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7 Il cavallo di rosso trasse dal mare eretto in doppia onda incolore la più candida donna tenendosi lungo l'ardente arena argentea... 1 da CON FATALE LAMENTO di Juan Ramon Jiménez Maria Assunta Coppola 8 Fabulando Racconti inediti tratti dal libro inedito Fabulando [ in versione ridotta ] Aprile 2018

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Il cavallo di rosso trasse dal mare eretto in doppia onda incolore la più candida donna tenendosi lungo l'ardente arena argentea...

1da CON FATALE LAMENTO di Juan Ramon Jiménez

Maria Assunta Coppola

8

Fabulando

Racconti inediti

tratti dal libro inedito Fabulando [ in versione ridotta ]

Aprile 2018

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Racconti inediti tratti dal libro inedito Fabulando [ in versione ridotta ] per la partecipazione al concorso a premio “Umberto Domino 2018” - Rotary Club - ENNA

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A mia sorella Chiara

alla sua anima pura,

per un addio senza fine

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P R E F A Z I O N E C’è un “filo magico” che lega molti racconti di Maria Assunta Coppola. É la particolare sensibilità dell’autrice nel cogliere le suggestioni della natura, fissandole sulla pagina: i poderosi uliveti, il brontolio di un torrente, un salice dal tronco contorto e le fronde come lacrime che sfiorano il terreno, la palma che si staglia alta su nel cielo, la baia grigia di sassi e sabbia, il soffio leggero del vento, il cielo qua e là striato da veli candidi e leggeri, il cielo e il mare di madreperla, gli umori dell’estate. Pennellate di ambiente che colorano brevi racconti di vita vissuta. Istantanee che colgono momenti di felicità o di nostalgia. Frammenti di quotidianità che restano negli occhi e nella mente. Sullo sfondo, alcuni luoghi del cuore: Scopello, lo Zingaro. Pantelleria con il suo Lago di Venere, l’Arco dell’Elefante, lo zibibbo bevanda degli dei: uno splendido scenario naturale, familiare ed esotico al tempo stesso. Storie semplici animate da una galleria di personaggi, prota-gonisti o comprimari, di varia umanità: Bescir, Frederick, Maurizio, Sherazade e ancora, episodi dal tono umoristico, La pinna di Alceo o dal timbro onirico e un po’ fiabesco, La bifara o di vita familiare, Al supermercato con la suocera. E inoltre, piccole avventure di viaggio: in treno con Carla e la piccola Marta verso Roma, o in traghetto nel Golfo di Napoli. Da una storia all’altra, affiora così il mondo di Assunta: i ricordi dell’infanzia, il ruolo di insegnante (quei ragazzi

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poveri, diseredati, mal nutriti), l’interesse per la musica, l’amore per la natura e in particolare per il mare. Nel racconto Il mare è un amico, uno dei più intensi, l’autrice scrive: Il mare è un amico, quando sei triste, quando hai un dolore vai da lui, ascoltalo, ti racconterà parole ammaliatrici, lui, solo lui saprà consolarti. Ernesto Di Lorenzo giornalista

NOTA DELL’AUTRICE Il ricordo del passato si snoda attraverso racconti brevi in forma “lirica subliminale” che diventano viaggi dell’E SS E R E (viaggio della memoria, dell’anima, dell’umor, dell’eros, in giallo, nel mistero, ritratti). L’essere viaggia in luoghi e tempi lontani, anche di vite “trascorse”.

Stralci di versi precedono alcuni racconti a rafforzarne la “liricità” mentre con l’obiettivo ne metto a fuoco l’attimo fissandolo in linee, luce e ombra, cioè traducendolo in fotografia che dà quel senso di leggerezza “eterna” che non sempre si trova nella scrittura.

…..E sei nato come una favola

sospeso ad un sogno ma vero, vivo

2 A M I O F I G L I O

di Assunta Coppola - Clusone (inverno 1985)

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Ogni cosa a morte arriva. L’uomo non deve ridere quando tutto il mondo piange. Tra me e le ore c’è un accordo esatto la solitudine

Chiara

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PARTE PRIMA

VIAGGIO DELLA MEMORIA

…..di là i narcisi appassiti i lunghi steli su nel cielo basso di nubi li avevo accarezzati prima di partire

l’ultimo sguardo fioriti di quel bianco pallido sfumati di giallo....

3 da I N A R C I S I A P P A S S I T I di Assunta Coppola - Pantelleria (giugno 2009)

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PARTE SECONDA

VIAGGIO DELL’ANIMA

...Di questo amore ingannevole di questo amore inventato di questo amore disperato.

Il vento sconvolgerà i miei capelli il volto, l’anima.

La pioggia rovinosa mi flagellerà con le sue sferze.

Quale dio potrà perdonarmi! Quale dio avrà pietà di me!

4 da Q U A L E D I O di Assunta Coppola - Pantelleria (estate 2009)

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PARTE TERZA

VIAGGIO DELL’UMOR

Che tu possa annegare negli abissi degli abissi e il tuo cadavere andare

in altri continenti per essere spappolato

da pesci carnivori 5 C H E T U P O S S A

di Assunta Coppola - Pantelleria (estate 2010)

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CU LU COPPU Lui entrò dalla porta di ferro. Aveva attraversato il cortiletto all’ombra degli alberi dai fiori rosa tremolanti ad un vento leggero, una luce intensa invadeva il selciato di pietre irregolari; la stessa luce invadeva, un po’ attenuata, la stanza attraverso l’uscio spalancato. Lui entrò, a petto nudo, peloso, bruno, tarchiato, occhi ne-rissimi, ma offuscati da occhiali spessi da miope; portava appoggiato al petto, in una mano, un involto. Da questo fece rotolare sul tavolo lucido di mogano pesci ancora squittanti, vivi, contorcenti allo spasmo della morte imminente. Lei comparve nel vano della cucina, snella, bianca, con indosso un pareo dalle frange gialle, cosparso da pesciolini azzurri nuotanti in un mare verde, trasparente.

‹‹Come li hai pescati?›› domandò lei, in perfetta lingua italiana e accento fiorentino.

‹‹Cu lu coppu!›› esclamò lui in lingua dialettale ed accento perfettamente siculo arcaico.

‹‹Come, cu lu coppu?›› lei incalzò. ‹‹È un metodo nuovo, innovativo di pescare?››

‹‹No, cu lu coppu ti rissi!››

Lei contrariata uscì precipitosamente in cortile, inforcò la bicicletta appoggiata al muretto e gridando:

‹‹Sei omertoso! Sei omertoso!››

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corse libera tra le fronde dei poderosi limoneti, tra raggi solari riflessi, tra luce ed ombra, mentre un vento leggero continuava a soffiare sconvolgendo la sua folta capigliatura. Mentre correva, le sovvenne “Viaggio a Kandahar” le donne chiuse nei loro burqa, negate al sesso e all’amore, represse nell’anima e nel corpo e come a “Kandahar” tornando dalla sua passeggiata, si rivolse alla sua figliola:

‹‹Senti, chiedi a tuo padre, come ha pescato quei pesci!››

nello stesso tempo li indicò: se ne stavano ancora lì, sul tavolo lucido del soggiorno, ma non boccheggiavano più, avevano dato il loro ultimo respiro.

‹‹Cu lu coppu ci rissi a to’ matri, a la pischeria appunto l’accattai, ma è proprio dura di testa, nun cancia mai!››

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SI È APERTA LA CACCIA ALLA BALENA

Scendeva giù per la scaletta in pietra che conduceva nella caletta di Punta Pispisa (una delle tante calette di cui è costituito quel luogo ameno chiamato Scopello meta di tanti turisti, non lontano dalla riserva dello Zingaro, sottratta alla speculazione edilizia dall’impegno e dalla volontà di am-bientalisti di tutto il mondo), scendeva dunque, sornione e serafico, alto e grande com’era, portando avanti il suo ventre prospiciente, tanto che prima spuntava quest’ultimo e poi appariva tutto il resto. Ogni volta, portava un materassino a forma di un grande sandwich di forma e colore di quelli di McDonald’s ovale e giallo senape, poiché sappiamo che presso queste catene di fast-food, frutto di quel nefando fenomeno chiamato “globalizzazione” si esagera in tutto e per tutto, sia nell’aspetto esteriore che nella sostanza (coloranti ed additivi chimici a non finire). Avanzava lentamente con i suoi grandi piedi, gradino dopo gradino tanto che c’era pericolo che qualche pietra potesse cedere da un momento all’altro; giungeva giù, vedeva me sdraiata prendere il sole su qualche roccia o, osservare estasiata, seduta sui sassi facendomi lambire i piedi dall’acqua, l’orizzonte lontano oltre la distesa del mare limpido che non ha nulla da invidiare a quello delle

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Seychelles e con un sorriso malizioso sulle labbra mi apo-strofava dicendo: ‹‹Oh cara, sappi che si è aperta la caccia alla balena; ne esiste una specie particolarmente ambita nei nostri mari, chiamata lardofaga››.

