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1 Rapporto di ricerca sulla giurisprudenza italiana in tema campi di applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali Nell’ambito del Progetto di ricerca di rilevante interesse nazionale in regime di cofinanziamento MIUR “Sviluppo dell’occupazione e tutela del posto di lavoro. La conciliazione possibile tra flessibilità e stabilità”, di cui è coordinatrice la professoressa Ballestrero, mi è stato affidato il compito di mettere insieme una raccolta sistematica e ragionata della giurisprudenza italiana (merito e Cassazione), limitatamente al periodo 2000-2006, e di Corte Costituzionale e Corte di Giustizia, sul tema “La disciplina dei licenziamenti individuali. Quale tutela e per chi”. Sono state finora selezionate circa 60 sentenze tra merito e Corte di Cassazione italiana, e 18 sentenze della Corte Costituzionale. Le suddette sentenze possono essere ripartite in 4 grandi filoni: 1. I campi di applicazione della stabilità reale e della stabilità obbligatoria e la giustificazione della disparità di trattamento ai sensi dell’art. 3 Cost.; 2. L’estensione generalizzata della stabilità reale: il licenziamento discriminatorio; 3. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda dei requisiti dimensionali e delle caratteristiche del datore di lavoro (organizzazioni di tendenza); 4. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda delle caratteristiche del lavoratore: il residuo campo di applicazione del recesso ad nutum (licenziamento del dirigente). A questi 4 filoni corrispondono i 4 capitoli del rapporto di ricerca, che a loro volta sono suddivisi in una parte descrittiva della disciplina di riferimento (per la redazione della quale mi sono largamente avvalsa di: MAZZOTTA (a cura di), I licenziamenti. Commentario, Milano, 1999; del capitolo dedicato ai licenziamenti di BALLESTRERO e DE SIMONE, Diritto del lavoro. Domande e percorsi di risposta, Milano 2001 e Milano 2003; BALLESTRERO, L’estinzione del rapporto, in corso di pubblicazione), seguita dalle schede delle sentenze – in ordine cronologico – che ho selezionato sul tema.

Rapporto di ricerca sulla giurisprudenza italiana in tema ... · applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali Nell’ambito del Progetto di ... estinzione del rapporto,

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Rapporto di ricerca sulla giurisprudenza italiana in tema campi di

applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali

Nell’ambito del Progetto di ricerca di rilevante interesse nazionale in regime di

cofinanziamento MIUR “Sviluppo dell’occupazione e tutela del posto di lavoro. La

conciliazione possibile tra flessibilità e stabilità”, di cui è coordinatrice la

professoressa Ballestrero, mi è stato affidato il compito di mettere insieme una

raccolta sistematica e ragionata della giurisprudenza italiana (merito e Cassazione),

limitatamente al periodo 2000-2006, e di Corte Costituzionale e Corte di Giustizia,

sul tema “La disciplina dei licenziamenti individuali. Quale tutela e per chi”. Sono

state finora selezionate circa 60 sentenze tra merito e Corte di Cassazione italiana, e

18 sentenze della Corte Costituzionale.

Le suddette sentenze possono essere ripartite in 4 grandi filoni:

1. I campi di applicazione della stabilità reale e della stabilità obbligatoria e la

giustificazione della disparità di trattamento ai sensi dell’art. 3 Cost.;

2. L’estensione generalizzata della stabilità reale: il licenziamento discriminatorio;

3. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda dei

requisiti dimensionali e delle caratteristiche del datore di lavoro (organizzazioni

di tendenza);

4. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda delle

caratteristiche del lavoratore: il residuo campo di applicazione del recesso ad

nutum (licenziamento del dirigente).

A questi 4 filoni corrispondono i 4 capitoli del rapporto di ricerca, che a loro

volta sono suddivisi in una parte descrittiva della disciplina di riferimento (per la

redazione della quale mi sono largamente avvalsa di: MAZZOTTA (a cura di), I

licenziamenti. Commentario, Milano, 1999; del capitolo dedicato ai licenziamenti di

BALLESTRERO e DE SIMONE, Diritto del lavoro. Domande e percorsi di

risposta, Milano 2001 e Milano 2003; BALLESTRERO, L’estinzione del rapporto,

in corso di pubblicazione), seguita dalle schede delle sentenze – in ordine

cronologico – che ho selezionato sul tema.

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Per quanto riguarda le schede, quelle delle sentenze della Corte Costituzionale

sono state compilate seguendo questo schema: il tipo di giudizio di cui si tratta;

l’argomento della sentenza; la massima (tratta dal sito ufficiale della Corte

Costituzionale www.cortecostituzionale.it); i parametri costituzionali e riferimenti

normativi della sentenza; i punti essenziali della motivazione (qualora non presenti

nella massima); eventuali precedenti in termini; note a sentenza.

Le sentenze di merito e Cassazione, invece, sono state compilate secondo il

seguente schema: argomento della sentenza; massima (tratta dal repertorio del Foro

Italiano); punti essenziali della motivazione (qualora non presenti nella massima);

eventuali precedenti in termini; note a sentenza.

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1. I campi di applicazione della stabilità e della stabilità obbligatoria e la

giustificazione della disparità di trattamento ai sensi dell’art. 3 Cost.

Come è noto, le espressioni stabilità reale e stabilità obbligatoria denotano due

diverse tecniche di tutela dei lavoratori contro i licenziamenti privi di giustificazione, o

altrimenti viziati nella forma o nella sostanza. La disciplina della stabilità (o tutela) che

viene detta reale è contenuta nell’art. 18 st. lav., come modificato dalla l. n. 108/1990.

Riassumendo per sommi capi il contenuto dell’anzidetta disposizione, la stabilità reale

consiste essenzialmente in un apparato sanzionatorio che colpisce con la invalidità il

licenziamento illegittimo; dalla invalidazione del licenziamento (da cui discende la

continuità giuridica del rapporto) sorgono il diritto del lavoratore al risarcimento del

danno ed il diritto alla effettiva reintegrazione nel posto di lavoro (vale a dire alla

ricostituzione della funzionalità del rapporto di fatto interrotta dal licenziamento

illegittimo). L’ordine di reintegrazione, che è emanato dal giudice nella sentenza in cui

dichiara l’invalidità del licenziamento, ha secondo la dottrina n atura inibitoria, ed è

costitutivo, per il datore di lavoro soccombente, dell’obbligo di reintegrare

(effettivamente) il lavoratore licenziato.

La stabilità obbligatoria è disciplinata dalla l. n. 604/1966, modificata dalla l. n.

108/1990; l’apparato sanz ionatorio (art. 8), che riguarda solo il licenziamento

ingiustificato, consiste in ciò: fissata dalla legge la regola che il licenziamento può

avvenire solo per giusta causa (art. 2119 c.c.) o per giustificato motivo (soggettivo o

oggettivo: art. 3 legge n. 604/1966), la legge medesima non sancisce l’invalidità del

licenziamento privo di giustificazione, ma prevede, al contrario, una sanzione

alternativa (risarcimento del danno forfetariamente predeterminato in una indennità di

modeste dimensioni; riammissione – e non reintegrazione – in servizio); la presenza di

tale sanzione alternativa consente al datore di lavoro di mantenere fermi gli effetti

estintivi di un licenziamento illecito (perché privo di giustificazione) pagando una

penale (decurtata rispetto al passato e variabile in funzione dell’anzianità di servizio del

prestatore di lavoro e del numero dei dipendenti).

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La qualità della tutela garantita al lavoratore in caso di licenziamento dipende dalla

circostanza che il datore di lavoro rientri nell’ uno o nell’altro regime di stabilità: una

prima domanda alla quale dare risposta è allora se, e in che misura, possa considerarsi

razionale e ragionevole la disparità di trattamento dei lavoratori di fronte al

licenziamento, che deriva appunto dal campo di applicazione della stabilità.

L’attuale disciplina dei campi di applicazione della stabilità reale e della stabilità

obbligatoria costituisce il risultato di una travagliata vicenda alla quale ha posto fine la

l. n. 108/1990, approvata in gran fretta dal Parlamento per evitare la celebrazione di un

referendum (dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza 65/1990)

il cui esito positivo avrebbe determinato, secondo le intenzioni dei proponenti,

l’estensione della stabilità reale a tutti i lavoratori. L’iniziativa referendaria non era,

quella volta, casuale o stravagante: a distanza di quattro anni si erano succedute due

diverse discipline, ma la successione nel tempo non aveva determinato l’espansione

della seconda più forte disciplina (art. 18 st. lav.) verso l’area delle imprese minori, e

neppure la piena sostituzione della seconda disciplina alla prima (l. n. 604/1966),

nell’ambito di applicazione di questa.

L’oscura definizione del campo di applicazione dell’art. 18 st. lav. (contenu ta

nell’art. 35 st. lav.) era stata fonte di vere difficoltà interpretative: ne è prova il

susseguirsi di interpretazioni contrastanti, alla ricerca di soluzioni “razionali” o

“ragionevoli”, sfociate finalmente nel relativo consolidarsi della nota teoria delle

“tutele parallele”. Nell’orientamento interpretativo fatto proprio dalla Corte

Costituzionale (con sentenza 2/1986), dalla Cassazione 1 , dalla maggioranza degli

interpreti (per quanto con molte perplessità e insoddisfazioni), le tutele dovevano cioè

intendersi come “parallele” perché la stabilità reale (art. 18 st. lav.,) aveva un suo

proprio campo di applicazione (unità produttive con più di 15 dipendenti delle imprese

industriali e commerciali, imprese agricole con più di 5 dipendenti) autonomamente

determinato, diverso e non coordinato con quello dell’art. 8, l. n. 604/1966, definito

allora dall’art. 11 della legge medesima (datori di lavoro che occupano più di 35

dipendenti). Il parallelismo delle tutele dava luogo a tre aree (appunto parallele) di

1 Orientamento pressoché costante della sez. lav. della Cassazione, successivamente accolto dalle S.U., a partire dalla sentenza 15 ottobre 1985, n. 5050, RIDL, 1985, II, 852, e ivi riferimenti. Da ultimo: Cass. 23 novembre 1988, n. 6293, in GIR, 1988, Lav. (rapp.), n. 1619; Cass. 25 febbraio 1988, n. 2028, ivi, n. 1639. Queste sentenze non sono schedate perché sono antecedenti al 2000.

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disciplina dei licenziamenti: l’area delle unità produttive con più di 15 dipendenti, dove

trovava applicazione la stabilità reale; l’area delle imprese e delle organizzazioni con

più di 35 dipendenti, nelle quali trovava ancora applicazione la stabilità obbligatoria, ma

limitatamente alle unità produttive con meno di 16 dipendenti; l’area delle imprese e

delle organizzazioni minori (meno di 35) dove restava operante il regime di libera

recedibilità, ma ancora una volta solo nelle unità produttive con meno di 16 dipendenti.

Dalle tutele parallele potevano scaturire disparità di trattamento delle quali non era

certo facile trovare giustificazione: lavoratori dipendenti da un’impresa di grandissime

dimensioni, ma organizzata in unità produttive di piccola dimensione, si vedevano

applicare una tutela debole contro i licenziamenti; mentre lavoratori alle dipendenze

dello stesso imprenditore potevano essere beneficiari di tutele molto diverse a seconda

che lavorassero in una o altra articolazione organizzativa della stessa impresa;

addirittura nell’ambito di un’impresa con 34 dipendenti, vi potevano essere lavoratori

addetti ad una unità con più di 15 dipendenti che godevano della stabilità reale, e

lavoratori addetti ad unità produttive di dimensioni minori praticamente privi di tutela;

infine un lavoratore che venisse trasferito dall’una all’altra unità produttiva, poteva

veder cambiare radicalmente la propria situazione giuridica pur rimanendo alle

dipendenze dello stesso datore di lavoro.

Il riferimento della soglia numerica all’unità produttiva come «autonomo centro di

imputazione e di tutela» anziché all’impresa nel suo complesso era dunque fonte di un

complicato intreccio di regimi sanzionatori diversi: ma, secondo quanto ripetutamente

affermato dalla Corte Costituzionale (con sentenze 55/1974; 152/1975; 2/1986), la

scelta del legislatore era legittima e rispettosa del principio di eguaglianza. Le ragioni

che lo avevano determinato a differenziare il trattamento tra unità produttive con più o

meno di 15 dipendenti dovevano infatti essere ravvisate: nell’elemento fiduciario che

permea il rapporto nelle piccole unità; nella necessità di non gravare di costi eccessivi le

imprese minori; nella necessità di non gravare le piccole unità delle tensioni che

potevano derivare dalla forzata reintegrazione del lavoratore licenziato. Essendo tutte

queste ragioni valide e rilevanti, il trattamento differenziato trovava adeguata

giustificazione e non erano irrazionali le norme che lo prevedevano, tenuto conto della

mancanza di omogeneità tra la situazione dei lavoratori occupati nelle unità produttive

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con più di 15 dipendenti e quella dei lavoratori di altre imprese, e delle diverse esigenze

di politica sociale e sindacale.

SCHEDE DELLE SENTENZE

• Corte Costituzionale, sentenza 6 marzo 1974 n. 55.

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE

Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LICENZIAMENTI

INDIVIDUALI - LEGGE 15 LUGLIO 1966, N. 604, ART. 2 - COMUNICAZIONE

DEL LICENZIAMENTO E DEI MOTIVI DI ESSO - ASSENZA DI UN OBBLIGO IN

TAL SENSO PER IL DATORE DI LAVORO - SUSSISTENZA DELLA PIU' AMPIA

FACOLTA' DI INDAGINE E DI PROVA SUI MOTIVI DEL LICENZIAMENTO -

COORDINAMENTO CON LE DISPOSIZIONI DELLO STATUTO DEI

LAVORATORI. (LEGGE 20 MAGGIO 1970, N. 300).

Massima: Non è fondata, in riferimento all’art. 3 della Costituzionale, la questione

di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966, poiché deve

escludersi che derivi disparità di trattamento ed ingiustificato pregiudizio al lavoratore

dall’assenza dell’obbligo per il datore di lavoro della comunicazione del licenziamento

e dei motivi di esso anche quando si ipotizzi che il licenziamento sia stato determinato

da motivi politici, sindacali o religiosi: trattandosi di licenziamento effettuato, in

ispregio alle libertà civili garantite dalla Costituzione, vige, infatti, il principio della più

ampia facoltà di indagine e di prova sui motivi del licenziamento, indipendentemente

dal silenzio o da eventuali comunicazioni del datore di lavoro. Ferma restando ogni altra

non contrastante disposizione della legge 1966, n. 604, l’innovazione introdotta dall’art.

18 dello Statuto alla disciplina dei licenziamenti riconosciuti illegittimi è stata dall'art.

35 resa applicabile alle imprese industriali e commerciali, purché abbiano una o più

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unità produttive con almeno 16 dipendenti o una pluralità di unità produttive con

numero inferiore, sempre che nel complesso ne occupino più di 15 ed operino

nell’ambito dello stesso comune. L'unità produttiva assume giuridico rilievo non solo ai

fini dello svolgimento delle attività sindacali di cui al terzo titolo del c.d. Statuto dei

lavoratori, ma anche ai fini del licenziamento. Per la sua identificazione non è

necessario che esse rilevino come centri autonomi di imputazione di rapporti giuridici,

né alla loro configurazione concreta osta l’unitaria funzione dirigenziale esercitata

dall’imprenditore o la circostanza che nel quadro organizzativo dell’impresa siano

previsti centri direzionali comuni che presiedano al coordinamento produttivo e ad un

armonico sviluppo dell’attività economica complessiva.

Parametri costituzionali: Costituzione, art. 3.

Riferimenti normativi: legge 15/07/1966 n. 604 art. 2 .

Note a sentenza: MGL 1974, pp. 14 ss. e 465 ss., nota SANDULLI; RGL II/1974,

pp. 22 ss. e 543 ss., nota MENICUCCI; GIUR. IT. I/1975, pp. 25 ss., nota

CENTOFANTI.

• Corte Costituzionale, sentenza 14 gennaio 1986 n. 2.

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE

Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LICENZIAMENTO

SENZA GIUSTA CAUSA O GIUSTIFICATO MOTIVO - DIVERSITA' DI

TRATTAMENTO IN DIPENDENZA DEI LIMITI DIMENSIONALI NUMERICI

DELL'IMPRESA DI APPARTENENZA - NON FONDATEZZA DELLE QUESTIONI

- AUSPICATO INTERVENTO DEL LEGISLATORE.

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Massima: Secondo i principi già più volte affermati dalla Corte, e ormai condivisi

dai giudici di merito ed anche dalla Cassazione, le ragioni che, riguardo alle garanzie e

al trattamento economico dei lavoratori dipendenti in caso di licenziamento, hanno

determinato il legislatore a differenziare le imprese che impegnano meno di

trentacinque lavoratori e lavoratori occupati da datori di lavoro non imprenditori,

rispetto agli altri, occupati in imprese di maggiori dimensioni (con più di trentacinque

dipendenti) e cioè l’elemento fiduciario che permea il rapporto datore di lavoro -

lavoratore, la necessità di non gravare di costi eccessivi le imprese minori, la necessità

di evitare tensioni nella fabbrica, conservano tutt’oggi la loro rilevanza e la lo ro validità

per cui il trattamento differenziato trova adeguata giustificazione e non sono irrazionali

le norme che lo prevedono, dettate dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità

e della politica economico-sociale che attua. Inoltre, sempre per le esigenze di politica

sociale e sindacale tutt’ora attuali e valide, non è irrazionale il diverso trattamento

previsto per i lavoratori delle unità produttive con più di quindici dipendenti. La più

intensa tutela (la cd. tutela reale), assicurata a questi lavoratori, continua a trovare

adeguata giustificazione nella necessità di svolgimento dell’attività sindacale in

fabbrica, introdotta dallo Statuto dei lavoratori. Ed il diverso trattamento è altresì

giustificato dalla mancanza di omogeneità tra la situazione di questi lavoratori e quella

di lavoratori di altre imprese. Peraltro, nelle ipotesi di imprese, o non imprese, con

meno di trentacinque dipendenti, o unità produttive con meno di quindici dipendenti,

nelle quali trova attuazione, in base all’ art. 2118 cod. civ., il recesso ad nutum, resta

auspicabile che il legislatore nell’attuazione di una politica sociale ed anche in adesione

ai principi ed alle indicazioni internazionali, possa nel futuro introdurre la previsione di

una giusta causa o di un giustificato motivo del licenziamento dal datore di lavoro

intimato. (Non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, in riferimento

all’art. 3 Cost. relative agli artt. 8 e 11 l. 15 luglio 1966, n. 604 (risarcimento danni

conseguenti al licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo); artt. 35, primo e

secondo comma, l. 20 maggio 1970, n. 300, e 11, primo comma, l. 15 luglio 1966, n.

604 (vigenza del recesso ad nutum per le imprese di minori dimensioni) e degli artt.

2118 cod. civ., 35 l. 300/1970 e 11 l. n. 604/1966 (inesistenza della tutela reale per i

lavoratori di imprese di minime dimensioni)).

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Motivazioni (punti essenziali): La Corte Costituzionale ha ribadito che il

legislatore dello Statuto ha guardato «non più alla dimensione globale dell'impresa ma

alla struttura organizzativa di essa nelle singole unità produttive e nell’ambito

territoriale». In questa prospettiva, la esclusione della stabilità reale per i lavoratori che

prestino la loro opera in strutture imprenditoriali con meno di 16 dipendenti è

giustificata, secondo la Corte, dalla «esigenza di salvaguardare la funzionalità dell’unità

produttiva ed in specie di quelle con minor numero di dipendenti nelle quali la

reintegrazione nel medesimo ambiente del lavoratore licenziato avrebbe potuto

determinare il verificarsi di una tensione nelle quotidiane relazioni umane e di lavoro».

La stessa Corte, tuttavia, lascia aperta la porta ad una futura modifica della disciplina

limitativa dei licenziamenti – che si può considerare realizzata, in larga parte, ad opera

della legge n. 108/1990 – chiarendo che il pluralismo di tutele, così come articolato

dopo l’entrata in vigore della legge n. 604/1966 e degli artt. 18 e 35 dello Statuto, è il

frutto, contingente, di «valutazioni e di scelte discrezionali di politica legislativa e

relative a condizioni economico-sociali che potrebbero anche mutare nel tempo e

determinarne, quindi, la modificazione».

Parametri costituzionali: Costituzione, art. 3.

Riferimenti normativi: legge 15/07/1966 n. 604 art. 8; legge 05/07/1966 n. 604 art.

11; legge 20/05/1970 n. 300 art. 35 co. 1; legge 20/05/1970 n. 300 art. 35 co. 2.

Precedenti in termini: sentenze nn. 81/1961; 45/1965; 81/1969; 194/1970;

55/1974; 152, 178 e 189/1975; 256/1976.

Note a sentenza: Giur. Cost. I/1986, pp. 235 ss., nota PERA; RGL II/1986, pp. 230

ss., nota GRANATO; FI I/1986, pp. 1785 ss., nota D’ANTONA.

• Corte Costituzionale, sentenza 18 gennaio 1990 n. 65.

Giudizio: GIUDIZIO SULL'AMMISSIBILITA' DI REFERENDUM

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Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LICENZIAMENTI

INDIVIDUALI - LICENZIAMENTO SENZA GIUSTA CAUSA O GIUSTIFICATO

MOTIVO - REINTEGRAZIONE NEL POSTO DI LAVORO 'EX' ART. 18 DELLO

STATUTO DEI LAVORATORI - INAPPLICABILITA' AI LAVORATORI DI

IMPRESE DI PICCOLA DIMENSIONE - AMMISSIBILITA' DELLA RICHIESTA DI

'REFERENDUM' ABROGATIVO.

