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Rassegna bibliografica L’esercito dell’Italia liberale di Nicola Labanca Da non meno di un quindicennio, John Gooch ha alternato i propri studi sulla storia della politica militare britannica e la sua ca- rica di direttore del “Journal of strategie studies” con visite in biblioteche e archivi italiani. In lingua inglese erano già apparsi alcuni primi risultati delle ricerche che stava conducendo sulla storia della politica milita- re italiana e sulle concezioni strategiche dei militari dell’Italia liberale (fra cui cfr. Italy before 1915. The quandary of vulnerable, in E.R. May (ed.), Knowing one’s enemies. In- telligence assessment before the two world wars, Princeton, Princeton Univ. N.J. 1984; e Clausewitz diseregarded. Italian military thought and doctrine, 1815-1943, in M.I. Handel (ed.), Clausewitz and modern stra- tegy, London, Cass, 1986). Così, fra gli sto- rici dei paesi anglosassoni, poco avvezzi alle complicazioni della lingua italiana, è dive- nuto uno specialista delle cose militari della penisola. Qualche anticipazione degli studi storico-militari italiani di Gooch si era letto anche da noi (cfr. L ’Italia contro la Francia. I piani di guerra difensivi ed offensivi 1870- 1914, in “Memorie storiche militari 1980”, 1981) . Ed una prestigiosa casa editrice italia- na aveva tradotto la sua sintesi su Annies in Europe (1980, trad. it. Soldati e borghesi nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza, 1982) . Il suo più recente volume sull’esercito dell’Italia liberale (Army, State and society in Italy, 1870-1915, London, MacMillan, 1989, pp. 219) rappresenta un coronamento ed allo stesso tempo un più chiaro assesta- mento delle sue prime ricerche. Un giorno, in un’altra sede, converrà sof- fermarsi sul notevole grado di internaziona- lizzazione che si è potuto riscontrare nell’ul- timo quindicennio di ricerche sulla storia militare italiana. È ormai un effetto non più solo di lacune e ritardi nostrani, ma anche del profondo rinnovamento degli studi stori- co-militari italiani. Per comprendere il cre- scente interesse di studiosi stranieri verso la storia militare italiana va tenuto presente che nella seconda metà degli anni settanta erano apparse importanti opere generali sul- la storia d’Italia, più o meno concordi nel mettere in evidenza 1’ “esiguità delle radici liberali dello stato italiano” postunitario e li- berale; e che all’incirca negli stessi anni era- no state pubblicate le uniche sintesi di storia militare italiana di tutto questo dopoguerra. Le condizioni erano quindi favorevoli per- ché un consistente numero di studiosi stra- nieri guardasse con interesse alla storia mili- tare italiana, anche come utile banco di pro- va di ipotesi di ricerca emerse altrove (nei più progrediti war and society studies ingle- si, francesi, statunitensi). Ad oggi, fra questi studiosi (e il volume che qui si segnala lo ri- conferma), Gooch pare essere riuscito a strutturare l’ipotesi interpretativa più forte, capace di interloquire più approfonditamen- te con gli studi italiani. L’impianto del volume di Gooch è sostan- zialmente cronologico. In dieci capitoli è Italia contemporanea”, settembre 1991, n. 184

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Rassegna bibliografica

L’esercito dell’Italia liberaledi Nicola Labanca

Da non meno di un quindicennio, John Gooch ha alternato i propri studi sulla storia della politica militare britannica e la sua ca­rica di direttore del “Journal of strategie studies” con visite in biblioteche e archivi italiani. In lingua inglese erano già apparsi alcuni primi risultati delle ricerche che stava conducendo sulla storia della politica milita­re italiana e sulle concezioni strategiche dei militari dell’Italia liberale (fra cui cfr. Italy before 1915. The quandary o f vulnerable, in E.R. May (ed.), Knowing one’s enemies. In­telligence assessment before the two world wars, Princeton, Princeton Univ. N.J. 1984; e Clausewitz diseregarded. Italian military thought and doctrine, 1815-1943, in M.I. Handel (ed.), Clausewitz and modern stra­tegy, London, Cass, 1986). Così, fra gli sto­rici dei paesi anglosassoni, poco avvezzi alle complicazioni della lingua italiana, è dive­nuto uno specialista delle cose militari della penisola. Qualche anticipazione degli studi storico-militari italiani di Gooch si era letto anche da noi (cfr. L ’Italia contro la Francia. I piani di guerra difensivi ed offensivi 1870- 1914, in “Memorie storiche militari 1980”,1981) . Ed una prestigiosa casa editrice italia­na aveva tradotto la sua sintesi su Annies in Europe (1980, trad. it. Soldati e borghesi nell’Europa moderna, Roma-Bari, Laterza,1982) . Il suo più recente volume sull’esercito dell’Italia liberale (Army, State and society in Italy, 1870-1915, London, MacMillan, 1989, pp. 219) rappresenta un coronamento

ed allo stesso tempo un più chiaro assesta­mento delle sue prime ricerche.

Un giorno, in un’altra sede, converrà sof­fermarsi sul notevole grado di internaziona­lizzazione che si è potuto riscontrare nell’ul­timo quindicennio di ricerche sulla storia militare italiana. È ormai un effetto non più solo di lacune e ritardi nostrani, ma anche del profondo rinnovamento degli studi stori­co-militari italiani. Per comprendere il cre­scente interesse di studiosi stranieri verso la storia militare italiana va tenuto presente che nella seconda metà degli anni settanta erano apparse importanti opere generali sul­la storia d’Italia, più o meno concordi nel mettere in evidenza 1’ “esiguità delle radici liberali dello stato italiano” postunitario e li­berale; e che all’incirca negli stessi anni era­no state pubblicate le uniche sintesi di storia militare italiana di tutto questo dopoguerra. Le condizioni erano quindi favorevoli per­ché un consistente numero di studiosi stra­nieri guardasse con interesse alla storia mili­tare italiana, anche come utile banco di pro­va di ipotesi di ricerca emerse altrove (nei più progrediti war and society studies ingle­si, francesi, statunitensi). Ad oggi, fra questi studiosi (e il volume che qui si segnala lo ri­conferma), Gooch pare essere riuscito a strutturare l’ipotesi interpretativa più forte, capace di interloquire più approfonditamen­te con gli studi italiani.

L’impianto del volume di Gooch è sostan­zialmente cronologico. In dieci capitoli è

Italia contemporanea” , settembre 1991, n. 184

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narrata la storia dei rapporti fra militari e politici in Italia, dalle guerre risorgimentali alla grande guerra. Fra prove militarmente non esaltanti e scopi di guerra non sempre condivisi con i politici, l’esercito piemontese divenne regio esercito italiano. La divisione fra i suoi capi, manifestatasi nelle guerre d’indipendenza, venne istituzionalizzata in un modello di rapporti fra civili e militari che Gooch definisce “disastroso” per l’auto­nomia professionale, perché — è la sua tesi— la presenza di alti ufficiali nei dicasteri militari e in Parlamento li “politicizzò” mentre la sudditanza al re, alla prerogativa regia ed al partito di corte ne fece dei “corti­giani” (cap. I). Con un vertice così diviso e subalterno la pur finanziariamente costosa politica di difesa, interna ed esterna, risentì dei contraccolpi parlamentari e degli interes­si dei ministri militari, piuttosto che di un’accurata preparazione, sotto la Destra (cap. II) come sotto la Sinistra (cap. Ili) o sotto Crispi (cap. IV). La debolezza econo­mica del paese non escluse comunque una politica estera velleitaria, come nel caso del­la politica coloniale ed eritrea (cui è dedicato un’intero capitolo), nella quale l’autonomia— e l’impreparazione — dei militari rag­giunse il culmine. L’occasione per un inter­vento dei militari sulla scena politica avreb­be potuto essere data dalla svolta reaziona­ria di fine secolo: ma qui i militari, più in­tenti a controllare l’ordine pubblico e a mantenere saldamente nelle loro mani l’eser­cito al riparo da intromissioni politiche, ri­masero nei confini stabiliti dai politici e dal­la classe dirigente (cap. VI). Accumularono però un credito, che come Gooch spiega, fu speso nel successivo decennio giolittiano, se­gnato e condizionato più di quanto talora si è stati disposti a ritenere dalla presenza mili­tare, dal riarmo, dalla guerra di Libia (capp. VII-IX). Nonostante ciò, l’apertura delle ostilità del primo conflitto mondiale trovò le alte gerarchie militari impreparate e divise (cap. X).

Come si vede, dopo le note e recenti sin­tesi di storia militare italiana (di John Whit- tam, Giorgio Rochat e Giulio Massobrio, Lucio Ceva) si tratta del primo volume che vada al di là di una monografia su singole fasi o temi e tenti — con andamento crono­logico e organico — di ripercorrere l’intero cinquantennio dell’Italia liberale. E per quanto l’andamento del volume sia princi­palmente narrativo, su alcuni cardini del­l’interpretazione di Gooch conviene soffer­mare l’attenzione. Un punto fermo dell’a­nalisi di Gooch è lo squilibrio fra i costi del­lo strumento militare e le risorse del paese. La nota antitesi “guerra o finanza” — sol­levata da Piero Pieri, rimarcata da Federico Chabod e poi precisata da studiosi di vario orientamento (da Alberto Monticone ad Antonio Pedone a Rochat) — rimane anche per lo studioso britannico il primo metro con cui giudicare tutta la politica militare italiana. La responsabilità, qui, è equamen­te divisa fra politici e militari. Notevole, poi, è la forza con cui Gooch sottolinea la frattura nel rapporto fra esercito e società civile. Nell’introduzione egli tiene a distin­guere la sua interpretazione da quella del “Marxist historian Giorgio Rochat” (p. XII). Ma poi di fatto riprende gran parte delle analisi di quest’ultimo sul ruolo di classe dell’istituzione militare come tutrice dell’ordine pubblico e sociale: sino a defini­re il rapporto dell’esercito con il paese come quello di una forza d’occupazione, anch’es- sa sotto assedio.

Un altro punto rilevante dell’interpreta­zione di Gooch sta nell’accento posto sulla divisione delle alte gerarchie militari e sulla generale inefficienza dell’esercito (da qui, anche, l’emblematicità dell’immagine sulla sovraccoperta, dedicata alla catastrofe di Adua). L’evidenza della scarsa professiona­lità dei militari italiani è ricercata nei risulta­ti sul campo (particolarmente nel capitolo sull’avventura eritrea), nello stentato svilup­po di una moderna concezione degli stati

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maggiori, nella scarsa diffusione fra gli uf­ficiali italiani dei grossi temi del dibattito tecnico-militare internazionale di quegli an­ni. Ciò portava ad una scarsa omogeneizza­zione del corpo ufficiali. In fatto di strate­gia e di tattica, argomenta Gooch, persino all’approssimarsi del primo conflitto mon­diale (cioè alla vigilia di una guerra di mas­sa e totale), al di là di poche linee di massi­ma, troppo poco era condiviso fra i più alti ufficiali e troppo era lasciato al ‘genio’ (o alParbitrio) del futuro comandante in capo: come ai tempi delle guerre risorgimentali, ben lontani dagli automatismi dei piani Sch- lieffen.

I punti sinora ricordati toccano, tutti, te­mi centrali nella vicenda dell’esercito dell’I­talia liberale. L’interpretazione di Gooch li ricomprende in una valutazione più generale sul complesso dei rapporti fra politici e mili­tari: una valutazione interessante anche se apparentemente contraddittoria, che a ben vedere, oltre a suggerire piste di ricerca sto­rica, inserisce la riflessione sulle vicende mi­litari italiane in un ambito di riflessione scientifica (di scienza della politica) di am­pio respiro internazionale. Si tratta, rispetto ai modelli di relazioni militari-civili già a suo tempo proposti da Samuel P. Huntington, in The soldier and the State: the theory and politics o f civil-military relations, (Cambrid­ge, Harvard University Press, 1957) di un’interpretazione che Gooch articola di fatto in due aspetti. Da un lato, egli sostiene con notazioni di grande interesse (non solo storiografico) che le forze armate dell’Italia liberale riuscirono a condizionare la politica militare (e la politica tout court) italiana in un grado maggiore che in altre potenze eu­ropee, senza però volere intervenire diretta- mente a livello istituzionale. Pur senza le esteriorità del militarismo prussiano o dei pronunciamientos spagnoli, l’esercito italia­no condizionava infatti pesantemente la po­litica finanziaria, quella estera e coloniale, quella interna. Si tratterebbe di un’influenza

— ecco la singolarità del caso italiano — senza intervento. D’altro Iato, Gooch insiste più volte e anche con toni sprezzanti su ciò che gli appare “una caratteristica italiana”: la mancata informazione (e consultazione) dei militari da parte dei politici nelle que­stioni diplomatiche d’interesse militare, la “fretta” messa dai politici ai militari, il con­dizionamento della politica militare da parte dell’opinione pubblica.

Ambedue gli aspetti contengono elementi di verità. Ma appaiono evidentemente fra loro, in qualche parte, contraddittori. Il pri­mo rimanda ad una classe politica debole e sopraffatta, l’altro ad un esercito che si fa imporre i tempi della guerra. Il primo punta l’indice verso le responsabilità dell’esercito, il secondo quasi lo giustifica: non solo per il suo ruolo di mantenimento dell’ordine pub­blico e sociale, ma anche nelle sue inadem­pienze, nella sua scarsa professionalità, nelle sue sconfitte. A nostro parere, le contraddi­zioni delle valutazioni di ispirazione polito- logica dei rapporti civili-militari nell’Italia liberale si sciolgono solo se l’analisi del rap­porto fra “guerra e politica” è affiancata e soccorsa dall’analisi del rapporto fra “guer­ra e società”: se cioè allo studio dei rapporti fra élites militari e politiche si aggiunge quello della composizione sociale delle forze armate, dell’ideologia del corpo ufficiali ec­cetera.

Molte sono le spiegazioni del fatto per cui Yarmy di Gooch guarda ancora — parafra­sando il titolo — allo State più che alla so­ciety. Tra queste possono ricordarsi: la no­bile tradizione degli studi italiani su “guerra e politica” (da Pieri, che aveva studiato Hans Delbriick, in avanti), il carattere di sintesi del volume (e quindi il suo rispecchia­re lo stato della ricerca italiana), le stesse asperità della modellistica presa in prestito dalle teorizzazioni della scienza politica an­glosassone che nei suoi estremi (o militari ‘irresponsabili’ o civili ‘controllori’) mal si adatta all’ennesimo ‘caso italiano’, questa

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volta militare. Rimane il fatto che è neces­sario superare le asperità politologiche, ap­parentemente insanabili: ad esempio trami­te la valutazione e lo studio del grado di ‘autonomia’ di fatto goduta dagli eserciti nei confronti del controllo politico, un’au­tonomia (categoria presente, ma poco ap­profondita, già nel volume del conservatore S. Huntington, e poi meglio fondata da Morris Janowitz per il caso statunitense The professional soldier, New York, Free Press, 1960) che accompagna sempre il mi­litarismo, ma che può comparire anche ove — formalmente — sussista un controllo politico dei militari. A ben vedere, anche da ciò prende origine la singolarità del caso italiano (influenza senza intervento milita­re, ingombrante presenza militare senza mi­litarismo, o — secondo quanto aveva scrit­to Guglielmo Ferrerò, Il militarismo, Mila­no, 1898 — “nazione armata senza milita­rismo”).

Gooch stesso fornisce già, comunque, nel suo volume, numerose indicazioni di ricer­ca in tal senso: e il dato è quanto più possi­bile meritorio se si osserva che forse non ha potuto valersi di recenti pubblicazioni

italiane come i due ponderosi volumi su Esercito e città dall’Unità agli anni trenta. Atti del convegno di studi (Perugia 11-14 maggio 1988, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1989). Nel volume si possono quindi reperire spunti e dati sui contingenti di leva, sul reclutamento degli ufficiali, sulla provenienza di questi dai sottufficiali, sul diverso peso regionale nelle alte gerarchie, sulle varie ‘generazioni’ del­l’ufficialità italiana. E, sempre in tal senso, assai interessante è la varietà e la ricchezza delle fonti documentarie prese in esame (stampa militare, archivi militari e politi­ci, rapporti degli addetti militari britan­nici). Per tutti questi motivi, per il suo of­frire un’interpretazione aggiornata ed un’osservazione distaccata (dall’osservato­rio di una ex-grande potenza navale, milita­re e imperiale), per il suo fornire un asse­stamento delle ricerche disponibili e uno stimolo per ulteriori approfondimenti, la sintesi di Gooch merita di essere meglio co­nosciuta. Rimane da augurarsi che essa sia tradotta in italiano, al più presto.

Nicola Labanca

Scienza e territorio nel Tavoliere di Pugliadi Domenico Preti

Con questo volume, Scienze e governo del territorio. Medici, ingegneri, agronomi e ur­banisti nel Tavoliere di Puglia 1865-1965 (Milano, Angeli, 1990, pp. 213, lire 26.000), Leandra D’Antone riprende e conclude uno studio che in larga parte era comparso nel 1988 nel bel volume curato da Piero Bevilac­qua per i tipi di Laterza e intitolato, Il Tavo­liere di Puglia. Bonifica e trasformazione tra X IX e X X secolo. Non si renderebbe un buon servizio all’autrice se non si ricordasse

che essendo nato questo suo scritto da una ‘costola’ del lavoro collettaneo appena cita­to, una sua corretta valutazione non può prescindere né dal quadro socioeconomico generale del Tavoliere che in quello si è for­nito, né dal ‘taglio’ che in quel contesto è venuto emergendo e che ha portato D’Anto­ne — come ha sottolineato il compianto Manlio Rossi Doria nella prefazione a quel volume — a studiare il territorio non consi­derandolo “nella sua oggettività, bensì nella

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progressiva consapevolezza che di esso ebbe­ro i soggetti tecnici che se ne sono via via oc­cupati” . Questo per dire che l’interesse del­l’autore è stato programmaticamente rivolto ad indagare questo processo ed a ricercare i motivi che hanno portato in sequenze diver­se, nel caso del Tavoliere di Puglia, medici, ingegneri, agronomi ed urbanisti ad interes­sarsi dei problemi del territorio fino a pro­porre la loro testimonianza come fonte inso­stituibile per chi è interessato allo studio del­la “scienza del territorio in Italia” e al “go­verno delle trasformazioni ambientali ed economico-sociali” . Ed è proprio sulla “enorme quantità di progetti tecnici elabo­rati in funzione della bonifica e del risana­mento igienico negli anni dalla fine dell’Ot­tocento ad oggi”, che questo lavoro ha pre­so le mosse ed è stato costruito, conferman­doci il vecchio e ben noto vizio che fa dell’I­talia il paese dei progetti e magari delle com­missioni d’inchiesta, delle attente e circo- stanziate analisi a cui però non fanno segui­to interventi conseguenti.

L’atteggiamento delle ‘nuove professioni’ verso il problema centrale e storico della zo­na indagata, ovvero verso il problema della bonifica umana ed economica del Tavoliere, si presta naturalmente a molteplici e diverse considerazioni a seconda che esso sia espres­sione di gruppi dirigenti nazionali e locali. È evidente infatti che nel caso in cui i loro rap­presentanti agiscano come ‘sensori’ periferi­ci dell’amministrazione statale (sia nel ruolo di funzionari del commissariato antimalari­co o in quello di medici provinciali o, anco­ra, in quello di funzionari del consorzio di bonifica eccetera), il loro referto si estende ad una valutazione più ampia che chiama in causa l’atteggiamento dello Stato e dell’am­ministrazione nei confronti dell’oggetto del­la loro osservazione. Diverso è invece il caso in cui le analisi provengono da ceti profes­sionali che sono in gran parte espressione della grande proprietà latifondistica del Ta­voliere. In questo caso in essi si esprimono,

come in uno specchio, i diversi concreti inte­ressi che storicamente hanno maturato l’at­teggiamento di queste classi nei confronti del problema dell’intervento sul territorio.

I medici, sotto specie di malariologi, sono i primi lettori, diciamo così, ‘ufficiali’ del territorio, alle cui puntuali diagnosi sulla eziologia malarica e sulle misure necessarie a combatterla viene dato ampio spazio, corre­landole con i deludenti esiti che sia in perio­do liberale che durante il fascismo hanno ca­ratterizzato la lotta antimalarica nel Tavo­liere. Anche in questo caso si ha la significa­tiva conferma di un iter per molti versi sin­golare, che porterà in un breve arco tempo­rale le classi mediche, in questo caso i medi­ci impegnati nella lotta antimalarica, a com­piere con il fascismo una drastica virata che le sposterà da posizioni radicalsocialiste ver­so una adesione piena al regime reazionario. Con il fascismo, sembra comunque che que­sto osservatorio privilegiato si oscuri. Le ra­gioni sono molte e passarle in rassegna por­terebbe via troppo spazio. Certo, il “ridi­mensionamento del peso della cultura medi­ca rispetto ad altre componenti tecniche” (pp. 68-69) che si sarebbe verificato nel cor­so del ventennio e a cui si fa riferimento per spiegare la “scomparsa” dei medici tra gli osservatori ufficiali del territorio, va letto nel contesto più generale dell’interventismo fascista che, sollecitando potenti interessi economici, richiede competenze tecniche ben definite, lasciando in disparte quella cultura medica che finiva per costituire una remora ed un freno al libero dispiegarsi de­gli interessi egoistici.

Conclusasi con il fascismo la stagione dei medici, con gli agronomi e gli ingegneri il re­ferto sul territorio assume sempre più i con­torni di una analisi circostanziata sulla con­venienza economica delle trasformazioni fondiarie vista in rapporto all’assetto pro­prietario dominante, agli ordinamenti agrari prevalenti e alla politica agraria sostenuta dal governo fascista. Così l’ipotesi di uno

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sviluppo agrario del Tavoliere fondato sulla grande irrigazione, prima ancora che per le difficoltà tecniche e finanziarie che avrebbe comportato, fallisce perché si presenta pri­ma di tutto come una ipotesi eversiva del latifondo, dominato dalla grande proprietà incardinata sulla cerealicoltura meccanizza­ta e sull’agricoltura asciutta. Con la crisi degli anni trenta, la disoccupazione rurale torna a suggerire con più forza piani di tra­sformazione fondiaria e di bonifica orienta­ti a farsi carico del problema. Si ha così tutto un fiorire di progetti (De Cillis, Pan- tanelli, Curato, Carrante, Medici e Perdi- sa), tutti passati accuratamente in rassegna, attraverso i quali si è andato definendo il modello di colonizzazione interna fondato sullo sviluppo delle colture a più alto grado di attività, con l’impiego di singole famiglie su altrettante unità poderali, che in alcune plaghe del Tavoliere sarà portato avanti dall’Opera nazionale combattenti nel trien­nio 1939-1941. In un’area in cui Foggia, fin dall’Ottocento, si presentava come “un’ap­pendice del latifondo cerealicolo”, sovraf­follata di miseri braccianti stabili o in tran­sito stagionale per la mietitura, non può sorprendere che il tema del popolamento delle campagne sia entrato ben presto ad animare il dibattito interno dei locali po­tenti gruppi dirigenti. Sono soprattutto i nuovi ceti imprenditoriali e professionali emersi dallo sviluppo delle infrastrutture ci­vili ed urbane dei primi lustri del secolo che, alla metà degli anni venti, si fanno promotori interessati di un progetto urbani­stico destinato a trasformare Foggia in una “moderna città degli affari” . Si tratta, co­me ci viene mostrato con ricchezza di parti­colari, di un “progetto unitario di edifica­zione del territorio urbano e rurale” , che porterà nel 1928 la locale amministrazione podestarile di Alberto Perrone — in forte anticipo su molte altre città italiane — a bandire un concorso nazionale per il piano regolatore e di risanamento della città. Più

che al piano regolatore e alle vicende della sua attuazione, l’interesse di D’Antone si rivolge al dibattito sulle borgate rurali. Di­battito rivelatore dei molteplici e contra­stanti interessi che si pongono alla base del­le differenti impostazioni che caratterizze­ranno in questi anni i diversi piani di boni­fica elaborati per il Tavoliere. La scelta po­litico-propagandistica dell’appoderamento segnerà la fine delle “borgate rurali resi­denziali, che furono sostituite nelle Nuove direttive della bonifica dai centri di servizio di grande dimensione e da piccoli borghi, entrambi senza abitazioni per le famiglie coloniche” .

Con la nuova “urbanistica rurale” arriva anche il momento degli architetti, ai quali, anche nel caso studiato delle borgate rurali del Tavoliere, viene affidata la “regia del­l’immagine” e l’esaltazione simbolica dei valori politici del regime.

L’epilogo del volume ha come scenario l’Italia repubblicana della ricostruzione e del centrismo. Sono gli anni in cui la para­bola del ruralismo volge rapidamente al termine non prima tuttavia di aver condi­zionato con il suo forte retaggio culturale i progetti destinati ad attuare in qualche mi­sura il ridimensionamento della grande pro­prietà latifondistica e a dare soddisfazione, almeno parziale, attraverso la riforma agra­ria, all’atavica fame di terra dei contadini pugliesi. La debolezza del modello fondato sulla piccola proprietà, fatto suo come si sa in quegli anni anche dal Pei, non accompa­gnato da effettive trasformazioni fondiarie e da un adeguato modello agronomico, vie­ne evidenziato con chiarezza, utilizzando come punto di forza la lucida analisi messa a punto a suo tempo da Rossi Doria. Un importante risvolto di questa debolezza lo ritroviamo sul terreno della formulazione del concetto di “civiltà contadine” , ovvero “l’ultimo inutile tentativo di separare i ceti inferiori della campagna dalla cultura della città e dalla vita associata, di legare la so­

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cietà contadina ai tempi lenti della tradizio­ne in una fase di travolgenti cambiamenti e di incontenibile propensione dei lavoratori agricoli proprio per i modelli di vita urba­na” (p. 197). Un fallimento che trova un in­credibile riscontro nella edilizia di riforma

attuata nel Tavoliere: una edilizia che, nean­che ai tempi del fascismo, era riuscita ad es­sere “talmente anonima nel linguaggio ar­chitettonico ed estranea all’economia e al­l’ambiente circostante”.

Domenico Preti

La grande guerra come frattura epocaledi Enzo Fimiani

Il libro di Antonio Gibelli, L ’officina della guerra. La Grande Guerra e la trasforma­zione del mondo mentale (Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. XI-276, sip), frutto di una ricerca di ampio spessore durata cir­ca dieci anni, è uno dei più riusciti esempi di come i metodi della storia sociale, appli­cati al fenomeno-guerra, possano dare frut­ti assai stimolanti ed aprire considerevoli spazi d’indagine per il futuro. La chiave di volta di tutto il lavoro è l’idea che la prima guerra mondiale vada vista come un trau­matico spartiacque tra due mondi, quello ottocentesco ed i prodromi della modernità di questo secolo. La gigantesca esperienza collettiva della grande guerra, almeno a li­vello di società europea, è stata un’autenti­ca “officina” (da cui il titolo del libro) che ha trasformato non solo la realtà, ma an­che le mentalità, modificando i paradigmi dell’esperienza, il rapporto tra grande sto­ria e ‘piccola’ storia privata, il modo stesso di guardare 1’esistenza ed i rapporti sociali. Non solo: il conflitto ha rappresentato an­che una fucina di trasformazioni industria­li, che hanno proiettato il mondo occiden­tale verso una configurazione sociale ‘di massa’, verso un lacerante ‘ingresso’ di mi­lioni di uomini nel meccanismo intricato delle vicende storiche.

Ciò che interessa Gibelli è soprattutto comprendere come si sia trasformata la vi­

sione del mondo della gente comune, rap­presentata in particolare — in questo caso — dai soldati della guerra 1914-1918. Dalla ‘scoperta’ di un fascicolo datato 1916-1917 e recante il titolo Maniaci militari (conte­nente una raccolta di pratiche mediche su soldati colpiti da reali o presunti disturbi mentali, ricoverati nell’ospedale psichiatri- co della provincia di Genova), si è via via composto, a strati e per progressiva sedi­mentazione, un percorso di studio ricco di stimoli. Davanti al ricercatore si è aperto un mondo metodologico sconosciuto e af­fascinante, si sono articolate le prime do­mande pungolanti: le malattie mentali dei combattenti dipendevano dal servizio mili­tare e dal fronte di guerra oppure no? E quali erano le risposte degli psichiatri del­l’epoca? Una prima ricognizione sulle prin­cipali riviste di psichiatria di quegli anni, rivelò che la guerra era l’argomento chiave, il nodo intorno a cui ruotava tutto il dibat­tito scientifico di settore. A quel punto, da­vanti a Gibelli stava ormai “la convinzione via via più forte di essere di fronte a una grande questione, a un versante sconosciu­to — o meglio dimenticato — della storia della Grande Guerra, e a sorprendenti pos­sibilità di rivederne il profilo e la portata” (p. IX). I rapporti dei medici e degli psi­chiatri al fronte, esaminati in seguito, si mostrarono un sentiero fecondo di memoria

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‘colta’ che, intrecciato con tutta una serie di testimonianze di guerra, andava risalito fino in fondo.

