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RASSEGNA STAMPA di lunedì 13 giugno 2016 SOMMARIO “La popolazione in Italia si è ridotta - scriveva sabato scorso il Gazzettino -. Siamo di meno, cosa che non accadeva da circa 90 anni e siamo più vecchi, con una età media di 44,7 anni. Non è incoraggiante il bilancio demografico nazionale diffuso dall’Istat che somma i flussi in entrata (nascite e immigrazioni), sottrae quelli in uscita (decessi ed emigrazioni) e traccia un totale che non ci si aspetta. La popolazione residente calcolata al 31 dicembre 2015 è pari a 60.665.551. Dunque, 130.061 unità in meno rispetto all’anno precedente. La flessione è più marcata per le donne (-84.792) rispetto agli uomini (-45.269). GLI IMMIGRATI - Ma i dati dell’Istituto nazionale di statistica aiutano a smontare una volta di più i vaneggiamenti apocalittici sul presunto pericolo di un’invasione straniera imminente o addirittura già avvenuta. L’aumento degli stranieri è stato infatti solo di 11 mila unità e non è stato sufficiente a compensare il calo degli italiani (di oltre 140 mila unità). Così su sessanta milioni di residenti in Italia, i cittadini stranieri sono poco più di cinque milioni (l’8,3 per cento del totale), meno dunque che negli altri Stati europei con cui solitamente ci paragoniamo. E il saldo tra chi va via, compresi oltre 130 mila italiani, (dato che conferma il fenomeno della fuga all’estero)) e chi arriva, è in flessione rispetto agli anni precedenti. Siamo sempre meno attraenti degli altri Paesi e gli ingressi degli immigrati non compensano più i vuoti crescenti. Resta comunque sempre il Nord la meta ideale dei flussi migratori e sono circa 200 le nazionalità presenti nel nostro Paese. La comunità più rappresentata resta quella rumena (22,9%) seguita da quella albanese (9,3%). LE CAUSE - Il calo della popolazione italiana iscritta all’anagrafe è dovuto in larga misura alla cosiddetta “dinamica naturale” (la differenza tra nascite e decessi). Ed è proprio il numero dei decessi a preoccupare, perché crescono più del fisiologico: quasi 50 mila in più rispetto al 2014. Secondo gli analisti la causa principale è da cercare nel clima. L’eccesso di mortalità ha riguardato infatti i primi mesi dell’anno (quando cresce la diffusione delle epidemie influenzali) e il mese di luglio, quando il caldo eccessivo si è prolungato per un periodo eccessivo. PIÙ ANZIANI - La popolazione italiana è anche più vecchia: il 6,7% supera gli 80 anni, mentre si riduce la popolazione con meno di 15 anni (13,7%) e anche quella in età attiva (tra i 15 e i 64 anni), mentre cresce il numero degli over 65 (22%). A livello territoriale è al Nord e al Centro del Paese che si assottiglia la popolazione giovanile (13,6 % al Nord e 13,3% al Centro), contro il 14,2 al Sud. Al 31 dicembre 2015 l’età media della popolazione è stata pari a 44,7 anni (+0,3 punti percentuali rispetto al 2014 contro +0,2 punti degli anni precedenti). Il processo di invecchiamento non fa differenze territoriali e investe tutte le regioni d’Italia anche se con intensità diverse. Al Centro- Nord l’età media supera i 45 anni, nelle regioni del Mezzogiorno è di poco superiore ai 43 anni. A livello regionale il valore più elevato si registra in Liguria (48,5 anni) seguita da Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Piemonte, Umbria e Molise (valori superiori ai 46 anni). Di contro l’età media è più bassa del valore nazionale in Lombardia, Lazio, Puglia, Calabria, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Campania, (in quest’ultima è inferiore a 42 anni)”. Su Avvenire il demografo Gian Carlo Blangiardo commenta così, in sintesi, questi dati: “…forse come mai nel passato il linguaggio dei numeri contenuti nel bilancio demografico del 2015 dovrebbe farci capire che non è più il tempo delle analisi e dei buoni propositi: è giunta l’ora di passare all’azione. «La demografia si vendica di chi la dimentica», diceva un illustre studioso del secolo scorso e l’impressione è che in Italia si siano per troppo tempo ignorati i numerosi segnali con cui le statistiche traducevano il disagio della popolazione e delle famiglie. Siamo un Paese che a partire dal lontano 1977 non è mai stato capace di garantire in modo autonomo il proprio ricambio generazionale. Svanita anche l’illusione che le migrazioni possano risolvere magicamente – e senza contraccolpi – gli squilibri di una demografia che ha perso vitalità occorre, una volta per tutte, recuperare una visione

Rassegna stampa 13 giugno 2016...2016/06/13  · RASSEGNA STAMPA di lunedì 13 giugno 2016 SOMMARIO “La popolazione in Italia si è ridotta - scriveva sabato scorso il Gazzettino

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 13 giugno 2016

SOMMARIO

“La popolazione in Italia si è ridotta - scriveva sabato scorso il Gazzettino -. Siamo di meno, cosa che non accadeva da circa 90 anni e siamo più vecchi, con una età media di 44,7 anni. Non è incoraggiante il bilancio demografico nazionale diffuso dall’Istat che somma i flussi in entrata (nascite e immigrazioni), sottrae quelli in uscita (decessi ed emigrazioni) e traccia un totale che non ci si aspetta. La popolazione residente calcolata al 31 dicembre 2015 è pari a 60.665.551. Dunque, 130.061 unità in meno rispetto all’anno precedente. La flessione è più marcata per le donne (-84.792) rispetto agli uomini (-45.269). GLI IMMIGRATI - Ma i dati dell’Istituto nazionale di

statistica aiutano a smontare una volta di più i vaneggiamenti apocalittici sul presunto pericolo di un’invasione straniera imminente o addirittura già avvenuta. L’aumento

degli stranieri è stato infatti solo di 11 mila unità e non è stato sufficiente a compensare il calo degli italiani (di oltre 140 mila unità). Così su sessanta milioni di residenti in Italia, i cittadini stranieri sono poco più di cinque milioni (l’8,3 per cento

del totale), meno dunque che negli altri Stati europei con cui solitamente ci paragoniamo. E il saldo tra chi va via, compresi oltre 130 mila italiani, (dato che

conferma il fenomeno della fuga all’estero)) e chi arriva, è in flessione rispetto agli anni precedenti. Siamo sempre meno attraenti degli altri Paesi e gli ingressi degli immigrati non compensano più i vuoti crescenti. Resta comunque sempre il Nord la meta ideale dei flussi migratori e sono circa 200 le nazionalità presenti nel nostro

Paese. La comunità più rappresentata resta quella rumena (22,9%) seguita da quella albanese (9,3%). LE CAUSE - Il calo della popolazione italiana iscritta all’anagrafe è

dovuto in larga misura alla cosiddetta “dinamica naturale” (la differenza tra nascite e decessi). Ed è proprio il numero dei decessi a preoccupare, perché crescono più del

fisiologico: quasi 50 mila in più rispetto al 2014. Secondo gli analisti la causa principale è da cercare nel clima. L’eccesso di mortalità ha riguardato infatti i primi mesi dell’anno (quando cresce la diffusione delle epidemie influenzali) e il mese di

luglio, quando il caldo eccessivo si è prolungato per un periodo eccessivo. PIÙ ANZIANI - La popolazione italiana è anche più vecchia: il 6,7% supera gli 80 anni, mentre si riduce la popolazione con meno di 15 anni (13,7%) e anche quella in età attiva (tra i 15 e i 64 anni), mentre cresce il numero degli over 65 (22%). A livello territoriale è al Nord e al Centro del Paese che si assottiglia la popolazione giovanile (13,6 % al Nord e

13,3% al Centro), contro il 14,2 al Sud. Al 31 dicembre 2015 l’età media della popolazione è stata pari a 44,7 anni (+0,3 punti percentuali rispetto al 2014 contro +0,2 punti degli anni precedenti). Il processo di invecchiamento non fa differenze

territoriali e investe tutte le regioni d’Italia anche se con intensità diverse. Al Centro-Nord l’età media supera i 45 anni, nelle regioni del Mezzogiorno è di poco superiore ai

43 anni. A livello regionale il valore più elevato si registra in Liguria (48,5 anni) seguita da Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Piemonte, Umbria e Molise (valori superiori

ai 46 anni). Di contro l’età media è più bassa del valore nazionale in Lombardia, Lazio, Puglia, Calabria, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Campania, (in quest’ultima è

inferiore a 42 anni)”. Su Avvenire il demografo Gian Carlo Blangiardo commenta così, in sintesi, questi dati: “…forse come mai nel passato il linguaggio dei numeri contenuti nel bilancio demografico del 2015 dovrebbe farci capire che non è più il tempo delle analisi e dei buoni propositi: è giunta l’ora di passare all’azione. «La demografia si

vendica di chi la dimentica», diceva un illustre studioso del secolo scorso e l’impressione è che in Italia si siano per troppo tempo ignorati i numerosi segnali con cui le statistiche traducevano il disagio della popolazione e delle famiglie. Siamo un Paese che a partire dal lontano 1977 non è mai stato capace di garantire in modo

autonomo il proprio ricambio generazionale. Svanita anche l’illusione che le migrazioni possano risolvere magicamente – e senza contraccolpi – gli squilibri di una demografia che ha perso vitalità occorre, una volta per tutte, recuperare una visione

realistica del futuro e delle conseguenze che questi dati ci fanno chiaramente intravvedere”. E su Repubblica il demografo Alessandro Rosina osserva: “Il declino

demografico dell'Italia va soprattutto letto nel rapporto tra generazioni. I giovani sono potenziali produttori di nuova ricchezza che fa crescere l'economia e va a sostenere le politiche sociali. Gli anziani tendono più ad assorbire risorse (per pensioni e spesa sanitaria) che a generarne di nuove. Il declino demografico non ci dice solo che i secondi crescono più dei primi e nemmeno che i secondi crescono mentre i primi diminuiscono: ci avverte che abbiamo reso la diminuzione dei giovani ancor più

accentuata della crescita degli anziani. Come se ne esce? Non c'è un'unica soluzione, ma un complesso di azioni che dobbiamo mettere in campo urgentemente e tutte

assieme: rinvigorire le nascite, ampliare la partecipazione alla forza lavoro, rendere una sfida positiva il vivere più a lungo, aumentare l'attrazione di qualità e

l'integrazione degli immigrati. Sostenere e incoraggiare i percorsi professionali dei giovani e i progetti di formazione di una famiglia consentirebbe al paese di potenziare

le sue capacità produttive e generative, limitando anche la fuoriuscita verso altri paesi. Migliorare le misure di conciliazione tra lavoro e famiglia permetterebbe a

molte donne (ma anche uomini) di mettere in relazione positiva la scelta di avere un figlio e di essere attive nel mercato del lavoro. Una conciliazione che sempre di più, come conseguenza dell'invecchiamento, riguarda anche la cura degli anziani non autosufficienti. Cruciale è inoltre l'apporto dell'immigrazione, che non può essere

quella gestita come emergenza e piegata allo sfruttamento, ma resa parte integrante di un comune modello sociale e di sviluppo. Infine, dobbiamo valorizzare molto di più le opportunità che il vivere più a lungo offre, in ogni campo. Non tanto obbligando le persone a lavorare più a lungo per decreto ma creando le condizioni per mantenersi

economicamente e socialmente attivi per scelta e con successo. Il declino demografico non si vince guardando solo alla quantità, ma promuovendo prima di tutto la qualità della vita delle persone, delle loro relazioni, dell' essere attive ad ogni età, del poter realizzare con successo i propri progetti sia lavorativi che familiari. Tutto questo ha

però fortemente bisogno anche di una politica di qualità” (a.p.)

2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 12 giugno 2016 Pag VII Patto Curia – Brusutti per viaggi sicuri di d.gh. Un accordo fissa prezzi e modalità dei trasporti per pellegrinaggi: “Troppi incidenti durante viaggi e gite” Pag XIV Caritas e Porto, mobilitazione per i profughi in Grecia di a.spe. Pag XIV “Riportiamo don Berna a Marghera” di Alvise Sperandio Bettin: “la sua casa è la chiesa del Cristo Lavoratore, fondata da lui”. Per il presidente della Municipalità è stato uno dei sacerdoti più significativi della diocesi Pag XXIII Il crocifisso è tornato “a casa” di Giuseppe Babbo Folla a S. Giovanni Battista per la reliquia di Cavazuccherina LA NUOVA di domenica 12 giugno 2016 Pag 23 Da domani raccolta aiuti per i profughi bloccati in Grecia La campagna dell’Autorità portuale e di Caritas Pag 35 Il Crocifisso del 1300 fino al 16 ottobre di g.ca. Esposto nella chiesa di S. Giovanni Battista 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 12 giugno 2016 Pag 7 Tesori nascosti

Per una piena partecipazione delle persone disabili alla vita sacramentale e liturgica AVVENIRE di domenica 12 giugno 2016 Pag 5 Il Papa: la diversità è ricchezza. La parrocchia deve accogliere tutti di Gianni Cardinale “Il prete che esclude i disabili è meglio che chiuda la chiesa” LA NUOVA di domenica 12 giugno 2016 Pag 12 Il cardinale Stella nel governo del Papa di Claudio Baccarin Nuovo incarico per il prelato trevigiano L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Finalmente apostola di Lucetta Scaraffia Pag 7 Prima testimone della risurrezione Diventa festa la memoria liturgica di santa Maria Maddalena Pag 7 Apostola degli apostoli di Arthur Roche Pag 8 Silenzio sonoro Messa a Santa Marta AVVENIRE di sabato 11 giugno 2016 Pag 15 Santa Maria Maddalena, la memoria diventa festa di Gianni Cardinale e Elio Guerriero La decisione di Francesco stimolo a riflettere in modo più profondo sulla dignità della donna. La biografia: su di lei grande confusione IL FOGLIO di sabato 11 giugno 2016 Pag V Cristiani in segreto di Matteo Matzuzzi Nella grande persecuzione aumentano le conversioni dall’islam. E’ la chiesa delle catacombe WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il successo silenzioso del Giubileo della misericordia di Francesco Peloso Più di 9 milioni di pellegrini hanno oltrepassato le porte sante delle quattro basiliche maggiori a Roma; l’anno santo della misericordia batte la paura del terrorismo anche se la vigilanza resta alta. L’avvio con l’incubo di Parigi. Un anno santo globale vissuto in ogni chiesa locale. Scongiurati i problemi organizzativi, a settembre la canonizzazione di madre Teresa WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Il papa non è infallibile. Eccone otto prove di Sandro Magister Equivoci, gaffe, vuoti di memoria, leggende metropolitane. Un elenco degli errori nei discorsi di Francesco. Il più disastroso in Paraguay 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA di domenica 12 giugno 2016 Pag 23 Già stanchi dei social? di Martina Pennisi e Beppe Severgnini E’ in calo il tempo che trascorriamo su Facebook, Twitter e gli altri LA REPUBBLICA di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Tu non sei tua. L’ossessione all’incontrario dei maschi che uccidono di Michele Serra AVVENIRE di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Ma il lavoro vale un mondo di Leonardo Becchetti Lo strabismo della responsabilità

IL GAZZETTINO di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 La dura lezione delle banche popolari venete di Giorgio Brunetti CORRIERE DEL VENETO di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Siamo meno, più vecchi e impauriti di Vittorio Filippi Crisi demografica CORRIERE DELLA SERA di sabato 11 giugno 2016 Pag 21 In calo gli italiani: è la prima volta. Le nascite sotto il mezzo milione di Mariolina Iossa e Virginia Piccolillo Dalla Zuanna: “Coppie senza figli per paura della povertà” LA REPUBBLICA di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Come riportare gli italiani in Italia di Alessandro Rosina AVVENIRE di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Il vuoto che avanza di Gian Carlo Blangiardo Dati demografici e ritardi politici IL GAZZETTINO di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Arrivano braccianti e i nostri laureati fuggono dall’estero di Sebastiano Maffettone Pag 7 L’Italia “perde” gli italiani: 130mila persone in meno E’ la prima volta in quasi un secolo che si registra una diminuzione dei residenti. Il sociologo De Masi: “La crisi ha peggiorato la qualità della vita” 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Vendite on line, i negozi tremano di Elisio Trevisan Stop ai giovani che provano scarpe e abiti per poi andare a comprarli nei siti internet IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 11 giugno 2016 Pag XVII Mira, il sindaco non si ricandida di Luisa Giantin Alvise Maniero: “Concludo il mandato, poi largo ad altri giovani. Oggi cittadini più consapevoli” LA NUOVA di sabato 11 giugno 2016 Pagg 2 – 3 Un anno di Brugnaro. Promesse, polemiche e Mestre blindata di Alberto Vitucci Via i libri gender, problemi a non finire per il tram a Venezia 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Dolomiti, la grande occasione di Alessandro Baschieri Dopo il verdetto Pagg 2 – 3 Cortina conquista i Mondiali di sci di Marco de’ Francesco e Francesco Chiamulera La vera sfida è ora. Il grande evento apre un nuovo ciclo. Strade, aeroporto piste e promozione: partita da 50 milioni … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’ombra che cala sul voto Usa di Massimo Gaggi

Pag 1 Il lupo spietato vicino di casa di Guido Olimpio Pagg 2 – 3 Spari, urla e sangue di Giuseppe Sarcina Terrore nel locale gay. Killer di origini afghane entra, spara e fa strage: 50 morti e oltre 50 feriti. “Fedele all’Isis”. Il califfato rivendica. Pag 5 Le botte alla moglie, la fedeltà all’Isis: l’Fbi lo controllava di Guido Olimpio Pag 27 La crisi dei migranti è il banco di prova dell’identità europea di Mauro Magatti LA REPUBBLICA Pag 1 Comunali, occupazione e sicurezza: le emergenze delle città decisive per i ballottaggi di Ilvo Diamanti Pag 33 L’orrore che cambia la corsa elettorale di Alexander Stille LA STAMPA Conoscere l'identità del nemico di Maurizio Molinari IL FATTO QUOTIDIANO L'irrilevanza del voto cattolico e i frutti laici di papa Bergoglio di Fabrizio D’Esposito Il flop alle amministrative di tutte le liste clericali, dagli alfaniani di Ncd al popolo del Family Day IL GAZZETTINO Pag 1 Benzina gettata sulla campagna elettorale di Mario Del Pero Pag 1 Non abbiamo niente da perdere, dobbiamo provarci di Claudio De Min LA NUOVA Pag 1 I sindaci maltrattati da Roma di Francesco Jori Pag 1 “Mein kampf”, conoscere e riflettere di Mario Bertolissi Pag 3 Difendere ragione e libertà di Gianfranco Bettin CORRIERE DELLA SERA di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Le sconfitte dell’Isis sul campo di Franco Venturini Libia e incognite Pag 1 Le ragioni e i falsi miti che avvolgono la Brexit di Ferruccio de Bortoli Pag 13 La sconfitta del Califfato? di Lorenzo Cremonesi I jihadisti perdono terreno ma restano forti in Iraq AVVENIRE di domenica 12 giugno 2016 Pag 2 Sconfiggere il Daesh non è ancora vincere di Riccardo Redaelli Dopo il possibile successo militare serve una pace positiva Pag 3 Ma la terra dei fuochi non è fatta di ecoballe di Maurizio Patriciello L’impegno del premier, la realtà da cambiare IL GAZZETTINO di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Malessere sociale, i vecchi partiti pagano il conto di Romano Prodi LA NUOVA di domenica 12 giugno 2016