Al che io sdegnata rispondevo che non mi sentivo, affatto, punta da tali affermazioni e che semmai era lui che doveva temere di finire tra gli arpioni dei cacciatori a caccia del sopra citato cetaceo, considerando che per mole e lardo era di gran lunga superiore a me. Ma lui imperterrito metteva in mare il suo materassino, vi si sdraiava tutto per lungo e per largo e si faceva cullare dol-cemente dalle onde marine; ogni tanto alzava il capo e da lontano rivolto a me, poiché mi piaceva restare un po’ a riva prima di farmi il bagno, mi diceva:

‹‹Perché non ti fai il bagno, forse temi di essere scambiata per una balena? Fai bene, perché come ti dicevo si è aperta pure quest’anno la caccia alla balena!›› accompagnava queste parole, con un risata beffarda tanto che l’eco si propagava per tutta la zona spaventando gli ignari bagnanti.

Quando ero stufa di stare sulla spiaggia prendevo maschera e pinne e me ne andavo lontano da lui e dalle sue sarcastiche battute ad esplorare il fondo marino pieno di splendida vegetazione e di pesci colorati; ritornavo dopo qualche oretta, ma lui era sempre lì, pacifico tranquillo immobile sdraiato sul suo materassino, appena mi intravedeva, girando soltanto leggermente il capo, esclamava:

‹‹Oh sei qui, avevo temuto per la tua pelle, mi è arrivata voce che la caccia, stamani, è stata abbondante e proficua!››

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Il più delle volte non aspettavo che lui uscisse dall’acqua e me ne tornavo a casa; ma se, malauguratamente, mi intrattenevo sulla riva a schiacciare mandorle o mordere una pesca o fumare una sigaretta, lo vedevo uscire dalle acque tutto grondante, riporre accuratamente su una roccia il suo materassino e in piedi, in tutta la sua lunghezza e possanza, del tutto simile a qualche figura omerica, ridendo di me ribattere che questa volta ero stata fortunata, ma che dovevo stare attenta per la prossima volta perché animalisti e ambientalisti, ancora, non erano riusciti a proibire la caccia alla balena, soprattutto di quella specie particolare chiamata “lardofaga”.

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FATEMI CAPIRE Scendevo per il corso che già il sole tramontava: riflessi rosati sull’asfalto e sulle automobili posteggiate in diagonale. Tutta giuliva lasciavo oscillare i miei pacchetti contenenti calzature primaverili. – Compra queste e compra quest’altre sono economiche e di qualità. - Aveva detto - felice di rendermi felice conoscendo lo stato d’animo di quei giorni - la mia amica russa: capelli come arricciate nubi d’oro e occhi “squarci di cielo azzurro” chinati sugli scaffali di scarpe bianche e colorate disposte or-dinatamente in riga. Quindi scendevo e m’imbattevo – Oh, guarda caso! - nel mio maestro di fotografia. – Ma non era ad Agrigento quel giorno! Era già ritornato? Pensavo ed intanto cercavo di attirare la sua attenzione con evidenti gesti della mano libera a mo’ di saluto, ma nel mio entusiasmo avevo scelto situazione e momento sbagliati perché lì per lì non avevo fatto caso che era nel bel mezzo di una discussione animata con due vigilesse goffe e grasse, particolare questo già notato prima di ogni altra cosa, in verità. Osservavo così il suo volto animato di rosa e la sua zazzera sugli occhi neri, svolazzante. ‹‹Avete preso il mio numero di targa? Fatemi capire, per- ché? Volete farmi un verbale?››

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Non dava a quelle la possibilità di ribattere (mi sembravano un tantino sprovvedute) infatti incalzava:

‹‹Se prendete la multa a me allora dovete pure multare tutti i conducenti di questa sfilza di macchine abbandonate qui, in doppia fila, nel bel mezzo della via. Io ero dentro la mia auto con il motore acceso! Che cosa avete scarabocchiato sul vostro libretto? Fat emi cap ire !››

‹‹Sono in farmacia›› obiettavano quelle bleffando.

Ma il mio maestro, di cui ammirai determinazione e spiccata personalità, di rimando:

‹‹Ora vedremo!›› e saettò dentro la farmacia di fronte, tornando con altrettanta velocità da quelle

‹‹Sono solo due dentro la farmacia!›› gridava ‹‹Volete che io soccomba alle reiterate ingiustizie di questa benemerita amministrazione comunale? Non sia mai!››

Quelle più brutte e più goffe di prima (così perlomeno mi erano sembrate) avevano perso la loro baldanza

‹‹Per questa volta vada ma noi rappresentiamo l’ordine costituito, nessuno si deve permettere di protestare!››

Ma la loro voce tradiva timore e perché no, ammirazione: era pur sempre un ragazzo di bella presenza dagli occhi neri, lucenti e la zazzera svolazzante.

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LA PINNA DI ALCEO La baia si estendeva grigia di sassi e sabbia, digradando ripida verso un mare piatto e trasparente, pennellato di azzurro, verde, rosso, quasi a formare un grande lago. Me ne stavo distesa al sole vicino la battigia; sopra di me un cielo celeste qua e là striato da veli candidi, leggeri.

All’improvviso dal mare si elevò una voce

‹‹La pinna! La pinna di Alceo!››

Mi sollevai di scatto: non lontano dalla riva un nostro amico sventolava una pinna gialla a mo’ di bandiera. Tutti i presenti si allarmarono

‹‹Cosa è successo?›› ‹‹Ha forse perso la pinna di Alceo?››

Era proprio così: il nostro amico si era fatto prestare da Alceo le pinne e nuotando ne aveva persa una; ora preoccupato ci chiedeva di essere aiutato a cercarla

‹‹Per carità!›› diceva ‹‹E chi lo sente ora Alceo?››

Tutti si dimostrarono disponibili e, compresa me, muniti di maschera ci mettemmo a cercare la pinna di Alceo; ma di questa neanche l’ombra trovammo: cercammo in lungo e in largo, in alto e in basso, in quello specchio di mare dove il nostro disgraziato amico aveva nuotato allegramente pensando che tra qualche giorno sarebbe convolato a nozze, certo, ignaro di quello che di lì a poco gli sarebbe successo.

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Ormai disperati eravamo giunti alla fine della nostra ricerca e c’eravamo messi a confortare sia il nostro amico distratto sia il proprietario, ex direi, della pinna perduta

‹‹È meglio che entrambi vi rassegniate, perché la pinna sembra che sia stata inghiottita dalla sabbia, oppure, chissà, andata al largo è finita in bocca di qualche grosso pesce!››

Tutto ciò veniva ripetuto tra l’ironico e il dispiaciuto e diciamo pure con una punta d’ipocrisia, perché delle loro preoccupazioni non eravamo, punto, preoccupati; in verità ci stavamo divertendo molto.

D’altra parte Alceo, venuto a sapere dell’accaduto, andava ripetendo con voce monotona che quelle pinne erano nuove nuove, che lui non le aveva ancora usate e che anche il colore gli piaceva e che le aveva scelte più per il colore che per altre prerogative: giallo come il sole dipinto dai bimbi; giallo come il budino che gli preparava la mamma quando era piccolo, giallo come la gelosia, giallo (tendente al verde) come la bile che ora lo stava per assalire.

In quel momento, alto e lungo com’era, petto ben tornito, bruno, capelli neri lunghi, asciugamano pendente sulla spalla destra con aria soddisfatta pregustando già il piacere di un bel bagno scendeva giù per il pendio, dinoccolato un nostro amico, il solo che non era stato presente all’evento appena descritto. Questi, giunto alla riva, poiché dall’alto aveva notato un po’ di trambusto, chiese spiegazioni sull’accaduto e quando ebbe da noi la risposta esclamò con un leggero ghigno sulle labbra

‹‹Certo, perdere la pinna, quasi, alla vigilia del matrimonio è veramente grave!››

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6 L A F A R F A L L A

S’è posata la farfalla su un fiore a succhiare il nettare anche tu posati sulla mia anima

a succhiare l’alito. di Assunta Coppola - Pantelleria (primavera 2009)

LE CIABATTE ROSSE In una notte serena d’estate, rilucevano al lume di certe lampade a petrolio un paio di scarpe rosse di pelle lucida. Le calzava un amico e quelle se ne stavano lì, in bella mostra e sembravano dire: – Guardateci, siamo proprio belle!

Dalle scarpe il mio sguardo risalì lungo il resto del suo ab-bigliamento ma questo era comune, non come quelle scarpe, quelle scarpe..... Quelle scarpe rosse erano veramente speciali. Così cominciai a fare delle illazioni: - Le aveva comprate da poco? Le aveva scelte da solo? S’era fatto consigliare? Ma si, certo, le aveva comprate assieme alla sua ex moglie! e già la vedevo, in atteggiamento imperioso, dire:

– Prendi queste, non vedi come sono eleganti, comode e soprattutto di marca? Non esitare! Lasciati consigliare da me che ho gusto e senso dell’estetica e, non come te che scegli le cose più tasce e di pessima qualità! -

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E mi sovvenne alla mente, quasi per associazione di idee, un tempo lontano quando loro erano ancora fidanzati e lei non so come e perché cominciò a dire di lui:

– Tutto gli ho dovuto insegnare: come parlare in società, come stare a tavola, come intrattenere gli ospiti im-portanti, come vestirsi e persino, come stare a….. -

Ricordo che allora la guardai un po’ attonita e pensai che era una vera bisbetica: - Come poteva umiliare fino a questo punto un nostro caro amico e per giunta, in presenza di persone estranee?