Massima: La richiesta di 'referendum' per l’abrogazione dell'art. 35, comma primo,

della legge 20 maggio 1970 n. 300, limitatamente alle parole "dell’art. 18 e", non rientra

in alcuna delle ipotesi di inammissibilità 'ex' art. 75 Cost., e risponde ai necessari

requisiti di chiarezza, univocità ed omogeneità del quesito, essendo l’eventuale

abrogazione referendaria diretta ad ampliare, in caso di licenziamento senza giusta

causa o giustificato motivo, la tutela dei lavoratori nelle unità produttive

indipendentemente dal numero dei relativi dipendenti.

Parametri costituzionali: Costituzione, art. 75.

Riferimenti normativi: legge 20/05/1970 n. 300 art. 35 comma 1.

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2. L’estensione generalizzata della tutela reale: il licenziamento

discriminatorio

Ai sensi dell’art 3, l. n. 108/1990, è nullo indipendentemente dalla motivazione

addotta il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4 l. n.

604/1966 (nullità del licenziamento determinato da ragioni di credo politico, fede

religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali)

e dell’art. 15 st. lav. (già modificato dall’art. 13 l. n. 903/1977, e ora ulteriormente

modificato dall’art. 4, 1° co., d.lg. n. 216/2003: attualmente sono nulli i licenziamenti

discriminatori per ragioni di affiliazione o attività sindacale e di partecipazione ad uno

sciopero, per ragioni di sesso, politiche, religiose, di razza, di lingua, di handicap, di età,

per ragioni basate sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali). Ai

licenziamenti nulli, perché determinati dalle ragioni di discriminazioni sopra richiamate,

si applica, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro,

la disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro di cui all’art. 18 st. lav.: l’art. 3, l.

n. 108/1990, porta così a termine quell’unificazione del regime sanzionatorio che, prima

dell’espressa previsione contenuta in questa disposizione , non riusciva ad oltrepassare la

soglia del campo di applicazione dell’art. 18 st. lav. (benché la forza “espansiva” del

regime sanzionatorio previsto dall’art. 18 nei confronti dei casi non espressamente

previsti fosse stata affermata dalla Corte Costituzionale con sentenza 17/1987, in

riferimento alla discriminazione per ragioni di genere).

Pare opportuno sottolineare che la formulazione adottata dall’art. 3 ricollega tuttavia

la nullità – e le particolari conseguenze che ne derivano in forza della stessa

disposizione – non ad una concezione generale e astratta di “licenziamento

discriminatorio” (espressione presente soltanto nella rubrica dell’art. 3), ma al

licenziamento determinato da una serie di fattori di discriminazione “ai sensi” delle

disposizioni previgenti in materia (art. 4 l. n. 604/1966 e art. 15 l. n. 300/1970 come

modificato dall’art. 13 l. n. 903/1977): la presenza dell’elenco induce gli interpreti ad

interrogarsi sul carattere tassativo o solo esemplificativo di esso.

Certamente questo interrogativo aveva maggior peso in passato, quando l’elenco dei

fattori di discriminazione era assai più breve di quanto non lo sia attualmente, dopo la

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riforma che ha inserito nell’ultimo comma dell’art. 15 st. lav. una serie tanto lunga di

fattori da potersi considerare esaustiva . Tuttavia l’interrogativo ha ancor oggi un senso:

lo vedremo meglio guardando alla controversa inclusione tra i licenziamenti

discriminatori del licenziamento della lavoratrice madre durante il periodo coperto da

divieto, del licenziamento della lavoratrice per causa di matrimonio, nonché del

licenziamento di cui all’art. 54, comma 6, d.lg. n. 151/2001 (licenziamento causato dalla

domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino da parte

della lavoratrice o del lavoratore).

Tenuto conto della pluralità dei fattori di discriminazione che attualmente sono

espressamente previsti dall’art. 3, l. n. 108/1990, l’interrogativo in realtà non verte tanto

sul carattere tassativo o esemplificativo dell’elenco dei f attori, al quale pare risponda nel

senso della tassatività la tecnica del rinvio agli artt. 4, l. n. 604/1966, e 15 st. lav.

utilizzata dal legislatore, quanto piuttosto sull’estensione della nozione di

discriminazione alla quale si debba riportare la qualificazione del licenziamento. Per

essere più precisi: si tratta di sapere se la ragione che (indipendentemente dalla

motivazione addotta) determina un certo licenziamento sia riconducibile o meno ad uno

dei fattori di discriminazione elencati. Come diremo meglio oltre, il caso più importante

è quello del licenziamento della lavoratrice madre, dove si tratta appunto di decidere se

la maternità sia riconducibile o meno al fattore di discriminazione “sesso”; ma altri

esempi si potrebbero fare, guardando ad esempio alla controversa riconducibilità di

fattispecie concrete a fattori come l’orientamento sessuale o le convinzioni personali.

La qualificazione di un licenziamento come discriminatorio presuppone una nozione

di discriminazione, sulla quale non è ovviamente possibile soffermarsi in questa sede .

Non si può tuttavia omettere di richiamare le disposizioni recenti e recentissime nelle

quali hanno trovato disciplina la discriminazione per ragioni di razza e di etnia (d.lg. n.

215/2003), la discriminazione per ragioni di religione, convinzioni personali, età,

handicap, orientamento sessuale (d.lg. n. 216/2003), la discriminazione per ragioni di

genere (d.lg. n. 145/2005), con le quali sono state trasposte nel diritto interno tre

direttive comunitarie (Direttive CE 2000/43, 2000/78, 2002/73) . Le definizioni di

discriminazione (diretta e indiretta) contenute in queste tre fonti sono diverse tra loro e

presentano rilevanti elementi di novità, su cui non è il caso di diffondersi. In comune

queste definizioni hanno però: anzitutto una qualificazione “oggettiva” della

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discriminazione (la definizione guarda cioè agli effetti pregiudizievoli o di particolare

svantaggio del trattamento meno favorevole, prescindendo dalla considerazione delle

intenzioni del responsabile della discriminazione); in secondo luogo un

“alleggerimento” dell’onere della prova che grava sul ricorrente (tenuto ad allegare

elementi di fatto idonei a fondare una presunzione semplice, e dunque valutabili dal

giudice ai sensi dell’art. 2729 c.c.); l’a lleggerimento, nel caso della discriminazione per

ragioni di genere, diviene una vera e propria inversione dell’onere della prova sulla base

della verosimiglianza (elementi di fatto idonei a fondare la presunzione) della

discriminazione (art. 4, 6° co., l. n. 125/1991 come modificato dal d. lg. n. 196/2000).

Di tutto ciò, almeno per ora, non si trova traccia nella giurisprudenza in materia di

licenziamento discriminatorio: la casistica continua ad essere povera, ma nelle non

frequenti occasioni nelle quali i giudici hanno occasione di intervenire la

discriminazione continua ad essere qualificata in senso soggettivo (come atto

intenzionale), e l’onere di provare l’intento discriminatorio è fatto gravare per intero sul

ricorrente. Ciò dipende probabilmente dal fatto che il contenzioso più classico e

cospicuo continua ad essere quello relativo ai licenziamenti c.d. “di ritorsione”, fondati

su motivi sindacali, che trovava in origine disciplina nel solo art. 4, l. n. 604/1966:

rispetto ad esso la S.C. continua a ripetere che per stabilire il carattere “ritorsivo” e

quindi la nullità del licenziamento occorre specificamente dimostrare, con onere a

carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio o di rappresaglia per l’attività svolta

abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro (Cass.

26 maggio 2001, n. 7188). Il motivo discriminatorio deve dunque risultare l’unico

motivo determinante del recesso: ancora di recente la Cassazione ha affermato in tal

senso, che ove il lavoratore impugni il licenziamento deducendo il difetto di giusta

causa o giustificato motivo, l’eventuale motivo discriminatorio, pure ricavabile da

circostanze di fatto allegate, integra un ulteriore motivo di illegittimità del recesso,

come tale non rilevabile d’ufficio e neppure configurabile come diversa qualificazione

del licenziamento (Cass. 21 dicembre 2004, n. 23683).

Riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 3, l. n. 108/1990 resta ancora da dire

che il legislatore ha espressamente previsto l’estensio ne ai dirigenti della nullità del

licenziamento discriminatorio; dubbi permangono invece per quanto riguarda

l’applicazione nei confronti dei «datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza

14

fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di

religione o di culto» rispetto ai quali si pongono i maggiori interrogativi. Nelle c.d.

“organizzazioni di tendenza” (su cui torneremo nel Capitolo successivo), si pone,

infatti, un potenziale contrasto tra l’identità del lavo ratore, intesa come insieme di

caratteristiche personale e scelte ideologiche, e la “tendenza” dell’organizzazione stessa.

Ora, secondo la giurisprudenza prevalente la “neutralità” delle mansioni svolte dal

lavoratore (intesa come non riconducibilità diretta alla tendenza dell’organizzazione)

non sempre è ritenuta sufficiente a garantirgli la tutela reale, quando comunque sia stato

licenziato da un datore di lavoro che rientri fra le organizzazioni di tendenza escluse

espressamente dall’ambito di applicazio ne di detta tutela. La questione si complica

quando la ragione del licenziamento sia riconducibile, direttamente o indirettamente, a

uno dei fattori di discriminazione espressamente vietati dal legislatore. Secondo l’art. 3

l. n. 108/1990, qualunque licenziamento determinato da ragioni discriminatorie è infatti

nullo e comporta in ogni caso, come abbiamo visto, l’applicazione del regime della

stabilità reale. Il contrasto tra tutela della libertà del lavoratore e tutela della ideologia

del datore di lavoro si trasforma così nel potenziale contrasto tra la norma espressa

dall’art. 3 e la norma espressa dal successivo art. 4, che disegna un’area di non

applicazione della tutela reale a favore della organizzazioni di tendenza.

La giurisprudenza (come peraltro la dottrina) appare divisa in merito alla

“prevalenza” dell’uno o dell’altro principio: nullità del licenziamento discriminatorio,

con diritto alla tutela reale, quale regola cardine a presidio della dignità e della libertà

del lavoratore, da una parte; legittimità del licenziamento ed esclusione (anche in questo

caso) della tutela reale, quale regola a presidio della libertà delle organizzazioni senza

fini di lucro che svolgono determinate attività ideologicamente connotate. Nella scelta,

come vedremo, riemerge ancora una volta, sotto una diversa angolazione, la rilevanza

della (eventuale) connotazione ideologica delle mansioni svolte dal lavoratore

illegittimamente licenziato.

Un’importante tappa, nel confuso sviluppo della giurisprudenza in materia, è sta ta

segnata da una decisione che ha tentato una ricomposizione dei due opposti

orientamenti, pronunciandosi sulla (il)legittimità del licenziamento, da parte di un

scuola cattolica, di un insegnante di educazione fisica che aveva contratto matrimonio

civile (ma non religioso). Muovendo dall’art. 4 l. n. 108/1990, Cass. 16 giugno 1994, n.

15

5633 ha osservato, in primo luogo, che detta norma, che serve a regolare gli effetti di un

normale licenziamento illegittimo, nulla dice sul problema fondamentale del

licenziamento ideologico, in ordine al quale l’art. 4 in ogni caso non trova applicazione.

Secondo la Corte, infatti, il licenziamento ideologico o è nullo indipendentemente dalla

motivazione addotta e in tal caso al lavoratore spetta in ogni caso la tutela reale,

qualunque sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro (art. 3 1. n. 108 del

1990), o è legittimo, quando l’adesione ideologica è requisito di autenticità della

prestazione, e in tale ipotesi nessuna tutela (né reale né obbligatoria) spetta al

lavoratore. La Corte ha sottolineato poi il carattere particolarmente odioso del

licenziamento ideologico, che priva il soggetto del proprio lavoro per aver esercitato

diritti, solennemente garantiti dalla Costituzione, come la liberta di opinione, la libertà

di religione e, nel campo della scuola, la libertà di insegnamento. Richiamate le

disposizioni che, nel tempo, sono state introdotte per tutelare i lavoratori nell’esercizio

di tali diritti costituzionali anche nell’ambito del luogo di lavoro, la Corte ha affermato

che le eccezioni a tali norme possono essere ammissibili solo negli stretti limiti in cui

sono indispensabili a garantire altri diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà

dei partiti politici e dei sindacati, la libertà religiosa e la libertà della scuola. Venendo

quindi al caso delle scuole gestite dagli enti ecclesiastici, la Corte ha affermato che in

questo caso la tendenza è insita nella caratterizzazione dell’insegnamento (ispirato ai

principi della Chiesa cattolica), che viene in esse impartito, tanto da chiamarsi

espressamente “scuole cattoliche”. La Corte ha richiamato in proposito una importante

pronuncia della Corte Costituzionale, la sentenza n. 195/1972, secondo la quale ove si

negasse all’Università Cattolica del S acro Cuore il potere – riconosciuto dal Concordato

– di recedere dal rapporto di lavoro nel caso in cui gli indirizzi religiosi o ideologici del

docente fossero divenuti contrastanti con quelli che caratterizzano l’istituzione

universitaria in oggetto, risulterebbe mortificata e rinnegata la libertà di quest'ultima.

Secondo il pensiero espresso in quella occasione dalla Corte Costituzionale, il docente

che accetta di insegnare in una università confessionalmente o ideologicamente

caratterizzata, lo fa, d’al tronde, per un atto di libero consenso, che implica l’adesione ai

principi ed alle finalità cui quella istituzione è informata.

Tuttavia, come osserva la Cassazione, i casi più frequenti di licenziamento

ideologico nelle scuole cattoliche non riguardano le mutate convinzioni religiose dei

16

dipendenti (come avvenne nel caso che ha dato origine alla pronuncia della Corte

Costituzionale) quanto comportamenti tenuti dal lavoratore nella sua vita privata,

comportamenti non coerenti con gli insegnamenti della Chiesa, come quello esaminato

dalla Cassazione nel caso dell’insegnante di educazioni fisica. Si trattava, in particolare,

di un licenziamento riconducibile ai licenziamenti ideologici motivati da comportamenti

che rappresentano l’esercizio di diritti solenne mente garanti dalla Costituzione. «Il

sacrificio di tali diritti è ammissibile solo in via del tutto eccezionale e nei limiti in cui

vengono a trovarsi in contrasto con altri principi costituzionalmente tutelati, quale è,

nella specie, la difesa dell’auten ticità della tendenza, garantita dal principio della liberta

della scuola, sancito dall’art. 33 Cost. Tale conflitto può verificarsi, però, solamente nei

confronti di quegli insegnamenti (e dei relativi docenti) che caratterizzano la tendenza».

La Cassazione ha riproposto a questo punto la questione delle mansioni del lavoratore

licenziato, introducendo una sottile distinzione tra tendenza della congregazione e

tendenza della scuola. «Nell’ambito di una scuola cattolica vi sono mansioni (quelle del

personale esecutivo e tecnico) e insegnamenti del tutto indifferenti rispetto alla tendenza

della scuola. L’adesione di quei dipendenti e di quei docenti agli insegnamenti della

Chiesa cattolica e la coerenza con essi della loro vita privata soddisfa solo la tendenza

della congregazione religiosa, che gestisce la scuola cattolica, ma non la tendenza

confessionale della scuola, che nessun attentato può ricevere da un diverso orientamento

ideologico di dipendenti e di insegnanti, che svolgono attività o insegnamenti in nessun

modo influenzati dalla tendenza della scuola. Fra tali insegnamenti vi è certamente

quello di educazione fisica impartito dal ricorrente, trattandosi di una materia che

prescinde completamente dall’orientamento ideologico del docente. Né vale obi ettare,

come fa la sentenza impugnata, che il docente nel suo insegnamento viene a contatto

con gli allievi, perché il semplice contatto con essi durante le lezioni di ginnastica non è

di per se idoneo ad orientare ideologicamente in modo diverso i giovani, salvo che non

risulti (e nella presente causa ciò non è mai stato affermato da alcuno) che il docente

avesse diffuso e propagato fra gli allievi idee e atteggiamenti in contrasto con l’indirizzo

cattolico della scuola». Cassando la sentenza del Tribunale che aveva ritenuto legittimo

il licenziamento del docente, la Corte ha così concluso: «se quindi nemmeno un mutato

atteggiamento ideologico di un professore di educazione fisica può costituire attentato

17

all’indirizzo educativo cattolico della scuola, a ma ggior ragione non lo può costituire un

comportamento solamente incoerente con gli insegnamenti della Chiesa».

Pare opportuno segnalare, sul punto, che il recepimento della Direttiva CE 2000/78

recentemente realizzato con il d.lgs. n. 216/2003 (art. 3) sembra avere per la prima volta

regolato – seppure in modo non limpido, e non perfettamente conforme alla Direttiva,

peraltro anch’essa non limpida in proposito – il rapporto tra divieto di discriminazione e

quella adesione ideologica che la Cassazione qualifica come requisito di autenticità

della prestazione. Anche se non risultano significative pronunce in proposito, pare

ragionevole ritenere, conclusivamente, che, se si muove dall’autonomia delle due norme

sopra richiamate (art. 3 e art. 4 l. n. 108/1990), si deve ritenere che qualsiasi

licenziamento fondato su un fattore discriminatorio non coincidente con l’ideologia

dell’organizzazione di tendenza (licenziamento per ragioni di sesso o di lingua in una

scuola cattolica, per esempio) configuri un licenziamento discriminatorio illegittimo e

dunque nullo, che comporta, ai sensi dell’art. 3, «le conseguenze previste dall’art. 18»

st. lav. (reintegrazione e risarcimento del danno).

SCHEDE DELLE SENTENZE

• Corte Costituzionale, sentenza 29 dicembre 1972 n. 195

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE

Argomento della sentenza: ISTRUZIONE PUBBLICA - PLURALISMO

SCOLASTICO - LIBERTA' DELLA SCUOLA - SI ESTENDE ALLE UNIVERSITA' -

AMMISSIBILITA' DI UNIVERSITA' LIBERE, CONFESSIONALI O

IDEOLOGICAMENTE CARATTERIZZATE - LIBERTA' DI INSEGNAMENTO DEI

DOCENTI IN ESSE - LIMITI CONSEGUENTI ALLA NECESSITA' DI

REALIZZARE LE FINALITA' DI SIFFATTE UNIVERSITA' - FATTISPECIE -

UNIVERSITA' CATTOLICA DEL SACRO CUORE - CONCORDATO TRA LO

18

STATO ITALIANO E LA S. SEDE, ART. 38: NULLA OSTA DELLA S. SEDE PER

LA NOMINA DEI PROFESSORI E POTERE DELLA STESSA DI RECEDERE DAL

RAPPORTO - NON VIOLA L'ART. 33 DELLA COSTITUZIONE - ESCLUSIONE DI

ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.

Massima: La libertà della scuola intesa come attuazione del principio del

pluralismo scolastico ai sensi dell’art. 33 Cost., si estende indubbiamente alle università,

per cui e' ammissibile la creazione di università libere, che possono essere confessionali

o comunque ideologicamente caratterizzate; ne deriva necessariamente che la libertà di

insegnamento da parte di singoli docenti che sono liberi di aderire all'indirizzo della

scuola come di recedere dal relativo rapporto, incontra nel particolare ordinamento di

siffatte università i limiti necessari a realizzarne le finalità. Ciò vale in particolare per

l’Università cattolica la cui pretesa natura di persona giuridica pubblica non ne

attenuerebbe comunque l’originaria destinazione finalistica e la caratterizzazione

confessionale. Negando ad una libera università ideologicamente qualificata il potere di

scegliere i suoi docenti in base ad una valutazione della loro personalità e negandosi alla

stessa il potere di recedere dal rapporto ove gli indirizzi religiosi o ideologici del

docente siano divenuti contrastanti con quelli che caratterizzano la scuola, si

mortificherebbe e rinnegherebbe la libertà di questa, inconcepibile senza la titolarità di

quei poteri, e pertanto l’art. 38 del Concordato non contrasta con l’art. 33 Cost., che

subordina al nulla osta della S. Sede la nomina dei professori dell’Università cattolica

del Sacro Cuore.

Parametri costituzionali: Costituzione art. 33.

Riferimenti normativi : legge 27/05/1929 n. 810 art. 38.

• Corte Costituzionale, sentenza 22 gennaio 1987 n. 17

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE

19

Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - ATTI

DISCRIMINATORI - IN DANNO DELLE LAVORATRICI - DISCRIMINAZIONE

DETERMINATA DAL COMPORTAMENTO DEL TERZO COMMITTENTE - NON

FONDATEZZA DELLA QUESTIONE NEI SENSI DI CUI IN MOTIVAZIONE.

Massima: Il principio di parità di diritti e di retribuzione tra lavoratrice e lavoratore

ha efficacia generale per tutti i cittadini e va osservato, nella fase di costituzione e in

quella di svolgimento del rapporto, non solo da parte del datore di lavoro, ma anche da

parte dei terzi a favore dei quali, in base ad apposito contratto, vada il risultato

dell’attività lavorativa. Sono pertanto nulle le clausole di tale contratto che importino

discriminazioni fondate unicamente sulla diversità di sesso; né l’eventuale domanda di

risoluzione proposta dal terzo per ragioni che implichino tale discriminazione integra un

giustificato motivo di licenziamento della lavoratrice, ben potendo opporsi alla

domanda il datore di lavoro, sul quale comunque ricadono le conseguenze dei

licenziamenti discriminatori eventualmente intimati. (Non fondatezza - nei sensi di cui

in motivazione - della questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento agli

artt. 3, 4 e 37 Cost. e relativa al combinato disposto degli artt. 1, L. 9 dicembre 1977 n.

