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RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE L'esperienza del semdzio dì Consul» dell'ospedale neurologico «Carige si a di Milano mostra come la diagnc ; d una malattia genetica non sia solo un il a i o ma un evento che grazie al 1 d'equipe permette di trasformai i timori in progettualità neti ^

RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE - Istituto di Ricerche ... · creare una struttura di consulenza in grado di trasformare la diagnosi in un atto terapeutico, ... anche se le linee guida intemazionali

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RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE

L'esperienza del semdzio dì Consul» dell'ospedale neurologico «Carige si a di Milano mostra come la diagnc ; d una malattia genetica non sia solo un il a i o ma un evento che grazie al 1 d'equipe permette di trasformai i timori in progettualità

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di Paola Emilia Cicerone

I n medicina, di solito, un risultato «positi­vo» è una brutta notizia. Un esempio tra tanti della difficoltà di tradurre dati scien­

tifici nel linguaggio comune. Che si accentua quando le informazioni da comunicare so­no drammatiche, come nel caso della diagno­si di una malattia genetica. In questi casi ser­ve uno sforzo di comunicazione che va oltre la semplice trasmissione di dati. Come riesce a fare il servizio di Consulenza genetica in­tegrata (CGI). creato presso l'Istituto neuro­logico «Carlo Besta» IRCCS di Milano. Un'e­sperienza forse unica in Italia, raccontata ora in un saggio firmato da tre dei terapeuti che ne compongono l'equipe - lo psichiatra Ser­gio Astori, docente presso l'Università Catto­lica di Milano, la psicoanalista Anna Ferruta e la neuroioga Caterina Mariotti - e atteso in li­breria in settembre per i tipi di Franco Angeli.

• Un progetto sperimentale

Sono passati dieci anni dall'avvio di quello che all'epoca era un progetto sperimentale di due armi, realizzato grazie a un finanziamen­to del Ministero della Salute e promosso da quattro centri che si occupano di malattie ge­netiche a esordio tardivo per cui esistono test predittivi, come la malattia di Huntington, le atassie ereditarie, l'amiloidosi familiare, e alcune forme di demenza familiari: il Labo­ratorio di biotecnologie del Policlinico «San Matteo» di Pavia, l'Istituto di genetica dell'U­niversità di Genova, l'Istituto neurologico «Carlo Besta» di Milano e l'Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri» di Bergamo.

«L'idea era quella di sviluppare una colla­borazione tra figure professionali diverse, per creare una struttura di consulenza in grado di trasformare la diagnosi in un atto terapeutico, inserendola nel servizio offerto al paziente», spiega Giovanni Foresti, psicoanalista e con­sulente per l'organizzazione del progetto. Su­perando varie difficoltà, tra cui quella di dare spazio alla psicologia in un ambiente dove predomina l'aspetto neurobiologico.

«È stata un'esperienza sorprendente. Quan­do abbiamo cominciato, il "Besta", centro di eccellenza per la neurologia biologica, mo­strava un limitato interesse per gli aspetti psi­cologici del rapporto con il paziente», ricorda Anna Ferruta. «La nostra sembrava una mis-sion impossible». Invece ci sono stati risultati

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importanti, tanto che al "Besta" l'esperienza è continuata e si è consolidata anche una volta esaurita la fase di sperimentazione, aprendosi anche ad altri pazienti a rischio per malattie neurodegenerative con una forte componen­te genetica. «Siamo riusciti a creare una strut­tura semplice e solida», prosegue la psicoana­lista. «Anche trovare un'ora che andasse bene per tutti non è stato facile, ma in questi casi il dispositivo organizzativo è fondamentale, serve a creare una situazione di impegno e di investimento. La medicina dovrebbe essere proprio questo: un'integrazione di competen­ze tecniche, relazionali e di ricerca».