A questo, va aggiunto l’altro grande ‘ser­batoio” di fonti e di ricerca; gli scritti dei soldati, gente comune in prevalenza contadi­ni, che hanno prodotto un’enorme quantità di documenti, dagli epistolari (lettere e car­toline nell’ordine di milioni) alle memorie, ai diari. Grazie all’utilizzo di questi materia­li “La storiografia sulla prima guerra mon­diale è stata attraversata da profondi muta­menti di prospettiva” (p. 4). È ormai chiaro, infatti, che esiste un vasto ‘sommerso’ di vo­ci inesplorate delle classi subalterne, che bi­sogna tentare di riportare alla luce, per tor­nare a dar loro capacità di parlare, ed a noi capacità di comprendere. Gibelli si è mosso molto in questa direzione, ed ha avuto il me­rito, tra l’altro, di essere uno dei promotori di un Archivio della scrittura popolare che, lavorando in connessione con vari centri di ricerca in ambito locale, si propone di repe­rire e catalogare le testimonianze scritte del­la gente comune, e di uniformare i criteri di conservazione e lettura del materiale raccol­to (pp. 211-218). Ed un primo risultato ap­pare evidente ne L ’officina della guerra, seppur con una rilevanza quantitativa anco­ra relativamente esigua, ma di tale interesse da spronare ampiamente per il futuro.

Rivelatasi storiograficamente falsa l’as­serzione per cui i contadini non hanno pro­dotto nulla di scritto e quindi non ci con­sentono di conoscere molto della loro espe­rienza, è fondamentale leggere l’accesso alla scrittura, per milioni di soldati analfabeti, come un’imponente trasformazione antro­pologica. Una grande massa di contadini, in una sorta di ‘acculturazione’ coatta sulla spinta dell’esperienza-limite del conflitto, impararono a comunicare attraverso la pa­rola scritta, riproponendo la guerra come officina, crogiolo di cambiamenti, trauma di reazioni a catena. Per la prima volta il termine “caristia” (p. 56) viene associato,

dai contadini nelle loro lettere, non alla fa­me, salda nella memoria, bensì alla man­canza di carta, in un’ansia tragica di comu­nicazione, disarticolata, confusa, sintattica­mente infantile, ma drammaticamente viva e imprescindibile, ormai, per chiunque si chini sul tentativo di capire la ‘comédie hu­maine’ della grande guerra. E così, per esempio, la storia di Carlo Verano (contadi­no ligure il cui diario accompagna il libro di Gibelli) non esaurisce certo, né sublima in sé, la storia dei contadini in guerra. Ma è indubbio, oggi, che “la storia della guerra non può fare a meno di quella di Carlo Ve­rano” (p. 7).

E il riverbero della guerra traspare eviden­te dalle nebbie del linguaggio: è frequente che in una stessa lettera cozzino due cifre di scrittura completamente differenti. Nella prima parte, il soldato lamenta le proprie sofferenze, in una stesura spesso difficolto­sa, con l’uso di una lingua piena di pastoie ma viva. Nella seconda, si affacciano espres­sioni quali “gloria”, “patria”, “dovere” , in una stereotipata conferma di una guerra più complessa, sottesa, interiore direi, combat­tuta nella psiche dei fanti tra i propri valori tradizionali e il concetto di patria, tra la propria storia e la grande storia, col contor­no dei messaggi subliminali della propagan­da, in un autentico paradigma da ‘io diviso’. D’altronde, nelle testimonianze dei fanti­contadini c’è netto il riflesso di una cesura causata da un evento imponente. C’è il sen­so della discontinuità storica, della rottura, per esempio, del tempo lineare passato-pre­sente-futuro, di un tempo scandito da cicli naturali, da ritmi e respiri che si erano tra­sformati da cronologici in interiori, in una sorta di ‘posa’ mentale che racchiudeva in sé il senso dell’esperienza, della vita e della morte. La guerra — ‘grande’, perché mai conosciuta prima in simili forme — spezza il battito ritmico dell’esistenza per milioni di uomini, portandoli a misurarsi con un’eru­zione vulcanica spesso incomprensibile e in­

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commensurabile, con un tempo pulsante scandito ora da altri metronomi: il tragico solfeggio dei bombardamenti, improvvisi ma ossessivi; l’annullamento della dinamica giorno/notte in un’unica striscia di guerra; i ritmi della vita di trincea, assoggettati a nuove regole spazio-temporali; la disciplina militare, traumatica e ferreamente ripetitiva; la litanìa dell’eccidio di massa, anonimo e misurabile fisicamente coi mucchi di cadave­ri, che rompe la continuità stessa della mor­te, “spalancando un baratro tra passato e futuro” anche in questo campo (pp. 193- 206).

Nello stesso tempo, i soldati avvertono confusamente il forgiarsi dentro di sé di “un nuovo paesaggio mentale” (p. 164 e sgg.), che cambia la loro stessa percezione del mondo. Gli stimoli acustici e sensoriali dei bombardamenti li costringono a misu­rarsi per la prima volta con la tecnologia applicata alla distruzione. Nella memoria, gli spazi visivi e quelli sonori si lacerano: la separazione, nel corso dei bombardamenti, del fenomeno luminoso (il cannone che si vede sparare) e di quello acustico (il colpo che si ode), provoca una “scomposizione tra i due piani percettivi” . Contemporanea­mente il cinema, espressione della moderni­tà, diventa per molti il punto di riferimento delle nuove esperienze radicalmente nuove, quasi un navigare sospesi tra il reale e l’ir- Reale, prigionieri e attori di una rappresen­tazione mortalmente realistica, ma scompo­

nibile su più piani, come in un montaggio ci­nematografico. A ciò si accompagnano una nuova prospettiva del paesaggio, mutato dalle granate perfino nella sua morfologia, ma soprattutto una terribile, promiscua me­scolanza, nella quotidianità delle trincee, tra corpo e materia, tra “sangue, merda e fan­go”, tra uomini e topi semiumani, pidocchi, mosche, che sembrano anch’essi “fare le battaglie” (p. 189, dal diario di un soldato), in una nebbiosa batracomiomachia da incu­bo. Da tutto questo i combattenti tentano una “fuga impossibile” (pp. 122-163), attra­verso i territori sconfinati e misteriosi della follia (le cui prime manifestazioni moderne, scaturite dalla guerra tecnologica, si erano già avute nel conflitto russogiapponese del 1904-1905, cui Gibelli dedica un prologo molto significativo), oppure attraverso co­nati volontari di autolesionismo, simulazio­ne, diserzione, di patetiche e tragiche fughe verso spazi ignoti, ma comunque lontani dalla realtà della guerra.

Un libro, quindi, che si legge e si ‘vive’ con attenzione e pathos costanti, nella con­vinzione (più volte espressa in pubblici in­contri dallo stesso autore) che gli storici oggi debbano discutere in pubblico del loro lavo­ro e delle fonti utilizzate, cercando di comu­nicare maggiore ‘passione’, in un approccio meno distaccato e notarile, al fine di colma­re sempre più il solco con i fruitori della loro fatica.

Enzo Fimiani

Apparati fascisti e opinioni degli italiani Una ricerca elusiva

di Massimo Legnani

Sia il tema trattato (quello del consenso de- tesi su La seconda guerra mondiale e la Re- gli italiani al fascismo) che i precedenti lavo- pubblica, edita nel 1984 dalla Utet nella col- ri dell’autore (sua, tra l’altro, un’ampia sin- lana di storia d’Italia diretta da Giuseppe

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Galasso) inducono ad accogliere con parti­colare interesse la recentissima monografia di Simona Colarizi, L ’opinione degli italiani sotto il fascismo 1929-1943 (Roma-Bari, La- terza, 1991, pp. 418, lire 50.000). È però un interesse che la lettura, come cercherò di ar­gomentare, lascia largamente inappagato. In parte per riserve che discendono direttamen­te dai contenuti del libro; in parte per que­stioni più generali, di carattere prevalente­mente metodologico, cui il saggio si collega ed il cui irrisolto aleggiare rende singolar­mente sfuggenti, e fungibili, le indicazioni che da simili indagini emergono. Sotto que­st’ultimo profilo, il libro è un sintomo elo­quente delle difficoltà che la trattazione del tema solleva e sollecita quindi un più esplici­to confronto tra gli studiosi del regime fa­scista.

Com’è risaputo, va ascritto a merito spe­cifico del quarto volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice (Mussolini il duce. I. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi, 1974) l’aver ‘imposto’ la necessità di una ricostruzione storiografica che — superando i limiti impressionistici ed ideologici connaturati alle contrapposte me­morie fascista e antifascista — tracciasse un profilo attendibile dell’estensione delle ade­sioni raccolte dalla dittatura nelle diverse fa­si della sua evoluzione. Estensione e ‘quali­tà’, così da costruire categorie interpretative calate nell’armatura repressiva del regime, ma attente anche a registrare, con strumenti diversi da quelli della più tradizionale storia politica, voci provenienti dalle pieghe più in­terne al corpo sociale. I termini della discus­sione che allora ne seguì (e l’influenza che essa ebbe sulla condotta delle ricerche) pos­sono essere qui appena sfiorati. Quantome­no per sottolineare che un dato si è mante­nuto costante: l’estrema difficoltà di artico­lare concettualmente, scomponendola, la nozione stessa di consenso e di procedere, nel contempo, a verifiche empiriche in grado di coniugare la varietà delle situazioni esa­

minate con la molteplicità delle fonti e degli approcci analitici (come dimostrano anche alcuni passaggi del confronto sviluppatosi all’interno degli Istituti di storia della Resi­stenza: si veda Vittorio De Tassis, Il Nove­cento degli Istituti. Sulle tracce dei fascismi locali, in “Italia contemporanea”, 181,1990).

Nel contesto di tali difficoltà, la risposta fornita da De Felice — riassumibile nella as­sunzione, a metro di misura quasi esclusivo del consenso, dei giudizi espressi dagli appa­rati del regime — ha finito per prevalere, in­formando la maggior parte della letteratura e conferendo ad essa una sostanziale statici­tà, un grigiore ripetitivo spesso irrigidito in classificazioni ormai canoniche: il persistere, con qualche oscillazione, del sostegno bor­ghese; la diffidenza, a seconda dei periodi venata di ostilità o di rassegnazione o di aspettative, del proletariato industriale e contadino; la egoistica ‘ragion di stato’ dei ‘poteri paralleli’ militari, ecclesiastici, eco­nomici; il manifestarsi delle più larghe ade­sioni nella prima metà degli anni trenta; il loro restringersi alla fine dello stesso decen­nio, prodromo della caduta verticale negli anni della seconda guerra mondiale. A que­sto schema ha sostanzialmente aderito anche Colarizi nel citato volume su La seconda guerra mondiale e la Repubblica. Tuttavia, un poco paradossalmente, l’utilizzazione da lei fatta in quella occasione delle carte di po­lizia per dimostrare l’inconciliabile contrap­posizione tra il bellicismo del regime e il pa­cifismo del ‘paese reale’ (mi permetto di ri­mandare alle osservazioni contenute nella mia recensione, in “Italia contemporanea”, 161, 1985) rendeva evidente la forzatura in­sita nel passare, pressoché senza mediazioni, dalla parzialità della fonte alla ‘globalità’ e nettezza delle valutazioni conclusive. Quasi che la giustificazione di questa ‘translittera- zione’ potesse consistere nella sottintesa convinzione che qualsiasi fonte sia senz’al­tro ‘attendibile’ quando esprime giudizi non

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difformi da quelli della parte avversa (e tragga da ciò, per conseguenza, una sorta di legittimazione quale ‘fonte universale’).

Che si tratti di un problema non fittizio è dimostrato dal fatto che la stessa Colarizi abbia avvertito il bisogno, nell’impostare la monografia che ora si segnala, di avviare una riflessione complessiva sulla fonte, indi­viduando alcuni dei principali riferimenti fi­lologici e interpretativi che debbono gover­narne l’impiego. Partendo dall’assunto pre­liminare che lo spoglio delle carte di polizia non può certo proporsi di ricostruire 1’ ‘opi­nione pubblica’ (categoria che la dittatura si adopera a brutalmente cancellare), ma, più propriamente, servire a rendersi ragione di quanto gli apparati repressivi del regime riu­scissero a cogliere nel “vastissimo campo delle opinioni informali, personali, e non pubbliche nel senso stretto del termine” (p. 5), l’Introduzione fornisce spunti assai utili per muoversi con maggiore consapevolezza nel labirinto degli infiniti rapporti, note, se­gnalazioni che quotidianamente si accumu­lavano sul tavolo di lavoro di Mussolini. Vengono così meglio illuminate le diverse origini dei materiali (dall’Ovra al Pnf, dai carabinieri alla milizia), la presunta maggio­re affidabilità ‘professionale’ dei canali sta­tali rispetto a quelli di partito (p. 18), gli squilibri circa la differente ricchezza delle informazioni passando dal centro (la capita­le è sempre sovrarappresentata) alla perife­ria (con l’eccezione di Milano), dalle grandi città alle campagne, dalle regioni settentrio­nali al Mezzogiorno. Vengono inoltre sotto- lineate altre variabili di non minor peso, a cominciare dal fatto che il far coincidere l’avvio della ricostruzione con l’inizio degli anni trenta obbedisce non solo a quanto ge­neralmente suggerito dalla storiografia sul­l’ingresso del regime nella sua piena maturi­tà, ma anche a condizioni interne alla pro­duzione della fonte analizzata, cioè al defi­nirsi, consolidarsi e specializzarsi degli orga­nismi che quella documentazione elaborano.

Ennesima conferma che gli osservatori inca­ricati di ‘ascoltare’ il paese reale sono essi stessi componente essenziale della macchina della dittatura, strumento del suo modo di porsi di fronte alla società, portatori di in­terrogativi ai quali cercano risposta.

Sembra allora evidente come, dentro que­sta cornice, due strade alternative si aprisse­ro all’indagine: o porre al centro i caratteri della fonte appena richiamati e analizzare anzitutto le modalità della sua produzione, oppure estrarre per grandi linee le valutazio­ni salienti della fonte stessa e porle a con­fronto, incrociandole, con quanto emerge soprattutto dalla storiografia che utilizza una diversa documentazione. In realtà il vo­lume non imbocca né l’una né l’altra via, ma, con annalistico puntiglio (ogni capitolo corrisponde all’incirca ad un biennio), forni­sce una sorta di contrappunto al succedersi degli avvenimenti, compone un collage delle impressioni e dei giudizi che le diverse istitu­zioni convogliano al centro cercando di fis­sare gli umori del paese ed il loro variare. Il filo conduttore che Colarizi ne estrae (e che resta quello, sia pure con un deciso ridimen­sionamento della categoria del pacifismo, di una sempre più netta presa di distanza delle opinioni diffuse dal regime non appena que­st’ultimo proclama volontà di potenza e di espansionismo) sconta perciò tutti gli incon­venienti che nascono dall’estrapolare, e in qualche modo ‘assolutizzare’, valutazioni che conservano valore in quanto siano riferi­te ad un particolare contesto. Il che non fa che moltiplicare le contraddizioni. Così, se a p. 83 si osserva che dalla fine del 1931 “ini­zia una fase nuova, destinata a garantire alla dittatura un decennio di stabilità che neppu­re lo scoppio della seconda guerra mondiale riesce nei primi tempi a compromettere”, a p. 163 leggiamo che già nella prima metà de­gli anni trenta si consuma la “totale delegit­timazione dell’intera classe politica fasci­sta” . Ma le insidie del modulo espositivo prescelto non si arrestano qui. Vorremmo

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fare, tra i molti possibili, almeno due esempi di come l’adesività alla lettera della fonte provochi evidenti distorsioni. Il primo ri­guarda gli episodi di protesta legati alla si­tuazione economica. I rapporti degli appa­rati, quando riscontrano segni di difficoltà materiali, non solo li evidenziano, ma riten­gono perciò stesso di escludere dalla prote­sta ogni motivazione di carattere politico (prefigurando semmai implicazioni politiche solo come conseguenza di massicci perturba­menti dell’ordine pubblico che da quel disa­gio economico traggano incentivo). Il ricer­catore sa tuttavia che la traduzione della di­stinzione tra sfera economica e sfera politica in secca alternativa tra i due ambiti non è so­lo un riflesso delle rubriche in cui si suddivi­dono i rapporti, ma anche una componente della cultura di coloro che quei rapporti re­digono e che non a caso si attenua verso la fine degli anni trenta, quando il carovita in­comincia ad intaccare sensibilmente anche le condizioni di vita dei ceti medi, ai quali in larga misura gli estensori dei rapporti appar­tengono. Il secondo esempio riguarda i com­portamenti del paese di fronte all’intervento in guerra del giugno 1940. Avendo valoriz­zato al massimo tutte le manifestazioni di al­larme — dal 1938 in poi, ma per certi aspetti anche prima, a ridosso della guerra d’Africa — per il possibile coinvolgimento dell’Italia in un conflitto generale, Colarizi, di fronte al mutare dello ‘spirito pubblico’ nelle setti­mane anteriori all’intervento, non può che parlare di “vera sorpresa” per un “paese che improvvisamente si scopre interventista” (p. 336). E — si tratta di uno dei rari casi in cui viene sindacata la genesi della fonte — ipo­tizza che “molti informatori, anch’essi pre­da della ubriacatura interventista, tralascino di riferire sulle ombre ancora largamente presenti nell’opinione pubblica” (p. 338). L’accenno esclusivo alla “ubriacatura” — difficile da verificare, ma in qualche misura plausibile — stupisce tuttavia perché viene a conclusione di un lungo capitolo in gran

parte intessuto sulla contrapposizione tra “partito tedesco” e “partito della corona” , visti come rispettivi poli delle aggregazioni interventista ed antinterventista. Perché al­lora non far posto, accanto alla “ubriacatu­ra”, anche ad un fattore assai meno labile, cioè al fatto che anche le informazioni di polizia rientravano tra gli strumenti impie­gati nei conflitti interni al regime e che que­sto uso viene meno nel momento in cui tutte le componenti convergono sulla (o comun­que si adattano alla) scelta interventista? Al­tra e diversa questione è naturalmente quella della ‘reale’ predisposizione del paese, ri­spetto a cui l’indicazione che la fonte tra­smette è poco più di una semplice ‘spia’, in­sufficiente a formare la base di un giudizio (come lo era, del resto, il ‘pacifismo’ rileva­to in precedenza).

In entrambi i casi sembrano dunque evi­denti i pericoli che nascono dal separare le valutazioni contenute nella fonte dalle circo­stanze per così dire politico-istituzionali che ne hanno influenzato la formazione. La ri­nuncia a muoversi in questa direzione avreb­be potuto essere compensata, come si è già detto, dal tentativo di correlare l’immagine del paese tratta dalle carte di polizia con ri- costruzioni storiografiche e documentarie di diverso contenuto e impostazione. Ma basta scorrere le referenze bibliografiche per ac­certare che il tentativo non è stato nemmeno abbozzato. I termini di riferimento restano vaghi o francamente ambigui, come quando, nell’esempio prima richiamato delle reazioni all’intervento nella seconda guerra mondia­le, si conclude che “rispetto all’emozione delle ‘radiose giornate di maggio’ del 1915, il coinvolgimento della popolazione appare molto relativo” (p. 338). Dove è arduo capire se il paragone viene istituito con l’aperto, ac­cesissimo conflitto tra interventisti e neutra­listi svoltosi nel 1914-1915 (conflitto eviden­temente incompatibile con l’Italia del 1940) oppure con un sostegno di massa all’inter­vento del 1915 che proprio le ristrette dimen­

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sioni del ‘radiosomaggismo’ servono a smentire. Del resto gran parte della lettera­tura recente e meno recente, che pure getta luce su aspetti importanti, non è nemmeno citata: non lo studio di Piero Bevilacqua sul­la Calabria tra fascismo e dopoguerra, non quello di Giuseppe Maione su ‘l’imperiali­smo straccione’, non Luisa Passerini su To­

rino operaia, né l’epistolario di Giovanni Pi­relli edito a cura di Nicola Tranfaglia. E l’e­lenco può essere facilmente arricchito, a di­mostrazione dell’ambizione che Colarizi col­tiva, ma non realizza, di considerare auto­sufficiente la propria ricostruzione.

Massimo Legnani

Governo italiano e immigrazione ebraica in Palestinadi Guido Vaiabrega

La volenterosa fatica di Mario Toscano, La “Porta di Sion”. L ’Italia e l ’immigrazione clandestina ebraica in Palestina (1945- 1948), Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 351, lire 40.000, potrebbe definirsi come un’am­pia riepilogazione delle vicende dei trasferi­menti illegali dei profughi ebrei attraverso il nostro paese negli anni che immediatamente precedettero la fondazione dello stato di Israele. Fu uno spostamento abilmente or­ganizzato dalle strutture sioniste, che coin­volse circa ventimila persone fortunosamen­te giunte nella nostra penisola ed ancora più drammaticamente salpate verso la costa pa­lestinese.

S’è usato il termine riepilogazione perché, pur valendosi di numerosi e talvolta assai in­teressanti documenti d’archivio, le linee ge­nerali dell’indagine non paiono discostarsi dalle rievocazioni biografiche e dalle rico­struzioni già proposte in passato da alcuni protagonisti ed in particolare da Ada Sereni con il volume I clandestini del mare (Mila­no, Mursia, 1973). E ciò quantunque sia passato un quarantennio dall’epoca rievoca­ta e nonostante le molte acquisizioni interve­nute nel frattempo e lo stesso maturare e mutare delle prospettive storiche. Del pari non è sembrato necessario all’autore richia­mare, anche sinteticamente, i precedenti del­

l’ondata immigratoria negli anni trenta con i rapporti che sin da allora si cominciarono a tessere con le autorità amministrative italia­ne quali non irrilevanti premesse alla situa­zione poi configuratasi alla fine della secon­da guerra mondiale. Diremmo, in altre pa­role, che Toscano non ha creduto opportu­no porsi di fronte ai fatti che rievoca cercan­do di non essere troppo partecipe: tentando cioè, di rispondere ai quesiti ed agli interro­gativi che scaturiscono dal dovizioso mate­riale che egli stesso propone secondo un an­golo visuale spassionato, vale a dire non di pregiudiziale adesione alle opzioni sioniste dell’epoca. Di contro s’è scelto di autolimi­tare la portata della ricerca, s’è dato molto per scontato ed accettato, finendo — voluta- mente o meno — con il valersi in modo ri­duttivo delle medesime disponibilità archivi­stiche. Sembra questo un atteggiamento che già s’è avuta occasione di rilevare in un altro autore che s’è occupato pure di analoghe questioni: ci riferiamo a Sergio I. Minerbi, Il Vaticano, la Terra Santa e il Sionismo (Milano, Bompiani, 1988), di cui già abbia­mo parlato sulle pagine di questa rivista (181, 1990, pp. 780-781) e che non a caso Toscano cita sovente. Poiché forse, l’appro­fondimento di tali problemi metodologici e di impostazione non è molto utile in astrat-

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to, opteremo, invece, puntando all’essenzia­le, a verificare determinate specifiche que­stioni affrontate nel presente libro, anche se talvolta in maniera indiretta. Questo al fine di dar conto dell’ampiezza del nodo storico affrontato e della complessità dei retro­scena.

Venendo dunque alla concretezza delle te­matiche analizzate, risulta anzitutto signifi­cativo, secondo un certo ordine logico, regi­strare 1’ ‘uso’ che della vicenda dei profughi ebrei dell’Europa centrorientale venne mes­so in atto dalle organizzazioni sioniste del tempo. Fu una sorta di strumentalizzazione che appunto si intese fare di quella massa di persone travolta dalla guerra e sbandata, in cerca istintiva e confusa d’un luogo ove ten­tare di ricostruire la propria esistenza. Essa doveva diventare, più o meno consapevol­mente, un mezzo di pressione politica, di­plomatica e psicologica nella vertenza in at­to con la Gran Bretagna e con gli Stati uniti e l’occasione per una insistita campagna propagandistica in tutto il mondo circa l’a­spirazione del ritorno alla ‘terra dei padri’, la ricostruzione dell’antica patria, il realiz­zarsi del messaggio biblico eccetera. Reite­ratamente Toscano torna su tali temi. Ad esempio, con una certa meticolosità e senza accorgersi, a quanto pare, di come venga ri­dimensionando l’impianto ideale del dise­gno sionista, scrive: “l’intensificazione delle partenze diveniva una condizione essenziale per alimentare le loro speranze, organizzar­li, far loro accettare delle norme di compor­tamento senza le quali non avrebbero potu­to esercitare quella pressione politica sul go­verno britannico che era divenuta un aspet­to non secondario della strategia dell’Agen­zia Ebraica. A mano a mano che passavano i mesi dalla fine della guerra, accanto alla componente umanitaria, si imponeva l’a­spetto politico, ‘dimostrativo’ della aliyà bet [immigrazione clandestina], che doveva influire sul morale dei profughi e sull’opi­nione pubblica, specie negli Stati Uniti, in

Francia, in Italia” (p. 63). L’impiego dimo­strativo delle aspirazioni dei profughi è con­fermato allorché si sottolinea come, ad un certo punto, l’azione sionista “mirava a sca­tenare un’ondata migratoria che [...] met­tesse in difficoltà la politica inglese del Li­bro Bianco, ed eventualmente esercitasse la sua influenza anche sui governi e sull’opi­nione pubblica europea” (p. 172) o che “la presenza in Palestina della commissione d’inchiesta dell’Onu rendeva urgente l’invio di nuove navi cariche di profughi, che rive­lassero la durezza della politica inglese e la persistente drammaticità delle sorti dei so­pravvissuti agli stermini nazisti” (p. 202). Talché non c’è da stupirsi d’una dichiara­zione del governo inglese che sin dal 13 ago­sto 1946 “denunciava il carattere politico assunto dalla immigrazione illegale, basata su un indottrinamento dei profughi, fonte di tensioni e di pericoli in Palestina” (p. 116).

In corrispondenza con l’impiego spregiu­dicato da parte sionista delle displaced per­sons, merita rilevare quello che in sostanza risulta l’analogo atteggiamento italiano in materia: una politica sin dal 1946 “com­prensibilmente cauta, circospetta, silenziosa e non ufficiale, ma indubbiamente ricca di importanti e positivi risvolti per la strategia delle organizzazioni sioniste” (p. 61). Inve­ro, nelPItalia del 1945, era diffusa per varie ragioni un’evidente disponibilità umanitaria verso quei superstiti del conflitto, ma va sottolineato come da parte almeno delle au­torità si manifestasse pure un vivace interes­se a vederli allontanare nei tempi più rapidi dal paese dove erano giunti senza invito al­cuno: in caso contrario il loro transito avrebbe potuto essere, infatti, ben altrimen­ti ritardato ed inceppato.

Del pari, qualora i primi governi di Alci­de De Gasperi non avessero voluto, attra­verso il nodo dei profughi ebrei, esercitare una specie di pressione sulla Gran Bretagna, con la quale parallelamente era avviata una

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complicata trattativa sulle sorti delle ex co­lonie e sulle funzioni dell’Italia nel Mediter­raneo, oppure in qualche modo ingraziarsi la rapida affermazione negli Stati uniti nel­l’area mediterranea (p. 115), “umanitari­smo”, “benignità” (p. 49), “generosa attitu­dine” e “cordiale ospitalità” (p. 51) si sareb­bero presumibilmente alquanto ridimensio­nati. Su questo ragguardevole aspetto della politica estera italiana, vale a dire sul rilievo dell’affare delle ex colonie e dello spazio mediterraneo per il nostro impegno diplo­matico segnaliamo di sfuggita i saggi di Fre­derick W. Deakin, Marco Palla e Giampao­lo Calchi Novati nella recente raccolta di saggi curata da Angelo Del Boca, Le guerre coloniali del fascismo (Roma-Bari, Laterza,1991).

