e radicali incalliti; ha trasformato uscieri e medici personali, soubrette ed ex fascisti in ministri, sindaci e governatori, ha inoculato nel pubblico l’idea che, per raggiungere impensati traguardi, basti far parte della claque, sommergerlo con la piagge-ria, promettergli eterna fedeltà. Un oscuro parlamentare europeo di Forza Italia ha dichiarato: «Berlusconi è un moderno re Mida: trasforma tutto in oro».

Ma, nel giorno dell’apoteosi, forse re Mida è anche triste. Certamente potrà raggiungere altri traguardi, potrà diventare Presidente della Repubblica (se riuscirà a modificarne il profilo, per non restare prigioniero di un nobili-tato prestigioso ma per lui troppo effimero), potrà stravolgere la Costituzio-ne, potrà al limite rendere l’Italia un’autocrazia, potrà preparare la succes-sione con la figlia, ma il 27 marzo segna comunque l’apice, il traguardo, il clou di uno spettacolo destinato a chiudersi con lui. Per un uomo “tecnica-

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mente immortale” (come è stato definito dal suo medico, il sindaco del sac-co e della voragine di Catania) occorrono sempre le luci della ribalta perché ad ogni chiusura del sipario rimane un senso desolante di vuoto: e così l’happy end berlusconiano non ci potrà mai essere.

Segni di opposizione, brandelli di società civile

Intorno al trono di re Mida troviamo il resto del mondo, a cominciare dall’Europa, che lo dipinge come il più sinistro dei governanti delle demo-crazie occidentali, oppure come il clown che pensa di essere al piano-bar anche davanti alla Regina d’Inghilterra, o come il tipico italiano sempre al telefonino capace di voltare le spalle per dieci minuti alla Cancelliera Mer-kel.

Ma anche questa Europa, sferzata dalla crisi economica di cui si stenta a comprendere ancora il reale impatto sociale, presenta notevoli e preoccu-panti elementi di instabilità: i paesi dell’est, cresciuti in maniera stupefacen-te grazie alle promesse del liberismo sfrenato, rischiano un’implosione o almeno una stagione di difficoltà e di turbolenza. Nazioni ricche e tranquille come Belgio e Austria sono in una crisi politica senza precedenti; Irlanda e Grecia sono state (per ora) salvate dalla bancarotta; i Paesi più grandi vivo-no un clima di incertezza e di tensioni sociali che in Francia hanno già supe-rato il livello di guardia. Insomma, non potrà essere l’Europa a salvarci.

Berlusconi gode invece di ottimi appoggi da Oltretevere. Basta leggere ciò che l’Osservatore Romano scrive in merito al PDL: «Si tratta di una formazione forte, non solo in termini percentuali» e «maggiormente in grado di esprimere i valori comuni della popolazione italiana, tra i quali quelli cat-tolici costituiscono una parte non secondaria». La legittimazione che in ge-nerale la Chiesa ha dato al partito-show sicuramente fornisce un importante cemento ideologico per un governo dipinto come «coraggioso» e capace di «mantenere le promesse», soprattutto in merito al testamento biologico. Ma forse non bisogna esagerare il ruolo di questa chiara (fin troppo esplicita) alleanza trono-altare: la Chiesa italiana è disorientata e di fatto commissaria-ta dalla Segreteria di Stato vaticana che, pur affaccendata in questioni più gravi come il caso dei lefebvriani, gestisce in prima persona i rapporti con lo Stato, come testimonia l’allegra tavolata in casa Vespa con commensali il cardinal Bertone, il sindaco Alemanno, Berlusconi e il direttore d’orchestra Riccardo Muti.

6

Per rappresentare completamente la nuova DC al progetto berlusconia-no mancano Casini e il suo partito, che godono di un discreto consenso negli ambienti ecclesiali. In questa fase l’UDC rimane una spina nel fianco di Berlusconi: bisogna dare atto a Casini di aver conservato la sua autonomia e di non essersi omologato al popolo messianico del dio Silvio, anche a costo di perdere onori e ministeri. In questo senso i democristiani rappresentano l’unica vera opposizione, anche interna al PDL, come testimoniano le parole inequivocabili pronunciate dall’ex ministro Beppe Pisanu su temi decisivi come l’immigrazione e le ronde.

Così arriviamo a Dario Franceschini: anche lui di tradizione democri-stiana, grande ammiratore di Zaccagnini. Il sostituto di Vetroni, assurto ro-cambolescamente alla segreteria, più in virtù della situazione emergenziale che per le personali doti di leadership, in queste prime settimane si è mosso bene, al di sopra delle aspettative sia dei compagni di partito sia degli avver-sari. Sta utilizzando un linguaggio più semplice e diretto, sicuramente più pungente di una certa melassa veltroniana; cerca di incalzare il governo so-prattutto sui suoi ritardi nell’affrontare la crisi economica; tenta di rianimare il popolo democratico con gesti eclatanti ma sicuramente di impatto emotivo (e televisivo) e di alto valore simbolico come il giuramento sulla Costituzio-ne nelle mani del padre partigiano, a Ferrara il giorno dopo essere stato elet-to segretario. La grande tradizione del cattolicesimo democratico è servita a Franceschini per gestire al meglio il dibattito sul testamento biologico: alla fine ci sono stati più senatori del PDL (e non del PD, come tutti avrebbero scommesso alla vigilia) a votare in maniera difforme dal gruppo.

Purtroppo ancora poca cosa di fronte allo strabordante potere mediatico di Berlusconi, che riesce ad imbonire buona parte degli italiani con le battute e l’ostentato ottimismo. Resistono in qualche modo – ma anch’essi non sono sufficienti – solo una parte significativa della stampa (non a caso oggetto delle minacce inquietanti di Berlusconi all’indomani del vertice Nato di Strasburgo), i luoghi “fisici” della discussione politica (a partire dai circoli del PD, purtroppo non ancora consolidati) e parecchi “social network” sul web, le cui potenzialità non si sono ancora dispiegate pienamente.

Al di là di questo assistiamo anche al progettato indebolimento se non smantellamento del tessuto sociale su cui si basa la stessa Costituzione ma-teriale del Paese. La divisione, mai così profonda, tra i sindacati confederali sta condannando all’insignificanza CISL e UIL, mentre il clima generale dipinge la CGIL come il freno a ogni tipo di riforma e a qualsiasi progetto governativo per stimolare la crescita. Eppure solamente il sindacato di Epi-

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fani dice qualcosa di sensato in merito alla crisi, sottolineando per esempio la drammatica diminuzione del potere di acquisto dei salari oppure il tema degli ammortizzatori sociali per i precari e per gli atipici.

In questo quadro drammatico, il PD (e con esso tutta l’opposizione) ha forse un unico compito: quello di sopravvivere e di fare un’opposizione chiara, decisiva ed incalzante, progettando nel contempo una nuova agenda sociale e una nuova e credibile rete di alleanze per sconfiggere un giorno re Mida e il suo popolo adorante. �

La fabbrica della paura

I dati del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva (ripresi da

“La Repubblica”, 7 marzo 2009) ci dicono che tra il 2003 il 2005 (quando

al governo c’era Berlusconi) lo spazio dedicato alla cronaca nera nei tele-

giornali della RAI è stato, mediamente, dell’11,7%; nei tg di Mediaset

dell’11,5%; nel tg de La 7 dell’8,4%.

Nel 2006 (anno di passaggio: prima Berlusconi, poi Prodi) questo spa-

zio è salito al 19,1% nei tg RAI, al 18,9% a Mediaset, al 17,7% a La 7.

Nel 2007 (governo Prodi) si è arrivati rispettivamente al 22,3% (RAI),

25,6% (Mediaset), 22% (La 7).

Spazi televisivi, dunque, raddoppiati o più che raddoppiati, a fronte di

un numero di reati rimasto sostanzialmente invariato. Due domande retori-

che: questa evoluzione (che è impossibile ritenere casuale e involontaria),

quale parte politica ha avvantaggiato? Come andrà nel 2009? (E.C.)

Politica

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Esilio della coscienza

e rabbia democratica

LORENZO PEREGO comparsi, li definiva Ilvo Diamanti su “La Repubblica” del 1 marzo. Si tratta degli elettori del Partito Democratico, che i sondaggi davano pre-

cipitato intorno al 20%. Certo, Diamanti scriveva solo pochi giorni dopo il cambio di vertice, che ha sostituito Veltroni con Franceschini.

Devo essere sincero: non avrei scommesso niente sul nuovo segretario, perchè fino all’altro ieri aveva fatto il galoppino di Veltroni, senza mai dire una parola, e poi magicamente si è presentato all’Assemblea nazionale di-cendo che avrebbe disfatto tutto quello che aveva messo in piedi il suo pre-decessore (a partire dal governo ombra). E allora mi era venuto da pensare: Franceschini, ma ci sei o ci fai?

Da quando è diventato segretario, però, ha sparato colpi molto decisi e mirati, portando una ventata nuova nello stile dell’opposizione. Si è definito “uomo del nord” (cosa più unica che rara tra i dirigenti della sinistra) e ha detto senza mezzi termini che la Lega e il PDL dovevano chiedere scusa ai cittadini per l’affare Malpensa, che penalizzerà enormemente il nord Italia; ha tirato delle staffilate fastidiose a Berlusconi e co., abbandonando l’accondiscendenza veltroniana; sembra voler recuperare un rapporto con la sinistra, la quale però è ancora in alto mare e molto più sfasciata del PD, per garantire un vero supporto all’opposizione parlamentare. Anche sulla que-stione dell’election day sta conducendo una buona battaglia, mettendo sul piatto chiare e tonde le cifre dello spreco (circa 500 milioni di euro) che la destra è disposta ad avvallare, pur di far fallire il referendum elettorale.

Insomma, da quando c’è Franceschini alla guida del partito, quest’ultimo sembra aver recuperato qualcosina nei sondaggi, anche se Di Pietro, con il suo stile duro e diretto, ha affascinato sicuramente parecchi democratici. Tuttavia, bisogna dire che i partiti e il Paese hanno bisogno di ben altro: la speranza è che Franceschini stia lavorando “di pancia” per re-cuperare consensi, e poi si metta a lavorare “di testa” se mai il PD crescerà

S

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nelle previsioni: si tratta di impostare un percorso di accompagnamento e-ducativo e pensante degli elettori.

Molti di coloro che votarono il PD, però, preferiscono oggi chiudersi nell’astensione. Diamanti fa notare che anche Forza Italia, dopo essere anda-ta al governo nel 2001, perse sistematicamente tutte le elezioni successive (amministrative, regionali, europee) proprio a causa del crescente astensio-nismo dei suoi, delusi dalla prova negativa dell’esecutivo.

