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Alarico Bernardi. Racconti mainstream. Uomini non più in grado di vedere, ragazzi intrepidi sui sentieri del mondo, persone che non vogliono arrendersi. Racconti leggiadri, emozionanti e profondi. Un ragazzo in carcere, un vero duro, giorno per giorno instaura una bizzarra amicizia con un piccolo topo, trovandola l’unica vera compagnia in quella cella solitaria. Un uomo che sta per diventare cieco scopre in un pettirosso un amico e un sostegno inaspettato. Un vascello fantasma che porta con sé anime sperdute e spaventate. Una nevicata molto singolare… Racconti diversi, alcuni lunghi, altri più brevi, che trasportano il lettore attraverso immagini e mondi molto differenti tra loro. Una raccolta che Alarico Bernardi scrive con tocco delicato e poetico, celando nelle pieghe di esperienze, a volte improbabili, profonde riflessioni sull’animo umano e su qualità, come la fratellanza e il senso di condivisione, che ai nostri giorni sembrano affievolirsi piano piano.
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ALARICO BERNARDI
RACCONTI DAL BUIO
www.0111edizioni.com
2
www.0111edizioni.com
www.quellidized.it
www.facebook.com/groups/quellidized/
RACCONTI DAL BUIO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6307-681-3 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Febbraio 2014 Stampato da
Logo srl Borgoricco – Padova
Questo romanzo è opera di fantasia, ogni riferimento a fatti o perso-naggi viventi o realmente esistiti è da ritenersi puramente casuale.
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I DUE VOLTI DELLA DIVERSITÀ
L’Aquila, ventidue dicembre, ore sei del mattino.
Una vocina stridula canticchia un motivetto stonato, soffoca-
to dalla spessa coltre di neve caduta durante la notte.
I candidi fiocchi hanno cessato d’imbiancare il paesaggio
circostante per espresso volere del gelo. Esso, con fredda de-
terminazione, ha disposto la fine delle evoluzioni dei minu-
scoli funamboli divenute sempre più temerarie sotto il magi-
co tendone della notte.
Percorro le strade con prudenza, affondando in buoni dieci
centimetri di soffice panna montata, mentre la figura nera
del mio Dan si staglia sulla strada lattescente.
La tiritera mi precede, raggiungendo toni acuti, oserei dire
sgradevoli. Il giovane si esprime in un’altra lingua e, oltre a
essere insopportabile, la nenia risulta incomprensibile.
Il mio cane guida è leggermente agitato dal tamburellare del-
le nocche delle sue dita sui pali metallici dei lampioni.
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Ad un tratto, una finestra al primo piano s’illumina per poi
dischiudersi e una voce fioca esclama:
«Non vedi la neve? Non posso farti ripulire il cortile… oggi
la tua scopa è inutile, mi spiace.»
La saggina della granata fruscia tra i cristalli di ghiaccio, che
imperlano la superficie delle vetture in sosta, producendo un
tintinnio sgraziato. Subito dopo, il manico legnoso
dell’arnese rovina a terra con un rumore sordo, coperto da
un solo, impressionante singhiozzo.
Guadagnarsi da vivere è difficile, come riuscire a sentirsi
parte della società… lo so bene.
Tiro fuori dalla tasca una banconota e, senza soffermarmi a
stabilirne il valore, tendo la mano intirizzita verso il ragazzo.
«No, grazie. Non accetto elemosine!» mi viene detto con de-
cisione, mentre sento una stretta amichevole alla spalla sini-
stra. Allora ritiro il braccio e, salutando, proseguo per la mia
strada.
Il portone dello stabile che costeggio si apre e qualcuno invi-
ta lo straniero a rimuovere la massa ghiacciata con una pala.
Trascorre qualche secondo… La cantilena ricomincia, ma
adesso mi soffermo ad ascoltarla… è davvero gradevole.
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IL PETTIROSSO
L’alba d’un giorno d’agosto entrava nella mia stanza da let-
to, attraverso la finestra spalancata.
I primi, deboli raggi di sole si riflettevano sul vetro d’una
bottiglia vuota, rimasta sullo scrittoio.
La notte era passata e, con essa, gli spettri che l’avevano
sconvolta. I torbidi pensieri della sera precedente erano mi-
seramente annegati in una sconsiderata quantità d’alcool.
Una fastidiosa sensazione di nausea metteva sottosopra il
mio stomaco, costringendomi ad assumere una posizione fe-
tale.
