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Temi della lezione

• L’italiano nell’Alto Medioevo (5°-10° secolo)• La scuola siciliana (12°-13° secolo)• Le Tre Corone della lingua italiana (14° secolo)

– Dante Alighieri– Francesco Petrarca– Giovanni Boccaccio

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L’italiano nell’Alto Medioevo

• L’impero romano cadde ufficialmente nel 476 quando Odoacre, capo della tribù germanica degli Sciri, divenne Re d’Italia spodestando l’ultimo imperatore romano Romolo Augustolo.

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L’italiano nell’Alto Medioevo

• albergo da gotico heribergo “luogo dove alloggia l’esercito” (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, 1, pag. 34);

• elmo da gotico hilms “elmo” (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, 2, pag. 379);

• guardare da francone wardōn “osservare, stare in guardia” (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, 2, pag. 527-528);

• guerra da francone werra “mischia” (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, 2, pag. 529-530).

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L’italiano nell’Alto Medioevo

• Il latino, nei territori conquistati, finisce per essere sempre meno conosciuto.

• Il trapasso del latino nei diversi volgari si accelera.• Si afferma una scripta latina rustica (per certi versi simile al

cosiddetto “latino maccheronico” usato scherzosamente a partire dal basso medioevale), sistema scrittorio misto a prevalenza latina, e una scriptae volgari, scritti ormai di base volgare con residue forme latine dalla grafia instabile.

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L’italiano nell’Alto Medioevo

• La più antica testimonianza di un testo in una varietà italiana è l’Indovinello veronese (fine del secolo VIII inizio deI IX):

Se pareba boves, alba pratalia araba,

alba versorio teneba, et negro semen seminaba.

“Teneva davanti a sé i buoi, arava bianchi prati,

teneva un bianco aratro, e seminava nero seme.”

È una testimonianza autoreferenziale, vale a dire la descrizione dell'atto dello scrivere da parte dello stesso amanuense.

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L’italiano nell’Alto Medioevo

• I Placiti Campani (anche capuani, cassinesi) sono i documenti più importanti perché attestano, per la prima volta, l’uso consapevole del volgare in documenti ufficiali.

• Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.

• "So che quelle terre, per quei confini di cui qui [= in questo documento] si parla, trent’anni le possedette la parte [= il Monastero] di San Benedetto."

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La scuola siciliana

• Fra il 1220 e il 1250 nasce in Sicilia presso la corte dell’imperatore e re d’Italia Federico II di Svevia (1194-1250) di una vera e propria scuola poetica che si rifà ai Minnesänger tedeschi e ai trovatori provenzali (Dolce stilnovo).

• Tra i poeti più importanti sono da ricordare Giacomo da Lentini (1210-1260), considerato anche il caposcuola e largamente noto perché a lui è attribuita l'invenzione della forma metrica del sonetto, Pier della Vigna (nato a Capua nel 1190 e morto in Toscana nel 1249), Stefano Protonotaro e lo stesso Federico II.

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La scuola sicilianaPir meu cori alligrari di Stefano ProtonotaroPir meu cori alligrari chi multu longiamenti senza alligranza e joi d'amuri è statu,mi ritornu in cantari, ca forsi levimenti da dimuranza turnirìa in usatu di lu troppu taciri;e quandu l'omu à rasuni di diri, ben di’ cantari e mustrari alligranza, ca, senza dimustranza, joi sirìa sempri di pocu valuri; dunca ben di’ cantari onni amaduri.

Per rallegrare il mio cuore, rimasto molto a lungo senz'allegria e senza gioia d'amore, torno a cantare, perché forse, a poco a poco,l'indugio di tacere troppo sitrasformerebbe in abitudine; e quando uno ha un motivo di parlare, deve cantare e mostrare allegria,perché, senza una manifestazione esterna, la gioia sarebbe di poco peso;sicché ogni amatore che si rispetti deve

certamente cantare.

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La scuola sicilianaIo m’aggio posto in core a Dio servire di Stefano ProtonotaroIo m’aggio posto in core a Dio servire, com'io potesse gire in paradiso,al santo loco, c’aggio audito dire,o’ si mantien sollazzo, gioco e riso. Sanza mia donna non vi voria gire, quella c’a blonda testa e claro viso, che sanza lei non poteria gaudere,restando da la mia donna diviso. Ma no lo dico a tale intendimento, perch’io pecato ci volesse fare; se non veder lo suo bel portamento e lo bel viso e 'l morbido sguardare: che 'l mi teria in gran consolamento, veggendo la mia donna in ghiora stare.