Il caso del PD è però profondamente diverso. Storicamente, gli elettori della sinistra sono più colti, più istruiti, si pongono più domande rispetto a quelli della destra, che invece si trovano più comodi nel delegare al leader il compito di pensare al posto loro: non sono insulti gratuiti, basta leggere un qualsiasi manuale di analisi sociologica dell’elettorato italiano. Ora questi elettori più preparati (e quindi potenzialmente più critici), amanti della Co-stituzione, laici (ma non laicisti, almeno in maggioranza), si sentono traditi dalla politica, che in trent’anni (e non quindici, come si dice sempre: il bal-letto attorno alle riforme istituzionali e sulle leggi elettorali ce lo trasciniamo dall’inizio degli anni Ottanta, ancora prima dell’avvento del craxismo), in trent’anni, dicevo, non ha saputo dare risposte alle domande più elementari e quotidiane di giustizia, serietà e qualità della vita. E sono delusi dal PD, che dopo averli attirati con primarie di ogni tipo, dopo averli coinvolti (in mini-ma parte) nelle strutture di partito, dopo aver dato loro l’illusione del cam-biamento, si è rivelato la consueta somma di affaristi e correntisti, anche ai livelli locali. Gli idealisti vengono sbeffeggiati, i giovani usati solo come manovalanza, mentre l’impegno di molti che ci credono davvero porta loro solo stress e preoccupazioni insostenibili (perchè proprio non c’è sostegno e i pesi bisogna portarseli in solitudine).

Queste sono cose che si pensano, a volte si dicono, ma mai si scrivono: se il PD è ridotto così fin dall’inizio, è colpa di quegli ex DS che, compatti, sovietici come sapevano fare, hanno votato per un Veltroni che non condi-videvano, ma che era l’unico candidato del loro partito. Duemilaesette, ma centralismo democratico ancora rampante. Ed è colpa di quegli ex Margheri-ta che hanno dimenticato nel cassetto le aspirazioni del cattolicesimo demo-cratico e popolare, portandosi dietro solo la voglia di occupare i posti e le cariche, peggior retaggio DC. Ed è colpa di quegli ulivisti che si sono battuti per il PD non perchè credevano al progetto di Prodi, ma perchè intravedeva-no all’orizzonte possibilità di carriera per sé.

Ma l’insoddisfazione e la rabbia non si fermano ai politici o al partito di riferimento: dice bene Diamanti, questi sentimenti si allargano fino a

10

coinvolgere gli altri cittadini. I democratici sono infastiditi dal resto del Pae-se, che vota Berlusconi, plaude alle leggi leghiste, si rimbambisce davanti alla spazzatura televisiva, non è capace di prendere posizione critica e ra-gionata su nulla.

Quante volte ci è capitato di incontrare persone del genere? Troppo for-te la tentazione di dire: ma chi me lo fa fare di stare qui per ore a parlare con qualcuno che ha già eretto un muro e non mi sta davvero ascoltando? Del resto, il governo Berlusconi esiste perchè è il riflesso di questa Italia che l’ha votato. Il Paese è marcio fin dalle fondamenta ed esprime marciume an-che nelle istituzioni. È un Paese che non esercita più la responsabilità perso-nale, da molto tempo ormai. Quando la maggioranza degli italiani torna a casa la sera, sciacqua la coscienza in candeggina e mette in stand by il cer-vello. Ma non sto parlando solo di chi vota a destra. Anche nella sinistra, non nascondiamocelo, c’è una buona fetta che mette il ragionamento in sof-fitta e segue ciò che le dicono i capicorrente o la stampa specularmente op-posta a quella berlusconiana.

E così i democratici esuli in patria, quelli che Berlusconi non se lo me-ritano e non l’hanno voluto, spengono la tv e non leggono più i giornali, perchè sono troppo impegnati a mandare avanti dalla base questo Paese, a cercare di costruire, almeno attorno a loro e alle loro famiglie, un’oasi di fe-licità, tranquillità, educazione, scopo, senso e consapevolezza, per sfuggire alla morsa del cavalierato. Si sforzano di costruire reti di solidarietà di base, sincere e formative (l’unica soluzione per uscire veramente dalla crisi, a mio avviso). Come dar loro torto? L’alternativa è finire schiacciati dalla società (anzi dalla non-società) di Maroni, Carfagna, Gelmini e colleghi.

Non saranno i proclami dal podio, i discorsi del predellino, le alleanze e i sotterfugi, che ci daranno quell’Italia diversa che tutti sembriamo volere, ma che in realtà solo pochi stanno davvero cercando di costruire con fatica. Siamo noi, nelle pieghe della società, che dobbiamo stimolare il cambia-mento quotidiano, innanzitutto pensando alle pagliuzze nei nostri occhi, prima che alle travi in quelli dei vicini: la prima cosa da cui liberarsi è la tentazione del giudizio facile , dello sputare sentenze, di credersi giudici di ogni altra persona.

Se un cattolico la sera fa l’esame di coscienza e chiede perdono, anche un laico può benissimo, a giornata conclusa, aprire il suo Vangelo (la Costi-tuzione) e chiedersi: “Quali articoli ho violato oggi?”. E si vedrà che saran-no più di quelli che ci si aspetta. �

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Chiesa

11

Riaprire la discussione libera,

nella carità

FULVIO DE GIORGI

a vicenda della revoca della scomunica agli scismatici lefebvriani, il giusto scandalo internazionale provocato dalle dichiarazioni negazioni-

ste (cioè antisemite) del vescovo lefebvriano Williamson, l’affannosa rin-corsa alle precisazioni da parte della Santa Sede, la conseguente inevitabile pessima immagine rimediata dal papa e dalla Chiesa Cattolica, nonostante il preciso documento della Segreteria di Stato (tardivo: ma non per sua colpa), le successive dichiarazioni, rivelative e perciò sorprendenti, del cardinale Kasper e di padre Lombardi (addetto alla Sala stampa vaticana), hanno su-scitato perplessità in molti vescovi cattolici «davanti a un avvenimento veri-ficatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle que-stioni e nei compiti della Chiesa di oggi» e, più in generale, hanno promosso «una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata». Ciò ha indotto il papa a scrivere direttamente una lettera (dal-la quale sono tratte le citazioni precedenti) a tutti i vescovi cattolici, datata 10 marzo 2009: un documento molto bello, commovente e umile. Il papa parla in modo diretto, franco ed aperto, con il cuore in mano, con una since-rità che spinge il lettore cattolico ad un abbraccio ideale. Grazie, Santo Pa-dre! Continui sempre a parlarci così. Tra l’altro Benedetto XVI ha notato:

«Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio … Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di do-vermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. … A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tol-leranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo».

Personalmente, davanti agli eventi ricordati, mi ero chiesto – non certo con odio verso qualcuno, non verso i lefebvriani (come attesta la lettera a-

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perta al vescovo Williamson che ho scritto insieme a Grazia Villa e che è pubblicata sul sito della Rosa Bianca) e, tanto meno, verso il papa – se la revoca della scomunica e la sua tempistica (nel cinquantenario dell’annuncio del Vaticano II) avessero voluto indicare una volontà del papa di ritornare indietro rispetto al Concilio. È stato, in effetti, doloroso per la mia fede cat-tolica pormi tale domanda, che in coscienza non mi sembrava eludibile (evi-dentemente non ero il solo…). Ma, comunque, ad un’analisi serena, mi era apparso subito chiaro quello che ora la Lettera papale conferma: il papa, cioè, in fedeltà alla linea di misericordia e di unità dei cristiani affermata proprio dal Concilio Vaticano II (che non ha emesso alcuna scomunica, co-me invece chiedevano i vescovi tradizionalisti), vuole ricomporre uno sci-sma. Certamente non vuole uno spostamento della Chiesa cattolica sulle po-sizioni dei lefebvriani: il suo magistero dimostra che non vuole la revoca dissimulata del Concilio, ma anzi l’attuazione del Concilio (e sui siti internet dei tradizionalisti si trovano censite e criticate puntigliosamente tutte le sue dichiarazioni che vanno appunto nel senso conciliare).

Piuttosto – secondo la migliore prospettiva ecumenica – la linea della ricomposizione di uno scisma non è il ritorno puro e semplice nella Chiesa cattolica, ma che tutti (Chiesa cattolica e scismatici) convergano maggior-mente verso Cristo e la Sua Rivelazione, cioè verso la Parola di Dio e la Grande Tradizione. Chiaramente la vera, grande Tradizione parte dall’età apostolica e – per i doni dello Spirito (ultimo dei quali è stato il Vaticano II) – cresce continuamente nel tempo: non si può ridurre ai tradizionalismi che assolutizzano un piccolo pezzo di storia della Chiesa, rompendo la continui-tà della Tradizione sia verso il passato sia verso il futuro. Chi infatti fa coin-cidere la Verità unicamente con un Messale specifico e con specifici indu-menti liturgici nega la Verità alla Chiesa dei momenti storici precedenti e dei momenti storici successivi: rompe e nega la continuità della Chiesa, non riconosce la sua apostolicità (fino a considerare ‘sede vacante’ la cattedra di Pietro), rinnega la continuità della presenza dello Spirito Santo nel cammino ecclesiale. In realtà, la Tradizione ci libera proprio dai pesi dei tradizionali-smi.

Senza il Concilio non possiamo vivere la nostra fede

In tale riflessione, mi è stato utile ricordare l’ormai famoso discorso del

dicembre 2005 in cui il papa affrontava il problema della recezione del Con-

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cilio e lo riportava alle diverse chiavi di lettura o “ermeneutiche” che del Concilio sono state date:

«I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si so-no trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rot-tura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’”ermeneutica della rifor-ma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discon-tinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconcilia-re».

Benedetto XVI ha richiamato espressamente le indicazioni del Beato

Giovanni XXIII che esprimevano la necessità dell’aggiornamento, del rin-novamento, della riforma per rendere adeguato alla cultura moderna l’annuncio dell’Evangelo, cioè dell’intangibile deposito della fede:

«È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione con-sapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige an-che che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Gio-vanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedel-tà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha gui-dato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuo-vi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio».

La riforma conciliare aveva abbracciato vari aspetti per superare lo

scollamento (che in alcuni momenti storici era stato aperto contrasto) tra Chiesa e civiltà moderna, eliminandone le conseguenti storture: «In partico-lare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele».

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Insomma Benedetto XVI, fin dal 2005, voleva riaffermare la continuità della presenza dello Spirito Santo nella storia della Chiesa, escludendo vi-sioni di rottura, ma sottolineando in modo chiaro, inequivocabile, fin dall’impegnativo uso lessicale del termine Riforma, la verità storica di un processo che è fatto di continuità e di discontinuità:

«È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico proble-ma, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distin-zioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. … Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente disconti-nuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identi-tà. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cat-tolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi».