Proprio tali precisi interessi determinaro­no da parte dei governi ed in particolare dei primi ministri, dei ministri degli Esteri, de­gli Interni e dei vertici della Pubblica sicu­rezza, dei carabinieri e del controspionaggio l’assunzione di una corposa malleveria nel- l’aver protetto, agevolato e sostenuto delle attività illegali, che tra l’altro avrebbero contribuito agli sviluppi negativi d’una tra­gedia mediterranea tuttora irrisolta: la for­mazione, cioè, d’uno Stato d’impianto eu­ropeo in Palestina a spese della popolazione araba locale, cacciata ed espulsa ed a tut- t’oggi in lotta per la reintegrazione dei pro­pri diritti. Tuttavia, a parte le conseguenze — forse già allora non da tutti imprevedibi­li — resta come fatto di grande rilievo nella storia italiana contemporanea la scelta delle autorità di preferire, nella gestione delle vi­cende dell’immigrazione clandestina dei profughi e delle iniziative sioniste, la strada della deviazione e dell’illegalità, venendo meno, in altre parole, all’obbligo di rispet­tare e far rispettare le leggi. Su questo aspetto non di poco conto dell’intera vicen­da Toscano, da un lato non esita a recare conferme e testimonianze, dall’altro acco­glie come meritori ed ineccepibili i gesti ed i

comportamenti non solo arbitrari, ma illeci­ti ed illegali che viene elencando. Ciò a par­tire da una sorta di discutibile convergenza di interessi che è così delineata: “il ridimen­sionamento delle prospettive di pace per l’I­talia, condizionate dagli incipienti contrasti tra le grandi potenze, e le conseguenze della politica britannica nei confronti delle aspi­razioni ebraiche in Palestina, incisero sugli orientamenti delle organizzazioni sioniste così come sulle attitudini del governo e del­l’opinione pubblica italiana, e concorsero a creare i presupposti d’una convergenza di intenti, magari temporanea e strumentale, tra lo Stato italiano e i promotori dell’im­migrazione illegale, destinata ad assicurare risultati concreti e significativi” (p. 57. Il corsivo è mio).

È in questo ambito che acquistano spazio e peso gli interventi al di fuori delle leggi de­gli organi di sicurezza, come aveva rivelato a suo tempo Ada Sereni e, come ora riconfer­ma Toscano, dai contatti e dalle intese ai massimi vertici — il capo della polizia Ferra­ri, il vice capo De Cesare o il capitano del controspionaggio Fienga (p. 98) — agli in­terventi di prefetti, questori e funzionari pe­riferici. Più specificatamente, nell’estate del 1946 “la partenza [illegale] delle tre navi in rapida successione nell’arco di una settima­na rivelava che gli accordi stabiliti da Ada Sereni erano divenuti operanti e che l’attivi­tà della base [clandestina] di Bocca di Magra godeva dell’appoggio delle autorità italiane” (p. 109). Ciò è tanto vero che il 1° agosto l’ambasciatore britannico a Roma chiedeva a De Gasperi “di essere rassicurato a propo­sito di notizie giuntegli circa istruzioni im­partite ai questori dei porti interessati di non interferire nella partenza delle navi” (ancora p. 109): una richiesta addirittura ovvia se si tiene presente che il 24 dello stesso mese un appunto della Direzione generale degli Affa­ri politici del ministero degli Esteri dichiara­va senza mezzi termini che “le nostre Auto­rità aiutavano di sottomano” gli emigranti

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clandestini (p. 117). Un altro episodio di quella che si può definire la connivenza ita­liana si ha a proposito della partenza clande­stina della nave Bruna nel luglio 1947 sul quale Toscano si dilunga e che si può così riassumere: non è possibile “sottovalutare il fatto che, nello stesso momento in cui le au­torità italiane invitavano il Mossaci le alìyà bel [Centro per l’immigrazione clandestina] a sospendere le partenze dalla penisola, po­teva effettuarsi un imbarco clandestino che non sfuggiva però né all’attenzione degli or­gani della pubblica sicurezza, né, secondo la denuncia britannica, alla stampa locale” (p. 204). Un ulteriore caso non solo di omertà, ma di favoreggiamento è quello della nave Maria Cristina che partiva I’l l dicembre 1947 dalla base di Pescia Romana, “prescel­ta in accordo con ‘alti ufficiali della mari­na’” (p. 265).

Si può dunque dire, sulla scorta di quanto Toscano appura, che per il successo dell’a­zione propagandistica e della pressione psi­cologica su scala mondiale intorno alla sof­ferenza dei profughi, basilare non risulterà la capacità dei sionisti a muoversi nell’om­bra: senza che nel libro ve ne sia precisa con­sapevolezza, in verità, tutte le loro mosse clandestine erano perfettamente conosciute e tollerate dalle autorità italiane. Fu invece decisiva la disponibilità italiana ad accettare tutto ciò in cambio di determinati vantaggi politici: l’allontanamento dei profughi (il minore tra tutti, a nostro avviso), l’avvio d’una politica mediterranea, anche in vista delle sorti della Libia, differenziata da quel­la inglese, ringraziarsi gli ambienti filosioni­sti degli Stati uniti che alla fine risulteranno vincenti. Insomma quello italiano è un orientamento “del doppio binario che uffi­cialmente ignorava il problema, si asteneva dal frapporre ostacoli reali [...] ed ufficiosa­mente forniva un tacito avallo ad una attivi­tà che accanto ai valori umanitari aveva il duplice pregio di allontanare dall’Italia deci­ne di profughi e di intralciare la politica in­

glese nel Mediterraneo” (p. 68). Si arriva co­sì, di caso in caso, da parte delle organizza­zioni sioniste “a saggiare direttamente gli orientamenti delle autorità italiane e a ricer­carne il tacito appoggio” che è di portata es­senziale. Infatti “il concorso di questi fattori era indispensabile al buon esito dell’opera­zione” come rivelò l’episodio di Merano e Cassere: le basi “erano rapidamente indivi­duate dalle autorità italiane” (p. 158). Tanto è vero che, quando occasionalmente l’ap­poggio italiano viene meno, l’iniziativa sio­nista si trova immediatamente in difficoltà: “la realtà era ugualmente difficile per gli operatori del Mossaci le aliyà bet, in seguito alle esplicite richieste formulate dagli italiani per far fronte alle pressioni inglesi di una momentanea sospensione dell’immigrazio­ne” (p. 199).

Tralasciando altri riferimenti di questo genere che potrebbero continuare numerosi, preme sottolineare un altro punto, anche grazie alle notizie che Toscano fornisce, pur non dando a vedere di valutarne appieno il significato: la connivenza del governo italia­no non solo sulla questione dei profughi, che si presentava, almeno apparentemente, carica di significati umanitari, ma, specie nel 1948, su non meno sostanziose e delicate prospettive di esclusivo interesse militare. Ricca è l’informazione su questo punto a partire dalle ammissioni dei dirigenti sionisti Carlo Alberto Viterbo e Raffaele Cantoni nel gennaio 1948 circa l’impegno a racco­gliere armi e munizioni ed a trasferirle in Palestina (p. 280). Tanto che gli inglesi, in una delle loro consuete quanto inincisive proteste, poco dopo lamentavano lo scanda­lo dei “traffici illegali verso la Palestina che ora si estende alle armi ed alle munizioni ol­tre che all’immigrazione clandestina” (p. 292). La inutilità della pressione britannica scaturiva dal fatto che il governo italiano si era esplicitamente impegnato proprio a per­mettere quel tipo di traffici: in un incontro con De Gasperi il 4 o 5 aprile, Ada Sereni

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otteneva “l’estensione della tolleranza del governo italiano anche nei confronti del traffico clandestino delle armi” (p. 305): una tolleranza che si prolungava, secondo una nota del ministro degli Esteri Carlo Sforza, ai transiti clandestini di aerei da considerare “con una certa larghezza” (p. 317) e che si protrasse almeno sino al giu­gno 1948 allorché 1’ “Italia rispose positiva- mente all’appello del Consiglio di Sicurezza dell’Onu [...] per impedire il passaggio di armi e combattenti diretti in Israele durante la tregua. Ma in verità le autorità italiane continuarono a chiudere un occhio ogni volta che ciò era possibile” (p. 338).

A questo punto, solo per inciso si può ri­marcare che né Toscano, né altri azzardano alcunché sui guadagni derivanti da tali traf­fici, sulla loro eventuale incidenza sulla ri­presa produttiva del paese, su chi fossero i venditori e gli intermediari eccetera. Si trat­ta, invero, di elementi non irrilevanti per­ché nel clima del periodo non stupisce l’e­mergere, peraltro, di vari punti oscuri, pro­babilmente la vetta d’un iceberg, sul quale nessuno ha mai osato la scalata. Il libro, però, resta qui troppo nell’indefinito, quasi si gettasse, per un verso, il sasso, evitando, per un altro, di azzardare conclusioni. Si va, così, dall’individuazione, ma sempre in termini inconclusivi, dell’intervento in Ita­lia degli attivisti dell’estrema destra sionista delVIrgun Zvai’ Leumi’ (Organizzazione militare nazionale) e del Betar di Menahem Beghin impegnati in vere e proprie azioni terroristiche (cfr. pp. 144-145) e talvolta confusi con un fantomatico terrorismo co­munista (cfr. p. 247), all’ipotesi, circa la presenza tra i profughi, di figure equivoche di fascisti o di criminali di guerra infiltrati: “Troppi fascisti si confondono con gli ebrei clandestini” scriveva 1’“Avanti!” nel mag­gio 1947 (p. 177), oppure, settembre 1947, l’intera stampa italiana si domandava se i fuggiaschi sui quali stava indagando la po­lizia italiana fossero “fascisti, ebrei o ameri­

cani” (p. 239). Del pari si passa dalle vaghe ricostruzioni sugli intrighi dei vari servizi segreti inglesi o americani che in certe occa­sioni non disdegnavano — sembra — di utilizzare “personale specializzato già ap­partenente alla X Mas attualmente al ban­do e disoccupato per motivi d’epurazione” (p. 291), sino allo sconfinare, di conseguen­za, in quelle misure preventive di sicurezza assai discutibili in quanto dirette alla scon­fitta elettorale degli avversari del 18 aprile 1948, sulla legittimità delle quali ancora si discute e che costituirono una grave viola­zione nei compiti di determinati settori mi­nisteriali ed amministrativi: “Non si tratta­va — si legge alle pp. 275-276 — solo di sporadici articoli di giornale, ma anche di preoccupate analisi delle forze dell’ordine che paventavano le ripercussioni della pre­senza dei profughi sull’ordine pubblico e i varchi offerti dai loro campi all’infiltrazio­ne di gruppi eversivi e alla predicazione co­munista... Indubbiamente, dopo le prime manifestazioni di preoccupazione o ostilità, anche le tensioni della guerra fredda co­minciavano a diffondere i propri veleni, alimentando le paure di pericolose infiltra­zioni eversive e di subdole ingerenze stra­niere” . In breve, è la tematica su cui già s’è avuto occasione di riflettere riferendosi an­che alle traversie dell’emigrazione clandesti­na ebraica dopo il 1945, nell’articolo Servi­zi segreti israeliani e strategia della tensione in Italia (“Calendario del popolo” , n. 482, novembre 1985).

Quale ultima osservazione vorremmo no­tare come Toscano, verso la fine dell’opera, dischiuda una pagina di grande significato, ancorché, un poco sorprendentemente, non cogliendone che in modo assai parziale le implicazioni. Sin dall’aprile 1948, Giacomo Silimbani, console italiano a Gerusalemme, non mancava di informare tanto dei solidi successi militari ebraici in Palestina, quanto della ormai dilagante tragedia dei profughi palestinesi, una tragedia, per l’esattezza,

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che mai risolta e di continuo aggravatasi tuttora impedisce qualsiasi sviluppo positi­vo nel conflitto israeliano-palestinese. In un telespresso il console si esprimeva infatti in questi termini: “Le razionali e favorevoli operazioni militari delle forze armate Ebraiche create per mezzo della coscrizione obbligatoria e l’inopinato abbandono degli Inglesi hanno gettato il panico tra la popo­lazione araba, sostenuta da scarse e disor­ganizzate forze volontarie, determinando l’abbandono di quartieri completi ed un forte esodo verso i Paesi limitrofi” (p. 307). Per quanto, dunque, mancassero tan­te notizie ed informazioni, il governo italia­

no era con tutta probabilità pienamente in grado di giudicare: se appoggiò delle opera­zioni illegali, se chiuse gli occhi su gesti ter­roristici e traffici di armi, se non mutò li­nea di fronte all’evolversi del conflitto in Palestina il cui esito era evidente molto pri­ma della proclamazione dello stato di Israe­le, lo fece a ragion veduta. Con le carenze, le illusioni ed i reiterati silenzi, con la cer­tezza — ormai poco convincente — del buon diritto a qualsiasi violenza da parte sionista, il lavoro di Toscano risulta una stringente conferma di tale conclusione.

Guido Valabrega

L’autorappresentazione delle donnedi Luana Mattesini

“In quella che viene chiamata Storia, le don­ne non compaiono se non a titolo di grandi amanti, di intriganti o di avvelenatrici. La storia delle donne si svolge a letto, si legge in orizzontale. Al contrario, quella dei grandi uomini — si parla solo da poco degli uomini comuni — viene insegnata in verticale [...]. Non è stato conservato niente sulle donne che, dacché esiste la loro oppressione, si so­no sollevate contro la condizione che era lo­ro destinata. Appena un trafiletto canzona­torio, peggio ancora il silenzio”. In un fa­moso numero di “Les Temps Modernes” (aprile-maggio, 1974) — quasi un manifesto del femminismo francese contemporaneo — intitolato Les femmes s ’entêtent, veniva rile­vato polemicamente (Annie et Anne, Lutte des femmes et revolution) il fatto che la sto­ria ufficiale avesse misconosciuto il valore di qualsiasi ricognizione esperienziale ed inve­stigazione biografica della soggettività fem­minile, quasi che alle donne, per secoli uni­che custodi della sfera privata, si addicesse

soltanto l’eterna condizione di “escluse dalla storia”, per riprendere il titolo di un celebre volume di Sheila Rowbotham, Escluse dalla storia. Trecento anni di lotte della donna per la sua liberazione, Roma, Editori Riuni­ti, 1977 (London, Pluto Press, 1974).

L’intento primario del volume curato da Angiolina Arru e Maria Teresa Chialant II racconto delle donne. Voci autobiografie f i ­gurazioni (Napoli, Liguori, 1990, pp. 275, lire 30.000), è anzitutto quello di restituire una dignità ed una collocazione ben precisa alle diverse modalità autorappresentative delle donne — siano esse testimonianze d’ar­chivio, prodotti letterari esplicitamente au­tobiografici, o anche pseudoautobiografie. E ciò in un’ottica che, pur muovendo da di­scipline ed approcci metodologici differenti, si proponga comunque di ‘rileggere’ la sto­ria, rifuggendo da quella retorica e da quelle costruzioni stereotipe di cui si è spesso av­valsa l’iconografia tradizionale per descrive­re la soggettività femminile. Il libro consta

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di due parti: interesse centrale della prima, intitolata “Voci e autobiografie”, è anzitut­to un’analisi della scrittura autonarrativa, da sempre modalità privilegiata dell’espres­sione femminile. Quella delle lettere, dei dia­ri, delle autobiografie, delle biografie di al­tre donne ha rappresentato infatti per molti secoli, la scrittura femminile per eccellenza, come ha notato ne Le donne e la letteratura. Scrittrici eroine e ispiratrici nel mondo delle lettere (Roma, Editori Riuniti, 1984), anche Elisabetta Rasy, la quale definisce appunto l’autobiografia come “un momento chiave della ‘venuta alla scrittura’ delle donne”. Sia che l’intento autobiografico venga dichiara­to apertamente, travestito sotto le spoglie del romanzo o anche celato in rare note in margine ai libri, la scrittura dell’io ha per­messo infatti alle donne di giungere ad un primo momento pubblico di comunicazione ed affermazione della propria individualità. E questo riguarda non soltanto le donne di classe alta o media, ma anche — sia pure in modo diverso — quelle che appartengono ai ceti popolari: le autobiografie di prostitute ne rappresentano un esempio significativo, anche quando si tratta di ‘redènte’ che scri­vono, in apparenza, per testimoniare la pro­pria espiazione, come nel caso della ‘pupilla’ di Josephine Butler, Rebecca Jarrett o quel­lo di Angiolina B., la cui storia di vita è sta­ta di recente scoperta e pubblicata da Anna­rita Buttafuoco (“Memoria” , 17, 1986). Esemplare in questo senso è il caso di Rosa — raccontato da Andreina De Clementi ne L ’America di Rosa — la quale, emigrata ne­gli Stati uniti dopo un’infanzia ed un’adole­scenza trascorse nell’entroterra milanese, impara a “non aver paura” e fa assurgere pertanto l’America a simbolo di un’autono­mia e di un’uguaglianza che le erano state negate in patria. Essendo analfabeta, Rosa si trova a dover commissionare ad una sua amica, Maria H. Ets (Rosa. The Life o f an Italian Immigrant, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1970), la trascrizione

delle proprie vicende esistenziali, e ad appa­gare in tal modo il suo desiderio di autoaf­fermazione, ponendo le proprie esperienze in funzione pedagogica ed esemplare ad uso delle altre donne che le avrebbero lette.

Il saggio che apre il volume, “Nel caratte­re scortese, nel comportamento impertinente e sfrontata”. Racconti di serve tedesche nel­l’Ottocento, si deve ad Angiolina Arru, la quale da anni ormai studia con grande sensi­bilità e rigore i lavoratori domestici, metten­do in luce le dinamiche dei rapporti tra ser- vi/serve e padroni/padrone. In questo sag­gio Arru analizza alcune memorie di dome­stiche a servizio nelle zone alpine all’inizio dello scorso secolo, dimostrando, ancora una volta, il valore assunto dal lavoro e dal­la ‘carriera’ nella percezione di sé di queste donne. Particolarmente importante, per la fonte del tutto inconsueta utilizzata, è la let­tura che Clara Gailini fa dei graffiti incisi sui muri dalle detenute del carcere di Tori­no, raccolti da un autorevole esponente del potere istituzionale maschile come Cesare Lombroso, Palinsesti femminili dalle carceri e dal sifilicomio di Torino 1889-1892. In essi Gailini coglie i segni di uno specifico femmi­nile “vivo nonostante la condizione di chi l’ha espresso e l’operazione mortuaria che su di esso tenta lo scienziato positivista” . Come rileva infatti Marina Vitale (Una don­na dalla memoria lunga: la scrittura auto- biografica dal basso), sulle donne apparte­nenti ai ceti sociali più bassi pesava e conti­nua a pesare una duplice interdizione alla scrittura. Un’interdizione che affonda le sue radici, oltre che nella discriminazione ses­suale, nella storica mancanza di fiducia delle donne nel significato intrinseco della pro­pria esperienza di vita, considerata come priva di valore esemplare e pertanto trascu­rabile. Singolare è quindi il fatto che alcune di loro — non importa se detenute o prole­tarie — riescano a rompere questo silenzio.

Non sempre, tuttavia, le donne si sono av­valse delle forme ‘canoniche’ per ordinare le

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loro ricognizioni memoriali, ma hanno spes­so finito per investire di sé anche il linguag­gio della finzione narrativa e, in epoca più recente, quello storico, critico o sociologico. Il saggio di Paola Splendore, La difficoltà di dire “io”: l’autobiografia come scrittura del limite, coglie bene queste strategie autorap­presentative di “scrittura dai margini”, le quali hanno contribuito a far sì che “la me­moria e l’identità personale diventassero ba­se e filo conduttore di ogni pratica discorsi­va” . Questa, in sostanza, è la tesi di fondo che permea la seconda sezione del volume, denominata non a caso “Figurazioni”, e nel­la quale confluiscono interventi riguardanti testi e generi eterogenei come la narrativa e la dimensione linguistica ed etimologica, o incentrati su produzioni massmediali quali gli sceneggiati televisivi.

In tutti i contributi di questa parte appare evidente, ancora una volta, la centralità del discorso autonarrativo, condotto spesso da un personaggio fittizio, come avviene in The Bell Jar di Sylvia Plath (analizzato nel pun­tuale saggio di Daniela Daniele L ’autoritrat­to come macabro strip-tease: “The Bell Jar” di Sylvia Plath), o in The Yellow Wallpaper di Charlotte Perkins Gilman (per cui si ri­manda all’intervento di Eleonora Rao, Sen­so, nonsenso, desiderio: “The Yellow Wal­lpaper” di Charlotte Perkins Gilman) o, in modo più indiretto, negli scritti narrativi di George Eliot, Èva Figes, Charlotte Brontë o Christine Brooke-Rose, analizzati rispettiva­mente da Marina Lops (Femminile, flusso e forma in George Eliot), Maria Teresa Chia- lant {La voce narrante come coro femminile: i romanzi di Èva Figes), Ady Mineo (Identi­tà femminile tra quotidianità e mito in “Shelley” di Charlotte Brontë) e Maria Del Sapio (Christine Brooke-Rose o del plurilin­guismo). Quest’ultima riporta un interven­to della scrittrice ginevrina — Self-Con- frontation and the Writer — pubblicato su un numero monografico della “New Lite­rary History” (1, 1977) dedicato all’autobio­

grafia. In tale saggio viene ancora una volta palesata la difficoltà per chi scrive — e ciò vale soprattutto per le donne che si muovo­no in un universo linguistico già precostitui­to — di confrontarsi con se stesso e di trac­ciare una propria identità definita. Diventa allora indispensabile non intrappolare la scrittura autonarrativa in un “io” univoco per affermare invece la plurivocità del sog­getto; plurivocità sentenziata dalla frase “/ am the others” che conclude emblematica­mente l’articolo di Brooke-Rose.

Il racconto drammatico televisivo poi, ap­pare ugualmente caratterizzato — secondo Lidia Curti, Figure dell’io femminile sul pic­colo schermo — da cliché ed elementi con­notativi che ruotano spesso sul binomio donne-indecifrabilità, scaturito in primo luogo dall’impossibilità che hanno queste ultime di porsi come soggetti assoluti ed uni­voci; prerogativa che connota invece l’uni­verso maschile. Sul piano pratico questo si traduce, negli sceneggiati televisivi, in una proliferazione di figure femminili che allu­dono apertamente alle nozioni di diversità — e nel contempo di uguaglianza — tra donne.

Questa mancanza di universalità è da im­putarsi — secondo Cristina Vailini {Davanti allo specchio: etimologia e femminilità) — al fatto che il linguaggio, e con esso l’entità simbolica propriamente racchiusa nella pa­rola “io”, sorga come creazione maschile: è evidente pertanto il carattere secondario del femminile a livello linguistico ed etimologi­co. A tale proposito la studiosa propone di far derivare dallo stesso racconto biblico la relativa semplicità del genere maschile e del­le sue strutture rispetto alle corrispondenti femminili: il mito della donna estratta dal corpo dell’uomo giustifica infatti il carattere di “derivato” assunto da quest’ultima ri­spetto alla “base” e pone nel contempo, per la prima volta, il problema della differenza nell’identità sessuale.

Luana Mattesini

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Italia liberale

Simonetta Soldani (a cura di), L ’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita femmi­nile nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1989, pp. XXII-570, lire 35.000.

Il volume raccoglie gli inter­venti al convegno su Le donne a scuola. L'educazione femmi­nile nell’Italia dell’Ottocento (Siena, 5-7 marzo 1987), oltre alla conferenza tenuta da Mario Alighiero Manacorda all’aper­tura di una mostra dedicata al medesimo tema. In una osser­vazione della curatrice si ritrova uno dei principali fili condutto­ri di questa ampia raccolta di studi. Con riferimento ai pro­blemi dell’istruzione nell’Italia postunitaria, Simonetta Soldani scrive che “come per il popolo, così per le donne, l’ammissione — per la prima volta nella sto­ria — allo sconfinato territorio della cultura scritta, da sempre patrimonio pressoché esclusivo di chi era partecipe di un qual­che ‘potere’, implicò il paga­mento di un pedaggio non pro­prio irrilevante: quello di dover sottostare, come del resto acca­deva ovunque, ad una ossessiva ‘educazione alla soggezione’, vista come un succedaneo ob­bligato per chi, dall’interno di questi grandi spezzoni della so­cietà civile, superava il livello minimo di scolarità, che in va­ste zone dell’Italia meridionale e insulare costituiva un mirag­gio per quattro donne su cinque ancora nel 1901, e che, anche quando veniva garantito, non era in grado di assicurare, spes­so, neppure il possesso stabile degli strumenti più elementari

per leggere, scrivere e far di conto.” (Premessa, p. Vili). Una assimilazione, dunque, tra specifico disagio della compo­nente femminile e più generale problema delle classi subalter­ne; è peraltro noto come la sor­dità dei ceti dirigenti tardo ot­tocenteschi per i problemi della donna derivasse in buona parte dalla scarsa sensibilità comples­sivamente dimostrata verso la questione sociale italiana.

Premesso ciò, risulta esem­plare l’intervento di Manacor­da, Istruzione ed emancipazio­ne delta donna net Risorgimen­to. Riletture e considerazioni, che comincia col ricordare l’esi­stenza e lo sviluppo — prima e dopo le vicende risorgimentali — di “una serie quasi infinita di squallidi luoghi comuni, soste­nuti e diffusi con gran pompa di argomentazioni, ma talmente lontani da ogni ragionevolezza da dissuadere da ogni loro con­siderazione in chiave storicista: sono in sé immoralità e stucche­volezze che lo storicismo può spiegare [...], ma non può in al­cun modo giustificare” (pp. 1- 2). Primo tra tutti, quello delle cosiddette differenze di natura, che reca con sé l’immagine del­la donna “naturaliter sottopo­sta all’uomo” (p. 2).

Gli argomenti affrontati nel convegno spaziano tra pre e postrisorgimento, e coprono un ventaglio piuttosto ampio di questioni. Nei contributi dedi­cati all’Italia unita, trovano un certo approfondimento temi quali la lotta contro l’analfabe­tismo femminile, la situazione particolarmente svantaggiata delle donne nel Mezzogiorno, il ruolo sociale e culturale delle maestre elementari, il successi­

vo e graduale obiettivo — alme­no per le donne dei ceti bene­stanti — di una istruzione post­elementare fino alla battaglia per l’accesso femminile all’uni­versità; ma emerge soprattutto la notevolissima diffusione di posizioni conservatrici e reazio­narie che, in materia di istruzio­ne femminile, finiscono col pe­nalizzare anche coloro che, dal­l’interno dell’establishment li­berale, mostrano qualche mo­derata disponibilità di segno ri­formista (efficace in questo sen­so la relazione di Mauro Moret­ti su Pasquale Villari deputato, ministro e professore, Pasquale Villari e l ’istruzione femminile: dibattiti di opinione e iniziative di riforma) e i funzionari che prendono alla lettera la politica scolastica laica ufficialmente professata dal governo centrale (su ciò va visto il contributo di Valeria Calvino Manacorda su Salvatore Calvino, provvedito­re agli studi nell’Italia meridio­nale degli anni settanta, Testi­monianza di un provveditore sull’educazione femminile ne! Mezzogiorno). Particolarmente interessante, tra gli altri, il con­tributo di Daniele Marchesini sull’analfabetismo femminile nei primi decenni dell’Italia unita, L ’analfabetismo femmi­nile nell’Italia dell’Ottocento: caratteristiche e dinamiche, vol­to a evidenziare come i progres­si dell’alfabetizzazione registra­ti in quel periodo siano più ap­parenti che reali, soprattutto se si riflette sulla donna come “anello debole della catena al­fabetica” (p. 43). Sulle contrad­dizioni della politica scolastica postunitaria insistono con os­servazioni incisive anche Silvia Franchini (Gli educandati nel­

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l ’Italia postunitaria), Simonetta Soldani (Il libro e la matassa. Scuole per "lavori donneschi” nell’Italia da costruire), Carme- la Covato (Educata ad educare: ruolo materno e itinerari for­mativi), Marino Raicich (Liceo, università, professioni: un per­corso difficile), Gaetano Bonet- ta (Igiene e ginnastica femmini­le nell'Italia liberale), e i già ci­tati Moretti e Calvino Mana­corda. Ma al di là dei pochi spunti che lo spazio consente di ricordare, va sottolineato come in questo volume siano effica­cemente affrontati temi impor­tanti della storia istituzionale, culturale, sociale dell’istruzione italiana: delle Italie preunitarie come di quelle postrisorgimen­tali.

