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Racconti schizofrenici. Vivere la malattia mentale attraverso gli occhi di operatori, pazienti e fam

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In questo testo, gli autori tratteggiano stralci di vita ed esperienza di persone con sofferenza mentale. Ci si potrebbe aspettare,di leggere asettiche “storie cliniche” per addetti ai lavori, gli autori invece cercheranno di stupire il lettore dimostrando di amare più la “fotografia” che la nosografia. Sono quindici le storie proposte all’attenzione del lettore; vicende concepite con la fantasia ma senza tralasciare l’osservazione effettuata durante il lavoro sul campo. Nei racconti, eventi e situazioni, stati d’animo ed emozioni danno vita a vicende personali dove il lettore potrà cogliere alcuni aspetti della patologia. Ogni storia ha peculiarità proprie, ma hanno tutte come denominatore comune lo scompiglio non solo della vita familiare, lavorativa e sociale del paziente, ma anche di quella degli operatori coinvolti nel percorso riabilitativo.

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A Tu per Tu

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Stefano PorcuBruno Furcas

RACCONTISCHIZOFRENICI

Vivere la malattia mentaleattraverso gli occhi di operatori, pazienti e familiari

Introduzione di Alberto Santoru

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Prima Edizione: 2015

ISBN 9788898037841© 2015 Edizioni Psiconline - Francavilla al MarePsiconline® Srl66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/ATel. 085 817699 - Fax 085 9432764Sito web: www.edizioni-psiconline.ite-mail: [email protected]

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I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’in-serimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi.

Finito di stampare nel mese di Giugno 2015 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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INDICE

Introduzione (a cura di Alberto Santoru)

Una rifl essione prima di addentrarsi nel mondo del disagio mentale (a cura di Stefano Porcu e Bruno Furcas)

L’avvelenamento

Le voci mute

Vade retro Satana

Il coraggio di suonare

Cala il sipario

Genio e sregolatezza

Controllare, analizzare, ispezionare

Gli infami

Massimo Venturi

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La simbiosi

L’infermiera

Il mio fl ashback

Sepolta in casa

Teoria del complotto

Teoria del caos

Una testimonianza per concludere (a cura di Alessandro Lavena)

Autori

Illustrazioni di Emanuele MusiuImmagine di copertina di Stefania Cuccu

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INTRODUZIONE

Quando un educatore e uno psicologo decidono di raccoglie-re, attraverso dei brevi racconti, delle storie che tratteggiano stralci di vita ed esperienza di persone con sofferenza mentale, ci si potrebbe aspettare, con giustifi cata apprensione, di leggere quelle asettiche “storie cliniche” per addetti ai lavori, così in-grate nel restituire la dimensione personale, inquietante, tragica e profondamente inconoscibile dello sconvolgimento che una percezione distorta di se stessi, degli altri, della realtà provoca nell’esperienza soggettiva di chi soffre di un disturbo mentale.

Gli autori ci stupiscono piacevolmente perché, postisi di fronte a questo compito, mostrano di amare più la “fotografi a” che la nosografi a.

E si sa che le foto, quando sono fatte con arte, pur non essen-do la realtà e “tutta” la realtà, trasmettono colori, suoni, sapori e sensazioni perché hanno il potere di evocare ricordi, impressioni, immagini, rifl essioni, bypassano conoscenze e razionalità. Così parlano al nostro cervello emotivo, che non è solo il luogo dove si alimentano istinti e passioni ma anche la sorgente dell’empa-tia, del “sentire” aprendo all’ascolto di se stessi e degli altri.

In questi brevi racconti si colgono delle prospettive esperien-ziali: i familiari, gli operatori, raramente i pazienti, perché il loro vissuto è inesprimibile per l’osservatore. E questo approccio

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“fotografi co”, dove la scelta dell’angolatura appare dichiarata, è il contrario della mistifi cazione, della supponenza del letterato e lascia al lettore la possibilità di ricevere una impressione asso-lutamente personale.