Dopo questo discorso sull’ermeneutica del Concilio si è aperta una di-scussione sull’ermeneutica di questo discorso stesso. Qualcuno lo ha riletto come contrapposizione di una lettura del Concilio nel segno della disconti-nuità (propria dei vari teologi e pastori “progressisti”) e di una lettura del Concilio nel segno della continuità (propria del papa e dei tradizionalisti). A me non pare che questa sia l’ermeneutica corretta, ad una analisi serena del testo. Il papa intanto riconosce, a ritroso, una legittimità ecclesiale a due let-ture, di cui una gli sembra portatrice di problemi e un’altra portatrice di mol-ti frutti (evangelici). Non cita, peraltro, una terza “ermeneutica”, pur presen-te nella storiografia “laica”, che considera in fondo la Chiesa come una struttura di potere e la sua attività come essenzialmente politica: secondo tale ermeneutica il Concilio sarebbe stata una piccola operazione di facciata, unita a conati velleitari, e nulla sarebbe in realtà cambiato nella Chiesa. Il papa non cita questo approccio il che vuol dire sia che neppure considera una lettura di pura continuità sia, probabilmente, che non le annette (a diffe-renza delle altre due) un rilievo ed una legittimità interni alla comunità ec-clesiale. Dunque Benedetto XVI parla di due ermeneutiche, dichiarando di preferire la seconda e sforzandosi, mi pare, di convincere i fautori della pri-ma a spostarsi sulla seconda. Ma chi sono i fautori della prima? Sono, direi, i “rivoluzionari” che guardano al Concilio come a una rivoluzione completa, cioè come a una rottura della storia della Chiesa: è chiaro che ci sono rivo-

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luzionari di sinistra (come i teologi della liberazione: ai quali effettivamente sembrerebbe alludere il discorso) e rivoluzionari di destra (i tradizionalisti). E quale prospettiva alternativa si indica agli uni e agli altri? Quella della Ri-forma cattolica, di una Ecclesia semper reformanda, di uno sviluppo conti-nuo e omogeneo, di una continuità di crescita spirituale che, ovviamente, essendo dinamica, implica cambiamenti e perciò discontinuità, ma mai una rottura assoluta, quasi che una Chiesa finisse e ne iniziasse un’altra: quasi che ci fosse un nuovo Evangelo. Non è la prospettiva della storia dottrinale della Chiesa da affiancare al Concilio (quasi che si debba cercare una sintesi tra Concilio e pre-Concilio): ma del fatto, come dice la recente Lettera, che «il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa» (cioè è esso stesso, da solo, la sintesi). Se, dunque, il senso è di indurre i rivoluzionari a divenire riformatori, con la Commissione Ecclesia Dei si è aperto un dialo-go con i tradizionalisti lefebvriani. Spero che, al più presto, si apra un paral-lelo dialogo con i teologi della liberazione (per verificare se hanno abbando-nato il “tradizionalismo” marxista).

Ma, in ogni caso, mi pare che, con la vicenda della revoca della sco-munica ai lefebvriani, il papa chieda un superamento dei tradizionalismi verso la vera Tradizione e perciò un’accettazione piena, convinta e devota del Concilio e del magistero post-conciliare. E lo chieda a tutti. Impegnan-doci in una verifica a tutto campo sulla recezione del Concilio: «Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbaglia-to? Che cosa resta ancora da fare?». Il Concilio Vaticano II non è solo dietro di noi: è tuttora, oggi, davanti a noi, come programma ancora non comple-tamente attuato. Dobbiamo riprenderne in mano i testi e studiarli con atten-zione e rilanciare la riforma conciliare. Un Concilio si misura sul lungo pe-riodo: la sua attuazione non procede lineare e progressiva, ma ha fasi di ral-lentamento, di ritorni indietro e fasi di ripresa (anche per la recezione del Concilio di Trento ci sono state fasi di stagnazione a cui è seguita una “ri-presa tridentina”). Oggi ci vuole una forte ripresa della riforma del Vaticano II. Superando tradizionalismi vecchi e nuovi. Questo, mi pare, chieda il pa-pa.

Lo chiede ai lefebvriani. Ma lo chiede anche a tutta la Chiesa cattolica: forse in essa ci sono persone e gruppi che affermano proprio ciò che si chie-de ai lefebvriani di superare e cioè tradizionalismi rigidi e cioè rifiuto – an-che se dissimulato – del Concilio Vaticano II? Dobbiamo allora fare tutti un esame di coscienza: consapevoli che, oggi, senza il Concilio non possiamo vivere la nostra fede.

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Gli errori della Curia Romana

Il papa, nella sua Lettera, ha ammesso diversi errori, da parte dei suoi

collaboratori, nella vicenda della remissione della scomunica: 1) il non aver avuto l’informazione (ottenibile con una ricerca su internet) circa le posizio-ni antisemite negazioniste di Williamson; 2) «un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo suffi-cientemente chiaro»; 3) il mancato «coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere».

È chiaro che i principali responsabili di questi sbagli siano coloro che guidano la Commissione Ecclesia Dei. Ed il papa perciò ha deciso il colle-gamento stabile e permanente di tale Commissione con la Congregazione per la Dottrina della Fede e, dunque, con gli organismi collegiali della Curia Romana.

Vedremo come si lavorerà in futuro. Forse si può avanzare qualche ul-teriore commento rispetto al lavoro della Commissione, soprattutto in rela-zione al problema dell’antisemitismo, professato dal vescovo Williamson con espressioni simili a quelle dei vari gruppuscoli neonazisti e neopagani: antisemitismo, peraltro, evidente nel retroterra “culturale” di molti tradizio-nalisti reazionari (basta consultare internet: come il papa chiede di fare): presenza non casuale e contingente ma, in un certo senso, “strutturale” poi-ché collegata al secolare antigiudaismo cristiano.

Ma il problema cruciale è un altro. Forse i Responsabili della Commis-sione Ecclesia Dei hanno raccolto le informazioni su Williamson e sul suo negazionismo, ma non consideravano – in coscienza – l’antisemitismo un aspetto rilevante in riferimento al superamento dello scisma: non davano cioè un peso – dottrinale ed ecclesiale – alla questione. Mi chiedo: se il ve-scovo Williamson avesse detto lecito l’uso del preservativo (magari per evi-tare i contagi di AIDS in Africa) avrebbe destato più attenzione critica e una severa censura? Mi chiedo, allora: per i Responsabili della Commissione, l’antisemitismo di un piccolo gruppo di scismatici tradizionalisti è meno grave del ritenere lecito l’uso di metodi contraccettivi non naturali (come lo ritengono, per ammissione ormai di tutti, grandi masse di sposi cattolici: immenso “scisma sommerso” di cui ci si dovrebbe preoccupare almeno con altrettanta sollecitudine e misericordia)?

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Insomma la Lettera del Papa ha limpidamente chiarito la sua posizione (ma, per i cattolici onesti, era già chiara), però, censurando – direttamente e indirettamente – i Responsabili di Curia, non dilegua e forse rafforza timori già da più parti espressi: forse il tradizionalismo è anche all’interno della Curia Romana? Forse nella Curia Romana ci sono posizioni filo-negazioniste o di antisemitismo nascosto e dissimulato, magari anche solo nella forma “moderata” di chi ne minimizza la rilevanza? (Non c’è solo il negazionismo della Shoah, c’è anche il negazionismo della rilevanza teolo-gica per i cristiani della Shoah: anche questo, comunque, è antisemitismo. Ed è rifiuto del Concilio Vaticano II).

Il vero “nodo” da sciogliere

Ma in fondo la questione in assoluto più rilevante mi pare un’altra. Lo dice con precisione assoluta e in modo splendido la Lettera del papa:

«Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tut-te è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai, a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto fino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce prove-niente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti di-struttivi ci si manifestano sempre di più. Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, ver-so la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cri-stiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est».

Grazie, papa Benedetto, per queste parole. È questo che anche noi vo-gliamo. È questa la Chiesa che amiamo e in cui, con gioia spirituale, ci rico-

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nosciamo. È la Chiesa misericordiosa. È la Chiesa di Cristo e delle Beatitu-dini evangeliche. È la Chiesa del Concilio.

Ecco allora che si intravede il nodo vero da sciogliere per il bene della Chiesa e perciò per la limpidità della sua testimonianza. Ben venga la mise-ricordia verso i 491 sacerdoti lefebvriani: ben venga questa “riconciliazione piccola” (mons. Laurent Ulrich, arcivescovo di Lilla e vicepresidente della Conferenza episcopale francese, ha notato che la FSSPX è «una realtà pic-colissima» e che «la Chiesa universale conta 400.000 preti nel mondo», os-sia mille volte di più del numero citato per gli integralisti). Se accoglieranno il Concilio, saranno benvenuti e riaccolti nella Chiesa a braccia aperte. Ma certamente, allora, si lavorerà con maggior lena per giungere alle «riconci-liazioni medie»: con le realtà di “Chiesa popolare” ispirate alla teologia del-la liberazione o con i preti sposatisi senza dispensa ecclesiastica (Christian Weisner, portavoce del movimento Wir sind Kirche, li calcola in 100.000).

Ma, più importante ancora, per rafforzare la “pace nella Chiesa” è capi-re i motivi del disagio profondo che oggi cova sotto la cenere. Il papa, infat-ti, nella sua Lettera ha notato che la «amarezza» della «valanga di proteste», che il solo sospetto di rinnegare il Concilio ha scatenato, «rivela ferite risa-lenti al di là del momento». Qui non stiamo parlando dei teologi della libe-razione o dell’estremismo dei “tradizionalisti di sinistra”. C’è evidentemente un disagio molto vasto all’interno della Chiesa. Giova negarlo? Ha senso semplicemente ignorarlo? È pastoralmente opportuno non cercare di com-prendere, non ascoltare, non dialogare? È misericordioso non lenire queste “ferite”?

No. Non è la via migliore. Se si segue un atteggiamento di pura autorità si pongono le premesse per fratture più dolorose e polemiche. Se la libertà di parola nella Chiesa non diventa uno dei primi obiettivi pastorali di tutti i ve-scovi cattolici si giungerà a sempre più scomposte polemiche «espressione di una libertà mal interpretata». No: non si deve reprimere la libertà e riaf-fermare l’autorità. La pastorale dell’autoritarismo prepara disastri (e l’eventuale selezione dei candidati all’episcopato sulla base del criterio dell’autoritarismo si ritorcerà contro la Chiesa: vedi il caso del successore di Helder Camara in Brasile…).

La vera, grande, urgentissima priorità pastorale ha due volti: la libertà autentica e profonda, usata secondo giustizia, e la carità. Come dice Bene-detto XVI: «dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà»; «dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore». �

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Chiesa

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Il vangelo

che abbiamo ricevuto Invito ai cristiani per un incontro comune

a Firenze Il 16 maggio 2009

Volentieri pubblichiamo l’invito che segue, che è stato sottoscritto, tra

gli altri, dagli amici e collaboratori Fulvio De Giorgi, Paolo Marangon,

Enrico Peyretti, Gigi Pedrazzi.

l motivo ultimo che ci spinge a questo invito è la convinzione che il con-cilio Vaticano II sia stato e sia ancora una grande grazia, la grazia mag-

giore donata alla chiesa del nostro tempo, perché essa riscopra la forza del Vangelo nella storia vissuta. Ma con molti che nella chiesa cattolica oggi stentano ad avere voce avvertiamo la sofferenza di non vedere al centro del-la comune attenzione proprio il Vangelo del Regno annunciato da Gesù ai poveri, ai peccatori, a quanti giacciono sotto il dominio del male, mentre cresce a dismisura la predicazione della Legge. Il Signore ci ha chiamati a edificare non una chiesa che condanna, ma una chiesa che manifesti la mise-ricordia del Padre, viva nella libertà dello Spirito, sappia soffrire e gioire con ogni donna e con ogni uomo che le è dato di incontrare. Il nostro invito non è volto pertanto alla creazione di un movimento o alla contestazione o chissà che altro, come una chiesa alternativa, ma nasce dal desiderio che la libertà dei figli di Dio, il confronto sine ira, la comunione e lo scambio non si spengano.