L'equipe del «Besta» è composta da neu­rologi, genetisti e biologi dell'Unità di pato­logia clinica e genetica medica, coadiuvati da psichiatra e psicoanalista supervisore. I pazienti - un termine forse improprio, visto che quanti si sottopongono al test dovrebbe­ro essere definiti «probandi» - sono una ses­santina l'anno, e sono invitati a tre incontri. Il primo serve per la visita neurologica e la costruzione della storia familiare, ma anche per fornire le informazioni necessarie e chia­rire eventuali dubbi; seguono l'incontro per la somministrazione dei test psicologici e il prelievo di sangue per l'analisi del DNA, e quello conclusivo per la restituzione del tesi. Da qui si possono dipanare percorsi diversi a seconda dei casi, cercando comunque di of­frire al paziente un punto di riferimento cui rivolgersi in caso di necessità, e la possibilità di partecipare, in futuro, alle sperimentazioni cliniche avviate dall'istituto.

• La malattia annunciata Oggi sono sempre di più le strutture che

prevedono iniziative di supporto psicologico per chi riceve diagnosi infauste, ma l'espe­rienza del «Besta» è pensata per una situazio­ne con un impatto psicologico pesantissimo: quella della «malattia annunciata», con tut­te le implicazioni che comporta. «Il risulta­to positivo dì un test genetico è destinato a condizionare la vita dell'interessato, ma an­che della famiglia: questo scatena emozioni molto forti, specialmente nei confronti dei figli», osserva Foresti. «Senza dimenticare la difficoltà di fare i conti con le angosce degli operatori, che vivono la discrepanza tra quel­lo che sappiamo di queste malattie e quello che possiamo fare per trattarle».

Basta fermarsi in una delle sale d'attesa dell'Istituto milanese per cogliere i drammi e le emozioni che vive chi è in attesa di sape­

re se svilupperà una malattia per cui in molti casi non esiste una cura: «Accanto a questi timori c'è anche l'angoscia per il "dono av­velenato" che si è ricevuto e che si può tra­smettere alla discendenza», sottolinea Sergio Astori. «È una situazione particolare», aggiun­ge la neuroioga Caterina Mariotti. «Quando si parla con chi è già ammalato, una diagnosi, per quanto terribile, è una risposta. E in altri casi - pensiamo ai tumori con componente ereditaria - nonostante la drammaticità della situazione c'è qualcosa che si può fare».

In questi casi, invece, in termini di terapia non si può al momento fare molto, e si cerca di usare l'ascolto come atto clinico che aiuti a dare prospettiva e progettualità a situazioni in cui si deve affrontare l'inevitabile: «In una si­tuazione come questa la diagnosi, se non na­sce da una riflessione intelligente, può appa­rire come una cattiveria gratuita che potrebbe

Vita di laboratorio. Nelle fotografie di queste pagine, i laboratori di ricerca dell'Istituto neurologico «Carlo Besta» di Milano, fondato nel 1918 e trasformato in Fondazione nel 2006.

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Malattie genetiche

generare sensi di colpa», osserva Foresti. «Sia­mo riusciti a organizzare un dispositivo che tutela i soggetti coinvolti, aiutando i medici a non sentirsi soli e chi riceve la diagnosi a sopportare un'esperienza durissima».

• Una diagnosi familiare È nato così il mix di competenze che fa

della CGI un'esperienza unica, spingendo i medici a tener conto della psiche e gli «psi» ad affrontare un disagio che in questo caso nasce dal corpo. «L'attenzione per il vissuto dei pazienti è una delle basi della psicoana­lisi, appartiene da sempre alla nostra espe­rienza e alla nostra cultura», spiega Ferruta. «Cercare di renderli partecipi, in una posizio­ne attiva, è fondamentale per costruire un percorso terapeutico efficace».

Una diagnosi genetica non può che esse­re una diagnosi familiare, anche se molte di

queste malattie sono state descritte in tempi recenti, per cui la ricostruzione delle storie familiari è complessa. «Ogni test, a prescin­dere dal risultato, si porta dietro un carico di sollievo, ma anche di sofferenza», ricorda Astori. E spesso la famiglia è il motivo per cui si decide di sottoporsi all'esame: «Queste ma­lattie non saltano una generazione: per chi ha figli sottoporsi al test è l'unico modo per sapere se c'è il rischio di aver trasmesso loro la malattia», spiega la biologa Cinzia Gellera, una delle componenti dell'equipe. Se il geni­tore risulta positivo, anche i figli potrebbero esserlo, anche se le linee guida intemazionali escludono di sottoporre i bambini a esami di questo genere, per non condizionarne l'esi­stenza: pensiamo alla difficoltà di trattare due figli con un destino genetico diverso.