Comunque come dicevo, presa dalla curiosità di sapere l’origine di quelle belle scarpe rosse, domandai spiegazioni e grande fu il mio sollievo quando mi rispose che quelle scarpe le aveva addosso per caso, che appartenevano in realtà alla scarpiera ben fornita del fratello - momentaneamente assente - e che dopo averle provate tutte aveva scelto quelle per bellezza colore comodità ed eleganza. - Certamente il buon gusto l’aveva imparato dalla sua ex! Pensai. Quella sera stessa ci recammo tra le bancarelle di una piazza del paese e così fu che vidi, tra sandali scarponi e scarpette “Indovinate cosa?” “Tante paia di ciabatte rosse!” Senza esitazione (in questa occasione appresi la forza del destino) scelsi il mio numero, le calzai e me ne tornai a casa con quelle (gli zoccoli che avevo ai piedi, con disprezzo, li avevo buttati dentro la borsa) e da allora non me ne distacco più: mi alzo dal letto e sveltamente le calzo, felice di trovarle sempre lì, pronte sotto la sponda, sembrano quasi aspettarmi. Me le porto per le vie della città, per le viuzze di campagna; per la spiaggia sulla sabbia; tra le rocce tra i sassi; le lascio bagnare dolcemente dalle onde spu-meggianti del mare e quando torno a casa le metto ad

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asciugare al sole: una farfalla bianca si posa su di esse, ora su l’una, ora sull’altra, a mo’ di fiocco ed io sto lì a guardare per qualche minuto e sorrido pensando che quella le possa scambiare per dei papaveri rossi.

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AL SUPERMERCATO CON LA SUOCERA

Si era sotto le feste di Natale e, non so come fu, io e mia suocera decidemmo di recarci al più vicino supermercato per fare la spesa del pranzo natalizio (è consuetudine remota da noi pranzare per le feste comandate tra parenti, dal più vecchio al più piccolo). Chissà quale propizio destino predispose codesto con-nubio, perché da sempre mia suocera aveva pensato lei a fare la spesa, non badando a “spese” in queste occasioni e so-prattutto consultando i gusti e le preferenze di ognuno; quindi munitami di una borsa ben capiente (perché da brava ecologista rifiuto sempre i sacchetti di plastica) ci recammo al suddetto supermarket; giunte che fummo ognuno di noi prese un carrello e ci incamminammo lungo i corridoi dei vari reparti: io avanti, mi diressi nel reparto alimenti biologici, mentre mia suocera verso i reparti alimentari tradizionali; nel mio carrello deposi poche cose e subitamente raggiunsi mia suocera per coadiuvarla nel faticoso compito della scelta degli alimenti e bibite destinati al desco natalizio. Cominciai a riempire il suo carrello, poiché avevo notato che lei ancora vi aveva messo ben poca roba. Tuttavia prima la consultavo dicendo:

– Mamma prendiamo questo?

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e mia suocera non assentiva né dissentiva ma mi guardava con una espressione perfettamente apatica che io interpretavo, o così mi piaceva, per un totale consenso. Comunque prima di passare alla cassa le ricordai che la sua cara nipotina Susanna (porta giusto punto il suo nome) aveva espresso un innocente desiderio:

– Nonna mi compri un po’ di prosciutto?

– Certo, certo che ti compro il prosciutto sciatu mé!

aveva risposto lei. Perciò mia suocera si diresse verso il bancone della salumeria, io dietro a lei e, rivoltasi verso la faccia pacioccona del salumiere ordinò:

‹‹Mi dia una fetta di prosciutto sottile, sottile, sottile…››

quello non rispose e si rivolse a me con un sorriso ironico sulle labbra quasi a chiedere spiegazioni ed io di subito aggiunsi:

‹‹Quasi trasparente!››

Lui capì, tagliò una fettina di un gran prosciutto che aveva poggiato sotto l’affettatrice e porgendola a mia suocera avvolta in un po’ di carta, esclamò:

‹‹Più sottile di così non ho potuto!››

Finalmente ci recammo alla cassa e qui la mia amata suocera improntò un’altra sceneggiata degna di lei: man mano che io toglievo dal suo carrello la spesa quella faceva una selezione, una parte della spesa (minima direi) la poggiava sul nastro della cassa, il resto la passava nel mio carrello, borbottando:

– Questo si, questo no!

Io rimasi allibita, pagai e non dissi nulla.

All’uscita, lei era col suo leggero sacchetto di plastica ed io con la mia traboccante e pesante borsa ecologica, entrambe depresse e assorte nei nostri pensieri, cosa assai rara, identici

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in quel momento, al dire il vero. Ma lei ebbe l’ardire di esprimere apertamente quello che io non osai:

‹‹Questa è la prima e l’ultima volta, mai più mi sognerò di andare a fare la spesa con te!››

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IL BRANCO Il dirigente di classe ci riunì in sede di collegio. Aveva un aspetto più severo del solito nell’abbigliamento di un grigio violaceo, a darmi l’idea di nubi che sembrano annunciare una immediata burrasca in tempo di settembre, tuttavia un che di festoso dava all’occhio: una cravatta colorata, del genere hawaiano, spiccava sul fondo blu elettrico della camicia. Tra le mani girava e rigirava un piccolo biglietto. Esordì:

‹‹Vi parlo in nome del nome della scuola…››

giocando sul bisticcio di parole non per pura banalità, ma per dare fin dall’inizio del suo discorso un effetto particolare sul pubblico presente nella sala. Quindi avvicinò al volto il biglietto e lesse (molto probabil-mente aveva fatto una scaletta)

– ... Si dice in giro che alcune insegnanti sproloquino ai danni di altre insegnanti appellandole “lecchine” del direttore didattico. Si è sparsa la voce che il collega, unico maschio in una sfilza di insegnanti elencate in una circolare, sia stato scambiato per femmina con grande dileggio dello stesso. Si racconta in giro… -

La mia mente andò alla stagione appena trascorsa: sole caldo, cieli trasparenti, voli di uccelli, ascoltavo lo sciabordio delle onde contro la battigia che con armoniosi ritmi scandiva dolcezze e deliqui fin dal profondo del mio essere.

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Tornai alla realtà, udivo:

‹‹Io ho il potere legale per porre fine ad ogni tipo di pette-golezzo, per recidere ogni pur minima nefandezza inci-piente››.

La sua voce era pacata, non c’era rancore, sembrava che avesse nella mente l’articolo tot, il comma…: le sue parole suo-navano da burocrate puntiglioso. Ma, all’improvviso, come quando una notte stellata è squar-ciata da un fulmine ed immediatamente si sente rimbombare un suono fragoroso, così lui tuonò:

‹‹ Il branco, il branco avanza…comportamento da branco…››

E così metteva in evidenza non solo la sua erudizione giu-ridica, come già ho rilevato, ma anche la sua ampia profonda esperienza psicologica; dopo di che un pesante silenzio calò sull’aula, come un pesante drappo cala sul palcoscenico. Sciolta la seduta, si allontanò con passo cadenzato e dopo di lui uscirono ad una, ad una, lemme, lemme tutte le insegnanti, anzi gli insegnanti per non cadere nello stesso errore della segreteria ed evitare scambi o cambi come nel “F igl io cambiato” del nostro grande romanziere, nonché drammaturgo empedoclino Luigi Pirandello, considerando che il consiglio è costituito da circa una cinquantina di insegnanti di cui tre di sesso maschile e considerando, ancora, che la nostra aulica lingua italiana pecca di evidente maschilismo.

Quando ci ritrovammo sul corridoio ci guardammo le une dentro gli occhi delle altre, notai un’ansia, una indefinibile incertezza; ma una di noi, tra le più loquaci, spezzò il disagio esclamando: ‹‹Non ho parole!››

un’altra, tra le più sensibili, aggiunse: ‹‹Sento un’angoscia dentro››

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un’altra ancora, tra le più spavalde, esplose: ‹‹Questa è una minaccia, un segnale intimidatorio!››

Si formarono dei capannelli da cui salivano voci, commenti sussurrati…

Per fortuna il tempo era passato, ognuno tornava alle sue abituali incombenze quotidiane; anch’io tornai a casa, sbrigai, come sempre, le solite cose come a scandire le ore di un tempo che inesorabile passa, intanto dentro di me una voce m’accompagnava – Il branco…comportamento da branco. Giunse la notte e come un incubo, una persecuzione una voce dal CD rimbombò:

♫… Migliaia di corpi, una sola ombra… uno alla volta…Uno alla volta il branco prende forma…avanza sicuro della sua forza…♫

ritmi di tamburi, pifferi e tromboni si levarono e vidi un branco di animali, di indefinibile forma, oppressi avanzare e qualcuno cadere, abbandonato nella sua lunga agonia.