Francesco Casadei

Fulvio Cammarano, Il pro­gresso moderato. Un’opposi­zione moderata nella svolta del­l ’Italia crispina (1887-1892), Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 262, lire 30.000.

La ricerca prende le mosse da un interesse per la Federazione Cavour, una forma di aggrega­zione tra i circoli monarchici-li­berali e le associazioni costitu­zionali di impronta moderata, che sembrava costituire l’em­brione di una organizzazione politica del moderatismo italia­no e lasciar trasparire la consa­pevolezza del problema del par­tito: un elemento tutt’altro che trascurabile nel quadro dell’in­teresse per il problema della “forma partito”. Di fatto, at­traverso il procedere dell’inda­gine, questo fenomeno organiz­zativo — di cui si ricostruisce

qui il percorso ideativo e la rea­lizzazione nel corso del 1889, che rappresenta comunque un passaggio politico di rilievo in quanto segnale di nuove esigen­ze e di una aspirazione a model­li politico-organizzativi inediti all’interno del mondo liberale — risulta poi sostanzialmente ridimensionato dalla incapacità di formulare, tra costanti pole­miche e divisioni, un dettagliato programma operativo del parti­to. Ne consegue la scissione operata nel maggio 1890 dal gruppo di Di Rudinì che vota alla Camera la fiducia al terzo ministero Crispi. Essa si riper­cuote sulla realtà extraparla­mentare implicando tra l’altro il tramonto dell’ipotesi di un nuovo congresso delle associa­zioni costituzionali, insistente­mente annunciato nei mesi pre­cedenti.

L’interesse del lavoro va ri­cercato dunque — al di là della questione del partito — nella delineazione di una strategia di opposizione moderata al meto­do di governo Crispino, di una risposta a quella che l’autore definisce 1’ “ingegneria politi­ca” crispina, intesa come tenta­tivo di incidere sul tessuto poli­tico e sociale per realizzare una “Italia nuova”, utilizzando a fondo le leve del potere statale. Cammarano muove pertanto dalla ricostruzione del progetto politico crispino, interpretato come interno ad una logica di ammodernamento autoritario, espressione di settori sociali ed economici eterogenei, ma con­cordi nell’istituzionalizzare l’in­tervento statale nei processi di sviluppo della società civile; una prospettiva volta a coniu­gare progresso e modernizza­

zione attraverso l’appoggio of­ferto alle emergenti forze eco­nomiche nazionali e in alterna­tiva alla sfida democratico-so­cialista, nella convinzione “per la prima volta teorizzata, che la politica non sia il prodotto del­la naturale esplicazione dei fat­tori sociali ma al contrario sia il terreno della progettazione dei mezzi attraverso cui adeguare una società al turbolento corso della ‘storia’ o alle esigenze del­la ‘scienza’” (p. 44). Su questa base Cammarano passa ad enu­cleare ed analizzare i temi del­l’opposizione moderata, attra­verso una lettura attenta dei di­battiti parlamentari, della pub­blicistica coeva, e l’utilizzazio­ne anche di parecchi carteggi privati tra cui quello di Giovan­ni Codronchi, e con il rammari­co tuttavia di non aver potuto avvalersi delle carte di due per­sonaggi centrali per la vicenda in esame quali Ruggero Bonghi e Carlo Alfieri di Sostegno. Fondamentale a questo fine si rivela la possibilità di identifi­care un raggruppamento parla­mentare non esclusivamente sulla base dei curricula ideolo­gici e delle dichiarazioni eletto­rali, ma attraverso l’adesione formale ad una organizzazione nazionale — la Federazione Ca­vour appunto — che “rende in qualche modo oggettiva, anche se certamente non vincolante, la posizione dei singoli” (p. 139): si tratta di ventisette de­putati e tre senatori che costi­tuiscono un gruppo abbastanza compatto, contraddistinto da una considerevole presenza di settentrionali dotati di cultura ‘positiva’, scientifica ed im­prenditoriale, più consoni e vi­cini ai valori della produzione e

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della scienza che a quelli della mediazione e della cultura uma­nistica. Cammarano ricostrui­sce i comportamenti politici del gruppo anche attraverso una fonte fino ad ora troppo poco usata quale i risultati delle vota­zioni nominali in aula.

I principali nodi teorici che sostanziano le posizioni dell’op­posizione moderata sono indivi­duati nella difesa del ruolo del Parlamento di fronte all’inge­renza dell’esecutivo, nell’esi­genza cioè di recuperare una funzione dibattimentale e inqui­sitiva della Camera, in grado di porre un freno all’impazienza del progetto riformatore Crispi­no; nella critica alle scelte con­cernenti la finanza pubblica, che assume un carattere spicca­tamente politico ispirato al te­ma dei limiti dell’intervento del­lo Stato nella sfera sociale; nella critica alla interpretazione ‘ag­gressiva’ che il presidente del Consiglio dà alla politica estera, più che alle sue linee portanti, che lascia trasparire una conce­zione dell’espansione coloniale come risultato di una rigogliosa condizione economica che si traduce in investimenti produt­tivi. Tutti elementi che contri­buiscono a delineare una strate­gia politica intesa come alterna­tiva ad un progetto considerato nel suo complesso ‘estremista’, proprio perché incline ad aval­lare un esplicito esperimento di integrazione in campo sociale facendo leva anche sul richiamo alla legittimazione rivoluziona­ria e al patriottismo.

II radicalismo e giacobinismo crispino rappresentano dunque l’elemento di contrasto in grado di offrire un banco di prova e di verifica alla prospettiva poli­

tica che si considera erede del li­beralismo cavouriano, in oppo­sizione ad un progetto di modi­ficazione della società attraver­so gli strumenti dell’ ‘ingegne­ria politica’. L’opposizione mo­derata a Crispi, concependo l’ingresso delle masse nella vita pubblica attraverso un lento processo di assimilazione ed educazione, e ponendosi come catalizzatore delle forze ‘sane’ della borghesia, rappresenta l’e­sperienza in una dimensione na­zionale di un fenomeno a carat­tere europeo, ossia di quel pro­cesso generale di ripensamento delle ‘strategie della legittima­zione’ che caratterizza la rifles­sione politica ed intellettuale della classe dirigente liberale nell’ultimo trentennio del seco­lo scorso. In questa capacità di inserire quello che potrebbe ap­parire un episodio di scarso ri­lievo della vita politica e parla­mentare italiana in un quadro assai più vasto e comparato di riflessione sulla scienza della politica, sta il pregio, a mio av­viso, del lavoro di Cammarano. Quella che egli definisce “mega­lomania” crispina e “politica massaia” del moderatismo set­tentrionale diventano così vera­mente i corni di una dialettica interna al sistema politico italia­no nel quadro però di una rifles­sione sulla ‘scienza della politi­ca’ comune a tutta l’Europa del periodo: “se cioè l’arte del poli­tico fosse la manipolazione del­la realtà in nome dei grandi fini e progetti disvelati da una qual­che filosofia o se essa fosse l’ar­te dell’equilibrio da realizzarsi prima nella società e da traspor­re poi nella politica” (p. 8).

Emma Mana

Istituto per la scienza del­l’amministrazione PUBBLICA, Le riforme crispine, Volume primo, Amministrazione stata­le, Milano, Giuffrè, 1990, pp. XVIII-948, lire 90.000.Id ., Le riforme crispine, Volu­me secondo, Giustizia ammini­strativa, Milano, Giuffrè, 1990, pp. XVIII-734, lire 70.000.Id ., Le riforme crispine, Volu­me terzo, Amministrazione lo­cale, Milano, Giuffrè, 1990, pp. XVIII-1014, lire 100.000. Id ., Le riforme crispine, Volu­me quarto, Amministrazione sociale, Milano, Giuffrè, 1990, pp. XVIII-729, lire 70.000.

Con questi volumi, che riuni­scono numerosi saggi raggrup­pati in otto sezioni strettamente correlate tra loro, l’Isap pubbli­ca i risultati di vaste ricerche in­centrate sulle riforme ammini­strative realizzate tra il 1888 ed il 1890, ma che prendono in considerazione un periodo ben più ampio a cavallo di quegli anni. Con il proposito di pub­blicare interventi analitici su uno dei prossimi fascicoli della rivista, riteniamo intanto utile segnalare l’articolazione interna dei volumi, ciascuno dei quali presenta in apertura l’Introdu­zione generale (pp. VII-XIII) di Ettore Roteili, direttore genera­le dell’opera.

L'Amministrazione statale si articola in una sezione su I mi­nisteri ed in una riguardante Le prefetture. Nella prima Vlntro- duzione del coordinatore Guido Melis (pp. 3-14) è seguita dai saggi di Paola Carucci, La Pre­sidenza del consiglio dei mini­stri (pp. 15-79), Fabio Grassi, // ministero degli Esteri: la diplo­mazia (pp. 81-165), Vincenzo

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Pellegrini, Il ministero degli Esteri: l ’organizzazione (pp.167-269), Daniela Frigo, Il mi­nistero degli Esteri: le colonie (pp. 271-325), Manuela Caddi, Il ministero degli Interni: i fun­zionari (pp. 327-413), Luisa Montevecchi, Il ministero degli Interni: gli archivi e le informa­zioni (pp. 415-446), Giovanna Tosatti, Il ministero degli Inter­ni: le origini del Casellario poli­tico centrale (pp. 447-485), Giu­seppe Arcuri, Il ministero delle Poste e Telegrafi: l ’istituzione (pp. 487-518), Maria Giannet­to, Il ministero delle Poste e Telegrafi: l ’organizzazione (pp. 519-581), Stefania Rudatis, L ’i­stituzione dei sottosegretari di Stato (pp. 583-621). Nella se­conda sezione, dopo l’Introdu­zione del coordinatore Pietro Aimo (pp. 625-645), sono pub­blicate le monografie sulle pre­fetture di Milano (di Anna Rita Ostinelli, pp. 647-696), Brescia (di Riccardo Johnson, pp. 697- 744), Mantova (di Lorena Leo­ni, pp. 745-783), Roma (di Ma­ria Guercio, pp. 785-854), Ca­tania (di Marcello Saija, pp. 855-895) e Siracusa (di Giusep­pe Astuto, pp. 897-935).

Il secondo volume, sulla Giu­stizia amministrativa, compren­de VIntroduzione di Umberto Allegretti (coordinatore), pp. 1- 42 e gli studi di Piero Gotti, La legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E, nella giurisprudenza del giudice ordinario (pp. 43- 75), Alfredo Corpaci, La giuri­sprudenza del Consiglio di Sta­to (pp. 77-164), Marina Gigan­te, I conflitti di attribuzione nella giurisprudenza del Consi­glio di Stato (pp. 165-219), An­drea Pubusa, Il dibattito dottri­nale prima delle leggi del 1889-

90 (pp. 221-264), Alfonso di Giovanni, L ’iter parlamentare della legge istitutiva della IV se­zione del Consiglio di Stato (pp. 265-344), Carlo Maviglia, L ’istituzione della Giunta pro­vinciale amministrativa (legge 1° maggio 1890, n. 6837) (pp. 345-440), Enrico Follieri, La legge 31 marzo 1889, n. 5992, nella giurisprudenza del Consi­glio di Stato (pp. 441-496), Vin­cenzo Cerulli Irelli, Le questio­ni di giurisdizione nella giuri­sprudenza della Cassazione di Roma (pp. 497-532), Bernardo Sordi, L ’influenza tedesca (pp. 533-574), Luca Mannoni, L ’in­fluenza francese (pp. 575-616), Laura Ammannati, Il dibattito dottrinale dopo le leggi del 1889-90 (pp. 617-683) e Giorgio Rebuffa, Il dibattito dottrinale dopo le leggi del 1889-90: Stato di diritto e Stato sociale (pp. 685-717). Ricordiamo inoltre che sul tema trattato in questo volume l’Isap ha pubblicato re­centemente anche lo studio di Piero Aimo, Le origini della giustizia amministrativa. Consi­gli di prefettura e Consiglio di Stato nell’Italia napoleonica (Milano, Giuffrè, 1990, pp. XXXIII-457, lire 45.000).

Il terzo volume si articola in una sezione dedicata a Profili di città, coordinata da Cesare Mozzarella ed in una riservata a Profili speciali, coordinata da Fabio Rugge. La prima riunisce saggi su Bologna (di Aurelio Alaimo, pp. 3-80), Como (di Ivana Pederzani, pp. 81-191), Genova (di Fernanda Mazzanti Pepe, pp. 193-285), Lucca (di Marina Brogi, pp. 287-372), Mantova (di L. Leoni, pp. 373- 433), Modena (di Euride Fre- gni, pp. 435-513), Pavia (di Al­

berto Liva, pp. 515-555), Rieti (di Agostino Attanasio, pp. 557-622), Siena (di Saverio Car- pinelli, pp. 623-693) e Udine (di Laura Casella, pp. 695-776). Nella seconda, F. Rugge intro­duce (pp. 779-788) i contributi di L. Leoni, Il personale eletti­vo (pp. 789-857), Mariapia Bi- garan, Il personale burocratico (pp. 859-892), Paolo Frascani, Le entrate (pp. 893-929), Giu­seppe De Luca, Le funzioni ur­banistiche (ppi 931-955) e Ales­sandro Polsi, Il catasto (pp. 957-1001).

L’ultimo volume, dedicato all’Amministrazione sociale, si articola in sezioni su Le istitu­zioni pubbliche di assistenza e beneficenza, Le casse di rispar­mio e L'organizzazione pubbli­ca della sanità, rispettivamente coordinate da Paolo Cavaleri, Marcello Clarich e Claudia Pancino. Nella prima, a\\’In- troduzione di P. Cavaleri (pp. 3-21) seguono i saggi di Romil­da Scaldaferri, Il dibattito par­lamentare (pp. 23-47), P. Cava­leri, La legge 17 luglio 1890, n. 6972, nella giurisprudenza (pp. 49-148), Stefano Sepe, L ’eserci­zio del controllo in applicazione della legge 17 luglio 1890, n. 6972 (pp. 149-228), Edoardo Bressan, I cattolici milanesi di fronte al nuovo ordinamento (pp. 229-261), Amelia Belloni Sonzogni, I cattolici milanesi dopo la legge 17 luglio 1890, n. 6972 (pp. 263-290) e Valeria De Bartolomeis, L ’applicazione della legge 17 luglio 1890, n. 6972: il caso di Teramo (pp. 291-329). La sezione sulle casse di risparmio comprende, oltre all’Introduzione (pp. 333-337) e alle Conclusioni (pp. 473-478) di M. Clarich, gli studi di Enri-

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co Gustapane, L ’evoluzione an­tecedente (pp. 339-399), M. Clarich, La portata innovatrice delia legge 15 luglio 1888, n. 5546 (pp. 401-429) e Domenico Iaria, I controlli e la natura giu­ridica (pp. 431-472). Infine, nella sezione riservata alla sani­tà, l’Introduzione di C. Panci­no (pp. 481-493) è seguita dagli studi di Fiorenza Tarozzi, L ’or­dinamento prima della legge 22 dicembre 1888, n. 5849 (pp. 495-527), Giovanna Ognibeni, L ’iter parlamentare della legge 22 dicembre 1888, n. 5849 (pp. 529-566), Anna Parma, L ’am­ministrazione centrale (pp. 567- 595), C. Pancino, L ’ammini­strazione periferica e locale (pp. 597-649), Marco Soresina, Il di­battito nelle associazioni medi­che (pp. 651-687) e Carla Gio- vannini, Le inchieste (pp. 689- 714). Non si può, infine, fare a meno di notare la mancanza di un indice dei nomi, sicuramente utile in una pubblicazione di questo genere.

Paolo Ferrari

Nunzio Dell’Erba, Il sociali­smo riformista tra politica e cultura, Milano, Angeli, 1990, pp. 172, lire 20.000.

Un merito importante, forse il principale, di questo volume risiede nel presentare in forma sintetica e convincente alcuni temi di storia del movimento socialista (dalle origini alla se­conda guerra mondiale), attra­verso quella che, fondamental­mente, è una rassegna di figure rilevanti di tale vicenda. Inte­ressante, tra gli altri, è il primo capitolo, in cui si ricostruiscono i prodromi del socialismo italia­

no, le influenze internazionali che su esso agiscono e le stesse diversificazioni interne del pe­riodo risorgimentale; viene inoltre ricordato il ruolo che ebbe, ai fini della prima diffu­sione degli ideali socialisti, una figura come quella di Giuseppe Garibaldi. Le altre parti del la­voro si addentrano nella storia del socialismo come movimento politico dell’Italia unita: emble­matica, a tale riguardo, la vi­cenda di Francesco Saverio Merlino, giovane avvocato di idee anarchiche che col tempo matura l’adesione ad un sociali­smo dalle sempre presenti vena­ture libertarie, fino ad essere protagonista del dibattito (ita­liano e internazionale) sulla re­visione del marxismo. Dell’Er­ba richiama l’attenzione anche su un personaggio come Achille Loria, solitamente trascurato dalla storiografia, ma che go­dette presso i contemporanei di notevole prestigio accademico, scientifico e politico. Compa­gno di studi, nella Bologna de­gli anni settanta, di Filippo Tu­rati, Loria esercita una notevole influenza, negli ultimi due de­cenni del XIX secolo, sul dibat­tito ideologico ed economico che agita la sinistra democratica e socialista. Tra i temi esamina­ti spicca quello della “teoria del valore”; a questo proposito Dell’Erba ricorda opportuna­mente come tale dibattito abbia avuto tra le sue sedi, negli anni novanta, riviste importanti quali “Critica sociale” e la “Ri­vista critica del socialismo”.

Efficaci appaiono anche le pagine dedicate ad un dirigente di spicco come Claudio Treves, volte a delineare le tappe princi­pali della carriera politica e

giornalistica del riformista tori­nese; emerge infatti con suffi­ciente chiarezza la scelta del so­cialismo gradualista come ‘bus­sola’ fondamentale che guida Treves dalla crisi di fine secolo fino all’avvento del fascismo, attraverso vicende quali l’età giolittiana, la guerra di Libia, la crisi del riformismo all’inter­no del Psi, il primo conflitto mondiale, il biennio rosso. Un Treves impegnato sia nella lotta politica tra le correnti sociali­ste, sia nella battaglia politica nazionale, in Parlamento come nella stampa; dirigente che ri­sulta sempre impegnato in dife­sa delle libertà fondamentali e che sviluppa battaglie civili im­portanti come quella per il suf­fragio universale. Quanto ad Angiolo Cabrini (pp. 115-134), ne viene ricordato il ruolo di organizzatore socialista e di sin­dacalista riformista, promotore di importanti iniziative in tema di legislazione sociale (da ricor­dare, a tale proposito, un di­scorso alla Camera nel maggio 1901 su Leggi sociali e lotta di classe), di tutela dell’emigrazio­ne italiana, di difesa dei diritti dei lavoratori della terra. In Cabrini (come in Treves e in al­tri dirigenti riformisti) è assai forte l’ostilità verso il sindacali­smo rivoluzionario e l’uso poli­tico, da esso propagandato, dello sciopero generale; il rifor­mista monzese è anche fautore, sul declinare dell’età giolittia­na, di un progetto di “Partito del lavoro”, accogliendo così alcuni spunti dell’elaborazione bonomiana e bissolatiana.

Piuttosto interessanti sono le riflessioni su Eugenio Colorni, attraverso le quali il lettore è in­trodotto ad alcuni fondamenta­

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li problemi del periodo tra le due guerre mondiali. Laureato in filosofia (Dell’Erba sottoli­nea il ruolo svolto dagli interes­si filosofici nella formazione politica del socialista milanese), Colorni si avvicina a Giustizia e libertà e, in seguito, al partito socialista, diventando uno dei massimi dirigenti del Centro in­terno. Promotore di un dialogo critico col partito comunista italiano, solleva all’interno del Psi la questione del superamen­to di impostazioni classiste care a Rodolfo Morandi e propugna una maggiore attenzione verso le classi medie. Nel 1941, Co­lorni, confinato a Ventotene, è autore — con Altiero Spinelli e Ernesto Rossi — del Manifesto per l ’Europa libera e unita. “Quel programma, cui Colorni rimane fedele per il resto della sua breve ma intensa esistenza, si propone la realizzazione di una società basata sul decentra­mento regionale e sull’autogo­verno locale [...]” (pp. 146- 147). È un progetto, quello fe­deralista di Colorni, in cui vie­ne sottolineato il ruolo delle masse sia per la conquista del­l’unità europea sia per promuo­vere una società caratterizzata da maggiore giustizia e libertà. Tali saranno i suoi orientamenti anche nel vivo della Resistenza e della lotta clandestina. In un ultimo capitolo Dell’Erba riper­corre alcune tappe del rapporto tra “Storiografia e socialismo riformista”, soffermandosi su ciò che è stato prodotto tra gli anni trenta (si parte infatti dagli studi di Nello Rosselli, senza di­menticare l’uscita di alcuni sag­gi — di carattere memorialisti- co — che il regime consentì di pubblicare alla Laterza di Bene­

detto Croce) e la ripresa po­stbellica (l’autore non affronta gli sviluppi della storiografia italiana tra gli anni settanta e i giorni nostri). È anche, questo excursus, l’occasione per una rapida rassegna di alcuni temi della storia socialista tra Otto­cento e Novecento e delle rifles­sioni a tale proposito svolte da Gaetano Salvemini, Carlo Ros­selli, Pietro Nenni; ma è anche l’occasione per indicare alcuni opportuni spunti di ricerca.

Francesco Casadei

Domenico Scacchi, Abbasso le maschere. Democrazia e gari- baldinismo a Roma (1881- 1883), Roma, Edizioni dell’A­teneo, 1990, pp. 161, sip.

Edito dal Comitato di Roma dell’Istituto per la storia del Ri­sorgimento italiano, “Abbasso le maschere” è un saggio che mette a fuoco un fenomeno po­litico piuttosto singolare della seconda metà del secolo deci- monono, finora poco e mal in­dagato, vale a dire quello che già allora veniva definito il “ coccapiellerismo”. Domenico Scacchi, profondo conoscitore della politica italiana ottocente­sca ed in particolare dei movi­menti di opposizione, rivisita gli anni di maggior successo di quel Francesco Coccapieller che nei primi anni ottanta mise a soqquadro l’ambiente politico romano e nazionale. Ex drago­ne pontificio, ex aiutante di Ga­ribaldi — almeno secondo il suo dire —, tribuno, polemista, poi deputato, Coccapieller as­surse ai fasti della cronaca pri­ma come collaboratore

dell’ “Eco dell’operaio” e suc­cessivamente come fondatore e direttore del foglio “Ezio II”. Da questi due giornali egli in­traprese una campagna di de­nuncia moralistica che ben pre­sto divenne opera sistematica di calunnia e di diffamazione nei riguardi dei personaggi più in vista del movimento democrati­co della capitale. Le agitazioni pubblicistiche, il ‘sovversivi­smo’ moralistico, la virulenza antimassonica, i toni aspri ed accesi di un antagonismo visce­rale verso i democratici gli pro­curarono una vasta notorietà, che non solo fece facile e natu­rale proselitismo fra le fasce popolari, ma suscitò consensi di rilievo anche negli schieramenti e negli ambienti cattolici, fino a suscitare l’approvazione della “Civiltà cattolica”. La repenti­na fama, oltre a portarlo alla Camera, suscitò financo inte­ressi ‘scientifici’, quali quelli di Cesare Lombroso, che gli dedi­cò un breve saggio nell’opera Due tribuni studiati da un alie­nista (Roma, 1883).

La critica storiografica ha sempre dato di Coccapieller, come ricorda Scacchi, una “de­scrizione per certi versi stereoti­pata: personaggio del sottobo­sco del giornalismo della capi­tale” che accidentalmente si è insinuato nei due giornali ro­mani e dove si è distinto solo per lo scandalismo e le diffama­zioni continuate. Valutazione non del tutto adeguata e sicura­mente parziale. Infatti, essa non spiega come una persona tanto screditata e squattrinata come Coccapieller sia riuscita a fondare il giornale (“Ezio II”) e a sostenere la sua vincente cam­pagna elettorale. Scacchi va

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proprio alla ricerca di queste ragioni e le trova nell’appoggio che Coccapieller potè godere da parte di Depretis ed in partico­lare di Ricciotti Garibaldi. 11 ‘padre’ della Sinistra e presi­dente del Consiglio se ne servì per impedire una affermazione radicale a Roma nelle elezioni politiche dell’autunno del 1882. Il secondogenito di Garibaldi, alla scomparsa del padre, utiliz­zò lo stravagante Coccapieller per spianarsi la strada verso la conquista della leadership del garibaldinismo e quindi della democrazia italiana. Difatti, al­la scomparsa dell’ ‘eroe dei due mondi’, per Ricciotti Garibaldi raccogliere l’eredità paterna fu un impegno d’onore ed in fon­do l’unico modo per sopravvi­vere politicamente. La via che scelse fu quella di devastare il composito mondo democratico proprio grazie alla stampa dif­famatoria e ricattatoria di cui si rese protagonista Coccapieller. L’obiettivo di Ricciotti Garibal­di si può dire fu raggiunto solo in parte e per breve tempo. Di­ventato deputato nel 1883 per il rotto della cuffia (a causa delle dimissioni di Leopoldo Torlo- nia), con una vita parlamentare piuttosto anonima, non riuscì nemmeno lontanamente ad ac­creditarsi come leader del gari­baldinismo e del mondo demo­cratico in genere. Coccapieller riscosse senz’altro molto di più del suo mentore e protettore. Fu più volte deputato, anche se con carriera parlamentare piut­tosto breve, saltuaria e grama, ed ebbe fama ed onore negli strati sociali più popolari. Sem­pre inviso alle classi politiche dirigenti e liberali, accanto alla gloria, però, conobbe pure, e a

più riprese, il carcere, ove più volte venne ospitato a causa delle code giudiziarie alle sue iniziative diffamatorie.

Gaetano Bonetta

Enrico Resti, Ferdinando Boc­coni, Milano, Egea, 1990, pp. XI-124, sip.

La biografia di Ferdinando Bocconi, che possiamo senz’al­tro considerare uno dei princi­pali esponenti della vita econo­mica milanese e italiana tra il 1870 e il 1890, è il tema di que­sto libro accurato e documenta­to, redatto da Enrico Resti, di­rettore amministrativo dell’uni­versità Bocconi e studioso della storia dell’istituto. A lui si deve la riscoperta, avvenuta nel 1976 durante un’ispezione nei ma­gazzini sotterranei dell’ateneo, di un bassorilievo bronzeo, di­menticato negli scantinati per quarant’anni. In esso campeg­gia un motto che sintetizza i motivi che spinsero Ferdinando Bocconi alla fondazione dell’u­niversità, nel nome del figlio caduto: “Munificentia patris, filio sacrificio”. La munificen­za del padre a ricordo del sacri­ficio del figlio.

Come scrive Giovanni Spa­dolini nell’introduzione, se Pie­ro Gobetti avesse conosciuto l’intera parabola di Ferdinando Bocconi, lo avrebbe collocato, insieme a Giovanni Agnelli, tra i “solitari eroi del capitalismo”. Nato a Milano nel 1836, Bocco­ni aveva iniziato la sua attività quale venditore ambulante di stoffe. Nel 1865, valendosi di una schiera di artigiani a domi­cilio, aveva creato, insieme al

fratello Luigi, un magazzino di abiti confezionati, “reagendo ad una mentalità conservatrice che allora imperava in fatto di abbigliamento”, mentalità per la quale gli abiti confezionati venivano comprati soltanto dai rigattieri, dagli acquirenti in difficoltà economiche. Alla bottega di via Santa Radegon- da, primo negozio a sperimen­tare l’illuminazione elettrica, era seguito il “Magazzino livor­nese” di corso di Porta Nuova (1870-1877) dove, insieme ad abiti e cappotti confezionati, si vendevano biancheria, calzatu­re e stoffa per arredamento e l’emporio “Aux villes d’Italie”, poi “Alle città d’Italia” (1877- 1889), primo esempio italiano di grande magazzino, con stabi­limento di produzione e succur­sali nelle principali città italiane e a Parigi. Presto anche questo magazzino doveva rivelarsi in­sufficiente, per cui nel 1889 ve­niva inaugurato, tra via Santa Radegonda e via San Raffaele, il Magazzino fratelli Bocconi che avrebbe poi preso l’attuale denominazione “La Rinascen­te”, proposta da Gabriele D’Annunzio. Quest’ascesa era contrassegnata da alcuni con­flitti di carattere sindacale (già nel 1880 il magazzino contava trecento dipendenti) quali, ad esempio, la contestazione, da parte delle organizzazioni ope­raie, dell’apprendistato gratuito per un anno, dell’orario di la­voro stressante, delle paghe scarse e della mancata osser­vanza del riposo festivo, pro­blema quest’ultimo risolto nel 1883.