«In teoria, se entrambi i genitori fossero concordi nella volontà di richiedere l'esecu-

Malattia di Huntington La malattia di Huntington

o còrèa di Huntington (dal

greco choros, danza) è una

malattia neurodegenerativa

che si manifesta

generalmente verso i

40-45 anni, caratterizzata

da movimenti involontari,

alterazioni psichiche e

demenza: al momento non

esistono cure. Si tratta di

una malattia ereditaria

autosomica dominante: un

paziente che ne è affetto ha il

50 per cento di probabilità di

trasmetterla ai figli.

Atassie ereditarie Le atassie ereditarie, o

atassie spinocerebellari,

sono caratterizzate da

una degenerazione delle

cellule che compongono il

cervelletto, che compromette

progressivamente la capacità

di coordinare i movimenti.

Sono malattie autosomiche

dominanti per cui al

momento sono disponibili

solo trattamenti sintomatici.

Amiloidosi familiari Un gruppo di malattie

genetiche a trasmissione

autosomica dominante,

caratterizzate dal deposito

extracellulare di materiale

proteico non solubile

(amiloide), a causa di

disfunzioni che alterano

il metabolismo o la

conformazione di alcune

proteine. La forma più

comune si manifesta con

sintomi legati al sistema

nervoso periferico e centrale.

Oggi si tratta con i farmaci.

Demenza Sono state identificate rare

forme di demenza su base

ereditaria, sia per quanto

riguarda la malattia di

Alzheimer che la demenza

fronto-temporale.

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Un punto di riferimento. L'Istituto «Besta» è punto di riferimento soprattutto

per patologie rare che richiedono capacità di diagnosi e modalità di intervento avanzate e in continuo e rapido mutamento.

zione del test per i figli minorenni, si potreb­be ottenere l'autorizzazione a farlo, ma nella nostra esperienza, finora, nessuno ne ha sen­tito l'esigenza», precisa Gellera. «Si rendono conto che è meglio aspettare». Tanto che dif­ficilmente sono i giovanissimi a chiedere una diagnosi di questo tipo. «Si tratta di un carico molto pesante, che getta un'ombra sulla vita futura», spiega FerruTa. «Bisogna valutare per capire se c'è un'effettiva necessità: non sem­pre sapere tutto è davvero utile».

Mentre per chi desidera un figlio c'è la pos­sibilità di ricorrere a una diagnosi prenatale, usando test specifici, diversi da quelli che fan­no tutte le madri in attesa. «Non dobbiamo però mitizzare la possibilità di "sapere": un la­voro come il nostro serve anche a contrastare possibili derive di tipo eugenetico, a combat­tere la sensazione che con i test si possa risol­vere tutto», sottolinea Astori.

La perfezione genetica non esiste, e da que­sto punto di vista nessuno è perfetto. Senza contare che i progressi della ricerca offrono

nuove opportunità di conoscenza, ma anche nuovi interrogativi. Dare informazioni sulla possibilità di trasmettere la malattia non si­gnifica negare la possibilità di essere genitori, «ma fornire un riferimento qualificato al qua­le rivolgersi, dare ai pazienti la sensazione di non essere soli», ricorda lo psichiatra.

• Reazioni diverse Anche perché chi riceve queste diagno­

si si trova inevitabilmente a fare i conti con l'attesa, e l'incertezza. «Non solo spesso non abbiamo una terapia da proporre, ma in mol­ti casi non sappiamo nemmeno dopo quanto tempo si manifesterà la malattia», spiega Gel­lera. Alcune di queste patologie si presentano con mutazioni diverse, che cambiano radi­calmente il destino di chi ne soffre. E anche chi ha vissuto questa esperienza in famiglia può averne immagini diverse, che lo portano a minimizzare o ad angosciarsi: c'è chi vede un eventuale responso sfavorevole come «un brutto periodo» superabile, e chi si dispera ri-