Pag 1 Ballottaggi con il Pd al bivio di Massimiliano Panarari CORRIERE DELLA SERA di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Femminicidi, un appello agli uomini di Paolo Di Stefano Pag 1 Aiuti all’Africa, le ambiguità che l’Europa deve sciogliere di Goffredo Buccini Pag 1 Confalonieri e Silvio: tanti colonnelli, ci sarà un generale? di Francesco Verderami AVVENIRE di sabato 11 giugno 2016 Pag 3 Europa imbarbarita se si difende soltanto di Laura Zanfrini I migranti e l’accoglienza che è possibile Pag 21 Mein Kampf, i rischi di una lettura fuori contesto di Edoardo Castagna IL FOGLIO di sabato 11 giugno 2016 Pag 3 Anche per il Vaticano è genocidio Il card. Tauran: “Piano per eliminare il cristianesimo dal medio oriente” IL GAZZETTINO di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Silvio, l’occasione per chiudere il cerchio (magico) di Bruno Vespa LA NUOVA di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 La destra costretta a cambiare di Bruno Manfellotto

Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 12 giugno 2016 Pag VII Patto Curia – Brusutti per viaggi sicuri di d.gh. Un accordo fissa prezzi e modalità dei trasporti per pellegrinaggi: “Troppi incidenti durante viaggi e gite” Troppi incidenti in gite e pellegrinaggi con pullman noleggiati a poco prezzo e troppa concorrenza, Brusutti si accorda con la Curia veneziana per garantire viaggi in tutta sicurezza e assicurarsi così anche un ampio bacino di utenti, costituito dalle 128 parrocchie della diocesi, più associazioni ed enti vari legati alla Chiesa di Venezia. È il senso del protocollo d'intesa firmato da don Dino Pistolato, vicario episcopale e moderatore di Curia del Patriarcato, e Marco Eugenio Brusutti, presidente della Fondazione Brusutti. «L'operazione prende avvio - ha spiegato Pistolato - alla luce dei recenti casi di cronaca nera che evidenziano i problemi in materia di sicurezza stradale legati al trasporto persone. Un incidente è successo anche nella nostra diocesi due anni fa, con un pullman che si è rovesciato su un lato». «C'è la necessità di contrastare una politica al ribasso delle aziende - ha affermato Brusutti - sul prezzo dei servizi erogati che rischia di provocare l'esclusione di molti parametri ed obblighi aziendali a garanzia dell'utenza. La convenzione, della durata di un anno, mira a rispondere alle abituali esigenze di servizio trasporto di persone da parte di parrocchie, enti e associazioni ecclesiali, con un atto che intende promuovere un'educazione e una cultura della sicurezza e qualità». L'accordo prevede un listino prezzi predefinito: 80 euro il transfert all'interno del comune, mezza giornata (massimo 150 km) 330 euro, una giornata intera (massimo 300 km) 480 euro (aprile- settembre) o 450 euro (ottobre - marzo). Pag XIV Caritas e Porto, mobilitazione per i profughi in Grecia di a.spe. Caritas veneziana e Porto di Venezia insieme per soccorrere i rifugiati dei campi profughi della Grecia. Prende il via domani la raccolta di beni di prima necessità con cui nasce un

vero e proprio ponte umanitario tra Venezia, Atene e Patrasso. Per due settimane, al magazzino Cruise Logistic di Marghera, chiunque voglia dare un sostegno all'operazione può portare generi alimentari non deperibili (riso, pasta, zucchero, olio di oliva, latte, latte in polvere per bambini, fagioli, farina, polpa di pomodoro) oppure prodotti di primo soccorso per l'igiene e la pulizia (cerotti, disinfettanti, coperte, pannolini per bambini, bagnoschiuma, spazzolini e dentifricio, carta igienica e detersivi) o, ancora, giocattoli e set da disegno per donare un sorriso ai piccoli. «Il Porto di Venezia crea da sempre ponti, arrivando a toccare le terre più lontane. Stavolta l'obiettivo è raggiungere al più presto chi è in difficoltà dall'altra parte del mare e guarda con fiducia all'orizzonte», spiega il presidente Paolo Costa. Il Cruise Logistic si trova in via della Meccanica 14 a Malcontenta ed è a disposizione da domani fino al 30 giugno dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 12.30 e dalle 14 alle 17, sabato e domenica dalle 8 alle 12.30. I prodotti raccolti partiranno per la Grecia l'11 luglio e saranno distribuiti nei centri di accoglienza e nei campi profughi dagli operatori della Caritas. Pag XIV “Riportiamo don Berna a Marghera” di Alvise Sperandio Bettin: “la sua casa è la chiesa del Cristo Lavoratore, fondata da lui”. Per il presidente della Municipalità è stato uno dei sacerdoti più significativi della diocesi «Riportiamo "a casa" don Armando Berna». Gianfranco Bettin rilancia l'idea di far riposare il sacerdote all'interno della "sua" chiesa del Cristo Lavoratore a Ca’ Emiliani, che inaugurò nel 1954 e di cui fu parroco per i successivi vent'anni. «Sarebbe un gesto di profonda riconoscenza per uno dei preti più significativi per la chiesa, ma anche per la società veneziana del secolo scorso», dice il presidente della Municipalità di Marghera che già aveva avuto modo d'intitolargli la strada che collega via Fratelli Bandiera con via Pasini, alla fine della quale nel luglio di 35 anni fa fu rinvenuto il cadavere del direttore del Petrolchimico Giuseppe Taliercio, trucidato dalle Br. Il posto adatto dove trasferire la salma attualmente custodita nel cimitero di via Santa Maria dei Battuti, è già stato individuato nell'altare di destra dedicato ai Caduti sul lavoro e, se la famiglia fosse d'accordo, basterebbe la richiesta di traslazione da parte del Comune a Veritas, ferma restando l'autorizzazione della Curia. Bettin conobbe don Berna negli anni della giovinezza e lo ricorda così: «Fu una figura straordinaria perché ha incarnato la dottrina sociale della Chiesa con forte radicalità e fierezza, potremmo dire militanza, e non ha mai esitato a confrontarsi con il mondo operaio - spiega il presidente della Municipalità -. Era un grande predicatore e un altrettanto grande realizzatore di opere. Aiutava le persone a trovare un posto di lavoro perché aveva intuito che lavorare, in quegli anni come oggi, significa realizzare la persona fino in fondo». Assieme ad alcuni benefattori costruì con le sue mani la chiesa affacciata su via Fratelli Bandiera e inaugurata alla presenza di un futuro papa, Angelo Roncalli poi Giovanni XXIII, e di un futuro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro del Lavoro. Visse in povertà assoluta lasciando il segno nella vita del polo industriale e non solo, con un riconoscimento "postumo" quando nel giugno 1985 Giovanni Paolo II, nella visita pastorale che fece in diocesi, volle incontrare proprio lì, nella prima chiesa italiana intitolata al Cristo Lavoratore, dirigenti e operai delle fabbriche. Pag XXIII Il crocifisso è tornato “a casa” di Giuseppe Babbo Folla a S. Giovanni Battista per la reliquia di Cavazuccherina Jesolo - L'antico Crocifisso è tornato nella sua casa d'origine. È stata inaugurata venerdì scorso, nella chiesa arcipretale di San Giovanni Battista, alla presenza del Patriarca Francesco Moraglia e di un pubblico numeroso, l'esposizione del Crocifisso di Jesolo risalente al 1300 e che è appartenuto alla chiesa di Cavazuccherina, come allora si chiamava l’odierna Jesolo. Una serata vissuta all'insegna dell'emozione di fronte all'opera, un dipinto su tavola di 2,10 metri di altezza e 1,60 di larghezza, concessa in prestito dalle Gallerie dell'Accademia di Venezia. A promuovere l'evento è stata l'associazione culturale "Mons. Giovanni Marcato" mentre Giuseppe Artesi, studioso della storia jesolana che ha scoperto l'esistenza di questo dipinto, ha tracciato sinteticamente il viaggio che ha portato questo Crocifisso da Jesolo fino alle Gallerie dell'Accademia. «Ben tornato - ha detto il sindaco Valerio Zoggia nel suo saluto - vorrei che questo

evento risvegliasse nei cittadini jesolani l'orgoglio della propria storia». Grande la soddisfazione espressa da monsignor Gianni Fassina, arciprete di San Giovanni Battista: «Non inauguriamo solo l'esposizione di un'opera d'arte - ha sottolineato - ma stiamo rivivendo un pezzo della storia di questa comunità». «Non siamo noi che ci tuffiamo nel passato - ha aggiunto Giampaolo Rossi, presidente dell'Associazione - ma è il nostro passato che oggi bussa al nostro presente, chiede spazio, chiede attenzione, chiede di esserci». Nella mostra sono esposti i risultati di una ricerca fatta dai ragazzi della 2.F e 2.G della scuola media Michelangelo sui luoghi di culto di Jesolo. Un forte apprezzamento per l'esposizione è stato espresso dal Patriarca. «Quando si parla delle radici di queste terre - ho sottolineato nel suo intervento - parliamo di radici cristiane. Questi mesi di esposizione del Crocifisso siano una occasione di riflessione per tutti e di riconciliazione tra tutti». L'opera rimarrà esposta fino al 16 ottobre. LA NUOVA di domenica 12 giugno 2016 Pag 23 Da domani raccolta aiuti per i profughi bloccati in Grecia La campagna dell’Autorità portuale e di Caritas L’Autorità Portuale di Venezia e la rete locale e internazionale della Caritas lanciano, a partire da domani, una campagna di solidarietà per raccogliere e inviare rapidamente aiuti ai rifugiati bloccati in Grecia. Da domani e per due settimane, sarà possibile portare al magazzino Cruise Logistic di Marghera generi alimentari non deperibili, come olio di oliva, latte Uht, latte in polvere per bambini, fagioli, farina, polpa di pomodoro, riso, pasta, zucchero, marmellata, tè nero, prodotti di primo soccorso, per l’igiene e la pulizia, come cerotti, disinfettanti, coperte, pannolini per bambini, bagnoschiuma, spazzolini e dentifricio, carta igienica, detersivi, nonché giocattoli e set da disegno per i bambini. L’Autorità Portuale, approfittando del regolare servizio ro-ro Venezia-Patrasso operato da Grimaldi Lines, ha riunito attorno a questa operazione una serie di stakeholder, che consentiranno la partenza, il prossimo 11 luglio, dei prodotti raccolti. Il cargo si imbarcherà al terminal di Fusina, gestito da Venice Ro-Port MoS e raggiungerà Atene, dove la rete Caritas consegnerà gli aiuti direttamente ai centri di accoglienza e altri campi. Oltre al terminal, a Caritas Veneziana e Grimaldi Lines, hanno collaborato Pastrello Autotrasporti, Portabagagli del Porto di Venezia e Team Shipping, che sono riusciti in tempi record a costruire questo «ponte tra Italia e Grecia» per portare un aiuto concreto a chi fugge da guerre e povertà e si trova in un urgente stato di bisogno. Per chi vuole contribuire, il magazzino Cruise Logistics, che si trova in Via della Meccanica 14 a Malcontenta ed è messo a diposizione da Portabagagli del Porto, sarà pronto ad accogliere i generi di prima necessità da domani al 30 giugno nei seguenti orari: lun-ven ore 8-12:30 e 14- 17; sab-dom 8-12.30. Info: 041-5334269. Pag 35 Il Crocifisso del 1300 fino al 16 ottobre di g.ca. Esposto nella chiesa di S. Giovanni Battista Jesolo. Visto dal vivo lascia davvero senza fiato. Nella chiesa di San Giovanni Battista, è stato esposto il Crocifisso del XIV secolo che appartenne alla chiesa di Cavazuccherina, che sorgeva in Piazza Fanti del Mare dove ora si trova la farmacia Zorzetto. Con il patriarca Francesco Moraglia e il sindaco Valerio Zoggia un momento di riflessione per l’opera che sarà esposta fino al 16 ottobre. L’opera, un dipinto su tavola di 2,10 metri di altezza ed 1,60 di larghezza, è stata concessa in prestito dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia che ne detengono la proprietà. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 12 giugno 2016 Pag 7 Tesori nascosti Per una piena partecipazione delle persone disabili alla vita sacramentale e liturgica

«Nella debolezza e nella fragilità si nascondono tesori capaci di rinnovare le nostre comunità cristiane». Lo sottolinea Papa Francesco nel discorso preparato e consegnato ai partecipanti al convegno per persone disabili promosso dalla Conferenza episcopale italiana, ricevuti in udienza nella mattina di sabato 11 giugno, nell’aula Paolo VI. Lasciando da parte il testo scritto, che pubblichiamo qui di seguito, il Pontefice ha risposto a braccio a tre domande rivoltegli dai presenti. Cari fratelli e sorelle, vi accolgo in occasione del 25° anniversario dell’istituzione del Settore per la Catechesi delle persone disabili dell’Ufficio Catechistico Nazionale italiano. Una ricorrenza che stimola a rinnovare l’impegno affinché le persone disabili siano pienamente accolte nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali. Vi ringrazio per le domande che mi avete rivolto e che mostrano la vostra passione per questo ambito della pastorale. Esso richiede una duplice attenzione: la consapevolezza della educabilità alla fede della persona con disabilità, anche gravi e gravissime; e la volontà di considerarla come soggetto attivo nella comunità in cui vive. Questi fratelli e sorelle - come dimostra anche questo Convegno - non sono soltanto in grado di vivere una genuina esperienza di incontro con Cristo, ma sono anche capaci di testimoniarla agli altri. Molto è stato fatto nella cura pastorale dei disabili; bisogna andare avanti, ad esempio riconoscendo meglio la loro capacità apostolica e missionaria, e prima ancora il valore della loro “presenza” come persone, come membra vive del Corpo ecclesiale. Nella debolezza e nella fragilità si nascondono tesori capaci di rinnovare le nostre comunità cristiane. Nella Chiesa, grazie a Dio, si registra una diffusa attenzione alla disabilità nelle sue forme fisica, mentale e sensoriale, e un atteggiamento di generale accoglienza. Tuttavia le nostre comunità fanno ancora fatica a praticare una vera inclusione, una partecipazione piena che diventi finalmente ordinaria, normale. E questo richiede non solo tecniche e programmi specifici, ma prima di tutto riconoscimento e accoglienza dei volti, tenace e paziente certezza che ogni persona è unica e irripetibile, e ogni volto escluso è un impoverimento della comunità. Anche in questo campo è decisivo il coinvolgimento delle famiglie, che chiedono di essere non solo accolte, ma stimolate e incoraggiate. Le nostre comunità cristiane siano “case” in cui ogni sofferenza trovi com-passione, in cui ogni famiglia con il suo carico di dolore e fatica possa sentirsi capita e rispettata nella sua dignità. Come ho osservato nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, «l’attenzione dedicata tanto ai migranti quanto alle persone con disabilità è un segno dello Spirito. Infatti entrambe le situazioni sono paradigmatiche: mettono specialmente in gioco il modo in cui si vive oggi la logica dell’accoglienza misericordiosa e dell’integrazione delle persone fragili» (n. 47). Nel cammino di inclusione delle persone disabili occupa naturalmente un posto decisivo la loro ammissione ai Sacramenti. Se riconosciamo la peculiarità e la bellezza della loro esperienza di Cristo e della Chiesa, dobbiamo di conseguenza affermare con chiarezza che esse sono chiamate alla pienezza della vita sacramentale, anche in presenza di gravi disfunzioni psichiche. È triste constatare che in alcuni casi rimangono dubbi, resistenze e perfino rifiuti. Spesso si giustifica il rifiuto dicendo: “tanto non capisce”, oppure: “non ne ha bisogno”. In realtà, con tale atteggiamento, si mostra di non aver compreso veramente il senso dei Sacramenti stessi, e di fatto si nega alle persone disabili l’esercizio della loro figliolanza divina e la piena partecipazione alla comunità ecclesiale. Il Sacramento è un dono e la liturgia è vita: prima ancora di essere capita razionalmente, essa chiede di essere vissuta nella specificità dell’esperienza personale ed ecclesiale. In tal senso, la comunità cristiana è chiamata ad operare affinché ogni battezzato possa fare esperienza di Cristo nei Sacramenti. Pertanto, sia viva preoccupazione della comunità fare in modo che le persone disabili possano sperimentare che Dio è nostro Padre e ci ama, che predilige i poveri e i piccoli attraverso i semplici e quotidiani gesti d’amore di cui sono destinatari. Come afferma il Direttorio Generale per la Catechesi: «L’amore del Padre verso questi figli più deboli e la continua presenza di Gesù con il suo Spirito danno fiducia che ogni persona, per quanto limitata, è capace di crescere in santità» (n. 189). È importante fare attenzione anche alla collocazione e al coinvolgimento delle persone disabili nelle assemblee liturgiche: stare nell’assemblea e dare il proprio apporto all’azione liturgica con il canto e con gesti significativi, contribuisce a sostenere il senso di appartenenza di ciascuno. Si tratta di far crescere una mentalità e uno stile che metta al riparo da pregiudizi, esclusioni ed emarginazioni, favorendo una effettiva fraternità nel rispetto

della diversità apprezzata come valore. Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per quanto avete fatto in questi venticinque anni di lavoro al servizio di comunità sempre più accoglienti e attente agli ultimi. Andate avanti con perseveranza e con l’aiuto di Maria Santissima nostra Madre. Io prego per voi e vi benedico di cuore; e anche voi, per favore, pregate per me. AVVENIRE di domenica 12 giugno 2016 Pag 5 Il Papa: la diversità è ricchezza. La parrocchia deve accogliere tutti di Gianni Cardinale “Il prete che esclude i disabili è meglio che chiuda la chiesa” Roma. Ognuno «ha il modo di conoscere le cose che è diverso», così «uno conosce in una maniera, uno conosce in un’altra, ma tutti possono conoscere Dio». I parroci quindi devono «accogliere, cioè ricevere tutti». E chi non lo fa «è meglio che chiuda la porta della chiesa». Vanno accolti «tutti o nessuno». Perché «nella parrocchia, nella Messa, nei sacramenti, tutti sono uguali, perché tutti hanno lo stesso Signore, Gesù; la stessa mamma, la Madonna». E la discriminazione «è una cosa bruttissima». Sono parole forti e impegnative quelle pronunciate ieri da papa Francesco. Lo ha fatto ricevendo in udienza i partecipanti al convegno per persone disabili promosso dalla Conferenza episcopale italiana in occasione del 25° dell’istituzione del Settore per la catechesi delle persone disabili dell’Ufficio catechistico nazionale, ricevuti in udienza ieri mattina nell’aula Paolo VI. Appuntamento che si è significativamente svolto nell’ambito del Giubileo dei malati e dei disabili che culmina stamani con la Messa in piazza san Pietro presieduta da papa Francesco. Il Pontefice ha risposto a braccio alle domande postegli da Lavinia, ragazza con disabilità intellettiva della parrocchia romana dei santi martiri d’Uganda, dal suo parroco don Luigi D’Errico e da Serena, disabile venticinquenne di Pistoia. Tante le diversità «ci fanno paura», ha osservato il Papa, perché «andare incontro a una persona che ha una diversità non diciamo 'forte', ma 'grande', è una sfida e ogni sfida ci dà paura». Invece «le diversità sono proprio la ricchezza», infatti basti pensare «un mondo dove tutti siano uguali: ma sarebbe un mondo noioso». «È vero – ha proseguito il vescovo di Roma – che ci sono diversità che sono dolorose, ma tutti sappiamo, quelle che hanno radici in alcune malattie… ma anche quelle diversità ci aiutano, ci sfidano e ci arricchiscono». Per questo non bisogna «avere mai paura delle diversità: è proprio la strada per migliorare, per essere più belli e più ricchi». Papa Francesco ha quindi affrontato il tema delle discriminazioni («è una cosa bruttissima!») che si possono trovare nelle parrocchie. «Tutti – ha ribadito – abbiamo la stessa possibilità di crescere, di andare avanti, di amare il Signore, di fare cose buone, di capire la dottrina cristiana e tutti abbiamo la stessa possibilità di ricevere i sacramenti». E ha raccontato che «quando, tanti anni fa - cento anni fa, o di più - il Papa Pio X ha detto che si doveva dare la comunione ai bambini», è successo che «tanti si sono scandalizzati» affermando: «Ma quel bambino non capisce, è diverso, non capisce bene…». Ma Pio X ha risposto di dare «la comunione ai bambini», e così «ha fatto di una diversità una uguaglianza, perché lui sapeva che il bambino capisce in un altro modo; e quando ci sono diversità fra noi, si capisce in un altro modo». Insomma: «Ognuno di noi ha il modo di conoscere le cose che è diverso: uno conosce in una maniera, uno conosce in un’altra, ma tutti possono conoscere Dio». E «nella parrocchia, nella Messa, nei sacramenti, tutti sono uguali, perché tutti hanno lo stesso Signore, Gesù; la stessa mamma, la Madonna». Papa Francesco infine ha ripetuto con forza che un sacerdote deve «accogliere tutti». E «quello che deve fare il prete, aiutato dai laici, dai catechisti, da tanta, tanta gente, – ha spiegato – è aiutare tutti a capire: a capire la fede, a capire l’amore, a capire come essere amici, a capire le differenze». A questo proposito il Pontefice ha notato che «nella pastorale della Chiesa » oggi «c’è una cosa che si deve fare di più, anche i sacerdoti, anche i laici, ma soprattutto i sacerdoti devono fare di più: l’apostolato dell’orecchio: ascoltare!». E a chi obietta che «è noioso ascoltare, perché sempre sono le stesse storie, le stesse cose» papa Francesco ricorda che «non sono le stesse persone, e il Signore è nel cuore di ognuna delle persone e tu devi avere la pazienza di ascoltare. Accogliere e ascoltare. Tutti». Il botta e risposta è stato tutto a braccio. Papa Francesco, dopo che l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi gli aveva rivolto un indirizzo di saluto, non ha pronunciato il testo preparato («leggere un discorso