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LUNCH-PARTY Eravamo giunti su in cima quella notte, ora eravamo seduti in prima fila in un piccolo anfiteatro di pietra lavica, su tappeti colorati, morbidi di seta. Il concerto iniziò, una donna piccola rotonda dai lunghi capelli rossi e ricci cantava

♫… la nonna cullava la piccola… t u pp i t i e t i r i t i t up p i t i …♫

e alla fine: ♫ … Lucy, Lucy Africa, luna, terra, Lucy acqua, madre, Lucy amnios…♫

intanto una luna bianca, tonda s’era alzata se ne stava sopra il palco e sembrava sorridere d’un sorriso impercettibile, iro-nico. Immersa in quella magia fui ribaltata nella mia classe: io leggevo a voce alta e chiara, i bimbi ascoltavano “Lucy” il primo ominide che i paleontologi hanno ritrovato mentre dalla radiolina del campo si udiva

♫… Lucy in the sky with diamonds…♫

La bimba dai riccioli biondi fin sugli occhi chiari; l’altra dalle trecce nere con occhi come due carboncini; l’altro, in fondo, con gli occhiali di vetro bianco, scintillante alla luce che penetra dalle ampie finestre con le tende bianche tirate. Ad uno ad uno, ad una ad una, tutti, tutte con la bocca socchiusa quasi a sorbire non so quale nettare degno degli dei.

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Il concerto ora è alla fine, sento lo scrosciare degli ap-plausi, ritorno là: vedo la gente scendere, uscire; io rimango seduta come inchiodata, ma la stupenda creatura che Dio m’ha regalato, mia figlia:

‹‹Mamma, andiamo ho fame›› la sua voce squilla nell’anfi-teatro vuoto, ‹‹Si andiamo, ma non a casa, la notte ancora è lunga›› rispondo; intanto ci alzavamo e ci incamminavamo in fila indiana lungo un corridoio di un groviglio di profumi tra verdi cespugli, oleandri, gelsomino e palme nane, timo, rosmarino, menta; mano mano una musica allegra, sud-americana si faceva sempre più vicina, ancora più vicina, mi trascinava, mi chiamava come la forza del canto di una sirena che dal profondo del mare chiama il marinaio disperso nella notte in mezzo all’oceano.

‹‹Mamma dove vai!›› sempre con quella voce simile alla campanella solitaria di una chiesina di montagna.

‹‹Siii... siii...›› bisbiglio, ‹‹Andiamo fin dove ci porta la mu-sica››. E questa ci portò davanti ad un alto cancello di legno.

‹‹Mamma è chiuso, andiamo via!››

‹‹Proviamo!›› insisto.

‹‹Di certo è chiuso! O pensi di provare con Apriti Sesamo!››

e rideva della mia ingenuità o spavalderia. Ma il cancello che io avevo leggermente spinto verso l’interno si aprì tutto senza cigolare e in quel momento mi sembrò di entrare nel bel mezzo di una fiaba. – È un incantesimo! – Pensai.

Davant i a me una scala r ipida e diritta nera di lava ‹‹Vieni!›› la invito, ma lei rimaneva attonita ai piedi della scala.

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‹‹Sei pazza!›› grida, ma ormai era tardi per ritornare alla realtà, ero stata presa da una magia arcana e misteriosa da cui fui completamente rapita.

Salii in punta di piedi calzati da scarpe chiuse, bianche di tela, alzando la gonna pressata di organza, circospetta e un po’ timorosa che qualcuno mi potesse sorprendere. Quando giunsi in cima, alla mia sinistra notai tavoli grandi di legno rustico con lumi ad olio dalla luce azzurrognola e grandi calici di cristallo semipieni di vino rosso e sopra, quasi a protezione, come due ampi ombrelli, si innalzavano due altissime palme dai tronchi contorti e dalle rigogliose fronde; di fronte gente elegante un po’ snob distesa a sorseggiare bevande colorate su lunghi divani disposti a formare un quadrato, mentre altra gente veniva da un ambiente attiguo con piatti colmi di viveri e vi ritornava con i piatti vuoti “Un lunch party” riflettei ricordando le parole di una mia carissima amica che si divertiva ad usare termini inglesi con grande mio dispetto, ahimé, sapendo che per quelli sono completamente negata. Io sempre con lo stesso atteggiamento circospetto di prima, guardando a destra e a sinistra, meravigliata dentro di me che nessuno m’avesse ancora notato, consapevole che in questo caso sarei stata considerata perfettamente un’intrusa, mi diressi verso l’ingresso dove c’era quel via vai, certa di trovare un banchetto imbandito e così fu: un grandissimo tavolo rotondo dove con arte erano stati disposti vassoi d’argento colmi di ogni genere di vivande, boccali di bibite e bottiglie di bevande alcooliche. Immediatamente tornai sui miei passi ‹‹Qui si mangia!›› grido dalla cima della gradinata sicura che nessuno si trovasse nei pressi.

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‹‹Signora questa è una festa privata, non è aperta al pubblico; mi creda l’ho vista arrivare, ma ho fatto finta di nulla, volevo vedere dove volesse andare a parare, così buffa nel portamento, con la gonna alzata e sulla punta delle scarpe››.

Una voce ironica e rauca dietro di me mi fece sussultare, mi girai emettendo un gridolino: ‹‹Oh!››

Un giovanotto biondo, un po’ grassoccio, ben piantato mi stava davanti, ma subito quella voce cambiò tono e divenuta dolce, quasi melliflua aggiunse:

‹‹Chi è quella bella ragazza, suppongo sua figlia, la faccia salire››. Poi rivolgendosi a lei: ‹‹Salga, salga›› facendo un cenno con la mano ammiccante e compiacente.

La mia figliola non si fece pregare ed esordì ancheggiando e portando la sua capigliatura chiara e riccia all’indietro con il gesto ora dell’una, ora dell’altra mano. Quando lei giunse in cima ci presentammo e quello sempre con lo stesso tono cerimonioso esclama: ‹‹Siete le benvenute, stasera sarete mie ospiti›› ed accennava un baciamano per entrambe.

– La fiaba continua – Pensai sorridendo dentro di me.

Così sotto la sua guida, dopo aver mangiato, bevuto e brin-dato al nostro fortunato incontro e dopo averci presentato al padrone di casa, un tipo per dir poco bizzarro di cui notai essere più di là che di qua, ci fece visitare quella ricca dimora, antichissimi dammusi dalle numerose stanze, di cui il giovane mentre ce le mostrava nominò una per una il nome: la stanza rossa, la stanza della cultura, la stanza della musica e persino delle vergini; infine l’alcova, prospiciente su una veranda adorna di fiori e piante esotiche, la camera dei

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concubini con un ampio letto e sopra un baldacchino dai veli bianchi, trasparenti. La serata si concluse ai bordi della piscina situata ai piedi delle alte palme, bicchieri colmi di spumante tintinnavano. S’era unito a noi un tipo alto e magro tutto vestito di bianco, ridevamo un po’ ebbri. – Vieni in barca odo uno dei due rivo lto a lla mia fig lio la – Facciamo il g iro dell’ isola.

Io m’ero distaccata un po’ da loro, avevo notato che la cor-teggiavano, non volevo essere invadente. Alzai lo sguardo, i rami ondeggiavano leggermente quasi ad accarezzare la luna che ora se ne stava lì immobile, sembrava averci seguite, continuava ad osservare curiosa con la stessa ironia di prima. Mi guardai attorno: lontano sulle colline luccicavano le luci della notte, sembravano stelle tremule azzurre accese dal cielo per riposare lungo i dolci pendii. Tornai a guardare la luna ora sembrava sorridermi com-piaciuta.

Forse era essa, pensai, che aveva creato quell’incantesimo, m’aveva fatto vivere una fiaba, una meravigliosa fiaba; portata nel mondo della mia infanzia, nel mondo della fantasia, dove ogni dolore ogni pena svaniscono e una sola sensazione prevale, quella di cui l’umanità fin dai suoi primordi va alla ricerca: la felicità.

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LA ZIZZANIA E LA MENTUCCIA Il preside entrò nell’aula del consiglio di classe tondo panciuto scuro calvo occhi vivaci brillanti di un nocciola chiaro; indossava su una camicia grigia un gilet nero le cui punte, quando si dimenava, svolazzavano tanto da dare l’idea di un calabrone che aveva appena succhiato il nettare dei fiori di un intero prato. Ma non divaghiamo, torniamo alle nostre vicende contin-genti. Il suo primo sguardo si posò sulla Carla che poggiati gli occhiali sul tavolo se ne stava con il naso quasi appiccicato al suo registro: la mano sinistra tra i capelli arruffati, la mano destra con una stilografica, intenta a scrivere. Da insegnante alternativa e coscienziosa cercava in tutti i modi una formula per evitare la bocciatura di una ragazzina valorizzandola nella sfera della creatività

‹‹Lei che fa?›› esclama puntando il dito minaccioso. ‹‹Scrive, che scrive?››

‹‹Scrivo›› risponde lei candidamente alzando il volto verso di lui che in quel momento non distingueva bene e di cui non aveva notato che era diventato paonazzo.