Io mi sono ripromesso di servire Dio,in modo da poter andare in paradiso,nel luogo santo che ho sentitonominare, dove ci sono gioia, allegria e riso. Non vorrei andarci senza la mia signora, colei che ha i capelli biondi e il viso luminoso, perché senza di lei non potrei essere felice, restando lontano dalla mia signora. Ma non lo dico con una simile intenzione, cioè perché voglia peccare con lei, ma solo per ammirare la sua bella figura, e il bel viso e il tenero sguardo, che mi sarebbe di molto conforto vedendo io che la mia signora è in gloria.

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Dante Alighieri

• Il cosiddetto “padre della lingua italiana”. • Sul piano teorico: verso la fine del 1302 e l’inizio del 1305, scrive

un trattato (in latino!) interamente dedicato all’uso del volgare italiano, intitolato De vulgari eloquentia “L'arte di esprimersi in volgare”.

• Sul piano pratico: scrive tra il 1307 e il 1321 la sua maggiore opera, la Divina Commedia, in fiorentino.

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Dante Alighieri

• Il poema è diviso in tre parti, chiamate cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso), ognuna delle quali composta da 33 canti (tranne l'Inferno, che contiene un ulteriore canto introduttivo).

• Il poeta narra di un viaggio immaginario attraverso i tre regni ultraterreni che lo condurrà fino alla visione della Trinità.

• La sua rappresentazione immaginaria e allegorica dell'oltretomba cristiano è un culmine della visione medievale del mondo sviluppatasi nella Chiesa cattolica.

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Dante Alighieri

• « Nel mezzo del cammin di nostra vitami ritrovai per una selva oscura,ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura,esta selva selvaggia e aspra e forte,che nel pensier rinova la paura!

Tant'è amara che poco è più morte;ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

Io non so ben ridir com'i' v'intrai,tant'era pien di sonno a quel puntoche la verace via abbandonai.

• Dante Alighieri, Inferno I, vv. 1-12 »

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Dante Alighieri

• La Divina Commedia è un’opera caratterizzata da una straordinaria molteplicità di contenuti e da una grande varietà di lingua e di stile.

• Con la Divina Commedia infonde dignità al volgare (il latino non è la sola lingua di valore).

• Dante Alighieri utilizza per la sua opera il volgare fiorentino.• Pur essendo scritta in una lingua colta, l’opera di Dante Alighieri

ebbe successo in tutta la Penisola.• Alla fine del Trecento essa era conosciuta pressoché ovunque,

anche nei ceti popolari più bassi.

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Dante Alighieri

Inferno, Canto 28, versi 22-35:Seminatori di discordie (Mamometto).

Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch'i' ora vidi, per narrar più volte?

Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c'hanno a tante comprender poco seno.

Chi potrebbe mai, in prosa, vale adire con parole sciolte da obblighimetrici, raccontare bene delsangue e delle ferite che io vidi inquesta circostanza, pur tentandoa più riprese di arricchire erendere sempre più efficace lasua narrazione? Ogni lingua verrebbe certamentemeno, perché sia la nostra linguasia la nostra mente non hannoabbastanza capacità per poterconcepire ed esprimere tanto.

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Dante Alighieri

Già veggia, per mezzul perdere olulla, com'io vidi un, così non sipertugia, rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan leminugia; la corata pareva e ‘l tristo sacco che merda fa di quel che sitrangugia.

Già una botte, per aver perdutoun mezzullo o una lulla (due pezziche ne formano il fondo), nonappare così rotta e sfasciata,come io vidi rotto e sfasciato untale dal mento fino all’ano, il postodove si scoreggia.

Tra le gambe gli pendevano lebudella; si mostravano all'esternole interiora e lo stomaco, quelsacco lurido chetrasforma in merda quello che sibutta giù.

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Dante Alighieri

Paradiso, Canto XXXI, versi 1-12, Il volo degli angeli

In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa; ma l’altra, che volando vede e canta la gloria di colui che la 'nnamora e la bonta che la fece cotanta, si come schiera d'ape che s'infiora una fiata e una si ritorna là dove suo laboro s’insapora, nel gran fior discendeva che s’addorna di tante foglie, e quindi risaliva là dove 'l süo amor sempre soggioma.”

L’esercito dei santi che Gesù sposòcon il suo sacrificio mi si mostravanella forma di una candida rosa;invece l’altro esercito, quello degliangeli (che volando vedono ecantano la gloria di colui per il qualeprovano amore, cioè Dio, la cui bontà rese la loro natura tanto grande),scendeva nella rosa, il grande fiore che siorna di tante foglie, e da li risaliva verso ladimora di Dio, proprio come fa uno sciamed’api, che una volta si immerge nel fiore eun'altra ritorna nell'alveare, là dove il fruttodella sua fatica si insaporisce,trasformandosi in dolce miele.

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Francesco Petrarca

• L’opera principale di Francesco Petrarca è sicuramente il Canzoniere (in latino Rerum vulgarium fragmenta «Frammenti di cose volgari»). composto tra il 1366 e il 1374.