è un po’ noioso») ma comunque lo ha fatto consegnare dandolo quindi per letto. In esso il Pontefice ribadisce che il 25° dell’istituzione del Settore per la catechesi delle persone disabile della Cei costituisce «una ricorrenza che stimola a rinnovare l’impegno affinché le persone disabili siano pienamente accolte nelle parrocchie, nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali». Al Pontefice è stata donata un’opera che reinterpreta la Crocifissione Bianca di Chagall con scene di profughi siriani realizzata da Marianna Caprioletti, un’artista con disabilità dei Laboratori d’arte della Comunità di Sant’Egidio. Mentre parlava Papa Francesco si è lasciato avvicinare da Lucrezia, una bambina down di sette anni, e da altri due bimbi, abbracciandoli. E alla fine del suo intervento ha salutato uno ad uno i disabili presenti, accompagnato da suor Veronica Amata Donatello, responsabile del settore per la catechesi delle persone disabili dell’Ufficio catechistico nazionale della Cei, nonché animatrice del convegno «... E tu mangerai sempre alla mia tavola» (versetto preso dal secondo libro di Samuele), svoltosi nell’Aula Paolo VI prima dell’udienza. LA NUOVA di domenica 12 giugno 2016 Pag 12 Il cardinale Stella nel governo del Papa di Claudio Baccarin Nuovo incarico per il prelato trevigiano Padova. Un cardinale veneto entra a far parte della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano (l’organo che esercita il potere legislativo a nome del pontefice): si tratta di monsignor Beniamino Stella, 75 anni il prossimo 18 agosto, originario di Pieve di Soligo, la cui famiglia conta 12 membri (tra fratelli e sorelle), che sono stati ricevuti dal pontefice il 14 dicembre 2015. Il cardinale Stella è indubbiamente uno dei principali collaboratori di papa Francesco, che il 21 settembre 2013 lo ha nominato prefetto della Congregazione per il Clero, in sostituzione del cardinale Mauro Piacenza, chiamato all’incarico di penitenziere maggiore. Pochi mesi dopo, il 22 febbraio 2014, nel suo primo concistoro, papa Bergoglio ha insignito monsignor Stella della berretta cardinalizia. La Pontificia Commissione per lo Stato del Vaticano è presieduta dal cardinale Giuseppe Bertello, che guida pure il Governatorato vaticano. L’organismo è composto inoltre dai cardinali Jean-Louis Tauran, Antonio Maria Vegliò, Attilio Nicora (già vescovo di Verona), Leonardo Sandri (argentino come papa Bergoglio), Domenico Calcagno. Nei giorni scorsi, in occasione del Giubileo dei sacerdoti, il cardinale Stella, ha presieduto una celebrazione eucaristica, a Santa Maria Maggiore, alla presenza di 1500 presbiteri. Nelle vesti di prefetto della Congregazione per il Clero il cardinale Stella, che è incardinato nella diocesi di Vittorio Veneto, deve coordinare le iniziative per l’aggiornamento intellettuale e pastorale dei sacerdoti; ha la competenza su tutti i seminari; si occupa degli istituti per la vecchiaia, l’invalidità e l’assistenza sanitaria dei preti; tratta le dispense dagli obblighi assunti con l’ordinazione sacerdotale. L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Finalmente apostola di Lucetta Scaraffia Da quasi duemila anni era sotto gli occhi di tutti la presenza decisiva davanti al sepolcro vuoto di Maria Maddalena, la prima a dare la buona notizia della resurrezione: proprio lei, una donna. Nessuno però sembrava essersene accorto veramente. Nei secoli si sono persino formate storielle misogine, come quella che Gesù fosse apparso innanzi tutto a una donna perché le donne chiacchierano di più e così la notizia si sarebbe diffusa più in fretta. Inoltre, alcuni autorevoli commentatori si erano domandati come mai il risorto avesse trascurato sua madre, giungendo perfino a immaginare un’apparizione a Maria prima dell’incontro con la Maddalena, in modo da ristabilire una gerarchia che si considerava alterata. Su Maria di Magdala, proprio per la sua evidente vicinanza con Gesù, erano sorte addirittura voci inquietanti, tanto da farla diventare simbolo della trasgressione sessuale, rilanciato da leggende tenaci, vive ancora oggi: molti ricordano la Maddalena del film di Martin Scorsese L’ultima tentazione di Cristo, e certo molti di più hanno letto Il codice da Vinci, best seller fondato proprio sul presunto segreto del matrimonio fra lei e Gesù. Del resto Maddalena è l’unica protagonista importante della storia sacra a essere stata rappresentata nell’iconografia un po’ discinta, e quasi sempre con i capelli rossi, a lungo ritenuti segno di disordine sessuale. In sostanza, anche se

veniva considerata una santa, era raffigurata quasi come simbolo opposto all’immagine verginale di Maria, vestita di bianco e di azzurro. Tanto che fra le femministe degli anni Settanta cominciò a diffondersi l’uso di chiamare Maddalena le loro figlie, come segno di ribellione alla tradizione religiosa. Più lungimirante è stata invece la tradizione popolare, che ha immaginato un suo viaggio per mare fino alle coste meridionali della Francia: per evangelizzare, proprio come gli altri apostoli, una parte del mondo allora conosciuto. Tanto è stata lunga e difficile la strada che ha portato all’accettazione della verità, una verità semplice ma espressiva di un messaggio che molti non volevano ascoltare: e cioè che per Gesù le donne erano uguali agli uomini dal punto di vista spirituale, avevano lo stesso valore e le stesse capacità. Per questo era così difficile ammettere che Maddalena era un’apostola, la prima fra gli apostoli a cui si è manifestato il Signore risorto. Per questo proprio da lei, cioè dalla restituzione del posto che le spetta nella tradizione cristiana, può finalmente partire il riconoscimento del ruolo delle donne nella Chiesa. Papa Francesco l’ha capito chiaramente, e ha avviato in questo modo un processo che non si potrà più fermare. Colpisce che la data del documento sia quella del giorno in cui si festeggia il Sacro Cuore di Gesù: una devozione diffusa da una donna, Margherita Maria Alacoque, e rilanciata con passione da tante sante ottocentesche, come Francesca Cabrini. Altre conferme, queste, che le donne nella Chiesa ci sono sempre state, hanno svolto ruoli importanti e contribuito alla costruzione della tradizione cristiana. Grazie allora a Papa Francesco da parte di tutte le donne cristiane del mondo, perché con la creazione della nuova festa di santa Maria Maddalena rende loro merito. Pag 7 Prima testimone della risurrezione Diventa festa la memoria liturgica di santa Maria Maddalena Papa Francesco ha stabilito che dal 22 luglio di quest’anno la memoria liturgica di santa Maria Maddalena sia elevata al grado di festa nel Calendario romano generale. La decisione del Pontefice vuole spingere la Chiesa a «riflettere in modo più profondo sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del mistero della misericordia divina», come si legge nel decreto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, di cui pubblichiamo il testo originale latino e, di seguito, una traduzione italiana. DECRETUM Resurrectionis dominicae primam testem et evangelistam, Sanctam Mariam Magdalenam, semper Ecclesia sive Occidentalis sive Orientalis, summa cum reverentia consideravit, etsi diversimode coluit. Nostris vero temporibus cum Ecclesia vocata sit ad impensius consulendum de mulieris dignitate, de nova Evangelizatione ac de amplitudine mysterii divinae misericordiae bonum visum est ut etiam exemplum Sanctae Mariae Magdalenae aptius fidelibus proponatur. Haec enim mulier agnita ut dilectrix Christi et a Christo plurimum dilecta, “testis divinae misericordiae” a Sancto Gregorio Magno, et “apostolorum apostola” a Sancto Thoma de Aquino appellata, a christifidelibus huius temporis deprehendi potest ut paradigma ministerii mulierum in Ecclesia. Ideo Summus Pontifex Franciscus statuit celebrationem Sanctae Mariae Magdalenae Calendario Romano generali posthac inscribendam esse gradu festi loco memoriae, sicut nunc habetur. Novus celebrationis gradus nullam secumfert variationem circa diem, quo ipsa celebratio peragenda est, quoad textus sive Missalis sive Liturgiae Horarum adhibendos, videlicet: a) dies celebrationis Sanctae Mariae Magdalenae dicatus idem manet, prout in Calendario Romano invenitur, nempe 22 Iulii; b) textus in Missa et Officio Divino adhibendi, iidem manent, qui in Missali et in Liturgia Horarum statuto die inveniuntur, addita tamen in Missali Praefatione propria, huic decreto adnexa. Curae autem erit Coetuum Episcoporum textum Praefationis vertere in linguam vernaculam, ita ut, praevia Apostolicae Sedis recognitione adhiberi valeat, quae tempore dato in proximam reimpressionem proprii Missalis Romani inseretur. Ubi Sancta Maria Magdalena, ad normam iuris particularis, die vel gradu diverso rite celebratur, et in posterum eodem die ac gradu quo antea celebrabitur. Contrariis quibuslibet minime obstantibus.

Ex aedibus Congregationis de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum, die 3 mensis Iunii, in sollemnitate Sacratissimi Cordis Iesu. Robert Card. Sarah Praefectus Arturus Roche Archiepiscopus a Secretis DECRETO La Chiesa, sia in Occidente che in Oriente, ha sempre riservato una somma riverenza a Santa Maria Maddalena, la prima testimone ed evangelista della risurrezione del Signore, e l’ha celebrata seppure in modi diversi. Ai nostri tempi, essendo la Chiesa chiamata a riflettere in modo più profondo sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del mistero della misericordia divina, è sembrato bene che anche l’esempio di Santa Maria Maddalena fosse più convenientemente proposto ai fedeli. Questa donna, infatti, nota come colei che ha amato Cristo ed è stata molto amata da Cristo, chiamata da San Gregorio Magno “testimone della divina misericordia” e da San Tommaso d’Aquino “apostola degli apostoli”, può essere oggi compresa dai fedeli come paradigma del compito delle donne nella Chiesa. Perciò il Sommo Pontefice Francesco ha stabilito che la celebrazione di Santa Maria Maddalena, da ora in poi, debba essere iscritta nel Calendario Romano Generale con il grado di festa invece che memoria, come è ora. Il nuovo grado celebrativo non comporta alcuna variazione per il giorno, in cui compiere la celebrazione stessa, e quanto ai testi del Messale e della Liturgia delle Ore da adottare, ossia: a) il giorno dedicato alla celebrazione di Santa Maria Maddalena resta il medesimo, come appare nel Calendario Romano, ossia il 22 luglio; b) i testi da usare nella Messa e nell’Ufficio Divino restano gli stessi contenuti nel Messale e nella Liturgia delle Ore al giorno indicato, con l’aggiunta nel Messale del prefazio proprio, allegato a questo decreto. Sarà cura della Conferenza dei Vescovi tradurre il testo del prefazio nella lingua vernacola, di modo che, previa approvazione della Sede Apostolica, possa essere usato e a tempo debito inserito nella prossima ristampa del proprio Messale Romano. Dove Santa Maria Maddalena, secondo il diritto particolare, è legittimamente celebrata in un giorno e con un grado diverso, anche in futuro sarà celebrata nello stesso giorno e con lo stesso grado. Nonostante qualsiasi cosa in contrario. Dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 3 giugno 2016, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù. Robert Card. Sarah Prefetto Arthur Roche Arcivescovo Segretario Pubblichiamo il prefazio in latino che si aggiunge ai testi liturgici del Messale per la celebrazione della festa di santa Maria Maddalena. Præfatio: de apostolorum apostola Vere dignum et iustum est, æquum et salutáre, nos te, Pater omnípotens, cuius non minor est misericórdia quam potéstas, in ómnibus prædicáre per Christum Dóminum nostrum. Qui in hortu maniféstus appáruit Maríæ Magdalénæ, quippe quae eum diléxerat vivéntem, in cruce víderat moriéntem, quæsíerat in sepúlcro iacéntem, ac prima adoráverat a mórtuis resurgéntem, et eam apostolátus offício coram apóstolis honorávit ut bonum novæ vitæ núntium ad mundi fines perveníret. Unde et nos, Dómine, cum Angelis et Sanctis univérsis tibi confitémur, in exsultatióne dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus Deus Sábaoth... Pag 7 Apostola degli apostoli di Arthur Roche Per espresso desiderio di Papa Francesco, la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha pubblicato un decreto datato 3 giugno 2016, solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù, con il quale la celebrazione di santa Maria Maddalena, oggi memoria obbligatoria, sarà elevata nel Calendario romano generale al grado di festa. La decisione s’iscrive nell’attuale contesto ecclesiale, che domanda di riflettere più profondamente sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del mistero della misericordia divina. Fu Giovanni Paolo II a dedicare una grande attenzione non solo all’importanza delle donne nella missione stessa di Cristo e della Chiesa, ma anche, e con speciale risalto, alla peculiare funzione di Maria di Magdala quale prima testimone che vide il risorto e prima messaggera che annunciò agli apostoli la risurrezione del Signore (cfr. Mulieris dignitatem, n. 16). Questa importanza prosegue oggi nella Chiesa - lo manifesta l’attuale impegno di una nuova evangelizzazione - che vuole accogliere, senza alcuna distinzione, uomini e donne di qualsiasi razza, popolo, lingua e nazione (cfr. Apocalisse, 5, 9), per annunciare loro la buona notizia del Vangelo di Gesù Cristo, accompagnarli nel loro pellegrinaggio terreno e offrire loro le meraviglie della salvezza di Dio. Santa Maria Maddalena è un esempio di vera e autentica evangelizzatrice, ossia di una evangelista che annuncia il gioioso messaggio centrale della Pasqua (si vedano la colletta del 22 luglio e il nuovo prefazio). Papa Francesco ha preso questa decisione proprio nel contesto del giubileo della Misericordia per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata, come affermano Rabano Mauro (dilectrix Christi et a Christo plurimum dilecta, nel prologo del De vita beatae Mariae Magdalenae) e sant’Anselmo di Canterbury (electa dilectrix et dilecta electrix Dei, nell’Oratio LXXIII ad sanctam Mariam Magdalenam). È certo che la tradizione cristiana in occidente, soprattutto dopo san Gregorio Magno, identifica nella stessa persona Maria di Magdala, la donna che versò profumo nella casa di Simone, il fariseo, e la sorella di Lazzaro e Marta. Questa interpretazione continuò ed ebbe influsso negli autori ecclesiastici occidentali, nell’arte cristiana e nei testi liturgici relativi alla santa. I bollandisti hanno ampiamente esposto il problema della identificazione delle tre donne e preparato la strada per la riforma liturgica del Calendario Romano. Con l’attuazione della riforma, i testi del Missale Romanum, della Liturgia horarum e del Martyrologium Romanum si riferiscono a Maria di Magdala. Sicuramente Maria Maddalena formò parte del gruppo dei discepoli di Gesù, lo seguì fino ai piedi della croce e, nel giardino in cui si trovava il sepolcro, fu la prima testis divinae misericordiae (Gregorio Magno, Homiliae in evangelia, II, 25, 10). Il vangelo di Giovanni racconta che Maria Maddalena piangeva, poiché non aveva trovato il corpo del Signore (cfr. 20, 11); e Gesù ebbe misericordia di lei facendosi riconoscere come maestro e trasformando le sue lacrime in gioia pasquale. I testi biblici e liturgici della nuova festa possono aiutarci a cogliere meglio l’importanza odierna di questa donna santa, che ha l’onore di essere la prima testis della risurrezione del Signore (Hymnus, ad laudes matutinas), la prima a vedere il sepolcro vuoto e la prima ad ascoltare la verità della sua risurrezione. Cristo ha una speciale considerazione e misericordia per Maria Maddalena, che manifesta il suo amore verso di lui cercandolo nel giardino con angoscia e sofferenza, con «lacrime di umiltà», come dice sant’Anselmo nella citata preghiera. A tal proposito, desidero segnalare il contrasto tra le due donne presenti nel giardino del paradiso e nel giardino della risurrezione. La prima diffuse la morte dove c’era la vita; la seconda annunciò la vita da un sepolcro, luogo di morte, come osserva Gregorio Magno: Quia in paradiso mulier viro propinavit mortem, a sepulcro mulier viris annuntiat vitam. Inoltre, è proprio nel giardino della risurrezione dove il Signore dice a Maria Maddalena: Noli me tangere. È un invito rivolto non solo a Maria, ma a tutta la Chiesa a entrare in una esperienza di fede che supera ogni appropriazione materialista e comprensione umana del mistero divino. Ha una portata ecclesiale ed è una buona lezione per ogni discepolo di Gesù: non cercare sicurezze umane e titoli mondani, ma la fede in Cristo vivo e risorto. Proprio perché fu testimone oculare del Cristo risorto, Maria Maddalena fu anche la prima a darne testimonianza davanti agli apostoli. Adempie al mandato del risorto: «Va’ dai miei fratelli e di’ loro (...) Maria di Magdala andò ad annunciare ai