Gli autori manifestano la loro capacità umana e professionale nella sensibilità che mostrano nel cogliere soprattutto le atmo-sfere, gli sfondi, i particolari apparentemente insignifi canti, in grado di trasmettere il loro vissuto della “malattia”.

Alle volte non riescono a nascondere di essere parte della fo-tografi a e neppure, probabilmente, lo vorrebbero.

Essere operatori della salute, cioè persone che promuovono la salute, che accompagnano chi soffre, implica necessariamente una contaminazione della propria vita con quella di chi viene, in qualche modo, assistito. Contaminazione virtuosa che gioca sul fi lo di una partecipazione amorevole e sapiente tra il baratro dell’ipercoinvolgimento e l’abisso del cinismo.

È sul fi lo dell’ascolto, della professionalità che sa donarsi con umiltà e rispetto, che alle volte può denunciare la sua impotenza ma non perde mai la speranza, che è possibile accostarsi, come fanno gli autori con i loro racconti, a una narrazione di storie che sono frammenti della nostra condizione umana.

Un’altra notazione riguarda la sensazione che rimane dopo aver letto i racconti che non sembrano prevedere un “lieto fi ne”, ma si interrompono spesso trasmettendo un senso di angoscia e impotenza.

Eppure proprio questo sentimento ci racconta di una ritro-vata umanità che può fi nalmente “ascoltare” e prendersi cura dell’altrui sofferenza. Chi non ricorda ancora bene la rimozione collettiva che ha visto negli Ospedali Psichiatrici la cattedrale dell’esclusione dei sofferenti mentali?

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RACCONTI SCHIZOFRENICI

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Gli autori, forti dell’esperienza “sul campo”, a contatto quoti-diano con la realtà delle persone con sofferenza mentale e con le loro famiglie, fuori dagli ambulatori o da privilegiate oasi di os-servazione, manifestano tutta la drammaticità dell’impatto con una problematica complessa che richiede risposte articolate che coinvolgano servizi psichiatrici, familiari, utenti, associazioni, agenzie sociali e richiedono politiche sociosanitarie che ricono-scano la caratteristica multifattoriale dei disturbi mentali.

Alberto SantoruPsicologo, Psicoterapeuta.

Responsabile della SSD “Servizio Riabilitazione, Residenzialità e Semiresidenzialità”

del Dipartimento Salute Mentale della ASL Cagliari.

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UNA RIFLESSIONE PRIMA DI ADDENTRARSI NEL MONDO DEL DISAGIO MENTALE

Prima di iniziare la lettura di questo testo è per noi doveroso fare una piccola rifl essione che inviti il lettore ad andare oltre la patologia, il disturbo, la cartella clinica e si predisponga con animo sereno ad accogliere totalmente le persone rappresenta-te dai personaggi delle storie il cui comportamento non deve sempre essere ricondotto alla sua patologia e alla sua diagno-si. Certo, la fi nalità di questo libro è anche quella di descrivere alcune sfaccettature della malattia mentale, attraverso lo stru-mento della narrazione, ma non può e non deve essere solo ed esclusivamente questo. Sono quindici le storie proposte all’at-tenzione del lettore; vicende concepite con l’immaginazione e la creatività ma senza tralasciare gli spunti tratti dall’osservazione effettuata durante il nostro lavoro sul campo. Con lo strumento del racconto abbiamo voluto ricostruire le possibili esperienze di vita delle persone affette da sofferenza mentale grave, dei suoi familiari e degli operatori che in prima linea condividono con questi ultimi percorsi di fatica, di sofferenza e spesso di ostina-ta determinazione. Parallelamente abbiamo voluto far affi orare alcuni lineamenti della malattia mentale così come può manife-starsi agli occhi della società. Nei racconti, eventi e situazioni, stati d’animo ed emozioni danno vita a vicende personali dove il lettore potrà cogliere alcuni aspetti della patologia, da diverse prospettive, potendo così rifl ettere sulla diversità e sulla com-

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plessità della malattia e sulla variegata costellazione dei disturbi ad essa correlati.