Il turchino del cielo si faceva sempre più intenso, mentre un
vento leggero agitava i rami del pino piantato dal nonno di
mio padre in prossimità dell’angolo sinistro del giardino.
Il timido canto d’un pettirosso ondeggiava tra il muro di cin-
ta e la cima dell’albero, modulando irripetibili melodie.
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Ad un tratto il verso gioioso dell’uccellino cambiò tonalità,
divenendo simile a un’accorata, quanto flebile richiesta
d’aiuto. Un maldestro battito d’ali, un volo indeciso furono
le ultime immagini che riuscii a cogliere, prima che il petti-
rosso si rifugiasse tra i folti rami del pino.
Nella fatata atmosfera della natura, allora, iniziò un dialogo
tra il volatile e la conifera, che chiese: «Cosa ti succede, per-
ché hai smesso di cantare? Racconta! Forse posso aiutarti.
Mio cugino il cipresso sostiene che solo alla morte non c’é
rimedio! Se vuoi sfogarti... fallo. Ti farà bene.»
Il vecchio amico aveva creato le condizioni ideali perché il
pettirosso si aprisse a lui con estrema franchezza: «Niente...
un dolore sordo e improvviso alla zampina mi ha costretto a
fermarmi qui. Spero passi subito. Che sfortuna! Questa sera
avrei dovuto incontrare un’amica molto aff...»
Il pino lo interruppe: «Lasciati visitare da un medico, saprà
dirti con esattezza cosa fare.»
«Ne ho già consultato qualcuno e, a quanto pare, dovrò im-
parare a convivere con questo fastidioso dolore. La cosa non
mi piace, sai? Sono nel pieno della gioventù e affidarmi al
caso mi sembra una sorta di punizione immeritata, una for-
ma di degenerazione del corpo in un’età in cui dovrebbe da-
re il meglio. Forse se consultassi un altro ortopedico... chis-
sà.»
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Il pino annuì: «Sono d’accordo, ma si deve procedere in fret-
ta. Le cose non vanno mai trascinate alla lunga. La tua ami-
chetta dal rosso piumaggio aspetterà! Adesso devi guarire.
Boby ti accompagnerà. A dopo.»
Il cane da tartufi accorse prontamente al richiamo
dell’albero e, preso il leggero fardello sulla schiena, si dires-
se verso lo studio dello specialista, situato sul monte Sirente.
Il professor Gufo li attendeva. Aveva già inforcato un grosso
paio di occhiali gialli per darsi un tono ulteriore di profes-
sionalità. Aprì loro la porta e, con un certo sussiego, doman-
dò: «Chi di voi deve essere visitato? Se si tratta di lei…»
aggiunse rivolgendosi a Boby «…non posso aiutarla. La mia
specializzazione è sulle ossa cave, per l’appunto quelle degli
uccelli.»
Il pettirosso interloquì: «Sono io che soffro, mi duole la
zampina destra e non riesco a muoverla con la scioltezza di
sempre. Mi dia un’occhiata, so che lei affronta le cose con
competenza. Devo sapere se c’é un rimedio al mio proble-
ma.»
Il professore si avvicinò al malato, iniziando a piegare l’arto
con determinazione, poi si attardò a palpare con maestria,
finché rimase immobile, come se tentasse di raccogliere le
idee in un pensiero logico e comprensibile al pettirosso.
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Dopo qualche secondo, il professor Gufo spiegò flemmati-
camente: «Una semplice artroscopìa risolverà
l’inconveniente. Si tratta di una nuova tecnica chirurgica che
permette di ritornare in forma in poco tempo. Vorrei esegui-
re l’intervento tra quindici giorni.»
Il pettirosso lanciò uno sguardo in direzione di Boby, quasi
cercasse in lui il parere dell’amico pino. Il cane lo fissava
con dolcezza, lasciando trasparire dagli occhi grandi ed e-
spressivi un palese entusiasmo. «Va bene. Tra quindici gior-
ni sarò da lei. Arrivederci» esclamò l’uccellino, rincuorato
dalla sicurezza del luminare e dal lampo di approvazione
colto negli occhi di Boby.
Questi lo riprese in groppa riaccompagnandolo dal pino, poi,
salutati gli amici, tornò a casa dove trovò il padrone, preoc-
cupato per la sua incomprensibile scomparsa.
L’albero stette ad ascoltare attentamente il racconto del pic-
colo amico alato e, piegata la cima a un’improvvisa folata di
vento, commentò: «Ecco quello che ci vuole: fermezza. Il
professor Gufo ne ha da vendere e, in tutta sincerità, il suo
modo di fare infonde coraggio. Non ti resta che attendere.»