Per questo motivo quanti condividono questa sofferenza, ma al tempo stesso la speranza del Regno e la volontà di una chiesa umile, vicina agli uomini e tesa a scrutare i segni dei tempi, sono invitati ad un incontro per confermarci a vicenda nella fede. Abbiamo pensato ad una giornata comune, a Firenze, il sabato 16 maggio prossimo, dalle 9 del mattino alle 17 (Cinema teatro “Nuovo Sentiero”, via delle Panche 36).

Ogni gruppo/comunità che volesse partecipare, ma anche ogni cristia-no/a che vive isolato/a la propria fede, è pregato/a di inviare una breve rela-zione (massimo 5.000 caratteri), che confluirà in una sintesi elaborata dagli

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amici di Torino all’inizio della giornata, prima delle relazioni, per far emer-gere elementi comuni e differenze presenti tra di noi. Vogliamo mettere in comune l’esperienza concreta e vissuta del Vangelo, le perplessità sul pre-sente della chiesa e della società, le proposte per un futuro più umano. Sarà cura della nostra segreteria far circolare fra quanti aderiscono queste testi-monianze. Queste relazioni per poter essere utilizzate debbono pervenire en-tro il 15 aprile prossimo.

Il secondo momento della giornata sarà dedicato ad una riflessione, proposta da Paolo Giannoni, sulla forza del Vangelo proclamato da Gesù che ha assunto ogni realtà umana, ha “toccato” i corpi per infondere la gua-rigione, si è seduto a mensa con i peccatori, rendendo così visibile ai nostri occhi e palpabile dalle nostre mani il mistero dell’amore trinitario.

Il terzo momento sarà costituito da una riflessione, proposta da Giusep-pe Ruggieri, sulla chiesa della fraternità e della sororità, che nella comunio-ne e nella corresponsabilità attiva di tutti, eguali in dignità, si impegna in una lettura credente dei segni dei tempi, nell’ascolto della Parola viene in-trodotta dallo Spirito a tutta la verità e, dalla presenza del Signore nelle sue celebrazioni, trae forza per farsi compagna di tutti, a cominciare dai piccoli e dagli ultimi.

Il quarto momento, il più ampio, sarà invece dedicato al confronto co-mune. Ci sembra infatti che in questo momento ci sia troppo frantumazione e poca comunicazione effettiva all’interno della chiesa italiana. Aleggia uno scisma non proclamato, ma tanto più doloroso. Questa frantumazione non può essere superata da mediazioni programmatiche e burocratiche, ma solo attraverso lo scambio aperto del vissuto della fede, nell’esperienza della for-za del Vangelo.

Questo invito non vuole escludere nessuno, né comunità né singole persone, ma tutti coloro che condividono le nostre preoccupazioni saranno i benvenuti non da ospiti o stranieri, ma come concittadini della città dei san-ti.

Per le adesioni all’invito e per l’invio delle relazioni si prega di far riferimento alla

nostra Segretaria Licinia Magrini: [email protected]. �

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Storia

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Le suore e la ResistenzaLe suore e la ResistenzaLe suore e la ResistenzaLe suore e la Resistenza

SILVIO MENGOTTO

e ricerche storiche di Giorgio Vecchio non solo documentano la presen-za dei preti nel moto di liberazione, ma affermano che la stessa Resi-

stenza non può essere interpretata come un movimento esclusivamente ar-mato: «oggi siamo più consapevoli che alla figura del partigiano armato bi-sogna affiancarne delle altre: altri partigiani, con fazzoletti non rossi bensì verdi o azzurri; e poi donne, tante donne, di ogni classe sociale; e cittadini con gli abiti sdruciti e senza idee politiche particolari; e ancora, preti, frati e suore»1. In particolare, il contributo delle religiose non solo alla Resistenza, ma più ampiamente all’aiuto a migliaia di oppressi, prigionieri, profughi, ebrei che vissero quel tempo drammatico è ancora poco noto.

Per rendere giustizia a tante donne dimenticate (e tra queste alla schiera silenziosa delle religiose) il 22 aprile la Fondazione culturale Ambrosia-neum di Milano insieme all’Azione Cattolica ambrosiana ha organizzato un convegno sul tema Le suore e la Resistenza, con lo scopo di approfondire un tema ricco quanto sconosciuto. In questa ricerca è stata preziosa la vasta do-cumentazione inedita che mons. Giovanni Barbareschi, cappellano delle “Fiamme Verdi” e fondatore del giornale clandestino “Il Ribelle”, ha raccol-to presso l’Archivio Storico Diocesano di Milano.

L’Arca di Noè

Dopo l’8 settembre 1943, in molte località del Paese, conventi e istituti

religiosi femminili si fecero carico del destino di estranei, sconosciuti, ebrei, sfamando e proteggendo, nascondendo persone messe a rischio dalla guerra. Un autentico maternage. Barbara Garavaglia documenta una scheggia di storia sconosciuta: la partecipazione delle religiose, senza armi, nella Resi-

1 G. Vecchio, La Resistenza delle donne 1943-1945, relazione al convegno di Pieve Ema-

nuele (Milano), 18 aprile 2007. Dello stesso autore, Lombardia 1940-1945. Vescovi, preti e società alla prova della guerra, Morcelliana, Brescia 2005.

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stenza civile all’oppressione nazifascista. Molti gli ebrei in fuga, soldati allo sbando, sfollati, partigiani, perseguitati politici che trovano rifugio nei sot-terranei delle clarisse di San Quirico di Assisi. La madre clarissa Maria Giu-seppina Biviglia annota:

«le persone che si rifugiavano da noi, furono per grazia di Dio, nei nostri riguardi tutte oneste, rette, buone e anche religiose, tanto i cattolici quanto gli ebrei. Venne qualche fascista durante il governo Badoglio e dopo l’entrata degli Americani; qual-che socialista. Era proprio un’arca di Noè»2.

Suor Grazia Loparco3 ha documentato che a Roma furono 4000 gli e-

brei salvati nei 200 istituti religiosi nella città tra l’autunno del 1943 e il 4 giugno 1944; di questi istituti 133 erano femminili, preservati dalle incur-sioni naziste da appositi cartelli della Santa Sede. Il motivo di fondo che spinse le religiose

«sembra l’appello alla carità che proviene dal vangelo. Pressate dalle richieste di donne, bambini, talora anche uomini, ricercati, molte sentirono che dovevano aprire le porte e il cuore, condividere il poco che avevano e anche la paura delle perquisi-zioni. In diversi casi l’ospitalità fu una scelta spontanea, in altri attesero un cenno dalla Santa Sede, che fece risuonare tramite vescovi, sacerdoti, superiori, l’invito ad aiutare rifugiati, sfollati, orfani, poveri. La città di Roma durante l’occupazione co-nobbe una mobilitazione di vastissima portata, ancora ben poco nota, che andò oltre l’ospitalità agli ebrei. Anzi, per comprendere il clima, occorre non isolare questa componente rispetto a tutte le altre che ebbero bisogno e ricevettero aiuti nei mesi dell’emergenza».

A Padova si organizzò una catena di volontarie nell’assistenza e nel

salvataggio di soldati italiani e alleati allo sbando. Non erano suore ma lai-che legate da un comune e fortissimo spirito religioso le quali organizzarono diversi viaggi della speranza per raggiungere la frontiera Svizzera. Tra que-ste donne Milena Zambon dell’Azione cattolica che, dopo l’esperienza di internamento nei lager nazisti, nel maggio 1948 entrò in un monastero di monache benedettine.

2 B. Garavaglia, Una storia che nessuno dimenticherà, in “Segno”, n. 1, gennaio 2009, p.

25. 3 G. Loparco, Gli Ebrei negli istituti religiosi a Roma (1943-1944) dall’arrivo alla par-

tenza, in “Rivista di storia della Chiesa in Italia”, 58 (2004), pp. 107-140.

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Suor Albarosa Bassani ha documentato gli atti di coraggio, di aiuto alla popolazione, agli sbandati, ai partigiani svolti dalle suore Dorotee4.

«Nel prendere tali decisioni “rischiose”, le suore non si posero problemi di natura politica, ma di natura umanitaria e caritativa, tesa a salvare vite umane. Tali scelte, cioè, si spingevano oltre i confini della guerra, della patria o delle singole parti in lotta, per arrivare in quel territorio insondabile dell’umanità sofferente, aiutata e confortata a prescindere dalla divisa o dalla parte in cui l’uomo si era schierato. Se le suore hanno aiutato i tedeschi e i fascisti quando questi erano ammalati o feriti, è perché in essi vedevano soprattutto “l’uomo da salvare”. Tuttavia, quando si è trat-tato di scegliere da che parte stare, di agire direttamente, correndo rischi che impli-cavano la perdita della vita, queste suore sparse in tante parti d’Italia, senza comu-nicare tra di loro, come guidate da un sesto senso, scelsero di aiutare soprattutto gli ebrei e i partigiani. La loro, dunque, fu istintivamente una scelta di libertà».

Presso le carceri di San Biagio di Vicenza suor Demetria Strapazzon era chiamata l’”angelo di San Biagio” e la “mamma dei detenuti” perché, dice suor Bassani, vigilava «sulle donne, preparava alla morte i condannati alla fucilazione, raccoglieva i loro desideri per trasmetterli alla famiglia. Ai detenuti partigiani che ritornavano torturati, fra questi qualche sacerdote, lei preparava un caffè o un calmante, medicava loro le piaghe e li incoraggia-va».

Simile è la figura di suor Enrichetta Alfieri, che operava nel carcere di San Vittore a Milano, chiamata dai detenuti politici come l’”Angelo” e la “mamma di San Vittore”. Nelle profonde tasche del suo grembiulone di in-fermiera teneva anche medicinali, e soprattutto “biglietti” che riuscivano a salvare vite umane. Fu scoperta e arrestata rischiando la fucilazione e l’internamento nei lager nazisti5.

In Lombardia operarono nel nascondimento altre religiose, come suor Teresa Scalpellini e suor Giovanna Mosna, che prestarono servizio come infermiere all’Ospedale Maggiore di Niguarda. Tramite una rete clandestina di partigiani e antifascisti le suore collaboravano con medici e infermiere con lo scopo di assistere i detenuti politici, organizzare la loro fuga, racco-gliere materiale sanitario per partigiani ed ebrei. Sotto la guida di madre

4 A.I. Bassani, Le suore Dorotee durante la seconda guerra mondiale, in “Odeo Olimpi-

co”, XXV (2002-2004), Accademia Olimpica, Vicenza, pp. 155-187. 5 E. Apeciti, Vedere con il cuore. Suor Enrichetta Alfieri, Suora della Carità, “Angelo” e

“Mamma” di San Vittore, Centro Ambrosiano, Milano, 2006. Mons. Ennio Apeciti è anche propositore della causa del processo di beatificazione.

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Donata, superiora delle Poverelle dell’Istituto Palazzolo di Milano, con il tacito consenso delle autorità ecclesiastiche, il Palazzolo di Milano era il soggiorno obbligato degli ebrei che transitavano da Milano e venivano av-viati clandestinamente in Svizzera. Suor Madre Donata fu scoperta e incar-cerata a San Vittore. Quando le milizie tedesche vennero a Milano per arre-starla,

«nel Palazzolo erano ricoverati 17 ebrei, don Giuseppe Tedeschi e la prof. Laura Bianchini, fuggiti da Brescia dove erano ricercati per la loro attività partigiana e stabilitisi fissi presso Madre Donata. Nessuno fu consegnato ai tedeschi. La loro macchina portò via solo madre Donata e ritornò qualche giorno dopo per arrestare anche la sua assistente suor Simplicia. Gli ebrei erano stati nascosti in mezzo alle macerie della parte dell’Istituto distrutta dai bombardamenti sotto la guida della prof. Laura Bianchini»6.