Nei racconti emergono disturbi psicotici e psichiatrici, le in-quietudini e le angosce dei pazienti, oltreché deliri, ossessioni, paranoie, insomma tutte quelle situazioni che purtroppo si verifi -cano quotidianamente in numerose famiglie, e le diffi coltà delle varie professionalità che si trovano a dover affrontare e gestire, in modo diretto o indiretto, questa tipologia di disturbi. L’Or-ganizzazione Mondiale della Sanità (OMS) defi nisce la “salute mentale” come “uno stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità co-gnitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società e rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno”.

I racconti mostrano come questo “stato” di funzionamento, in un momento particolare dell’esistenza di un individuo, possa venire a mancare. Quella condizione, precedentemente citata, di benessere emotivo e psicologico, nei pazienti viene sostituita da uno stato di disagio conclamato, di sofferenza psicologica e mentale. Conseguentemente le capacità cognitive ed emozionali della persona funzionano in modo anormale, sono alterati e di-storti, insomma sono lontani dalla realtà. Così come aliena dalla concretezza diventa la capacità di creare relazioni soddisfacenti con altre persone, essere consapevoli della propria situazione, adattarsi alla realtà e alle circostanze (seppur diffi cili e anguste) e poter vivere in modo autonomo.

I disturbi mentali gravi sono caratterizzati da una pluralità e complessità di sintomi. La persona che ne è affetta diventa spesso indifferente e insensibile verso l’oggettività e reagisce in modo incoerente alle sue stimolazioni. Per una serie di motivi risulta complesso esprimere il concetto di malattia mentale at-traverso una singola defi nizione.

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Ogni storia narrata ha caratteristiche e peculiarità proprie, ma hanno tutte come denominatore comune lo scompiglio non solo della vita familiare, lavorativa e sociale del paziente, ma sempre più spesso anche quella degli operatori socio-sanitari coinvolti nel percorso riabilitativo. Insomma, la psicosi è sicuramente una delle malattie più disarmanti, più sfi ancanti e logoranti con cui spesso si trova a convivere l’uomo.

Il libro non è un manuale diagnostico e non può essere uti-lizzato in tal senso, ma vuole sicuramente essere e rappresentare uno strumento per tentare il superamento del pregiudizio e pro-muovere nella nostra società il cambiamento di quell’atteggia-mento mentale e culturale che continua a relegare ai margini i “diversi” e invitare tutti coloro, che hanno il coraggio di osare, a procedere “in direzione ostinata e contraria” come ci ha insegna-to Faber che dei “matti” ne ha cantato le gesta.

“La libertà è terapeutica” recitava uno striscione appeso nei cancelli dei manicomi che venivano appena aperti. Il nostro au-spicio è che quella libertà ci aiuti a superare i preconcetti. Que-sto libro nelle nostre intenzioni, in tale direzione, vuole rappre-sentarne un modesto tentativo.

Stefano e Bruno

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L’AVVELENAMENTO

Anche la follia meritai suoi applausi

Alda Merini

Da anni non vedevo un mese di giugno così caldo. Ero madida di sudore men-tre stendevo la biancheria sulla piccola veranda. So-litamente quassù, soffi ava una leggera brezza fresca che rinfrancava l’anima e lo spirito. Il giorno, invece niente... neppure un alito di vento. Erano le undici del mattino e fi nalmente rientrai dentro casa, l’afa era davve-

ro opprimente. Prima di darmi una rinfrescata al viso, mi ab-bandonai un momento in una poltrona vecchia e sgangherata, sistemata in un angolo un po’ ritirato della cucina per non sto-nare con gli altri mobili, non certamente di lusso, ma dignitosi. Guardavo fuori dalla fi nestra con aria pensierosa e assorta, mi lasciai trasportare da una piacevole rilassatezza. Quasi mi appi-solai. Dei passi mi ridestarono dal leggerissimo sonno. Carlo mi