‹‹Scrive? Qui non si scrive! Qui si scambiano idee, si discute, ci si relaziona, ci si argomenta, non si fanno geroglifici come solita fare lei!››

‹‹Ma, preside, lei mi insegna...›› non poté finire la frase che quello incalza dicendo:

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‹‹Rispetti le regole delle istituzioni scolastiche e i regola-menti interni di questa seria scuola di cui io sono il degno capo!››

‹‹Ma preside mi faccia fare il mio lavoro...››

ma quello ancora incalza: ‹‹Lei semina zizzania!››

La Carla, che cominciava a prendere coscienza e quindi ad inquietarsi un po’, mosse inavvertitamente lo zainetto che teneva ai piedi sotto il tavolo, ma siccome soleva condurre con sé fiori profumati ed essenze e piante aromatiche venne fuori un effluvio intenso di menta, così la estrasse prontamente dallo zaino e spargendola tutt’intorno sul tavolo esclama: ‹‹Se mai, preside, semino mentuccia della nostra madre terra!››

Lui non aspettandosi una risposta così disinvolta verbalmente e praticamente, rimasto come stordito e dalla risposta e dall’odore intenso, con voce strozzata comincia a gridare:

‹‹Chiamo la polizia, chiamo la polizia!›› e muovendo le sue aluzze nervosamente, uscì fuori dall’ aula.

La Carla, nonostante le parole vilipende ricevute, con-tinuò a scrivere; quando poi terminò uscì fuori ed abban-donandosi sugli scalini pianse calde lacrime e gridò grida disperate, non per sé ma per l’umanità intera sofferente oppressa ingannata dall’arroganza e per l’ingiustizia del più forte sul più debole.

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7 da F O G L I A M O R T A

…Mi sono voltata verso la tua ombra

a cercare una carezza ma tu sei foglia secca portata via dal vento,

sotto un cielo di nuvole grigie.

di di Assunta Coppola - Alcamo (autunno 1995)

IN AUTUNNO CADONO LE FOGLIE

TEMA In autunno cadono le foglie, osserva e rifletti.

Avevo preso la macchina fotografica e mi affacciavo per scattare delle foto alla gru che inesorabile agganciava con le sue fauci dentate la chioma dell’alto pioppo che in quel mattino di sole mostrava le sue ultime foglie di un verde tenero facendole brillare. Ero scesa poi a raccogliere i pochi ramoscelli che la gru aveva fatto cadere sul terreno dove il pioppo aveva messo le sue contorte radici ed era cresciuto bello e superbo col suo tronco rugoso e le sue foglioline rotonde e seghettate. Era stato decretato da tempo: quell’albero dava fastidio, occupava la visuale, oscurava le imposte e soprattutto in autunno faceva cadere le foglie gialle e accartocciate inva-

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dendo ingressi e davanzali, ma cosa ancora più sacrilega le espandeva al soffio del vento sui balconi e sulle terrazze dei condomini d’intorno.

‹‹Allora bambini in autunno cadono le foglie! Perché in autunno le foglie appassiscono e poi si staccano dai rami creando sulla terra un tappeto variopinto di verde pallido, giallo, rosso? Riflettete bambini, pensate al ciclo delle stagioni, pensate al ritmo della natura che scandisce il tempo della nostra esistenza donata da Dio a tutti gli esseri viventi. Tra questi c’è l’uomo, tra tutti “Il distruttore” ma un giorno scomparirà dalla faccia della terra perché è grande il suo egoismo, grande la sua avidità e, la natura riprenderà il suo corso il suo equilibrio la sua armonia, per l’eternità››.

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VIAGGIO A ROMA Quando salii nel vagone di quel treno che portava a Roma pensai che avrei fatto un viaggio dei più rilassanti e piacevoli. Lo scompartimento a me assegnato profumava di mughetto. Le federe delle cuccette erano candide come la neve. Delle tendine vezzose di un rosa pallido adornavano i finestrini. – Il costo del biglietto è stato esoso, ma in compenso trascorrerò una notte da sogni d’oro. – Pensai. Vano pensiero in quanto non considerai primo di non essere sola, secondo delle caratteristiche peculiari della compagna di viaggio che m’ero scelta. Quest’ultima, dovete sapere, aveva portato con sé la sua cara figliola, la quale non avendo fatto il biglietto era stata costretta a viaggiare nel vagone di terza classe, dove assieme a lei viaggiavano persone di varia età ed estrazione sociale, tutti manifestanti che si recavano nella capitale per par-tecipare alla grande marcia a favore della pace, ma tutti regolarmente sprovvisti di biglietto. S’era nel periodo della guerra in Iraq che tanto dolore e morte stava procurando. Le loro condizioni erano piuttosto pietose, ammassati come bovini pronti per essere condotti al macello, buttati a terra nei reparti o nel corridoio, poiché i posti a sedere erano pochi. Quando entrai posai il mio piccolo bagaglio nell’apposito bagagliaio e mi sistemai nella cuccetta in basso a sinistra, mentre la mia compagna si sistemò sopra di me.

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Di fronte a noi nella brandina di sopra già s’era sistemata una straniera rumena o polacca la quale la sua sola fortuna, come vedremo, fu di non conoscere la nostra lingua. Dunque c’eravamo già sistemati e nell’attesa che il treno partisse c’eravamo messe a mangiucchiare: io noccioline, la mia compagna mele renette e arance vaniglia fuori stagione, di cui ad ogni costo voleva offrirmi qualche spicchio, ma io al solo pensiero di mettere in bocca un pezzettino di quello mi veniva il voltastomaco. Già erano passate un paio d’ore dall’ora stabilita per la partenza e di partire non c’era neanche sentore. Quindi, dopo aver mangiato ed essere andata alla toilette, m’ero messa buona buona a leggere un libro che avevo portato con me “I racconti di Gautier” dove fantasmi, colpi di scena, iettature, mummie, streghe, eruzioni vulcaniche, terremoti e disastri di ogni genere avvincono il lettore trasportandolo in un mondo surreale, ignara certo che nelle ore a venire sarebbero acca-duti eventi altrettanto sorprendenti, per non dire di più. Passato il controllore, questi chiese i biglietti: io subito mostrai il mio, ma la mia amica con una risata tipica di lei, un po’ ironica e un po’ nervosa, dopo aver frugato nello zainetto, lo estrasse esclamando:

‹‹Eccolo!››

ma non si limitò a ciò, intrattenne quello con argomen-tazioni socio-economiche-affettive:

‹‹Di là, nel vagone più avanti, della gente derelitta se ne sta ammassata come bestiame! Senza la possibilità di sedersi neanche a terra! Questo non è giusto! Anzi è indice di grande inciviltà e disumanità considerando che in questo vagone di prima classe numerosi scompartimenti sono vuoti! Quella gente può benissimo trasferirsi qui!››

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Il controllore, allora, cominciò a preoccuparsi e ripetere che ciò non era assolutamente possibile, che era proibito dalla legge. Ma si preoccupò ancora di più quando la vide alzare la maglietta scura che aveva addosso e mettere in mostra una maglietta rossa che aveva sotto con una scritta nera – LA MAFIA UN SACCO DI MERDA – esclamando:

‹‹Lei non sa chi sono io!››

A questo punto il disgraziato non ebbe dubbi, si trovava di fronte ad una squilibrata e quindi pensò bene di darsi alla fuga pronunciando parole sconnesse come:

‹‹Si, si ho capito. Ha ragione. Così è!››

Questa scena s’era svolta sulla soglia del nostro scompar-timento: io ero rimasta attonita, seduta nella mia brandina, mentre la Carla, dopo questo edificante e sereno colloquio, chiuse la porta a soffietto con una delicatezza che vi lascio immaginare. Comunque sembrava dopo poco essersi calmata e si pose a sedere nella brandina di fronte a me borbottando sottovoce ma in modo che io la sentissi ed approvassi – Bastardi. Sono dei gran bastardi! Da parte mia non c’era alcuna approvazione ma finsi di assecondarla, nello stesso tempo però la invitai a considerare che era fuori luogo prendersela con un semplice impiegato dello Stato e che le ingiustizie partono dall’alto e che quello non era certo il luogo e il momento per protestare. Dunque seguì un’apparente calma ed io sperai che ora fosse arrivato il momento di andare a nanna, ma subito capii che quel momento l’avevo pensato io nella mia fervida fantasia, alla mia amica questo pensiero non la sfiorò minimamente. Infatti la Carla s’alzò e corse difilato giù per il corridoio in cerca dei suoi compagni, come lei li chiamava e, della sua amatissima figliola Marta (così si chiama quasi a significare la

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dolcezza e la mestizia del personaggio biblico che assieme a Maria scoprì la tomba di Gesù) che condusse con sé tirandola per mano fino al nostro scompartimento: la spingeva dentro strappandole lo zainetto che aveva sulle spalle e buttandolo sulla brandina sopra di me, la sollecitava su per la scaletta per prendere ivi posto. Intanto le andava ripetendo che tutto ciò era suo diritto e che quindi non doveva avere né remore, né timori di alcun genere, in quanto anche lei povera, anche lei vittima del sistema come i compagni che aveva lasciato nel derelitto vagone. Dopo aver sistemato la sua creatura anche lei si mise a letto ed anch’io provai a distendermi e a chiudere gli occhi col proposito di dormire fino al mattino quando saremmo giunti, finalmente, nella “Città Eterna” ma vana fu la mia speranza, infatti m’ero appena appisolata quando sentii bat-tere forte alla porta e una voce femminile tuonare da sembrare un’autentica SS

‹‹La sua figliola è lì? Lì non può stare. Apra! La sua figliola deve scendere, altrimenti deve pagare il biglietto. Se non ha il biglietto scenda subito alla prossima stazione!›› imperò.