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La consulenza genetica L'idea di counselling genetico nasce nel 1947, quando il genetista statunitense Sheldon Reed definisce così il servizio offerto alle persone per aiutarle a capire i problemi genetici delle loro famiglie. In questo modo si intendeva anche contrastare le pretese dell'eugenetica, nata agli inizi del Novecento con l'intento di migliorare la condizione umana, ma poi degenerata in violenze e abusi. Per questo la consulenza genetica, nelle sue diverse forme, mira a tutelare fin dal suo inizio la libertà di scelta dell'individuo e ad aiutare le persone coinvolte a prendere decisioni consapevoli. Anche se le prime cliniche di medicina genetica, negli anni quaranta, potevano solo offrire informazioni sul rischio di ricorrenze dì malattie in base alle ricostruzioni dei legami di parentela mediante l'albero genealogico, al calcolo mendeliano delle probabilità e all'annotazione dei sintomi.

La scoperta del gene per la malattia di Huntington nel 1993 rappresenta una svolta importante, perché permette di identificare i pazienti che presentano sintomi compatibili con la malattia, e di capire chi tra i familiari di una persona che ne è affetta ha ereditato la mutazione, anche con 10-20 anni di anticipo rispetto all'insorgere dei sintomi.

Oggi le analisi genetiche disponibili sono sempre più numerose: pensiamo solo ai test per la diagnosi prenatale, ai test per il portatore sano in malattie come la fibrosi cistica o la talassemia, alla consulenza genetica oncologica. A fronte di un'offerta sempre più ricca emerge la necessità di strutture di consulenza che accompagnino le persone nel processo decisionale e nell'elaborazione delie informazioni fornite, tenendo conto del loro impatto psicologico ed emotivo sul singolo e sulla famiglia.

sua richiesta di adottare un bambino era stata respinta a causa del rischio di sviluppare una malattia genetica», ricorda Ferruta.

Succede spesso che agli incontri arrivino persone che hanno interrogativi sulla storia della famiglia, ricordi di malattie gravi da chiarire e indagare, c'è chi arriva da solo e chi coinvolge familiari o fratelli. «In questi casi il coinvolgimento del singolo significa spesso il coinvolgìmento della famiglia», spiega Asto­ri. Come nel caso di Pietro, uno dei pazienti la cui storia è raccontata nel saggio, che ha sospeso l'iter avviato insieme a uno dei suoi due fratelli, risultato positivo, e si ripresen­ta dopo due anni accompagnato dal fratello minore, che potrebbe aver scelto di sottoporsi al test - purtroppo con esito positivo - per seguire i fratelli maggiori.

• Una ferita narcisistica A volte può succedere di cambiare idea.

Altri dati indicano che, su 163 pazienti che si sono presentati al primo incontro, 128 (il 78 per cento) hanno effettuato 0 prelievo, e di questi 123 hanno chiesto di avere il risultato. Anche i tempi di consegna sono importan­ti: c'è chi ha bisogno di sapere, chi vivreb­be un intervento immediato come un'ecces-

I progressi della ricerca scientifica nel campo della genetica offrono nuove opportunità di conoscenza, ma al tempo stesso pongono nuovi interrogativi

cordando il dramma vissuto da un familiare. Uno degli obiettivi della CGI è proprio quello di cercare di capire che c'è dietro la richiesta del paziente di sottoporsi al test, quali vissuti e quali rappresentazioni ha dello stato di sa­lute proprio e della famiglia. Se indaghiamo le motivazioni di quanti hanno richiesto il test, vediamo che in alcuni casi si arriva per­ché ci sono sintomi e si sente la necessità di sapere, o perché si è in una fase esistenziale in cui si ha bisogno di certezze.