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si parò davanti agli occhi ancora intorpiditi. Non avevo sentito i suoi passi e mi spaventai. Non credevo ai miei occhi. Non sem-brava più il mio Carlo, sempre ordinato, sempre impeccabile. Quel giorno, invece, non aveva niente al posto giusto. Era così buffo che mi lasciai andare a una sonora risata. Era un burlone, e ogni tanto me ne combinava una, per questo pensai a uno dei suoi soliti scherzi. Più lo guardavo e più mi veniva da ridere. Lui invece mi fi ssava serio e imperturbabile. Gli occhi sembravano di ghiaccio, esprimevano distanza, quasi disprezzo. Indossava un maglione pesante, un lungo cappotto di lana e pantaloni in-vernali.

«Ma Carlo non vorrai uscire vestito in quel modo? Siamo in pieno giugno!»

Continuava a fi ssarmi senza dire una parola. Io ero imbaraz-zata, non sapevo più che pensare. Mi sembrava di avere di fron-te un autentico sconosciuto; un estraneo. Rimasi interminabili secondi in silenzio, inebetita. Avevo la percezione che stesse per farmi del male da un momento all’altro. Poi presi coraggio e continuai: «chissà cosa penserà la gente vedendoti vestito in quel modo!»

«Ma non vedi che c’è freddo!» Rispose lui in modo quasi meccanico.

Nella mia mente cercavo una spiegazione ai suoi compor-tamenti: “se indossa il maglione e il cappotto d’estate, allora, probabilmente avrà freddo!” Ma poi il mio pensiero viaggiò a ritroso, sino ad alcuni giorni prima, quando era andato dal gior-nalaio in camicia, cravatta e boxer da mare e poi a fare la spesa nel negozio sottocasa in abito elegante.

Mi sentii gelare, fui presa da un forte sgomento. Cosa stava succedendo a mio marito, a quella persona che avevo conosciuto tanto tempo fa e a cui tutti rimproveravano spesso un eccesso di sobrietà ed equilibrio? Ora invece si era lasciato improvvisa-

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mente andare, si stava comportando in modo veramente insolito. Tentai con tutta la mia volontà di farlo desistere dall’uscire con-ciato in quel modo bizzarro e ridicolo, ma a nulla valsero i miei tentativi. La mia insistenza, anzi, produceva l’effetto contrario.

Poi, ancora impalato davanti a me, stava diventando irascibi-le, collerico, aggressivo. I miei tentativi di persuaderlo si rive-larono inutili.

Carlo, come destandosi da un anomalo torpore, si girò in modo quasi robotizzato, raggiunse l’ingresso e uscì sbattendo vigorosamente la porta. Al frastuono seguì un leggero tremolio delle deboli pareti in cartongesso.

Rimasta sola, mi sentii avvolta da un’improvvisa e lacerante solitudine. La casa che sino a poco tempo prima mi sembrava piccola era divenuta improvvisamente uno spazio smisurato. In quel momento l’assenza dei miei due fi gli, trasferiti in città per studiare, si percepiva come un vuoto incolmabile.

Qualcosa stava cambiando. Carlo non era più lo stesso e que-sto mi creava un profondo malessere. Provavo a stare serena, a convincermi che forse era solo un periodo diffi cile, un maledetto momento di stanchezza. Cercavo di tirarmi su in tutti i modi, ma quel continuo altalenare tra giorni apparentemente normali ad altri vissuti all’insegna della follia mi faceva impazzire. “Forse è il troppo caldo”, pensai.

L’arrivo dell’autunno non servì a rasserenarlo... anzi! Carlo faceva cose sempre più strane. Quando rientrava da lavoro, si guardava attorno in modo insolito, perlustrava la casa come se si trovasse nel terreno nemico di un campo di battaglia. Il suo sguardo era assente e il suo atteggiamento impetuoso.

«Anna, Anna, dove sei?» Mi chiamava con insistenza.«Sono qui Carlo. Sono in cucina, sto preparando la cena».«Chiudi bene la porta! Mi raccomando due giri di chiave!»