‹‹Ma, non è qui!›› gridò lei

‹‹Allora dov’è?›› gridò più forte l’altra

‹‹E che ne so io››

‹‹No, è lì!››

‹‹Le ho detto che non c’è›› e giù di lì per un po’: quella a dire che c’era, l’altra a rispondere che non c’era.

‹‹Apra la porta! Apra la porta!›› quella continuava isterica.

La Carla intanto s’era alzata e fingeva di aprire la porta ma in realtà la teneva stretta con il chiavistello e la scuoteva

‹‹Non si apre, non si apre!›› gridava e quella ‹‹Apra, apra!››

e l’altra continuando a scuoterla ‹‹Non vede che non si apre!››

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Non so quale buon Dio intervenne poiché quella desistette e si allontanò. Io nel frattempo m’ero messa a mezzo letto assistendo alla scena apparentemente imperterrita, ma inti-mamente turbata.

La Marta, forse molto più giudiziosa della madre, prese il suo zainetto e scese la scaletta e domandò se non fosse il caso di tornare al suo posto, ma prima di avere risposta era già in corridoio per tornare sui suoi passi, lasciando la porta spalancata. Ma quella megera la vide allontanarsi e af-facciandosi sulla soglia domandò:

‹‹Ma quella ragazza non è la sua figliola? Non mi aveva detto che non era con voi?›› e Carla sfacciatamente:

‹‹Io, io non ho detto niente! È lei che ha capito male››.

Ora non ricordo bene, ma credo che fosse tornato un po’ di silenzio, le luci s’erano spente ed ero riuscita ad ad-dormentarmi, la stanchezza aveva avuto il sopravvento: Morfeo m’aveva preso la mano ed ora stava per portarmi nella profondità del sonno. Ma non giunsi a destinazione perché un forte rumore mi fece svegliare di soprassalto e una voce concitata accompagnata dal battito ripetuto delle mani mi diceva:

‹‹Svegliati, alzati, fai posto, abbiamo degli ospiti››.

Io mi misi a sedere e prima che comprendessi passarono degli attimi. La Carla aveva portato dal quel famigerato vagone, di cui parlo sopra, tre persone tutte di sesso maschile di varia età: una giovane dal volto affilato, dolce e occhi cerulei, timidi; una di mezza età, barba brizzolata e occhi nerissimi, bassa e muscolosa; l’altra vecchia, piccola e zoppa che si aiutava con un bastone.

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Me le vidi entrare: sedersi nella brandina in basso di fronte a me le prime due; distendersi nella mia brandina la terza; poiché, ripresami dopo un po’ dalla sorpresa, io m’ero alzata ed uscita fuori in corridoio senza fiatare, come se tutto ciò fosse giusto e doveroso da parte mia.

‹‹Non hanno dormito tutta la notte›› continuava a ripetere la voce di Carla ‹‹Anche loro hanno diritto ad un letto ed ad un po’ di riposo››.

E così fu che, dopo avere speso le mie 45 euro, io mi ritrovai a passare quella notte terribile che ho già descritto, ma questa riflessione la feci molto tempo dopo, perché allora mi sembrò di essere entrata in uno stato di semincoscienza. Le ore diurne che seguirono è meglio non descrivere, altre peripezie si susseguirono a quelle notturne già trascorse.

Scese alla stazione romana, la mia deliziosa amica mi piantò letteralmente dicendo:

‹‹Io vado con i miei compagni››

indicando per compagni tutti coloro che avevano vegliato e penato con lei durante il viaggio in treno. Così alla mani-festazione mi trovai da sola passando di piazza in piazza ed aggregandomi ora a quello, ora a quell’altro gruppo, intanto chiedevo a qualcuno qualche delucidazione e sulla manife-stazione e sulle origini storiche di stele, monumenti, chiese; ad ogni sosta chiamavo la mia Carla per sapere dove raggiungerla, ma non facevo in tempo ad arrivare a destinazione che lei da lì s’era spostata, finché nell’ultima piazza meta di adunanza di tutti i manifestanti: ‹‹Finalmente sei arrivata, ma dove t’eri cacciata!›› vedendomi mi apostrofò, seduta su un muretto. Io scrollai un po’ le spalle e non dissi nulla, mi sedetti anch’io vicino a lei lì, nell’immensa piazza “Venezia”, come avevo

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appena appreso da un gruppo di ragazzi con bandiere rosse sventolanti nel cielo azzurro. Diedi uno sguardo tutt’intorno: di fronte un lungo festone giallo con una scritta verde – VIVA

LA PACE ABBASSO LA GUERRA!

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PARTE QUARTA

VIAGGIO DELL’EROS

La tua pelle è impasto di pietra e zolla scure

di questa terra ammaliatrice. I tuoi occhi sono l’imbrunire

quando l’ultima luce d’arancio si spegne nella notte buia.

La tua voce mi giunge da un remoto lontano

come dagli abissi di zaffiro e corallo. Io accarezzo, guardo, ascolto

e mi perdo. 8 M I P E R D O

di Assunta Coppola - Pantelleria (estate 2009)

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PARTE QUINTA

VIAGGIO IN GIALLO

S’era vestito di nero non disse scusa non disse grazie

scompariva nel vicolo buio ombra nell’ombra.

9 da O M B R A N E L L ’ O M B R A

di Assunta Coppola - Pantelleria (inverno 2009)

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PARTE SESTA

VIAGGIO NEL MISTERO

.....ora l’Elfo si posa nella notte

tra veli bianchi ma......tu profumi di rosa

di un’aurora antica. 10da K A L Ó S M U S A

di Assunta Coppola

Castellammare del Golfo (autunno 2008)

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VI A GG I O N EL MI ST ER O 53

ROBERT E LE API

♫… Mastica e sputa da una parte è i l miele mastica e sputa dall’altra la cera... mastica e sputa prima che venga neve... ...ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena e se lo sa mio padre mi metterò in cammino se mio padre lo sa mi imbarcherò sul mare ho mostrato il coltello la mia maschera di gelso ...♫

Una voce squillante al telefono era quella di Angelo.

‹‹C’è uno sciame nella mia casa di campagna, sotto la tettoia... sa’ quanto miele potremmo recuperare!››

e così si avviarono Diego, l’esperto apicoltore ed Angelo l’esperto investigatore: Angelo avanti col suo gippone e Rosangela, la sua rigogliosa e spagnolesca compagna, Diego dietro con la Ford e un ragazzo del Ghana alto corpulento nero col cranio lucente rapato e labbra rosee carnose che se ne stava con occhi piccoli inquieti a guardare la strada tenendosi aggrappato alla maniglia con il pugno destro.

La campagna si estendeva varia di frutteti e vigneti, l’uva era stata raccolta ed ora i tralci se ne stavano spogli col loro fogliame pallido.

VI A GG I O N EL MI ST ER O 54

Si fermarono sullo spiazzo di terra battuta davanti la casa dipinta di bianco, tra le tegole rossicce ronzavano le api in un andirivieni minaccioso e frenetico.

‹‹Vieni, vieni Robert. Esci fuori!›› e Robert così usciva fuori: una polvere biancastra sul capo, le braccia nude, una scopa in mano. Angelo e Diego erano lì con i loro scafandri bianchi e il reticolo delle maschere sul volto. ‹‹Prendi il mio cellulare e fai una foto Robert! Dai, io e Diego vogliamo eternare questo momento, guarda come siamo simpatici!›› incalzava Angelo e già erano in posa in una simbiosi di maschere e tute spaziali. ‹‹Aaaah…Aaah….Aaah›› urli terrificanti si levarono dalle labbra di Robert diventate paonazze ‹‹Aaaah….Aaah…Aaah…›› buttava la scopa in aria e correva correva all’impazzata lontano da quei mostri lontano da quegli “alieni”, attraversava campi di stoppie e terra nuda di zolle dure saltellava da un ciottolo all’altro di rigagnoli, attra-versava un torrente pieno delle prime acque ‹‹Aah…Aaah…›› continuava. Le nubi s’erano fatte basse.

‹‹Noi volevamo solo una foto!›› gridavano Angelo e Diego che s’erano messi sui suoi passi ancora con i loro abiti da lavoro ma quello era sparito, ma che dico, era schizzato via come preso da una furia diabolica senza senso senza ragione. Dopo aver percorso chilometri e chilometri in aperta campagna si ritrovava, senza sapere come, lungo una strada asfaltata. Di fronte a lui un gruppo di case grigie sembravano arrampicarsi su su fino in cima di una altura, si sedette esausto addossato al guard-rail: ha gli occhi sbarrati le guance

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emaciate, si guarda le mani - le unghie violacee, i jeans che indossa sono schizzati di fango i calzari fradici. Angelo e Diego comprendono che è inutile inseguirlo ancora e dopo aver percorso circa cinquecento metri desistono e tornano a casa, si tolgono le maschere con lentezza, hanno un peso nel cuore, rimangono a lungo in silenzio, un misto di senso di colpa e rabbia è dentro di loro. – In che cosa abbiamo sbagliato perché quell’idiota è scappato e se gli fosse successo qualcosa?