Un'indagine durata sei anni su pazienti con familiarità per malattia di Huntington indica che il 39 per cento di loro afferma di sottoporsi al test per i figli, il 32 per cento per pianificare la vita familiare, il 21 per cento per uscire dall'incertezza, il 4 per cento per chiarire l'origine di sintomi e il 4 per cento per essere informato. In ogni caso, qualunque diagnosi genetica fa emergere storie umane complesse, crisi familiari che la malattia acui­sce. «Mi ha molto colpito l'esperienza di un uomo che voleva sottoporsi al test perché la

siva medicalizzazione o può avere bisogno di più tempo per elaborare l'esperienza. «C'è chi decide di non ritirare l'esito dell'esame, una scelta che richiede molta forza», osserva Astori. Ma anche chi preferisce sapere che i dati sono lì, pronti per quando potrà aver­ne bisogno, o quando succederà qualcosa che spinge a investire su un progetto: «Una signora non giovanissima ci informò che avrebbe voluto vedere i risultati se avesse trovato un compagno», ricorda Gellera.

Dal punto di vista psicoanalitico la malat­tia è una ferita narcisistica, tanto più profon­da quando riguarda la discendenza: «I sensi di colpa nei confronti di figli o familiari che spesso queste persone esprimono possono essere un modo per cercare di dare un senso all'accaduto, di vincere l'angoscia generata dall'impossibilità di capire», spiega Ferruta

Per capire come affronteranno la dia­gnosi, i volontari che richiedono il test sono sottoposti a due scale di valutazione - sulla depressione e sulla presenza di eventuali sin-

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tomi psichiatrici - e a un test psicologico pro­iettivo, il test dell'albero. «L'idea di usarlo mi è venuta quasi per caso, quando durante gli incontri preparatori ho visto proiettato l'albe­ro genealogico da cui i genetisti partono per il loro lavoro», ricorda Ferruta. È di un test semplice, generalmente usato con i bambini - bisogna disegnare un albero su un foglio di carta - che offre una grande libertà di espres­sione, perché gli alberi hanno forme e dimen­sioni diverse, oltre a un forte valore simbolico.

«Questi test, e in generale le rating scale, sono soprattutto strumenti per strutturare la raccolta di informazioni, dando in qualche modo una forma ad angosce che altrimenti avrebbero difficoltà a esprimersi», osserva Foresti. E in questo caso il test non era stato scelto per il valore diagnostico, ma proprio per la capacità di far emergere contenuti psi­chici. Anche se una tesi di lautea, che mette a confronto gli alberi disegnati da soggetti con familiarità per malattie genetiche con quelli eseguiti da un gruppo di controllo, mostra ri­sultati diversi: «Gli alberi eseguiti dai pazienti sono spesso privi di radici, quasi a rappresen­tare una situazione sospesa su cui aleggiano minacce, la difficoltà di connettersi su cui si poteva contare», spiega Astori.

• Il farmaco più potente In una situazione come questa la diagno­

si non può essere solo un'informazione da consegnare in busta chiusa, come ancora avviene in alcune strutture, ma diventa una presa in carico. «Treni'anni fa si aveva a che fare con un genetista che poteva parlare solo di percentuali di rischio, di probabilità, senza fornire certezze», spiega Mariotti. «Oggi in­tervengono gli specialisti di riferimento per le diverse patologie». Ma in molte strutture il paziente si sposta da uno specialista all'altro in una serie di incontri. «A fare la differenza è il fatto che qui esiste un'equipe che lavora in­sieme, un gruppo cui fare riferimento», spiega Astori. «Secondo Balint, una riunione periodi­ca - per noi, di solito, mensile - è sufficiente a modificare la qualità dell'operato professio­nale di qualunque struttura sanitaria, a fare il salto dal curare al prendersi cura».

«In questo modo si riesce a dare la sensa­zione che ci sia un percorso», osserva Ferruta. «Superando il trauma del primo incontro con l'istituzione curante, un evento che tende a porre i pazienti in una condizione di dipen­denza. Non a caso Balint affermava che il mi­glior farmaco è il rapporto col medico».

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Ogni caso è discusso dall'equipe prima di conoscere i risultati del test, per valutare come consegnare il test e quali risorse attivare. «A volte ci chiediamo se far entrare il paziente da solo o con i familiari, come gestire le reazioni delle varie persone. Negli anni sono stati fatti anche errori, ma abbiamo imparato a gestir­li», spiegano i medici della CGI. Sono loro a incontrare i pazienti, mentre psichiatra e psi­coanalista lavorano con gli operatori per in­dividuare il percorso più adatto per ogni caso e intervengono con il paziente solo se è ne­cessario o se viene richiesto. Il loro compito, come emerge anche da una tesi di laurea de­dicata al lavoro svolto al «Besta», è soprattutto quello di ascoltare i medici, aiutandoli a far emergere le proprie emozioni e stimolando il confronto all'interno dell'equipe.