Continuava a impartirmi ordini con ansia crescente.

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Iniziai a preoccuparmi seriamente.La mia inquietudine aumentava di giorno in giorno in modo

direttamente proporzionale all’incalzare dei suoi comportamenti anormali.

«Abbassa le serrande della fi nestra, potrebbe entrare qualcu-no», ripeteva ossessivamente tutte le sere.

«Ma Carlo! Non hai mai avuto paura di niente e di nessuno! Cosa ti sta accadendo? Tu stai male... forse è il caso che vada dal dottor Rossetti e gli parli del tuo strano comportamento», gli dicevo con tono amorevole e rassicurante.

«Ti ho detto di chiudere tutto!»«Ma non c’è bisogno. Non è mai entrato nessuno. Viviamo

al primo piano e mi sembra improbabile che qualcuno provi ad arrampicarsi. Del resto, con tutti gli appartamenti al piano terra perché dovrebbero entrare proprio da noi?» Gli risposi con un tono che diventava sempre meno conciliante.

La situazione mi stava estenuando. Ogni cosa che io gli dice-vo per rassicurarlo gli scivolava addosso. Qualunque tentativo di giustifi care le sue stranezze cadeva al suolo come una foglia al vento. Ormai gli eccessi e le stravaganze di ogni giorno rasenta-vano la pazzia.

Un giorno riuscii a coglierlo di sorpresa. Lo invitai a fermarsi un attimo, lo feci sedere sul divano e con premura cercai di farlo ragionare, cercai di fargli capire che forse stava attraversando un momento diffi cile e sarebbe stata cosa giusta parlarne con uno specialista; uno psicologo, un neurologo... non so, qualcuno ca-pace di trovare una spiegazione su cosa gli stesse accadendo, su cosa lo turbasse, su cosa stesse stravolgendo la nostra esistenza.

Ascoltò in silenzio, pareva quasi darmi ragione, assecondava le mie preoccupazioni, ma poi tutto ad un tratto si alzò, mi guar-dò con distacco e pronunciò un secco: «io non sono malato».

Fui sconvolta, calai in un profondo silenzio e non dissi più

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una parola.Trascorsero i giorni, le settimane, i mesi. La solitudine ormai

si era completamente impossessata di me. Non parlavo con nes-suno. Mi immersi con maggior lena nell’abituale quotidianità per tenere lontani i cattivi pensieri. I nostri fi gli non sospettava-no nulla, o facevano soltanto fi nta di non capire, di non sapere. Io, di fatto, non li avevo coinvolti in questa infelice e assurda vicenda.

Quando passavano qualche giorno in famiglia, cercavo di far-gli assaporare una quotidianità “normale”. Quella fatta di cose semplici, come eravamo abituati quando la nostra famiglia con-duceva ancora una vita serena.

“Vostro padre è molto stanco in questo periodo”, rispondevo quando qualcosa li insospettiva. Ma la mia risposta non era suf-fi ciente a placare le loro preoccupazioni e allora incalzavano con giustifi cati dubbi e perplessità, perché in fondo si erano accorti della condotta del padre.

Improvvisamente Carlo cominciò a cucinare per sé. Sebbene restassi tanto tempo fuori casa ho sempre cucinato e badato alle faccende domestiche. Nonostante il lavoro impegnativo non ho mai fatto mancare un pasto caldo sia a pranzo sia a cena. Carlo al massimo si occupava degli arrosti, del barbecue. Da un giorno all’altro, invece, si era avvicinato ai fornelli. Sinceramente devo ammettere che la sua cucina non era male, però non riuscivo a capire, non riuscivo a spiegarmi il perché di questa nuova e im-provvisa passione.

Quando una donna si sente spogliata del suo ruolo domestico inizia a fantasticare e a chiedersi tanti perché. Si chiede soprat-tutto cosa stia cambiando attorno al proprio menage familiare.

Ferita nel mio orgoglio di donna, un giorno non ho retto alla tensione e ho reagito a quella che per me era una vera e propria provocazione.