Prendeva Angelo il cellulare e chiamava... e chiamava ma dall’altra parte, nulla, nessun segno di Robert nessun segnale giungeva dal suo telefonino. Allora sempre più nervoso telefonava alla sua compagna che aveva lasciato nella vecchia casa dei suoi genitori appena fuori il paese

– Ah quanti dolci ricordi! L’altalena di legno legata con corde grosse di iuta a due secolari ulivi e lui dondolarsi, freneticamente, voleva raggiungere il cielo azzurro, pantaloncini corti a mostrare croste e crosticini alle ginocchia. ‹‹Fai p iano Angelo !›› la voce della madre giungeva dolce e sollecita lì dalla soglia: annodava la tenda di cotone dai grandi girasoli, sostava un po’ trasognata tra rovi di rododendro e more. –

‹‹Pronto, pronto hai notizie di Robert?››

‹‹Di Robert? Sei impazzito? Chiedi a me di Robert? Non l’ho lasciato con te?››

‹‹Te l’avevo detto, il cuore mi parlava ti avevo detto che non era il caso di portare con noi Robert stamane! Questo perché non mi ascolti mai. Devi imparare ad ascoltarmi una volta per tutte!››

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la voce concitata giungeva all’orecchio di Rosangela che cercava di difendersi

‹‹Hai perso Robert ed ora la colpa è mia? Ma vai a quel paese non m’importa niente né di Robert né di te e delle tue manie da buon samaritano!››

la telefonata si interrompeva bruscamente.

Ascoltava e non parlava Diego, d’altronde è sempre stato di poche parole, ma vedendo Angelo senza pace andare su e giù come un’ape disorientata diceva:

‹‹Vedrai che ben presto avremo notizie di lui, qualcuno lo troverà prima o poi!››

E così fu, arrivava una telefonata

‹‹Qui caserma dei carabinieri di…parla il maresciallo…ab-biamo trovato un ragazzo sotto shock sulla statale…dice di chiamarsi Robert, lo conosce?››

‹‹Si, siii Robert Robert vengo subito!››

E così andavano Angelo e Diego a riprendersi Robert.

‹‹Ma come ha fatto a raggiungere…? É distante da qui circa cinque chilometri! Questo ragazzo cosa ha nelle gambe? Dinamite?››

Per tutto il tragitto in macchina continuava a rimuginare sul fatto che lui gli aveva chiesto - Solo una foto ricordo, che cosa c’era di male? Perché quel benedetto ragazzo aveva avuto quella reazione così spropositata?

Giunti a destinazione ed entrati nell’ufficio del maresciallo che se ne stava seduto alla sua scrivana con aria seria e compunta, dopo un laconico “buongiorno” Angelo pur vedendo Robert seduto su una panca, il capo chino tra le mani, sempre con lo stesso tono di prima lo aggrediva:

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‹‹Ma che scherzi son questi mi vuoi far morire di crepa- cuore?››

‹‹Il ragazzo è ancora sotto shock non lo stressi, la prego! Hanno bisogno di tutta la nostra comprensione questi ragazzi per integrarsi, per…..››

il maresciallo interveniva ma Angelo non lo seguiva

‹‹Mi scusi, non ci siamo presentati io sono Angelo…… investigatore privato modestamente di una certa fama e il mio amico è Diego….. provetto apicoltore, noi volevamo solo una foto ricordo con indosso sa quelle tute strane che servono a proteggere dalle punture delle api perché lei deve sapere che sotto il tetto della…››

e stava cominciando a raccontare a ruota libera come era suo solito

‹‹Si prenda il ragazzo e vada!›› lo interrompeva il maresciallo

‹‹Prima che piuttosto investighi io, per sapere in verità come sono andate le cose!››

‹‹È stato un vero piacere›› all’unisono Angelo e Diego.

E presero sottobraccio Robert, uscirono in fretta. L’aria bruna e fredda li investiva.

‹‹Raggiungiamo Rosangela che starà in pensiero! Sai che per colpa tua ho litigato con lei? Non è colpa tua, non è colpa di nessuno›› si correggeva e poi dolcemente:

‹‹Che cosa ti è successo Robert?››

‹‹Paura, paura, quelli cattivi mi volevano male››

finalmente parlava ma era ben chiaro che ancora non per-cepiva bene la realtà.

Profondo silenzio nell’abitacolo dell’automobile: Angelo alla guida e Diego accanto, Robert nel sedile posteriore. Chiudeva

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gli occhi Robert, il capo reclinato sullo schienale, negli occhi e nel cuore uomini bianchi mascherati uscivano dal buio: uno, due, tre…. e pugni e calci e sputi sul suo grande corpo indifeso disteso sull’asfalto

– Sporco negro merda di un negro carogna di un negro

e poi tutti insieme ad infierire sul suo povero corpo ancora con sputi e calci negli stinchi in faccia nei genitali, uno di loro aveva estratto un coltellino a serramanico un attimo e…. il suono di una sirena…. fuggivano via, poi il “nulla”.

Guardavano la strada Angelo e Diego, negli occhi e nel cuore tra le tegole rossicce ronzavano le api in un andirivieni frenetico e minaccioso.

Lontano luccicavano sul pendio le prime luci della sera.

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EP I LO G O

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11 N E L L A M I A T E R R A

Nella mia terra ci sono ancora

cieli tersi e il sole è caldo

m’inebria all’imbrunire il profumo dei gelsomini.

Nella mia terra i mari hanno ancora

acque chiare mi danno la tenerezza che non so afferrarti carezze sulla pelle

che non mi dai baci sulla bocca

carpiti in momenti d’estasi d’amore.

di di Assunta Coppola - Scopello (estate 1974)

GIOVE È ENTRATO NELLA COSTELLAZIONE DEL LEONE

Tornavo al lido, come ero solita, il sole compariva e scompariva tra nuvole grigie quel mattino.

La baia si estendeva ampia e calma racchiusa: sulla sinistra da una costa rocciosa, su cui abbarbicati e fitti si sporgevano i pini marittimi con le loro chiome ad ombrello, che scendeva giù a

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formare nella punta estrema come un coccodrillo affiorante col suo dorso rugoso; sulla destra da una rupe a picco e vicino alla riva, qua un masso dalla forma di grosso topo immergeva il muso appuntito nell’acqua schiumosa, là un balenottero sem-brava si fosse ancorato dopo aver perso la sua rotta.

Il giorno prima aveva imperversato un vento forte di scirocco e il fuoco s’era levato alto e devastante: bruciava arbusti e teneri olivi, bruciavano cespi di margherite gialle frammiste a papaveri e spine bianche a valle, bruciava il boschetto di leccio e pioppo sui monti. Ora distese di nero, vedevo, dall’una e dall’altra della car-reggiata: giù verso il mare, sterpaglia rasata dove prima ros-seggiava la sulla e le pecore brucare beate; rami rinsecchiti come braccia protese su su per i monti fino alle cime. Le fitte siepi spinose aggrovigliate delle more, che per lungo tratto costeggiavano la strada, erano state risparmiate dal fuoco come se avessero lottato con questo e ne fossero uscite vittoriose e cosi sentivo insieme meraviglia e gioia dentro di me. Avrei voluto raggiungere il borgo ma tornavo indietro verso il mare, triste. Avrei fatto un bagno rinfrescante e preso il solito caffè al lido di Samuele. Mi avrebbe servito ossequioso e garbato − Buongiorno signora. Vuole anche il cornetto? Alla crema, al cioccolato, alla marmellata, vuoto?

− Si, vuoto − avrei risposto distratta.

Gli ombrelloni a strisce verdi e arancio e le sedie rosse con scritte pubblicitarie bianche MORETTI ALGIDA sembravano attendermi, mi sedevo, ero la prima ero la sola, si sedeva anche lui più giù, si girava ogni tanto verso di me. Sfogliavo il mio libro apponendovi qualche correzione − Chissà cosa pensava!

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Sorseggiavo il mio caffè, parlavo al telefono con Marilù lei mi capiva e con fare di madre premurosa mi dettava regole di comportamento, mi suggeriva persino le parole che avrei dovuto pronunciare in “questo” o “quel” frangente. Mi rincuorava ad avere pazienza. “Fra non molto l’editore avrebbe dato il via alla pubblicazione del libro”. − Il cuore batteva ad entrambe: lei aveva adottato i miei scritti come anche sue creature.

Quando chiudevo, un senso di solitudine mi attanagliava e sensi e desideri mi assalivano. Ma Giove era entrato nella costellazione del Leone e, io essendo nata sotto l’egida di questa, mi avrebbe dato determinazione, forza e potere di liberarmi completamente dalle mie catene, dalle mie remore e paure. Prendevo svelta la mia borsa di paglia e il cappello che avevo poggiati sul tavolo, nell’acqua chiara e fredda avrei annegato le mie inquietudini. ‹‹Arrivederci›› passando dal bar salutavo ‹‹Arrivederci›› rispondeva. Indugiavo un po’, aspettavo che aggiungesse qualcosa − Chissà cosa! − ma sentivo che le parole gli soffocavano in gola, ne percepivo un sottile mugolio.

Ma Giove era entrato nella costellazione del Leone, mi aveva affinato sensibilità e percezione come mi avevano detto gli “esperti” o così volevo credere, ma soprattutto mi dava la tenacia, la perseveranza, la voglia di ricominciare; l’ottimismo della giovinezza e, perché no, la voglia di rinnamorarmi.