discepoli: “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto» (Giovanni, 20, 17-18). In tal modo ella diventa evangelista, cioè messaggera che annuncia la buona notizia della risurrezione del Signore; o, come dicevano Rabano Mauro (De vita beatae Mariae Magdalenae, XXVII) e san Tommaso d’Aquino (In Ioannem evangelistam expositio, III, 6), apostolorum apostola, poiché annuncia agli apostoli quello che a loro volta essi annunceranno a tutto il mondo. A ragione il doctor angelicus usa questo termine applicandolo a Maria Maddalena: ella è testimone del Cristo risorto e annuncia il messaggio della risurrezione del Signore, come gli altri apostoli. Perciò è giusto che la celebrazione liturgica di questa donna abbia il medesimo grado di festa dato alla celebrazione degli apostoli nel Calendario romano generale e che risalti la speciale missione di lei, che è esempio e modello per ogni donna nella Chiesa. Pag 8 Silenzio sonoro Messa a Santa Marta Il cristiano sta «in piedi» per accogliere Dio, in paziente «silenzio» per ascoltarne la voce e «in uscita» per annunciarlo agli altri, nella consapevolezza che la fede è sempre «un incontro». Lo ha affermato Papa Francesco nella messa celebrata venerdì mattina 10 giugno nella cappella della Casa Santa Marta. Questi tre atteggiamenti, ha spiegato, incoraggiano e rilanciano la vita di tutti coloro che si sentono sopraffare dalla paura nei momenti più difficili. «Noi sappiamo che la fede non è una teoria, neppure una scienza: è un incontro» ha subito detto Francesco all’inizio dell’omelia. La fede «è un incontro con Dio vivente, col Dio vivo, col Creatore, col Signore Gesù, con lo Spirito Santo, è un incontro». Così, ha spiegato, nella prima lettura, tratta dal primo libro dei Re (19, 9.11-16) «abbiamo ascoltato l’incontro del profeta Elia con Dio». E «il profeta Elia viene da una lunga storia, è un vincitore: ha lottato tanto, tanto per la fede, perché il popolo di Israele si era allontanato dalla fedeltà». Di più, ha aggiunto il Papa, «per usare una parola del Vangelo, e anche Gesù lo dice al popolo di Israele, era diventata una “generazione adultera”: da una parte voleva adorare Dio e dall’altra parte gli idoli». E c’è «un’espressione che il profeta Elia dice al popolo: “fino a quando voi zoppicherete sui due piedi?”». Usa proprio l’immagine dello «zoppicare con i due piedi: non essere fermo né con Dio né con gli idoli, avere una gamba da una parte e una gamba dall’altra, o come noi diciamo, nel parlato quotidiano, “questa persona sta bene con Dio e col diavolo”». «Elia - ha affermato Francesco - ha lottato tanto contro questa situazione del popolo e ha vinto: ha vinto una lotta forte contro i quattrocento profeti degli idoli, li ha vinti sul monte Carmelo e ha ucciso tutti con la forza di Dio: lui è il vincitore». Poi, però, Elia «scese dal monte e sentì la notizia che la regina Jezebel, donna crudele e senza scrupoli, voleva ucciderlo per questo, perché lei era idolatra». Allora Elia «ha avuto paura». Proprio «lui, il vincitore, il grande, ha avuto paura di quella donna e se ne è andato: fuggì». Una paura che «lo fa sentire giù». Tanto che Elia, ha proseguito il Pontefice, se ne domanda il perché: «Ho fatto tanto e alla fine sempre la stessa storia: fuggire e difendermi degli idolatri». E così sembra che egli «non si risollevi più: meglio la morte, ed entra in profonda depressione. Giace sulla terra, all’ombra di un albero, e vuol morire; entra in quel sonno prima della morte, quel sonno della depressione». Ma ecco, ha affermato il Papa, che «il Signore manda l’angelo a svegliarlo: “Alzati! Prendi un po’ di pane e di acqua”». Ed Elia obbedisce, ma «continua poi a dormire». L’angelo «torna una seconda volta» invitandolo nuovamente ad alzarsi. E, una volta alzato, «viene l’altra parola: “Esci!”». Dunque, ha fatto notare Francesco «per incontrare Dio è necessario tornare alla situazione in cui l’uomo era al momento della creazione: in piedi e in cammino». Perché «così ci ha creato Dio: alla sua altezza, a sua immagine e somiglianza, e in cammino». Dice infatti il Signore: «Vai, vai avanti, coltiva la terra, falla crescere, e moltiplicatevi». E dice anche: «Esci e vai al monte e fermati sul monte alla mia presenza». Ecco - riferisce il libro dei Re - che «Elia si mise in piedi e, messosi, in piedi, esce». Nel Vangelo, in particolare «nella parabola del figlio prodigo», si ritrova la stessa situazione. È la realtà in cui si trova appunto quel figlio, «quando era proprio in depressione e guardava i porci mangiare e lui aveva fame». In quel momento «pensò a suo padre e disse a se stesso: “mi alzerò e andrò” per trovare il padre». Ritornano «queste due parole: “alzati” e “esci”» ha suggerito Francesco. Dunque Elia, ha proseguito il Papa, «è salito sul monte per incontrare il Signore ed ecco che il Signore

passò». E «come passò il Signore? Come passa il Signore? Come posso incontrare il Signore per essere sicuro che sia lui?» si è domandato Francesco, rileggendo la pagina dell’Antico testamento: «Prima di tutto ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento». Perciò «il Signore non era in quel rumore, in quella maestà, non c’era». E ancora, «dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto; dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco». Elia, ha affermato il Pontefice «guardava, aspettava il Signore: tanto chiasso, tanta maestà, tanto movimento e il Signore non era lì». Finalmente «dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera o, come è proprio nell’originale, “il filo di un silenzio sonoro”. E lì era il Signore». «Per incontrare il Signore - ha fatto presente il Papa - bisogna entrare in noi stessi e sentire quel “filo di un silenzio sonoro”», perché «lui ci parla lì». E «cosa succede?» ha domandato. La risposta è in quel «vai!», perché il Signore «ci dà la missione» come a Elia: «Su, ritorna sui tuoi passi, non avere paura della regina, ritorna sui tuoi passi, verso il deserto e ungerai questo come re, un altro come un re e Eliseo come profeta tuo successore». Per Elia «c’è la missione» da compiere. E la missione di Elia suggerisce «tre cose chiare», ha detto il Papa. «Per andare a trovare il Signore, in piedi e uscendo da noi stessi, in cammino», la prima cosa chiara è appunto lo stare «in piedi e in cammino». Il secondo punto è «avere il coraggio di aspettare quel sussurro, quel “filo di silenzio sonoro”, quando il Signore parla al cuore e ci incontriamo». La terza cosa è la «missione», l’invito a tornare sui propri passi per andare «avanti». Ecco «il messaggio che questo brano della Scrittura oggi ci insegna», ha affermato Francesco, ricordando: «Dobbiamo sempre cercare il Signore: tutti noi sappiamo come sono i momenti brutti, momenti che ci tirano giù, momenti senza fede, oscuri, momenti in cui non vediamo l’orizzonte, non siamo capaci di alzarci, tutti lo sappiamo!». Ma «è il Signore che viene, ci ristora col pane e con la sua forza e ci dice “alzati e vai avanti, cammina!”». Perciò, ha proseguito il Papa, «per incontrare il Signore dobbiamo essere così: in piedi e in cammino»; poi «aspettare che lui ci parli: cuore aperto». E «lui ci dirà “sono io”; e lì la fede diviene forte». Ma la fede, ha aggiunto Francesco, «è per me, per custodirla? No, è per andare a darla ad altri, per ungere gli altri, per la missione». Dunque «in piedi e in cammino; in silenzio per incontrare il Signore; e in missione per portare questo messaggio, questa vita agli altri». Proprio «questa è la vita del cristiano che possiamo vedere qui, in questo brano del primo libro dei Re». Il Pontefice in conclusione ha pregato «che il Signore ci aiuti sempre: lui è sempre lì per aiutarci a rimetterci in piedi». E se anche cadiamo, si deve avere la forza di «alzarsi» per essere «in cammino, non chiusi, non dentro l’egoismo della nostra comodità: essere pazienti, per aspettare la sua voce e l’incontro con lui e poi coraggiosi nella missione e portare agli altri il messaggio del Signore». AVVENIRE di sabato 11 giugno 2016 Pag 15 Santa Maria Maddalena, la memoria diventa festa di Gianni Cardinale e Elio Guerriero La decisione di Francesco stimolo a riflettere in modo più profondo sulla dignità della donna. La biografia: su di lei grande confusione Roma. Per «espresso desiderio» di Papa Francesco la Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti ha emesso un decreto con cui la celebrazione di Santa Maria Maddalena, oggi memoria obbligatoria nel giorno 22 luglio, viene elevata nel Calendario Romano generale al grado di festa. Il testo, in latino, è firmato dal cardinale prefetto Robert Sarah e dal segretario arcivescovo Arthur Roche. Pubblicato ieri, porta la data del 3 giugno, solennità del Sacro Cuore, e contiene in allegato anche il testo del Prefazio proprio che sarà poi cura delle Conferenze episcopali tradurre in lingua vernacola. Nel decreto si ricorda che Maria Maddalena è stata definita da San Tommaso d’Aquino 'apostolorum apostola', in quanto testimone oculare del Cristo Risorto e prima a darne testimonianza agli apostoli, nonché 'testis divinae misericordiae' da San Gregorio Magno. In un articolo esplicativo, firmato dall’arcivescovo Roche e pubblicato sull’Osservatore Romano, si spiega che la decisione «si iscrive nell’attuale contesto ecclesiale, che domanda di riflettere più profondamente sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del mistero della misericordia divina». Fu San Giovanni Paolo II nella Mulieris dignitatem del 1988 – si rammenta nel commento – «a dedicare

una grande attenzione non solo all’importanza delle donne nella missione stessa di Cristo e della Chiesa, ma anche alla peculiare funzione di Maria di Magdala quale prima testimone che vide il Risorto e prima messaggera che annunciò agli apostoli la risurrezione del Signore». Un’importanza questa che nel contesto dell’«impegno di una nuova evangelizzazione», prosegue «oggi nella Chiesa» che «vuole accogliere, senza alcuna distinzione, uomini e donne di qualsiasi razza, popolo, lingua e nazione, per annunciare loro la buona notizia del Vangelo di Gesù Cristo, accompagnarli nel loro pellegrinaggio terreno ed offrir loro le meraviglie della salvezza di Dio». Monsignor Roche sottolinea quindi come la decisione di Papa Francesco si inserisce «proprio nel contesto del Giubileo della Misericordia per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», come attestato da autori ecclesiastici come Rabano Mauro e Sant’Anselmo di Canterbury. Il presule inglese ricorda inoltre come la tradizione ecclesiale in Occidente «identifica nella stessa persona Maria di Magdala, la donna che versò profumo nella casa di Simone, il fariseo, e la sorella di Lazzaro e Marta» e che «formò parte del gruppo dei discepoli di Gesù, lo seguì fino ai piedi della croce e, nel giardino in cui si trovava il sepolcro, fu la prima 'testimone della Divina Misericordia'». Maria Maddalena fu insomma la «'prima testis' della risurrezione del Signore» e proprio per questo fu anche «la prima a darne testimonianza davanti agli apostoli». Ed «a ragione» quindi san Tommaso la definisce «apostolorum apostola», poiché «annuncia agli apostoli quello che, a loro volta, essi annunceranno a tutto il mondo». «Perciò è giusto – conclude monsignor Roche – che la celebrazione di questa donna abbia il medesimo grado di festa dato alla celebrazione degli apostoli nel Calendario Romano Generale e che risalti la speciale missione di questa donna, che è esempio e modello per ogni donna nella Chiesa». Maria Maddalena diventa così la prima donna, oltre alla Madonna, ad essere ricordata nel Calendario Romano Generale con la ricorrenza liturgica avente il grado di festa. Privilegio finora riservato agli apostoli (ma anche a san Lorenzo, a santo Stefano e ai Santi Innocenti). Nei calendari nazionali invece sono già presenti altre donne. In Italia ad esempio hanno il rango di festa le ricorrenze della santa patrona Caterina da Siena, e delle altre due compatrone d’Europa, Santa Brigida e santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein). Dal prossimo 22 luglio santa Maria Maddalena non verrà più ricordata dalla Chiesa con una memoria, bensì con una festa pari a quelle degli apostoli. Come precisa il decreto della Congregazione per il culto divino la decisione è stata presa per desiderio esplicito di papa Francesco il quale, nella linea già avviata da san Giovanni Paolo II, a partire da questo anno giubilare della misericordia vuole rendere più solenne il ricordo di una santa molto vicina a Gesù, cui gli Evangeli e la prima tradizione cristiana concordemente attribuivano grande risalto. L’appellativo che accompagna il nome di Maria, Maddalena, sembra indicare la sua provenienza da Magdala, un villaggio di pescatori sul lago di Galilea. Qui probabilmente incontrò Gesù il quale cacciò da lei 7 demoni, nel nostro linguaggio liberò il suo cuore dal potere del diavolo rendendolo capace di amare. Da quel momento Maria abbandona ogni sua precedente attività e si mette al seguito di Gesù. Diviene così la prima delle donne che accompagnano il Maestro di Nazaret e gli apostoli negli itinerari della predicazione e provvedono al mantenimento del piccolo gruppo. Al momento della cattura del Maestro i discepoli lo abbandonano mentre le donne, tra le quali la Maddalena, lo accompagnano al Calvario. Il Vangelo di Giovanni mette ancora più in risalto la sua figura collocandola sotto la croce insieme con Maria, la madre di Gesù, con Maria di Cleofa e con il discepolo che egli amava. Il giorno dopo il sabato, infine, la Maddalena si reca al sepolcro la mattina presto, trovando la pietra mossa e il sepolcro vuoto. Ella corre allora a chiamare Pietro e Giovanni ma, vedendo le bende per terra e il sepolcro vuoto, i due apostoli se ne vanno. Non così Maria. A lei per prima appare il Risorto che, chiamandola con il suo nome, la rende 'apostola degli apostoli', testimone ed annunciatrice della Risurrezione agli apostoli, chiamati poi a testimoniare ed annunciare la notizia al mondo intero. Dopo la risurrezione, di Maria Maddalena si perdono le tracce negli scritti canonici. Al contrario gli scritti apocrifi, in particolare quelli gnostici, si impossessano della sua figura e con tratti sempre più leggendari ne fanno la compagna di Gesù, la sua consorte, quella che egli amava più di tutti i suoi discepoli. A questi scritti si sono rifatti nei secoli scrittori più o meno scandalistici fino a Dan Brown. La stessa tradizione cristiana, peraltro, ha presto confuso i tratti della Maddalena con

quelli di altre donne evangeliche recanti lo stesso nome. Così Maria Maddalena è da distinguere dalla peccatrice che entra in casa del fariseo, scoppia in lacrime e unge i piedi di Gesù con il profumo. Così come non è da confondere con Maria di Betania, la sorella di Marta e Lazzaro. Conviene, dunque, attenersi alle notizie dei Vangeli, sobrie e nello stesso tempo ricche di contenuto. La Maddalena è testimone della resurrezione, apostola degli apostoli, una donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo molto amata (Rabano Mauro). Ella è un modello del discepolato apostolico delle donne e della loro funzione nella Chiesa. A questa tradizione è legato anche il ministero delle diaconesse cui ugualmente ha fatto riferimento papa Francesco che vuole onorare la Maddalena come esempio e modello della funzione femminile nella Chiesa. Anche se comunemente si parla sempre di festa, in realtà tecnicamente esiste una gerarchia delle celebrazioni. Tutte sono importanti, naturalmente, ma il grado più elevato spetta alle 'solennità' che identificano i misteri ritenuti maggiormente importanti della fede. Nelle solennità ad esempio vengono incluse Pasqua, Natale, Pentecoste, l’Immacolata Concezione, i titoli principali di Nostro Signore e alcune celebrazioni su santi di particolare rilevanza come i Santi Pietro e Paolo il 29 giugno e San Giovanni Battista il 24 dello stesso mese. Dal punto di vista liturgico, le solennità richiamano la struttura delle Domeniche: sono previste tre letture, la preghiera dei fedeli, il Credo, il Gloria e preghiere proprie esclusive per il giorno. Nelle 'feste' invece sono previste preghiere proprie, ma solo due letture più il Gloria. Riguardano un mistero o un titolo del Signore, della Madonna e di santi di particolare importanza, come appunto Maria Maddalena. Quanto alla 'memoria', che può essere 'facoltativa' o 'obbligatoria', riguarda solitamente santi, ma può celebrare anche alcuni aspetti riguardanti il Signore, ad esempio il Santo Nome di Gesù o della Vergine, come il Cuore Immacolato di Maria. Anche se si preferisce usare quelle del giorno, la memoria può avere letture proprie così come una 'sua' preghiera di apertura. IL FOGLIO di sabato 11 giugno 2016 Pag V Cristiani in segreto di Matteo Matzuzzi Nella grande persecuzione aumentano le conversioni dall’islam. E’ la chiesa delle catacombe Un crescente numero di rifugiati musulmani in Europa si sta convertendo al cristianesimo, scriveva la scorsa settimana il quotidiano inglese Guardian in un'inchiesta che travalicava i confini dell'isola britannica. I numeri sono eloquenti, "stando a quanto riferiscono le chiese impegnate in battesimi di massa un po' ovunque", si sottolineava. La chiesa cattolica austriaca ha registrato trecento domande per il battesimo di adulti nei primi tre mesi del 2016 e l'Istituto per la pastorale del paese stima che il settanta per cento di queste richieste sia stato inoltrato da rifugiati pronti alla conversione. La congregazione della chiesa della Trinità nel sobborgo di Steglitz, a Berlino, è passata dai centocinquanta membri di due anni fa ai settecento di oggi, e l'aumento è dovuto ai musulmani convertiti, ha detto il pastore Gottfried Martens. A Liverpool, tra le cento e le centoquaranta persone partecipano alla messa settimanale in lingua farsi e la maggior parte di esse sono immigrate dall' Iran e dall' Afghanistan. Uno su quattro, stando all'indagine compiuta dal vescovo di Bradford, Toby Howarth, è un convertito dall'islam. Per lo più si tratta di richiedenti asilo. Il tema della conversione è questione delicata, di quelle che le alte gerarchie manovrano con estrema attenzione. Pubblicamente se ne parla poco, perché il rischio di alimentare tensioni con il mondo musulmano è assai elevato, soprattutto nell'attuale fase storica che vede il fondamentalismo di stampo islamico in rapida ascesa nel vicino e medio oriente nonché in Africa, dove la religione è strumentalizzata al punto da essere considerate il perno attorno cui ruotano i conflitti in corso. Ogni parola sul tema è centellinata, a regnare è l'estremo equilibro e ciò non solo perché ormai il dialogo è la strada maestra tracciata da decenni. "La chiesa cresce, ma non è per fare proselitismo: non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, l' attrazione della testimonianza che ognuno di noi dà al popolo di Dio", diceva Francesco chiarendo i termini della discussione. La prospettiva deve essere diversa, e ha al centro l'evangelizzazione, che è "essenzialmente connessa con la proclamazione del Vangelo a coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno sempre rifiutato", scriveva il Papa nella