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Scoppiò una furiosa lite quando una sera, al suo rientro, gli feci trovare la cena pronta.

«Perché hai cucinato tu?» Mi chiese con tono severo, quasi minaccioso.

«Perché ho sempre cucinato io. Non ti piacciono più i miei piatti? Oppure è un semplice dispetto, un capriccio!» Gli risposi sbrigativamente.

Dopo un attimo di silenzio il suo tono cambiò e il suo timbro appariva robotizzato.

«Ho ca-pi-to tut-to. Non man-gio quan-do cu-ci-ni tu».«E per quale motivo?» Risposi, con una certa disinvoltura,

mentre continuavo ad apparecchiare la tavola.«Mi vuoi avvelenare!» Pronunciò lui secco e lapidario.«Ah ah ah!» La mia risata, inizialmente tra il divertito e il

sarcastico, divenne a poco a poco isteria allo stato puro, infi ne... pianto.

«Certo ti voglio avvelenare per l’eredità... peccato che siamo in affi tto e non possiedi un cazzo!» Continuai tra singhiozzi mi-sti a riso e pianto. «Ma tu sei pazzo, veramente pazzo!»

Dopo la mia reazione con uno scatto rapido, lui mi voltò le spalle e sbatté la porta della cucina. Trascorsi il resto della serata in camera da letto. Il giorno non si cenò... e neppure si dormì.

Il giorno dopo cucinò lui. A tavola regnò il silenzio totale.Il confl itto della sera prima non fu risolto ma solo rinviato di

alcuni giorni. Decisi di non dargliela vinta e nei giorni successivi ripresi a cucinare io.

«Forse non mi sono spiegato?» Mi disse interrompendo il si-lenzio che si era protratto per alcuni giorni. «Forse non mi sono spiegato», aggiunse gesticolando energicamente con le mani e parandosi davanti a me in modo istrionico per spaventarmi.

«Guarda che lo so. Mi vuoi uccidere. Mi vuoi avvelenare. Ho visto come mi versavi le pietanze... e quello che ci metti dentro»,

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continuava con crescente aggressività.Andai su tutte le furie e mi scagliai verbalmente contro di lui.

Lo accusai. Lo offesi. Lo umiliai. Ma lui ribatté utilizzando la stessa frase: «non mangio quello che cucini tu». Quella lite fu la più snervante di tutto quel brutto periodo.

Lasciai perdere. Non avevo più energia. Quel clima stava facendo precipitare anche me nella più oscura follia. Era tutto nero, non vedevo neppure un barlume di speranza. Cercavo co-munque di ritrovare l’equilibrio per affrontare al meglio la situa-zione. I miei pensieri si rincorrevano senza tregua. Mi opprime-va il fatto che Carlo si comportasse in modo così strampalato. Provavo una forte angoscia al pensiero che lui potesse essere malato, seriamente malato. Io non sapevo come muovermi, cosa fare e a chi rivolgermi. Mi sentivo disarmata di fronte alla sua ostinazione, di fronte alla sua resistenza nel non voler accettare il suo problema.

Le notti erano diventate interminabili, angoscianti. Nella mia mente, tutto era amplifi cato all’ennesima potenza, tutto era in-certo e ogni cosa irrisolvibile. Avevo la sensazione di essere in-trappolata nell’inerzia, nella totale inettitudine.

Quando trovai suffi ciente coraggio iniziai a parlare dei com-portamenti bizzarri di mio marito ai miei fi gli, ai miei colleghi e agli amici più cari. Nessuno seppe darmi delle risposte. Nessuno conosceva quel disturbo.

Pensai allora di affrontare il problema convincendo mio ma-rito ad andare prima dal medico di famiglia e poi dallo psichia-tra. Ho impiegato più di un anno, con l’aiuto dei miei fi gli e di un suo fratello per convincerlo ad accettare l’aiuto di uno specia-lista. Durante ogni nostra richiesta non faceva altro che ripetere: “io non ho nulla. Non sono malato. Per chi mi avete preso?” Raramente dichiarava che nella sua testa c’era qualcosa di stra-no: “sono confuso, non riesco a pensare... portami dal medico”.