Tutto andò per il verso giusto. L’artroscopìa fu breve, quasi
indolore, la convalescenza trascorse senza troppi imprevisti
e la guarigione tanto attesa arrivò. Il pettirosso tornò a svo-
lazzare nei pressi di casa mia con il suo garrulo canto.
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Io, invece, avevo appreso che sarei divenuto cieco di lì a po-
co. Non avrei potuto più bearmi della bellezza dei paesaggi
che la natura ama proporre, né delle forme tornite di un cor-
po femminile. Avrei dovuto soltanto immaginare il viso di
mia moglie o quello dei miei figli. Rassegnarmi a vivere di
ricordi, cercando di richiamare le immagini conosciute alla
mente, sperando in una nitidezza duratura. Dipendere dagli
altri per qualsiasi motivo rappresentava uno dei tanti drammi
che si affacciavano all’orizzonte del mio triste futuro. Avevo
scoperto che l’alcool non aiutava e che il male che mi ruba-
va la vista era incurabile, lento, inesorabile. Perché, allora,
continuare a vivere? Mentre ero immerso in questi pensieri,
uscivo nel giardino e mi avvicinavo al pino, tenendo in ma-
no una corda lunga e robusta. Avevo deciso di porre fine alla
mia vita. Cercavo il ramo più forte che avesse la capacità di
sopportare il mio peso, quando il pettirosso mi si poggiò sul-
la spalla, iniziando a parlarmi: «Non farlo! So cosa vuol dire
sentirsi inutili, sopportati dagli altri, prigionieri d’una malat-
tia. Ho imparato, però, che c’è una soluzione a ogni proble-
ma. Mi rendo conto che il tuo è molto pesante da affrontare
e, per questo, mi vorrei proporre in veste di aiutante, che ne
pensi?
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Mi sostituirei ai tuoi occhi, rimanendo sulla tua spalla! Sono
abbastanza bravo nel descrivere le situazioni e le persone,
fidati.»
Credevo di sognare, ma il pettirosso aveva parlato veramen-
te, non ero ancora impazzito.
Il sortilegio di madre natura si era compiuto per l’ennesima
volta, tendendo una mano a chi non riusciva a individuare il
sentiero che gli era stato assegnato.
Rimasi a pensare, poi decisi che era giunto il momento di ri-
spondere: «Uccellino generoso, ti ringrazio. Non posso con-
dannarti a vivere in simbiosi con me. Non sopporterei che un
altro essere debba vivere con delle limitazioni che si è impo-
sto per rendere la mia sofferenza più o meno accettabile. Sa-
rebbe ingiusto.»
Ritornai sui miei passi, pronto a misurarmi con le sfide che
la cecità mi aveva riservato. Il sole, affacciatosi tra due nubi
di piombo, illuminò il sorriso fugace che stranamente mi
modellava le labbra.
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L’EUFORIA DEL NATALE
Tra qualche giorno è Natale. Ero sul punto di dimenticarlo.
Non avrei potuto, c’è sempre qualcosa o qualcuno che te lo
rammenta. L’abete, infiocchettato da vezzosità luminose o lo
sguardo estatico di un bimbo davanti alla vetrina di un nego-
zio di giocattoli. Dimenticavo… e la corsa ai regali?
La sacrosanta tradizione del dono a ogni costo, dove la met-
tiamo? Non si può certo abolire, che Natale sarebbe?
Per non parlare dei “trofei” acquistati all’ultimo minuto,
mentre la bancarella sta rimettendo le sue cianfrusaglie nel
furgoncino. Il vanto di essersene impossessati, la gloria in-
neggiata da chi ha fatto compere ordinarie e ora è galvaniz-
zato dall’abilità altrui, non avrebbero ragion d’essere se non
ci fosse la Festa delle feste.
Nelle chiese vedi donne ancora giovani, lontane dal fiore
della gioventù, che costruiscono presepi straordinari, impie-
gando tutto il loro tempo libero.
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Un tempo che avrebbero potuto trascorrere pensando alla so-
litudine che è stata regalata loro e che tentano vanamente di
riciclare. Le solitudini del Natale… Già… esistono
anch’esse. Sono nascoste da quelle che ti spingono a esibirti,
come un giocoliere improvvisato, nel tendone multicolore
del Circo di Babbo Natale. La povertà di una mangiatoia, la
semplicità di un bue e di un asinello, l’innocenza di un bam-
bino e la gioia dei suoi genitori sono scivolati
nell’indifferenza, abbagliati dalle luminarie, assordati dal
frastuono degli uomini contemporanei.