A Milano, nell’istituto Casa di Nazareth, nel massimo segreto gli ebrei venivano seguiti da una suora strettamente legata al segreto con tutti. In qualche circostanza, collaborando con sacerdoti, fu possibile accompagnare gli ebrei oltre confine. Ma la Casa di Nazareth ospitò anche il Comando dei Volontari della Libertà – tra questi anche l’on. G. Mattei e il generale Ca-dorna – che avevano lo scopo di organizzare e gestire le ultime fasi dell’insurrezione. Dalla cronaca della Casa Nazareth, datata proprio 25 apri-le 1945, si legge:

«Quante grazie per il nostro Istituto, per le nostre Case e specialmente per la nostra diletta Nazareth! La nostra Rev.ma madre Gen.le Rosa Chiarina Solari, certo per i-spirazione Divina fine strumento che Dio adoperò per compiere i suoi disegni di mi-sericordia. Fu richiesta d’un locale ove di tanto in tanto i Capi dello Stato Maggiore del Comitato di Liberazione si radunavano per studiare i loro piani di rivolta. In ca-sa nessuno era al fatto della cosa, che per prudenza non fu comunicata a nessuno»7.

In questa storia non mancarono episodi di segno contrario, ma per suor Grazia Loparco la presenza delle religiose nella guerra fu «un’esperienza concreta della carità di donne che si sono chinate sulle povertà, sulle debo-lezze e sulle infermità di persone bisognose di aiuto». �

6 Claudio Sartori, La mamma di San Vittore. Memorie di Madre Enrichetta Maria Alfieri,

La Scuola, Brescia 1952, p. 32. 7 Archivio Storico Diocesano, Fondo Giovanni Barbareschi, cartella “Suore della Ripara-

zione”.

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Storia

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Agostino Gemelli:

il rettore e il Regime SERGIO APRUZZESE

el controverso ambito tematico della cultura cattolica italiana della prima metà del Novecento, il libro di Maria Bocci Agostino Gemelli

rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Morcelliana, Brescia 2003 si rivela uno strumento assai interessante per l’approfondimento critico di una delle figure-cardine del panorama intellettuale italiano, quale fu in-dubbiamente padre Agostino Gemelli.

Il profondo scavo archivistico (nell’Archivio Centrale dello Stato, nell’Archivio Storico Diocesano di Milano, nell’Archivio di Stato di Mila-no, nell’Archivio Storico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, nel Fon-do Gemelli, nella Biblioteca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore), con-giunto a una minuziosa indagine sulle fonti edite e a stampa relative alla figura del frate francescano, all’ambiente variegato dell’Università Cattolica e al più ampio contesto storico-politico dello Stato fascista consente al pubblico dei lettori di venire a conoscenza di atteggiamenti e pieghe nascoste dell’operato storico gemelliano fino ad oggi celate dalla storiografia tematica, a partire da un criterio orientativo che l’autrice chiarisce immediatamente nelle pagine introduttive. Scrive la Bocci:

«Ripensare ad Agostino Gemelli … significa allora, probabilmente, non soffermarsi sulla soglia delle sue “colpe” fasciste, ma anzitutto interrogarsi sul significato reale del suo progetto, un progetto certamente condizionato dalla temperie dittatoriale, ma dotato pure di una portata scientifica che non è del tutto assimilabile al regime fasci-sta» (p. 13).

Da tale prospettiva, incline a una forte rivendicazione di uno spazio di

autonomia all’interno del quale si sarebbe sempre mosso il rettore della Cat-tolica nonostante i molteplici condizionamenti del governo delle Camicie

N

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Nere, si sviluppa la struttura poderosa dell’opera, suddivisa in cinque parti. Nella prima si cerca di smontare l’accusa di un Gemelli «naturaliter fasci-sta», subalterno alle direttive autoritarie del Regime, legato a esso da rela-zioni pericolose. Nella seconda parte si tracciano le preoccupazioni fasciste per la presenza scomoda dell’Ateneo di piazza Sant’Ambrogio, ritrovo di rinnovati fermenti democratico-cristiani antagonisti rispetto alle organizza-zioni statali. Nella terza sezione, strettamente vincolata alla precedente, si approfondisce il nodo della ostilità del piano di «riconquista cattolica» della società promosso da Gemelli e da Francesco Olgiati, in particolare dopo la stipulazione del Concordato, nel rapporto complesso con Giovanni Gentile e il suo idealismo assoluto; e insieme a ciò si delinea il vitale dialogo con la Santa Sede, detentrice ultima delle sorti dell’Università Cattolica, perenne-mente in bilico fra libertà e minaccia fascista. Nella quarta parte si dà spazio alle accuse «più infamanti» rivolte dagli avversari di ogni tempo alla figura di Gemelli, ovvero di essere un delatore e quindi un nemico irriducibile del-l’antifascismo (il caso trattato è quello degli studenti filocomunisti della Cattolica Giuseppe Boretti e Eugenio Giovanardi, mandati al confino a Pon-za nel 1932) e di aver assunto atteggiamenti apertamente antisemiti (l’esempio più noto è il discorso bolognese del 1939). Nell’ultima parte in-fine si prende in esame il Gemelli protagonista della Resistenza e fautore nel suo ambiente culturale di una nuova classe dirigente cattolica (il cosiddetto gruppo dei «professorini»), colonna portante di una Italia che si scopre, do-po le sofferenze del passato, democratica e cristianamente ispirata.

Di speciale interesse sono due passaggi del libro. Il primo è inerente al-la individuazione della Cattolica come «covo democrista». Qui la Bocci fonda tutta la sua interpretazione sulla veridicità del giudizio espresso dagli informatori della polizia fascista che vedeva in Gemelli e nella sua “creatu-ra” il prototipo di un fascismo debole, strumentale, opportunistico (lauree ad honorem al gerarca più conveniente del momento), piuttosto che un paladino convinto della causa rivoluzionaria mussoliniana, fino ad arrivare a palesare l’esistenza di una sorta di «altro Regime», radicato nel tessuto sociale e mi-rante alla costruzione di una diversa civiltà cristiana. Sostiene allora l’autrice che

«l’Università del Sacro Cuore … continuava ad essere guardata come “covo” in cui allignavano e si sviluppavano orientamenti politici e sociali che risentivano almeno alla lontana della prospettiva sturziana e che … non coincidevano in tutto e per tutto con quelli del regime. Se a queste “colpe” di Gemelli si aggiunge l’influenza che e-gli sapeva esercitare all’interno del mondo cattolico italiano e di quell’associazioni-

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smo giovanile che stava tanto a cuore al regime, si arrivano a comprendere più age-volmente le ragioni della campagna alimentata a diversi livelli del sistema fascista contro quella specie di rifugio, ufficialmente insospettabile ma nei fatti sospettato, che la Cattolica sembrava essere a favore di uomini e di convinzioni politiche non proprio in linea col fascismo» (p. 122).

In merito all’intervento gemelliano del 9 gennaio 1939, a Bologna, sul-

la scottante questione ebraica (si è così giunti al secondo passaggio) la Bocci così giustifica le parole del rettore sulla legittimità della esclusione degli e-brei «per il loro sangue e per la loro religione» da «questa magnifica Patria»:

«Si può osservare che le espressioni del rettore non trasudavano l’odio antisemita tipico dei più convinti assertori delle leggi razziste, facendo invece risaltare quella drammaticità delle vicende ebraiche che la consuetudine cattolica per lunghi secoli aveva segnalato … Il rettore infatti si prestava a una vera e propria concessione, di per se stessa pericolosissima, alle insistenze politiche cui era stato sottoposto, seb-bene evitasse di assumere i toni dell’interlocutore di Cremona [il riferimento è al ras Roberto Farinacci, n.d.r.] e collegasse la “tragica” situazione degli ebrei, non a una presunta e insostenibile inferiorità razziale, bensì alle conseguenze di un atto che Gemelli condannava dal punto di vista religioso» (p. 505).

Gemelli perseguitato?

In merito a questi due snodi tematici centrali del libro, sono doverosi

due note di commento estensibili a tutta l’opera. L’autrice, sulla scia di quanto già asserito da Giorgio Rumi1, fa rientrare il progetto della Cattolica in una dimensione democratica e pluralistica aliena sia all’origine che nei tempi successivi da esplicite tentazioni autoritarie e confessionali. Eppure lo stesso ricercato e non negato collegamento con Pio XI e il suo magistero sembra incrinare questo indirizzo “liberale”, laddove papa Ratti nella sua prima enciclica, la Ubi Arcano del dicembre 1922, esprime giudizi assai pe-santi sulla forza e vitalità positiva degli istituti rappresentativi, cui preferisce un aperto disegno ierocratico, di matrice neomedievalistica. L’autonomia tanto agognata da Gemelli e tanto difesa dalla Bocci appare dunque quanto-

1 G. Rumi, Padre Gemelli e l’Università Cattolica tra storia e storiografia, in

L’Università Cattolica a 75 anni dalla fondazione. Riflessioni sul passato e prospetti-

ve per il futuro. Atti del 65° corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattoli-

ca, Milano 30 gennaio-1° febbraio 1997, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 49-58.

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meno velata dal forte influsso pontificio sulla educazione della gioventù cat-tolica.

Non solo. Anche il rapporto col Regime tratteggiato dalla storica mila-nese non è del tutto persuasivo, soprattutto quando lascia molto forse troppo spazio ai pareri della polizia o della stampa fascista, ai loro sospetti, dal momento che in un ambiente avvolto dalle spire del totalitarismo non è così sorprendente che personaggi del calibro di Gemelli possano essere “presi di mira” dal Ministero dell’Interno, intento ad annientare ogni pur minimo mo-vimento di critica o di differenziazione etico-politica. E allora presentare Gemelli come un “perseguitato” del Regime (almeno questa è la sensazione che emerge dall’opera) si rivela discutibile al pari dell’utilizzo di termini quali «scatti istintivi e poco meditati» e «concessioni» per motivare la conti-guità con gerarchi fascisti o con le loro scelte politiche. La realtà era molto più complessa, non riconducibile a una semplice opzione opportunistica o tattica da parte di Gemelli, che nel 1939, come ricorda Mimmo Franzinelli nella sua antologia sul clero del duce, a un passo dalla guerra e nel cuore dell’applicazione delle leggi razziali, scriveva a Mussolini «i giovani che escono dal nostro ateneo fanno onore all’Italia e al fascismo, come lo prova soprattutto lo spirito fascista che li anima nel seguire le Vostre direttive»2. Come pure la firma del Concordato non fu tanto causa di conflitto e preoc-cupazione col governo fascista, ma la base istituzionale su cui edificare il “regno di Cristo” secondo gli insegnamenti rattiani3.