Nel 1896 intanto Ferdinando Bocconi era colpito da una tra­gedia: la morte del figlio Luigi

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nella battaglia di Adua, dove si era recato sotto la veste di cor­rispondente de “La Riforma”, in realtà quale volontario. Luigi Bocconi è descritto dall’autore come uomo sensibile alle que­stioni sociali, a disagio per la propria posizione economica privilegiata e per il fatto che i ceti popolari dovessero soppor­tare gli oneri del servizio milita­re mentre i ricchi potevano evi­tarli. Era questa la molla che lo doveva spingere a partire per l’Abissinia. Scelta questa che, considerata la premessa, lascia un po’ perplessi, in quanto ef­fettuata mentre tutte le forze progressiste si battevano contro la spedizione africana. Sempre molto sensibile ai problemi del­l’istruzione, Ferdinando Bocco­ni aveva sempre avvertito la ne­cessità di un’organizzazione scolastica che avviasse i giovani all’esercizio del commercio. Il dolore per la morte del figlio lo portava a concepire una realiz­zazione che, perpetuandone la memoria, intitolasse a suo no­me “un’istituto universitario per dare rigore scientifico agli studi ed alle tecniche commer­ciali”. Sorgeva così, con l’aiuto di Leopoldo Sabbatini, allora segretario della Camera di com­mercio e grazie ai consigli ed ai suggerimenti dei più importanti operatori economici dell’epoca, l’università Luigi Bocconi, la cui istituzione in ente morale doveva essere approvata dal R.D. 29 settembre 1902, n. 365. Resti riporta nel volume le in­terpellanze favorevoli e contra­rie al provvedimento. Tra le prime ricordiamo quella di Maino, presentata anche a no­me di Mangiagalli, Turati e Ca- brini, il cui consenso era moti­

vato dal fatto che la scuola non costava “un centesimo al bilan­cio dello Stato” e rendeva “grandi servigi alla cultura del Paese”. Ferdinando Bocconi moriva poi nel 1908, dopo esse­re stato nominato senatore nel 1906.

Le varie tappe della sua vita sono considerate dall’autore nel quadro della situazione econo­mica italiana, caratterizzata, dopo la stagnazione succeduta all’unità d’Italia ed alla guerra d’indipendenza del 1866, dai primi fermenti di ripresa regi­strati nell’Italia settentrionale nel decennio 1880-1890. All’E­sposizione nazionale del 1881, “manifestazione voluta dalla borghesia produttiva milanese per fare il punto sulle conquiste economiche, tecniche sociali e culturali del Paese in un perio­do storico di intensi cambia­menti”, i fratelli Bocconi parte­cipavano non solo quali esposi­tori ma quali organizzatori e fi­nanziatori della mostra. Il volu­me è corredato da numerose il­lustrazioni di carattere storico utili per integrare le notizie for­nite dal testo.

Franco Pedone

Mario Genco, Il Delegato, Pa­lermo, Sellerio, 1991, pp. 117, lire 12.000.

“Questo non è un libro di storia” avverte l’autore nella “Notizia” in cui dà conto delle fonti bibliografiche ed archivi­stiche sulle quali il suo volumet­to — che non è di storia — è però “tutto costruito”. E que­sto equivoco tra scienza e non scienza, tra sapere alto e sapere medio si ripresenta nel libro a

partire dalla stessa “Notizia” in cui, accanto alle buste dell’Ar­chivio centrale dello Stato o dell’Archivio di Stato di Paler­mo, accanto a La Sicilia rico­struita nel volume curato da Maurice Aymard e Giuseppe Giarrizzo per la Storia d ’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi (Torino, Einaudi, 1987), viene segnalato, con mossa tra inge­nua ed anticonformista, L ’esa­me di Storia di C. Monti, uno dei classici manualetti Bignami. Più serio e non privo di conse­guenze l’equivoco sulla natura scientifica degli scritti di Anto­nio Cutrera, delegato di polizia, che vive nei decenni a cavaliere tra Otto e Novecento in una Si­cilia animata dai moti socialisti, non meno che dal banditismo e dalla mafia. Cutrera associa ai suoi doveri di funzionario un’attività di studioso ‘poligra­fo’. Inizialmente — tra il 1896 ed il 1911 — le sue opere (i suoi “opuscoli”, come altri diranno) riguardano gli oggetti stessi del suo ufficio: la malavita paler­mitana, la mafia, il banditismo, la prostituzione. Poi nel delega­to cresce il risentimento per i troppo scarsi riconoscimenti che dall’ufficio gli vengono e si­no al 1938, anno della morte, dimentica le sue prove di socio­logia criminale riversando ogni vena creativa in una “miscella­nea febbrile” di storia, architet­tura, scultura, pittura.

Che rango attribuire a questa produzione — o almeno alla prima, alla quale Cutrera vero­similmente dedicò le migliori energie e connesse le più legitti­me ambizioni? Lo studio del 1896 sullo sfruttamento della prostituzione a Palermo (I Ri- cottari) ebbe recensioni favore­

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voli, tra cui quella de “La scuo­la positiva” di Enrico Ferri (della qual rivista, peraltro, Ou­trera era stabile collaboratore); La mafia ed i mafiosi, uscito al­lo scoccare del secolo, fu elo­giato sulla “Rivista popolare” da Napoleone Colajanni ed en­trò nel novero dei classici sul­l’argomento, citato da celebri autori stranieri; lo studio su la Storia della prostituzione in Si­cilia ha più recentemente fatto scrivere a Massimo Ganci che addirittura Cutrera vi “anticipa la moderna storiografia di ten­denza sociale”. Ma se si inter­pella l’oracolo burocratico, quella piramide gerarchica alla quale insistentemente Cutrera si rivolse perché le sue opere ve­nissero riconosciute meritevoli di procurargli un avanzamento di carriera, la risposta sul rango di quelle opere è di tutt’altro se­gno. Nel 1896, 1’ “opuscolo” / Ricottati, inviato per via (e con benedizione) gerarchica al di­rettore generale della Pubblica sicurezza con lo scopo di solle­citarne una “adeguata gratifica­zione”, non ne viene ritenuto degno; qualche anno più tardi, nel 1908, al delegato che pre­tende di far valere le proprie pubblicazioni come titolo di merito, una decisione del Con­siglio di stato oppone che “il giudizio sulle medesime” non può spettare all’autore; infine, all’infaticabile funzionario-stu­dioso non verrà neppure rispar­miato, alle soglie ormai del pensionamento, l’ultimo più in­famante sospetto, ventilato in un rapporto del prefetto di Messina, quello di plagio.

Si dirà che una direzione ge­nerale di polizia non è certo istanza d’elezione per il ricono­

scimento dei meriti scientifici, tanto più se questi si coniugano con uno spirito non sufficiente- mente modesto. Ed è sicuro che negli scritti di Cutrera si ritro­vano facilmente giudizi severi sull’operato dei superiori in vi­cende spinose come erano allo­ra banditismo e mafia — una circostanza che non dovette ben disporre quei superiori ad una positiva valutazione dell’attivi­tà ‘sociologica’ di Cutrera. Si approda così, del tutto logica­mente, ad una doppia verità: quella del mondo scientifico, in cui Cutrera trova apprezzamen­to e addirittura protezione (ad esempio da parte di personaggi come Vittorio Emanuele Orlan­do o Gaetano Mosca) e quella del mondo burocratico, che ci presenta un funzionario opaco, eternamente qualificato come “buono” (ovvero, nel lessico degli uffici, come mediocre), a stento promosso vicecommissa­rio. Proprio la verità del mon­do burocratico potrebbe allora costituire una delle chiavi di let­tura de II Delegato. È una veri­tà che si svolge parallela ad al­tre: che mantiene in vita il bri­gante Varsalona altrove morto, che fa di ragazzi e vecchi arre­stati per le strade di Tripoli dei prigionieri di guerra, che fa di un segugio di socialisti un so­cialista. Accanto a questa chia­ve di lettura altre però se ne po­tranno proficuamente applica­re, meno letterarie, meno piran­delliane. Il volumetto diviene allora un breve, ma succoso saggio, con utili spunti di storia della sociologia e del banditi­smo, soprattutto con frammen­ti di estremo interesse per la comprensione degli svolgimenti reali della vicenda amministra­

tiva italiana: dalle condizioni economiche dei funzionari, alle interferenze dei deputati; dal si­gnificato delle onorificenze, al paper flow tra autorità periferi­che e centrali. Il tutto nelle vo­lute di una narrazione ben con­gegnata che sa prestare ad un brano di storia la seduzione di una story.

Fabio Rugge

Nicla Capitini Maccabruni, Liberali, socialisti e Camera del Lavoro a Firenze nell’età giolit- tiana (1900-1914), Firenze, Ol- schki, 1990, pp. 438, lire52.000.

Con questo ampio studio l’autrice intende fornire un quadro analitico dello sviluppo delle lotte politiche in Firenze dall’inizio del Novecento allo scoppio della prima guerra mondiale, privilegiando l’esame dell’attività della locale Camera del lavoro, nata nel 1893, e del partito socialista che la guida­va. Emerge evidente il contra­sto iniziale tra la maggioranza municipale liberalmonarchica, che non considerava la Camera del lavoro quale unica rappre­sentante degli interessi operai, e il ristretto gruppo socialista, per il quale essa era al contrario il principale strumento di orga­nizzazione operaia e un elemen­to di intermediazione tra il Co­mune e le richieste del proleta­riato. Soltanto l’indebolimento della giunta, causato dall’inef­ficienza dei suoi membri e dal crescente anticlericalismo, per­mise nel 1907 la conquista del municipio da parte del ‘blocco popolare’, costituito da sociali­sti, repubblicani e democratico­

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sociali. Nei tre anni in cui si mantenne alla guida della città, furono considerate in modo più ampio le funzioni municipali, così da consentire a fasce sem­pre più larghe della popolazio­ne fiorentina di usufruire dei principali servizi pubblici (istru­zione, trasporti urbani, edilizia popolare, assistenza ai lavora­tori, igiene pubblica, eccetera), senza perseguire con accani­mento, come aveva fatto invece la precedente giunta, l’equili­brio del bilancio. Uno degli obiettivi principali fissati dal gruppo socialista fu l’estensio­ne della municipalizzazione a nuovi settori (trasporti tranvia­ri, illuminazione, eccetera), po­litica da sempre avversata dalle forze moderate.

Minuziosa è la ricostruzione delle lotte interne al ‘blocco po­polare’ fiorentino tra il 1909 e il 1910 (abbandono da parte dei democratico-sociali, tendenza all’autonomia dei repubblicani, propaganda astensionista dei socialisti sindacalisti), che favo­rirono la riconquista liberale del Comune. Ulteriormente danneggiati dal fallimento dello sciopero generale contro la guerra di Libia e dall’apparizio­ne dei cattolici nella vita politi­ca dopo il patto Gentiioni, i so­cialisti uscirono definitivamente dalla giunta municipale dopo le elezioni del gennaio 1915.

Il lavoro di Nicla Capitini Maccabruni, realizzato preva­lentemente attraverso lo spoglio di numerosi giornali cittadini, degli atti del Consiglio comuna­le e dell’Annuario statistico (mancando quasi del tutto, co­me nota l’autrice nella premes­sa, materiale archivistico) è si­curamente accurato ed estrema­

mente ricco di notizie particola­ri, anche se spesso prevale in es­so la scrupolosità cronachistica, a danno della vivacità comples­siva della discussione e della rappresentazione dinamica del­la vita cittadina. Molto interes­santi sono infine le appendici riguardanti lo sviluppo indu­striale di Firenze nell’età giolit- tiana e l’entità delle forze orga­nizzate dalla locale Camera del lavoro.

Èva Del Fabro

Lucio D’Angelo, La democra­zia radicale tra la prima guerra mondiale e il fascismo, Roma, Bonacci, 1990, pp. 488, lire48.000.

L’autore, che ha trattato già il radicalsocialismo in un bel te­sto di qualche anno fa (Radical­socialismo e radicalismo sociale in Italia 1892-1914, Milano, Giuffrè, 1984), ripercorre la storia dei radicali mettendone in luce le varie linee politiche, le divisioni interne, le aspirazioni ideali, in una ricerca che si fa apprezzare per la puntualità della ricostruzione e per il vasto apparato documentario impie­gato. Il partito radicale non so­lo era diviso in ‘correnti’, ma denunciò sempre una scarsa coesione tra deputati e direzio­ne centrale. Questa mancata unità era dovuta anzitutto ai di­versi interessi tra queste due componenti del partito: i depu­tati erano interessati alla ricon­ferma del mandato parlamenta­re e perciò orientati a seguire una strategia di clientele e linee politiche personali, la direzione era invece attenta a stabilire in­dirizzi generali che corrispon­

dessero ai propri ideali riformi­sti e democratici. Ma vi era un altro elemento che rendeva de­bole la formazione radicale: la struttura di partito ancorata a un modello ottocentesco in un momento in cui, invece, si sta­vano delineando i partiti di massa. Una struttura, quindi, poco adeguata ai tempi e poco idonea a sostenere le prove elet­torali con la proporzionale e lo scrutinio di lista. Questi ele­menti di divisione e di debolez­za furono costanti nei radicali e a poco valsero i ripetuti tentati­vi di riorganizzazione interna. Auspicata, richiesta e decisa più volte, tale riorganizzazione, che doveva portare il partito ad es­sere più adeguato ai tempi, fu sempre rinviata o ‘dimenticata’ o superata da nuove fratture. Essa doveva servire al partito a mantenere l’unità, a dare mag­giore omogeneità alle sezioni e a fronteggiare i partiti di massa con più efficacia.

Accanto ai problemi di ordi­ne ‘interno’, i radicali si trova­rono alle prese con le difficoltà ad allargare la propria base elettorale ed a stabilire ‘allean­ze’ con altre formazioni politi­che. Da un punto di vista elet­torale, i ceti medi dovevano es­sere la base sociale dei radicali, ma il partito non offriva suffi­ciente affidabilità politica a una classe sociale in quel periodo così inquieta. Da un punto di vista politico, la linea democra­tica, antirivoluzionaria e favo­revole alle riforme, poteva esse­re meglio perseguita, secondo molti esponenti radicali, con al­leanze di tutto lo schieramento democratico. Ma anche in que­sto caso l’obiettivo sfuggì per molto tempo: soltanto alla fine

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del 1921, infatti, si costituì il gruppo parlamentare di demo­crazia sociale e, nell’aprile del 1922, l’omonimo partito, nel quale si ricrearono le divisioni così come la debole struttura organizzativa.

Ricco di brillanti individuali­tà, il partito radicale non riuscì, insomma, ad essere un partito vero e proprio. Tra i suoi prin­cipali esponenti emerse, tra gli altri, la figura di Meuccio Rui­ni, che fu tra i più attivi a ripor­tare il partito sulla strada delle riforme (particolarmente inte­ressante è il paragrafo dedicato a quelle istituzionali). Questa strada fu comunque ostacolata dalla frammentarietà dell’ini­ziativa del partito e alle con­traddizioni a cui esso era espo­sto, la più evidente delle quali fu la tolleranza, quando non l’aperta simpatia, di alcuni membri radicali, e poi demoso­ciali, verso il fascismo, fino a votare la fiducia a Mussolini e a partecipare al suo governo.

Marco De Nicolò

Storia generale e di altri paesi

Marcello Flores, L ’immagine dell’URSS. L ’Occidente e la Russia di Stalin (1927-1956), Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 434, lire 60.000.

A spiegare quale sia il conte­nuto di questo libro serve più il sottotitolo del titolo. Protago­nista, infatti, non è l’Unione sovietica di Stalin bensì l’Occi­dente di fronte ad essa. O, per meglio dire, al centro dell’at­tenzione dell’autore è l’atteg­

giamento di scrittori giornalisti viaggiatori emigranti europei e nordamericani, dei quali vengo­no seguiti i percorsi intellettua­li, individuali e di gruppo. Si tratta perciò di una storia delle risposte che l’Unione sovietica sembra dare ai problemi del­l’Occidente, storia intessuta di aspettative speranze disillusioni e delusioni.

Costruito su una base biblio­grafica a tutto campo, il saggio ha un nucleo centrale che copre l’arco di tempo dalla fine degli anni venti allo scoppio della guerra; una lunga premessa ed un lungo epilogo esaminano la fase precedente e quella succes­siva fino al XX congresso. Co­me nasce il mito dell’ottobre? È questo il primo interrogativo e, nel rispondere ad esso, Marcel­lo Flores stabilisce la linea in­terpretativa di fondo. Fin dal­l’inizio il mito è assai meno conseguenza di un’adesione ideologica all’Unione sovietica che risposta ai bisogni della so­cietà occidentale: in un primo momento bisogni di solidarietà, di palingenesi, di una società nuova e così viva. È un vizio di origine, questo, al quale pochi riusciranno a sottrarsi. Da esso deriva una particolare attenzio­ne, una sensibilità che farà da filtro all’osservazione della realtà sovietica. Se già sul finire degli anni venti si comincia a guardare all’Unione sovietica con curiosità ad ampio raggio, è soprattutto il crollo di Wall Street, il simbolo della crisi mo­rale dell’Occidente, a dare nuo­va linfa al mito dell’Ottobre. Di fronte all’apatia, alla perdita di slancio morale, allo scoramento che un’ampia fascia di intellet­tuali colgono nelle società occi­

dentali, il marxismo rappresen­ta la nuova religione e il carat­tere etico appare come la nota fondante dell’esperienza sovie­tica. In molti l’adesione tende a diventare militante, si manife­sta con un “impianto di giusti­ficazione” particolarmente evi­dente di fronte al fenomeno dei processi staliniani. A questo punto, come nota Flores (p. 276), l’esigenza di cogliere dal­l’interno la realtà sovietica vie­ne meno quasi completamente, e a ciò contribuisce in maniera sensibile la progressiva imper­meabilità della società russa.

Nella seconda metà degli an­ni trenta la guerra di Spagna prima e il delinearsi della mi­naccia nazista poi dirottano l’interesse per l’Unione sovieti­ca in altre direzioni, legate so­prattutto a ragioni di politica internazionale, quelle ragioni che di lì a poco creeranno l’im­magine di Uncle Joe, dell’allea­to nella lotta contro il nazifasci­smo. Sul finire degli anni trenta siamo dunque ad un momento di svolta, ad un vero e proprio spartiacque nella storia che Flo­res racconta: come egli precisa, per gli intellettuali dell’Occi­dente il problema non sarà più quello di capire il sistema sovie­tico; essi piuttosto si dediche­ranno “a smascherare la falsa coscienza [di coloro che] aveva­no aderito al comuniSmo” (pp. 326-327). Siamo, dunque, all’e­pilogo, per così dire all’uscita di scena degli intellettuali come osservatori ed interpreti della realtà sovietica. L’analisi di Flores si ferma sostanzialmente qui. Il rovesciamento dell’im­magine dell’Unione sovietica nel passaggio dall’alleanza anti­nazista alla guerra fredda è fe­

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nomeno con cui gli intellettuali hanno poco a che vedere. Sono, mi sembra, i diplomatici, le co­munità di intelligence a svolgere ruoli di primo piano. Ma que­sta, com’è ovvio, è un’altra storia.

Giampaolo Valdevit

Mary Berg, Il ghetto di Varsa­via. Diario (1939-1944), Tori­no, Einaudi, 1991, pp. 289, lire22 .000.

Scampata fortunosamente al­l’inferno del ghetto di Varsavia durante la seconda guerra mon­diale, in quanto protetta dal passaporto statunitense ed in virtù d’uno scambio tra prigio­nieri, l’autrice, allora ventenne, ha potuto pubblicare questo diario ancora avanti il termine del conflitto. Edito adesso per la prima volta nel nostro paese, va detto che a tanti anni di di­stanza spicca tuttora per la puntualità nell’informazione, per il quadro complessivo della tragedia ebraica in Polonia che sostanzialmente giunge a dare con grande equilibrio e per le descrizioni significative ed inci­sive di figure e figurine, di av­venimenti ed episodi della vita quotidiana che vengono regi­strati mese dopo mese. Invero Mary Berg, grazie alla posizio­ne della sua famiglia, di parten­za agiata, potrà avvantaggiarsi di qualche beneficio che ne fa­vorirà la sopravvivenza: ad esempio, il padre, un tempo ric­co antiquario, riuscirà a diven­tare nel dicembre 1942 portiere della casa ove abitano. E tutta­via essa non può non constatare gli abissi di miseria e squallore che la circondano, la precarietà

dell’esistenza, l’immane gorgo in cui un’intera popolazione viene ineluttabilmente trasci­nata.

Per le notevoli capacità d’os­servazione (lo snodarsi delle vi­cende della vita rivelano in Berg una personalità dotata di sensi­bilità figurativa e musicale) è così rappresentata un’umanità bramosa di vita, pur in un uni­verso di morte, un susseguirsi di amiche, compagni di scuola, poliziotti ebrei, mendicanti, borsari neri, insegnanti assetati d’una melodia, della vista d’un fiore, alla caccia disperata d’un tozzo di pane, d’una buccia di patata. Talché particolarmente struggenti si manifestano l’an­sia con cui coloro che per una coincidenza di casi hanno evita­to il massacro seguono da lon­tano, con estrema apprensione, le ultime vicissitudini del ghetto ed il senso di smarrimento, quasi l’avvertire un’ingiustizia imperscrutabile, per essere sfuggiti alla sorte comune.

Guido Valabrega

Loris Gallico, L ’altro Medi- terraneo tra politica e storia, Chieti, Vecchio Faggio, 1989, pp. 290, lire 26.000.

Ad alcuni anni dalla scom­parsa di Loris Gallico vengono ora ristampati in volume alcuni dei suoi saggi più significativi, che hanno come epicentro i po­poli che vivono sulla sponda araba del Mediterraneo. “Ciò che oggi appare chiaro a tutti, — fa rilevare Maurizio Valenzi nella prefazione — non lo era fino a pochi anni or sono, quando Loris è stato tra i pochi

ad avvertire il pericolo derivan­te dall’insensibilità di molti po­litici italiani ed europei verso le vicende drammatiche dei popoli islamici e dal conseguente ritar­do a prendere coscienza del pe­so sempre più grande che que­sta parte dell’umanità andava assumendo nella politica mon­diale”. Gallico possedeva tutti i requisiti per poter svolgere una profonda e lucida analisi degli avvenimenti accaduti nei paesi del Maghreb. Nato a Tunisi nel 1910, aveva frequentato le loca­li scuole italiane sino al liceo, sperimentando di persona gli effetti nocivi della propaganda fascista che tendeva a sovvertire l’ordine in Tunisia, da anni ri­vendicata dal regime. Antifasci­sta, direttore a 26 anni del setti­manale “L’italiano di Tunisi”, si era iscritto al partito comuni­sta tunisino, ancora illegale, ed a fianco dei militanti arabi si era impegnato a fondo per ac­celerare il tramonto della pre­senza coloniale in Tunisia. Confinato dal governo fascista di Vichy nei campi di concen­tramento di Sbeitla e di Le Kef, durante la seconda guerra mon­diale, ancora una volta aveva condiviso le sofferenze e le spe­ranze dei comunisti arabi. La sua conoscenza del mondo ara­bo (per due anni aveva anche frequentato l’università di Al­geri prima di laurearsi in legge a Lione) era dunque diretta, va­sta, approfondita. E l’aveva ul­teriormente arricchita tra il 1964 e il 1969, quando “l’Uni- tà” lo aveva mandato ad Algeri come corrispondente.

I grandi mutamenti nel nord Africa tra il 1930 e il 1980 tro­varono perciò in Loris Gallico uno fra gli osservatori più at-

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tenti e sensibili, scrupolosi e ri­spettosi. I suoi saggi sull’Alge­ria, la Tunisia e la Libia, anche a distanza di anni restano vali­dissimi ed utili. “Il suo contri­buto e le sue sollecitazioni — sottolinea giustamente Guido Valabrega, uno dei curatori del libro — si qualificheranno subi­to per il rigore espositivo e lo sforzo di inquadrare sempre l’avvenimento specifico nei pre­cedenti storici e in riferimento alle condizioni socioculturali indispensabili per la conoscenza del Maghreb, quanto sovente trascurati dai compilatori meno attenti e preparati”.

L ’Algeria a nove anni dall’in­dipendenza, scritto nel 1971 per “Politica ed economia”, è, ad esempio, un saggio estrema- mente ricco di dati e di osserva­zioni acute. Il bilancio che Gal­lico presenta dell’Algeria alla fine della guerra contro la Francia è semplicemente cata­strofico. Ottomila villaggi rasi al suolo; tre milioni di algerini sradicati dai loro focolari; sei- centomila ettari di foreste ince­nerite dal napalm; il patrimonio bovino annientato e quello ovi­no più che dimezzato; le fron­tiere con la Tunisia e il Maroc­co trasformate in una trappola mortale a causa degli immensi campi minati. Non fossero ba­stati questi danni, la ricostru­zione del paese era fortemente rallentata da due particolarità della struttura sociale algerina: l’emigrazione in massa verso la Francia del proletariato indige­no e l’assenza di una borghesia nazionale in grado di rimpiaz­zare, nei posti di responsabilità, le centinaia di migliaia di fran­cesi che erano precipitosamente rimpatriati. “Con la fuga dei

francesi, — scrive Gallico — l’Algeria si libera di una forza d’urto e di un presidio anche fi­sico della dominazione colonia­le. Ma il reddito non si riversa automaticamente sugli algerini; al contrario se ne disseccano le fonti. [...] La produzione dimi­nuisce del 70 per cento”. 11 de­collo dell’Algeria era inoltre re­so difficile dall’incapacità dei governanti di realizzare una ri­forma agraria generalizzata e dalla mancanza di capitali per favorire l’industrializzazione del paese.

Nella critica e nell’elogio Gallico è sempre misurato. Non trancia mai giudizi, si sforza in­vece di capire e di trasmettere agli altri, nella forma più pia­na, il risultato delle sue osserva­zioni. Inoltre non ha mai una visione eurocentrica degli avve­nimenti, ma la giusta apertura verso popoli che hanno già an­che troppo sofferto per l’in­comprensione e la superficialità di frettolosi cronisti. Un altro tema caro a Gallico è quello dell’Islam e dei difficili tentativi per conciliare questa religione con gli sviluppi capitalistici del mondo, con le conquiste della scienza, col moderno laicismo e col pensiero marxista. Affron­tando questo tema Gallico sfata molti luoghi comuni e demoli­sce altrettanti pregiudizi. “L’I­slam, di per sé, non ostacola né riforme né movimenti rivolu­zionari; — scrive nel saggio Aspetti dell’Islam odierno — non vi è versetto o hadith che sembra rifiutarli, ai quali non si possa contrapporre un versetto o hadith che invece li giustifi­chi. Si comprende così come i popoli che presentano, forse, ancora la più intensamente vis­

suta religiosità nel mondo siano anche tra quelli che, tenendo conto del punto di partenza, dopo una lunga stagnazione en­dogena e una soffocante domi­nazione esogena, si sono posti con passo più deciso di molti altri sulla via della ricostruzione economica e del progresso so­ciale”.

Angelo Del Boca

Michel Dreyfus, Pcf. Crises et dissidences, Bruxelles, Editions Complexe, 1990, pp. 286.