903, e 15, ultimo comma, L. 20 maggio 1970 n. 300, nella parte in cui escluderebbe,

rispetto al prestatore e al datore di lavoro, la rilevanza del comportamento del terzo che

comunque determini lo stesso datore ad una condotta violatrice del principio di parità

tra lavoratore e lavoratrice).

Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 4; art. 37.

Riferimenti normativi: legge 9/12/1977 n. 903 art. 1; legge 20/05/1970 n. 300 art.

15 ultimo comma.

Note a sentenza: DL II/1987, pp. 130 ss., nota CASCIANO.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 13 dicembre 2000 n. 15689

20

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento

individuale - Licenziamento discriminatorio - Intento di rappresaglia del datore di

lavoro - Criteri - Fattispecie.

Massima: In tema di licenziamenti individuali, affinché ricorra l’intento di

rappresaglia del datore di lavoro occorre accertare l’esclusiva efficacia determinativa

della qualità di lavoratore sindacalmente attivo (nella specie la S.C. ha confermato la

decisione di merito che aveva escluso il carattere discriminatorio del licenziamento in

un caso in cui lo scarso impegno e la mancanza di attenzione dimostrati dal lavoratore

nel periodo di assegnazione al suo ufficio avevano impedito allo stesso, impegnato

giornalmente per oltre il 30-40 per cento in attività sindacali, di essere inserito in un

programma di lavoro con scadenze da rispettare.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 marzo 2001 n. 3947

Argomento della sentenza: Previdenza (assicurazioni sociali) - In genere -

Ricostruzione della posizione assicurativa in caso di licenziamento intimato per motivi

politici, sindacali o religiosi, ex legge n. 36/1974 - Operatività anche in caso di

successiva riassunzione del lavoratore da parte dello stesso datore di lavoro con la

medesima qualifica - Sussistenza - Dubbio di legittimità costituzionale in riferimento

agli artt. 3 e 38 Cost. per eccesso di tutela del lavoratore - Manifesta infondatezza.

Massima: Lo speciale beneficio previsto dalla legge 15 febbraio 1974, n. 36 - che

ha contemplato, in favore dei lavoratori dipendenti il cui rapporto sia stato risolto per

motivi politici, sindacali o religiosi tra il primo gennaio 1948 ed il 7 agosto 1966, il

diritto alla ricostituzione della posizione assicurativa per il periodo intercorrente tra la

data del licenziamento e quella di raggiungimento dei requisiti di età e contribuzione per

il diritto alla pensione di vecchiaia – opera anche ove, successivamente al

licenziamento, il lavoratore sia stato riassunto dallo stesso datore di lavoro con la

21

medesima qualifica precedentemente conseguita, atteso che la legge non configura la

riassunzione come causa di esclusione del detto beneficio né pone alcuna distinzione in

funzione della durata dello stato di non collocazione e, quindi, della mancata

contribuzione ad essa conseguente. Né tale interpretazione introduce - in contrasto con

gli artt. 3 e 38 Cost. - elementi di irrazionalità o di ingiustificata locupletazione del

lavoratore tutelato, atteso che dall’ammontare dei contributi da accreditare ai sensi

dell’art. I della legge n. 36 del 1974 vanno in ogni caso detratti quelli derivanti dalla

copertura assicurativa conseguente alla riassunzione del lavoratore.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 26 maggio 2001 n. 7188

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento

individuale - Licenziamento discriminatorio - Intervento di rappresaglia del datore di

lavoro - Onere della prova - Grava sul lavoratore.

Massima: Nel caso di controversia concernente la legittimità del licenziamento di

un lavoratore sindacalmente attivo, per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità

del provvedimento espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre

specificamente dimostrare, con onere a carico del lavoratore, che l’intento

discriminatorio e di rappresaglia per l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa

esclusiva della volontà del datore di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini

della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso.

• Tribunale di Roma, sentenza 26 marzo 2002

Argomento della sentenza: Confessioni religiose diverse dalla cattolica - Intese ex

art. 8 Cost. - Chiesa cristiana avventista del settimo giorno - Legge 22 novembre 1988,

n. 516 - Riposo sabbatico - Licenziamento discriminatorio.

22

Massima: Il Tribunale di Roma, in sede di appello, pronunciandosi sulla decisione

resa dal Pretore in merito a un licenziamento connesso al rispetto del riposo sabbatico di

un lavoratore di fede avventista, ha confermato che le conclusioni desunte dal giudice di

primo grado circa il configurarsi effettivo di un licenziamento discriminatorio

sussistono in ragione della corretta interpretazione da parte del Pretore delle risultanze

processuali. In particolare, il Tribunale ha ritenuto infondate le richieste dell’appellante

circa l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie in merito alla riconducibilità del

recesso ad esigenze organizzative aziendali attinenti all’osservanza dei turni di servizio,

e ha confermato la sussistenza di ragioni discriminatorie, configurando così un

licenziamento non sostenuto da motivazioni delineanti un giustificato motivo.

• Tribunale di Napoli (ord.), 26 maggio 2003

Argomento dell’ordinanza: Sciopero - Proclamazione - Irrilevanza - Occupazione

dei locali dismessi dall’imprenditore - Liceità - Licenziamento discriminatorio -

Sussistenza.

Massima: Il preavviso o preventiva comunicazione al datore di lavoro non è

necessario ai fini della legittimità dello sciopero, a meno che esso non sia

specificamente richiesto dalla legge (come nel caso dei servizi pubblici essenziali) o

non sia indispensabile per evitare pregiudizi alla capacità produttiva dell’azienda (come

ad esempio il danneggiamento dei macchinari). L’occupazione, preceduta

dall’assemblea dei lavoratori, dall’effettuazione dello sciopero, e perpetrata con il

presidio dei locali aziendali (di proprietà di altra società), va ritenuta legittima, qualora

si inserisca in un contesto nell’ambito del quale l’attività lavorativa si trovava già

sospesa per lo sciopero e per l’imminente trasferimento dell’attività. Il provvedimento

di licenziamento irrogato di fronte a tali eventi deve perciò ritenersi antisindacale e

discriminatorio, con conseguente dichiarazione di nullità.

Note: DML 2003, pp. 691 ss., nota DENTICI.

23

• Tribunale di Bari, sentenza 30 settembre 2003

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Estinzione

del rapporto - Licenziamento individuale - In genere - Licenziamenti discriminatori -

Art. 3 legge 11 maggio n. 108/1990 - Interpretazione estensiva - Ammissibilità -

Licenziamenti per ritorsione - Inclusione.

Massima: Il licenziamento inflitto a seguito di un comportamento legittimo del

lavoratore (c.d. licenziamento per rappresaglia o ritorsione) rientra nella categoria –

suscettibile di interpretazione estensiva - del licenziamento disposto per motivi

discriminatori, affetto da nullità.

• Tribunale di Modena, sentenza 18 giugno 2004

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per giustificato

motivo oggettivo - Invalidità - Ragioni discriminatorie prospettate dal lavoratore -

Insussistenza - Conseguenze - Tutela reale – Inapplicabilità.

Massima: La nozione di licenziamento discriminatorio, di cui L all’art. 3, legge

108l1990, non può essere estesa sino a ricomprendere qualsiasi esigenza non tutelata dal

diritto, perché altrimenti l’istituto in questione non avrebbe più alcun a autonomia,

coprendo sostanzialmente tutta l’area del licenziamento ingiustificato. In presenza di più

posizioni lavorative tutte equivalenti, il datore che intenda procedere ad un

licenziamento per giustificato motivo oggettivo, motivato con l’eccedenza di personale,

deve utilizzare in via analogica alcuni dei criteri di scelta normativamente previsti per i

licenziamenti collettivi, prendendo in considerazione, in particolare, il carico familiare e

l’anzianità dei lavoratori coinvolti (Nella specie, una l avoratrice aveva impugnato il

licenziamento intimatole, affermando che il medesimo sarebbe stato adottato per

ritorsione ad una serie di assenze effettuate per la malattia del figlio).

24

• Tribunale di Milano, sentenza 7 ottobre 2004

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per motivi

discriminatori - Partecipazione a uno sciopero - Effetti - Nullità - Conseguenze -

Reintegrazione ex art. 18 SL. - Prova del motivo illecito del licenziamento - Presunzioni

gravi, precise e concordanti - Sufficienza.

Massima: Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, basato su inesistenti

ragioni organizzative che trova la sua reale motivazione nella partecipazione a uno

sciopero da parte del lavoratore, deve essere dichiarato nullo perché discriminatorio. Le

conseguenze sono quelle di cui all'art. 18 SL così come previsto dal combinato disposto

dell’art. 3 L. 11/5/90 n. 108 e dell’art. 15 SL. L'onere della prova del motivo illecito del

licenziamento è in capo al lavoratore che può raggiungerla anche a mezzo di

presunzioni gravi, precise e concordanti.

Note a sentenza: D&L I/2005, pp. 238 ss., nota CIVITELLI.

• Corte di Appello di Potenza, sentenza 15 giugno 2005

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per motivi

discriminatori - Ritorsione a fronte di dichiarazioni rese dalla lavoratrice agli Ispettori

dell’Inps - Nullità del licenziamento - Conseguenze - Reintegrazione ex art. 18 SL. -

Prova del motivo illecito di licenziamento - Presunzioni semplici - Sufficienza -

Fattispecie.

Massima: Il licenziamento irrogato per ragioni ritorsive, sulla base di un motivo

illecito che ha unicamente ed esclusivamente determinato il datore di lavoro a emanare

l’atto di recesso, deve essere dichiarato nullo perché discriminatorio, consegu endone

l’applicazione dell’art. 18 SL. (nella fattispecie, la lavoratrice era stata licenziata, sul

presupposto fittizio di un inesistente giustificato motivo oggettivo, in seguito delle

25

dichiarazioni spontanee rese agli Ispettori dell’Inps). L’onere della prova circa la

sussistenza del motivo discriminatorio del licenziamento, in applicazione dei principi

generali, grava sul lavoratore, che può raggiungerla a mezzo di presunzioni gravi,

precise e concordanti (nella fattispecie individuate nella mancanza di effettiva

consistenza del giustificato motivo oggettivo di recesso, nell’assegnazione alla

lavoratrice di mansioni dequalificanti al rientro in servizio dopo il periodo di maternità,

e nella successiva forzata imposizione delle ferie fino al compimento del primo anno di

vita del figlio).

Note a sentenza: D&L II-III/2005, pp. 595 ss., nota BULGARINI D’ELCI.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 14 luglio 2005, n. 14816

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento per motivi

discriminatori - Giusta causa - Giustificato motivo di recesso - Nullità del recesso -

Appartenenza del lavoratore al sindacato - Onere della prova della finalità ritorsiva.

Massima: Per affermare il carattere ritorsivo e quindi la nullità del provvedimento

espulsivo, in quanto fondato su un motivo illecito, occorre specificamente dimostrare,

con onere a carico del lavoratore, che l’intento discriminatorio o di rappresaglia per

l’attività svolta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di

lavoro anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta

causa o di un giustificato motivo di recesso e che per l’accertamento dell’intento

ritorsivo del licenziamento non è sufficiente la deduzione dell’appartenenza del

lavoratore ad un sindacato, o della sua partecipazione, anche se attiva, ad attività

sindacali, ma è necessaria la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra tali

circostanze e l’asserito intento di rappresaglia, dovendo, in mancanza, escluders i la

finalità ritorsiva del licenziamento.

• Tribunale di Siracusa, sentenza 6 ottobre 2005

26

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale -

Giustificato motivo oggettivo - Rappresaglia - Unicità del motivo illecito - Nullità.

Massima: E’ nullo il licenziamento, formalmente intimato dall'azienda per

giustificato motivo oggettivo, nel caso in cui si sia accertato che l’unico motivo

fondante l’atto di recesso sia di natura discriminatoria, concretando una «rappresaglia»

a danno del lavoratore che non ha inteso sottoscrivere un accordo relativo

all’applicazione di un nuovo contratto collettivo di settore, implicante un peggioramento

del trattamento economico spettante al lavoratore medesimo.

• Tribunale di Siracusa, sentenza 6 dicembre 2005

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale -

Giusta causa - Rappresaglia - Non unicità del motivo illecito - Validità.

Massima: E’ infondata l’eccezione di nullità del licenziamento formalmente

intimato dall’azi enda per giusta causa - in quanto determinato da ritorsione e

rappresaglia, presuntivamente indotto dal rifiuto della ricorrente di aderire ad un nuovo

contratto collettivo, integrante un peggioramento del trattamento economico, nel caso in

cui, oltre a non essere provata l’esistenza di un effettivo «ricatto» ai danni della

lavoratrice, non sia stato specificamente dimostrato, da parte di quest’ultima, che

l’intento di rappresaglia abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del

datore di lavoro.

Note a sentenza: Guida al lavoro 7/2006, pp. 48 ss. nota RICCI e TRAPANESE.

2.1. Il licenziamento per causa di matrimonio

27

A norma dell’art. 1, l. 9 gennaio1963, n. 7, le clausole di nubilato di qualsiasi

genere, contenute nei contratti individuali e collettivi e nei regolamenti, sono nulle e si

hanno per non apposte; parimenti nulli sono i licenziamenti per causa di matrimonio.

Nulle sono anche le dimissioni presentate dalla lavoratrice nello stesso periodo per cui è

prevista la nullità del licenziamento (a meno che la lavoratrice non le confermi entro un

mese davanti all’Ufficio del lavoro, ora Direzione provinciale del lavoro). Per sollevare

la lavoratrice ricorrente dall’onere di provare l’illecito motivo determinante il recesso, la

legge stabilisce che il licenziamento si presume disposto per causa di matrimonio

quando intervenga nel periodo intercorrente tra la richiesta delle pubblicazioni e l’anno

successivo alla celebrazione. La legge espressamente presume dunque che il

licenziamento “durante” il periodo protetto sia avvenuto a “causa di matrimonio”. La

Corte Costituzionale (con sentenza n. 27/1969) ha affermato il carattere assoluto della

presunzione per le seguenti ragioni: perché preclude al datore di lavoro di provare che il

licenziamento non è stato disposto a causa di matrimonio; perché è assorbente di ogni

altra ragione giustificatrice; perché è superabile solo in presenza di una delle cause

espressamente previste dalla medesima legge. Le conseguenze della nullità del

licenziamento sono definite dalla legge con un rigore nuovo per la legislazione del

tempo: la lavoratrice illegittimamente licenziata ha diritto ad essere riammessa in

servizio, ed ha altresì diritto alla retribuzione (globale di fatto) per tutto il periodo che

va dal licenziamento fino alla data della effettiva reintegrazione in servizio.

La l. n. 7/1963, forse a causa dei principi innovatori introdotti, suscitò reazioni

negative: vennero sollevate eccezioni di illegittimità costituzionale che la Corte

Costituzionale respinse: il divieto di licenziamento, sostanzialmente sostenuto dalla

presunzione della causa di matrimonio, è diretto – disse la Corte – a «salvaguardare la

libertà e la dignità umana» dei soggetti a favore dei quali è disposto (cioè delle donne, e

solo delle donne), e non crea perciò un ingiustificato vantaggio (quello della

conservazione del posto) per le donne sposate.

A molti anni di distanza dalla sua entrata in vigore, la legittimità costituzionale della

l. n. 7/1963 è stata rimessa in discussione proprio sotto il profilo del vantaggio che

assicura alla lavoratrice. La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione;

nella motivazione la Corte ha affermato che la politica di «favore per il matrimonio e di

28

agevolazione della formazione della famiglia legittima», che a suo giudizio ispira la

legge del 1963, è al riparo «da un giudizio di eccessività di tutela», perché l’art. 31

Cost. tutela l’interesse pubblico a che sia favorita la formazione della famiglia legittima

fondata sul matrimonio (sentenza n. 46/1993). Così decidendo, però, la Corte si è

pronunciata su questioni che non formavano oggetto del giudizio e ha trascurato invece

di approfondire la riflessione sulla questione che l’ordinanza del giudice torinese la

invitava ad esaminare. A nostro parere si può anche oggi ritenere legittimo il vantaggio

attribuito alla lavoratrice, purché si abbia la certezza che il matrimonio in quanto tale

costituisca una perdurante causa di discriminazione delle donne, e si abbia perciò

ragione di affermare che le lavoratrici che contraggono matrimonio meritano una

speciale tutela (nell’ambito appunto delle misure antidiscriminatorie per ragioni di

genere).

La connessione tra la “causa di matrimonio” che motiva il licenziamento della

lavoratrice e la considerazione (diretta) del suo genere pare evidente (ma non ai nostri

giudici, che continuano ad ignorarla), se solo si tiene a mente la connessione tra

matrimonio e “rischio” di maternità. Un forte argomento in tal senso si può trarre dalla

considerazione che tutte le leggi antidiscriminatorie vigenti in Europa, ispirate alla

Direttiva CE 76/207 (ora modificata con Direttiva CE 2002/73), menzionano il

matrimonio come causa di discriminazione diretta e/o indiretta delle donne nell’accesso

al lavoro e nelle condizioni di lavoro. Insomma, visto con gli occhi di oggi (e alla luce

della legislazione vigente in materia), il licenziamento per causa di matrimonio può farsi

rientrare nella categoria dei licenziamenti discriminatori per ragioni di genere, la cui

nullità dà oggi accesso alla reintegrazione nel posto di lavoro, regolata dall’art. 18 st.

lav.

SCHEDE DELLE SENTENZE

• Corte Costituzionale, sentenza 5 marzo 1969 n. 27

29

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE

Argomento della sentenza: LAVORO - LAVORATRICI - DIVIETO DI

LICENZIAMENTO PER CAUSA DI MATRIMONIO - LEGGE 9 GENNAIO 1963,

N. 7 - FINALITA' - SUPERAMENTO DEL CONFLITTO TRA L'INTERESSE

DELLE LAVORATRICI ALLA CONSERVAZIONE DEL POSTO DI LAVORO ED

IL CONTRAPPOSTO INTERESSE DEI DATORI DI LAVORO - FONDAMENTO

DELLA LEGGE IN PRINCIPI COSTITUZIONALI - NON VIOLA GLI ARTT. 2, 3,

4, 31, 37 - ESCLUSIONE DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE.

Massima: La legge 9 gennaio 1963, n. 7, fu emanata in seguito alla prassi, in

precedenza largamente diffusa, dei licenziamenti delle lavoratrici in occasione del loro

matrimonio, ed allo scopo di dirimere, nel senso più rispondente alle esigenze della

società, il conflitto, derivatone, tra l’interesse delle lavoratrici alla conservazione del

posto di lavoro ed il contrapposto interesse dei datori di lavoro. Tali finalità sono state

perseguite non soltanto con le disposizioni sui licenziamenti, ma anche attraverso una

più ampia mutualizzazione (artt. 3 e segg.) degli oneri finanziari già posti a carico dei

datori di lavoro dalla legge 26 agosto 1950, n. 860, sulla tutela fisica ed economica delle

lavoratrici madri. Nel quadro di questa premessa, la tutela accordata alle lavoratrici che

contraggono matrimonio appare sorretta da ragioni che trovano riscontro nella realtà

sociale e legittimo fondamento in una pluralità di principi costituzionali che concorrono

a giustificare misure legislative intese a sollevare la donna dal dilemma di dover

sacrificare il posto di lavoro per salvaguardare la propria libertà di dar vita ad una nuova

famiglia o, viceversa, di dover rinunziare a questo suo fondamentale diritto per evitare

la disoccupazione. Tali principi costituzionali sono espressi: a) dall’articolo 2 della

Costituzione, che garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fr a i quali non può non essere

compresa la libertà di contrarre matrimonio; b) dall’art. 3, secondo comma, che impone

di rimuovere ogni ostacolo, anche di fatto, che impedisca il pieno sviluppo della persona

umana; c) dall’art. 31, che affida alla Repubblica il compito di agevolare la formazione

della famiglia, e, quindi, di intervenire là dove questa sia anche indirettamente

ostacolata; d) dall’art. 37, che, stabilendo che le condizioni di lavoro devono consentire

30

alla donna l’adempimento della sua funzione familiare non può non presupporre, in

primo luogo, che le sia assicurata la libertà di diventare sposa e madre; e) dalle norme

dell’art. 4 e da quelle dell’art. 35, primo comma, sulla tutela del lavoro, che la

Costituzione, in coerenza con l’art. 1, colloc a in testa al titolo terzo relativo ai rapporti

economici.

Parametri costituzionali: Costituzione art. 2; art. 3; art. 4; art. 31; art. 37.

Riferimenti normativi: legge 9/01/1963 n. 7.

• Corte Costituzionale, sentenza 10 febbraio 1993 n. 46

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE.