Evangelii gaudium, il documento programmatico del pontificato. Cifre ufficiali non esistono, stime anche statistiche non sono disponibili, ma è indubbio - e sono ancora le prudenti parole di Bergoglio a constatarlo - che molti di quanti non conoscono Gesù o lo hanno rifiutato "cercano Dio segretamente, mossi dalla nostalgia del suo volto, anche in paesi di antica tradizione cristiana". E "tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo". Non si tratta di imporre "un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile". Un paio di settimane fa era stato il cardinale svizzero Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell' unità dei cristiani, ad affrontare l'argomento, intervenendo a un convegno interreligioso ospitato al Woolf Institute dell'Università di Cambridge: "Noi abbiamo la missione di convertire tutti quanti appartengono a religioni non cristiane", diceva il porporato, aggiungendo però "che è importante farlo con una testimonianza credibile e senza alcun proselitismo". E' bastato usare il verbo "convertire" per scatenare l'atteso putiferio, con addirittura l'intervento del direttore della Sala stampa vaticana a rettificare le parole di Koch, precisando che quanto riportato dai giornali non corrispondeva a ciò che in realtà il cardinale aveva detto. Ma quest'ultimo aveva chiarito subito che il proselitismo non può essere la ricetta per ripopolare una chiesa che a determinate latitudini (le nostre) soffre per un generale intorpidimento che va ben al di là delle chiese vuote la domenica per la messa. Koch portava a esempio proprio i musulmani, benché il suo riferimento principale fossero i jihadisti, che sotto le insegne del credo religioso perseguono fini politici: "Dobbiamo soprattutto convertire loro che usano la violenza perché quando una religione usa la violenza per convertire gli altri questo è un abuso della religione". L'attrazione di cui parlava il Papa è chiara nella testimonianza di Johannes, un iraniano che sempre al Guardian ha raccontato come è nata (e perché) la sua conversione. Nato in una famiglia musulmana, si chiamava Sadegh. All'università ha iniziato a farsi qualche do manda sulle radici dell'islam e "ho riscontrato che la storia dell' islam era completamente diversa da come l'avevamo imparata a scuola. Forse, ho pensato, era una religione che si era affermata con la violenza". Ma - sono sempre le parole di Johannes, che ora vive a Vienna - "una religione che muove i primi passi con la violenza non può condurre le persone alla libertà e all'amore. Gesù Cristo ha detto che chi di spada ferisce, di spada perisce. Questo ha cambiato davvero il mio modo di pensare". Johannes iniziò il suo percorso di conversione in Iran, ma ben presto fu costretto a lasciare il paese. Certo, il rischio di chi cerca il battesimo sperando d'avere più possibilità di ottenere l'asilo c'è. Proprio per questo, lo scorso anno la Conferenza episcopale austriaca pubblicò le nuove linee guida per i sacerdoti, avvertendo che molti rifugiati avrebbero potuto tentare l'ingresso attraverso la conversione. "Ammettere al battesimo persone che durante le procedure sono state classificate come 'non credibili' comporta una perdita della credibilità della chiesa stessa". Ecco, quindi, che dal 2014 è previsto un periodo di preparazione in cui si verifica la volontà di compiere il passo. "Non siamo interessati ad avere cristiani pro forma", spiega Friederike Dostal, che coordina i corsi ad hoc dell'arcidiocesi viennese. E' ancora il pastore Martens, però, ad allontanare i dubbi - anche sulla sua congregazione, che battezza i musulmani dopo solo tre mesi di catechesi: "Molti sono attirati dal messaggio cristiano, che cambia loro la vita". A non mettere più piede in chiesa dopo la conversione è più o meno il dieci per cento, dice. Di casi come quello di Johannes ne esistono altri, anche in realtà dove l'attrazione parrebbe essere impossibile. E' il caso dell'Arabia Saudita, ad esempio, dove il numero dei cristiani è in crescita nonostante non siano ammessi altri culti al di fuori di quello di stato, l'islam. Stime, anche qui, non ci sono. Ci si basa sui segnali, sui pochi dati a disposizione. Secondo questi, i cristiani nel paese wahaabita sarebbero poco più d'un milione, la maggior parte lavoratori stranieri. L'organizzazione Open Doors, che da sempre lavora per i cristiani perseguitati ovunque nel mondo, ha di recente rilevato che anche tra i sauditi le conversioni - naturalmente segrete - sono in aumento. L'esempio citato è quello di Mohammed (nome di fantasia), che si è convertito al cristianesimo dopo aver iniziato a spulciare qualcosa su internet. Ha incontrato qualche cristiano al di fuori dei confini del regno saudita ed è entrato per la prima volta, e sempre in un paese del medio oriente, in una chiesa, iniziando a studiare la Bibbia. Dopo pochi giorni, gli è stato domandato chi fosse Gesù. "E' il mio salvatore, il mio Dio", ha risposto. Da lì, il battesimo prima di tornare in patria, senza che nessuno lo sappia. Una storia non troppo disimile da quella dello scrittore Nabeel Qureshi, autore del libro "Cercare Allah, trovare

Gesù". Qureshi ha raccontato più volte, anche pubblicamente, la sua esperienza di giovane musulmano in occidente che veniva ammonito in continuazione sui rischi di "contaminazione" con i coetanei cristiani. "I primi versetti del Corano che io e gli altri ragazzi memorizzammo nella nsotra moschea proclamavano che Dio non è padre né figlio. Lo recitavo già all'età di sei anni. Imparammo anche che Maometto era il più grande messaggero di Dio, e nessun uomo più perfetto di lui era vissuto su questo pianeta. Non è difficile capire come feci a diventare uno strenuo oppositore della Trinità", ride oggi. Anche qui, decisivo è stato un incontro: un amico, David, capace di reggere il confronto su base quasi teologica. E alla fine, pur tra mille dispute, liti e confronti serrati perfino sull'attendibilità dei vangeli e della crocifissione di Cristo, la svolta, che potrebbe riguardare anche molti giovani contemporanei: "Capirebbero che la visione cristiana di Gesù è molto più coerente rispetto a quella che del nazareno hanno i musulmani. Potrebbero accorgersi che l'islam è costruito su fondamenta molto più deboli del cristianesimo. E potrebbero smettere di allontanare le persone da Gesù, proclamando il Vangelo. E' successo a me, può capitare anche a loro". Che il tema sia delicato lo dimostra il Sinodo sull'evangelizzazione del 2012, che di conversioni dall'islam al cristianesimo ne discusse, seppur senza riscuotere troppo clamore all'esterno dell'Aula nuova ove erano riuniti i padri. A fotografare la situazione ci pensò Béchara Boutros Raï, Patriarca di Antiochia dei maroniti, creato cardinale l'anno successivo da Benedetto XVI nel suo ultimo concistoro: "L'evangelizzazione nei paesi arabi è messa in atto in modo indiretto, all'interno delle scuole cattoliche, delle università, degli ospedali e degli istituti appartenenti alle diocesi e agli ordini religiosi aperti sia ai cristiani che ai musulmani. L'evangelizzazione indiretta è praticata soprattutto tramite i mezzi di comunicazione sociale, in particolare quelli cattolici che trasmettono le celebrazioni liturgiche e vari programmi religiosi. Constatiamo tra i musulmani conversioni segrete al cristianesimo". Raï, nel pieno dello sconvolgimento politico e sociale che infiammava il Maghreb e il vicino oriente, parlò dell'avvento d'una "primavera cristiana che condurrà, per grazia di Dio e grazie a una nuova evangelizzazione illuminata, a una vera primavera araba della democrazia, della libertà, della giustizia, della pace e della difesa della dignità di ogni uomo, contro tutte le forme di violenza e di violazione dei diritti". Si pensi solo al Marocco, dove in quindici anni la presenza cristiana è triplicata e i neofiti appartengono soprattutto alle classi medio-alte, che vedono nel cristianesimo "una religione della tolleranza e dell'amore", rispetto a un islam troppo restrittivo. Abd al Halim, medico e coordinatore della locale chiesa anglicana, spiegava l'anno scorso che "la religione può essere praticata solo in segreto", essendo il credo musulmano religione di stato. "Siamo costretti a pregare come fossimo un'associazione segreta, al punto che siamo stati costretti a dividerci in due gruppi distinti per evitare di attirare l'attenzione". Una prova della crescita delle conversioni anche nelle aree a forte predominanza islamica la offrì il Patriarcato latino di Gerusalemme, che raccontò la storia delle conversioni al cristianesimo in Egitto, il paese arabo con più cristiani tra i suoi residenti. Numeri esatti non ce ne sono, anche perché "coloro che si convertono rischiano procedimenti giudiziari o addirittura la morte se la loro conversione diventa pubblica". E' una "chiesa delle catacombe", così definita - proseguiva la nota del Patriarcato - "non tanto per il confronto col governo, come può accadere in Cina o in altri paesi asiatici, ma per proteggersi dalle vendette della comunità di origine dei nuovi cristiani". Il fattore che innesca il processo è quello più terribile: "Nelle persecuzioni, cioè nel momento in cui una conversione sembrerebbe più improbabile, più pericolosa, il messaggio di Cristo si fa strada. E' proprio questo che pensano i cristiani: essi sono colpiti e più ancora incoraggiati a far conoscere la loro chiesa che cade, ma per rialzarsi ogni volta". WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Il successo silenzioso del Giubileo della misericordia di Francesco Peloso Più di 9 milioni di pellegrini hanno oltrepassato le porte sante delle quattro basiliche maggiori a Roma; l’anno santo della misericordia batte la paura del terrorismo anche se la vigilanza resta alta. L’avvio con l’incubo di Parigi. Un anno santo globale vissuto in ogni chiesa locale. Scongiurati i problemi organizzativi, a settembre la canonizzazione di madre Teresa

E’ un Giubileo che, per dirla alla romana, si svolge alla chetichella, piano piano, senza clamore. Eppure va, e sempre meglio. A sette mesi dall’avvio dell’anno santo straordinario della Misericordia, i numeri parlano chiaro: più di 9 milioni e 100mila pellegrini sono arrivati a Roma in occasione dei vari eventi giubilari, e soprattutto con l’obiettivo di visitare le quattro basiliche maggiori della città e di oltrepassare le varie porte sante, compresa quella del Santuario del Divino Amore. A darne notizia nei giorni scorsi è stato monsignor Rino Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione. Il dato sul flusso dei pellegrini significa molte cose. Intanto che il messaggio di Francesco è stato ascoltato e accolto dai fedeli. Misericordia, spiegava Francesco nella bolla d’indizione del Giubileo straordinario dell’aprile 2015, “è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato”. Ma se questo è un dato importante, pesavano su quest’anno santo diverse incognite che per brevità potremmo definire organizzative. In primo luogo la paura degli attacchi terroristici. La cerimonia inaugurale del Giubileo, infatti, si è svolta l’otto dicembre del 2015, a meno di un mese dalla catena di attentati che aveva sconvolto Parigi il 13 novembre provocando 130 vittime e centinaia di feriti. Piazza San Pietro si riempì un po’ alla volta, e alla fine della mattinata 50 mila fedeli avevano superato i timori e assistito alla messa celebrata dal papa. E tuttavia il clima, in quei primi giorni, fu di tensione e paura, le misure di sicurezza strettissime, i controlli delle forze di sicurezza, i blindati della polizia intorno alle strade che circondano il Vaticano, mostravano quanto la preoccupazione fosse reale. La vigilanza ovviamente continua, meno invasiva e più discreta, ma il clima generale è profondamente cambiato: con la Primavera il flusso di fedeli ha ripreso a invadere via della Conciliazione. Certo non si può dimenticare che lo stato islamico aveva indicato San Pietro e il Papa come obiettivi da colpire, affermazioni forse destinate a ottenere soprattutto l’attenzione dei media, più propagandistiche che concrete, ma comunque da tenere ben presenti. Va poi ricordato che l’anno santo della Misericordia, indetto da papa Francesco circa 9 mesi prima del suo inizio, è stato preparato in poco tempo e con il timore che la città finisse per non essere pronta all’evento. Anche perché Roma, proprio nel periodo precedente l’inizio del Giubileo, ha vissuto una crisi politica e istituzionale culminata nella caduta della giunta di Ignazio Marino e nell’arrivo del prefetto inviato dal governo, Francesco Paolo Tronca. In questa situazione i pochi interventi previsti per migliorare la viabilità e l’accoglienza, hanno subito nuovi ritardi dovuti anche ai tempi fisiologici delle procedure; in ogni caso si è trattato di non molti cantieri, alcuni dei quali hanno terminato in tempi rapidi i lavori più urgenti. Ma soprattutto lo stesso calendario giubilare del Vaticano prevede un numero limitato di grandi eventi a Roma, una novità rispetto al passato. Anche perché, come è noto, il Papa ha promosso l’apertura di porte sante in tutte le diocesi e in tutti i santuari del mondo, l’anno santo si è così moltiplicato a dismisura diventando globale, un Giubileo non solo romano ma forse soprattutto delle chiese locali, di ogni comunità. Non mancano tuttavia gli appuntamenti di rilievo in programma per i prossimi mesi; da ultimo si è svolto il Giubileo degli ammalati, poi a giugno ci saranno anche due udienze cosiddette giubilari, cioè straordinarie, che si svolgono il sabato, in programma per il 18 e il 30 del mese. Questi appuntamenti sono stati ideati proprio per consentire ai fedeli di incontrare in piazza San Pietro il papa. Dal 2 al 4 settembre, poi, si svolgerà il Giubileo degli operatori e dei volontari della Misericordia, dal 22 al 25 settembre, avrà luogo il Giubileo dei catechisti, dal 7 al 9 ottobre il Giubileo mariano, il 6 novembre sarà la volta dei carcerati; in tutti questi casi ci sarà una celebrazione in piazza San Pietro. Il 13 novembre è prevista la chiusura delle porte sante a Roma e nel mondo. Ma non finisce qua: il 4 settembre, infatti, si svolgerà uno degli eventi più attesi di tutto l’anno santo, ovvero la canonizzazione di madre Teresa di Calcutta, beatificata da Giovanni Paolo II nel 1997. Certamente sarà quella una delle giornate ’clou’ del Giubileo dal punto di vista della partecipazione e dell’affluenza di pellegrini a Roma. WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT Il papa non è infallibile. Eccone otto prove di Sandro Magister Equivoci, gaffe, vuoti di memoria, leggende metropolitane. Un elenco degli errori nei discorsi di Francesco. Il più disastroso in Paraguay

"Come aveva detto Benedetto XVI, la tolleranza deve essere zero": così papa Francesco nella sua intervista a "La Croix" del 16 maggio scorso, a proposito degli abusi sessuali sui minori. Ma se si ripercorrono tutti gli scritti e i discorsi di papa Joseph Ratzinger, la formula "tolleranza zero" proprio non la si trova. Mai. E nemmeno qualche formula equivalente. Eppure essa ritorna nelle cronache vaticane come un mantra, l'ultima volta pochi giorni fa, il 4 giugno, in occasione dell'uscita del motu proprio per la rimozione dei vescovi colpevoli di "negligenza" nel trattare i casi di abuso. Ma mentre Francesco l'ha fatta propria più volte, ad esempio nella conferenza stampa del volo di ritorno dalla Terra Santa, attribuirla – come ha fatto – anche a Benedetto XVI non corrisponde a verità. Ed è l'ultima delle non poche inesattezze che costellano l'eloquio pubblico dell'attuale papa. La penultima inesattezza è del 24 aprile, durante la visita che papa Francesco improvvisò a Villa Borghese, nel centro di Roma, ai focolarini riuniti in una manifestazione in difesa della natura. Disse il papa, nel suo discorso improvvisato: "Una volta qualcuno mi ha detto – non so se è vero, se qualcuno vuole può verificare, io non ho verificato – che le parola 'conflitto' nella lingua cinese è fatta da due segni: un segno che dice 'rischio', e un altro segno che dice 'opportunità'. Il conflitto, è vero, è un rischio ma è anche una opportunità". In realtà questa immaginaria traduzione ad effetto della parola cinese "weiji" è un artificio oratorio inventato in Occidente. Fu lanciata per la prima volta da John Kennedy in un discorso a Indianapolis del 12 aprile 1959 e da lì in avanti ripresa numerose volte da lui e da altri leader politici americani, da Nixon ad Al Gore a Condoleezza Rice, diventando ricorrente anche nella stampa popolare di lingua inglese e non. Una terza imprecisione è nella conferenza stampa del 16 aprile di quest'anno sul volo di ritorno dall'isola di Lesbo. Nel rispondere al fuoco di fila delle domande sulla "Amoris laetitia", Francesco indicò nel cardinale Christoph Schönborn l'interprete giusto del documento. E nel tesserne l'elogio – "è un grande teologo" e "conosce bene la dottrina della Chiesa" – aggiunse: "Lui è stato segretario della congregazione per la dottrina della fede". Cosa non vera, perché di questa congregazione Schönborn è stato ed è solo membro. Inoltre, in quella stessa conferenza stampa, Francesco replicò con un inverosimile "Io non ricordo quella nota" a una domanda sulla cruciale nota 351 della "Amoris laetitia", quella che prospetta "l'aiuto dei sacramenti" ai divorziati risposati. Con un altro implausibile "Io non ricordo bene quel documento" Francesco rispose anche alla domanda se la nota dottrinale della congregazione per la dottrina della fede del 2003 che vieta ai parlamentari cattolici di legalizzare le unioni tra persone dello stesso sesso "ha ancora un valore". Questo durante la conferenza stampa sul volo di ritorno dal Messico, il 17 febbraio 2016. E proprio mentre in Italia una legge di quel tipo era sul punto di essere approvata. Nella stessa conferenza stampa sul volo dal Messico a Roma, altro passo falso, questa volta con Paolo VI a farne le spese. Disse papa Francesco: "Paolo VI – il grande! – in una situazione difficile, in Africa, ha permesso alle suore di usare gli anticoncezionali per i casi di violenza". E aggiunse che "evitare la gravidanza non è un male assoluto, e in certi casi, come in quello che ho menzionato del beato Paolo VI, [ciò] era chiaro". Due giorni dopo, anche padre Federico Lombardi ritirò fuori la stessa storia, in un'intervista alla Radio Vaticana fatta con l'intento di raddrizzare ciò che era andato storto nelle dichiarazioni del papa riprese dai media, che sul via libera agli anticoncezionali avevano già cantato vittoria: "Il contraccettivo o il preservativo, in casi di particolare emergenza e gravità, possono anche essere oggetto di un discernimento di coscienza serio. Questo dice il papa. […] L’esempio che [Francesco] ha fatto di Paolo VI e della autorizzazione all’uso della pillola per delle religiose che erano a rischio gravissimo e continuo di violenza da parte dei ribelli nel Congo, ai tempi delle tragedie della guerra del Congo, fa capire che non è che fosse una situazione normale in cui questo veniva preso in considerazione". In realtà che Paolo VI abbia esplicitamente dato quel permesso non risulta per niente. Nessuno è mai stato capace di scovare una sola sua parola in proposito. Eppure questa leggenda metropolitana continua a stare in piedi da decenni e puntualmente ci sono cascati anche Francesco e il suo portavoce. Come veramente si svolse quella vicenda è stato ricostruito per filo e per segno in questo servizio di www.chiesa: Paolo VI e le suore violentate in Congo. Ciò che quel papa non disse mai. Sesto e più disastroso errore: quello in cui è caduto Francesco ad Asunción l'11 luglio 2015, nel discorso ai rappresentanti della società civile del Paraguay, con in prima fila il