Negli ultimi anni sono venuti moltiplicandosi gli studi — an­che di parte comunista, ma più sovente ad opera di ex comuni­sti o di ricercatori estranei an­che quando non ostili all’uni­verso mentale del Pcf — che hanno gettato luce su momenti o aspetti particolari della lunga vicenda del comuniSmo france­se. Una vera e propria storia del partito comunista francese, tuttavia, resta ancora da scrive­re. È nella consapevolezza della persistenza di questa lacuna che l’autore, con questo volume, ci dà un contributo ben calibrato alla comprensione di un feno­meno che se scandisce le fasi successive della presenza del partito nello spazio politico del­la Francia contemporanea, co­stituisce anche un eccellente ri­velatore del suo modus operan­di: le crisi che hanno di volta in volta condotto alla rottura col partito di questo o quel gruppo, di questa o quella personalità di rilievo.

Michel Dreyfus, forte di una familiarità, attestata da nume­rosi contributi apparsi nelle sedi più svariate, con le peripezie del

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comuniSmo e del socialismo francese ed europeo tra le due guerre, è particolarmente ben attrezzato per trattare il tema con la dovuta informazione e con la capacità di sfruttarne le potenzialità euristiche. Delle crisi attraversate nei suoi primi anni di esistenza fino a quelle succedutesi ad un ritmo vieppiù incalzante nel corso degli anni ottanta, vengono individuate con sicurezza tanto le invarian­ti, che non son poche, quanto i tratti specifici legati alle diverse fasi di sviluppo del partito e al mutare del suo collocarsi rispet­to alla società francese ed al co­muniSmo internazionale. L’au­tore è particolarmente attento a valutare l’incidenza differenzia­ta che le singole crisi hanno avuto sulle varie componenti dell’universo comunista e sulle sue successive evoluzioni. Esemplare, in questo senso, l’a­nalisi della crisi affrontata nel settembre 1939 a seguito della firma del patto germano-sovie­tico. A prima vista tutto la desi­gna come la crisi più traumatica e come quella che più avrebbe inciso sui destini del partito tanto a breve quanto a lungo termine. E come tale senza dub­bio essa fu percepita dai prota­gonisti. Le cifre, d’altronde, che Dreyfus ricorda sulla scorta di studi recenti, sembrerebbero confermare una siffatta lettura: i 280.000 iscritti dell’agosto 1939 scendono a 5.500 all’inizio dell’estate 1940, 26 deputati su 76 e 114 consiglieri municipali della regione parigina sui 725 che il partito ivi vantava abban­donano il partito. Eppure, a partire dal giugno 1941, il Pcf si sarebbe rivelato perfettamen­te in grado di cogliere l’oppor­

tunità che la nuova congiuntura internazionale gli offriva e, gra­zie al ruolo svolto nella Resi­stenza, avrebbe rimontato rapi­damente la china tanto da rag­giungere alla fine della guerra l’apice della potenza e dell’in­fluenza. Certo, dietro questa spettacolare rimonta non è leci­to sottovalutare il duplice cari­sma conferito al partito dal sa­crificio dei suoi militanti nei combattimenti clandestini e dalle vittorie militari sovietiche sul fronte orientale. Come non convenire, però, con l’autore quando ci fa osservare che la crisi del 1939-1940, per quanto avesse toccato ampiamente la massa degli iscritti, la sfera de­gli amministratori comunali e provinciali, la cerchia parla­mentare e una parte del mondo intellettuale (esemplare il caso di Paul Nizan), lasciò pratica- mente intatto il nucleo dirigente e l’apparato burocratico per­manente del partito (un solo membro dell’Ufficio politico e tre membri del Comitato cen­trale su 55 defezionano) così come l’immensa maggioranza dei quadri sindacali?

L’emergere stesso di un nu­cleo dirigente omogeneo, in­condizionatamente fedele alla direzione staliniana della Terza internazionale, saldamente uni­to intorno alla figura carismati­ca di Maurice Thorez e forte di un apparato burocratico ben rodato (tutti elementi che nel 1939-1940 permettono al parti­to di sopravvivere alla più grave delle crisi fino ad allora attra­versate prima di tramutarsi in epoca poststaliniana in un for­midabile ostacolo a qualsiasi evoluzione ed adattamento e di essere quindi all’origine di nuo­

ve crisi) era stato a sua volta il punto d’approdo di una lunga catena di crisi che avevano scandito la vita del partito nel corso dei primi dieci della sua storia. Gli anni venti, in effetti, avevano visto l’abbandono, forzato o volontario, del parti­to da parte di ben quattro se­gretari generali ed erano andati di pari passo con l’esclusione o l’autoesclusione di quasi tutti i fondatori del comuniSmo fran­cese: Ludovic-Oscar Frossard, Paul Louis, Alfred Rosmer, Boris Souvarine, Albert Treint, Henri Sellier eccetera. Seppure accompagnate da un costante declino del numero degli iscritti (dai 110.000 dell’inizio degli an­ni venti ai 20-30.000 del 1933) e da un forte calo elettorale, tutte queste rotture sarebbero state lette dalla memoria ufficiale del partito come altrettanti scotti da pagare alla bolscevizzazione ed alla formazione di un partito di tipo nuovo rispetto alle tradi­zioni del socialismo francese. Alla luce della crescita successi­va nel contesto della crisi eco- nomico-sociale degli anni trenta e della crisi nazionale degli anni quaranta, esse sarebbero state lette retrospettivamente come altrettante crisi di gioventù o di crescita. Difficile, ovviamente, appare invece interpretare in questa chiave le crisi che son venute succedendosi a partire dalla seconda metà degli anni settanta. Ad esse l’autore dedi­ca ampio spazio, attento a co­glierne al tempo stesso l’analo­gia — per i settori del partito di volta in volta coinvolti e per l’incapacità (vera costante della lunga vicenda del partito e al­l’origine dell’impossibilità per esso di elaborare una propria

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storia) da parte del gruppo diri­gente di trattarle e di renderne conto — con le crisi del passa­to e la irriducibile novità. Si ha l’impressione che il partito, in questi ultimi anni, ripercorra in senso inverso il cammino intra­preso all’inizio degli anni venti: “...De 1920 à 1930 le Pc s’est bâti en éliminant tout ce qui lui semblait hétérodoxe. Il conti­nue aujourd’hui d’éliminer toute manifestation contestatai­re même virtuelle mais dans le contexte plus général d’une évolution toute différente: cette répression se fait au détriment de l’organisation ce qui ne l’empêche pas des persévérer dans une voie apparemment suicidaire...”.

Certo, e su questo conclu­derò consapevole di aver pre­sentato solo alcuni dei pun­ti sollevati da un lavoro ricco di suggestioni, Dreyfus sa per­fettamente che a monte dell’in­voluzione e del declino (sulla cui irreversibilità o meno del resto l’autore è molto pruden­te) recente del Pcf non sta solo la fossilizzazione di un modo di essere in quanto partito che a suo tempo aveva assicurato la sua forte presenza nello spa­zio politico francese. Un ruo­lo per lo meno altrettanto im­portante lo occupano la crisi del comuniSmo internazionale— rispetto ai cui destini do­po averli a lungo sposati in­condizionatamente sembra ora voler navigare controcorrente— e i cambiamenti struttura­li profondi che la società fran­cese ha conosciuto a partire dagli anni settanta. Ma questa è un’altra storia.

Antonio Bechelloni

P ier P aola Penzo, Parigi do­po Haussmann. Urbanistica e politica alla fine dell’Ottocento (1871-1900), Firenze, Alinea, 1990, pp. 238, lire 30.000.

Se la Parigi del prefetto Haussmann ha impegnato mol­ti studiosi e mobilitato ricerche dal taglio diverso, molto meno si sa del periodo immediata­mente successivo di cui invece si occupa l’autrice di questo volu­me. Si tratta pur sempre di una fase di grande interesse se, co­me ci viene ricordato, è proprio a fine secolo che Parigi recupe­ra il ritardo accumulato rispetto alle città statunitensi relativa­mente alle infrastrutture e ai servizi urbani. Basta accennare al fatto che intorno all’anno 1900 la futura metropoli si tro­va dotata di una nuova rete fo­gnaria, di un servizio ramifica­to di tramvie elettriche e dei primi tronchi della metropolita­na. Tuttavia è un periodo che è stato certamente più trascurato dalla ricerca, forse, così si sug­gerisce qui, proprio in quanto momento di passaggio, non ben definibile nei suoi caratteri, tra l’epoca d’oro dei grands tra­vaux haussmanniani, tutta ot­tocentesca, e i primi contributi francesi alla nascente disciplina urbanistica, che risalgono inve­ce ai primi dieci anni del Nove­cento, agli interventi di Eugene Henard e di Toni Gamier.

In linea generale si può dire che non si tratta di una fase do­minata, come le due che l’attor­niano, da prefetti di grande spessore o da ponderose figure di urbanisti, quanto piuttosto da una dialettica intensa che corre tra i funzionari dei Lavori pubblici, in prima linea Adol­

phe Alphand, ex collaboratore di Haussmann e massimo re­sponsabile delle opere pubbli­che fino al 1891, e i consiglieri municipali parigini, attori so­ciali per molti versi nuovi, en­trati in scena con la prima ele­zione a suffragio universale del­l’assemblea municipale nel 1871. Di qui la scelta dell’autri­ce, che, a giudicare dallo stato degli studi, in materia è molto meno ovvia di quanto possa sembrare, di focalizzare l’obiet­tivo di questa ricerca di storia urbana proprio sul consiglio municipale parigino, sui dibat­titi e le decisioni di quest’ultimo in materia urbanistica, e di con­seguenza sul rapporto cruciale che intercorre tra urbanistica, politica e amministrazione.

Il libro ha il pregio di mettere in evidenza problemi finora po­co noti, di sollevare parecchi in­terrogativi sul modello centrali- stico di cui la Francia è in qual­che modo il simbolo e non da ultimo di offrire indirettamente degli spunti comparativi con la situazione coeva di Roma capi­tale; tuttavia porta i segni della indubbia complessità del com­pito, soprattutto in una certa schematicità delle ipotesi che lo percorrono. Da un lato sembra evidente e condivisibile l’imma­gine di uno spostamento linea­re, graduale ma costante, nel trentennio considerato, degli obiettivi di intervento dei poteri pubblici; in estrema sintesi di­ciamo che dalle opere di viabili­tà, eventualmente collegate al- l’enfatizzazione prospettica dei luoghi monumentali, ci si orien­ta sempre più verso la realizza­zione dei servizi tecnici urbani, mentre si allarga il tiro dai quartieri del centro all’insieme

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della città. Fungono da scansio­ni periodizzanti e da forte pun­golo alle realizzazioni i grandi Expo internazionali che in quel periodo Parigi ospita con sca­denze all’incirca decennali. Me­no lineare e univoco di quanto si sottolinei appare invece il ruolo reciprocamente svolto, in questa opera di modernizzazio­ne del volto urbano, dalle auto­rità centrali, strette tutrici del governo della capitale, e dall’é­lite localmente eletta. I due poli istituzionali sviluppano, nella fase tipica del municipalismo diffuso, una notevole carica di conflittualità che si appunta in modo particolare sui tempi e sulle modalità di gestione di quel processo di intervento. È un conflitto che attraversa e anima il dibattito politico del tempo, con risvolti di notevole interesse, ma i cui fili condutto­ri, insieme alle ragioni delle parti e agli esiti stessi del con­tendere, presentano numerose sfaccettature e richiederebbero forse un’analisi più ravvicinata. Si assiste in ogni caso, e ciò emerge con chiarezza nel volu­me aprendo una prospettiva di indagine poco battuta dagli stu­diosi francesi, alla nuova mobi­litazione di una rappresentanza locale composta essenzialmente di imprenditori, di commer­cianti e di professionisti parigi­ni che gradualmente introduco­no, in un’azione che in via ge­nerale rimane appannaggio del­l’autorità governativa, le pro­prie esigenze e i propri punti di vista.

Carlotta Sorba

J on C. Teaford, The Rough Road to Renaissance. Urban

Revitalization in America, 1940-1985, Baltimore and Lon­don, The Johns Hopkins Uni­versity Press, 1990, pp. 383, sip.

L’autore è uno storico che giunge a misurarsi con il tema della grande città statunitense del tempo presente dopo un ‘ti­rocinio’, che si è spinto ben ol­tre gli studi su questo secolo e sulla fine di quello scorso ri­chiamati in quarta di copertina. Avendo, oltre a questi ultimi, pubblicato già nel 1975 un libro dal titolo The Municipal Revo­lution in America. Origins o f Modera Urban Government, 1650-1825, (Chicago, Univer­sity of Chicago Press), e, nel 1979 City and Suburbs the Poli­tical Fragmentation o f Metro­politan America, 1856-1970 (Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press), Jon C. Teaford può in realtà guardare all’ultimo mez­zo secolo di storia da un osser­vatorio che contempla un arco cronologico ben più esteso di quello che egli considera in que­sto lavoro. Un certo orgoglio di storico egli manifesta, del resto, con qualche franca stoccata nei confronti dei social scientists che si sono dedicati al suo tema, affrontandolo con quella loro “inclinazione alle generalizza­zioni” in cui Teaford intravede il fomite di “affermazioni gros­solanamente generiche”. Ri­spetto ad esse egli rivendica alla propria ricostruzione — e non a torto — una minore ansia di co­stringere gli avvenimenti nella camicia di Nesso delle spiega­zioni monocausali ed univoche.

A ben vedere, è proprio que­sto ‘scetticismo storiografico’ a fornire a Teaford lo spunto nar­

rativo (o polemico) per il pro­prio racconto; il quale sembra svolgersi in un contrappunto, a volte esplicitamente divertito, tra le vicende complicate e a volte dolorose delle older cen­trai cities statunitensi e l’enfati­co, perentorio annuncio della loro rinascita, ricorrentemente formulato da amministratori, politici, opinion leaders, sem­pre pronti a proclamare un “grande ritorno” di questa o quella città o della città più in generale. Dagli anni cinquanta in poi — scrive Teaford — “nelle pagine del ‘Time’ e di una miriade di altre pubblica­zioni, le vecchie grandi città son state accreditate di più ‘ritorni’ di una star hollywoodiana sulla via del tramonto” . Quest’ulti- ma frase, peraltro, dice già quale sia il bilancio tratto dal­l’autore: i quattro decenni che egli analizza rimangono, nono­stante ogni tentativo di palinge­nesi, un’età di tramonto, nella quale le older central cities, le vecchie ‘capitali’ del Nordest e del Midwest, si allontanano ine­sorabilmente dalla loro “posi­zione stellare” nel paesaggio nordamericano: la rinascita è “una meta che non si lascia rag­giungere”.

Cionondimeno, a dispetto cioè della smentita infetta dai fatti alla parola d’ordine della rinascita — e della puntuale raccolta di tali fatti che il volu­me ci offre — Teaford non manca di prendere sul serio i reiterati proclami di una renais­sance. Ciò non solo perché quei proclami hanno pur sempre avuto un qualche fondamento reale, per quanto limitato nella consistenza e nella durata, ma soprattutto perché essi hanno

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costituito un importante mo­mento della stessa strategia di ‘rivitalizzazione’ urbana messa in atto dai governi locali: an­nunciare che la città viveva o stava per vivere un nuovo mo­mento di splendore sembrava poter innescare un circolo vir­tuoso, che, attraverso il ritorno alla città dei residenti benestan­ti, degli investitori immobiliari, della grande distribuzione, dei flussi turistici poteva davvero ricondurre infine allo splendore annunciato. Gli annunci della rinascita rappresentano insom­ma un elemento di quello che si può senz’altro definire l’ogget­to principale del libro: le politi­che con le quali i governi muni­cipali hanno tentato di fronteg­giare alcuni aspetti più clamo­rosi del declino delle città in questione. Teaford considera dodici centrai cities: New York, Chicago, Philadelphia, Detroit, Baltimore, Cleveland, Boston, Saint Louis, Pittsburgh, Buffa­lo, Cincinnati, Minneapolis. Si tratta — come si vede — di cit­tà con strutture socioeconomi­che tra loro differenti, ma acco­munate, rispetto alle ‘capitali’ della Sunbelt o ad alcuni centri suburbani, da trend di crisi inequivocabili: un calo demo­grafico costante, un impoveri­mento della popolazione col conseguente inaridirsi delle fon­ti tributarie, una crisi fiscale persistente che trova il suo epi­sodio emblematico nel 1975, con la “bancarotta” dell’ammi­nistrazione municipale di New York. Accanto a queste, vi so­no circostanze accessorie non meno impressionanti: il ridursi drastico dei dipendenti dell’in­dustria residenti nelle città, drammatico sia in termini asso­

luti che in rapporto alle partico­lari tradizioni di alcune delle ‘capitali’ considerate (vedi De­troit); oppure Io spettro peren­nemente incombente della vio­lenza e della criminalità — il quale fa dire a Teaford che, ne­gli anni settanta, le central ci­ties non potevano dirsi “morte [...ma] molti dei loro abitanti erano sicuramente spaventati a morte” !

Questi tratti negativi non do­minano però incontrastati la scena riprodotta dal libro, nella quale compaiono invece, ben in vista, alcune tendenze positive: ad esempio, un tasso costante di attivismo civico, che, pre­scindendo dalla politica di par­tito, prende ora le forme della responsabilizzazione del busi­ness nei confronti della rinasci­ta urbana (soprattutto nella pri­ma parte del periodo in esame), ora quelle delle iniziative di quartiere a sfondo antirazzista o ambientalista (soprattutto ne­gli anni sessanta e settanta). Tuttavia, a contrastare i trend negativi sono in primo luogo i governi municipali. Essi intra­prendono una serie di progetti che, in buona parte, possono dirsi riusciti: così per la lotta al­l’inquinamento atmosferico — con la quale si vuol rendere me­no svantaggioso il confronto tra qualità della vita urbana e suburbana; così per la lotta alla crisi fiscale, condotto attraver­so la differenziazione dei tributi e severe riduzioni delle spese correnti ovvero forti diminuzio­ni del personale. In questa dire­zione, l’analisi di Teaford non trascura nemmeno alcuni detta­gli istruttivi, come le iniziative di promozione pubblicitaria dell’immagine cittadina o l’af­

fannoso inseguimento dei ma­yor nei confronti di prestigiose squadre di football o baseball in fuga verso località più ricche di strutture sportive e/o più ge­nerose di finanziamenti. Ma gli inseguimenti non sempre rie­scono e, d’altra parte, gli inter­venti, anche i più coraggiosi e costosi, mostrano spesso effetti inattesi — anche se forse non imprevedibili. Accade dunque che le reti di expressways, co­struite negli anni cinquanta per favorire il movimento verso la città, determinino, secondo il principio per cui ogni strada può esser percorsa nei due sen­si di marcia, un ulteriore flus­so centrifugo. Analogamente, quando le città, per elevare lo standard dei propri servizi ri­spetto a quelli del suburb, in­traprendono lo sviluppo di grandi impianti a rete quali ac­quedotti, fogne, eccetera, sono poi obbligate da intuibili ragio­ni economiche ad estendere la fruizione di quei servizi ai cen­tri suburbani, vanificando il vantaggio che su quelli avevano inteso conseguire.

Come si vede una vicenda complessa, anche se narrata in modo da intrattenere il letto­re con un lessico eclettico e spu­meggiante. Protagonisti e vi­cende sono trattati spesso con ironia, quasi sempre con equi­librio. Certo, nel libro si perce­pisce una inequivocabile simpa­tia per le ricette fiscali severe ed un’altrettanto esplicita anti­patia per le “influenze poli­tiche” sui bilanci, soprattut­to per quelle esercitate dai sin­dacati dell’impiego municipale, espressamente accusati di aver tenuto “in ostaggio”, verso la fine degli anni sessanta, i ma-

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yor e le rappresentanze locali. Ma si tratta di valutazioni che anche l’intellettuale europeo — costituzionalmente, e per defi­nizione, liberal — troverà più stuzzicanti che eccessive.

Fabio Rugge

Max H astings, La guerra di Corea 1950-1953. Un conflitto “inutile” che ha segnato il cor­so della storia, Milano, Rizzoli, 1990 (ed. orig. London, 1987), pp. 549, lire 60.000.

Segnaliamo con piacere que­sto nuovo libro sulla guerra di Corea, che non intende sosti­tuirsi alle relazioni ufficiali né ai grossi studi di diverso taglio provocati dalla guerra, bensì offrirne una descrizione d’insie­me attenta sia ai problemi poli­tici e militari, sia alle vicissitu­dini dei combattenti. L’autore, giornalista britannico in Viet­nam e in altre guerre minori, conosce e utilizza la migliore produzione storiografica, ha condotto ricerche proprie negli archivi di Londra e Washington e interrogato oltre 150 reduci inglesi e statunitensi, ma anche cinesi e sudcoreani. Non pre­tende di scoprire novità partico­lari, né di dare spiegazioni ori­ginali, ma nella sua sintesi inse­risce una serie di note interes­santi e vive sull’esperienza dei combattimenti e dei reduci sen­titi. Siamo quindi dinanzi ad una sintesi di alta e corretta di­vulgazione, sempre chiara e leg­gibile (e ben tradotta), che par­teggia dichiaratamente, ma non acriticamente, per gli angloa­mericani, e anzi offre molti spunti di riflessione e apertura.

Rimangono ugualmente limiti di fondo pesanti: malgrado ogni sforzo di obiettività, la sorte dei militari angloamerica­ni caduti prigionieri è vista con sensibilità ben diversa da quella dei prigionieri cinesi e nordco­reani, pur descritta crudamen­te. Ma in complesso il volume si legge bene e con profitto, an­che perché non pretende di dare più di quello che ci si attende da una sintesi di 500 pagine di vi­cende drammatiche, complesse e ancora da noi scarsamente note.

Giorgio Rochat

Cambogia. Capire il dramma cambogiano, a cura di Enrica Collotti Pischel, Alessandria, Wr editoriale, 1988, pp. 268, sip.

Il volume contiene gli atti del convegno omonimo svoltosi nella facoltà di Scienze politi­che dell’università di Milano nell’aprile 1987, sotto gli auspi­ci dell’Istituto di diritto e politi­ca internazionale dell’università degli studi di Milano, dell’Isti­tuto per la storia della Resisten­za e della società contempora­nea in provincia di Alessandria, del Cespi di Milano, di Mani te­se, del Cogis e della Lega per i diritti e la liberazione dei popo­li. Il convegno ha avuto il meri­to di mettere a fuoco la situa­zione di un paese che, nel corso degli anni settanta, è stato dap­prima devastato dalle bombe americane ed in seguito sotto­posto all’allucinante esperienza dei Khmer rossi che, dopo ave­re svuotato le città, hanno co­stretto la popolazione ad un progetto di comuniSmo rurale

forzato che si è trasformato in un vero e proprio genocidio.

Le due relazioni centrali dal titolo La Cambogia e il Viet­nam nel contesto dell’Asia su­dorientale. Una prospettiva sto­rica e Le interferenze del fatto­re internazionale sul dramma cambogiano sono state svolte rispettivamente da Krzysztof Gawlikowski e da Enrica Col­lotti Pischel. La prima fa un’ampia storia della Cambo­gia dall’antichità all’Ottocento, ricordando come quest’ultima fosse divenuta, fin dalla fine del Cinquecento, terreno di scontro tra i due potenti vicini: la Thailandia ed il Vietnam. Si­tuazione questa che aveva in­dotto i governanti cambogiani ad accettare, verso la metà del­l’Ottocento, la protezione fran­cese. La seconda svolge una particolareggiata relazione sugli avvenimenti intercorsi tra la conferenza di Ginevra del 1954 ed il rovesciamento del regime di Pol Pot da parte dei vietna­miti nel 1979. Essa rileva nella conclusione come i nuovi go­vernanti cambogiani si fossero trovati, da allora, davanti ad “un assedio economico interna­zionale” mai attuato, almeno a quel tempo, “nei confronti di paesi nei quali le contraddizioni interne sono state affrontate con l’intervento militare”. Non bisogna infatti dimenticare che, in seguito all’influenza degli Stati Uniti e della Cina, l’Onu ha continuato a riconoscere il cosiddetto governo di coalizio­ne presieduto dal principe Siha­nouk nel quale i Khmer rossi hanno un ruolo determinante. Riconoscimento questo che co­stringe la Cambogia a pagare, dopo tante stragi e lutti, le con­

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seguenze delle rivalità interna­zionali.

Non possiamo condividere l’impostazione alquanto giusti- ficazionista nei confronti dei Khmer rossi presenti nella rela­zione di Emilio Sarzi Amadè Comunisti cambogiani ecl inter­vento vietnamita. Riprendendo le idee già espresse nel suo libro L ’Indocina rimeditata (Milano, Angeli, 1983) egli infatti consi­dera il genocidio attuato da questi ultimi non come “frutto di una ‘variante impazzita’ nel quadro delle forze rivoluziona­rie, o della interpretazione del marxismo o di nuove dottrine, o di una deliberata volontà di uccidere ed eliminare fisica- mente”, ma come “il portato inevitabile, in prima istanza, di una lotta politica tra fazioni di­verse, di interpretazioni diverse del modo di difendere l’indi­pendenza, di porre basi solide allo sviluppo di una nuova so­cietà, lotta politica che si espri­meva alla fine nei modi tradi­zionali della Cambogia.” Sarzi Amadè si sofferma poi sulla polemica relativa al numero dei morti, se cioè si sia trattato di mezzo milione, di un milione, di due o tre milioni. Ma come scrive giustamente Enrica Col­lotti Pischel nell’introduzione “non è il numero delle vittime che determina la natura del cri­mine” . Lo stesso relatore affer­ma che nel 1978 il regime di Poi Pot aveva cominciato a dare se­gni di apertura, sia in campo interno, con la fine delle discri­minazioni nei riguardi di alcune categorie, tra le quali quella de­gli intellettuali (ma quanti ne erano rimasti vivi?), sia in cam­po internazionale mediante ac­cordi di amicizia o di coopera­

zione con la Romania e la Jugo­slavia. Ma quale credibilità po­teva avere un regime che si era macchiato di tali crimini?

Ed a quest’ultimo proposito basta leggere la relazione di Onesta Carpenè, Sette anni di Vietnam. Una testimonianza di­retta. Recatasi in Cambogia nel 1980, quale rappresentante di un gruppo di organizzazioni cattoliche, la relatrice ha avuto modo di studiare da vicino la si­tuazione prima e dopo l’inter­vento vietnamita. Tra gli episo­di dei quali essa è venuta a co­noscenza ricordiamo quello di due bambini legati ai cavalli e trascinati attraverso i campi fi­no alla morte, soltanto perché colpevoli di aver raccolto alcune spighe, e di una donna, già membro attivo della resistenza antiamericana, uccisa a basto­nate per avere giustificato quei due bambini. Questa relazione, come anche le altre su La cultu­ra come elemento di identità e di autonomia di Giovanni Giu­bati, e Un’esperienza di aiuto non governativo in Cambogia di Rosario Lembo, ci danno un quadro esauriente dell’opera di ricostruzione compiuta dal go­verno di Heng Samrin, insedia­tosi nel 1979 dopo l’invasione vietnamita, nei campi dell’istru­zione, dell’assistenza sanitaria, dell’industria, dell’arte e della cultura, ricostruzione tanto più meritoria in quanto esplicatasi in “un paese esangue” ed in “un contesto internazionale ostile”. Si pensi soltanto al ripopola­mento di Phnom Penh, passata, in pochi anni, dal deserto asso­luto a 700.000 abitanti e ad al­cune industrie ricostruite, raci­molando vari pezzi di macchine negli angoli delle strade.

Completano il volume le rela­zioni La società cambogiana dalla dominazione francese al­l ’intervento americano di Fran­cesco Montessoro, che si soffer­ma in particolare sui caratteri del colonialismo francese; Le prospettive di una soluzione ne­goziata di Paolo Beonio Broc­chieri; La neutralità impossibile di Valerio Pellizzari che tratta della possibile funzione di me­diazione che potrebbe avere in futuro il principe Sihanouk; L ’intervento umanitario secon­do il diritto internazionale e il caso cambogiano di Gabriella Venturini. Quest’ultima, di pre­valente carattere giuridico, illu­stra in modo problematico i va­ri aspetti di diritto internazio­nale derivati dall’invasione viet­namita della Cambogia, senza giungere ad una conclusione fi­nale. È da augurarsi che la di­stensione intervenuta tra Est e Ovest porti ad una soluzione concordata dei problemi del paese, facendolo finalmente uscire da una situazione di provvisorietà e dall’incubo di un possibile ritorno dei Khmer rossi ai quali la confinante Thailandia continua a dare, in violazione della neutralità, un sicuro rifugio, e nei cui campi di profughi, controllati in mas­sima parte dagli stessi Khmer rossi, si riproducono, sia pure su scala minore, alcuni dei cri­mini che hanno contrassegnato il regime di Poi Pot.