Argomento della sentenza: LAVORO - (TUTELA DEL) - DONNA

LAVORATRICE - LICENZIAMENTO PER CAUSA DI MATRIMONIO -

DISCIPLINA DI CUI ALL'ART. 1, L. N. 7 DEL 1963 - CONTENUTO E FINALITA' -

APPLICABILITA' ALLE LAVORATRICI SPOSATE DA NON PIU' DI UN ANNO -

ANALOGIA DELLA POSIZIONE DI QUESTE ULTIME CON LA POSIZIONE

DELLE LAVORATRICI NEL PERIODO DI COMPORTO PER MATERNITA' -

CONSEGUENZE - DIVIETO DI LICENZIAMENTO ANCHE IN RELAZIONE

ALLE PROCEDURE DI "MESSA IN MOBILITA'" E LICENZIAMENTO

COLLETTIVO PER RIDUZIONE DEL PERSONALE.

Massima: L’art. 1, l. n. 7 del 1963, riducendo tassativamente ai tre casi indicati

nell’art. 3, secondo comma, l. n. 860 del 1950, la facoltà del datore di lavoro di provare

che il licenziamento della lavoratrice sposata da non più di un anno non è stato

effettuato a causa del matrimonio, ha sopravanzato la finalità perseguita dall’originario

disegno di legge (contrastare la prassi dei licenziamenti di lavoratrici per causa di

matrimonio) e ha assunto, oltre al valore di provvedimento repressivo di un’ipotesi di

31

licenziamento (individuale) illecito, anche quello positivo di provvedimento

promozionale del matrimonio stesso e della famiglia legittima (artt. 2, 4, 35, 37, 41,

secondo comma, 29 e 31 Cost.). In relazione alla sospensione del potere di recesso

prevista in capo al datore, la condizione di tale lavoratrice è quindi analoga a quella

della dipendente in comporto per maternità, con la conseguenza che essa, nel periodo di

tempo definito dal predetto art. 1, terzo comma, l. n. 7 del 1963, non può essere colpita

da licenziamento individuale se non negli indicati limiti, né assoggettata alle procedure

di messa in mobilità o di licenziamento collettivo per riduzione del personale regolate

dalla l. n. 223 del 1991.

Riferimenti normativi: legge 9/01/1963 n. 7 art. 1 comma 5.

Note a sentenza: MGL 1993, pp. 4 ss., nota LUCIFREDI; RGL II/1993, pp. 105

ss., nota COLACURTO.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 10 gennaio 2005 n. 270

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento

individuale - Matrimonio della lavoratrice - Divieto di licenziamento - Licenziamento

intimato nel periodo compreso tra la richiesta di pubblicazioni ed il compimento di un

anno dalla celebrazione - Nullità - Obbligo di comunicazione della lavoratrice - Non

sussiste.

Massima: La tutela accordata dalla l. 9 gennaio 1963, n. 7 alle lavoratrici che

contraggono matrimonio è fondata sull’elemento obiettivo della celebrazione del

matrimonio e non è subordinata all’adempimento di alcun obbligo di comunicazione

(rispondente peraltro al dovere di collaborazione e di esecuzione del contratto secondo

buona fede) da parte della lavoratrice; tanto si evince, in particolare, dalla presunzione

concernente l’avvenuta intimazione per causa di matrimonio del licenziamento della

lavoratrice disposto nel periodo compreso tra la data della richiesta delle pubblicazioni e

l’anno successivo alla celebrazione delle nozze, alla cui stregua la possibilità di

32

conoscenza del matrimonio inizia, per il datore di lavoro, con il compimento, da parte

dei nubendi, delle formalità preliminari previste dal codice civile.

2.2. Il licenziamento della lavoratrice madre

Riformulando e aggiornando (alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale)

quanto sancito dalla l. n. 1204/1971, l’art. 54, d.lg. n. 151/2001 (t.u. delle disposizioni

legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, emanato in base

della delega contenuta nell’art. 15, l. n. 53/2000) stabi lisce che il divieto di

licenziamento opera dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo

d’interdizione dal lavoro (congedo obbligatorio post partum) «nonché fino al

compimento di un anno di età del bambino». Il 2° co. aggiunge che il divieto «opera in

connessione con lo stato oggettivo di gravidanza», prescindendo di conseguenza dalla

conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro; la lavoratrice

licenziata è tenuta tuttavia a presentare (non più nel termine di 90 giorni, come in

precedenza) idonea certificazione da cui risulti lo stato di gravidanza al momento del

licenziamento.

L’art. 54, 5° co., stabilisce che il licenziamento intimato in violazione del divieto è

nullo. La nullità del licenziamento, espressamente sancita, costituisce il frutto della

sentenza interpretativa di accoglimento della Corte Costituzionale n. 61/1991, che,

respingendo l’orientamento della Cassazione (allora favorevole alla mera temporanea

inefficacia del licenziamento), ha stabilito appunto la nullità del licenziamento intimato

in costanza di divieto, e al di fuori delle previste eccezioni, che allora erano tre (ma

come vedremo, la stessa Corte Costituzionale, con sentenza n. 172/1996, ha introdotto

una quarta eccezione al divieto: l’esito negativo della prova).

Tralasciando altre non secondarie questioni, e soffermandosi solo sul problema che

qui interessa, si tratta di vedere se il licenziamento della lavoratrice madre intimato

durante il divieto (senza che ricorra una delle quattro eccezioni di cui dirò oltre), possa

essere ricondotto nella sfera di applicazione dell’art. 3, l. n. 108/1990 (licenziamenti

discriminatori, per i quali il legislatore ha sancito la generale applicabilità della

disciplina della reintegrazione nel posto di lavoro). Buona parte della dottrina e ancora

33

di recente la stessa Cassazione (con sentenze 12 gennaio 2005, n. 426, e 15 settembre

2004, n. 18537) insistono sul fatto che tale licenziamento è vietato perché cade

“durante” il divieto, e non perché è “a causa di gravidanza o puerperio” . Si vuole così

sottolineare che, durante il periodo vietato, l’esistenza di eventuali ragioni giustificatrici

(che non siano quelle consentite) è del tutto ininfluente: anche se il datore di lavoro

fosse in grado di provare una giustificato motivo o una giusta causa (diversa dalla colpa

grave della lavoratrice), il licenziamento sarebbe egualmente nullo. A ben vedere, del

resto, una delle implicazioni della nullità del licenziamento della lavoratrice madre sta

proprio nella irrilevanza di ragioni che, se così non fosse, potrebbero giustificare il

licenziamento; al contrario, ove il licenziamento fosse solo temporaneamente inefficace,

l’indagine sull’esistenza di una ragione giustificatrice avrebbe influenza sulla validità

del licenziamento, pure temporaneamente improduttivo di effetti.

La nullità del licenziamento della lavoratrice madre presenta una sostanziale

analogia, ma alcune importanti differenze, con la nullità del licenziamento della

lavoratrice per causa di matrimonio. La l. n. 7/1963 espressamente presume che il

licenziamento “durante” il periodo protetto sia avvenuto a “causa di matrimonio” e la

presunzione, come si è detto, è assoluta. Se, in base all’analogia con la causa di

matrimonio, possiamo dire che il licenziamento della lavoratrice madre durante il

periodo protetto si presume “a causa di maternità”, e aggiungiamo che la presunzione ha

carattere assoluto, questo licenziamento può essere allora configurato come

licenziamento “discriminatorio per ragioni di sesso”.

Abbiamo parlato di “presunzione assoluta” della causa di maternità, ma corre

l’obbligo di segnalare che questa affermazione rischia di essere messa in discussione da

quanto ha stabilito la Corte Costituzionale nella sentenza – n. 172/1996 – nella quale ha

aggiunto (si tratta infatti di una sentenza additiva, interpretativa di accoglimento) il

recesso per esito negativo della prova alle tre eccezioni già previste art 2, 3° co., della

(abrogata) l. n. 1204/ 1971 (colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta

causa per la risoluzione del rapporto di lavoro; cessazione dell’attività dell’azienda cui

essa è addetta; ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o

risoluzione del rapporto per scadenza del termine). La Corte ha aggiunto questa

eccezione considerando che se durante il periodo di prova operasse il divieto di

licenziamento, alla scadenza del periodo l’assunzione diverrebbe definitiva, malgrado il

34

giudizio negativo del datore di lavoro sull’esperimento della pro va, e ciò vanificherebbe

il significato del patto di prova; inoltre il datore sarebbe obbligato ad accettare (salvo il

periodo di congedo obbligatorio) la prestazione da lui ritenuta non idonea fino al

compimento di un anno di età del bambino.

Mentre nelle tre ipotesi precedenti il licenziamento si presume per causa di

maternità e dunque illegittimo a meno che il datore di lavoro non provi che ricorre una

delle eccezioni al divieto previste, nel caso della prova il recesso si presume legittimo,

in quanto determinato da esito negativo della prova. La presunzione è solo relativa,

perché ammette la prova in contrario, di cui è onerata la lavoratrice (a meno che il

datore non fosse a conoscenza della gravidanza: in questo caso, dovendo motivare il

licenziamento, questi è anche onerato della prova della fondatezza delle ragioni

addotte).

Si è detto sopra che la presunzione della causa di maternità dovrebbe portare a

qualificare il licenziamento intimato in periodo coperto dal divieto come “licenziamento

discriminatorio” riconducendolo così nell’area di applicazione dell’art. 3 l. n. 108/1990.

Questa soluzione non è accolta dalla nostra giurisprudenza e non è stata accolta neppure

dal nostro legislatore in occasione della trasposizione della Direttiva CE 2002/73 (d.lgs.

n. 145/2005). Eppure il diritto comunitario è ben chiaro in materia2

L’insistenza sulla qualificazione del licenziamento della lavoratrice madre in

violazione del divieto non sembri un esercizio retorico: vero è che, malgrado il silenzio

della legge, i giudici riconoscono che dalla nullità del licenziamento deriva oltre al

diritto al ripristino del rapporto, il pagamento a titolo risarcitorio delle retribuzioni

successive alla cessazione del rapporto in virtù della giuridica continuità di esso (in

analogia con quanto previsto dalla legge n. 7/1963) , ma non è meno vero che la

mancata qualificazione del licenziamento come discriminatorio priva la lavoratrice della

tutela di cui all’art. 18 st. lav.: tutela alla quale avrebbe invece diritto di accedere, ove i

giudici prestassero maggiore attenzione al diritto comunitario e alle sue prescrizioni.

2 In questo senso è la giurisprudenza costante della CGCE, a partire dalla sentenza 8 novembre 1990, C-177-88, Dekker, RCG, 1990, I, 3968. Per quanto attiene al licenziamento cfr. CGCE 4 ottobre 2001, C-109/100, Tele Danmark. La Corte giustamente specifica che il licenziamento di una lavoratrice a motivo del proprio stato interessante è discriminatorio: a) quand’anche la lavoratrice sia stata a ssunta a tempo determinato; b) abbia omesso di informare il datore di lavoro in merito al proprio stato interessante, pur essendone a conoscenza al

35

SCHEDE DELLE SENTENZE

• Corte Costituzionale, sentenza 8 febbraio 1991 n. 61

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE.

Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - LAVORATRICI

MADRI - LICENZIAMENTO NEL PERIODO DI GRAVIDANZA E PUERPERIO -

PREVISIONE DI TEMPORANEA INEFFICACIA ANZICHE' DI NULLITA' -

DISCRIMINAZIONE IN RELAZIONE AI COMPITI CONNESSI CON LA

MATERNITA', LA CURA DEI FIGLI E DELLA FAMIGLIA - IMPEDIMENTO PER

LA REALIZZAZIONE DELL'EFFETTIVA PARITA' DI DIRITTI DELLA DONNA

LAVORATRICE - ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE PARZIALE.

Massima: Un divieto che comporti un mero differimento dell’efficacia del

licenziamento, intimato alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e di puerperio,

anziché la nullità radicale di esso, rappresenta una misura di tutela insufficiente per la

donna lavoratrice. La protezione cui fa riferimento la norma costituzionale (art. 37),

infatti, non si limita alla salute fisica della donna e del bambino, ma investe tutto il

complesso rapporto che, nel detto periodo, si svolge tra madre e figlio; il quale rapporto

deve essere protetto non solo per ciò che attiene ai bisogni più propriamente biologici,

ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono

collegate allo sviluppo della personalità del bambino. Conseguentemente tali principi,

collegati a quello d’uguaglianza, impongono alla legge di impedire che possano, dall a

maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino, derivare conseguenze

negative e discriminatorie per la lavoratrice madre per evitare anche che la maternità si

traduca, in concreto, in un impedimento alla realizzazione dell’effettiva parità di d iritti

momento della conclusione del contratto di lavoro; e c) a motivo di tale stato, non sia più in grado di svolgere l'attività lavorativa per una parte rilevante della durata del contratto stesso.

36

della donna lavoratrice. Devesi, pertanto, dichiarare l’illegittimità costituzionale

dell’art. 2 l. 30 dicembre 1971, n. 1204, nella parte in cui prevede la temporanea

inefficacia anziché la nullità del licenziamento intimato alla donna lavoratrice nel

periodo di gestazione e di puerperio.

Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 37 comma 1.

Riferimenti normativi: legge 30/12/1971 n. 1204 art. 2.

Note a sentenza: RGL II/1991, pp. 3 ss., nota DEL CONTE; MGL 1991, pp. 4 s.,

nota FONTANA; DL II/1991, pp. 221 ss., nota DE FALCO; RIDL II/1991, pp. 724 ss.,

nota MATTAROLO.

• Corte Costituzionale, sentenza 31 maggio 1996 n. 172

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE.

Argomento della sentenza: LAVORO (TUTELA DEL) - LAVORATRICI

MADRI - DIVIETO DI LICENZIAMENTO DELLE LAVORATRICI IN CASO DI

GRAVIDANZA E PUERPERIO - INAPPLICABILITA' DEL PREDETTO DIVIETO

NEL CASO DI RECESSO PER ESITO NEGATIVO DELLA PROVA (NELLA

SPECIE SI FA RIFERIMENTO AD UN RAPPORTO DI PORTIERATO CON UNA

SOCIETA' IMMOBILIARE) - OMESSA PREVISIONE - RITENUTA DISPARITA'

DI TRATTAMENTO RISPETTO ALLE LAVORATRICI ADDETTE AI SERVIZI

DOMESTICI E FAMILIARI - PRETESA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO

DELL'AUTONOMIA CONTRATTUALE - ESTRANEITA' DELLA NORMA

IMPUGNATA AL CASO OGGETTO DEL GIUDIZIO 'A QUO' -

INAMMISSIBILITA'.

Massima: E' inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in

riferimento agli artt. 3, 41 e 42 Cost., dell’art. 1 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204

37

(in tema di tutela delle lavoratrici madri) - nella parte in cui non esclude dall’ambito

normativo del divieto di licenziamento delle lavoratrici in caso di gravidanza e

puerperio il recesso dal contratto del datore di lavoro per esito negativo della prova - in

primo luogo, perché la norma speciale del terzo comma, concernente le lavoratrici

addette ai servizi domestici e familiari, è estranea al caso oggetto del giudizio a quo, in

cui si tratta di un rapporto di portierato con una società immobiliare, non configurabile

come una specie di servizio familiare; ed in secondo luogo, perché questa norma,

additata come tertium comparationis ai fini dell’art. 3 Cost., disponendo in generale

l’inapplicabilità alle lavoratrici domestiche del divieto di licenziamento previsto dal

successivo art. 2, ha una portata più estesa rispetto alla questione.

Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 41; art. 42.

Riferimenti normativi: legge 30/12/1971 n. 1204 art. 1.

Note a sentenza: LG 1996, pp. 848 ss., nota GOTTARDI.

• Corte Costituzionale, sentenza 14 dicembre 2001 n. 405

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE.

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Trattamento di maternità -

Diritto alla indennità di maternità in caso di licenziamento della lavoratrice nel periodo

di interdizione dal lavoro - Irragionevole esclusione in violazione del principio di

protezione della maternità - Illegittimità costituzionale 'in parte qua'.

Massima: E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 17, primo comma, della legge 30

dicembre 1971, n. 1204, nella parte in cui esclude la corresponsione dell’indennità di

maternità nell’ipotesi di licenziamento prevista dall’art. 2, lettera a), della medesima

legge, in quanto tale norma, in contrasto con il principio della speciale protezione della

38

maternità sancito dagli artt. 31 e 37 della Costituzione, irragionevolmente esclude il

diritto all’indennità in funzione della ragione del licenziamento, cui è dato rilievo

preponderante rispetto allo stato oggettivo della gravidanza e del puerperio.

Parametri costituzionali: Costituzione art. 3; art. 31; art. 37.

Precedenti in termini richiamati dalla sentenza: v. sentenze, richiamate, n.

361/2000, n. 310/1999, n. 423/1995, n. 132/1991.

Parametri normativi:legge 30/12/1971 n. 1204 art. 17 comma 1.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 gennaio 2000, n. 61

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Donne -

Diritto alla conservazione del posto - Divieto di licenziamento della lavoratrice madre -

Limiti - Colpa grave costituente giusta causa - Accertamento - Criteri.

Massima: Ai fini dell’operatività della norma dell’art. 2, terzo comma, lett. a), della

legge 30 dicembre 1971 n. 1204 - che rende inoperante il divieto di licenziamento della

lavoratrice madre sancito dal primo comma dello stesso articolo, quando ricorra «colpa

grave da parte della lavoratrice» - non è sufficiente accertare la sussistenza di un

giustificato motivo soggettivo, ovvero di una situazione contemplata dalla

contrattazione collettiva quale giusta causa idonea a legittimare la sanzione espulsiva,

ma è invece necessario - anche alla luce di quanto stabilito nella sentenza della Corte

costituzionale n. 61 del 1991 - verificare se sussista quella colpa specificamente prevista

dalla suddetta norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista

dalla disciplina pattizia per generici casi di inadempimento del lavoratore sanzionati con

la risoluzione del rapporto. Salvo restando che la suddetta verifica deve essere eseguita

tenendo conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue

particolari condizioni psico - fisiche legate allo stato di gestazione e di maternità, le

39

quali possono assumere rilievo ai fini dell’esclusione della gravità del comportamento

sanzionato solo in quanto abbiano operato come fattori causali o concausali dello stesso.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 21 settembre 2000 n. 12503

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Maternità -

Diritto alla conservazione del posto - Operatività dell’art. 2, comma 3, lett. A), legge n.

1204 del 1971.

Massima: Ai fini dell’operatività dell’art. 2, comma 3, lett. A) della legge n. 1204

del 1971 - che rende inoperante il licenziamento della lavoratrice madre sancito dal

comma 1, dello stesso articolo quando ricorra «colpa grave da parte della lavoratrice» -

non è sufficiente

accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo di

licenziamento, ma è invece necessario verificare - con il relativo onere probatorio a

carico del datore di lavoro – se sussista quella colpa specificatamente prevista dalla

suddetta norma e diversa (per l’indicato connotato di gravità) da quella prevista dalla

legge o dalla disciplina collettiva per generici casi di infrazione o di inadempimento

sanzionati con la risoluzione del rapporto; tale verifica deve essere eseguita tenendo

conto del comportamento complessivo della lavoratrice, in relazione alle sue particolari

condizioni psico-fisiche legate allo stato di gestazione.

Note a sentenza: LG IV/2001, pp. 345 ss., nota FERRAU’.

• Tribunale di Pisa, sentenza 6 marzo 2002

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento a causa di

maternità - Natura discriminatoria - Nullità - Reintegra.

40

Massima: Il licenziamento di una lavoratrice in stato di gravidanza, intimato fuori

dai casi consentiti dal d.lgs 151/2001, è atto discriminatorio ai sensi dell’art. 15 legge

300/70. È pertanto nullo con conseguente diritto alla reintegra.

Note a sentenza: RGL II/2004, pp. 771 ss., nota GRECO.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 novembre 2002 n. 16189

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Donne -

Diritto alla conservazione del posto - Divieto di licenziamento ex art. 2 della legge n.

1204 del 1971 di lavoratrice in stato di gravidanza o puerperio - Sentenza della corte

cost. n. 61 del 1991 - Licenziamento intimato in violazione di tale divieto -

Conseguenze - Nullità - Ripristino del rapporto - Risarcimento del danno nella misura

delle retribuzioni maturate successivamente alla cessazione del rapporto - Necessità.

Massima: Il licenziamento intimato ad una lavoratrice in stato di gravidanza o

puerperio in violazione del divieto di cui all’art. 2 della legge n. 1204 del 1971, affetto

da nullità a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 61 del 1991, comporta, anche in

mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto (ripristino che deriva da tale

nullità indipendentemente dalle dimensioni aziendali, configurandosi in modo diverso

dalla reintegrazione di cui all’art. 18 st. lav.), il pagamento, a titolo risarcitorio, delle

retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, dovendosi lo stesso

considerare come mai interrotto.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 27 febbraio 2003 n. 3022

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Lavoro subordinato - Estinzione

del rapporto - Licenziamento individuale - Impugnazione - Decadenza - Nullità del

licenziamento per vizio di forma - Applicabilità del termine ex art. 6 legge n. 604 del

I966 - Esclusione - Fondamento.