Ida è cieca, non può essere distratta dall’euforia del Natale,
non ha tempo per attendere la visita di qualcuno che non
verrà. La cercheranno soltanto quando il rito si sarà consu-
mato, quando le lacrime non serviranno più a simulare la-
ghetti di montagna nel contesto d’un presepe. L’euforia del
Natale, allora, farà in modo che i panni laceri del povero ve-
stano lo spaventapasseri, mentre il gioco più interessante e
costoso spiccherà tra le mani del bimbo malato.
Il Natale è anche questo: sognare un mondo migliore.
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LA BEFFA DELL’INDIFFERENZA
Una sera d’estate sedevo sugli scogli, mentre il tramonto in-
fuocato regalava alle onde marine colori indefiniti.
La sfera vermiglia del sole s’immergeva inesorabilmente
nelle acque tumultuose, insanguinando l’inerme battigia. Il
profumo intenso della salsedine saturava lentamente l’aria,
riversandosi sulla mia fronte, sulle mie guance barbute e sul-
la maglia di cotone bianco tirata fuori dal guardaroba poche
ore prima.
Volsi lo sguardo in alto, restando a fissare il grandioso balu-
ardo di nuvole di piombo che galleggiava nel cielo, trafitto
da una luce incolore.
A breve, la notte sarebbe piombata sulla scogliera, immer-
gendo ogni cosa in un silenzio incantato.
D’un tratto, una brezza incessante iniziò a spirare
dall’orizzonte. Proprio da quella direzione mi sembrò
d’intravedere una sagoma scura, sospinta dalla marea. Gab-
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biani impazziti volteggiavano intorno a essa, lanciando grida
strazianti che laceravano il cuore. L’insenatura alla mia de-
stra era deserta, pronta ad accogliere quell’ombra indistinta,
quell’oggetto misterioso che stentava ad approdare. Mi misi
in piedi, tentando di dare un nome alla figura che avanzava
verso la costa.
Un veliero senza timoniere sfiorava il pelo dell’acqua, la-
sciando dietro di sé una scia luminosa.
Il vento gonfiava le sue vele diafane, mentre il languido
chiarore della luna lambiva la tolda inondando un gruppo di
persone in attesa dello sbarco.
La baia si preparava a ospitare lo straordinario vascello,
mentre rifletteva, sul suo specchio incrinato, le scintillanti
sbavature delle stelle.
Pensai d’essere nel bel mezzo d’un sogno, d’un sortilegio,
d’una vera e propria allucinazione, ma il mormorio dei pas-
seggeri mi convinse del contrario. Mi trovavo a vivere
un’esperienza eccezionale, naufrago alla deriva del tempo e
dello spazio.
Dal mio osservatorio naturale, potevo scorgere alcuni parti-
colari difficilmente visibili da lontano. Scoprii, allora, che
alla guida del battello c’era qualcuno coperto da un saio, rea-
lizzato con lo stesso tessuto inconsistente delle vele. La gen-
te in coperta aveva un’espressione triste e terrorizzata, quasi
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fosse sfuggita a una catastrofe, a una calamità naturale. In
quello spazio di pochi metri quadri, sofferenza e mistero riu-
scivano a coesistere, trasmettendo impressioni dissonanti.
«Dove sono i soccorritori? Non vedo nessuno… Mia figlia
doveva essere a bordo, ma… non riesco a trovarla. Qualcuno
mi aiuti!» urlava una donna non più giovane, guardandosi
intorno, con lo sguardo perso nel nulla.
«Siamo stati costretti a evacuare le nostre case, senza alcun
preavviso, senza spiegazioni… Dicevano che si sarebbe ve-
rificata un’immane tragedia… non so cosa pensare» aggiun-
se un uomo sulla cinquantina, scuotendo il capo, quasi vo-
lesse scrollarsi di dosso l’ansia e l’umidità salmastra che gli
imperlava il viso.
«La cosa più importante è essere sfuggiti alla morte… A-
vremo presto delle notizie più precise. Non disperiamo!»
soggiunse un giovane pieno d’ottimismo, volgendosi verso i
marinai alle prese con le operazioni di sbarco.
La piccola folla cominciò a scendere dalla ”Fatua”, rima-
nendo assiepata sulla sabbia.