Franco Pedone

Ralf Dahrendorf, 1989. Ri­flessioni sulla rivoluzione in Europa. Lettera immaginaria a un amico di Varsavia, Roma-

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Bari, Laterza, 1990, pp. 136, li­re 15.000.

Certo, si deve pur prendere atto del fatto che a scrivere su­gli eventi del 1989 che hanno scardinato il blocco dei paesi comunisti siano soprattutto co­loro che hanno sempre aborrito il socialismo o lo hanno visce­ralmente temuto, possedendo comunque al riguardo una teo­ria e una chiave interpretativa negativa oggi esaltata dallo svolgimento delle ultime vicen­de. Quando però a farlo sono intellettuali e scienziati sociali del calibro di un Dahrendorf si va oltre il piano rivendicativo, sterile e rivelatore di pericolose angustie mentali, e si ha almeno l’occasione di confrontarsi con idee non rozze e, pur dissenten­do se del caso, si può avere l’opportunità di stimoli frut­tuosi per autonome analisi e considerazioni sui processi sto­rici e politici che stanno cam­biando la mappa, geopolitica e ideologica, dell’intera Europa. Scegliendo, per comporre e tra­smettere le sue Riflessioni sulla rivoluzione in Europa nel “por­tentoso” 1989, un genere in au­ge nel tardo Settecento inglese e francese presso i suoi ‘modelli’ prediletti (federalisti e liberali, alla Burke), la “lettera immagi­naria” a un amico coinvolto ma lontano, questo affabile e colto reinventore continuo del libera­lismo (non liberista, né, tanto­meno, neoliberista) pone cru­ciali domande sul senso e sulle prospettive del postcomunismo. In particolare, mi piace segna­lare che il suo punto di parten­za è già in qualche misura una sorta di risposta al peggiore ‘sil­logismo’ evocato da analisti e

commentatori intenti solo a di­chiarare la morte di ogni alter­nativa al capitalismo. “I paesi dell’Europa centro-orientale — avverte Dahrendorf — non si sono sbarazzati del loro sistema comunista per abbracciare il si­stema capitalista (qualunque cosa esso sia); si sono sbarazza­ti di un sistema chiuso per crea­re una società aperta, la società aperta, per essere esatti, perché mentre ci possono essere molti sistemi c’è soltanto una società aperta” (p. 34).

L’antitesi è dunque tra siste­mi (quello capitalistico non me­no del socialista, incluse le va­rianti, o ‘terze vie’ di tipo so­cialdemocratico, o le utopie a vario titolo e genere in quanto alternative globali distruttive) e società aperta, dagli infiniti fu­turi possibili, dagli esiti incerti perché in continua costruzione e dalle peculiari, specifiche e nazionali configurazioni, caso per caso. Tale nucleo dell’ela­borazione di Ralf Dahrendorf, tedesco di nascita, perseguitato con tutta la famiglia di apparte­nenza dal nazismo e con genito­ri di onesti spiriti socialdemo­cratici, ben si intreccia con quello che può assumersi come il ‘manifesto’ del proprio credo liberale. In questo senso l’auto­re precisa che la sua posizione è quella di un “liberalismo costi­tuzionale che nella sfera della politica ordinaria è fautore di riforme radicali [...] la vecchia politica è finita. Liberalismo costituzionale e riforma sociale devono costruire una nuova al­leanza [...e questo] è un proble­ma europeo che dobbiamo ri­solvere insieme” (p. 63).

Beninteso, la “lettera” con­tiene spunti e temi anche com­

piutamente sistematici e assai pertinenti al soggetto, soffer­mandosi sull’anatomia dei pro­cessi rivoluzionari, con il loro procedere e trapassare, in prati­ca obbligati e dolorosi, da una fase all’altra, sul nesso tra de­mocrazia, socialismo e capitali­smo, sulla transizione dal socia­lismo — modernizzazione forse necessaria per i ritardatari — alla società aperta e sul ruolo giocatovi dall’intreccio tra poli­tica costituzionale e politica or­dinaria. qui in particolare ele­menti di grande interesse e sug­gestione, allorché si delinea un “percorso” possibile (ma non ordinato in sequenza cronologi­ca) centrato sull’ora dei legisti, l’ora del politico e l’ora del cit­tadino. Costruzione costituzio­nale, che può realizzarsi in tem­pi assai brevi; economia sociale di mercato (sul modello della Germania federale postbellica), per la quale occorrono anni; e società civile autonoma, multi- centrica e capace di far conto su se stessa, da coltivarsi per decenni: questi i termini e gli ingredienti dell’avventura verso il mare aperto che si sta viven­do, secondo Dahrendorf, a Bu­dapest e a Praga, a Berlino, Varsavia e Bucarest.

E pagine altrettanto ispirate l’autore dedica infine al rischio della regressione fascista che in­comberebbe sui paesi dell’Est, all’incognita della Germania unita e alla nuova architettura d’Europa. Si tocca qui la que­stione scottante della portata, psicologica prima ancora che politica ed economica, dell’uni­ficazione delle due Germanie, dei suoi contraccolpi sugli stessi tedeschi, in primo luogo, e nel contesto della marcia verso

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l’Europa in cui sembrano voler­si miscelare autonomie regiona­li e istituzioni sovranazionali, ma da cui non vogliono svanire patria e nazione.

In proposito Dahrendorf no­ta che “alla Germania piace l’Europa, ma nella sua vita po­litica l’Europa non ha la priori­tà e soprattutto la realtà che i sermoni domenicali dei suoi leader sembrano attribuirle” (p. 113). E riguardo alla casa co­mune europea avverte: “vivere in una casa solida è una pro­spettiva piacevole. Un villaggio bene ordinato e sicuro delle sue difese dà agli abitanti un senso di sicurezza e la possibilità di badare ai propri affari. Ma il villaggio fa parte di un paesag­gio molto più vasto di insedia­menti umani. Ciò che accade in uno di essi influisce su ciò che accade in tutti gli altri [...]. In definitiva, non saremo liberi e sicuri finché gli abitanti di tutti i villaggi e le città del mondo non saranno cittadini” (p. 131).

Guido D’Agostino

Saad Kiwan - Riccardo Cri­stiano, Saddam Hussein. L ’al­tro muro: l ’Occidente e il mon­do arabo, Roma, Edizioni As­sociate, 1991, pp. 140, lire16.000.

Tra le non poche, né poco fa­stidiose elucubrazioni strategi- co-militari ammanniteci gior­nalmente dalla televisione, ci è toccato pure ascoltare una sorta di classifica e relativa assegna­zione di Oscar per le armi viste in azione nel Golfo. Propongo invece — da inguaribile pacifi­sta — di assegnare un Oscar im­

maginario a questo breve ma assai incisivo e informato volu­me curato da Saad Kiwan, gior­nalista libanese, e Riccardo Cri­stiano (Gr 3), con introduzione di Guido Moltedo (de “Il Mani­festo”). Tale polemica assegna­zione non solo intende ribaltare una logica perversa, quale quel­la messa in mostra dall’entusia­sta cronista guerrafondaio, ma vuole anche segnalare i grossi guasti prodotti da una informa­zione tutta appiattita sul pre­sente, preda di malintesi impe­rativi sensazionalistici e incapa­ce di — o non interessata a — contribuire all’acquisizione di idee meno povere e imprecise sugli eventi in corso. Le 140 pa­gine di Saddam Hussein. L ’al­tro muro: l ’Occidente e il mon­do arabo sono in effetti soprat­tutto questo, uno strumento per capire. I lucidi capitoli dedicati all’Occidente e al mondo arabo di fronte all’invasione del Ku­wait, ai moventi e alle ragioni dell’uno e dell’altro, o al parti­to socialista panarabo (Baath) con le sue divisioni interne tra militaristi e politici, alla figura di Saddam e alla galleria di pro­tagonisti (personaggi, paesi, popoli, gruppi tutti presenti sul­la scena e variamente coinvol­ti), alla sequenza inarrestata di accadimenti culminati nella campagna dei primi dell’agosto 1990, non possono leggersi sen­za interesse e utilità.

L’opera non è solo ineccepi­bile sotto il profilo della costru­zione e della struttura essenziale e insieme puntuale (il tutto è corredato da una cronologia aggiornatissima e da una biblio­grafia di riferimento), ma si raccomanda perché informa e coopera alla formazione di giu­

dizi e idee sul tema senza preva­ricare e senza premere con schieramenti pregiudiziali. Ep­pure si tratta sicuramente di un libro orientato e, per certi versi, ‘a tesi’, dove però ciò su cui vuol portare l’attenzione dei lettori è la complessità, la mol­teplicità degli elementi in gioco, l’intreccio inestricabile di fatto­ri esterni e interni, economici e politici. Insomma, Resistenza di un altro ‘muro’, dopo quello crollato nel 1989, e assai più re­sistente: il muro che oppone Occidente e Oriente, America e mondo arabo, Nord e Sud del mondo. Sulla scorta di autore­voli testimonianze, di politici e di intellettuali, ciò appare con la maggiore evidenza: due uni­versi materiali e mentali sono venuti a collisione, senza che tra loro vi sia stata né prima né durante né presumibilmente do­po il terribile impatto, la possi­bilità di incrociare linguaggio, logica, senso comune. Non sfuggono, evidentemente, agli autori i dati materiali e immate­riali del conflitto: il petrolio e il dominio all’interno del sistema capitalistico mondiale, non me­no che le aspirazioni egemoni­che dei paesi stessi del Golfo, ma anche il tramonto dell’equi­librio bipolare, l’emergere di un bipolarismo Nord-Sud e del do­minio monopolare del mondo da parte degli Usa, a fronte del­la sempre più urgente e essen­ziale ricerca di una nuova di­stribuzione delle risorse. Nel- I’indicarli, gli autori ci offrono il supporto prezioso della sto­ria, dell’onda lunga degli eventi (i secoli di dominio turco nell’a­rea, ad esempio), come di quel­la più breve (le vicende del co­lonialismo europeo e della de­

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colonizzazione più o meno for­zata).

Per quanto si è detto in prin­cipio circa un presente costante- mente riferito come una dimen­sione senza spessore e senza profondità, si dovrà convenire sulla giustezza sostanziale del­l’approccio praticato in questo libro, nel quale si trova pure una sezione dedicata al dibatti­to italiano attorno alle vicende politiche e militari di questi ul­timi mesi, con le sue povertà e i suoi sotterfugi, le sue omissioni e i suoi falsi. In definitiva, uno sforzo riuscito di restituirci il ‘versante arabo’ della crisi, quello più oscuro per tutti noi, ma con la speranza che ai lati opposti del nuovo muro vi sia­no orecchie disposte all’ascolto reciproco, e si trovino uomini non alieni dal porre le proprie ragioni a reagire con quelle de­gli altri. Più che una speranza, questo deve essere l’impegno di coloro dei quali una volta si di­ceva che fossero dotati di ‘buo­na volontà’. E il mondo ha sempre più disperato bisogno di imparare a ‘vincere la pace’.

Guido D’Agostino

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P rogetto archivio storico F iat, Le carte scoperte. Docu­menti raccolti e ordinati per un archivio della Lancia, Milano, Angeli, 1990, pp. 492, lire50.000.

In una fase in cui la cosiddet­ta business history conosce in Italia un’espansione e un inte­resse crescente, il volume si propone all’attenzione per al­

meno tre buone ragioni: per es­sere uno dei primi risultati del progetto di riordino dagli archi­vi della Fiat, progetto di note­voli ambizioni e interesse date le dimensioni e il ruolo dell’azien­da di Torino nella storia del­l’impresa, dell’industria e più in generale della società italiana; per il grado di consapevolezza metodologica con cui è stato condotto il riordino dell’archi­vio di cui si tratta nel volume; infine per il taglio originale scel­to nel proporre e presentare al­cuni percorsi possibili all’inter­no delle carte riordinate.

Non è qui possibile discutere i problemi attinenti più stretta- mente ai metodi ed alle proce­dure di archiviazione seguite nel caso specifico, ma indubbia­mente esse risultano particolar­mente attente al dibattito che nel corso degli anni ottanta si è sviluppato con continuità, con­sentendo uno scambio e un con­fronto di esperienze che ha coinvolto pubblico e privato. Questo dibattito è ben presente a Bruno Bottiglieri e Giancarlo Subbrero che tracciano il profi­lo dell’Archivio Lancia, cercan­do di far cogliere al lettore dove e quando il modello seguito of­fra garanzie di solidità e dove viceversa i problemi risultino ancora in via di definizione. Conviene forse soffermarsi, an­che se rapidamente, sulle con­nessioni che Bottiglieri, respon­sabile dell’intero progetto di riordino degli archivi storici Fiat, coglie tra esigenze dell’o­peratore d’archivio e quelle del­la ricerca, questione che ha spesso visto su sponde opposte archivisti e storici. Senza prete­se esaustive il modello praticato nel caso Lancia ha cercato di te­

ner conto delle due esigenze: da un lato salvaguardando la speci­ficità di un archivio riordinato sulla base dell’evoluzione orga­nizzativa dell’azienda, dall’al­tro suggerendo delle strade di fruibilità delle carte. L’efficacia di questa impostazione ci pare positivamente verificata attra­verso una ricostruzione sia pur sommaria delle principali vicen­de che hanno caratterizzato la vita dell’azienda dagli esordi nel 1906 all’assorbimento da parte della Fiat nel 1969, secondo un approccio economico in certo senso più tradizionale, curato da Franco Amatori (si tratta di una prima traccia per una ricer­ca in via di attuazione). A que­sto necessario, anzi indispensa­bile, profilo si agganciano quat­tro percorsi che utilizzano parti organiche della documentazio­ne per ampliare la comprensio­ne della realtà dell’azienda. Un primo approfondimento, cura­to da Alga D. Foschi, analizza i bilanci sia come fondamentale indicatore per la ricostruzione della storia dell’azienda, sia, at­traverso un sofisticato processo di analisi e riclassificazione, co­me strumento indispensabile per tentare di comparare l’evol­versi dell’azienda con l’anda­mento del settore in cui essa si inserisce, per misurarne la vita­lità nel confronto con le altre aziende concorrenti e più in ge­nerale con il sistema economi­co. Gli esempi portati sembrano notevolmente convincenti e par­ticolarmente promettenti per lo sviluppo della ricerca.

Antonello Barocci affronta invece le linee di sviluppo degli stabilimenti Lancia sotto il pro­filo architettonico e urbanisti­co, sviluppo che avviene da un

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lato per aggregazioni successi­ve, sotto la pressione di urgenze immediate e quindi con scarsa o nulla capacità di pianificazione, dall’altro, in certe fasi di più netta espansione, con interventi notevoli di razionalizzazione. Così nella ‘stratificazione’ degli stabilimenti affiora a tratti una cultura industriale, in senso ar­chitettonico, tutt’altro che pro­vinciale, capace di tradurre so­luzioni di avanguardia in un complesso che pure cresce sim­bioticamente, almeno per la sua parte più antica, con il borgo San Paolo, borgo torinese ope­raio per eccellenza.

Non degli oggetti, ma delle immagini si occupa la sezione che Roberta Vaitorta dedica al­l’archivio fotografico Lancia, assumendolo con un elevato grado di consapevolezza critica, come fonte autonoma, e non solo come un supporto estetico per una storia dell’azienda. Le suggestioni e le scoperte sono molte e tali da fornire un contri­buto interessante al dibattito sui limiti intrinseci alla fotografia come fonte storica. Infine, Ma­ria Teresa Scupolito offre un’a­nalisi assai interessante su quel­la parte dei dipendenti Lancia costituita dagli impiegati. L’ela­borazione elettronica della mas­sa di dati ricavata da oltre 4.500 cartelle personali, offre un’i­dentità interessante di questa categoria (dati socioanagrafici, istruzione, carriera, retribuzio­ne, fine rapporto) poco studiata e per un arco di tempo rilevante (dal 1937 al 1969). Una base so­lida per una analisi che voglia passare dal piano quantitativo a quello qualitativo.

Claudio Dellavalle

Banca Commerciale Italiana. Archivio Storico, Società Fi­nanziaria Industriale Italiana (Sofindit), a cura di Anna For­ni, Guido Montanari e France­sca Pino Pongolini, Milano, Banca Commerciale Italiana, 1991, pp. LI-236, ili., fuori commercio.

Con questo secondo volume della collana Inventari l’Archi­vio storico della Banca commer­ciale italiana compie un altro passo verso l’obiettivo di mette­re a disposizione degli studiosi uno strumento di fondamentale importanza per le indagini di storia economica sull’Italia con­temporanea. L’inventario del fondo Sofindit non comprende infatti solo la documentazione prodotta dalla finanziaria che gestì fra il 1931 ed il 1933 le par­tecipazioni azionarie della Co- mit: a questa raccolta, che costi­tuisce ovviamente un segmento centrale di questo fondo, si ag­giungono le documentazioni re­lative agli uffici tecnici (sia di ti­po finanziario che di gestione industriale) istituiti dalla Comit fin dal 1907; uffici che forniro­no in buona misura i quadri che presero attivamente parte all’e­sperienza Sofindit. Nel saggio introduttivo di Guido Montana­ri si sottolinea come la costitu­zione di Sofindit sia, nonostan­te la presenza di un partner pub­blico, la Banca d’Italia, un’e­sperienza ispirata dalla Com­merciale: una sorta di “canto del cigno” della banca mista, come hanno osservato Franco Bonelli e Antonio Confalonieri intervenendo a Milano alla pre­sentazione dell’inventario.

L’archivio Sofindit si articola su 420 cartelle (microfilmate per

la consultazione) suddivise in sei sezioni. Non è questa la sede per un censimento analitico del vastissimo impero industriale Comit di cui esiste una qualche documentazione all’interno del fondo: basterà ricordare nomi come Terni, Oto, Ilva, Sip, Chatillon, Mira Lanza, Italgas, Cantieri riuniti dell’Adriatico per farsi un’idea sia pur ap­prossimativa del materiale di­sponibile. Ci pare pertanto più opportuno parlare brevemente dell’organizzazione del fondo, in particolare delle tre sezioni principali. La prima, “Carte di Ferdinando Adamoli e dell’Uf­ficio tecnico finanziario della Banca commerciale italiana” (cart. 1-157), raccoglie il mate­riale elaborato nel corso di oltre un ventennio da Ferdinando Adamoli, che aveva lavorato nell’Ufficio tecnico industriale (1907) e nell’Ufficio tecnico fi­nanziario (1928) ed era inserito in qualità di consigliere o sinda­co nei consigli di amministra­zione di alcuni dei più impor­tanti gruppi industriali legati al­la Commerciale. In questa se­zione si concentrano le docu­mentazioni più antiche, risalen­ti ai primi anni del Novecento. Nella seconda sezione (cart. 158-237) sono organizzate le carte della “Segreteria indu­striale” (1929), guidata da Giorgio Di Veroli, futuro diret­tore generale di Sofindit. Fu questi ad ideare la divisione dei materiali via via prodotti in die­ci sezioni, ognuna delle quali corrispondeva ad un diverso comparto industriale: siderur­gia, meccanica e cantieri, im­prese elettriche e telefoniche, chimiche e così via. Una suddi­visione mantenuta anche nella

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terza sezione (cart. 238-362) “Archivio Sofindit: documen­tazione relativa alle società”; all’interno di essa, di grande in­teresse è la raccolta dei “gialli”, dossier sintetici che offrono una rapida visione d’insieme delle partecipazioni Sofindit. L’ossatura della sezione è co­munque rappresentata dagli studi condotti da Sofindit negli anni della propria attività auto­noma e nel periodo in cui i suoi uomini continuarono a lavora­re, sotto la denominazione di “Iri-Ispettorato tecnico”, alla sistemazione delle società con­trollate dall’ente pubblico, in particolare Ilva, Terni, Ansal- do-Cogne, Sip, Unes.

Fabio Degli Esposti

L ’Archivio della Federazione Comunista Senese, Siena, Asmos, 1990, pp. 138, sip.

11 fatto che nel secondo do­poguerra Siena sia stata “la provincia comunista per eccel­lenza [in cui] non solo le per­centuali di voto, ma anche quelle degli iscritti rispetto al totale della popolazione erano le più alte d’Italia” (cfr. Tama­ra Gasparri - Renzo Martinelli, Il Partito Comunista Italiano: appunti per una ricerca, in La ricostruzione in Toscana dal Cln ai partiti, Vol. II: I partiti politici, a cura di Ettore Rotei­li, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 854), evidenzia l’importanza del presente inventario che co­stituisce una fonte primaria non solo per la storia del Pei, ma anche per la storia d’Italia e “per gli studi politologici, eco­nomici, sociologici, antropolo­

gici”, come afferma Luigi Ber­linguer nella prefazione. L’esi­genza di ordinare questa note­vole messe di materiale nacque nel 1983, quando Vasco Calo- naci, ex segretario della federa­zione senese cominciò, insieme ad altri compagni, a raccogliere le testimonianze di vecchi diri­genti e militanti (serie XIII del­l’archivio) ed “il lungo e pa­ziente lavoro di Roberta Bone- chi e Antonella Cutillo, aiutate dalla collaborazione di Giulia­no Catoni, noto archivista e storico senese al quale si deve l’introduzione, di Ugo Pasqua- letti, di Fiorenzo Giannetti, di Mauro Marucci, di Marino Mazzi, di Remo Carli e di Giu­seppe Marzucchi, si concluse nel 1988 con la creazione dell’ Archivio storico del movi­mento operaio e democratico senese (Asmos)”.

La Federazione provinciale senese nacque a Poggibonsi il 30 gennaio 1921, pochi giorni dopo la costituzione del Pcd’i e a poco più di un mese di distan­za dall’assalto e dalla distruzio­ne della Casa del popolo di Sie­na per mano dei fascisti i quali, insieme alle forze dell’ordine, sfondarono il portone, addirit­tura, a cannonate (cfr. Mario Bracci, Testimonianze del pro­prio tempo. Meditazioni, lette­re, scritti politici 1943-1958, a cura di E. Balocchi - G. Grotte- nelli de Santi, Firenze, La Nuo­va Italia, 1981, pp. 448-489. Bracci nel 1944 aderì al Pd’A; divenne rettore dell’ateneo se­nese, ministro nel primo gover­no De Gasperi e, nel 1955, giu­dice della nascente Corte costi­tuzionale). Il primo segretario della federazione fu Aurelio Rugi, un falegname di Poggi­

bonsi; nel settembre del 1921 la sede fu trasferita a Colle Val d’Elsa ed un colligiano, il mec­canico Guglielmo Dondoli, ne divenne il segretario. Le prime sezioni furono costituite dagli operai di Colle e di Poggibonsi, di Abbadia San Salvatore, di Siena e dintorni, di Sovicille, Monticiano e Chiusdino e da gruppi di operai, di alcune zone della vai di Chiana. Con il pas­saggio al Pei della Federazione giovanile socialista, le sezioni comuniste furono costituite an­che in alcuni piccoli centri, sia capoluoghi di comuni agricoli, come Casole d’Elsa, sia grandi o piccole frazioni come Abba­dia di Montepulciano, San Lo­renzo a Merse o Sant’Andrea, alla periferia di Siena. Dopo che si fu costituita la Federazio­ne giovanile comunista divenne segretario il muratore Vittorio Bardini che cominciò così la sua battaglia antifascista fino all’esilio di Parigi, alla guerra civile spagnola, alla scuola leni­nista di Mosca e al campo di concentramento di Mauthausen (cfr. Vittorio Bardini, Storia di un comunista, Rimini-Roma, Guaraldi, 1977). Nel 1923 la fe­derazione si trasferì a Siena e proprio quando i suoi dirigenti erano riusciti, dopo molte di­scussioni sulle posizioni di Bor- diga e di Gramsci, a nominare Fosco Mazzoncini delegato al congresso di Lione (arrestato a Domodossola), avvennero gli arresti e l’invio al confino di al­tri militanti. Nel 1927 continua­rono arresti e confino, ma cio­nonostante “il partito rimase un punto di riferimento dell’op­posizione popolare al regime e quando nel 1944 esplose come partito di massa si pose come

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continuatore dell’esperienza e della tradizione socialista”. An­zi, proprio a questo si deve l’e­gemonia nel movimento parti­giano dei comunisti che diven­nero, come un po’ dovunque in Toscana, “l’unica forza dispo­sta a raccogliere le istanze del mondo mezzadrile...” (cfr. P. Taddei, Cinque anni di lotte contadine in Valdelsa: 1945- 1950, in “Miscellanea storica della Valdelsa”, A. LXXVII- LXXIX, 1971-1973, p. 64; San­dro Orlandini - G. Venturini, Padrone arrivedello a battitura. Lotte mezzadrili neI senese nel secondo dopoguerra, Milano, Feltrinelli, 1980).

Alla fine del 1946 il Pei aveva45.000 iscritti ed una presenza organizzata non solo in ogni comune, ma in ogni fattoria, come ebbe a rilevare il segreta­rio Bardini al V Congresso na­zionale del partito. Bardini, no­minato segretario regionale, successe a Rineo Cirri, maestro vetraio di Empoli, uno dei più tenaci costruttori del “partito nuovo”, prima in Valdelsa, poi in vai di Chiana e infine, ap­punto, segretario provinciale dal 1948 al 1961. Le trasforma­zioni dell’ultimo trentennio hanno sollecitato la discussione dei nuovi compiti di un partito volta a volta antagonista, rifor­mista o forza di governo. L’ar­chivio è stato suddiviso in tredi­ci serie aperte, le prime dieci delle quali presentano, con le loro sottoserie e classi, la strut­tura funzionale della federazio­ne invece che burocratico-am- ministrativa, la quale ha proce­duto nel tempo a continui mu­tamenti nei settori operativi e a frequenti ridistribuzioni dei ruoli. Le varie serie si riferisco­

no perciò a nuclei di attività e si articolano seguendo le empiri­che competenze che costituiva­no la fisionomia originaria del fondo. Ad esso sono state ag­giunte tre appendici che raccol­gono fotografie, opuscoli, vo­lantini ed altro materiale di propaganda, giornali e ritagli di stampa.

Nicla Capitini Maccabruni

Bruna Bocchini Camaiani - Daniele Menozzi (a cura di), Lettere pastorali dei vescovi della Toscana, Genova, Mariet­ti, 1990, pp. XLII-363, lire85.000.

“Nell’ambito contempora­neo, così poco sorretto dalle consolidate tradizioni di studi e di supporti strumentali delle grandi scuole della filologia e delle ricerche medievistiche e modernistiche, la storiografia religiosa ed ecclesiastica, anco­ra lacerata e divisa tra il suo es­sere disciplina storica a pieno titolo e i condizionamenti teolo­gici e apologetici della sua con­figurazione originaria, avrebbe più che mai bisogno di cimen­tarsi con i problemi della co­struzione di un apparato docu­mentario sufficientemente ricco ed articolato per offrire punti di riferimento di analisi e di di­scussioni meno arbitrariamente legati agli orientamenti e alle predisposizioni del singolo stu­dioso.” Così si esprime Giovan­ni Miccoli nella prefazione alle Lettere pastorali dei vescovi dell’Emilia Romagna (a cura di Daniele Menozzi, Genova, Ma­rietti, 1986), che apre la collana “Fonti e materiali per la storia

della chiesa italiana in età con­temporanea”, di cui si presenta ora il secondo volume. Nono­stante le non indifferenti diffi­coltà che si incontrano in un si­mile lavoro di ricerca, non ulti­me l’accesso agli archivi dioce­sani e il loro stato di conserva­zione ed ordinamento, questo repertorio delle pastorali dei ve­scovi della Toscana evidenzia la volontà di costruire con siste­maticità un apparato di fonti per la storia religiosa e della Chiesa in Italia adeguato al no­tevole incremento degli studi, sia su figure di singoli vescovi che su profili complessivi di chiese locali, apparsi, non a ca­so, dal Concilio vaticano II in poi. Il periodo cronologico pre­so in esame inizia con l’ultimo ventennio del Settecento, per terminare negli anni immedia­tamente successivi alla conclu­sione del Vaticano II e il censi­mento delle lettere, per ciascu­na delle quali è indicato il titolo accompagnato dal sommario dei temi più rilevanti, è suddivi­so per diocesi. Inoltre tutta una serie di dati biografici sulla pro­venienza, formazione e carriera dei vescovi, nonché sulla fre­quenza della sinodalità in To­scana nello stesso periodo, fan­no intravedere interessanti e molteplici itinerari di ricerca che sono oggetto di una prima stimolante analisi, anche di tipo quantitativo, nell’introduzione di Bruna Bocchini Camaiani, mentre ben sei indici, fra cui spicca quello tematico, agevola­no la consultazione della docu­mentazione proposta. Infine è doveroso ricordare i quattro giovani ricercatori, Roberto Barducci, Claudio Bonanno, Metello Bonanno e Luciana

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Pellegrini, che hanno redatto il repertorio.