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Ma per il dottor Rossetti, il nostro medico di famiglia, era solo un po’ di stress, uno stato di affaticamento causato dal lavo-ro pesante che svolgeva. Lo psichiatra invece, dopo pochi col-loqui gli aveva diagnosticato un disturbo schizofrenico di tipo paranoide.

«Proviamo con questi farmaci», aveva detto con supponenza il medico.

«Proviamo? Cosa vuol dire proviamo?» Gli risposi con un misto di rabbia e timore. Un professionista dovrebbe dare una risposta. Ma in questo campo i professionisti pare non abbiano certezze.

Pensavo avrei risolto il problema una volta convinto mio ma-rito a rivolgersi allo psichiatra, ma il cammino verso la guarigio-ne, o quantomeno il miglioramento della situazione, non è cosa affatto semplice e scontata.

Sono stanca! Adesso sono troppo stanca! Mi sto perdendo e non riesco più a fronteggiare razionalmente la questione anche se credo che la ragione non sia molto d’aiuto nel disturbo che attanaglia mio marito.

Col tempo, i farmaci hanno ridotto in parte le sue paranoie anche se ogni tanto si sente perseguitato dal vicino di casa o dal postino.

Nei mesi successivi i litigi tra me e mio marito proseguiro-no. Da una parte i suoi comportamenti bizzarri e inspiegabili e dall’altra il mio tentativo di controbattere.

È come se dentro di me convivano più anime: una che ha voglia di lottare, un’altra che invece mi dice di mollare tutto e farla fi nita.

Per fortuna ha prevalso la prima, così dopo tanto buio sono riuscita a trovare uno spiraglio di luce.

Ho fi nalmente capito che il disturbo di mio marito è comples-so, contorto, quasi intricato. “Non devo perdere la speranza” mi

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sono detta. Al pessimismo e alla disperazione devo sostituire un atteggiamento positivo, forte e determinato.

Lo psichiatra ci ha sempre detto che la patologia di mio mari-to interferisce con le sue stesse abilità, con la capacità di distin-guere realtà e fantasia, con la capacità di gestire le emozioni, con la capacità di pensare e di comunicare in modo adeguato.

Le parole non servono, spesso sono state la causa dei nostri malintesi. Non serve spiegargli a parole che non lo voglio avve-lenare. Potrò pure esprimergli tutto l’amore del mondo, ma sono certa che non sarò mai creduta perché, nella sua mente, sono e sicuramente resterò sempre la persona che vuole avvelenare il suo cibo. Iniziai a cambiare atteggiamento cercando di essere accondiscendente da una parte e attenta a registrare ogni minimo cambiamento dall’altra.

I fatti mi danno speranza e da un po’ di tempo a questa par-te, prima di versare la pietanza nel suo piatto la verso nel mio, l’assaggio davanti a lui e con buon viso gli auguro “buon appe-tito Carlo”. Qualche volta ride e mangia. Qualche altra invece, seppur imbronciato, mangia comunque e va bene così, è in ogni caso un buon segno. Per il momento non posso pretendere di più.

Mi rendo conto di aver ottenuto il minimo, anche se nel con-tempo sono divenuta consapevole che da sola non posso fare altro. Questa consapevolezza però oltre che chiarire i miei limiti mi ha infuso la speranza che un giorno, forse ancora lontano, con l’aiuto delle cure e dell’esperienza di altri, possa riabbrac-ciare il mio Carlo, quel Carlo che ho sempre conosciuto e che rivoglio nella mia vita e in quella dei miei fi gli.

Questo è un modo che mi sono inventata per gestire la situa-zione, per dimostrargli che non lo voglio avvelenare.

Ci vuole ancora tempo, ma nella mia anima dopo tanta nebbia sembra tornato un po’ di sereno.

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