presidente Horacio Cartes e le altre autorità del paese. Lì il papa a un certo punto improvvisò, abbandonando il testo scritto: "Ci sono cose, prima di concludere, a cui vorrei fare riferimento. E in questo, poiché ci sono politici qui presenti, c'è anche il presidente della Repubblica, lo dico fraternamente. Qualcuno mi ha detto: 'Senta, il tale si trova sequestrato dall'esercito, faccia qualcosa!'. Io non dico se è vero o non è vero, se è giusto o non è giusto, ma uno dei metodi che avevano le dittature del secolo scorso era allontanare la gente, o con l'esilio o con la prigione; o, nel caso dei campi di sterminio, nazisti o stalinisti, la allontanavano con la morte. Affinché ci sia una vera cultura in un popolo, una cultura politica e del bene comune, ci vogliono con celerità giudizi chiari, giudizi limpidi. E non serve altro tipo di stratagemma. La giustizia limpida, chiara. Questo ci aiuterà tutti. Io non so se ciò qui esiste o meno, lo dico con tutto rispetto. Me lo hanno detto quando entravo, me lo hanno detto qui. E che chiedessi per non so chi… non ho sentito bene il nome". Il nome che Francesco non aveva "sentito bene" era quello di Edelio Murinigo, un ufficiale sequestrato da più di un anno non dall'esercito regolare del Paraguay – come invece il papa aveva capito – ma da un sedicente "Ejército del pueblo paraguayo", un gruppo terrorista marxista-leninista attivo nel paese dal 2008. Eppure, nonostante la dichiarata ed enfatizzata sua ignoranza del caso, Francesco non temette di utilizzare i pochi e confusi dati da lui malamente raccolti poco prima per accusare l'incolpevole presidente del Paraguay addirittura di un crimine assimilato ai peggiori misfatti nazisti e stalinisti. Onore al presidente Cartes per la signoria con cui lasciò cadere nel vuoto l'impressionante pubblico affronto. Altro errore, la citazione immaginaria che Francesco ha messo in bocca al musicista Gustav Mahler nel discorso – zeppo di rimproveri – rivolto a Comunione e liberazione il 7 marzo 2015: "Il riferimento all’eredità che vi ha lasciato don Giussani non può ridursi a un museo di ricordi, di decisioni prese, di norme di condotta. Comporta certamente fedeltà alla tradizione, ma fedeltà alla tradizione – diceva Mahler – 'significa tenere vivo il fuoco e non adorare le ceneri'. Don Giussani non vi perdonerebbe mai che perdeste la libertà e vi trasformaste in guide da museo o adoratori di ceneri". Ogni volta che il papa fa una citazione, la squadra che dà poi forma ufficiale ai suoi discorsi la correda con il riferimento al testo da cui è tratta. Ma in questo caso ciò non è avvenuto. Perché non poteva avvenire. In nessuno scritto di Mahler, infatti, si ritrova la frase citata da Francesco. Va però notato che pochi giorni prima, nel concludere gli esercizi spirituali d'inizio Quaresima ai quali anche il papa aveva partecipato, il predicatore incaricato, il carmelitano Bruno Secondin, aveva costruito l'ultima sua meditazione proprio su quella citazione attribuita a Mahler anche da altri prima di lui e ormai entrata nell'uso corrente, sebbene senza riscontro nella realtà. E infine un'altra frase carissima a Jorge Mario Bergoglio ma di autore immaginario: "Ipse harmonia est". La prima volta che la citò fu il 15 marzo 2013, due giorni dopo che era stato eletto papa, nel discorso rivolto ai cardinali reduci dal conclave: "Io ricordo quel Padre della Chiesa che definiva lo Spirito Santo così…". Anche allora l'ufficio vaticano che si occupa di mettere in bella copia i discorsi del papa e di corredarli di riferimenti bibliografici si arrovellò per trovare chi e dove avesse detto quella frase. Ma non ci riuscì. La massima andò agli atti senza padre, senza madre, senza genealogia. Ma Francesco non si diede per vinto e venti mesi dopo tornò a citare la massima attribuendogli lui una paternità: "'Ipse harmonia est', dice san Basilio". E anche questa volta essa finì agli atti senza la nota a piè di pagina, perché nessuno riuscì a scovare dove san Basilio avesse detto quelle parole. Era il 22 dicembre 2014, e il discorso era quello poi divenuto famoso delle quindici "malattie" sbattute in faccia ai cardinali e vescovi di curia. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA di domenica 12 giugno 2016 Pag 23 Già stanchi dei social? di Martina Pennisi e Beppe Severgnini E’ in calo il tempo che trascorriamo su Facebook, Twitter e gli altri Ci siamo già stufati? L’era del tagga e condividi si sta avviando sul viale del tramonto? Stiamo per (ri)alzare le teste dagli schermi degli smartphone per ricominciare a

interagire solo vis-à-vis ? Non esattamente, ma i recenti dati sull’utilizzo delle applicazioni raccontano qualcosa di interessante sulle nostre abitudini: siamo più orientati verso gli ambienti di dialogo rispetto a quelli di condivisione indiscriminata. Secondo SimilarWeb, che prende in considerazione i dispositivi Android (84% del mercato nel primo trimestre 2016, Gartner), il tempo trascorso all’interno delle app di social networking è in calo. Parliamo sempre, ad esempio, della bellezza di 45 minuti e 48 secondi al giorno su Facebook, nel caso degli americani, nei primi tre mesi dell’anno. Ma vediamo la cifra scivolare dai 48,75 minuti dello stesso periodo del 2015. Nei nove Paesi analizzati (Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Spagna, Australia, India, Sudafrica, Brasile e Spagna), l’utilizzo della piattaforma da 1,6 miliardi di utenti è scivolato dell’8%. Anche la novità più fresca, Snapchat, passa da 23,17 minuti a 18,72 minuti negli Usa e da 21,22 minuti a 16,12 in Francia. In una delle economie più ghiotte dal punto di vista del potenziale, nonostante la crisi, rimane però stabile: l’app gialla in Brasile è ancorata sopra gli 11 minuti e, soprattutto, può contare su una crescita delle installazioni. Instagram deve fare i conti con la flessione più consistente (23,7%). In patria e in Sudafrica l’app di foto ha «ceduto» circa 10 minuti. E deve stare attenta all’India - zona alla quale la Silicon Valley guarda con cupidigia - dove i download sono scesi di più di 10 punti percentuali. Twitter, oltre al grattacapo della crescita degli utenti, deve misurarsi con una disaffezione del 23,4%. La scure è ancora una volta francese, da 19,8 a 13,1 minuti, ma anche gli Stati Uniti perdono per strada 5 minuti. E l’India ridimensiona le installazioni di 13 punti percentuali. A sfregarsi le mani, come detto, sono le app di messaggistica. Sia Facebook Messenger sia WhatsApp, entrambe parte del regno di Mark Zuckerberg, non mostrano battute d’arresto e continuano ad arrampicarsi in patria (+2% e dal 15 al 20% dei dispositivi). Senza dimenticare che Snapchat, che punta molto sugli scambi privati, conquista nuovi schermi non solo in Brasile ma anche in Germania, Spagna e India. Si sta sviluppando, quindi, una modalità di condivisione più diretta e nata in modo specifico per gli schermi mobili. Ai tempi di Lascia o raddoppia? (1955-1959), quanti guardavano il programma e quanti il televisore? Quanti erano affascinati dal messaggio (il quiz) e quanti dal mezzo (la scatola magica apparsa in salotto)? Può sembrare un modo insolito per commentare la mancata crescita dei principali social; ma la questione è tutta qui. Il periodo ipnotico è finito. Facebook ha dodici anni, Twitter dieci, Instagram sei, Snapchat cinque. Stanno tra l’infanzia e l’adolescenza; ed è normale che, a un certo punto, si smetta di crescere vertiginosamente. Non è l’inizio della fine, è la fine dell’inizio. I social, ormai, fanno parte della nostra vita quotidiana. Non a caso, gli utenti aumentano. Prendiamo Facebook. Nell’ultima trimestrale (aprile 2016) ha annunciato d’aver raggiunto 1,69 miliardi di utenti attivi al mese (Monthly Active Users), +15% rispetto allo scorso anno; e 1,51 miliardi di utenti attivi al mese su mobile (Mobile Monthly Active Users), +21%. Nonostante le difficoltà, anche Twitter nell’ultima trimestrale ha riportato un aumento di Monthly Active Users: 310 milioni (+3% rispetto allo scorso anno). Il tempo trascorso sull’app è diminuito? È un problema per i padroni di casa, come ha sottolineato il Reuters Institute for the Study of Journalism (Journalism, media and technology pre-dictions 2016). Facebook, come gli altri social, vuol tenerci più tempo sull’app, farci interagire e aumentare il cosiddetto engagement (che si può vendere ai pubblicitari). Ma, per noi utenti, ridurre quel tempo è normale. Anzi, salutare. L’uso bulimico è un segno d’entusiasmo e d’impazienza; poi ci si dà un ritmo, come per il sesso nel matrimonio. Non occorre essere specialisti - anzi, meglio non esserlo - per notare certe tendenze. Torniamo al principe dei social, Facebook. I ventenni lo usano, non ne abusano. Spesso, a eccedere, sono le mamme e i papà, che mostrano la foga dei neofiti. Twitter? Chi non riesce a staccarsene, soffre di una nevrosi. C’è chi esagera con il tifo calcistico e l’amaro dopo i pasti; alcuni colleghi giornalisti eccedono con tweet e retweet (disintossicatevi, per il vostro bene). Qualcuno dirà: perché, allora, vediamo sempre più persone chine sui telefoni (in metro, al ristorante, sulle strisce pedonali)? Semplice: perché in rete non si limitano a controllare l’altrui esibizionismo su Facebook e a testare la propria arguzia su Twitter. Fanno molte altre cose: controllano la posta su Gmail, ascoltano musica su Spotify, cercano la strada con Google Maps, etc. È un progresso? Chissà. Certamente, è un’evoluzione.

LA REPUBBLICA di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Tu non sei tua. L’ossessione all’incontrario dei maschi che uccidono di Michele Serra Sui maschi che uccidono o sfregiano la femmina che li rifiuta (con lo scopo, lucidamente feroce, di renderla “inservibile” ad altri maschi) si esercitano molto le discipline psicologiche, criminologiche e antropologiche, come è utile e anzi indispensabile che avvenga. Ma credo - e lo dico da maschio - che su quella rovente, tremenda questione, non si eserciti abbastanza la parola politica. Al netto dei materiali psichici complessi e oscuri che ci animano, molti dei nostri comportamenti sono determinati dalle nostre convinzioni e dalle nostre idee. Ciò che siamo è anche ciò che vogliamo essere. O che tentiamo di essere. Se non rubiamo non è solamente per il timore della punizione, o perché non ne abbiamo la stretta necessità economica. È perché abbiamo ripugnanza etica del furto. Quando ero ragazzo, negli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo, si è decisamente sopravvalutato il potere che le convinzioni e le idee potessero esercitare sulla nostra vita; vita quotidiana compresa. “Il privato è politico”, si diceva allora, volendo significare che ogni nostro atto, anche domestico, anche invisibile alla Polis che tumultuava e rumoreggiava sotto le nostre finestre, avesse valore pubblico e producesse il suo effetto politico. Era una forzatura ideologica che l’esperienza provvide, per nostra fortuna, a sdrammatizzare e infine a diradare, facendoci sentire un poco meno “responsabili del mondo” almeno dentro i nostri letti, un poco meno sottomessi al Dover Essere ideologico. Vennero scritti libri e girati film sulla presuntuosa goffaggine che pretendeva di avere instaurato, in quattro e quattr’otto, libertà di costumi e liberalità di sentimenti. Non erano così facilmente arrangiabili, i sentimenti e gli istinti, alle nuove libertà. Non così addomesticabili il dolore inferto e subito, l’abbandono, la gelosia. Ma la decompressione ideologica dei nostri anni è funesta in senso contrario. Le idee, che a noi ragazzi di allora parvero fin troppo determinanti, oggi vagolano in forma di detriti del passato oppure di scontate banalità. Hanno perduto molto del loro appeal: in positivo, perché è finita la sbornia ideologica, ma anche in negativo, perché molte fortissime idee hanno perduto la loro presa sul discorso pubblico, impoverendolo e istupidendolo. Per esempio l’idea - e veniamo al punto - che la donna appartenga a se stessa (“io sono mia”), che la sua persona e il suo corpo non siano mai più riconducibili alle ragioni del patriarcato e del controllo maschile. Se c’è mai stata, al mondo, un’idea rivoluzionaria, è quella: ribalta una tendenza millenaria, smentisce spavaldamente la Tradizione, muta la struttura sociale perfino più radicalmente di quanto la muterebbe la sovversione della gerarchia padrone-operaio. Perché non se ne sente più l’eco, di quello slogan così breve e di così implacabile precisione? Forse perché lo si dà per scontato (non essendolo!); forse perché nessun “principio” assoluto riesce più a ottenere credito in una società smagata, relativista più per sfinimento che per cinismo. Eppure, volendo ridurre all’osso la questione del femminicidio, è proprio l’ignoranza o il rifiuto maschile di quel principio - io sono mia - il più evidente, perfino il più ovvio di tutti i possibili moventi. No, tu non sei tua, tu sei mia. Il mio bisogno è che tu stia con me, e del tuo bisogno (non stare più con me) non ho rispetto, o addirittura non ne ho contezza. Tu esisti solamente in quanto mia; in quanto non mia, esisti talmente poco che cancello la tua vita. Certo, la stratificazione psichica è profonda, cause e concause si intrecciano, paure e debolezze si sommano producendo, nei soggetti più sconquassati, aggressività e violenza. Ma il “via libera” all’aggressione, alla persecuzione, allo stalking, al delitto scatta anche perché nessuna esitazione “ideologica” interviene a soccorrere il carnefice, nessuna occasione di dibattito interno gli è occorsa, a proposito di maschi e di femmine. Politica e cultura (ovvero: il processo di civilizzazione) esistono apposta per non abbandonare la bestia che siamo alla sua ferinità e ai suoi istinti, regolando in qualche maniera i rapporti sociali, rendendoli più compatibili al bisogno di incolumità e dignità di ogni persona. Questo non esclude, ovviamente, che ci siano stalker e aguzzini di buona cultura e di idee liberali. Ma è l’eccezione che conferma la regola: costumi e comportamenti di massa sono largamente influenzati, e sovente migliorati, dalla temperie politica e culturale dell’epoca. È nell’Italia rinnovata e modernizzata degli anni Sessanta che la contadina siciliana Franca Viola si ribella al ladro del suo corpo e pronuncia, entusiasmando milioni di spiriti liberi, il suo semplice ma inequivocabile “io sono mia” prefemminista e presessantottino, con la mitezza luminosa di una Lucia

aggiornata che rimette al suo posto il donrodrigo di turno. È sempre in quell’Italia che, con fatica, si arriva finalmente a mettere in discussione l’obbrobrio giuridico del “delitto d’onore”, che verrà finalmente cancellato vent’anni dopo. Ed è a livello popolare, mica solo nei “salotti”, è nel profondo della società che quei fermenti circolano, quelle discussioni si animano, quei confitti indirizzano il senso comune. Non so quanto dipenda dalla mia storia psichica o dalle mie attitudini caratteriali il fatto che io non abbia mai alzato un dito su una donna. Ma so per certo che dipende in buona parte, per dirla molto banalmente, dalla mia volontà di non farlo; dalla mia educazione e dall’esempio ricevuto in famiglia; dalle mie inibizioni culturali, che mi fanno considerare indegna e vile la sopraffazione dell’altro; infine, e non ultimo, dalle mie convinzioni politiche, che mi conducono fortemente a credere che la libertà delle donne sia condizione (forse la prima condizione) della libertà di tutti. Come disse a milioni di persone, con la sua ruvidezza a volte così necessaria, Luciana Littizzetto al Festival di Sanremo di qualche anno fa, «chi picchia una donna è uno stronzo». Poi, certo, è soprattutto di aiuto, di assistenza e perfino di pietà che hanno bisogno anche gli stronzi, soprattutto gli stronzi. Ma la prima domanda da porre, al femminicida in carcere o in altro luogo di recupero e cura, è sempre e solamente una, semplice, facile da capire, ineludibile: ma non lo sapeva, lei, che le donne non sono di sua proprietà? Non glielo aveva mai spiegato nessuno? AVVENIRE di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Ma il lavoro vale un mondo di Leonardo Becchetti Lo strabismo della responsabilità Non è possibile non rilevare di questi tempi al borsino della cultura il divario enorme tra il valore della sostenibilità ambientale e della dignità del lavoro. Tale divario sottende un fatto assolutamente positivo (la crescita della sensibilità verso il problema ambientale) ed uno assolutamente negativo (il tema della dignità del lavoro tenuto ai margini). Poiché la cultura dominante influenza le scelte politiche ed economiche le conseguenze di questo strabismo sono molto concrete e hanno prodotto un aumento impressionante delle diseguaglianze e un progressivo scivolamento verso il basso della qualità della vita dei ceti medio-bassi (lavoro più difficile e precario, accesso alla sanità più difficile in un momento storico in cui la qualità delle cure incide in maniera fortissima sull’aspettativa di vita). Con effetti sul bene comune e sulla soddisfazione di vita drammatici visto che è la dimensione del lavoro sulla quale si gioca la dignità e la realizzazione della nostra vita. Effetti che pertanto alimentano in tutti i Paesi occidentali quei populismi e quegli esiti elettorali di cui facciamo finta di sorprenderci. Uno dei motivi fondamentali che spiegano questa contraddizione sta nel fatto che esiste una percezione molto chiara, indotta dalla cultura dominante, degli effetti dell’insostenibilità ambientale sulle nostre vite ed una molto più vaga degli effetti dell’insostenibilità sociale. La questione ambientale è stata resa molto nitida. Il riscaldamento globale produce l’innalzamento del livello dei mari e minaccia la sopravvivenza del pianeta. L’inquinamento delle nostre città mette a rischio la nostra salute. In realtà, però, la connessione tra insostenibilità sociale e concreti rischi per ciascuno di noi sarebbero altrettanto (e persino più) evidenti. In un’economia globale dove viviamo la concorrenza delle macchine e del lavoro a bassissimo costo degli ultimi della terra, un sistema economico dove la dignità del lavoro è in fondo alla scala dei valori tutelati (vengono prima la ricchezza degli azionisti e il surplus/benessere dei consumatori) diventa meccanismo moltiplicatore di diseguaglianze. Le diseguaglianze insomma sono proprio come l’inquinamento e l’innalzamento dei mari. Hanno conseguenze dirette su ciascuno di noi perché producono conflitti sociali, flussi migratori incontrollati e incontrollabili e aumentano la difficoltà di trovare un lavoro decente producendo concorrenza verso il basso sul costo del lavoro. Eppure i messaggi politico-culturali vanno proprio in direzione opposta. Ed esaltano tutti i progressi in direzione della precarizzazione del lavoro come se l’obiettivo fosse il livellamento verso il basso. O ci raccontano storie come quella di Uber come se fossero magnifici avanzamenti, esaltando i vari sottocosti e sottoprezzi che nascondono lavoro precario e sottopagato. Perché dunque questo strabismo? Una delle ragioni fondamentali è che mentre la precarizzazione del lavoro appare come la ritirata strategica necessaria per competere con l’esercito di riserva dei sottopagati e dare dignità al lavoro produce (apparentemente) molto minori benefici economici alle imprese, l’ambiente è ormai