41

Massima: Il termine di sessanta giorni per l’impugnazione del licenziamento

previsto dall’art. 6 legge n. 604 del 1966 deroga al principio generale - desumibile dagli

artt. 1421 e 1422 cod. civ. - secondo il quale, salvo diverse disposizioni di legge, la

nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l’azione per farla

dichiarare non è soggetta a prescrizione. Ne consegue che, sotto questo profilo, la

disposizione di cui al citato art. 6 legge n. 604 del 1966 è da considerarsi di carattere

eccezionale e non è perciò applicabile. neanche in via analogica, ad ipotesi di nullità del

licenziamento che non rientrino nella previsione della citata legge n. 604 del 1966. E

pertanto da escludersi che il suddetto termine di sessanta giorni per l’impugnativa sia

applicabile al licenziamento nullo perché privo della forma imposta dalla legge ad

substantiam.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 15 settembre 2004 n. 18537

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Disciplina legislativa di tutela

della maternità - Licenziamento nullo durante il periodo di gravidanza – Conseguenza -

Inapplicabilità della tutela reale di cui all’art. 18 St. lav. - Riammissione in servizio -

Diritto al risarcimento del danno.

Massima: Al licenziamento nullo perché intimato durante il periodo di gravidanza

non si applica la tutela reale posta all’art. 18 St. lav., per mancata riconduzione alla

fattispecie del licenziamento discriminatorio. Il licenziamento è nullo e improduttivo di

effetti. Il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro va

condannato a riammettere la lavoratrice in servizio e a pagarle i danni derivanti

dall’inadempimento in ragione del mancato guadagno.

Note a sentenza: Guida al lavoro 40/2004, pp. 10 ss., nota GOTTARDI.

• Tribunale di Pistoia, sentenza 27 ottobre 2005

42

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento in maternità -

Discriminazione - Azione in giudizio della Consigliera di Parità - Legittimazione -

Diritto al risarcimento danno non patrimoniale - Sussistenza.

Massima: Pone in essere un comportamento discriminatorio il datore di lavoro che

licenzi una lavoratrice per il suo stato di gravidanza, fuori dai casi consentiti dal D. Lgs.

26/3/01 n. 151, con conseguente obbligo del datore di lavoro, sul piano della rimozione

degli effetti, di reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro, di pagare alla stessa le

retribuzioni dal momento dell'offerta della prestazione lavorativa e di risarcire il danno

non patrimoniale.

Nota a sentenza: D&L 2006, pp. 594 ss., nota CECCONI.

43

3. Stabilità reale e stabilità obbligatoria: campi di applicazione a seconda dei

requisiti dimensionali e delle caratteristiche del datore di lavoro

3.1. Stabilità obbligatoria e organizzazioni di tendenza

Ai sensi dell’art. 4, 1° co., l. n. 108/1990, sono esclusi dall’area della stabilità reale i

datori di lavoro non imprenditori «che svolgono, senza fini di lucro attività di natura

politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto»: questi datori

di lavoro restano destinatari del regime di stabilità obbligatoria, indipendentemente dal

numero dei propri dipendenti.

La Corte di Cassazione con la sentenza 16 settembre 1998, n. 9237, ha interpretato

l’art. 4, 1° co. in questo senso: per escludere l’applicazione della tutela reale,

l’organizzazione di tendenza deve presentare determinati requisiti, che sono i seguenti:

il primo è che si tratti di datori di lavoro “non imprendit ori”, privi cioè dei requisiti di

cui all’art. 2082 c.c. (professionalità, organizzazione, natura economica dell’attività di

produzione o di scambio di beni o servizi, ovvero nell’interposizione nello scambio di

beni o servizi). La locuzione “senza fini d i lucro”, contenuta nell’art. 4, si giustifica

perché è imprenditore chi oggettivamente produce ricchezza, anche se non ha scopo di

lucro personale. Il secondo requisito richiesto per escludere questi datori di lavoro

dall’area della stabilità reale è che l’attività rientri in quelle tassativamente previste (così

Cass. 7 aprile 2005, n. 7207).

Resta da osservare che l’area dei non imprenditori anzidetta non corrisponde

appieno a quella delle cosiddette organizzazioni di tendenza (cioè caratterizzate

ideologicamente), ancorché alcune organizzazioni di tendenza vi siano ricomprese:

l’esclusione dei fini di lucro infatti determina l’esclusione di importanti organizzazioni

di tendenza (tra le quali alcuni comprendono imprese editoriali e istituti di istruzione).

Rinviando alle considerazioni svolte a proposito del licenziamento discriminatorio

nelle organizzazioni di tendenza, ci si limita qui a segnalare che il legislatore,

nell’escludere le organizzazioni non imprenditoriali di tendenza dall’area di

applicazione della stabilità reale, non ha fatto alcuna differenza tra lavoratori che

44

svolgono mansioni “ideologicamente connotate” e lavoratori con mansioni “neutre”.

Sulla rilevanza di tale differenza si erano registrate in passato opinioni discordi sia in

dottrina sia in giurisprudenza (si vedano, infra, le schede delle sentenze in argomento):

ma tenuto conto che di tale differenza non si trova traccia nell’art. 4, 1° co, l. n.

108/1990, la giurisprudenza è orientata (non senza qualche contraddizione) nel senso di

non distinguere, giacché è nell’interesse dell’organizzazione di tendenza che anche i

lavoratori “a prestazioni neutre” siano considerati, posto che l’esonero dall’obbligo di

reintegrazione ex art. 18 st. lav. si spiega con la volontà del legislatore di garantire al

datore di lavoro di tendenza la possibilità di mantenere l’adesione di tutti i dipendenti

alla finalità tipica.

SCHEDE DELLE SENTENZE

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 11 agosto 2000 n. 10640

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

- Organizzazioni di tendenza - Reintegrazione nel posto di lavoro - Inapplicabilità -

Questione di legittimità costituzionale - Infondatezza.

Massima: Deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità

costituzionale dell’art. 4, comma primo, della legge n. 108 del 1990, nella parte in cui

prevede l’inapplicabilità dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 alle cosiddette

organizzazioni di tendenza, tenute presenti le valutazioni espresse dalla Corte

costituzionale riguardo alle conseguenze dell’illegittimità del licenziamento intimato da

una piccola impresa (sentenza n. 44 del 1996) e deliberando circa 1’ammissibilità del

referendum abrogativo delle norme sulla reintegrazione nel posto di lavoro (sentenza n.

46 del 2000, in cui - valorizzandosi l’articolazione della disciplina risultante dalla legge

n. 108 del 1990 - si osserva che la tutela reale non ha copertura costituzionale,

rappresentando solo uno dei modi possibili per realizzare la garanzia del diritto al

lavoro).

45

Note a sentenza: Foro It., I/2001, c. 127, nota ORIANI.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 17 luglio 2001 n. 9662

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento individuale -

Organizzazioni di tendenza - Tutela reale - Art. 18 l. 20 maggio 1970, n. 300 -

Associazioni senza fine di lucro - Applicabilità - Esclusione.

Massima: La Cassa edile, esercitando una funzione analoga a quella assicurativa, di

intermediazione, con erogazione di prestazioni e servizi nell’ambito del lo specifico

settore delle imprese edili, e non di previdenza o assistenza, non rientra fra le

associazioni senza fini di lucro svolgenti attività sindacale per le quali, a norma dell’art.

4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, é esclusa l’applicabilità del la disciplina di cui

all’art. 18 della 1egge n. 300 del 1970.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 11 luglio 2001 n. 9396

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento individuale -

Organizzazioni di tendenza - Associazione esercenti macellai.

Massima: Tra le imprese industriali e commerciali, cui si applica la disciplina

dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, in tema di tutela reale del posto di lavoro, sono

da ricomprendersi, in quanto produttrici di servizi sia per gli associati che per il

mercato, quelle aventi per scopo l’organizzazione e la tutela degli interessi dei singoli

associati, con conseguente inapplicabilità della disciplina della legge n. 108 del 1990

sulle cosiddette organizzazioni di tendenza, escluse dall’ambito di ope ratività della

tutela reale e soggette soltanto alla legge n. 604 del 1966 (nella specie, la S.C. ha

confermato la decisione di merito che aveva disposto la reintegra del lavoratore in un

caso in cui il datore di lavoro, un’associazione di categoria, svolg eva attività

46

imprenditoriale di assistenza contabile e fiscale nei confronti sia degli associati che dei

terzi).

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 6 novembre 2001, n. 13721

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

- Organizzazioni di tendenza - Reintegrazione nel posto di lavoro - Attività diretta a

fornire un servizio esclusivo per gli appartenenti alla categoria rappresentata -

Applicabilità della tutela reale - Esclusione - Espletamento dell’attività secondo

modalità imprenditoriali - Irrilevanza - Fattispecie relativa all’unione del commercio e

del turismo della provincia di Livorno.

Massima: La tutela reale in favore dei lavoratori licenziati da organizzazioni

cosiddette di tendenza va esclusa, ai sensi dell’art 4 legge n. 108 del 1990, allorché

l’attività espletata - ancorché in forme e modalità imprenditoriali - si traduca, in quanto

diretta a fornire un servizio rivolto unicamente agli iscritti, in una forma di assistenza o

comunque di sostegno all’attivit à professionale della categoria rappresentata, con

esclusione di ogni attività, anche analoga, a favore di terzi (fattispecie relativa

all’attività di assistenza e consulenza fiscale espletata in favore dei soci dall’unione del

Commercio e del Turismo della provincia di Livorno).

Note a sentenza: RIDL III/2002, pp. 631 ss., nota GARATTONI; LG 9/2002, pp.

868 ss., nota GIRARDI.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 dicembre 2002 n. 18218

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

- Organizzazioni di tendenza - Reintegrazione nel posto di lavoro - Esclusione -

Presupposti - Mancanza di una struttura imprenditoriale - Necessità - Fattispecie relativa

all’Istituto addestramento lavoratori.

47

Massima: In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, l’applicabilità

della disciplina prevista per le cd. organizzazioni di tendenza dall’art 4 della legge 11

maggio 1990, n. 108, che esclude l’operatività della tutela reale stabilita dall’art 18 della

legge 20 maggio 1970. n. 300, richiede l’accertamento, in linea preliminare, da parte del

giudice, che il datore di lavoro non sia un imprenditore ex art. 2082, cod. civ., e, quindi,

che non sussista una struttura imprenditoriale e, soltanto qualora detto accertamento

abbia esito negativo, occorre verificare la ricorrenza degli ulteriori requisiti tipici di

siffatte organizzazioni. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che

aveva escluso la qualificazione come organizzazione di tendenza dell’Istituto di

addestramento lavoratori - coordinamento regionale del Piemonte, per l’assorbente

rilievo che esso operava avvalendosi di una organizzazione e di una struttura di carattere

imprenditoriale).

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 7 gennaio 2003 n. 26

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

- Organizzazioni di tendenza - Licenziamento illegittimo intimato da un partito politico

- Conseguenze.

Massima: Allorquando il datore di lavoro è un partito politico (nella specie, Partito

Socialista italiano), e cioè un’associazione non riconosciuta che svolge attività politica

senza fini di lucro, l’unica conseguenza dell’accentata illegittimità del licenziamento è

la riassunzione del lavoratore o, in alternativa, la corresponsione della prevista

indennità, con esclusione, quindi, ai sensi dell’art 4 della legge n. I08 del 1990, della

reintegrazione nel posto di lavoro.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 5 aprile 2003 n. 5401

48

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

-Organizzazioni di tendenza - Lavoro e fattore religioso - Tutela reale del lavoratore -

Applicabilità - Presupposti - Esclusione - Caratterizzazione ideologica della

organizzazione - Irrilevanza.

Massima: In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, la disciplina

stabilita per le c.d. «organizzazioni di tendenza» dall’art. 4 L. n. 108 del 1990, che

esclude l’operatività della tutela reale stabilita dall’art. 18 L. n. 300 del 1970, è

applicabile alle associazioni che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica,

sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione, non essendo necessario che dette

attività presentino una «caratterizzazione ideologica», che pure può connotare alcune di

esse (nella specie, la Suprema Corte, cassando la sentenza di merito, ha affermato che

l’attività svolta dall’associazione ricorrente – associazione italiana per l’assistenza agli

spastici – di «natura culturale» e consistente nella «promozione dello sviluppo della

cultura dell’handicap», è riconducibile alla previsione dell’art. 4 L. n. 108 del 1990).

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 6 agosto 2003 n. 11883

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

-Organizzazioni di tendenza - Tutela reale - Esclusione - Disciplina sul trasferimento -

Applicabilità - Sussistenza.

Massima: In base al disposto dell’art. 4 della 1. n. 108 del 1990, i lavoratori

dipendenti dalle organizzazioni di tendenza (nel caso di specie, l’lnas) non godono del la

tutela reale di cui all’art. 18 della 1. n. 300 del 1970, ma godono comunque della tutela

prevista per la generalità dei lavoratori; in particolare, deve escludersi l’esenzione delle

organizzazioni di tendenza dalla regolamentazione legislativa dei trasferimenti dei

lavoratori.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 28 agosto 2003 n. 12634

49

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

-Organizzazioni di tendenza - Tutela reale - Inapplicabilità - Presupposti - Datore di

lavoro non imprenditore - Necessità - Fattispecie relativa all’Associazione nazionale

bieticoltori.

Massima: Al fine di configurare un’organizzazione di tendenza, che, ai sensi

dell’art. 4 della 1. n. 108 del 1990, è esclusa dall’ambito di operatività de lla tutela reale

prevista - in caso di licenziamenti illegittimi - dall’art. 18 della 1. n. 300 del I970, è

necessario che si tratti di datore di lavoro «non imprenditore», privo dei requisiti

previsti dall’art. 2082 C.C. (e cioè professionalità, organizza zione, natura economica

dell’attività). In particolare, l’applicazione della disciplina prevista dalla predetta 1. n.

108 del 1990 per le organizzazioni di tendenza presuppone 1’accertamento in concreto

da parte del giudice di merito dell’assenza nella sin gola organizzazione di una struttura

imprenditoriale e della presenza dei requisiti tipici dell’organizzazione di tendenza,

come definita dalla stessa legge, all’art. 4. (Nella specie la S.C. ha confermato la

sentenza di merito che aveva ritenuto la natura di organizzazione di tendenza

dell’Associazione nazionale bieticoltori, argomentando dalla natura della stessa di ente

con personalità giuridica privata, senza finalità di lucro, in quanto avente lo scopo della

tutela degli interessi collettivi professionali della categoria dei coltivatori di bietole, e

priva del carattere imprenditoriale, non svolgendo alcuna attività economica).

Note a sentenza: RIDL II/2004, pp. 618 ss., nota AVONDOLA

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 26 gennaio 2004 n. 1367

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

- Organizzazioni di tendenza - Criteri di identificazione - Imprenditorialità o meno

dell’attività - Indici - Scopo di lucro - Necessità - Esclusione - Limitazione dell’attività

di tipo imprenditoriale ai soli associati - Idoneità - Esclusione - Fattispecie.

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Massima: Ai fini dell’applicazione dell’art 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108,

che esclude dall’ambito di operatività dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 i

datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura

politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, il datore di

lavoro è qualificabile o meno imprenditore in base alla natura dell’attività da lui svolta,

da valutare secondo gli ordinari criteri, che fanno riferimento al tipo di organizzazione e

all’economicità della gestione, a prescindere dall’esistenza di un vero e proprio fine di

lucro, restando irrilevante che la prestazione di servizi, ove effettuata secondo modalità

organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale, sia resa solo nei confronti di

associati al soggetto che tali servizi eroga ovvero ad un’organizzazione sindacale cui il

soggetto erogatore sia collegato. (Nella specie, la sentenza impugnata, confermata dalla

S.C., aveva ritenuto di tipo imprenditoriale l’attività di prestazione di servizi svolta dalla

Confesercenti, o società a questa collegate, in favore di imprese associate).

Note a sentenza: MGL 2004, pp. 693 ss., nota GRAGNOLI.

• Corte di Appello di Venezia, sentenza 6 febbraio 2004

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

- Licenziamento di dirigente - Organizzazioni di tendenza - Clausola di durata minima

garantita salva la sussistenza di grave inadempienza del dirigente - Grave dissenso

ideologico - Giusta causa di licenziamento ex art. 2119 cc - Sussistenza - Grave

inadempienza contrattuale - Esclusione - Diritto alla corresponsione delle retribuzioni

sino alla durata minima garantita - Sussistenza.

Massima: In un’organizzazione di tendenza è legittimo il licenziamento a norma

dell’art. 2119 codice civile di un dirigente apicale per grave dissenso ideologico, ma tale

condotta non costituisce grave inadempienza del contratto di lavoro, tale da esonerare

l’organizzazione dal rispetto di una clausola di durata minima del rapporto. Ne

consegue la condanna dell’organizzazione alla corresponsione delle retribuzioni sino

alla data di durata minima pattuita.

51

Note a sentenza: D&L IV/2004, pp. 990 ss., nota MANCINI.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 febbraio 2004, n. 2912

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

- Organizzazioni di tendenza - Lavoro e fattore religioso - Tutela reale - Esclusione -

Condizione - Requisiti - Accertamento - Necessità.

Massima: In tema di licenziamento, l’applicabilità della disciplina prevista per le

cosiddette organizzazioni di tendenza dall’art. 4 L. 11 maggio 1990 n. 108 (con

conseguente esclusione, nei loro confronti, della tutela reale di cui all’art. 18 L. 20

maggio 1970, n. 300), presuppone l’accertamento in concreto, da parte del giudice di

merito, della presenza dei requisiti tipici dell’organizzazione di tendenza, definita come

datore di lavoro non imprenditore che svolge, senza fine di lucro, attività di natura

politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione e di culto, e, più in

generale, qualunque attività prevalentemente ideologica purché in assenza di una

struttura imprenditoriale.

• Corte di Appello di Napoli, sentenza 31 dicembre 2004

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Organizzazione di tendenza -

Licenziamento per soppressione del posto di lavoro di organista da parte di Santuario

religioso - Inapplicabilità della tutela reale

Massima: Al Santuario va riconosciuta la natura di organizzazione di tendenza in

relazione alla quale l’articolo 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, esclude

l’applicabilità dell’istituto della reintegra previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei

lavoratori. Ed infatti, la ratio della predetta norma è quella di agevolare determinate

attività che, pur presentando connotati economici, o pur essendo comunque svolte

52

secondo criteri di economicità, non perseguono precipuamente fini di lucro, essendo

piuttosto orientate a scopi culturali, assistenziali o, più in generale, caratterizzate da

vincoli di solidarietà di tipo professionale, ideologico, politico, sindacale o religioso.

Ciò che appare decisivo ai fini della esclusione o meno del regime di tutela di cui

all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, è l’accertamento – sulla base della previsione

statutaria e del concreto operare dell’organizzazione – dello svolgimento di un’attività

che, pur presentando connotati economici, risulti essere essenzialmente rivolta alla

realizzazione di finalità culturali, politiche, sindacali, o – come nel caso in esame –

religiose: cioè di un’attività che non sia meramente imprenditoriale (ossia volta a meri

scopi lucrativi e speculativi), ma che appaia rivolta al perseguimento dei fini

istituzionali pur attraverso la realizzazione di incrementi patrimoniali interni. In ogni

caso, il licenziamento effettuato per giustificato motivo oggettivo è legittimo in quanto,

come insegna la Suprema Corte, ai fini della configurabilità dell’ipotesi di soppressione

del posto di lavoro, integrante – nella impossibilità di una diversa collocazione del

dipendente – il giustificato motivo oggettivo del recesso, non è necessario che vengano

soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, atteso che le

stesse ben possono essere soltanto diversamente ripartite e attribuite nel quadro del

personale già esistente.

• Tribunale di Padova, sentenza 18 gennaio 2005

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Imprese di

tendenza - Carattere non imprenditoriale dell’attività - Onere della prova.

Massima: In materia di licenziamento del lavoratore subordinato, è onere del

prestatore di lavoro dimostrare la sussistenza del requisito dimensionale per la tutela

reale; grava, invece, sul datore di lavoro, la prova di versare in una delle fattispecie

previste dall’articolo 4, l. 108 del 1990, relative alle cd. “organizzazioni di tendenza”,

atteso il carattere eccezionale e residuale delle stesse; l’app licabilità della disciplina

contenuta nell’articolo 4 della suddetta legge richiede l’accertamento che il datore di

lavoro non sia qualificabile come imprenditore ex art. 2082 C.C., alla stregua degli

53

ordinari criteri riferiti al tipo di organizzazione e alla economicità della gestione, a

prescindere dalla esistenza di un vero e proprio fine di lucro. Non può negarsi il

carattere di impresa agli istituti scolastici o educativi per il solo fatto che l’attività di

insegnamento ed istruzione ivi svolta abbia natura intellettuale, atteso che tale natura

inerisce la prestazione lavorativa dei docenti, ma non connota l’organizzazione

aziendale complessivamente considerata. In particolare, l’istituto scolastico deve essere

inquadrato fra le imprese industriali ai sensi dell’art. 2195 n. 1 C.C. – quale impresa

produttrice di servizi – in quanto produce un servizio rappresentato dalla diffusione del

sapere e della scienza, e cioè un risultato nuovo ed originale, diverso e autonomo dalle

utilità fornite dai beni preesistenti.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 7 aprile 2005 n. 7207

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Imprese di

tendenza - Carattere non imprenditoriale dell’attività - Attività consistente in servizi di

tipo alberghiero a ecclesiastici - Applicabilità dell’art. 4 l. 108/90 - Esclusione.

Massima: Ai fini dell’applicazione dell’art. 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108,

che esclude dall’ambito di operatività dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n.