Infine, riguardo alla spinosissima vicenda dell’antisemitismo, le ragioni addotte dalla Bocci per “spiegare” il discorso di Bologna come anche altri episodi sono assai fragili. Gemelli certo non fu un persecutore di ebrei, ma nello stesso tempo le sue parole esplicitavano sia un uso gravemente stru-mentale della drammatica questione ebraica, presa come una sorta di para-fulmine al fine di proteggere gli interessi del suo Ateneo, sia un radicato pregiudizio antiebraico di origine cattolica, che ha agevolato di fatto il pro-

2 Citato in M. Franzinelli, Il clero del duce, il duce del clero. Il consenso ecclesiastico

nelle lettere a Mussolini (1922-1945), La Fiaccola, Ragusa 1998, p. 179. 3 Cfr. L. Mangoni, L’Università cattolica del Sacro Cuore. Una risposta della cultura

cattolica alla laicizzazione dell’insegnamento superiore, in La Chiesa e il potere poli-tico, a cura di G. Chittolini e G. Miccoli (Storia d’Italia. Annali, 9), Einaudi, Torino 1986, pp. 977ss.

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cesso di isolamento e di condanna del popolo di Israele agli occhi sprovve-duti di buona parte della comunità civile italiana4.

In conclusione si può affermare che il libro della Bocci è un prezioso contributo e una sollecitazione imponente a rileggere la figura di Gemelli alla luce del vasto materiale documentario ancora inedito conservato negli archivi milanesi (e non solo) del cattolicesimo italiano legato al frate france-scano; insieme, è un tentativo riuscito di fornire un quadro vario, articolato e multiforme di un periodo storico, quello del ventennio fascista, che lungi dal poter essere considerato un blocco monolitico di oppressione burocratica e politica, ancora molto può dare alla scienza storiografica. Il proposito invece di ricercare il “vero” Gemelli nei meandri dell’Italia “in camicia nera” non pare realizzarsi, a causa dell’unilateralismo critico che pervade l’intera ope-ra e che schiaccia la prospettiva dell’autrice sugli atteggiamenti di Gemelli e soprattutto sulle sue possibili giustificazioni, le quali, marginalizzando so-vente una corretta visione generale del contesto storico e della sua intrinseca complessità, rischiano di essere storiograficamente poco attendibili. �

4 Si vedano le fondamentali riflessioni di Renato Moro contenute nel suo saggio

L’atteggiamento dei cattolici tra teologia e politica, in Stato nazionale ed emancipa-zione ebraica, atti del convegno “Stato nazionale, società civile e minoranze religiose: l’emancipazione degli ebrei in Francia, Germania e Italia tra rigenerazione morale e intolleranza”, a cura di F. Sofia e M. Toscano, Bonacci, Roma 1992, pp. 305-350.

Fede

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The Morning Watch

e l’esperienza religiosa EUGEN GALASSO

o stile di James Agee è breve, secco, “nervoso”, paratattico in tutte le sue opere, da quelle biografiche a quelle narrative alle pièces teatrali

(Chi ha paura di Virginia Woolf): caratteristiche, queste, che si ritrovano in The Morning Watch (La veglia all’alba, Mondadori, Milano 1966). Uno sti-le particolarmente adatto a veicolare il dramma esistenziale di un dodicenne che vive l’esperienza della Settimana Santa, tra il giovedì e il venerdì santo (il titolo non è certo casuale), con tutti i sensi di colpa allora indotti da una formazione catechistica penalizzante e mortificante (uso gli aggettivi non in accezione negativa, ma meramente descrittiva).

Il protagonista, Richard, è diviso tra la volontà di auto-punirsi, di mor-tificare in maniera sufficiente carne e spirito, in modo coerente con quanto successe a Gesù (almeno secondo l’interpretazione che gli viene impartita dai padri con cui è confrontato) e le prime tentazioni della carne (pur se in forma larvata). Si dirà che era il cattolicesimo post-tridentino e post-Vaticano I, quello dell’eroismo che si automortificava; che ci si muoveva in un’ottica pre-Concilio Vaticano II, di sostanziale opposizione al mondo, di chiusura ad esso; che la realtà cattolica statunitense è arroccata rispetto a tut-te le altre chiese cristiane evangeliche (lo è tuttora, come ribadiva, seppure in altri termini, Enzo Bianchi). Tutto vero, verificabile, dimostrabile da vari punti di vista. Ma, senza inutili nostalgie (una condizione quale quella di Ri-chard in The Morning Watch tende alla psicopatologia, e sicuramente non sarebbe augurabile un ritorno ad essa), alcune osservazioni s’impongono.

Nonostante le tesi importanti e in gran parte condivisibili di Arnaldo Nesti e di altri sociologi (della religione e non) che sostengono non essersi attuata una secolarizzazione totale, è incontestabile che essa si manifesti, seppure parzialmente, in fenomeni quali:

L

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1) la riduzione del Natale, della Pasqua, dell’Epifania a festività tout court in cui non si lavora, non si studia, ci si diverte, senza ricordarsi neppu-re vagamente della loro origine/del loro significato. Rimane solo la dimen-sione orgiastica (non “dionisiaca”!) della festa, lo “spirito del Natale” e delle altre feste (non più “comandate”, questo è un aspetto positivo, ma neppure “sentite”, e ciò è invece preoccupante);

2) il ricordo della Passione, della Settimana Santa, praticamente non e-siste più. Provate a chiedere “che giorno è oggi?”e vi sentirete rispondere al massimo “giovedì/venerdì/sabato prima di Pasqua”, quasi che il riferimento al giovedì, al venerdì, al sabato santo o “di Passione” suoni come una forma di bigottismo;

3) in qualche località italiana o spagnola sopravvive qualche Via Cru-cis, ma diventa quasi unicamente (poche le eccezioni) una meta d’attrazione per turisti in cerca del “fatto curioso”, della “sopravvivenza”, del “resto”. Personalmente ho sperimentato qualcosa di simile due anni fa a Chiaravalle (Ancona);

4) i mass-media sono diventati i più laicisti e secolarizzati tra gli stru-menti di comunicazione. Una cesura più netta tra la “Settimana di passione” d’epoca ante-”modernizzazione” (fino agli anni Settanta) e l’oggi non sa-rebbe immaginabile, in specie in Italia. Dapprima solo Stabat Mater, “Pas-sioni”, musica sinfonica, quasi solamente sacra; ora uno stile “svaccato”, falsamente giovanilistico, seduttivo. Il Natale è fatto di canzoni natalizie a mo’di puro jingle, solo quale richiamo pubblicitario.

Ecco dove e perché è possibile rimpiangere (con tutte le cautele del ca-so, senza alcuna idealizzazione) The Morning Watch, le sue spie linguistiche e la sua produzione di senso. Una religiosità nettamente pre-conciliare, quel-la espressa nel romanzo, che d’altronde fu scritto in quell’epoca (l’autore morì nel 1955, a soli 45 anni d’età): con essa “agonicamente” (nel senso e-timologico del lemma) Agee si confrontava. Una religiosità per molti versi “dura” (anche in accezioni lontane da un vero cristianesimo) ma comunque orientata al rispetto del “tempo sacro”, dell’evento chiave della soteriologia. Pasqua quindi come alternativa “eccessiva” (senz’altro, se consideriamo la deriva prima accennata) ma pur sempre “altra” rispetto a un riduzionismo banalmente irreligioso e “laicista” a tutti i costi.

Se il mio intervento sarà tacciato di “nostalgismo” o simili, ci sto, ac-cetto la critica, rivendicando ulteriormente questa posizione. Preciso che non soffro minimamente di alcun rigurgito anti- o pre-conciliare (anche per mo-tivi anagrafici), che non ho mai avuto alcuna simpatia per posizioni lefe-

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bvriane e neo-tradizionaliste (anzi, le ritengo derive assolutamente dannose rispetto allo spirito conciliare, e sono nate tra l’altro da totale ignoranza dei documenti conciliari stessi), ma c’è una bella differenza tra tutto ciò e la semplice rivendicazione di una “festa” sbracata e gridata, che non sa nean-che più far gustare il tempo della festa (che è altro dallo “sballo”, a Dio pia-cendo!), rispetto al tempo della Passione.

Non vorrei che si fraintendessero queste affermazioni: il rispetto del tempo della Passione non ha a che fare “umanamente” con la comprensione e il superamento delle difficoltà della vita. Sarebbe puro e banale riduzioni-smo psicologistico-educativo, pur se non del tutto inutile né banale. Ma non è ciò che ritengo fondamentale. No, la chiave è invece nella grandezza dell’Evento soteriologico, nella sua irripetibilità e unicità, che però dovrebbe essere, se non un’ammonizione (il lemma può avere o almeno assumere connotazioni minacciose), un esempio, appunto, unico.

Nella sua narrazione altalenante e avvincente (pur se prevale la chiave problematica), Agee ci ridà, con un autobiografismo universalizzato, un “al-tro”, la sua crisi feconda, poi passata per tante “simpatie” ideologiche e an-che “politiche” (sempre all’americana, però, anche perché l’autore vive in un’epoca ferocemente maccartista), al termine delle quali Agee era arrivato a definirsi unchained anarchist, “anarchico senza catene”, cioè privo di an-coraggi politici determinati. Nulla, dunque, di fisso e di rigido, pur se entro i parametri socio-culturali cui s’è accennato. E in questo libro c’è l’esperienza determinante del mysterium tremendum et fascinans di Rudolf Otto.

Chissà che una forma nuova (eppure anche “antica”) di esercizi spiri-tuali non possa consistere nella lettura critico-partecipativa, chiaramente dia-logante e di continua discussione e messa in discussione, di un testo come questo? Tra l’altro, anche proprio a livello formale, il libro presenta tutte le caratteristiche di un testo dialogato e dialogante (con il lettore, ovvio), quin-di adatto a un meccanismo non da semplice lectio ma da altercatio. Scritto non per la scena, ma per la lettura, si presterebbe però a una lettura interpre-tativa, che consentirebbe quanto s’è detto. �

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Gli ultimi giorni del Margine

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Escatologia (disperata)

per tutti Riflessioni a partire da

La Macchina del tempo di H.G. Wells EMANUELE CURZEL

Iniziamo con questo contributo una riflessione su temi escatologici, come

esposto nell’articolo introduttivo pubblicato sul n. 2/2009.

na serata tra amici in una casa signorile dell’Inghilterra vittoriana: uno scenario tutt’altro che inconsueto, un vero “luogo comune” per la cul-

tura della seconda metà del XIX secolo. In questo ambiente un singolare personaggio – del quale non viene detto mai il nome: egli è solo “Il Viaggia-tore” – espone una sua teoria, secondo la quale viaggiare nel tempo è possi-bile. Mostra poi una strana macchina, «una struttura metallica lucente, poco più grande di un piccolo orologio a pendolo, fatto con molta accuratezza: era in parte d’avorio, in parte di cristallo trasparente» (I)1 e spiega agli astanti (alcuni sono chiamati per nome, ma c’è anche un Medico, uno Psicologo, un Uomo molto giovane, un Giornalista…), in una sala illuminata da una doz-zina di candele (!), che essa è in grado per l’appunto di viaggiare nel tempo, la quarta dimensione della realtà: e infatti si smaterializza, diretta verso il futuro. Il narratore – anch’egli anonimo – racconta poi come sia stata loro mostrata una macchina più grande («alcune parti erano di nichelio, altre d’avorio, altre ancora erano state certamente segate o limate nel cristallo di rocca»), che il Viaggiatore intendeva usare per spostarsi egli stesso nel tem-po.