«Ragionare su come affrontare la restitu­zione del test aiuta i medici a superare il senso di impotenza», osserva Astori. «Inoltre ne ri­sultano valorizzate le competenze relazionali, per il fatto di affidare loro il compito di co­municare la diagnosi». In ogni caso i pazienti

osserva Astori. In casi come questi costruire una relazione è fondamentale, per vincere la sensazione opprimente di impotenza genera­ta dal fatto di poter fare poco o niente per i pazienti. «La nostra speranza, per tornare alla metafora dell'albero, è quella di fornire loro, se non le radici, almeno un vasetto dove pos­sano ritrovare una qualche stabilità», prose­gue lo psichiatra.

• Una nuova sfida

Ma il dialogo ha anche altre funzioni: «Mettere in gioco i sentimenti che si prova­no nei confronti dei pazienti aiuta a cogliere la complessità di ogni caso, e a far emergere elementi che possano essere sfuggiti nel dia­logo con i singoli specialisti: spesso anche i pazienti, parlando, menzionano dati impor­tanti di cui non erano consapevoli», spiega Ferruta. «Sappiamo da Bion quanto possa es­sere valida l'esperienza del lavoro di gruppo per analizzare casi clinici, e l'ho verificato di persona, oltre che nel lavoro con la CGI, in esperienze simili con altri specialisti, come

Per il medico, mettere in gioco i sentimenti che prova verso i pazienti aiuta a cogliere la complessità di ogni caso e a far emergere elementi importanti

restano in contatto con la struttura. Chi risulta positivo può accedere a ulteriori controlli, e se necessario a un supporto psicologico: «Sarmo che saranno informati se ci sono nuove tera­pie o sperimentazioni, per molti la speranza nei progressi della ricerca è importante per fare fronte alla diagnosi», osserva Gellera. E anche per chi ha un risultato negativo l'idea di mantenere un contatto con un istituto di ricerca e di essere forse chiamati in futuro a partecipare a uno studio compensa in parte la fatica emotiva che l'esperienza del test com­porta, e aiuta a superare i sensi di colpa per avere scampato un destino che riguarda altri componenti della famiglia.

«In genere mettendo insieme i test e i ri­sultati del colloquio abbiamo un'idea di co­me reagirà un paziente: le sorprese non sono frequenti», spiega Ferruta. «Sappiamo dalla letteratura che ci sono stati casi di suicidio o tentato suicidio dopo una diagnosi di questo tipo, ma per ora da noi è stato evitato».

Per quanto riguarda i medici, il lavoro in équipe è soprattutto una ricerca di senso. «Lavoriamo insieme per confrontarci con un'idea spaventosa e potente, quella di stabi­lire e comunicare il destino di una persona»,

oncologi o diabetologi, in situazioni che met­tono in qualche modo in gioco le angosce di impotenza del medico».

Ora la sfida è esportare un modello di in­tervento collaudato: è uno degli obiettivi del corso su «La comunicazione della diagnosi come primo atto di cura», rivolto a medici, biologi, psicologi, infermieri e assistenti so­ciali che si terrà all'Istituto «Besta» da ottobre a febbraio nell'ambito delle iniziative pro­mosse dal «Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benes­sere di chi lavora e contro le discriminazioni».

L'esperienza del «Besta» si è sviluppata grazie alla dedizione dei partecipanti, ma non è ancora riconosciuta ufficialmente dal siste­ma. «D'altronde il nostro sistema sanitario è basato sulle prestazioni - commenta Asto­ri - e stenta a riconosce qualcosa che non si identifica con una visita o con una riunione scientifica». Anche se la consultazione con­tinua a vivere, e a funzionare come conte­nitore di ansie e generatore di speranze. Con risultati concreti. «Come quello - conclude Mariotti - di avere ridotto le richieste di un secondo parere, che nascevano forse da do­mande cui siamo riusciti a rispondere». •