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Una volta che l’ultimo passeggero raggiunse i compagni,
l’equipaggio del natante s’affrettò a prendere il largo, nono-
stante la linea dell’orizzonte fosse divenuta ormai indistin-
guibile.
La ”Fatua”, veliero fantasma, insieme ai suoi oscuri marinai,
era scomparsa, quasi fosse stata inghiottita dal denso inchio-
stro nero della notte.
La dimensione irreale dalla quale era giunta la chiamava a
sé, facendole strada tra il grottesco e l’assurdo, consentendo-
le di valicare i confini della realtà.
Sulla spiaggia si aggiravano una cinquantina di superstiti
d’una disgrazia ancora tutta da definire, meravigliati
dall’imprevista partenza della nave.
I soccorsi tardavano a intervenire, consentendo al rumore
della risacca d’interporsi tra le convulse conversazioni tele-
foniche degli sfollati. Sembrava che tutti ignorassero quella
realtà che andava assumendo, con il passare del tempo, una
connotazione irrazionale.
I telefonini venivano riposti, a poco a poco, nelle rispettive
custodie e il panico iniziava a serpeggiare tra quelle persone
provate nel corpo e nello spirito.
Nel Paese dal quale erano stati allontanati, le novità erano
scarse, incomplete e le telecomunicazioni fortemente distur-
bate. Nulla trapelava sull’entità dell’evento disastroso pre-
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annunciato, mentre il Governo di Levitas taceva, come se
fosse all'oscuro dell’invio di quei profughi sulle coste meri-
dionali della Sicilia.
«Non riusciamo a capire cosa sia veramente accaduto, ma
questa è la pura verità… mi creda!» chiarì un vecchio dalla
lunga barba bianca, trattenendo le lacrime a fatica.
Mi fissava con uno sguardo febbricitante, tentando di fugare
ogni dubbio sulla sua posizione e su quella dei suoi compa-
gni di sventura.
Raggiungere quella gente era stato un gesto spontaneo, natu-
rale, un impulso proveniente dal profondo dell’animo, da
quella sensibilità che, spesso, mi aveva trascinato nel bel
mezzo di situazioni a dir poco complicate.
Gli occhi lucidi del vegliardo riuscivano a narrare impieto-
samente i timori, le preoccupazioni, gli affanni di cui erano
stati testimoni, riproponendoli in una sorta di cortometraggio
dai fotogrammi sfocati.
Nel frattempo, un vento di scirocco aveva iniziato a soffiare,
impregnando l’aria di minuscole gocce d’acqua simili a ru-
giada. L’umidità penetrava nelle ossa, lasciandoci in balia
della morsa d’un freddo innaturale. Volsi il capo in direzio-
ne d’una pineta che sovrastava gli scogli e un’idea mi balenò
nella mente, offuscata sino ad allora dall’emotività. Pregai
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alcuni ragazzi di seguirmi, raggiungendo in pochi minuti il
boschetto. Presi a staccare i rami più secchi dai tronchi delle
conifere, imitato prontamente dai volontari al mio seguito.
In poco tempo trasportammo una discreta quantità di legna
da ardere sulla spiaggia, accendendo un provvidenziale falò.
Le vivide lingue di fuoco squarciavano le tenebre, mentre
scintille aranciate si riverberavano nel cielo di pece. Gli a-
stanti si accovacciarono intorno al fuoco, tentando di coglie-
re, tra quelle braci ardenti, la rassicurante entità della spe-
ranza.
In quel momento, ricordai d’aver conosciuto, qualche mese
prima, uno dei funzionari del Centro d’Accoglienza per im-
migrati di Aviana, una cittadina a pochi chilometri dal luogo
in cui mi trovavo, e pensai di contattarlo. Mentre mi accin-
gevo a prendere il telefonino dalla tasca dei jeans, fui assali-
to da una giustificata esitazione. Mezzanotte era passata da
un pezzo e disturbare una persona nel cuore della notte mi
sembrava inopportuno. Non potevo, però, restare a guardare,
ad attendere che il fuoco si spegnesse, abbandonando quella
gente intirizzita al proprio destino. Digitai, tremando, il nu-
mero del mio conoscente e rimasi ad aspettare una sua rispo-
sta. Dopo alcuni secondi, una voce assonnata bofonchiò dei
monosillabi incomprensibili che presto si trasformarono in
parole di senso compiuto: «Pronto… con chi parlo? Spero
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che ci sia una valida ragione per avermi svegliato a
quest’ora!»