300, i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di

natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto, l’attività

svolta - oltre ad avere carattere non imprenditoriale - deve rientrare in una delle

previsioni della suddetta disposizione legislativa, avendo riferimento all’oggetto

essenziale e qualificante della stessa e restando irrilevanti profili eventualmente

secondari rispetto ai quali la prima abbia autonomia. (In applicazione di tali principi, la

Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto l’applicabilità dell’articolo

18 dello Statuto dei lavoratori all’Ente datore di lavoro, la cui attività essenziale -

affidata a soggetto giuridico avente come scopo il suo svolgimento - consiste nel fornire

servizi di tipo alberghiero ad ecclesiastici residenti a Roma per lavoro o transitanti,

restando irrilevante l’attività svolta dagli ospiti e le modalità di offerta del servizio,

54

quali la possibilità di svolgere all’interno attività di culto, ai fini di far rientrare l’attività

in quelle di religione o di culto).

Note a sentenza: D&L IV/2004, pp. 873 ss., nota CIVITELLI.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 15 aprile 2005 n. 7837

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

- Organizzazioni di tendenza - Licenziamento illegittimo - Giusta causa.

Massima: Per verificare se al rapporto di lavoro dei civili dipendenti di uno Stato

membro o di un organismo della Nato (il cui rapporto di lavoro è disciplinato dalla

legge sostanziale e processuale dello Stato ospitante) si applichi, in caso di

licenziamento illegittimo, ove il datore di lavoro abbia sede in Italia e sussistendone il

presupposto dimensionale, la tutela reale prevista dalla formulazione attuale

dell’artic olo 18 St. Lav., o l’art. 8, l. n. 604 del 1966, che consente al datore di lavoro

qualificabile come “organizzazione di tendenza” la scelta tra la riassunzione del

dipendente e il pagamento di un’indennità, il giudice di merito deve verificare se

ricorrano i 3 requisiti richiesti dall’articolo 4, l. n. 108 del 1990 per configurare il datore

di lavoro come organizzazione di tendenza: riconducibilità del datore di lavoro ad una

delle tipologie di organizzazioni di tendenza indicate dallo stesso articolo; mancanza di

scopo di lucro; mancanza di un’organizzazione imprenditoriale (nella specie, la Corte di

Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabile la tutela

reale alla dipendente civile di una clinica militare americana sita all’interno di una base

Nato con sede in Italia, sul presupposto – corretto – che lo Stato datore di lavoro fosse

un’organizzazione di tendenza, priva per definizione di uno scopo di lucro, ma che non

risultasse provato che la clinica ove veniva svolta l’atti vità non costituisse una struttura

organizzativa in forma di impresa, circostanza il cui onere probatorio incombeva sul

datore di lavoro).

55

Motivazioni (punti essenziali): La Corte ricorda come a seguito della riforma

introdotta dalla legge n. 108 del 1990, «in linea di massima, il regime della tutela reale,

ricorrendone i presupposti dimensionali, è generalizzato a tutti i datori di lavoro non

potendo più distinguersi tra imprenditori e non imprenditori. Tuttavia, l’abbandono

dell’aggancio del regime d ella tutela reale all’identificabilità di un imprenditore nel

datore di lavoro si è accompagnato all’identificazione di un’area di immunità da questa

garanzia più accentuata del lavoratore nei confronti del licenziamento illegittimo con la

conseguente applicabilità della garanzia più blanda della tutela obbligatoria identificata

nell’art. 8 della legge n. 604 del 1966» (così, tra l’altro, Cass. 7 gennaio 2003, n. 26).

«I1 legislatore ha ritenuto, nella sua discrezionalità, che in quelle che sono state definite

come organizzazioni di tendenza non potesse obbligarsi il datore di lavoro a reintegrare

il lavoratore illegittimamente licenziato (ex art. 18 St. Lav.), dovendo invece consentirsi

a quest’ultimo la scelta, prevista dall’art. 8, legge n. 604/1966, tra la riassunzione del

dipendente ed il pagamento di un’indennità». «La libertà di associazione, già tutelata di

per sé come diritto costituzionalmente protetto in un ordinamento pluralista e

democratico (art. 18 Cost.), esprime poi un associazionismo qualificato, meritevole per i

fini che persegue di una disciplina differenziata senza che ne soffra il principio di

eguaglianza. Si tratta, secondo la catalogazione dell’art. 4 cit., dei partiti che

concorrono, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.);

dei sindacati, che liberamente possono essere costituiti per la tutela dei lavoratori (art.

39 Cost.); delle organizzazioni ed istituzioni di cultura, il cui sviluppo è promosso dalla

Repubblica (art. 9 Cost.), o di quelle di istruzione, la quale è libera e garantita (art. 33);

delle associazioni confessionali o enti religiosi o di culto, che esprimono la libertà di

fede religiosa in forma associata (art. 19 Cost.)». Il particolare rilievo, anche

costituzionale. di questa forma di associazionismo qualificato - aggiunge la Corte -

«giustifica una disciplina differenziata ed un bilanciamento con il diritto al lavoro in

termini tali da preservare la «tendenza» condivisa dagli associati. Da una parte il

licenziamento illegittimo, in quanto non assistito da giusta causa o giustificato motivo,

deve avere una sanzione proporzionata al bene leso; d’altra parte la compagine degli

associati non deve essere permeabile all’inserimento forzoso di un apporto lavorativo

non accettato». La garanzia della «tendenza» passa quindi attraverso una necessaria

opzione dell’associazione datrice di lavoro tra la riattivazione effettiva del rapporto

56

ingiustamente troncato ed una compensazione indennitaria; opzione (del datore di

lavoro) che è presente nell’art. 8 cit., ma non anche nell’art. 18 cit. (che invece prevede

solo un’opzione del lavoratore). L’associazione di tendenza deve poter «scegliere»

perché la mancanza di opzione ridonda in indiretta limitazione della sua libertà; e questo

regime preferenziale, che certamente deroga al principio di eguaglianza, è giustificato

proprio dal rilievo costituzionale della «tendenza».

La Suprema Corte osserva che da questa connotazione marcatamente derogatoria della

norma speciale rispetto alla regola generale applicabile a tutti gli altri datori di lavoro in

forma associata, imprenditori e non imprenditori, consegue poi «da una parte il

carattere, in linea di massima, chiuso della catalogazione contenuta nell’art. 4 cit. (salva

semmai la necessità di un’interpretazione adeguatrice in relazione ad organizzazioni di

tendenza la cui mancata inclusione possa far insorgere un dubbio non manifestamente

infondato di legittimità costituzionale) e d’altra parte un criterio interpretativo stretto

dell’eccezione rispetto alla regol a». Questa connotazione di eccezionalità è poi marcata

anche dal fatto che l’art. 4 della legge n. 108/1990 non si limita ad elencare le

organizzazioni di tendenza destinatarie della disciplina di favore; pone anche due

ulteriori requisiti: occorre che non si tratti di «imprenditori» e che non vi sia un «fine di

lucro». Quindi, ad esempio, l’impresa di tendenza come anche l’impresa non profit non

rientrano nella fattispecie dell’art. 4 cit. e sono invece soggette alla regola generale

dell’applicabilità dell a tutela reale. Di conseguenza, l’esonero dalla tutela reale richiede

un triplice requisito (uno in positivo e due in negativo): l’identificabilità di

un’organizzazione di tendenza nominata, la mancanza dello scopo di lucro,

la mancanza di un’impresa. In r elazione a quest’ultimo requisito (la mancanza di

un’impresa), in coerenza con la rilevata esigenza di interpretazione stretta della deroga

al canone generale della tutela reale, la nozione di «impresa» è stata descritta in termini

per così dire aziendalistici, con riferimento al modo di esercitare una certa attività,

piuttosto che nei più rigorosi (e limitati) termini desumibili dalla definizione di

imprenditore contenuta nell’art. 2082 cod. civ.. Non occorre identificare un

imprenditore in senso stretto, assoggettato alla disciplina dell’impresa (ad es. alla

possibilità di dichiarazione di fallimento); è sufficiente che «l’attività dell’associazione

sia organizzata a modo di impresa e quindi secondo un criterio di economicità». In tal

caso la tutela della tendenza lascia il posto alla tutela del lavoro che esige una maggiore

57

efficacia proprio perché il datore di lavoro, operando secondo criteri di economicità,

non si differenzia poi molto dal datore di lavoro che sia un vero e proprio imprenditore

e lo stesso conflitto di interessi con il lavoratore si presenta in tal caso in termini

sostanzialmente analoghi (ossia potenzialmente conflittuali).

Precedenti in termini: Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 giugno 1994, n.

5832 (Se un istituto religioso, perseguendo la «tendenza» che lo connota, si determina

anche a gestire una scuola aperta al pubblico, eroga certamente un servizio che in tanto

non è «impresa» per gli effetti di cui all’art. 4 cit. in quanto non sia gestito secondo

criteri di economicità); Cassazione Sezioni Unite, sentenza 1° ottobre 1996, n. 8588

(relativa ad un licenziamento intimato già nella vigenza della legge n. 108 del 1999 e

riguardante una fattispecie assai simile; in quel caso, la Suprema Corte ha precisato che,

per poter riconoscere il carattere di imprenditorialità all’attività dal datore di lavoro

(associazione o ente) è necessario: a) che l’attività sia svolta con economicità, cioè che

sia diretta al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi e non

semplicemente rivolta al perseguimento di fini sociali dell’ente; b) che sussista una

compiuta autonomia gestionale, implicante poteri deliberativi, ampia libertà di azione

ed organizzazione, separata da quella dell’ente; autonomia finanziaria, consistente nella

tendenziale capacità di trarre i mezzi necessari alla copertura dei costi - ed un eventuale

utile - dai ricavi delle attività produttive, e non da sovvenzioni sistematiche; autonomia

contabile, caratterizzata dalla redazione di bilanci separati per il controllo

dell’economicità della gestione.

Note a sentenza: Giustizia civile III/2006, pp. 633 ss., nota ALBI.

• Tribunale di Vasto, sentenza 16 marzo 2006

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Cessazione del rapporto di lavoro

- Organizzazioni di tendenza - Licenziamento illegittimo.

58

Massima: E’ illegittimo il licenziamento comminato a un lavoratore da una

fondazione, per aver ininterrottamente prestato l’attività lavorativa in favore di un’altra

ditta (di proprietà della moglie) dalle 15.30 alle 19.30 di ogni giorno, eccetto il sabato. Il

divieto per i lavoratori di prestare la propria attività lavorativa a carattere continuativo al

di fuori del rapporto di lavoro (con esclusione dei part-time) - previsto come giusta

causa di risoluzione del rapporto nel Ccnl applicato - non trova applicazione nella

fattispecie esaminata in quanto trattasi di una abituale presenza nell’esercizio

commerciale della moglie da parte del lavoratore e non di prestazione lavorativa

continuativa.

Note a sentenza: Guida al lavoro 34/2006, pp. 23 ss., nota PIETROSANTI.

3.2. Stabilità reale e requisiti dimensionali

A seguito dell’intervento della l. n. 108/1990, l’area della stabilità reale

originariamente prevista dall’art. 18 st. lav. si è notevolmente allargata. Vi rientran o

ora: i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori che complessivamente occupano

più di 60 dipendenti, comunque l’attività sia organizzata. Rientrano inoltre nel campo di

applicazione della stabilità reale le unità produttive con più di 15 dipendenti, anche se

costituiscono articolazioni organizzative di imprese o organizzazioni con meno di 60

dipendenti. Il regime della stabilità reale si applica altresì ai datori di lavoro

imprenditori e non imprenditori che, nell’ambito dello stesso Comune, occupa no più di

15 dipendenti e alle imprese agricole, che nel medesimo ambito territoriale, occupano

più di 5 dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non

raggiunge tali limiti.

Tra i datori di lavoro non imprenditori sono in ogni caso esclusi quelli «che

svolgono, senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione

ovvero di religione o di culto», di cui abbiamo dato conto nel paragrafo precedente.

59

Rientrano tutti e senz’altro nell’area della stabilità reale i licenziamenti

discriminatori, colpiti da nullità (supra, capitolo 2).

L’occasione per definire in modo chiaro, semplice e preciso il campo di

applicazione dei diversi regimi sanzionatori non è stata colta appieno: permane nella l.

n. 108/1990 il riferimento ai lavoratori occupati nell’unità produttiva, come soglia

numerica minima per l’applicazione della stabilità reale, e tale riferimento può

riproporre, sia pure in una misura più limitata rispetto al passato, quella coesistenza di

diversi regimi dei licenziamenti all’interno della stessa impresa od organizzazione non

imprenditoriale in ragione della diversa consistenza delle diverse unità produttive, che

la legge avrebbe dovuto togliere di mezzo . Ancora oggi può infatti avvenire che, in

un’impresa con meno di 60 dipendenti, i lavoratori godano della stabilità reale se

occupati invece in un’unità produttiva con più di 15 dipendenti, e della sola stabilità

obbligatoria, se occupati in una unità produttiva di minori dimensioni, mentre i

lavoratori occupati in unità produttive minime facenti capo ad imprese con più di 60

dipendenti hanno comunque diritto alla stabilità reale.

Benché il riferimento all’unità produttiva non abbia più una giustificazione

plausibile (nella impresa con più di 60 dipendenti il numero degli addetti all’unità

produttiva diviene irrilevante), la legge continua ad utilizzarlo (riproducendo alla lettera

la formulazione dell’art. 35 st. lav.) come ambito entro cui procedere al computo dei

dipendenti a fini di applicazione dell’uno o dell’altro regime, e occorre perciò

richiamarne la nozione. Per unità produttiva si intende un’articolazione organizzativa

(sede, stabilimento, reparto, ufficio) dotata di una propria autonomia amministrativa e

funzionale. L’autonomia del la struttura organizzativa è considerata l’elemento centrale

della sua definizione, anche se se ne danno letture diverse: da quella minimalista che

ritiene sufficiente l’autonomia tecnico -funzionale, a quella più rigorosa, propria della

giurisprudenza prevalente, che definisce come unità autonoma «quella struttura

organizzativa che costituisce dell’impresa una rilevante componente, per essere capace

di realizzare, con i connotati dell’indipendenza tecnica e amministrativa, una “frazione”

dell’attività azien dale» (Cass. 13 giugno 1998).

Una volta verificata l’autonomia dell’unità produttiva , pone problemi delicati il

computo del numero dei dipendenti necessario al raggiungimento della soglia fissata

dalla legge per l’applicazione della stabilità reale. Seco ndo un consolidato

60

orientamento, occorre a tal fine prendere in considerazione la “media occupazionale”

nel periodo antecedente l’epoca del licenziamento, guardando alla “normale

occupazione” nel periodo antecedente il licenziamento, al fine di non incenti vare

condotte elusive in prossimità del licenziamento: una riduzione del personale in

prossimità del licenziamento può essere rilevante, alla condizione che «risulti

conseguenza non di condotte elusive del datore di lavoro ma di oggettive ed accertate

condizioni di mercato e/o di comprovate esigenze economiche dell’impresa, tali da far

ragionevolmente ritenere una ormai stabile contrazione dell’attività produttiva e,

conseguentemente, anche una definitiva riduzione della manodopera al di sotto del

numero di 15 dipendenti» (Cass. 8 maggio 2001, n. 6421) .

Si ricorda, infine, che l’art. 18, 1° co., fa generico riferimento ai “dipendenti”:

esclusi senz’altro dal computo i lavoratori non subordinati (anche se collaboratori

coordinati e continuativi), risultano attualmente esclusi anche lavoratori subordinati

occupati con particolari forme di contratto di lavoro (diverse dal tradizionale rapporto di

lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato): così i lavoratori assunti a termine

per prestazioni di carattere puramente occasionale , i lavoratori a domicilio, gli

apprendisti (art. 53, 2° co., d.lg. n. 276/2003), i lavoratori assunti con contratto di

inserimento (art. 59, 2° co., d.lg. n. 276/2003). Sono esclusi dal computo dei dipendenti

dall’utilizzatore i lav oratori somministrati (art. 22, 5° co., d.lg. n. 276/2003); per quanto

riguarda i lavoratori a tempo parziale, l’art. 18, 2° co., nell’attuale formulazione,

prevede che si tenga conto dei soli lavoratori assunti a tempo indeterminato, e che il

computo sia effettuato con un meccanismo idoneo a rapportarne la prestazione a quella

del lavoratore a tempo pieno . Sono infine esclusi i soci lavoratori e i parenti del datore

di lavoro.

SCHEDE DELLE SENTENZE

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 gennaio 2000 n. 609

61

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto -

Licenziamento - Reintegrazione - Computo dei lavoratori dipendenti - Tutela reale e

obbligatoria.

Massima: Nel computo del dato numerico previsto come criterio dimensionale

dell’unità produttiva ai fini dell’applicabilità dello Statuto dei lavoratori e, in

particolare, del regime di stabilità reale ex art. 18 della legge 300 del 1970, il numero

dei lavoratori dipendenti va accertato con riguardo al criterio della normale

occupazione, il quale implica il riferimento alle unità lavorative in servizio secondo la

media e normale produttività dell’impresa, valutata con riguardo non alla data di

intimazione del licenziamento illegittimo, bensì al periodo occupazionale antecedente la

data dell’intimazione dello stesso.

Precedenti in termini: Cassazione sezione lavoro n. 3450/1997, Cassazione

sezione lavoro n. 2756/1996, Cassazione sezione lavoro n. 1298/1996, Cassazione

sezione lavoro n. 1815/1993 hanno ribadito il c.d. principio della normalità

dell’occupazione, in virtù del quale l’accertamento del numero dei dipendenti occupati

da un’unità produttiva va compiuto considerando i lavoratori in servizio alla stregua

delle medie e normali esigenze produttive dell’azienda, in riferimento n on già alla data

dell’intimazione del licenziamento, ma anche a un periodo antecedente a essa. La

«ratio» di tale principio, come sottolinea lo stesso Supremo consiglio, è da ritrovarsi

nell’esigenza di valutare la consistenza occupazionale dell’azienda da un punto di vista

il più possibile obiettivo e congruente con l’ordinaria attività dell’impresa, senza

possibilità che assumono rilevanza episodi transeunti i quali, inficiandone

temporaneamente i limiti dimensionali, comportino variazioni nel numero dei lavoratori

occupati.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 8 maggio 2001 n. 6421

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto -

Licenziamento individuale - Reintegrazione nel posto di lavoro (tutela reale) -

62

Presupposti - Requisito numerico - Accertamento - Criteri - Normale produttività

dell’impresa - Rilevanza - Riduzione dei dipendenti prima del licenziamento - Influenza

- Limiti.

Massima: Ai fini della sussistenza del requisito numerico, rilevante ai sensi degli

articoli 18 e 35 Statuto dei lavoratori per l’applicabilità della tutela reale, il giudice deve

accertare - con indagine di fatto insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente

motivata - la normale produttività dell’impresa (o della singola sede, stabilimento,

,filiale, ufficio o reparto autonomo) facendo riferimento agli elementi significativi al

riguardo, quale ad esempio, la consistenza numerica del personale in un periodo di

tempo, anteriore al licenziamento, congruo per durata e in relazione alla attività e alla

natura dell’impresa; la riduzione del numero dei dipendenti in prossimità del

licenziamento vale, peraltro, ad escludere la ricorrenza di quel presupposto, quando essa

risulti frutto non di condotte elusive del datore di lavoro ma di oggettive condizioni di

mercato o di comprovate esigenze economiche dell’impresa tali da far ragionevolmente

ritenere una ormai stabile contrazione dell’attività produttiva e, conseguentemente, una

definitiva riduzione della manodopera al di sotto del numero di quindici dipendenti.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 20 luglio 2001 n. 9881

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Statuto dei lavoratori - Unità

produttiva - Nozione - Requisiti – Ciclo produttivo aziendale - Fattispecie.

Massima: Costituisce unità produttiva, ai sensi del1 'art. 35 della legge n. 300 del

1970, non ogni sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto dell'impresa, ma soltanto la

più consistente e vasta entità aziendale che, eventualmente articolata in organismi

minori - anche non ubicati tutti nel territorio del medesimo comune - si caratterizzi per

sostanziali condizioni imprenditoriali dì indipendenza tecnica ed amministrativa, tali

che in essa si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento

essenziale dell'attività produttiva aziendale. Deve escludersi, invece, 1 'autonomia, ai

fini dell'integrazione di una separata unità produttiva ai sensi di legge, degli indicati

63

organismi minori, aventi scopi meramente strumentali e ausiliari rispetto ai fini

produttivi dell'impresa. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata nella

quale sì era esclusa l'autonomia di un cosiddetto sportello o dipendenza di una banca

che svolgeva solo attività meramente strumentali e ausiliarie rispetto a quelle della

banca di appartenenza, avente sede in altro comune).

• Tribunale di Milano, sentenza 20 dicembre 2001

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Giustificato

motivo oggettivo - Chiusura di una sede periferica - Affidamento presso la sede centrale

di mansioni equivalenti a consulente esterno - Obbligo di repêchage - Violazione -

Illegittimità del licenziamento - Identificazione di unità produttiva autonoma - Criteri.

Massima: Il licenziamento di un lavoratore per giustificato motivo oggettivo è

illegittimo qualora, pur essendo dimostrata l’avvenuta chiusura della sede periferica alla

quale il dipendente era addetto, l’azienda abbia violato l’obbligo di repêchage

attraverso il contemporaneo affidamento di mansioni analoghe presso la sede centrale

ad un consulente esterno. Una dipendenza dell’impresa può essere considerata unità

produttiva autonoma ai fini dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 SL solo allorché

sia connotata da una organizzazione sufficiente a esplicare, in tutto o in parte, l’attività

di produzione di beni e di servizi dell’impresa.