diventato un’importante occasione di business e di diversificazione di prodotti e processi. Al tema ambientale è infatti legata l’opportunità della riduzione dei costi attraverso il risparmio di energia e la nascita di nuovi modi di produrre come l’«economia circolare», lo smaltimento dei rifiuti, la diffusione di nuove forme di produzione di energia. Siamo arrivati a un punto di svolta oltre il quale la sostenibilità ambientale sta ormai diventando win-win, comunque vincente, grazie all’azione combinata dei fondi d’investimento etici, la green finance, la regolamentazione locale e nazionale più severa e la nascita di molte forme di innovazione produttiva sui temi della sostenibilità. Come fare per rendere anche la sostenibilità sociale e il contrasto alle diseguaglianze vincente? Bastano iniziative 'difensive' anche se di ampio respiro come il Migration Compact, con cui i governi europei provano a frenare i flussi migratori con progetti che stimolino la crescita delle economie più povere da cui provengono i migranti? Vincere questa sfida culturale è difficile, ma le direzioni su cui lavorare sono chiare. Primo, identificare le migliori pratiche e gli esempi vincenti di aziende che hanno fatto la quadra tra competitività e creazione di valore e dignità del lavoro e che rappresentano esempi eccellenti nei diversi domini del lavoro agile, della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, nell’investimento nelle proprie risorse umane che serve a creare forza lavoro stabile e qualificata. Secondo, 'votare col portafoglio' nei consumi e nei risparmi per premiare le aziende leader della dignità del lavoro. Negli ultimi anni, anzi mesi, la forza del 'voto col portafoglio' è cresciuta enormemente sul fronte finanziario, come raccontato ieri su queste pagine nell’inchiesta dedicata all’azionariato attivo. Se i fondi d’investimento etici si applicassero con la stessa lena al tema del lavoro potrebbero immediatamente costruire analogamente alla «coalizione per la misura dell’impronta di carbonio» (a cui oggi partecipano patrimoni pari a 10 trilioni di dollari) una «coalizione per la misura della dignità del lavoro» nell’impresa. Terzo, le istituzioni nazionali ed europee devono alzare la testa e usare la politica fiscale e commerciale per premiare le filiere ad alta dignità di lavoro sanzionando quelle che non lo sono. Un’inversione di rotta salutare pare essere da questo punto il voto del Parlamento europeo contrario all’attribuzione alla Cina dello status di economia di mercato. Che sarà attribuito solo quando in quel Paese le regole sulla dignità del lavoro saranno equivalenti alle nostre. Qualcuno fa ancora finta di non accorgersene ma è su questo fronte che si giocano la qualità del futuro delle nostre società, i destini politici futuri dei governi in carica e delle stesse istituzioni europee. IL GAZZETTINO di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 La dura lezione delle banche popolari venete di Giorgio Brunetti Tanti controlli, tanta vigilanza e poi succedono i fatti che stiamo vivendo. Miriadi di controlli interni e vigilanza di Autorità indipendenti (Banca d’Italia e Consob) con risultati inefficaci se, alla fin fine, banche importanti del nostro sistema sono andate in default e lo Stato prima, e un fondo misto privato e pubblico, come Atlante ora, sono costretti ad intervenire per salvarle. Che le crisi bancarie abbiano accompagnato la storia del nostro Paese, è cosa nota. Dallo scandalo della Banca Romana, alla fine dell’Ottocento, che coinvolse Giolitti, alla crisi della Banca Italiana di Sconto dei Perrone, subito dopo la Grande Guerra, fino all’Ambrosiano di Calvi all’inizio degli anni Ottanta, per non parlare delle molte banche locali che in questi ultimi decenni, grazie alla moral suasion di Banca d’Italia, hanno trovato il “cavaliere bianco” in un’altra banca in salute che le accorpava. In particolare, oggi nell’occhio del ciclone è la cooperazione nel settore del credito, sia nella forma più evoluta di Banca popolare sia in quella minore di credito cooperativo. Un sistema diffuso di antiche origini che è sempre stato il polmone finanziario del tessuto operativo del Nord e del Centro Italia. La vicinanza dei loro sportelli ai luoghi, le conoscenze diffuse, infondevano poi una fiducia assoluta ai risparmiatori che vedevano il deposito dei loro risparmi in quelle banche un rifugio sicuro, quasi come aver messo i soldi sotto il materasso. Lo hanno sempre sostenuto i sacri testi: l’attività del banchiere è un’arte, non una scienza. “La difficile arte del banchiere” come sosteneva Luigi Einaudi. “I principi e la conoscenza dei meccanismi sono essenziali, ma la buona esperienza è altrettanto importante, come la probità della persona”. Diceva Mattioli, mitico leader della Comit, che il banchiere è un vigile che controlla che il risparmio raccolto si indirizzi verso impieghi aventi rischio accettabile e che possano esser

rimborsati. Nelle cronache che stiamo leggendo sulle Popolari venete ne esce un quadro preoccupante che risente in parte anche della cultura del paese. Favorire i soci, l’amico dell’amico, ammiccarsi i potenti nazionali, cercare di inserire nella governance e nella gestione persone che provengono dagli organi di vigilanza. Comportamenti che assieme alla “mania di grandezza” e alla prassi, quando sorgono dei problemi, di nascondere la “polvere sotto il tappeto”, non portano lontano, anzi sono causa di default. Non ultimo, la scelta dei soci e dei nuovi amministratori di non promuovere ancora l’azione di responsabilità verso la vecchia dirigenza che crea sconcerto e indignazione a quanti, soci e non, sono stati gabbati. Ammoniva sempre Einaudi che “la banca con aggettivo, cattolica, socialista o cooperativa, avrà tanta maggiore probabilità di vita e di successo quanto più l’aggettivo sarà dimenticato e affatto trascurato dai dirigenti e quanto più grande sarà l’abilità del banchiere nello scegliere tra i molti richiedenti, che siano soci o meno, solo gli uomini capaci e probi, deliberati a restituire le somme avute in prestanza”. Bene ha fatto perciò la presidente dell’Unione Industriali di Treviso nell’affermare che oggi “come classe imprenditoriale dobbiamo assumerci una responsabilità collettiva. In troppi abbiamo confidato sulle capacità e sull'onestà di amici e colleghi che si sono dimostrati non all'altezza del compito che per troppi anni li ha visti impegnati". CORRIERE DEL VENETO di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Siamo meno, più vecchi e impauriti di Vittorio Filippi Crisi demografica Una cittadina come Camposanpiero, o Spresiano, o Altavilla Vicentina. Scomparsa, letteralmente spopolata. Come nel film «Cose dell’altro mondo», in cui a scomparire improvvisamente furono gli immigrati. No, qui a sparire sono proprio tutti, immigrati ed autoctoni. Non è fantasociologia, ma – in un certo senso – ciò che è davvero successo nel corso del 2015 in Veneto. Ed in Italia, ovviamente. E’ accaduto che la popolazione veneta si è contratta di quasi 12.500 persone, la dimensione delle tre cittadine sopra citate. L’algebra di questo spopolamento è alquanto semplice: lo scorso anno i nati sono stati circa 39 mila, quasi duemila in meno rispetto all’anno prima. I morti sono stati invece 50 mila, cinquemila in più del 2014. Segno questo di una popolazione la cui salute è resa più fragile dal suo invecchiamento. Infine perfino il saldo migratorio è negativo per quasi 1.900 unità, tanto è vero che gli stranieri sono calati del 2,7 per cento. Ma se ne vanno anche gli autoctoni: circa 9.500 sono i veneti emigrati nel 2015 . Il risultato complessivo è quel depopolamento che in Italia ha superato le 130 mila unità: come afferma l’Istat, è la prima diminuzione consistente di questi ultimi novanta anni. Come succede per i dimagrimenti eccessivi, dietro al visibile calo di peso si celano squilibri pericolosi. Ciò vale anche per la demografia: dietro questa perdita di abitanti vi è una caduta della natalità che investe anche gli immigrati, tendendo poi ad aggravarsi autoalimentandosi e divenendo quindi di fatto irreversibile. Lo squilibrio è evidente se lo si confronta con l’invecchiamento simbolizzato dai 1.569 centenari viventi nella regione (erano 1.300 solo quattro anni fa). E che ci porta ad avere oggi 16 anziani ogni dieci giovani. L’ultima relazione della Banca d’Italia di qualche giorno fa ha rilevato che la crisi da cui stiamo (insufficientemente) uscendo ha bastonato pesantemente i giovani (in termini reali le loro retribuzioni d’ingresso sono calate di un quinto), spingendoli a rinviare l’uscita dalle famiglie di origine ed a beneficiare delle migliori condizioni economiche dei loro genitori. Scelta oculata, perché così facendo sono stati economicamente meglio dei loro coetanei che invece avevano formato una nuova famiglia. Ma è evidente che tutto questo alimenta il circolo vizioso della nostra demografia bloccata, comprimendo abbondantemente le nascite. Nota la Banca d’Italia che, in compenso, i giovani godono e godranno di una maggiore ricchezza ereditata (immobiliare e non) per il semplice effetto del calo del numero dei figli. Ma è una tendenza che, oltre a riprodurre le disuguaglianze familiari, sottolinea che la nostra è semplicemente una società invecchiata. E quindi, come succede agli anziani, impaurita dal presente e disinteressata al futuro. CORRIERE DELLA SERA di sabato 11 giugno 2016

Pag 21 In calo gli italiani: è la prima volta. Le nascite sotto il mezzo milione di Mariolina Iossa e Virginia Piccolillo Dalla Zuanna: “Coppie senza figli per paura della povertà” Ci sono sempre meno italiani residenti sul nostro territorio, ed è da novant’anni che non accadeva una cosa simile. È l’Istat a fornire il dato, che allarma anche il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei: «Non bastano i soldi - dice - ci vuole la speranza che manca. Se un Paese non fa figli o ha pochi figli, vuol dire che sta male dal punto di vista economico, dell’occupazione, delle politiche familiari e quindi c’è paura a mettere al mondo figli». Nel corso del 2015, rileva l’Istat, si è registrato un forte calo demografico, 130 mila e 61 residenti in meno. Ma se andiamo a guardare le cifre che si riferiscono agli italiani soltanto, senza cioè i 5 milioni e 26 mila stranieri residenti sul nostro territorio, il dato diventa ancora più pesante: sono 141 mila e 777 i residenti in meno. Inoltre 70 mila italiani hanno lasciato il Paese. Il saldo negativo sul complesso della popolazione iscritta all’anagrafe, quindi, riguarda solo gli italiani: se il dato complessivo si attesta attorno ai 130 mila è perché gli stranieri, al contrario, crescono, sono sempre cresciuti in questi anni. Nel 2015 erano 11 mila 716 in più rispetto all’anno precedente, non molti in verità, eppure sono stati loro a contenere la perdita di cittadini residenti. L’Istat ha condotto la ricerca demografica in questo modo: al censimento generale del 2011 ha sommato il bilancio anagrafico del periodo tra il 9 ottobre e il 31 dicembre 2011 e poi dei quattro anni successivi, fino a quello scorso. Tra flussi in entrata, nascite ed immigrazione, e quelli in uscita, decessi ed emigrazione, la popolazione italiana alla fine del 2015 è di 60 milioni 665 mila: di questi l’8,3% sono stranieri, media nazionale che sale al 10,6% per gli stranieri residenti nel Centro Nord. La causa della decrescita della cittadinanza italiana iscritta all’anagrafe è dovuta alla dinamica naturale, con un «effetto rimbalzo» dovuto ai decessi di quanti erano nati durante il baby boom : sempre più anziani e sempre meno nascite. Eppure, il numero di decessi è più alto del dato «fisiologico». Tra le cause, l’aumento delle morti per influenza, molti over 75 non si sono vaccinati, è diminuita la spesa sanitaria, si tende a fare meno prevenzione e ad acquistare meno medicinali perché costano troppo per chi vive di pensione. C’è stato anche un importante fenomeno climatico, la scorsa torrida estate che ha provocato morti tra le persone molto avanti negli anni. Nel 2015 si è anche verificata una diminuzione di italiani residenti molto più consistente per le donne che per gli uomini, 84 mila 792 donne in meno contro i 45 mila 269 uomini. In parallelo, l’Istat ha rilevato una nuova diminuzione dei ragazzi con meno di 5 anni (13,7 per cento) e una nuova crescita degli over 65. Continua poi il fenomeno delle «culle vuote»: 90 mila neonati in meno negli ultimi sette anni. Nel 2015 sono nati quasi mezzo milione di bambini, ma le nascite sono state 16 mila 816 in meno rispetto all’anno prima. Si fanno meno figli al Nord e anche al Centro, che si avvicina al Settentrione, con famiglie senza figli o con un solo figlio. In calo anche il numero dei nati vivi al Sud e nelle Isole. Molte le cause della sempre più bassa natalità delle italiane: è evidente un cambiamento di cultura, le donne fanno meno figli perché lavorano e sono più istruite, così aspettano fino ai quarant’anni e oltre. Tuttavia ci sono quelle che aspettano perché il lavoro non ce l’hanno ancora. Gianpiero Dalla Zuanna, sono anni che censiamo un calo delle nascite. Da demografo, cosa vede di nuovo? «La paura». Cosa intende? «Alle cause di scarsa natalità se ne è aggiunta un’altra. Le coppie hanno il timore di fare figli perché hanno paura che diventino indigenti. La povertà dei bambini è un dato drammatico». Per la prima volta dalla fine della Grande Guerra ci sono stati più morti che nati. È solo per la scarsa natalità? «No. Dipende anche dall’aumento della mortalità». Dovuto a cosa? «Noi studiosi lo chiamiamo “Harvesting” (“Effetto falciatura”). C’è stata un’epidemia di influenza a gennaio, refrattaria ai vaccini, e un’ondata di calore a luglio che hanno causato molte morti tra gli ultraottantenni. E non è solo questo». Cos’altro?

«Il saldo migratorio con l’estero. Sono più quelli che vanno che i nuovi iscritti all’anagrafe. E parliamo di residenti, non rifugiati». A cosa lo attribuisce? «L’Italia non è più attrattiva come prima. Molte persone sono andate via. Anche gli stranieri residenti che si muovono agevolmente in Europa, come polacchi o rumeni, scelgono sempre più di frequente di andare in Germania o a Londra a cercare lavoro». Se a questi dati aggiungiamo i richiedenti asilo? «Il quadro cambia di poco. Nel 2015 sono stati circa 100 mila in più». Cosa c’è di allarmante in questi numeri? «Non tanto, o non solo, il calo delle nascite. Quanto l’invecchiamento della popolazione. Questo è un gran pasticcio: fa aumentare la spesa pensionistica e della sanità e calare il risparmio». Da politico (lei è anche un senatore del Pd), cosa si dovrebbe fare? «Integrare gli stranieri, che portano qui i bambini. E aiutare le coppie ad averne. Quando si decidono stanziamenti le famiglie arrivano sempre in coda. Ma credo che la timidezza nella lotta alla povertà abbia pesato nel voto. Servono misure chiare e universali. Subito». LA REPUBBLICA di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Come riportare gli italiani in Italia di Alessandro Rosina I dati pubblicati dall'Istat ufficializzano la conclusione di una lunga fase di crescita della popolazione italiana. Nei primi decenni del secondo dopoguerra siamo aumentati soprattutto perché facevamo molti figli, in grado di compensare persino l'alto numero di espatri. Tale effervescente fase demografica tocca l'apice a metà anni Sessanta e si esaurisce negli anni Settanta. Nel 1977 il numero medio di figli per donna scende sotto la soglia di due, per poi inabissarsi sotto uno e mezzo nel 1984. A partire dagli anni Ottanta il saldo migratorio da negativo inizia a virare verso valori positivi aprendo una nuova fase in cui la diminuzione della popolazione italiana viene più che compensata dagli ingressi dall'estero. Le previsioni Istat, con base 2011, mettevano comunque in conto che ad un certo punto l'immigrazione non sarebbe più bastata ad alimentare la crescita totale. Questo sarebbe però dovuto accadere molto più in là, attorno al 2040, non già nel 2015. Il motivo dell'anticipazione del declino è da attribuire all'impatto particolarmente severo della crisi economica in un paese con una demografia già da tempo in sofferenza. I fattori negativi si sono inaspriti e quelli positivi si sono raffreddati: le nascite sono crollate ai livelli più bassi di sempre, le iscrizioni all'anagrafe dall'estero si sono ridimensionate, le cancellazioni verso l'estero sono lievitate. Inoltre, anche la fecondità delle donne straniere è scesa sotto i due figli per donna. Quello che però preoccupa non è tanto essere qualche migliaio in più o in meno. Ciò che dobbiamo guardare con attenzione ed affrontare, con maggiore e rinnovata capacità che in passato, sono gli squilibri generazionali, che interagiscono con quelli sociali e territoriali. La riduzione delle nascite sottrae popolazione dal basso: rende meno consistenti le generazioni più giovani mentre la popolazione anziana continua ad aumentare ed anzi accresce il suo peso relativo. Gli over 65 di cittadinanza italiana non hanno infatti subito alcuna riduzione nel corso del 2015 e continueranno ad aumentare nei prossimi decenni. Mentre i giovani sono già da tempo in progressivo declino, tanto da poterci fregiare oggi d'essere il paese in Europa con più bassa presenza di under 30. Il declino demografico dell'Italia va quindi soprattutto letto nel rapporto tra generazioni. I giovani sono potenziali produttori di nuova ricchezza che fa crescere l'economia e va a sostenere le politiche sociali. Gli anziani tendono più ad assorbire risorse (per pensioni e spesa sanitaria) che a generarne di nuove. Il declino demografico non ci dice solo che i secondi crescono più dei primi e nemmeno che i secondi crescono mentre i primi diminuiscono: ci avverte che abbiamo reso la diminuzione dei giovani ancor più accentuata della crescita degli anziani. Come se ne esce? Non c'è un'unica soluzione, ma un complesso di azioni che dobbiamo mettere in campo urgentemente e tutte assieme: rinvigorire le nascite, ampliare la partecipazione alla forza lavoro, rendere una sfida positiva il vivere più a lungo, aumentare l'attrazione di qualità e l'integrazione degli immigrati. Sostenere e incoraggiare i percorsi professionali dei giovani e i progetti di formazione di una famiglia consentirebbe al paese di potenziare le sue capacità produttive e generative,