Il bagno mi rincuorava e così mi premiavo fumando sulla riva una sigaretta, intanto osservavo la linea dell’orizzonte così perfetta, così nitida dove una vela in bilico andava, fino a scomparire lentamente al di là; a volte giungeva un gabbiano dal

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mare e chiudeva le ali proprio vicino a me, si soffermava un poco, mi guardava, non aveva paura e riprendeva il volo; mi sdraiavo allora sulla ghiaia bianca, guardavo una nuvola candida espandersi sopra di me, così prendevo dalla terra e dal cielo energia per il mio corpo, per la mia anima: Giove era entrato nel segno del Leone. Passeggiavo sui sassi lucidi e lisci, a tratti le onde mi in-vadevano i piedi e le caviglie. Da un lato osservavo il mare di un celeste intenso, dal lato opposto l’artemisia spuntare a ciuffi con i suoi fiori giallo-pallido sporgente dalla parete calcarea della baia.

La baia era piena di lidi: ombrelloni e sedie a sdraio a strisce azzurre e bianche, più in là tutti d’un blu intenso; ritornavo sui miei passi, anche dal lato opposto scialbi ombrelloni beige e arancio-spento. Mi fermavo nel “mio” lido, mi appariva più allegro e vivace di prima. Samuele ora, era sceso ad aprire le sedie a sdraio a qualche sparuto turista, sembrava che l’estate non volesse ripartire pur essendo giugno inoltrato; lo osservavo di bieco, non si girava a guardarmi, ma io sapevo che fingeva indifferenza. − Ne dovevo essere lusingata? No, avrei preferito “Più voglia di osare”.

‹‹Una bella signora come lei... rimani ancora un poco... ››

− All’improvviso mi dava del tu! Mi affioravano alla coscienza le sue parole, gli ero riconoscente.

Prima di ritornare indossavo il pareo con un verde prato sullo sfondo e sopra grandi fiori azzurri che avevo comprato giorni prima. Davanti al bar una famiglia di neri con colori e disegni africani nelle vesti, mi soffermavo un poco era una festa vederli: piccoli e grandi uomini e donne.

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Saro, apriva l’armadietto-frigo delle bibite le stappava con destrezza e le serviva dentro bicchieri di vetro trasparente poggiandoli sul tavolo: il liquido giallo prugno rosso languiva dentro di essi. Un giorno gli avevo chiesto di che segno fosse e lui aveva risposto “Sagittario” ‹‹Segno di fuoco›› commentavo e aggiungevo compiaciuta: ‹‹Anche mio figlio è Sagittario›› notavo la sua profonda bontà negli occhi e nei gesti, notavo ancora che sapeva osservare e comprendere.

Entravo nella mia Chevrolet: − Un cornetto alla crema al cioccolato alla marmellata vuoto? − Sempre con la sua voce gentile ed ossequiosa, l’udivo Samuele. Lo intravedevo dentro l’abitacolo del bar − Forse avrebbe alzato lo sguardo, forse avrebbe fatto un cenno di saluto.

La bimba del maghebrino presso cui avevo comprato giorni prima il pareo era sempre lì a giocherellare a piedi scalzi, con un retino stavolta: voleva catturare una farfalla gialla che svolazzava posandosi su un sasso e l’altro, i capelli ricci e lunghi le coprivano quasi tutto il suo esile corpicino racchiuso da un costume intero fucsia. − Quale sarebbe stata il suo destino di donna musulmana, sarebbe stata capace di spezzare il carma della sua etnia, della sua religione?

Il padre l’aveva chiamata un giorno, ricordo, lei aveva at-traversato lo spiazzo del posteggio per giocare più in là. Il padre l’aveva chiamata a gran voce − Jasmine , Jasmine − e rincorsa, afferratala per i capelli l’aveva trascinata allo stand del suo bazar, ma quando aveva allentato la presa lei era fuggita, si era rifugiata sotto il bancone e rannicchiata piangeva a dirotto,

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le mani sul viso, avvolta dai suoi lunghi capelli neri come la notte più scura.

‹‹Che fa?›› gli grido

‹‹È una bambina! Che ha fatto di male?››

Borbottava quello qualche parola di scusa ma io mi allontanavo, avevo l’animo devastato. Giravo la chiave della mia Chevrolet per andare via, Samuele non alzava lo sguardo.

Mio figlio mi apriva il cancello di ferro tinto di verde, aveva arato il terreno del giardino ed ora esalava un profumo di humus rimosso; strappava gli ultimi cespugli lungo il muretto con tutte e due le mani munito di guanti in pelle. Entravo nel viale, scendevo dalla macchina, difilato andavo sotto la doccia, scostavo la tenda, mi accarezzavo mentre l’acqua tiepida scrosciava di getto su di me e un singhiozzo si confondeva con quello; la crema al gelsomino era sulla mensola, l’accappatoio azzurro mi avvolgeva, mi sedevo sullo sgabello di legno, mi cospargevo con quella

♫...Via via vieni via con me entra in questo amore buio pieno di uomini… entra e fatti un bagno caldo c’è un accappatoio azzurro… fuori piove un mondo freddo… it’s wonderfoul... it’s wonderfoul...♫

canticchiavo, l’essenza di gelsomino m’inebriava.

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Ringraziamenti Un riconoscimento ed un r ingrazi amento al mioeditore Ernesto Di Lorenzo.

ai miei collaboratori e a tutti i miei lettori

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12 N A R C I S I

Mi sono alzata stamane scostavo la tenda

sul terrazzo i narcisi erano rifioriti ne aspiravo l’odore

aspiravo la vita. di Assunta Coppola - Alcamo (autunno 2013)

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.INDICE .

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PLAY - LIST 77

IN D I C E DEI BRANI M U S I C A L I Versi citati: Pag.

Migliaia di corpi … .............................................................36 da: Il Branco - dei Litfiba dal volume Insidia - undicesimo album - 2001

Tuppititiritituppiti ..................................................................31 testo di Iolanda Vocalebre dall’album Isola Dea - 2004

Lucy Africa Lucy madre Lucy amnios… ..............................31 da: Lucy testo di Iolanda Vacalebre dall’album Isola Dea - 2004

Lucy in the Sky with Diamonds …………….…...…….……31 dei Beatles - autori Lennon-Mc Cartney ottavo album 1967 Mastica e sputa….… ...........................................................53 da: Mastica e sputa di Cristiano De Andrè Anime Salve 13° e ultimo album - 1996

Via via vieni via con me…… .............................................74 da: Via con me di Paolo Conte - singolo 1981 inserito nell’album Paris Milonga

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INDICE DELLE POE S I E

Pag. 1

da Con fatale lamento .................................................................. 2 A mi o f i g l i o .................................................................... 3 3 da I na r c i s i a p pa s s i t i ........................................................ 7 4 da Q u a le d i o ......................................................................... 9 5 C h e t u p os s a ................................................................. 11 6 L a fa r f a l l a ..................................................................... 30 7 da F og l i a mor ta ................................................................. 38 8 M i p er do ........................................................................ 47 9 da O mb r a ne l l ’ o mbr a ...................................................... 51 10 da K a lós mu s a .................................................................... 51 11 N e l la mia t er r a ............................................................ 63 12 N a r c i s i ............................................................................ 71

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IN D I C E Pag.

Prefazione 1 Nota dell’Autrice 3 PARTE PRIMA 7 VIAGGIO DELLA MEMORIA………….………… 6 PARTE SECONDA 9 VIAGGIO DELL’ANIMA………………………… 9 PARTE TERZA 11 VIAGGIO DELL’UMOR………….….…….......… 111 Cu lu coppu………………………………………… 13 Si è aperta la caccia alla balena…………………… 15 Fatemicapire……………………………………..… 18 La pinna di Alceo…………………………..…….… 20 Le ciabatte rosse……………………………….…… 22 Al supermercato con la suocera…………………... 25 Il branco……………………………………………. 28 Lunch-party………………………..……………….. 31 La zizzania e la mentuccia……………………........ 36 In autunno cadono le foglie………………………... 38 Viaggio a Roma……………………………...……… 40

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I N D I C E

Pag.

PARTE QUARTA 47 VIAGGIO DELL’EROS………….….…………… 47 PARTE QUINTA 49 VIAGGIO IN GIALLO………….….…………… 49 PARTE SESTA 51 VIAGGIO NEL MISTERO………….….…….…… 51 Robert e le api…………………………………..…. 53 Epilogo 61 Giove è entrato nella costellazione del Leone 63 Ringraziamenti 69 Indice dei brani musicali 77 Indice delle Poesie 78

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«Legger e que sto l ib ro è emozionante . Grazi e .

Un gior no qu est i rac conti e poes ie saranno famos i »

Un commento del mio amico coetaneo Pasquale Tocco

da: LA MIA ILLUSIONE di A. Coppola

…non chiedermi di dirti addio / fatti cullare / la ninna nanna sarà il mio pianto / Serberò il tuo sorriso / come un petalo di neve / tra le pagine della mia vita.

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Un commento della mia giovane lettrice pantesca Giulia Lo Pinto

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Memoro sensazioni - emozioni - passioni evocate

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Memoro sensazioni - emozioni - passioni evocate

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Memoro sensazioni - emozioni - passioni evocate

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