«La prego di accettare le mie scuse, ma mi sono venuto a
trovare casualmente in una situazione che credo la riguardi e
che dovrebbe essere risolta il prima possibile. Nella baia di
Tamurri sono sbarcati dei profughi, provenienti dallo Stato
di Levitas. Sono arrivati qui senza cibo, né acqua… Circa
cinquanta persone, compresi donne e bambini. Ci siamo co-
nosciuti in ben altre circostanze e non sapevo a chi rivol-
germi se non a lei… Da solo non saprei come rendermi uti-
le!»
«Capisco… Mi dia il tempo di organizzare gli aiuti necessari
e saremo lì. Ci attenda sulla Provinciale… sarà più facile in-
dividuarvi. Quando ci incontreremo mi ricorderà dove e co-
me ci siamo conosciuti. A presto e… grazie!» concluse
l’uomo, troncando bruscamente la conversazione.
«Venga, ci sono delle novità! Abbiamo avuto una spiegazio-
ne da Levitas… Ci troviamo in un bel pasticcio. Pare che
qualcuno sia impazzito o abbia bevuto qualche bicchiere di
troppo… E’ inaudito!» gridò rabbiosamente l’anziano dalla
barba candida, divenuto ormai il portavoce del gruppo.
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Mi avvicinai con passo incerto agli sfollati, mentre il cuore
mi martellava inesorabilmente le tempie.
Ero ansioso di conoscere l’accaduto e, nello stesso tempo,
mi rifiutavo di scoprire la fondatezza delle mie supposizioni.
L’anziano, ancora con il cellulare in mano, iniziò a parlare
in tono perentorio: «Il Governo di Levitas non ha voluto
metterci in salvo, ma, al contrario, si è arrogato il diritto
d’esiliarci dal nostro Paese usando l’inganno. La motivazio-
ne è vergognosa: tutti noi ci siamo macchiati di un unico
quanto riprovevole crimine, quello d’aver avuto nei confron-
ti del nostro prossimo un atteggiamento generoso, compren-
sivo, sensibile, indulgente, contrario al sentimento riprove-
vole, dilagante nella nostra società: l’indifferenza. Questa è
stata la sola catastrofe verificatasi nella nostra Terra. Non ho
parole per definire un’ingiustizia di tale genere. Concludo il
mio intervento, certo d’interpretare il pensiero di ognuno di
voi. Siamo orgogliosi di essere considerati dei criminali.»
Un applauso interminabile si levò dalla folla rimasta in piedi
ad ascoltare l’eloquente chiarimento del vecchio conterrane-
o.
Il mio corpo era accanto a loro, ma la mente rincorreva quei
pensieri, presenti già da tempo, sulla soglia del dubbio. Il
nome della Nazione non era altro che la traduzione dalla lin-
gua latina della parola “leggerezza”, mentre il tessuto delle
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vele, le divise dei marinai e la nave stessa potevano definirsi
inconsistenti, fatui. I fatti sembravano essere frutto di oniri-
che allucinazioni, ma, in realtà, tutto era maledettamente
lampante.
In quel mentre, ricordai l’appuntamento sulla Strada Provin-
ciale con la squadra di soccorso e mi diressi verso la sommi-
tà della scogliera. Superati i primi massi, iniziai a percorrere
un sentiero ghiaioso scavato nella roccia, facendo attenzione
a non scivolare. La luce verdastra della luna andava sce-
mando e, con essa, i contorni del paesaggio che mi circon-
dava. Il cielo stellato sembrava capovolgersi, risucchiando-
mi in un vortice tenebroso.
Una spessa nebbia m’impediva di vedere a un palmo dal na-
so, procurandomi un’indescrivibile sensazione d’asfissia.
Arrestai, allora, il mio cammino, realizzando d’aver perso
completamente la vista. Senza voltarmi urlai a squarciagola:
«Aiutatemi! Non vedo… Non vedo più!»
La mia invocazione echeggiò nell’etere non ricevendo rispo-
sta. Rimasi ad ascoltare, sperando di percepire l’avvicinarsi
di qualcuno, ma il mio udito captò esclusivamente il caden-
zato rumore della risacca. Per l’ennesima volta la superficia-
lità, l’indifferenza, la leggerezza avevano vinto, beffando chi
le aveva rinnegate da sempre.
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Il suono molesto della sveglia mi riportò nella camera da let-
to, abbracciato alla mia cecità, inseparabile compagna di
un’esistenza tutta da vivere.
Fine anteprima. Continua... Disponibile anche in ebook a 3,99 euro da marzo-aprile 2014