Silvano Priori

Popolo e Comune 1848-1889. Il paese reale verso le istituzioni a cura di Pietro Albonetti e Mau­rizio Ridolfi, Milano, Nuova Editoriale Aiep, 1989, pp. 326, sip.

Questo elegante volume in­trodotto da Renato Zangheri è il catalogo dell’omonima mo­stra realizzata con le collezioni documentarie (libri, opuscoli, giornali e fotografie) della Fon­dazione Giangiacomo Feltrinel­li in occasione del centenario di “Imola, primo Comune d’Italia a guida democratica e socialista (1889-1989)”. Il fatto che la sua vicenda storica sia stata per molti versi esemplare rispetto alle origini delle prime ammini­strazioni comunali popolari dell’Italia liberale, ha indotto i curatori a ripercorrere tutti quegli avvenimenti che nei de­cenni precedenti avevano fatto maturare nelle forze popolari la determinazione di conquistare, per la prima volta nella storia del nostro paese, le amministra­zioni locali. Il filo conduttore della mostra è il “popolo” (che assume significati diversi nella pubblicistica dei vari periodi), attraverso la guida ideale di Carlo Cattaneo, nel periodo compreso tra il 1848 ed i primi anni postunitari, e di Andrea Costa negli anni dell’Ottocento fino alla conquista del Comune di Imola (1889). Tra il primo (“avversario degli accentramen­ti imposti che soffocavano la spontaneità delle forze locali”, il quale visse il fallimento del

1848 all’interno della classe di­rigente e si rese conto che l’ave­re respinto il popolo aveva inaugurato un’epoca di conser­vazione che venne accentuata dal processo unitario), e il se­condo (fondatore nel 1881 del partito socialista rivoluzionario di Romagna, il cui programma prevedeva T “impadronirsi dei Comuni mediante viva parteci­pazione alle elezioni ammini­strative e trasformare a vantag­gio del popolo e dell’autonomia comunale, l’attuale ordinamen­to amministrativo”, cfr. Erne­sto Ragionieri, Politica e ammi­nistrazione nella storia dell’Ita­lia unita, Bari, Laterza, 1967) si snodano le dieci sezioni della mostra. In esse viene documen­tato come l’interesse per i pro­blemi del Comune andasse dif­fondendosi spontaneamente co­me effetto di una maturazione politica delle correnti più avan­zate del movimento operaio.

Nonostante la storiografia degli anni sessanta abbia insisti­to sulla crisi definitiva del de­centramento e del Comune alla fine del primo decennio unita­rio e che quella recente abbia dato un rilevante contributo al­la storia municipale dopo l’uni­tà, lo studio degli enti locali in realtà regionali tanto diverse tra loro, deve essere ancora appro­fondito. Le condizioni di vita delle grandi masse popolari pre­sentavano caratteristiche di im­mobilità tali da permettere allo storico di utilizzare i dati sull’I­talia del 1870 anche per il de­cennio precedente e, con poche variazioni, per gli anni ottanta. Su questa immobilità e arretra­tezza, con nette fratture fra mondo urbano e rurale, si mise in moto la prima modernizza­

zione industriale, commerciale, culturale e politica. Toccare pe­rò quella realtà con strumenti di potere nuovi e aggiornati (fi­scalità, leva, prefetti, carabinie­ri eccetera) significò anche pro­durre reazioni e repressioni vio­lente ed allontanare ancor più la possibilità di rimuovere le antiche differenze e di far senti­re al cittadino il beneficio del nuovo Stato. Dopo la riforma elettorale del 1882, cominciò a farsi strada l’idea che il Comu­ne avrebbe potuto essere il luo­go di profonde trasformazioni sociali, il primo nucleo di una nuova società, contrapposta e in lotta con lo stato borghese, se fosse stato allargato anche il suffragio amministrativo e fos­se stata trovata una linea d’in­tesa con quelle forze democrati­che e popolari che, nel caso del­la Romagna già dagli anni set­tanta, avevano puntato alla conquista dei comuni. È merito degli organizzatori di questa mostra averlo richiamato in modo da divulgare la conoscen­za che fu proprio a Forlì che, con l’iniziativa presa da Saffi nel 1883, si costituì un apposito comitato inteso a promuovere e coordinare “l’agitazione” na­zionale a favore del suffragio universale amministrativo. Quando l’8 luglio 1883, Costa parlò ad Imola, rivendicando il valore dell’agitazione popolare e cercando di non incrinare l’u­nità delle forze politiche che tanto faticosamente si era costi­tuita intorno a quell’agitazione, rilevò che lo stesso Depretis era tutt’altro che convinto della perfezione della legge comunale e provinciale del 1865, tanto che egli stesso, nel 1880, aveva presentato un progetto di rifor­

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ma che contemplava l’allarga­mento dell’elettorato ammini­strativo ai limiti dell’elettorato politico. La sua riforma preve­deva anche l’estensione del suf­fragio amministrativo alle don­ne e che le cariche di sindaco e di presidente delle deputazioni provinciali fossero rese elettive. Così, dunque, mentre il movi­mento per i comuni andò tra­sformandosi da campagna di propaganda in espressione della società civile, anche il governo ritenne opportuno arrivare alla riforma della legge comunale e provinciale. Crispi, però, “fece entrare decisivi contrappesi di controllo aH’allargamento del suffragio”. Costa tuttavia, che “non si illudeva, ma non rinun­ciava”, affermò che “si poteva governare con astuzia in mate­ria di tasse [...] che potevano essere migliorate l’igiene, la be- neficienza, la previdenza, l’or­dinamento delle opere pie, dei lasciti, lo sfruttamento dei beni comunali e i servizi di politica comunale”. Egli non potè assi­stere alla vittoria a Imola delle liste in cui era insieme ai suoi compagni, essendosi rifugiato a Parigi per evitare il carcere. Quando però, tornò in Italia, parlando ad una massa enorme di popolo dal balcone del muni­cipio di Imola disse fra l’altro: “La povera gente, gli operai e i contadini non saliranno più gli scalini di Palazzo per le loro pratiche amministrative, trepi­danti e sospettosi, ma vi entre­ranno come si entra nella casa di tutti, nella casa del popolo” (cfr. Anseimo Marabini, Prime lotte socialiste, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 150).

Nicla Capitini Maccabruni

Guido Alberini (a cura di), Il primo Maggio di “Brescia Nuo­va”, Brescia, Luigi Micheletti, 1990, sip.

La Fondazione Micheletti, in occasione della festa dei lavora­tori, le cui origini sono sinteti­camente illustrate nella presen­tazione da Guido Alberini, che sottolinea come la sua prima celebrazione in Italia abbia coinciso, di fatto, con la nascita del partito socialista, ha ristam­pato i numeri dedicati al Primo maggio dal 1897 al 1922, dal settimanale socialista “Brescia Nuova’. Questa testata, infatti, nata nel 1880 come periodico democratico, mutò più volte il titolo per riprenderlo il primo novembre del 1896, dopo essere diventata “il simbolo ricono­sciuto del socialismo bresciano” e proseguì le pubblicazioni fino al fascismo. La presente raccol­ta, ampiamente introdotta da Pier Paolo Poggio, oltre ad evi­denziare la grande importanza che ebbe, per i lavoratori e per le loro famiglie, la festa del la­voro, nella quale stavano già innestandosi temi molto più an­tichi e stratificati nella mentali­tà collettiva, documenta le dif­ficoltà con cui il Primo maggio riuscì ad imporsi nel calendario ufficiale sconfiggendo i divieti delle autorità statali che culmi­narono nel 1898, come nel resto d’Italia, con lo scioglimento di tutte le organizzazioni operaie. Per il giornale socialista però, il Primo maggio del 1898 rappre­sentò l’occasione per rinnovare la propria veste tipografica nel­la cui testata campeggiava una figura femminile con in mano una fiaccola e il sole sullo sfon­do. I numeri del 1899 e del 1900

riflettono sia l’atmosfera di speranze e di entusiasmo con cui era celebrata la festa, sia le posizioni contrapposte dei ri­formisti e dei rivoluzionari. Questi ultimi, infatti, tra il 1904 e il 1905 acquistarono maggiori consensi all’interno della Cdl e nella provincia; pubblicarono un proprio giornale, “L’Allar­me socialista”, e nell’aprile del 1907, un loro rappresentante, Gino Müller, divenne segretario della Cdl la quale cominciò a pubblicare un giornale proprio, dal titolo “Le lotte del lavoro”. Il numero del 1909, però, indi­ca che i riformisti avevano ri­preso il controllo del movimen­to sostenendo la necessità del­l’abolizione del dazio sul grano che era la parola d’ordine della Cgdl dopo il fallimento dello sciopero agrario di Parma di­retto, come è noto, dai sindaca­listi rivoluzionari. Il numero del 1910 è impostato sulla richiesta del suffragio universale che l’anno successivo fu affiancata da una serie di interventi a fa­vore di una definitiva separa­zione tra Stato e Chiesa. In questi anni i socialisti parteci­parono al governo della città dirigendo l’assessorato del La­voro, ma la crisi provocata dal­la guerra di Libia all’interno del partito, segnò una svolta di ri­lievo anche nella vicenda di so­cialisti bresciani. Nel numero del primo maggio del 1912 ven­gono esplicitamente affermati infatti i diritti dei contadini ai quali la Cdl dedicò un numero unico e viene accentuata la po­lemica con gli esponenti cattoli­ci. Il numero del primo maggio del 1915 “celebra un tragico Calendimaggio” ed è significa­tivo che nello stesso giorno in

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cui l’Italia entrò in guerra (la città e la provincia furono di­chiarate zone di guerra) sia uscito anche l’ultimo numero del giornale. Nel 1919, dopo che l’economia bresciana era stata “letteralmente trasforma­ta dalla guerra”, anche il primo maggio trascorse in un clima più di mobilitazione che di fe­sta: “i socialisti sentivano il pe­ricolo, ma era difficile ammet­tere e confessare anche a se stessi che stavano per fallire sia la palingenesi rivoluzionaria, sia la lenta ma immancabile marcia di avvicinamento al grande ideale che la Festa del lavoro aveva contribuito a pre­figurare per milioni di lavorato­ri”. Nell’ultimo Primo maggio, quello del 1922, viene esaltata l’inaugurazione della Casa del popolo, che pochi mesi dopo fu occupata e saccheggiata dai fa­scisti i quali riuscirono anche ad impedire la diffusione del numero di “Brescia Nuova” stampato clandestinamente a Milano nel marzo del 1924, e ad appropriarsi della testata della quale fecero uscire due numeri in quegli stessi giorni. Il fatto dimostra che perfino i fa­scisti attribuivano un importan­te valore simbolico al giornale, in cui era raccolta la storia del socialismo bresciano delle ori­gini; così la loro abolizione del­la festa del lavoro “caricò la giornata del primo maggio di un significato decisamente an­tifascista”.

Nicla Capitini Maccabruni

Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, Tri­bunale speciale per la difesa

dello Stato. Decisioni emesse nel 1934, Roma, Ufficio storico Sme, 1989, pp. 478, lire 18.000.

Il volume prosegue, senza va­riazioni nell’impostazione, la serie dell’Ufficio storico, curata da Floro Roselli, che prese l’av­vio nel 1980 con la raccolta re­lativa alle decisioni del 1927. La prima parte raccoglie le senten­ze per attività sovversiva emesse dal Tribunale speciale, dalla Commissione istruttoria e dal giudice istruttore. Nella secon­da, invece, vengono pubblicate le sentenze “relative ai reati di spionaggio” e l’unica “relativa a fatti diretti a provocare la de­vastazione e la strage”. Dal quadro riassuntivo redatto dal­lo stesso tribunale si ricava la distribuzione regionale dei con­dannati, con forti squilibri tra le diverse aree così come rispet­to agli anni precedenti.

Tralasciando di indicare i personaggi più noti sottoposti a giudizio nel 1934 o le sentenze di maggior rilievo, vale forse la pena di segnalare alcune carat­teristiche dell’edizione. Le deci­sioni sono completate da noti­zie ricavate dai fascicoli di ese­cuzione e da alcuni articoli del regio decreto 25 settembre 1934, n. 1511, relativo alla con­cessione di amnistia e indulto, mentre la consueta articolazio­ne degli indici rende agevole la consultazione del volume e comprende, tra l’altro, la rac­colta dei dati per regione e se­condo l’attività lavorativa svol­ta dagli imputati. Dal momento che alcune decisioni sono pub­blicate per estratto, si deve infi­ne notare la mancanza di indi­cazioni riguardo ai criteri segui­ti così come sul contenuto —

che avrebbe almeno potuto es­sere fornito in sintesi — dei brani non compresi nel volume.

Paolo Ferrari

Luigi P onziani, Due secoli di stampa periodica abruzzese e molisana, Teramo, Interlinea, 1990, pp. 258, lire 30.000.

Introdotto da un breve sag­gio storico {Per una storia della stampa periodica abruzzese e molisana 1792-1985) ed accom­pagnato da un’ampia bibliogra­fia, il catalogo dei periodici abruzzesi e molisani posseduti dalla biblioteca provinciale Del­fico di Teramo costituisce la parte centrale e più corposa di questo vasto repertorio. L’ope­ra risulta particolarmente ap­prezzabile non solo per la ric­chezza dei dati forniti su ogni testata (che comprendono, oltre alle informazioni su titolo, sot­totitolo, luogo di pubblicazio­ne, periodicità, direzione, data dell’eventuale cessazione e con­sistenza della collezione, anche riferimenti bibliografici specifi­ci ed ampie note storiche sul contenuto e le vicende dei pe­riodici più importanti), ma an­che, fatto non secondario in pubblicazioni di questo genere, per l’agilità e la chiarezza del­l’impostazione grafica. Al cata­logo dei periodici della bibliote­ca teramana fa seguito un indi­ce dei 580 periodici abruzzesi reperibili altrove, che, rinvian­do alle collocazioni alternative nelle biblioteche dell’Aquila, Chieti, Pescara e Giulianova, costituisce un indispensabile complemento per il ricercatore. Da segnalare, infine, i tre pre­

Rassegna bibliografica 559

ziosi indici generali: cronologi­co (in base alla data di fonda­zione delle testate), delle locali­tà (luogo di pubblicazione) e dei nomi.

Mauro Maffeis

Marziano Brignoli - Danilo L. Massagrande, Bibliografia degli scritti su Carlo Cattaneo (1836-1987), Firenze, Le Mon- nier, 1988, pp. 109, lire 20.800.

Risale al 1950 la prima pro­posta, dovuta a Norberto Bob­bio, di giungere alla compila­zione di un’aggiornata biblio­grafia su Carlo Cattaneo, e solo oggi, a quasi quarant’anni di distanza, il Comitato italosviz- zero per la pubblicazione delle opere di Cattaneo può dichiara­re assolto un impegno sul quale hanno pesato difficoltà e ritardi di ogni genere. Alla base di questi problemi è stata proprio la permanente, diffusa vitalità dell’attenzione verso Cattaneo (giurista, educatore, economi­sta, filosofo) in ogni strato del­la società e della cultura italia­na, che ha reso indispensabile condurre la ricerca praticamen­te “su tutto ciò che si stampa”: dalle riviste, alle storie generali, alle monografie, escludendo unicamente gli scritti d’interes­se decisamente effimero o stret­tamente locale, la maggior par­te delle voci enciclopediche e quant’altro prescindesse co­munque da una pertinenza di­retta e significativa con il pen­siero e l’attività di Cattaneo. Ne è scaturita una bibliografia segnaletico-selettiva, che da una parte indica solo i caratteri esterni degli scritti (autore, tito­lo, luogo di pubblicazione, edi­

tore, anno di edizione, pagine, escludendo note storiche, espli­cative o critiche di qualsiasi ge­nere) e dall’altra ne garantisce (con maggiore elasticità per il periodo 1836-1900, quando i contributi su Cattaneo sono diffusi su pubblicazioni più ete­rogenee) la specificità ed una certa omogeneità di carattere e di rilevanza.

Le circa 1200 schede biblio­grafiche, disposte in ordine al­fabetico per autore (cognome con iniziale del nome, sciolta, non si sa perché, “solo nel caso delle autrici”), o per titolo nel caso di scritti anonimi. Da se­gnalare infine la mancanza di indicazioni sulla reperibilità delle opere censite.

Mauro Maffeis

Fumetti giocattoli e arti grafi­che. Fonti storiche non tradi­zionali (fine ’800-prima metà del ’900), a cura di Serafina Bueti, Grosseto, Ministero per i Beni culturali e ambientali, Ar­chivio di Stato di Grosseto, 1989, pp. 150, sip.

L’Archivio di Stato di Gros­seto si è fatto promotore, nella primavera del 1989, di una mo­stra di “oggetti apparentemente eterogenei” (come vengono de­finiti da Serafina Bueti, direttri­ce dell’archivio stesso e curatri­ce di questo volume) prodotti tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento; ta­vole originali di fumetti dei mi­gliori disegnatori italiani, pre­ziosi giocattoli prodotti in vari paesi del mondo, scatole di dol­ciumi decorate, manifesti e car­toline pubblicitarie, figurine. Se

l’eterogeneità e la quantità del materiale, tratto da collezioni private, hanno reso impossibile la pubblicazione di un catalogo generale, non si è voluto rinun­ciare a fornire al pubblico inte­ressato una chiave introduttiva alla storia e all’evoluzione dei vari oggetti e dei segmenti di costume, di società e di cultura che essi in qualche modo rap­presentano. Il corpo del volume è quindi costituito da una serie di rapidi e interessanti interven­ti sui tre principali generi di materiali esposti (fumetti, gio­cattoli e arti grafiche) curati di­rettamente dai collezionisti e dalla stessa Bueti, che illustra anche, nell’introduzione, la te­matica complessiva delle “fonti storiche non tradizionali” e del­la loro collocazione in una mo­derna e vitale concezione del la­voro archivistico. Un piccolo ma attento contributo di storia sociale, insomma, che, nato da una sede periferica e da un’ini­ziativa di dimensioni limitate, si raccomanda ad un pubblico più vasto per l’originalità della ma­teria e per la freschezza esposi­tiva. Completa il volume una serie di tavole fotografiche a colori sui più interessanti ogget­ti esposti.

Mauro Maffeis

Libri ricevuti

Aa.Vv., Gestapo operazioni segre­te, 2 voli., La Spezia, Fratelli Meli- ta, 1988, pp. 253-253, lire 48.000.

Aa.Vv., Il Politecnico di Milano nella storia italiana 1914/63, 2 voli., Milano-Roma-Bari, Cariplo- Laterza, 1989, pp. 756, lire 40.000.

560 Rassegna bibliografica

Giorgio Agosti - Livio Bianco, Un ’amicizia partigiano. Lettere 1943-1945, Introduzione e cura di Giovanni De Luna, Torino, Albert Meynier, 1990, pp. 495, lire 40.000.

Paolo Alatri, Le occasioni della storia, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 702, lire 70.000.

Michel Albert - Jean Boissonnat, Crisi, disastro, miracolo. L ’Europa nel gioco a rischio dell’economia mondiale, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 215, lire 16.000.

Giovanni Altamore, Anni di lotta. Esperienze sindacali e municipali nel latifondo siciliano (1948-1962), Catania, Cuecm, 1990, pp. 310, lire24.000.

Amministrazione provinciale di Arezzo, Guerra di sterminio e resi­stenza. La provincia di Arezzo 1943-1944, A cura di Ivan Tognari- ni, Roma-Napoli, Esi, 1990, pp. 422, lire 55.000.

Arianna Arisi Rota, La diplomazia del ventennio. Storia di una politica estera, Milano, Xenia, 1990, pp. 204, lire 20.000.

Alessandra Baldini - Paolo Palma, Gli antifascisti italiani in America (1942-1944). La “Legione” nel car­teggio di Pacciardi con Borghese, Salvemini, Sforza e Sturzo, Firen­ze, Le Monnier, 1990, pp. XVII-376, lire 40.000.

Egidio Baraldi “Walter”, Il delitto Mirotti. Ho pagato innocente. L ’o­micidio, il processo, il carcere (1946-1935), Reggio Emilia, Tecno­stampa, 1989, pp. 125, lire 15.000.

Christian Bernadac, Sterminateli! A do lf Hitler contro i nomadi d ’Eu­ropa, La Spezia, Fratelli Melita, 1988, pp. 283, lire 24.000.

Christian Bernadac, Tra i morti vi­venti di Mauthausen, La Spezia,

Fratelli Melita, 1988, pp. 381, lire28.000.

Claude Bertin (a cura di), La secon­da guerra mondiale. La sconfitta del Giappone, La Spezia, Fratelli Melita, 1988, pp. 253, lire 24.000.

Silvio Bertoldi, Hitler la sua batta­glia, Milano, Rizzoli, 1990, pp. 296, lire 28.000.

Maria Luisa Betri - Alberto De Ber­nardi - Ivano Granata - Nanda Tor- cellan (a cura di), II fascismo in Lombardia. Politica, economia e società, “Storia in Lombardia” nu­mero speciale, Milano, Angeli, 1989, pp. 520, lire 40.000.

Bruna Bocchini Caimani - Daniele Menozzi (a cura di), Lettere pasto­rali dei vescovi della Toscana, Ge­nova, Marietti, 1990, pp. XLII-369, lire 85.000.

Gisela Bock, Storia, storia delle donne, storia di genere, Firenze, Estro, 1988, pp. 75, lire 13.000.

Gaetano Bonetta, Corpo e nazione. L ’educazione ginnastica, igienica e sessuale ne/TItalia liberale, Milano, Angeli, 1990, pp. 473, lire 40.000.

Andrea Bosco, Lord Lothian. Un pioniere del federalismo 1882-1940, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 347, lire 33.000.

Francesco Brioschi - Luigi Puzzac­chi - Massimo G. Colombo, Gruppi di imprese e mercato finanziario. La struttura di potere dell’industria italiana, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1990, pp. 204, lire32.000.

Rosy Candiani (a cura di), Cronaca milanese in un epistolario del Sette­cento. Le lettere di Giuseppe De Necchi Aquila a Giovan Battista Corniani (1779-1782), Milano-Ro- ma-Bari, Cariplo-Laterza, 1988, pp. LV-465, sip.

Antonio Canovi, Il mattone della concordia. Dopoguerra a Reggio Emilia. Le case e la città. L ’ammi­nistrazione e la politica, Reggio Emilia, Comune di Reggio Emilia - Assessorato alla cultura, 1990, pp. 118, lire 22.000.

Giuseppe Capobianco, La giustizia negata. L ’occupazione nazista in Terra di Lavoro dopo T8 settembre 1943, Caserta, Centro Corrado Graziadei, pp. 169, sip.

Angelo Carello, I valdostani la regi­na Margherita e il cavalier Benito. La vallee dalla Belle epoque al Fa­scismo, Quart (Aosta), Musumeci, 1989, pp. 155, lire 32.000.

Roberto Cartocci, Elettori in Italia. Riflessioni sulle vicende elettorali degli anni Ottanta, Bologna, Il Mu­lino, 1990, pp. 234, lire 26.000.

Antonio Casali - Marina Cattaruz- za, Sotto i mari del mondo. La Whitehead 1875-1990, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 328, lire 45.000.

Mario Casella, Igino Giordani. “La pace comincia da noi”, Roma Stu- dium, 1990, pp. 265, lire 26.000.

Jean Charbonnel, Edmond Miche­let, Paris, Beauchesne, 1987, pp. 294, franchi 120.

Donatella Cherubini, Giuseppe Emanuele Modigliani. Un riformi­sta nell’Italia liberale, Milano, An­geli, 1990, pp. 438, lire 44.000.

Marinella Chiodo (a cura di), Geo­grafie e form e de! dissenso sociale in Italia durante il fascismo (1928- 1934), Cosenza, Pellegrini, 1990, pp. VI-326, lire 35.000 (Istituto ca­labrese per la storia dell’antifasci­smo e dellTtalia contemporanea).

Mario Caciagli, La lotta politica in Valdelsa dal 1892 al 1915, Castel- fiorentino, Società storica della Valdelsa, 1990, pp. 323, lire 30.000.

Spoglio dei periodici italiani 1990a cura di Franco Pedone

È stato effettuato lo spoglio dei seguenti pe­riodici (sono riportati la sigla, la sede della redazione e il luogo di edizione): AE, “Affa­ri esteri” (Roma); A, “Africa” (Roma); AS, “Analisi storica” (Lecce-Brindisi); AAC, “Annali dell’Istituto Alcide Cervi” (Roma- Bologna); AFE, “Annali della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino); AUL, “Annali del­l’Istituto Ugo La Malfa” (Roma); ASI, “Annali di storia dell’impresa” (Milano); Ba, “Balcanica” (Roma); Be, “Belfagor” (Bari-Roma); BMR, “Bollettino del Museo del Risorgimento” (Milano); CC, “Civiltà cattolica” (Città del Vaticano); Ci, “Civi- tas”, (Roma); C, “Clio” (Napoli); CM, “Critica marxista” (Roma); Cst, “Critica storica” (Napoli-Firenze); DD, “Democra­zia e diritto” (Roma); IM, “Incontri meri­dionali” (Messina-Catanzaro); IC, “Italia contemporanea” (Milano); JEEH, “Journal of European Economie History” (Roma); Me, “Meridiana” (Roma); MC, “Mondo ci­nese” (Milano); MOS, “Movimento operaio e socialista” (Genova); Mu, “Il Mulino” (Bologna); NS, “Nord e sud” (Napoli); NA, “Nuova antologia” (Firenze); NRS, “Nuova rivista storica” (Roma); Pa, “Padania” (Ferrara); PP, “Passato e presente” (Firen­ze); PEM, “Il pensiero economico moder­no” (Pisa); PeP, “Il pensiero politico” (Pe­rugia); Poi, “Polis” (Bologna); PD, “Politi­ca del diritto” (Bologna); PI, “Politica in­ternazionale” (Firenze); P, “Il Politico” (Pavia); Po, “Il Ponte” (Firenze); PS, “Pro­

blemi del socialismo” (Roma); QC, “Qua­derni costituzionali” (Bologna); QSoc, “Quaderni di sociologia” (Milano); QdS, “Quaderni di storia” (Bari); QS, “Quaderni storici” (Genova-Bologna); RSR, “Rasse­gna storica del Risorgimento” (Roma); RSP, “Ricerche di storia politica” (Bolo­gna); RSSR, “Ricerche di storia sociale e religiosa” (Roma); RS, “Ricerche storiche” (Firenze-Napoli); R, “Risorgimento” (Mila­no); RSC, “Rivista di storia contempora­nea” (Torino); RSdC, “Rivista di storia del­la Chiesa” (Roma); RSE, “Rivista di storia economica” (Torino); RSPI, “Rivista di studi politici internazionali” (Firenze); RI- SP, “Rivista italiana di scienza politica” (Bologna); RSI, “Rivista storica italiana” (Napoli); SSS, “Sanità, scienza e storia” (Milano); SeS, “Società e storia” (Milano); So, “Sociologia” (Roma); SD, “Sociologia del diritto” (Milano); SC, “Storia contem­poranea” (Bologna); SPE, “Storia del pen­siero economico” (Milano); SS, “Storia del­la storiografia” (Milano); SRI, “Storia delle relazioni internazionali” (Firenze); SU, “Storia urbana” (Milano); SE, “Studi emi­grazione” (Roma); SSt, “Studi storici” (Roma).

Lo spoglio non comprende gli ultimi nu­meri di alcuni periodici che, al momento della stampa, non erano stati ancora pub­blicati. Sono invece inclusi alcuni numeri arretrati che, per lo stesso motivo, non era­no ancora stati presi in considerazione.

Italia contemporanea”, settembre 1991, n. 184

562

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