Note a sentenza: D&L II/2002, pp. 433 ss., nota BORDONE.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 17 maggio 2002 n. 7227

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento

individuale - Tutela reale - Condizioni - Requisiti dimensionali - Insussistenza - Onere

della prova - Grava sul datore di lavoro attore o convenuto.

64

Massima: In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di

applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia stata accertata

l’invalidità, grava sul datore di lavoro - sia se attore, sia se convenuto in giudizio -

l’onere di eccepire e provare 1’inesistenza del requisito occupazionale e perciò

1’impedimento all’applicazione dell’art. 18 legge n. 300 del 1970.

Precedenti in termini: Cassazione sezione lavoro n. 613/1999, secondo cui la

regola della ripartizione della prova, di cui all’articolo 5 della legge n. 604 del 1966,

non è altro che l’applicazione alla responsabilità del datore di lavoro della regola

generale di cui all’articolo 1218 codice civile in tema di onere della prova nella

responsabilità contrattuale. Infatti, secondo i principi generali, la conseguenza del

licenziamento illegittimo dovrebbe essere quella del risarcimento dei danni subiti dalla

controparte (articolo 1223 codice civile). L’articolo 8 della legge n. 604 del 1966

prevede invece una forte attenuazione delle conseguenze a carico della parte

inadempiente ed è allora giustificato - conclude Cass. n. 613 del 1999 - porre a carico di

colui che pretende di essere esonerato da quelle che sarebbero le comuni sanzioni

derivanti da un inadempimento (dettate dall’articolo 18 della legge n. 300 del 1970)

l’onere di dimostrare la sussistenza dell e condizioni che determinano la riduzione degli

effetti restitutori o risarcitori. Oltretutto, ad avviso del Collegio, addossare al datore di

lavoro l’onere della prova in materia appare giustificato, oltre che dalle considerazioni

sistematiche sopra accennate, anche dal rilievo che la circostanza da provare consiste in

un dato di fatto ben noto al datore di lavoro e che risulta addirittura da libri, la cui tenuta

è obbligatoria per legge.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 1 settembre 2003 n. 12747

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento

individuale - Tutela reale - Requisito occupazionale - Onere probatorio a carico del

lavoratore - Sussistenza - limiti - Richiesta d'ufficio di esibizione del libra matricola -

Mancata produzione - Desunzione di detto requisito sulla base del comportamento del

datore - Ammissibilità.

65

Massima: Sebbene 1’onere di dimostrare la sussistenza del requisito dimensionale

posto dall'art. 35 della 1. n. 300 del 1970 incomba sul lavoratore illegittimamente

licenziato che invochi la tutela prevista dall'art. 18 della medesima legge, il giudice -

avendo il potere di provvedere anche d'ufficio agli atti istruttori sollecitati dalle parti che

siano idonei a superare l'incertezza sui fatti costitutivi - può legittimamente ordinare

1’esibizione del libro matricola per poter stabilire il numero dei dipendenti e trarre, ai

sensi dell'art. 116 c.p.c., dalla mancata produzione la prova della esistenza del requisito

dimensionale.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 11 settembre 2003 n. 13375

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Licenziamento

individuale - Tutela reale - Condizioni - Requisiti dimensionali - Insussistenza -

Applicabilità della tutela minore.

Massima: In tema di inefficacia del licenziamento, se il dipendente illegittimamente

licenziato ha chiesto l’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, e quindi

anche il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate dal giorno in cui

il licenziamento ha trovato attuazione, il giudice, accertato che non sussistono i requisiti

dimensionali per l’applicazione dell’art. 18, deve accordare, sussistendo i relativi

presupposti, la tutela in tal caso applicabile (dichiarazione di inefficacia del

licenziamento e risarcimento del danno), essendo tale tutela omogenea e di ampiezza

minore rispetto a quella prevista dall’art. 18.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 6 settembre 2003 n. 13058

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento

individuale - Giustificato motivo oggettivo - Indicazione delle ragioni determinanti la

scelta del lavoratore licenziato - Onere a carico del datore di lavoro - Sussistenza.

66

Massima: In caso di licenziamento individuale giustificato dalla necessità di

operare una riduzione del personale, ai fini di poter ritenere legittimo il licenziamento

occorre che il datore di lavoro dimostri, anche indicando un ventaglio di ragioni

concorrenti, i motivi che lo hanno indotto al licenziamento e a far ricadere la scelta

sull’unica unità produttiva licenziata.

• Tribunale di Siracusa, sentenza 20 gennaio 2004

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento disciplinare -

Obbligo di affissione - Irrilevanza - Fattispecie - Mancata osservanza dei requisiti

formali - Illegittimità - Requisiti dimensionali - Mancata prova - Tutela obbligatoria -

Applicabilità.

Massima: E’ illegittimo il licenziamento disciplinare comminato al lavoratore

senza il rispetto dei requisiti di forma richiesti dall’art. 7 St. lav., posti a garanzia

dell’esercizio del potere disciplinare, nonché senza la concessione del termine a difesa

di cinque giorni, previsto dalla norma. Il giudice del lavoro ha, preventivamente,

affrontato il problema della legittimità del licenziamento, in caso di mancata pubblicità

del codice disciplinare. Nella sentenza in commento, si è affermato che, ai fini della

validità del licenziamento disciplinare, non è necessaria la previa affissione del codice

disciplinare «in presenza della violazione di norme di legge o comunque di doveri

fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica

previsione. In proposito, i giudici di legittimità hanno precisato che la garanzia di

pubblicità del codice disciplinare mediante l’affissione in un luogo accessibile a tutti i

dipendenti, si applica al licenziamento disciplinare soltanto quando questo sia

comminato per specifiche ipotesi di giusta causa o giustificato motivo, previste dal

contratto collettivo o validamente poste dal datore di lavoro. Pertanto, non è possibile

contestare la mancata affissione del codice disciplinare nel caso di situazioni

giustificative del recesso previste direttamente dalla legge o manifestamente contrarie

all’etica comune o concretanti violazione dei doveri fo ndamentali connessi al rapporto

di lavoro. Tuttavia, il giudice ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare

67

perché intimato al lavoratore in violazione delle garanzie procedimentali previste

dall’art. 7 legge n. 300/70 a garanzia del contr addittorio (nella fattispecie, mancava la

previa contestazione dell’addebito). Il Tribunale di Siracusa, uniformandosi a un

orientamento già espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ha affermato

che il licenziamento disciplinare, irrogato senza I’osservanza delle garanzie

procedimentali non è affetto da nullità, ma è ingiustificato; ciò comporta che il

comportamento addebitato al lavoratore, anche se sussistente e astrattamente rientrante

tra le ipotesi di giusta causa o giustificato motivo, non può essere addotto dal datore di

lavoro per sottrarsi alle tutele approntate dall’ordinamento avverso i licenziamenti

illegittimi. Tuttavia - come precisato dai giudici di legittimità - nel caso di inosservanza

dei requisiti di forma, il licenziamento è insuscettibile di produrre effetto risolutivo del

rapporto di lavoro soltanto nell’ambito di applicazione della tutela reale ex art. 18 legge

n. 300/70. Nel caso, invece, di dipendenti di imprese che non presentino i requisiti

dimensionali richiesti dall’ art. 18 St. lav. o di recesso ad nutum con preavviso ex art.

2118 cod. civ., si applicheranno i diversi rimedi approntati dal legislatore avverso i

licenziamenti illegittimi, ma facendo salvi gli effetti risolutivi del licenziamento. Nel

caso di specie, il giudice ha rilevato che, non essendo stato allegato, né tanto meno

provato il requisito dimensionale richiesto dall’art. 18, legge n. 300/70 per poter

disporre la reintegra della lavoratrice, si deve fare applicazione dell’art. 8 legge n.

604/66, con conseguente condanna a riassumere entro tre giorni la dipendente

licenziata, ovvero a corrispondere, in suo favore, l’indennità nella misura stabilita dalla

legge. Sul punto, la Cassazione sostiene che incombe sul lavoratore l’onere di allegare

le circostanze volte a dimostrare i requisiti dimensionali dell’azienda, al fine di poter

usufruire del rimedio della reintegra previsto dall’art. 18 St. lav. In mancanza, il giudice

può, comunque, sempre avvalersi dei poteri istruttori riconosciuti dall’art. 421 cod.

proc. civ..

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 10 febbraio 2004 n. 2546

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Tutela reale -

Computo dei dipendenti - Criterio della normale occupazione - Rilevanza - Variabilità

68

del livello occupazionale connessa al carattere dell’attività produttiva - Criterio medio-

statistico - Applicabilità - Fattispecie in tema di datore di lavoro esercente attività

alberghiera stagionale.

Massima: Ai fini della operatività della tutela reale contro i licenziamenti

individuali illegittimi, il computo dei dipendenti va accertato sulla base del criterio della

normale occupazione, da riferirsi al periodo di tempo antecedente al licenziamento e

non anche a quello successivo. Nel caso in cui poi la variabilità del livello

occupazionale sia strutturalmente connessa al carattere dell’attività produttiva, quale

quella alberghiera, che richiede normalmente il ricorso al contratto a termine o al part-

time verticale, il riferimento al criterio medio-statistico della normale occupazione trova

conferma nella specifica disciplina del part-time e, per l’individuazione dell’arco di

tempo in cui calcolare tale media, il periodo temporale utilizzabile più appropriato è

quello riferito all’anno. (Nella specie, la sentenza impugnata , confermata dalla S. C.,

pur ritenendo illegittimo il licenziamento intimato ad una lavoratrice da una società che

gestiva un albergo operante nel periodo primaverile ed estivo, aveva rigettato la

domanda di reintegrazione nel posto di lavoro avendo accertato che nell’anno

antecedente al licenziamento la media annuale dei lavoratori occupati alle dipendenze di

quella società era stata di quindici dipendenti).

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 23 aprile 2004 n. 7735

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Licenziamento - Tutela reale -

Requisito dimensionale ex art. 35 st. lav. - Accertamento da parte del giudice - Mancata

contestazione specifica del datore di lavoro in ordine alle allegazioni del lavoratore -

Desunzione della sussistenza dei requisito - Legittimità.

Massima: Con riguardo alla richiesta del lavoratore di essere reintegrato nel posto

di lavoro ai sensi dell’art.18 della 1. n. 300 del I970 (statuto dei lavoratori) per

invalidità del licenziamento, legittimamente il giudice può desumere la sussistenza del

69

requisito dimensionale previsto dall’art. 35 della stessa legge per la reintegrazione dalla

mancata contestazione specifica, da parte del datore di lavoro, in ordine alle allegazioni

del lavoratore, che la stessa richiesta di reintegrazione implica.

Cassazione sezione lavoro, sentenza 25 novembre 2004 n. 22271

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Prova - Fatto notorio -

Determinazione del requisito dimensionale dell’impresa in un’ipotesi di applicazione

dell’art. 18 s t. lav. - Potere discrezionale del giudice - Ammissibilità - Censurabilità in

Cassazione - Limiti.

Massima: Il ricorso alle nozioni di comune esperienza attiene all’esercizio di un

potere discrezionale riservato al giudice di merito, il cui giudizio, a meno che non sia

stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, è sottratto al

sindacato di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che

aveva ritenuto «notoria» la sussistenza del requisito dimensionale dell’impresa delle

Ferrovie dello Stato, in relazione al numero minimo di dipendenti occupati, ai fini

dell’applicazione dell’art. 18 l. n. 300 del 1970).

Note a sentenza: MGL 1-2/2005, pp. 74 ss., nota MANNACIO.

• Tribunale di Padova, sentenza 1° dicembre 2004 n. 341

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Impugnazione licenziamento -

Requisiti dimensionali ex art. 18 St. lav. - Onere della prova - Ricade sul lavoratore -

Contumacia del datore di lavoro - Mancata produzione del libro matricola richiesta dal

giudice - Prova ex art. 116 C.P.C. dell'esistenza del requisito dimensionale per

l’applicazione della tutela reale – Ammissibilità.

70

Massima: L’onere di provare i requisiti dimensionali che rendono applicabile la

tutela reale incombe sul lavoratore che la invoca; tuttavia il giudice del lavoro, avendo il

potere di provvedere anche d'ufficio agli atti istruttori sollecitati dalle parti che siano

idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi, può legittimamente ordinare

l’esibizione in giu dizio del libro matricola e trarre, ai sensi dell’articolo 116 c.p.c., dalla

mancata produzione la prova dell’esistenza dei requisiti dimensionali ex articolo 18

dello Statuto dei lavoratori.

Note a sentenza: Guida al lavoro 17/2005, pp. 44 ss., nota BARRACO.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 18 gennaio 2005 n. 881

Argomento della sentenza: Licenziamento - Licenziamento individuale - Tutela

reale - Requisito dimensionale - Onere probatorio relativo gravante sul lavoratore -

Rinuncia all’eccezione da p arte del procuratore del datore di lavoro - Esenzione

dall’onere probatorio .

Massima: In tema di licenziamento individuale, l’onere di dimostrare la sussistenza

del requisito dimensionale posto dall’art. 35 della l. n. 300 del 1970 grava sul lavoratore

che, assumendo di essere stato illegittimamente licenziato, invochi la tutela prevista

dall’art. 18 della medesima legge; tuttavia, qualora il procuratore del datore di lavoro

rinunci – con atto che rientra nei suoi poteri, essendo una semplice modifica delle

conclusioni precedentemente formulate e non integrando una rinunzia agli atti del

giudizio – all’eccezione di mancato raggiungimento del requisito dimensionale da parte

dell’impresa, tale dato diviene non contestato, e il giudice è tenuto a ritenerlo com e

sussistente.

• Cassazione Sezioni Unite, sentenza 10 gennaio 2006 n. 141

71

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Controversie di lavoro e

previdenziali - Licenziamento illegittimo -Tutela reale - Requisiti dimensionali

dell’organizzazione azienda le - Onere della prova - Incombe sul datore di lavoro.

Massima: In tema di riparto dell’onere probatorio in ordine ai presupposti di

applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia accertata

l’invalidità, fatti costitutivi del d iritto soggettivo del lavoratore a riprendere l’attività e,

sul piano processuale, dell’azione di impugnazione del licenziamento sono

esclusivamente l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l’illegittimità dell’atto

espulsivo, mentre le dimensioni dell’impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall’art. 18 della

legge n. 300 del 1970, costituiscono, insieme al giustifcato motivo del licenziamento,

fatti impeditivi del suddetto diritto soggettivo del lavoratore e devono, perciò, essere

provati dal datore di lavoro. Con l’assolvimento di quest’onere probatorio il datore

dimostra - ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 1218 cod. civ. - che

l’inadempimento degli obblighi derivatigli dal contratto di lavoro non è a lui imputabile

e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste,

con conseguente necessità di ridurre il rimedio esercitato dal lavoratore al risarcimento

pecuniario. L’individuazione di siffatto onere probatorio a carico del datore di lavoro

persegue, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l’esercizio del diritto del

lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della “disponibilità” dei

fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell’impresa.

Note a sentenza: RIDL II/2006, pp. 440 ss., nota VALLEBONA; ADL II/2006, pp.

594 ss., nota MELEGATTI; Guida al lavoro 6/2006, pp. 494 ss., nota BOGHETICH;

DML I/2006, pp. 157 ss., nota SCALA e FAGELLA; LG III/2006, pp. 265 ss., nota

NUVOLI e PICCININI

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 16 giugno 2006 n. 13945

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto -

Licenziamento individuale - Tutela reale - Requisito occupazionale - Fatto costitutivo

72

dell’azione di impugnativa del licenziamento - Esclusione - Fatto impeditivo -

Configurabilità - Individuazione del relativo onere probatorio - A carico del datore di

lavoro - Sussistenza - Fondamento.

Massima: Spetta al datore di lavoro provare che l’articolo 18 della legge n.

300/1970 – e, quindi, la tutela reale del lavoratore con la reintegrazione nel posto di

lavoro – non è applicabile per l’insussistenza del cd. requisito dimensionale ( id est, di

determinate dimensioni dell’organizzazione produttiva datrice di lavoro commisurate

sul numero dei lavoratori occupati). Per quanto riguarda il criterio di distribuzione

dell’onere della prova basato sulla vicinanza o disponibilità dei relativi strumenti, esso

tanto più deve valere quanto trattasi del “requisito occupazionale” risultante non

soltanto dal numero degli occupati, ma pure ed eventualmente, dal loro status

nell’impresa, o anche personale, come risulta espressamente dall’art. 18.

73

4. Il residuo campo di applicazione del recesso ad nutum: il licenziamento del

dirigente

Malgrado l’allargamento dell’area della stabilità obbligatoria, permane un’area

ristretta e residuale nella quale trova ancora disciplina il recesso ad nutum (art. 2118

c.c.). Rientrano in questa area i dirigenti d’azienda, che, ai sensi dell’art. 10, l. n.

604/1966, sono esclusi dall’applicazione della disciplina legale dei licenziamenti, fatta

eccezione per l’art. 2, 1° co., l. n. 604/1966, che a seguito della modifica introdotta con

la l. n. 108/1990 estende ai dirigenti la prescrizione della forma scritta della

comunicazione del licenziamento, e per l’art. 3, l. n. 108/1990 (licenziamento

discriminatorio) espressamente esteso ai dirigenti.

L’esclusione dei dirigenti dalla disciplina legale dei licenziamenti è stata più volte

affrontata dalla Corte Costituzionale, che ha sempre affermato la legittimità di tale

esclusione, in considerazione dello stretto vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto:

tuttavia la Corte ha affermato che, pur cadendo il rapporto del dirigente nell’area della

libera recedibilità, deve essere riconosciuta al dirigente la tutela contro atti che ledono la

sua dignità (menzionando espressamente il licenziamento disciplinare senza garanzie

procedimentali: sentenza n. 309/1992).

A fronte della limitata parte della disciplina legale dei licenziamenti applicabile ai

dirigenti, la disciplina convenzionale assicura loro, in caso di licenziamento

ingiustificato, un’indennità supplementare variabile tra un minimo ed un massimo di

mensilità di retribuzione, ma il licenziamento ingiustificato produce comunque l’effetto

di estinguere il rapporto. Le discipline contrattuali sono diverse a seconda dei settori; in

alcuni casi prevedono oltre alla comunicazione scritta del licenziamento anche la

comunicazione contestuale dei motivi del licenziamento3; in ogni caso il dirigente che

ritenga ingiustificato il licenziamento può fare ricorso al Collegio arbitrale previsto dal

contratto collettivo: l’arbitrato è irrituale, e dunque il dirigente può optare per l’azione

3 Ma la Cassazione ha affermato: a) che l’obbligo di specificazione contestuale dei motivi non preclude la loro integrazione in corso di giudizio, poiché ai dirigenti non si applicano i criteri di immediatezza e specificità della contestazione dei fatti addebitati (Cass. 1° aprile 1999, n. 3148; ma v. in senso contrario T. Milano 26 gennaio 2005); b) che anche nell’ipotesi di violazione dell’art. 2, l. n. 604/1966 (comunic azione per iscritto del licenziamento) il dirigente avrà diritto solo all’indennità supplementare e non al ripristino del rapporto (Cass. 18 novembre 1999, n. 12603).

74

in giudizio, così come il datore di lavoro può rifiutare l’arbitrato; ma se entrambe le

parti accettano l’arbitrato opera il principio electa una via non datur recursus ad

alteram, e dunque l’azione in giudizio diviene improponibile.

Sulla nozione di giustificato motivo di licenziamento del dirigente, frequente

oggetto di controversie, si registra un orientamento giurisprudenziale consolidato nel

senso che la nozione convenzionale non coincide con quelle (legali) di giusta causa e

giustificato motivo di licenziamento del lavoratore subordinato, ma «è molto più ampia

e si estende sino a comprendere qualsiasi motivo di recesso che ne escluda l’arbitrarietà,

con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del

contratto e del divieto del licenziamento discriminatorio» (Cass. 17 gennaio 2005, n.

775). La ragione di tale ampiezza della giustificazione sta nel «legame di fiducia col

datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti: maggiori poteri

presuppongono una maggiore intensità della fiducia e uno spazio più ampio dei fatti

idonei a scuoterla» (Cass. 7 agosto 2004, n. 15322).

SCHEDE DELLE SENTENZE

• Corte Costituzionale, sentenza 1° luglio 1992 n. 309

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE IN VIA

INCIDENTALE

Argomento della sentenza: LAVORO (RAPPORTO DI) - DIRIGENTI -

FACOLTA' DI OPZIONE PER LA PROSECUZIONE DEL RAPPORTO DI

LAVORO OLTRE L'ETA' PENSIONABILE PER IL CONSEGUIMENTO, AI FINI

PREVIDENZIALI, DELLA MASSIMA ANZIANITA' CONTRIBUTIVA, MA

SENZA LE GARANZIE DI STABILITA' DEL POSTO DI LAVORO DI CUI ALLE

LEGGI NN. 604 DEL 1966 E 300 DEL 1970 - ESCLUSIONE - INGIUSTIFICATA

DISPARITA' DI TRATTAMENTO RISPETTO AI LAVORATORI SUBORDINATI

(IMPIEGATI ED OPERAI) BENEFICIANTI DI TALI GARANZIE -

75

INSUSSISTENZA - NON OMOGENEITA' DELLE CATEGORIE POSTE A

CONFRONTO - LEGITTIMO ESERCIZIO, IN MATERIA, DELLA

DISCREZIONALITA' DEL LEGISLATORE - NON FONDATEZZA DELLA

QUESTIONE.