Una settimana dopo il gruppo viene riconvocato. Il Viaggiatore giunge all’appuntamento in ritardo e in condizioni pietose, sporco, stracciato e sof-

1 Cito dall’edizione de La macchina del tempo curata da F. Ferrara e tradotta da P. Cara-

belli, Mursia, Milano 1996; i numeri romani tra parentesi si riferiscono ai capitoli.

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ferente. Dopo essersi ripreso, si ripropone di raccontare quanto era accaduto nel suo viaggio. «Quasi tutto vi sembrerà menzogna. Non importa! È verità, ogni parola è vera, qualunque cosa pensiate. Ero nel mio laboratorio alle quattro e da quel momento ho vissuto otto giorni, dei giorni che nessun uo-mo ha vissuto prima d’ora» (II).

Il Viaggiatore era andato in avanti nel tempo di ottocentomila anni, fermandosi su un prato, sotto la pioggia, accanto ad un monumento simile a una sfinge alata scolpita nel marmo bianco: «era molto rovinata dalle intem-perie e dava una disgustosa sensazione di malattia» (III). Era stato avvicina-to da un individuo: «era esile, alto circa un metro e venti, vestiva una tunica di porpora stretta in vita», una «creatura bellissima, aggraziata, ma incredi-bilmente fragile… il suo viso roseo, ricordava la bellezza dei tubercolotici». Il Viaggiatore aveva imparato poco alla volta a conoscere il mondo degli Eloi, dalla lingua «armoniosa e dolce», connotati da «una delicata gentilez-za, una certa naturalezza infantile» (IV), «al livello mentale di un bambino di cinque anni». Essi erano felici delle loro danze, dei loro canti, del racco-gliere fiori, «passavano il tempo in divertimenti gentili, bagnandosi nel fiu-me, amoreggiando in maniera semischerzosa, mangiando frutta e dormen-do» (VII), immersi in una natura che – comprende il Viaggiatore – aveva perso tutta la sua connotazione minacciosa, privata com’era (o come sem-brava) di predatori, animali pericolosi, malattie.

Gli Eloi, uomini del futuro, vivevano in comune, in grandi edifici de-cadenti, che sembra non avessero costruito: nell’anno 802.701 l’umanità vi-veva dunque in un «decadente splendore» (V). «Tutta la Terra era diventata un giardino», «tutto il mondo diventerà intelligente, istruito e cooperante»; è insomma l’«ultima grande pace», dove nessuno possiede nulla in privato, è ignoto l’uso del fuoco, non esiste il linguaggio astratto, nessuno conosce la scrittura.

Questo (peraltro agghiacciante) panorama non dice però tutto: sulla Terra dell’anno ottocentomila esisteva anche qualcos’altro, che si nasconde-va nei numerosi pozzi che dal livello terreno sprofondavano nelle viscere della Terra. La curiosità del Viaggiatore (oltre che la necessità di ritrovare la macchina che gli è stata misteriosamente sottratta) lo porta a penetrare in uno di questi pozzi, dove incontra l’altro esito dell’umanità: i Morlocchi, creature «di un color bianco sporco … Aveva dei grandi occhi strani d’un grigio rossastro e una lunga capigliatura bionda che le ricadeva sulle spalle e sulla schiena» (VII); «pareva un ragno umano». Dunque «non vi era più un’unica specie umana, ma si era differenziata in due tipi distinti»: oltre alle

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«graziose creature del mondo in superficie» vi era quel «repellente, scolorito essere notturno». I Morlocchi facevano «tutto il lavoro necessario al benes-sere della razza che viveva in superficie», per poi divorarla. Il Viaggiatore lo scopre con raccapriccio, e conclude che questa sia l’ultima conseguenza del-la differenziazione,che egli già conosceva nel suo tempo, tra classi agiate rimaste oziose in superficie e proletari costretti al lavoro sottoterra.

Il protagonista aveva anche visitato un «palazzo di porcellana verde», un grande museo che aveva ospitato tutto il sapere umano e che ormai era ridotto in rovina: la sua biblioteca, in particolare, era una «triste distesa de-solata di carta marcita» (X). Riflette infine tristemente: «com’era stato breve il sogno dell’intelletto umano … Con tenacia si era avviato verso il benesse-re e le comodità, verso una società equilibrata, le cui parole d’ordine erano “sicurezza” e “stabilità”; aveva realizzato le sue speranze per poi arrivare a questo» (XII).

L’ultima spiaggia

Recuperata avventurosamente la macchina, il Viaggiatore va ancora ol-

tre, e osa una distanza maggiore. Si trova su una spiaggia desolata, accanto ad un mare che rifrange le sue lente onde su una spessa crosta di sale. La Terra ha ruotato sul suo asse e rivolge al Sole sempre la stessa faccia. Nell’aria rarefatta si muove un’immensa farfalla bianca, e «una mostruosa creatura che assomigliava ad un granchio» tenta di aggredirlo (XIII). Per sfuggire a quest’ultima si spinge fino a trenta milioni di anni nel futuro.

«La spiaggia rossastra … sembrava senza vita ed era ora ricoperta di un leggero strato bianco; sentii un freddo intenso; rari fiocchi bianchi cadevano di tanto in tan-to, turbinando … Le rive del mare erano bordate di ghiaccio, ed enormi massi di ghiaccio galleggiavano più lontano, ma quasi tutta la distesa dell’oceano salato, co-lor sangue sotto l’eterno tramonto, non era ancora gelata».

«Il mondo era avvolto nel silenzio. Nel silenzio? Sarebbe difficile de-

scrivervi quella calma». Ultima forma di vita, «una cosa rotonda della gros-sezza di un pallone da foot-ball forse, o anche di più, dalla quale uscivano dei tentacoli; sembrava nera di fronte al color rosso sangue dell’acqua e sal-tellava qua e là a balzi irregolari» (XIII). Il Viaggiatore, a quel punto, intra-prende il viaggio di ritorno. Tra coloro che ascoltano il suo racconto, molti

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sono scettici: unica prova concreta che egli può portare sono gli strani fiori che una ragazza degli Eloi gli aveva donato.

Il giorno successivo il narratore si reca nuovamente a casa del Viaggia-tore: ma egli è partito. «Scomparve tre anni fa, come tutti sanno, e non è an-cora tornato» (XIV). Non gli resta che una malinconica osservazione: il Viaggiatore «pensava solo con tristezza al progresso dell’umanità e non ve-deva nella crescente ricchezza della civiltà che un assurdo accumulare inevi-tabilmente destinato, alla fine, a ricadere sui suoi creatori e a distruggerli. Se è così, non ci resta che vivere come se così non fosse» (epilogo). Unica pic-cola consolazione quei fiori bianchi che vengono dal futuro e che testimo-niano un affetto che continuerà ad esistere nel cuore dell’uomo «anche quando l’intelligenza e la forza saranno scomparse».

Herbert George Wells aveva frequentato la Scuola Normale di Scienze

a Londra, ed era stato alunno di un famoso biologo, Thomas Henry Huxley (nonno dell’Huxley autore di Brave New World), grande sostenitore dell’evoluzionismo darwiniano. Quest’ultima dottrina scientifica divenne una delle sue principali fonti di ispirazione, e favorì in generale l’attitudine del giovane scrittore ad andare oltre le convenzioni sociali, le prassi politi-che, le convinzioni psicologiche. Wells non tardò anche a coglierne anche le implicazioni più estreme: un esempio di ciò lo si trova per l’appunto in The Time Machine, scritto nel 1895.

L’importanza del racconto (poco più di cento pagine) è ben nota dal punto di vista storico-letterario: Wells è anzi considerato l’inventore del te-ma del viaggio nel tempo non più in un sogno, in una visione o grazie all’intervento di una qualche divinità, ma in forza di una macchina. Ho ini-ziato questa comunicazione riassumendo La Macchina del tempo perché a mio parere tematizza, in modo efficace e radicale, alcune delle domande che siamo costretti a farci da alcune generazioni a questa parte, domande che portano con sé la necessità anche di un ripensamento radicale del modo di vivere una fede adulta nel nostro mondo.

Sfondamenti

Credo che la “rivoluzione scientifica” portata a termine tra XIX e XX

secolo non sia stata ancora del tutto compresa, né probabilmente può esserlo facilmente nelle sue reali dimensioni.

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* Abbiamo assistito allo sfondamento del tempo. Se trasferiamo la scala cosmica su misure che ci sono meno aliene, e poniamo il big bang all’inizio della lettura di questo articolo (poniamo: quindici minuti fa), scopriamo che la Terra esiste da cinque minuti, i vertebrati da trenta secondi, i dinosauri si sono estinti da quattro secondi, l’uomo esiste da qualche centesimo di se-condo e la distanza che ci separa dalla prima venuta di Cristo si misura in decimillesimi di secondo. Di fronte a noi abbiamo ancora qualche minuto prima della morte del Sole, mentre l’orizzonte di completo spegnimento del-le stelle è attualmente valutato in un tempo equivalente a due mesi e mezzo (tempi ancora più lunghi, ma già calcolati, prevedono quindi il decadere del-le onde gravitazionali, poi del protone e infine il trasformarsi della materia in un “liquido” dalla temperatura prossima allo zero assoluto)2. Wells si era limitato a descrivere un pianeta desolato, per metà incenerito e per metà congelato, in cui la vita è degenerata ed è prossima alla scomparsa: una pro-spettiva persino meno radicale.

* Abbiamo assistito allo sfondamento dello spazio. Anche qui trasfe-riamo le scale cosmiche a dimensioni più comprensibili, o almeno provia-moci. Se la sfera terrestre – che pure ha dimensioni che superano l’esperienza quotidiana! – avesse un diametro pari ad un millimetro (la lette-ra “o” che state leggendo), la Luna sarebbe un puntino a tre centimetri, il Sole una palla da tennis a 11 metri, l’orbita di Plutone starebbe a cinquecen-to metri da qui, la stella più vicina a 3.000 (tremila) km. La Via Lattea, in proporzione, avrebbe un diametro pari alla metà della distanza che separa la Terra dal Sole: per valutare le dimensioni del resto dell’universo dovremmo aggiungere a questa cifra cinque zeri in più3.

* Ma c’è stato anche lo sfondamento della quantità. Se paragoniamo una stella ad un carattere tipografico, scopriamo che il numero di stelle pre-senti nella nostra galassia è pari ai caratteri tipografici che stanno in una grande biblioteca fatta di centinaia di migliaia di volumi; e vi sono proba-

2 Sono consapevole del fatto che gli scienziati stessi sono costantemente alla ricerca di

nuovi modelli interpretativi, e che quindi quanto vado rozzamente sunteggiando po-trebbe venire in seguito modificato da nuove teorie; però ricordo che qui stiamo con-frontandoci “solo” con le “certezze” del nostro tempo. Ho inoltre l’impressione che nuove teorie, semmai, renderanno il quadro ancora più complesso e paradossale, non meno.

3 C’è stato, in verità, uno “sfondamento” anche verso l’enormemente piccolo, ma si tratta di una dimensione che abbiamo l’illusione di poter controllare, a differenza di ciò che è enormemente grande.