• Si tratta di una raccolta che comprende 366 (365, come i giorni dell'anno, più uno introduttivo intitolato "Voi ch'ascoltate") componimenti: 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali.

• L’opera è dedicata a Laura di Noves, una nobildonna italiana della quale il poeta si è innamorato vanamente.

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Francesco Petrarca

• Nel Canzoniere viene raccontato in versi questo amore platonico.• Si tratta quasi di un diario amoroso, che va dal sonetto iniziale, nel

quale si dichiara la vanità e l’inutilità delle passioni, che procurano solo pentimento e vergogna, fino alla canzone finale alla Vergine, in cui tutti i sentimenti umani e terreni si placano per sempre.

• Il lessico utilizzato nel Canzoniere è piuttosto ridotto rispetto alla Divina Commedia, ca. 3275 parole in tutto.

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Francesco Petrarca

Canzone 2

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, che 'n mille dolci nodi gli avolgea, e 'l vago lume oltra misura ardea di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi; e ‘l viso di pietosi color' farsi,

non so se vero o falso, mi parea: i’ che l’ésca amorosa al petto avea, qual meraviglia se di subito arsi? Non era l’andar suo cosa mortale, ma d'angelica forma; et le parole sonavan altro, che pur voce humana. Uno spirto celeste, un vivo sole fu quel ch’ i’ vidi; et se non fosse or tale, piagha per allentar d’arco non sana.

I capelli biondi erano sparsi al vento, che li avvolgeva in mille nodi dolci e il seducente splendore di quegli occhi,che ora si è offuscato, brillava oltremisura; e mi sembrava che il viso di lei si tingesse di

atteggiamenti comprensivi, ne so se questa mia impressione fosse vera o

falsa: io che avevo nel petto l'esca che accende il fuoco della passione, c’è da meravigliarsi se subito m’infiammai d'amore?

Il suo incedere non era quello delle personemortali, ma quello degli spiriti angelici; e le sueparole avevano un suono diverso da quello cheha una voce soltanto umana: uno spirito celeste,un sole splendente fu quello che vidi; e se anchelei ora non fosse più come era allora, la feritanon guarisce solo perché l'arco s'allenta (dopo illancio della freccia da cui la ferita stessa e stata

provocata).

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Francesco Petrarca

• La lingua poetica petrarchesca resterà, per più di cinque secoli, un modello imitato continuamente. Fino agli inizi del Novecento, con poche eccezioni, le parole scelte dai poeti italiani per i loro versi continueranno a essere, come quelle di Petrarca, vaghe, astratte, lontane dalla realtà concreta e quotidiana. Ecco alcuni esempi:– Parole tipicamente poetiche: alma (anima), augello (uccello),

core (cuore), laude (lode), move (muove), opra (opera), spirto (spirito)

– Scelte grammaticali: amaro (amarono), temero (temettero), avrìa (avrei), sarìa (sarei), quindi (di qui), fia (sarà), fora (sarebbe), giuso (giù), nosco (con noi), sentiro (sentirano)

– Arcaismi: affetto (sentimento), cura (preoccupazione, affanno), desio (desiderio), mirare (guardare), rimembranza (ricordo), speme (speranza).

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Giovanni Boccaccio

• Giovanni Boccaccio è il principale creatore della lingua italiana in prosa usata in vari ambiti.

• La sua principale opera è il Decameron (greco antico δέκα, déka, "dieci", ed ἡμερών, hēmeròn "giorni", con il significato di "[opera] di dieci giorni")

• Si tratta di una raccolta di cento novelle scritta tra il 1351 e il 1354.

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Giovanni Boccaccio

• Il libro narra di un gruppo di giovani, sette donne e tre uomini, che per quattordici giorni si trattengono fuori da Firenze per sfuggire alla peste nera che in quel periodi imperversava nella città, e che a turno si raccontano delle novelle (Il deca nel titolo allude ai dieci giorni dedicati alle narrazioni, escludendo i quattro giorni dedicati al riposo) di taglio spesso umoristico e con frequenti richiami all'erotismo bucolico del tempo.

• Per quest'ultimo aspetto, il libro fu tacciato di immoralità o di scandalo, e fu in molte epoche censurato.

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Giovanni Boccaccio

• Esempio di prosa/lingua ricercata: “Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d'inumerabile quantità de' viventi avendo private, senza ristare d'un luogo in uno altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata.”(Decameron, Introduzione alla prima giornata).

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Giovanni Boccaccio

Esempio di lingua poco ricercata che si avvicina molto al parlato (Chichibio e la Gru):

«Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba».

Currado allora turbato disse: «Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa?»

«Assai bene potete, messer, vedere che ier sera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno».

(Decameron, VI, 4).