Massima: Il riconoscimento, per i dirigenti, ex art. 6, primo comma, del d.l. n. 791

del 1981 (conv. in l. n. 54 del 1982), della facoltà di optare per la continuazione del

rapporto di lavoro anche dopo il raggiungimento dell’età pensionabile, al fine di

conseguire la massima anzianità contributiva, senza però - secondo l’interpretazione

della prevalente giurisprudenza - poter fruire del diritto alle garanzie di stabilità del

posto di lavoro previste dalle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970 per i lavoratori

subordinati (impiegati ed operai), non dà luogo a una disparità di trattamento, lesiva

dell’art. 3 Cost.. Infatti, posto che il legislatore, nella sua discrezionalità, non ha inteso

snaturare il rapporto 'de quo' ed assimilarlo in tutto a quello dei lavoratori subordinati,

indubbiamente la disposizione in questione realizza un ragionevole bilanciamento degli

interessi in gioco (dell’ente previdenziale, del lavoratore e del datore di lavoro) ed

appare comunque produttiva di effetti utili nei confronti del dirigente, non potendosi

negare, in presenza della effettuata opzione, la nullità del licenziamento ad esso

intimato solo per ragioni di età. (Non fondatezza - in riferimento all’art. 3 Cost. - della

questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, d.l. 22 dicembre 1981,

n. 791, conv. in l. 26 febbraio 1982, n. 54).

Parametri costituzionali: Costituzione art. 3.

Riferimenti normativi: decreto legge 22/12/1981 n. 791 art. 6 co. 1 (convertito );

legge 26/02/1982 n. 54.

Note a sentenza: DL II/1992, pp. 304 ss., nota PILEGGI.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 9 aprile 2003 n. 5526

76

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto -

Licenziamento individuale - In genere - Licenziamento del dirigente - Disciplina

applicabile.

Massima: Si conferma la diversità del rapporto di lavoro dei dirigenti stricto iure

rispetto a quello dei dirigenti “convenzionali”, diversità che trova ragione d’essere nella

natura spiccatamene fiduciara che caratterizza in modo peculiare il rapporto dei

dirigenti ex art. 2095 Cod. Civ. Il licenziamento ad nutum è applicabile solo al dirigente

le cui effettive mansioni, nell’ambito dell’azienda, siano caratterizzate dall’ampiezza

del potere gestorio, tanto da poter essere definito un vero e proprio alter ego

dell’imprenditore, in quanto preposto all’ azienda o a un ramo di particolare autonomia

ed importanza, in posizione di sostanziale autonomia, tale da influenzare l’andamento e

le scelte dell’attività aziendale, sia al suo interno che nei rapporti con i terzi; con la

precisazione che l’onere della prova che si versi effettivamente nella fattispecie prevista

dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966 è a carico del datore di lavoro.

Note a sentenza: ADL III/2003, pp. 785 ss., nota PESSI.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 27 agosto 2003 n. 12562

Argomento della sentenza: Dirigenti - Estinzione del rapporto - Disciplina

contrattuale del licenziamento - Giustificatezza del recesso - Qualificazione -

Equiparabiltà alla nozione legale di giustificato motivo - Esclusione.

Massima: Considerato il particolare modo di configurarsi del rapporto di lavoro

dirigenziale, e la esclusione dal suo ambito di un licenziamento qualificato come

disciplinare,

ai fini della giustifcatezza del licenziamento stesso può rilevare qualsiasi motivo purché

esso possa costituire la base per una motivazione coerente e sorretta da motivi

apprezzabili sul piano del diritto, a fronte del quale non è necessaria una analitica

77

verifica di specifiche condizioni, ma è sufficiente una valutazione globale che escluda

l’arbitrarietà del licenziamento (nella specie è stata ritenuta immune da vizi di

motivazione la sentenza di appello laddove ha ritenuto che non integri un giustificato

motivo di licenziamento, non essendo idonea a far venir meno il particolare rapporto

fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro, la condotta di un dirigente il quale -

ritenendo pregiudicati i propri diritti, anche in base a una sua valutazione soggettiva,

purché non manifestamente arbitraria né pretestuosa - chieda al datore di lavoro il

ripristino di essi, prospettando in alternativa il ricorso al giudice).

Note a sentenza: RGL IV/2004, pp. 765 ss., nota TUSINO.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 3 gennaio 2005 n. 27

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto -

Licenziamento individuale - In genere - Licenziamento del dirigente - Nozione di

«giustificatezza» - Riferimento alle nozioni legali di giusta causa o di giustificato

motivo di licenziamento - Necessità - Fattispecie.

Massima: In tema di licenziamento dei dirigenti, per quanto non possa affermarsi

che la nozione di «giustificatezza» coincida con quella di giustificato motivo di cui

all’art. 3 della legge n. 604 del 1966, gli elementi di tale nozione devono essere

ricostruiti dal giudice di merito – sulla scorta delle specifiche espressioni letterali delle

clausole contrattuali - attraverso il riferimento alle nozioni legali di giusta causa o di

giustificato motivo di licenziamento (Nella specie, Cass. ha ritenuto che il giudice di

merito non avesse fatto corretta applicazione di questo principio per aver commisurato

gli addebiti contestati esclusivamente in termini di lesione del vincolo fiduciario, nulla

dicendo in ordine all’eventualità che gli stessi potessero integrare la giustificatezza, nel

senso della non arbitrarietà o non pretestuosità, del licenziamento).

Note a sentenza: MGL 5/2005, pp. 374 ss., nota GRAMICCIA.

78

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 17 gennaio 2005 n. 775

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Licenziamento

del dirigente - Giusta causa - Giustificatezza - Differenza.

Massima: La nozione di «giustificatezza» del licenziamento, che rileva ai fini del

riconoscimento del diritto all’indennità supplementare, spettante in base alla

contrattazione collettiva al dirigente, non coincide con quella di «giusta causa» o di

«giustificato motivo» del licenziamento del lavoratore subordinato, ma è molto più

ampia, e si estende sino a comprendere qualsiasi motivo di recesso, che ne escluda

l’arbitrarietà, con i limiti del rispetto dei principi di correttezza e buona fede

nell’esecuzione del c ontratto, e del divieto del licenziamento discriminatorio.

Note a sentenza: Giurisprudenza italiana 2005, pp. 789 ss., nota MONEGHINI.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 15 aprile 2005 n. 7838

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento - Dirigente -

Giustificatezza - Nozione - Coincidenza con quelle di giusta causa e di giustificato

motivo - Esclusione - Desumibilità di detta nozione dalla contrattazione collettiva -

Necessità – Accertamento in ordine alla sussistenza della giustificatezza» del

licenziamento - Censurabilità in Cassazione - Limiti.

Massima: La specialità della posizione assunta dal dirigente nell’ambito

dell’organizzazione aziendale impedisce una identificazione della nozione di

«giustificatezza» del suo licenziamento - sottratto al regime della tutela obbligatoria di

cui all’art. 3 della 1. n. 604 del 1966, come di quella reale ex art. 18 della 1. n. 300 del

1970 – con quelle di «giusta causa» o «giustificato motivo» del licenziamento del

lavoratore subordinato, ai fini del riconoscimento del diritto alla indennità

supplementare spettante alla stregua della contrattazione collettiva al dirigente

79

licenziato ingiustificatamente. Trattandosi di un elemento di esclusiva origine negoziale,

l’interpretazione della disposiz ione contrattuale che prevede il canone della

giustificatezza del recesso va compiuta - nell’ambito di una valutazione che escluda

l’arbitrarietà del licenziamento, al fine di evitare una generalizzata legittimazione della

piena libertà di recesso del datore di lavoro - dal giudice del merito ed è censurabile in

sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica contrattuale, ovvero

se non sia sorretta da una motivazione sufficiente, logica e coerente. (Nella specie, la

Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto, con

motivazione congrua e priva di vizi logici, che il licenziamento era stato intimato al

dirigente per addebiti rivelatisi assolutamente pretestuosi).

Note a sentenza: MGL 11/2005, pp. 839 ss., nota PIZZUTI.

• Tribunale di Ferrara, sentenza 28 aprile 2005

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Estinzione e risoluzione del

rapporto - Licenziamento - Di dirigente - Fatto illecito - Condizioni - Ingiuriosità del

licenziamento - Condizioni.

Massima: Il licenziamento di un dirigente (non soggetto alla disciplina delle leggi

n. 60411966 e n. 300/1970), per dar luogo ad un danno risarcibile secondo il diritto

comune (art. 2043 ss. c.c.), deve concretarsi - per la forma o per le modalità del suo

esercizio e per le conseguenze morali e sociali che ne derivino - in un atto ingiurioso,

cioè lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore licenziato. Tale carattere

d’ingiuriosità del licenziamento non s’identifica né va confuso con la mancanza di

giustificazione dello stesso e non può essere presunto, ma, secondo i principi generali

dettati dall’art. 2697 C.C. va rigorosamente provato da chi l’alleghi come causa del

lamentato pregiudizio (di cui vanno parimenti dimostrati sia l’«an» che il «quantum») .

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 9 giugno 2005 n. 12134

80

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale -

Intimazione per gli stessi fatti oggetto di sentenza penale di assoluzione del lavoratore

licenziato - Valutazione autonoma di tali fatti da parte del giudice del lavoro - Sussiste -

Fattispecie in tema di licenziamento di un dirigente e della determinazione

dell’indennità supplementare.

Massima: Il giudice del lavoro adito con impugnativa di licenziamento, che sia

stato comminato in base agli stessi comportamenti che furono oggetto di imputazione in

sede penale, non è affatto obbligato a tener conto dell’accertamento contenuto nel

giudicato di assoluzione del lavoratore, ma ha il potere di ricostruire autonomamente,

con pienezza di cognizione, i fatti materiali e di pervenire a valutazioni e qualificazioni

degli stessi del tutto svincolate dall’esito del procedimento penale. Ugualmente, con

riferimento al licenziamento del dirigente, ed anche ai fini della equa determinazione

dell’indennità supplementare, non sono le sole determinazioni dei giudici penali a

costituire oggetto di apprezzamento da parte del giudice civile, ma i fatti nella loro

interezza, aventi, o non, risvolti anche in sede penale.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 14 ottobre 2005 n. 19903

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Clausola di durata minima -

Cumulo del periodo residuo di durata garantita con il preavviso di licenziamento - È

dovuto - Fattispecie: licenziamento di dirigente apicale.

Clausola di durata minima - Non è atto di mera liberalità - Rientra nelle competenze

ordinarie del consiglio di amministrazione di una società.

Massima: La clausola di stabilità minima garantita stipulata in costanza di un

rapporto di lavoro a tempo indeterminato è pienamente legittima, atteso che non altera

la sostanziale natura del contratto a tempo indeterminato e si traduce soltanto in una

preventiva rinunzia del datore di lavoro alla facoltà di recesso: quindi, per il lavoratore,

in una garanzia della conservazione del posto per una durata minima. Tale clausola è

81

legittima anche rispetto ai contratti dei dirigenti apicali, per i quali la prevista stabilità è

suscettibile di soddisfare un più spiccato interesse dell’imprenditore alla continuità delle

prestazioni. Pertanto, nell’ipotesi di recesso anticipato del datore di lavoro (nella specie

esercitato ad nutum), il dipendente ha diritto al risarcimento del danno, pari

all’ammontare delle retribuzioni che avrebbe percepito se la risoluzione non fosse

intervenuta, ivi comprese le retribuzioni che sarebbero maturate nel periodo di

preavviso, che non può intendersi assorbito nella durata minima garantita dalla

pattuizione.

La pattuizione di una clausola di stabilità minima nel contesto di un rapporto di

lavoro a tempo indeterminato non è un atto di mera liberalità, ma rientra nella categoria

delle clausole contrattuali volte a soddisfare ben individuabili interessi di natura (anche

indirettamente) patrimoniale, come lo specifico interesse di una società ad assicurarsi la

collaborazione di un dirigente, considerato di particolare capacità ed esperienza, e di

garantirsi la continuità delle prestazioni di questi per un tempo prestabilito.

Note a sentenza: RIDL II/2006, pp. 617 ss., nota GARATTONI.

• Corte d’Appello Firenze, sentenza 25 ottobre 2005

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Licenziamento individuale -

Licenziamento del dirigente - Giustificatezza - Nozione - Fondatezza - Limiti e

conseguenze.

Massima: Anche nell'ipotesi di licenziamento del dirigente per motivi di carattere

economico conseguenti a scelte organizzative dell’impresa, è indispensabile valutare la

natura

spiccatamente fiduciaria del rapporto di lavoro del dirigente; pertanto, in ragione della

peculiare struttura del rapporto del dirigente, è giustificato il licenziamento motivato

dalla convenienza della riduzione dei costi gestionali, non essendo necessaria l’esistenza

di una conclamata crisi economica aziendale.

82

Note a sentenza: D&L II/2006, pp. 587 ss., nota CONTE

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 28 ottobre 2005 n. 21010

Argomento della sentenza: Lavoro (rapporto di) - Dirigente - Insindacabilità in

sede di legittimità del giudizio sull'appartenenza alla categoria dirigenziale -

Inapplicabilità ai dirigenti delle nozioni legali di giusta causa e di giustificato motivo di

licenziamento.

Massima: La valutazione delle circostanze di fatto dalle quali dedurre

l’appartenenza del dirigente alla categoria dei dirigenti o a quella dei c.d. “pseudo -

dirigenti” costituis ce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito che non

può essere oggetto di rivalutazione in sede di giudizio di legittimità. I dirigenti di vertice

sono sottratti alla tutela reale e obbligatoria in materia di licenziamento. La nozione di

giustificatezza introdotta dalla contrattazione collettiva in materia di licenziamento è

nettamente distinta dalle nozioni di giusta causa e di giustificato motivo ex art. 2119 e

art. 3 legge n. 604 del 1966, traducendosi essenzialmente in assenza di arbitrarietà e

pretestuosità o, per converso, nella ragionevolezza del provvedimento datoriale.

Note a sentenza: ADL III/2006, pp. 1357 ss., nota TOPO.

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 8 novembre 2005 n. 21673

Argomento della sentenza: Categorie qualifiche dei lavoratori - Art. 2103 C.C. -

Dirigente - Modifica «in pejus» delle precedenti mansioni unilateralmente operata dal

datore di lavoro - Dequalificazione - Dirigente «apicale» degradato a dirigente

«minore» - Effetti - Fattispecie in tema di licenziamento.

Massima: La dequalificazione, unilateralmente operata dal datore di lavoro, del

dirigente apicale a dirigente riconducibile alla media o bassa dirigenza, mentre -

83

costituendo inadempimento contrattuale – consente al dipendente la tutela risarcitoria e

può costituire giusta causa di dimissioni, non muta il regime giuridico del licenziamento

ad nutum proprio dei dirigenti di vertice dell’azienda, essendo la dequalificazione nulla

ex art. 2103 C.C. Conseguentemente, non trovano applicazione la disciplina limitativa

dei licenziamenti, prevista dall’art. 10 della legge n. 604 del 1966, e le connesse

garanzie procedurali di cui all’art. 7 della legge n. 300 del 1970.

• Corte d’Appello di Firenze, sentenza 23 novembre 2005

Argomento della sentenza: Licenziamento - Dirigente - Soppressione meramente

eventuale e potenziale del posto di lavoro collegata all’approvazione di un progetto di

ristrutturazione e riorganizzazione aziendale - Giustificatezza - Esclusione - Fattispecie.

Massima: Non ricorre il requisito della giustificatezza del licenziamento del

dirigente nel caso in cui dalla comunicazione di recesso emerga il connotato meramente

eventuale e potenziale, non attuale, della soppressione del posto di lavoro, collegata

all’approvazione di un progetto di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale nel

quale non sono esplicati tempi e modalità delle medesime, e nella quale si faccia

riferimento alla non prevedibilità di un futuro proficuo utilizzo del lavoratore.

Note a sentenza: D&L II/2006, pp. 604 ss., nota MULLER

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 14 giugno 2006 n. 13719

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei

prestatori di lavoro - Qualifiche - Dirigente - Dirigenti d’azienda - Giustificatezza del

licenziamento secondo la contrattazione collettiva - Equipollenza con i criteri della

giusta causa o del giustificato motivo - Esclusione - Valutazione di detto requisito ai fini

dell’indennità supplementare in base alla contrattazione collettiva - Coincidenza con

84

una situazione di crisi aziendale comportante l’impossibilità della continuazione del

rapporto - Necessità - Esclusione - Fattispecie.

Massima: Il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme

limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3 della legge n. 604 del 1966

e la nozione di «giustificatezza» del licenziamento del dirigente, posta dalla

contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo di

licenziamento contemplata dall’art. 3 della stes sa legge 15 luglio 1966, n. 604. Inoltre,

ai fini della spettanza dell’indennità supplementare prevista dalla contrattazione

collettiva in caso di licenziamento del dirigente, la giustificatezza del recesso del datore

di lavoro non deve necessariamente coincidere con l’impossibilità della continuazione

del rapporto o con una situazione di grave crisi aziendale tale da rendere impossibile o

particolarmente onerosa tale prosecuzione, posto che il principio di correttezza e buona

fede, che costituisce il parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento, deve

essere coordinato con quello della libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41

Cost., che verrebbe radicalmente negata, ove si impedisse all’imprenditore, a fronte di

razionali e non arbitrarie ristrutturazioni aziendali, di scegliere discrezionalmente le

persone idonee a collaborare con lui ai più alti livelli della gestione dell'impresa. (Nella

specie, la S.C., sulla scorta degli enunciati principi, ha confermato la sentenza

impugnata che, all’esito di giudizio di rinvio, aveva correttamente escluso la

pretestuosità del licenziamento del dirigente ricorrente, alla stregua - in applicazione

della

sentenza di cassazione rescindente - della giustificatezza del recesso datoriale fondato

sul legittimo esercizio del potere riservato all’imprenditore di riorganizzare le risorse

umane

in modo da consentire una gestione non in perdita dell’azienda).

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 22 giugno 2006 n. 14461

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Categorie e qualifiche dei

prestatori di lavoro - Qualifiche - Dirigente - Licenziamento dei dirigenti - Norme

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limitative ex artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 - Esclusione - Sopravvenienza della legge

n. 108 del 1990 - Irrilevanza - Limitazioni introdotte dall’autonomia collettiva o

individuale - Ammissibilità - Recesso datoriale ingiustificato - Conseguenze -

Risoluzione del rapporto di lavoro - Configurabilità.

Massima: Il rapporto di lavoro dei dirigenti, anche dopo l’entrata in vigore dell a

legge n. 108 del 1990, non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti

individuali di cui agli artt. 1 e 3, legge n. 604 del 1966, non avendo la suddetta legge n.

108 inciso sull’art. 10 della legge n. 604, con la conseguenza che nel suddetto rapporto

di lavoro la stabilità può essere assicurata soltanto mediante l’introduzione ad opera

dell’autonomia collettiva o individuale di limitazioni alla facoltà di recesso del datore di

lavoro; tuttavia, in caso di recesso - come nella specie - non affetto da nullità ma

soltanto ingiustificato, l’atto di recesso è inidoneo a realizzare la risoluzione del

rapporto di lavoro soltanto nell’ambito dell’area di operatività della stabilità reale.

(Nella specie, la S.C. ha riformato la sentenza di merito che, a fronte del recesso

datoriale dal rapporto di lavoro con due dirigenti comunicato per un motivo non

consentito dal contratto collettivo, aveva ritenuto che il rapporto di lavoro non si fosse

risolto).

• Cassazione sezione lavoro, sentenza 26 luglio 2006 n. 17013

Argomento della sentenza: Lavoro subordinato - Estinzione del rapporto -

Licenziamento individuale - In genere - Dirigenti d’azienda - Licenziamento dovuto ad

esigenze aziendali di riassetto organizzativo - Ingiustificatezza - Nozione - Rischio

d’i mpresa - Incidenza ai fini dell’esclusione della giustificatezza - Negazione -

Rilevanza del potere imprenditoriale di riorganizzazione dell’impresa.

Massima: Ove vengano dedotte esigenze di riassetto organizzativo finalizzato ad

una più economica gestione dell’azienda - la cui scelta imprenditoriale è insindacabile

nei suoi profili di congruità e opportunità - licenziamento ingiustificato del dirigente,

cui la contrattazione collettiva collega il diritto all’indennità supplementare in ipotesi

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non definite dai principi di correttezza e buona fede, può considerarsi solo quello non

sorretto da alcun motivo (e che quindi sia meramente arbitrario) ovvero sorretto da un

motivo che si dimostri pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà, di talché la

sua ragione debba essere rinvenuta unicamente nell’intento di liberarsi della persona del

dirigente e non in quello di perseguire il legittimo esercizio del potere riservato

all’imprenditore. Non può incidere sull’esclusione della giustificatezza del

licenziamento la deduzione del dipendente secondo cui, in conseguenza della chiusura

della filiale, sarebbe andato a ricadere su di lui il rischio di impresa, poiché, a parte il

fatto che quest’ultimo, consistente nella eventualità che i costi di produzione non si ano

coperti dai ricavi, è evidentemente a carico dell’imprenditore, il riflesso negativo che

esso può comportare in termini di occupazione non esclude il potere dell’imprenditore

di procedere alla riorganizzazione dell’impresa.