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bilmente più stelle nell’universo di quante siano mai state le lettere stampa-te sulla Terra (se non ci credete fate qualche moltiplicazione, si stima che esistano settantamila miliardi di miliardi di stelle, se per fare cifra tonda cal-coliamo venti miliardi di terrestri vissuti ognuno per un secolo negli ultimi cinquecento anni e in ogni unità-libro mettiamo un milione di caratteri fanno 3,5 milioni di libri a testa, cento libri a testa al giorno). Non è detto che at-torno ad ogni stella debbano orbitare dei pianeti (anche se è probabile che ciò accada), e non è certo detto che i pianeti adatti ad ospitare la vita debba-no essere frequentissimi, ma è con queste cifre che abbiamo a che fare4.

Probabilmente a questi “sfondamenti” bisognerebbe anche aggiungerne altri, a cominciare da quello che ha portato a superare le convinzioni “fissi-ste” per quanto riguarda la realtà vivente, per giungere (forse) alla consape-volezza del fatto di trovarci immersi in una continua e imprevedibile tra-sformazione (anche questa evidente a chi legge Wells, dove la divisione del-la specie umana tra Eloi e Morlocchi è spiegabile, ma non ha senso); credo però che per il momento queste note siano sufficienti.

Abbiamo dunque vissuto, o stiamo vivendo, la perdita del “fondo”, del-la base sulla quale da qualche millennio si appoggiavano o si appoggiano le nostre convinzioni politiche, culturali, etiche, religiose. L’uomo contempo-raneo ha scoperto, o sta scoprendo, di vivere in un universo che esorbita e travolge ogni antropocentrismo o geocentrismo. Cosa resta allora del “pic-colo mondo antico” biblico ed evangelico, che già ci sembra così lontano dall’esperienza quotidiana? Come si può ripensare la fede, e soprattutto vi-verla, in questo nuovo mondo, piccolo e breve se raffrontato alle dimensioni cosmiche? Cosa significano frasi come “secondo la loro specie”, “a imma-gine e somiglianza”, “pienezza dei tempi”, “secoli dei secoli”, “via, verità e vita”, “non prevarranno”, “ultimo giorno”? Qual è il rapporto, a livello di prassi, tra la lotta per la sopravvivenza, che sembra dare il tono all’evoluzione, e i criteri con cui saremo giudicati? Cosa voleva dirci il Ri-sorto con la promessa «ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20) e con il mandato «mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8)?

4 Traggo questi dati, come ormai spesso accade ai profani, da quanto è disponibile on-line,

a partire da wikipedia; le proporzioni sono però mie, se non vi convincono provate a rifarle.

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Niente panico?

Ci sono certamente in circolazione delle letture “tranquillizzanti” di

questa serie di sfondamenti5. Forse basta dire che la Creazione è più ampia di come la immaginavamo e che Dio è conseguentemente un Creatore anco-ra più grande; che la Terra che Egli dà all’uomo ha in realtà dimensioni uni-versali, tali da impegnarlo in un percorso di scoperta e amministrazione per il quale il tempo a disposizione non è poi così esorbitante; che basta togliere al termine “uomo” il legame con una determinata specie e mantenerlo aperto ad indicare qualunque forma di vita che raggiunga l’autocoscienza, la con-sapevolezza, l’intelligenza. Basta?

Fino a un certo punto. Non si può infatti negare che le dimensioni di cui abbiamo parlato diano le vertigini. Ma credo che ad inquietare sia so-prattutto la percezione che gli “sfondamenti” abbiano messo all’angolo, “ri-dotto” ad atto di fede, l’idea che l’Universo abbia un fine, un senso, una lo-gica (un logos che stia “in principio”). Nei secoli passati ci eravamo abbon-dantemente sforzati di “dimostrare” la possibilità di riconoscere nella Crea-zione l’orma del Creatore e dunque di riconoscere in essa l’esistenza di un fine (un fine buono, dato che la Creazione è cosa buona) ad essa preordina-to6. Oggi non è più così, e non solo perché non possiamo più negare gli a-spetti tragici insiti nella Creazione stessa.

Non è più così, soprattutto, perché lo sguardo scientifico, programmati-camente, rimuove qualunque “causa finale” dal suo orizzonte. Ciò che la Scienza ha conseguito, con successi quotidianamente verificabili, lo ha fatto a motivo di questa rimozione: attenendosi cioè all’indagine sulle cause effi-cienti e negando, nella sua visione delle cose, la possibilità stessa di com-prendere il fine della realtà. Si può ben dire che una Scienza fatta così ha una visione limitata, che non coglie l’essenziale: ma questa non è un’affermazione facile o scontata. Ogni giorno l’umanità del XXI secolo ripete infatti un “Ascolta Israele” (Dt 4: «i vostri occhi videro…») riferito non più alla liberazione dall’Egitto da parte di JHWH, ma alla liberazione dell’uomo (almeno provvisoria e parziale, ma terribilmente concreta!) dalla fame, dal freddo, dalla fatica: una liberazione che dobbiamo alla Scienza.

5 Autocitazione: Il cielo stellato (sopra di me), “Il Margine”, n. 7/1994, pp. 31-34. 6 Romani 1,20: «dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono

essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna po-tenza e divinità». Il passo è ripreso, ad esempio, dalla costituzione del Concilio Vati-cano I Dei Filius (cap. II).

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Una Scienza che, come detto, non conosce fine (al maschile), e che ci dice che l’universo è privo di una direzione che non sia quella del suo decadi-mento per entropia (niente happy end), o al più che esso è destinato ad una rigenerazione che cancellerà radicalmente la memoria di tutto ciò che è av-venuto in precedenza (niente resurrezione). Un’escatologia priva di sbocco, di speranza, ossia disperata. Come quella di Wells.

La fede può certo essere tale anche senza l’“evidenza”, vera o presunta, del finalismo antropocentrico, che a lungo è stata affermata; anzi, è possibile che essa venga purificata dall’assenza di questa evidenza. Ma è chiamata allora a un salto nel buio di proporzioni davvero “kierkegaardiane”, superio-ri a quanto si riteneva o si ritiene comunemente necessario. Ne siamo capa-ci? Ho l’impressione che di fatto oscilliamo tra un estremo costituito dalla modesta speranza in un futuro terreno semplicemente meno misero e ingiu-sto del presente, e un altro estremo consistente nel radicale rifiuto del con-fronto, quasi che l’esistenza materiale sia un’illusione alla quale Dio, prima o poi, ci sottrarrà. La prima posizione si scontra con l’evidenza che questo universo non prevede né happy end né resurrezione. La seconda, che ha cer-tamente un suo “fascino”, toglie però sensatezza ad una creazione in cui il settimo giorno appare, a questo punto, tanto lungo quanto inutile. Sono pos-sibili altre risposte?

«Giunsi persino a stropicciarmi gli occhi e a implorare Dio di farmi svegliare» (H.G. Wells, La Macchina del tempo, XI). �

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condo Marco, pp. 210, euro 14. Enrico Peyretti, Il diritto di non uccidere. Schegge di speranza, pp. 152, eu-

ro 14. Brunetto Salvarani, Odoardo Semellini, Terra in bocca. Gloria e sconfitta

dei Giganti, pp. 240, con allegato cd, euro 20.

Alberto Conci, Paolo Grigolli, Natalina Mosna (a cura di), Sedie vuote. Gli anni di piombo: dalla parte delle vittime, pp. 344 + 16 pp. a colori, eu-ro 17. In seguito al riaccendersi del dibattito sugli anni di piombo e sulla scia della

profonda impressione suscitata dal libro di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là, una trentina di giovani dei licei e dell’università di Trento ha avviato lo scorso anno un lungo e approfondito percorso di ricerca attraverso le vicende dolorose e complesse degli anni Settanta. Al centro di questo percorso, che ha impegnato i ra-gazzi tutte le domeniche per un anno intero, è stato posto l’incontro con i familiari delle vittime, con coloro che a causa della violenza hanno dovuto convivere con la presenza di una sedia vuota nella loro casa. Ne sono nati i dialoghi sinceri e potenti riproposti in questo libro, nei quali sono state toccate non solo le questioni più deli-cate e cruciali della storia recente della nostra democrazia, ma anche dimensioni fondamentali per la memoria collettiva, quali quelle del dolore, della verità, della giustizia, del perdono, del silenzio e delle parole, della violenza, della responsabilità, della solitudine, della solidarietà umana, delle condizioni per la costruzione di una cittadinanza attiva. Il percorso, nato attraverso un metodo di lavoro rigoroso, ha im-

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posto ai ragazzi un grande impegno di lettura e di approfondimento che traspare dal-la densità dei dialoghi e dalla pregnanza delle questioni in essi proposte. Nell’ordine, dialoghi con: Mario Calabresi, Benedetta Tobagi, Silvia Giralucci, Manlio Milani, Giovanni Ricci, Alfredo Bazoli, Agnese Moro, Giovanni Bachelet, Vittorio Bosio, Sabina Rossa. In questo modo si è voluto fossero presenti le testimonianze non solo dei familiari delle vittime del terrorismo, ma anche di coloro che sono stati colpiti dallo stragismo (Brescia e Bologna). A questi, va aggiunto il dialogo con Giancarlo Caselli, attraverso il quale si è inteso approfondire il ruolo della magistratura nel pe-riodo degli anni di piombo. Il testo rappresenta una testimonianza importante per la ricostruzione della storia recente, ma offre anche spunti di riflessione su un metodo di lavoro singolare, attraverso il quale i giovani sono stati protagonisti di un percorso di studio, della gestione dei dialoghi, e infine della paziente e meticolosa costruzione di questo libro. Federico Premi, Un’ombra inquieta. Il pensiero anarchico di Fabrizio De

André, pp. 260 + 8 pp. a colori, euro 16. Dieci anni dopo la morte del più grande autore della canzone italiana del Nove-

cento, si sa quasi tutto della sua vita, quasi tutto delle sue opere, ma è rimasto per buona parte inesplorato il tesoro originale del suo pensiero, della filosofia anarchica che l’ha guidato, fin da giovane, su sentieri “eretici” e “disobbedienti”, sempre “in direzione ostinata e contraria”. Questo libro affronta per la prima volta in modo or-ganico la concezione della vita e dell’arte di Fabrizio De André, il filo rosso dell’individualismo libertario che spiega le sue scelte artistiche ed esistenziali. Attra-verso l’analisi delle note a margine, spesso inedite, scritte sulle pagine dei suoi libri, conservati nell’archivio dell’università di Siena, di lettere e di interviste, si scoprono i legami profondi tra il suo pensare e i testi delle sue canzoni. Ne viene fuori un De André “filosofo anarchico”, robusto e coerente, non solo maestro di melodie e paro-le. Ecco i temi-cardine di questo originale percorso alla scoperta del Faber pensatore: individuo e normalizzazione, la borghesia come categoria dello spirito, il potere e la “costante resistenziale”, morte, solitudine e natura, l’anarchia dell’esistenza, follia e diversità, la figura dell’artista, bellezza e comunicazione, il De André “mosaicista”. «Sono un’ombra inquieta / dentro la tua ombra / dove mi è lento / trovare ancora asi-lo / dove trovo / lucide tracce di diamante / nella luna / dissennata di carbone» (dall’inedito “Un’ombra inquieta”).

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