limitando anche la fuoriuscita verso altri paesi. Migliorare le misure di conciliazione tra lavoro e famiglia permetterebbe a molte donne (ma anche uomini) di mettere in relazione positiva la scelta di avere un figlio e di essere attive nel mercato del lavoro. Una conciliazione che sempre di più, come conseguenza dell'invecchiamento, riguarda anche la cura degli anziani non autosufficienti. Cruciale è inoltre l'apporto dell'immigrazione, che non può essere quella gestita come emergenza e piegata allo sfruttamento, ma resa parte integrante di un comune modello sociale e di sviluppo. Infine, dobbiamo valorizzare molto di più le opportunità che il vivere più a lungo offre, in ogni campo. Non tanto obbligando le persone a lavorare più a lungo per decreto ma creando le condizioni per mantenersi economicamente e socialmente attivi per scelta e con successo. Il declino demografico non si vince guardando solo alla quantità, ma promuovendo prima di tutto la qualità della vita delle persone, delle loro relazioni, dell' essere attive ad ogni età, del poter realizzare con successo i propri progetti sia lavorativi che familiari. Tutto questo ha però fortemente bisogno anche di una politica di qualità. AVVENIRE di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Il vuoto che avanza di Gian Carlo Blangiardo Dati demografici e ritardi politici Ciò che era provvisorio è ora definitivo e si offre alle valutazioni senza alcuna ombra di dubbio. Il resoconto Istat sul bilancio demografico del 2015 conferma integralmente le anticipazioni che accreditavano, già qualche mese fa, l’immagine di un’Italia con sempre meno vitalità e forza attrattiva. I 486 mila nati registrati nel corso dell’anno non sono solo un 'curioso primato al ribasso' – mai raggiunto in oltre 150 anni di storia nazionale – sono soprattutto la certificazione di un forte stato di crisi che attraversa il Paese e che trova una prima evidente manifestazione nelle difficoltà, e nelle paure, che le famiglie spesso incontrano quando devono decidere 'se' e 'quanti' (altri) figli mettere al mondo. E a tale proposito non sono certo sufficienti le dichiarazioni di principio e le buone intenzioni che periodicamente ricorrono da parte di chi dovrebbe attivarsi per sostenere le scelte procreative di un universo familiare da troppo tempo abbandonato a sé stesso. Ma l’inadeguato investimento in capitale umano non è che uno degli elementi problematici che emergono dalle risultanze anagrafiche del 2015. Le novità che hanno accompagnato quello che passerà alla storia come l’anno dei record demografici (negativi), riguardano anche il brusco aumento del numero di decessi ancora non del tutto chiarito – quasi 50mila in più rispetto al 2014 – e il conseguente ulteriore appesantimento del saldo naturale (-162mila unità), che consolida una situazione di deficit in atto ormai da un decennio. Se poi alla perdita di vitalità sul fronte del movimento naturale si accompagna l’accertata minor capacità di attrarre popolazione dall’estero, e nel contempo l’accresciuta tendenza a lasciar uscire i propri cittadini, ecco che appare inevitabile mettere in conto un ulteriore primato per l’anno appena concluso: il calo della popolazione. Un fenomeno, quest’ultimo, che non si registrava in Italia dal lontano 1918, allorché agli effetti della guerra si sommarono quelli della letale epidemia di 'spagnola'. A conti fatti il 2015 si è chiuso con 130 mila residenti in meno, ma vale la pena di sottolineare come sia soprattutto la componente italiana ad uscirne fortemente penalizzata. Infatti, mentre gli stranieri si caratterizzano ancora per una modesta crescita, pur segnalando un ulteriore calo del loro contributo alla natalità del Paese, gli italiani che mancano all’appello a fine 2015 sono ben 142 mila. E ciò avviene – nonostante il contributo di 178mila stranieri che hanno acquisito la nostra cittadinanza – sia per l’effetto negativo del saldo naturale (per circa 230 mila unità), sia per l’eccesso di uscite (rispetto ai rientri) di nostri connazionali a seguito di movimento migratorio (-72 mila unità). In conclusione, forse come mai nel passato il linguaggio dei numeri contenuti nel bilancio demografico del 2015 dovrebbe farci capire che non è più il tempo delle analisi e dei buoni propositi: è giunta l’ora di passare all’azione. «La demografia si vendica di chi la dimentica», diceva un illustre studioso del secolo scorso e l’impressione è che in Italia si siano per troppo tempo ignorati i numerosi segnali con cui le statistiche traducevano il disagio della popolazione e delle famiglie. Siamo un Paese che a partire dal lontano 1977 non è mai stato capace di garantire in modo autonomo il proprio ricambio generazionale. Svanita anche l’illusione che le migrazioni possano risolvere magicamente – e senza contraccolpi – gli squilibri di una demografia che ha perso

vitalità occorre, una volta per tutte, recuperare una visione realistica del futuro e delle conseguenze che questi dati ci fanno chiaramente intravvedere. IL GAZZETTINO di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Arrivano braccianti e i nostri laureati fuggono dall’estero di Sebastiano Maffettone Mio figlio lavora in Inghilterra dopo avere preso la laurea magistrale in Italia. Altrettanto fanno molti dei miei ex studenti. Che pure amano l’Italia, la sua cultura, il suo cibo, gli amici e i parenti lasciati a casa. E che spesso e volentieri tornerebbero da noi, se fosse possibile trovare un lavoro all'altezza delle loro competenze professionali. Questa è la prima cosa che mi viene in mente quando leggo i dati Istat di ieri che ci rivelano una verità importante: per la prima volta da quasi un secolo in Italia calano i residenti. Sono - al 31 dicembre 2015 - 60 milioni e 6654mila, il che vuol dire 130.061 in meno dello scorso anno. Questo avviene nonostante gli stranieri continuino ad aumentare in totale - sono oramai circa 5 milioni (più del 10% della popolazione al Nord) - e anche su base annua (nel 2015 sono arrivati in Italia 11.716 stranieri in più dell'anno precedente). Questo vuol dire che il calo delle nascite è strutturalmente compensato dall'arrivo di stranieri. Ora, è vero che il dato sui residenti è importante in assoluto, perché dopotutto sono loro che lavorano e pagano le tasse. Purtuttavia, il fatto in sé della diminuzione della popolazione non è grave, perlomeno in questi termini. Quello che invece preoccupa e dovrebbe farci riflettere è la composizione del trade-off tra chi rimane e chi resta. In altre parole, purtroppo di solito quelli che partono sono più giovani e meglio qualificati di quelli che restano o di quelli che arrivano dall'estero, cosa che di certo non conviene a un Paese che voglia migliorare le sue performances produttive. Il primo dato è inequivoco: il paese invecchia, l'età media oggi in Italia è di 44,7 anni, la maggiore mai raggiunta finora. Il secondo ovviamente è più difficile da verificare. Purtuttavia, sembra certo che dall'Italia partano tanti giovani con laurea o dottorato e arrivino tanti braccianti e badanti. Dando per scontato che abbiamo la massima considerazione e rispetto per tutti costoro come persone e lavoratori, un problema grosso quanto una casa rimane. Il problema consiste nella evidente perdita in termini di capitale umano che questo tipo di scambio comporta. Un paese che scambia personale altamente qualificato con manodopera non specializzata si condanna al deficit di ricerca scientifica, al degrado culturale, alla mancanza di innovazione e prima o poi alla perdita di efficienza. Che questo sia un pericolo non tanto vago e neppure troppo lontano da noi, lo si vede anche dai dati sulle iscrizioni all'Università. Gli studenti universitari italiani calano invece di salire di numero. E questo, naturalmente, avviene in misura maggiore al Sud, dove la speranza di trovare un lavoro dopo gli studi è minore. A tutto ciò si aggiunge un facile computo: noi paghiamo le spese per la formazione di tanti giovani brillanti, chiamamoli pure i costi dell'investimento. Ma poi il frutto di questo investimento non va noi ma agli altri. Fareste mai qualcosa del genere se stessimo parlando del vostro bilancio privato? Pag 7 L’Italia “perde” gli italiani: 130mila persone in meno E’ la prima volta in quasi un secolo che si registra una diminuzione dei residenti. Il sociologo De Masi: “La crisi ha peggiorato la qualità della vita” Roma - La popolazione in Italia si è ridotta. Siamo di meno, cosa che non accadeva da circa 90 anni e siamo più vecchi, con una età media di 44,7 anni. Non è incoraggiante il bilancio demografico nazionale diffuso dall’Istat che somma i flussi in entrata (nascite e immigrazioni), sottrae quelli in uscita (decessi ed emigrazioni) e traccia un totale che non ci si aspetta. La popolazione residente calcolata al 31 dicembre 2015 è pari a 60.665.551. Dunque, 130.061 unità in meno rispetto all’anno precedente. La flessione è più marcata per le donne (-84.792) rispetto agli uomini (-45.269). GLI IMMIGRATI - Ma i dati dell’Istituto nazionale di statistica aiutano a smontare una volta di più i vaneggiamenti apocalittici sul presunto pericolo di un’invasione straniera imminente o addirittura già avvenuta. L’aumento degli stranieri è stato infatti solo di 11 mila unità e non è stato sufficiente a compensare il calo degli italiani (di oltre 140 mila unità). Così su sessanta milioni di residenti in Italia, i cittadini stranieri sono poco più di cinque milioni (l’8,3 per cento del totale), meno dunque che negli altri Stati europei con

cui solitamente ci paragoniamo. E il saldo tra chi va via, compresi oltre 130 mila italiani, (dato che conferma il fenomeno della fuga all’estero)) e chi arriva, è in flessione rispetto agli anni precedenti. Siamo sempre meno attraenti degli altri Paesi e gli ingressi degli immigrati non compensano più i vuoti crescenti. Resta comunque sempre il Nord la meta ideale dei flussi migratori e sono circa 200 le nazionalità presenti nel nostro Paese. La comunità più rappresentata resta quella rumena (22,9%) seguita da quella albanese (9,3%). LE CAUSE - Il calo della popolazione italiana iscritta all’anagrafe è dovuto in larga misura alla cosiddetta “dinamica naturale” (la differenza tra nascite e decessi). Ed è proprio il numero dei decessi a preoccupare, perché crescono più del fisiologico: quasi 50 mila in più rispetto al 2014. Secondo gli analisti la causa principale è da cercare nel clima. L’eccesso di mortalità ha riguardato infatti i primi mesi dell’anno (quando cresce la diffusione delle epidemie influenzali) e il mese di luglio, quando il caldo eccessivo si è prolungato per un periodo eccessivo. PIÙ ANZIANI - La popolazione italiana è anche più vecchia: il 6,7% supera gli 80 anni, mentre si riduce la popolazione con meno di 15 anni (13,7%) e anche quella in età attiva (tra i 15 e i 64 anni), mentre cresce il numero degli over 65 (22%). A livello territoriale è al Nord e al Centro del Paese che si assottiglia la popolazione giovanile (13,6 % al Nord e 13,3% al Centro), contro il 14,2 al Sud. Al 31 dicembre 2015 l’età media della popolazione è stata pari a 44,7 anni (+0,3 punti percentuali rispetto al 2014 contro +0,2 punti degli anni precedenti). Il processo di invecchiamento non fa differenze territoriali e investe tutte le regioni d’Italia anche se con intensità diverse. Al Centro-Nord l’età media supera i 45 anni, nelle regioni del Mezzogiorno è di poco superiore ai 43 anni. A livello regionale il valore più elevato si registra in Liguria (48,5 anni) seguita da Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Piemonte, Umbria e Molise (valori superiori ai 46 anni). Di contro l’età media è più bassa del valore nazionale in Lombardia, Lazio, Puglia, Calabria, Sicilia, Trentino-Alto Adige e Campania, (in quest’ultima è inferiore a 42 anni). Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Vendite on line, i negozi tremano di Elisio Trevisan Stop ai giovani che provano scarpe e abiti per poi andare a comprarli nei siti internet A Seoul in Corea i negozianti vietano ai ragazzini di provare abiti o scarpe perché sanno che poi se li comprano in internet. A Mestre sta succedendo la stessa cosa. All’assedio sempre più soffocante dei centri commerciali e alla crisi economica generale, si aggiunge dunque pure l’ecommerce, ovvero il commercio in internet. Sempre più negozianti mestrini guardano con fastidio ai giovani che entrano, provano un paio di pantaloni, una t-shirt o un paio di scarpe, si fanno tirare fuori anche vari colori, stanno a rimirarsi allo specchio per un bel po’ e poi se ne vanno senza comprare niente. E anche a Mestre hanno cominciato a non servirli, perché sanno che poi se ne tornano a casa, si collegano a internet, entrano in un sito di commercio online e comprano spendendo mediamente pochi euro in meno; nei casi di grandi stock che capitano saltuariamente, invece, arrivano a risparmiare anche la metà. Su Amazon, eBay, il cinese Alibaba e i tanti altri siti che vendono da ogni angolo del mondo si trova qualsiasi prodotto ma il vestiario e le scarpe bisogna provarli, perché se taglia o numero non vanno bene si è costretti a rimandare il pacco al mittente e chiedere la sostituzione, con perdite di tempo non indifferenti. E le taglie o i numeri, si sa, variano molto a seconda del modello o del Paese di produzione. «Noi vendiamo regolarmente su siti online che a tanti non dicono nulla. Tipo Vente-privee, Privalia comprato da Vente-privee, Amazon Buy Vip, Limango (ex Postal Market)», racconta il mestrino Fabiano Zorzetto, titolare di "Gli ori di Venezia", il più grosso gruppo al mondo che produce semilavorato in vetro di Murano per l’oreficeria; ha sede a Mestre in via Rampa Cavalcavia, due fabbriche in Romania e in Brasile, due uffici a New York, sulla Quinta Strada, e a Tokyo a Shinbashi nel quartiere Ginza, e già oggi il 20% del suo fatturato viene dalle vendite in internet ed è in continua

crescita. «Vente-privee da sola fattura 1,5 miliardi di euro l’anno, sono 4 milioni al giorno. Se pensiamo che una Finanziaria italiana non supera di molto i 20 miliardi, si fa presto a comprendere quanto muove l’ecommerce - continua Zorzetto, uno degli imprenditori mestrini che si è buttato nei nuovi mercati, e ormai all’estero vende oltre il 95% della produzione, per non farsi travolgere dalla crisi -. Quando noi organizziamo la nostra vendita in internet arriviamo in 5 giorni a piazzare quasi 400mila euro lordi. Non penso sia molto lontano dal lordo annuale di un negozio medio in centro a Mestre». La differenza rispetto a un negozio è che non tutti i giorni si possono organizzare vendite in internet, altrimenti si svaluta il marchio, ma ci sono settori merceologici che sono online 365 giorni l’anno. Comprese le grandi firme che approfittano anche per liberarsi di stock di prodotti, oltre a creare produzioni parallele e a prezzi più bassi (attraverso ditte terze) per i grandi outlet, le città dell’acquisto. Per il momento gli "Ori di Venezia" organizza non più di tre vendite l’anno in internet «ma il vantaggio è che non hai magazzino perché produci quel che vendi, e inoltre l’80% della merce viene pagata a 5 giorni, e il 20% a 60 perché c’è il diritto di resa per gli acquirenti». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 11 giugno 2016 Pag XVII Mira, il sindaco non si ricandida di Luisa Giantin Alvise Maniero: “Concludo il mandato, poi largo ad altri giovani. Oggi cittadini più consapevoli” «Non mi ricandido; ho fiducia nei giovani del M5S. Ora mi concentro sul mio dovere di sindaco fino in fondo». Alvise Maniero è diventato sindaco di Mira ad appena 26 anni, e ha incarnato l'exploit del Movimento 5 Stelle in Riviera del Brenta sconfiggendo al ballottaggio un centrosinistra che governava Mira da decenni. «Ora il Movimento è più radicato in Riviera - spiega ora Maniero - siamo presenti in diversi consigli, facciamo rete e poi c'è Vigonovo». «Ho conosciuto Andrea Danieletto - prosegue Maniero - e tutti i ragazzi di Vigonovo: sono entusiasti, pieni di voglia di fare, un gruppo fantastico, faranno grandi cose». Sono passati quattro anni dalla primavera del 2012, molto è cambiato, Maniero è diventato anche papà ed è stato costretto, suo malgrado, ad affrontare dure prove come l'emergenza tornado dello scorso luglio e la discussa rivoluzione della gestione dei rifiuti "porta a porta". «Mira era l'unico comune della Riviera a non averlo adottato, e in provincia mancano solo Chioggia e Venezia - commenta il sindaco - Mi rendo conto del doloroso periodo di transizione, ma i benefici si percepiranno dal prossimo anno». La prossima primavera però scade il mandato elettorale e si va alle elezioni. Che farà, si ricandida? «L'ho sempre detto - sorride -: un solo mandato. Me lo chiedono continuamente, anche gli oppositori più critici. Io ho fiducia nei giovani e se c'è un gruppo di matti, come eravamo noi quattro anni fa, che hanno voglia di fare, largo a loro. Poi deve cambiare la cultura personalistica; deve passare il messaggio che non sono io Alvise "il sindaco" ma una persona come tante di buona volontà». L'impegno formale del Movimento nel 2012 era l'attenzione e l'ascolto dei cittadini, è stato mantenuto? «L'ultima conquista di questi giorni è stato il salvataggio della scuola primaria di Marano - spiega Maniero. - Abbiamo supportato i cittadini nelle loro richieste, abbiamo sostenuto le attività per il pomeriggio e ora a settembre ci sarà una classe prima con il tempo pieno, ce l'abbiamo fatta. L'altro esempio di questi giorni sono gli sfalci dell'erba. Prima erano costosi e non si sapeva quando dovevano avvenire, ora spendiamo la metà e ogni cittadino può verificare tempi e ritardi nel calendario on line. Abbiamo ereditato un bilancio comunale che si reggeva solo grazie agli oneri di urbanizzazione costringendo ad un continuo consumo di territorio; ora, nonostante i tagli dei trasferimenti, riusciamo a sostenere la spesa corrente autonomamente. I cittadini rispetto a quattro anni fa sono più coinvolti e consapevoli - conclude Maniero - basta pensare all'ultimo bilancio partecipativo». LA NUOVA di sabato 11 giugno 2016 Pagg 2 – 3 Un anno di Brugnaro. Promesse, polemiche e Mestre blindata di Alberto Vitucci Via i libri gender, problemi a non finire per il tram a Venezia

Venezia. Un anno di governo. A metà giugno del 2015 l’imprenditore Luigi Brugnaro veniva eletto sindaco di Venezia, dopo una campagna elettorale lampo, costata oltre 300 milioni di euro. Superando sul filo del traguardo l’avversario Felice Casson del centrosinistra. Una svolta storica, con il padrone di Umana e patron della Reyer, nato a Mirano e residente a Spinea, per la prima volta nello studio rosso. Sfrattato il centrosinistra, ma sfrattata anche la politica. Perché Brugnaro è arrivato a Ca’ Farsetti con il sostegno delle sue liste «fucsia». Il primo partito a Venezia è la lista Brugnaro, con il 20 per cento dei voti. I suoi alleati Forza Italia e Lega ridimensionati, le opposizioni ridotte al minimo storico, tre consiglieri al Pd, i grillini isolati. Un anno dopo è tempo di bilanci. Come sta governando il sindaco venuto dall’azienda privata? «Sono civico, né di destra né di sinistra», ama ripetere, «prima di decidere mi chiedo: questa cosa serve ai mie concittadini? Ho trovato una situazione disastrosa, adesso ne stiamo uscendo». Il sindaco civico sostenuto dal centrodestra ha messo ell’angolo un’opposizione che vota divisa su quasi tutti i provvedimenti. Va d’accordo con il premier Renzi e con il Pd nazionale, si fa ritrarre abbracciato con il suo omologo fiorentino Dario Nardella. Fai selfie con Michelle Obama, con i tifosi e Jovanotti. Che voto dare al sindaco dopo un anno di governo? Non il quattro delle opposizioni, né il dieci e lode dei suoi fedelissimi. In alcune questioni il sindaco ha dimostrato di sapersela cavare bene. Simpatia e senso dell’umorismo, capacità di parlare con tutti e ascoltare i cittadini anche per la strada. Il sistema aziendale trasportato nell’ente pubblico, con tutti i pregi e i difetti del caso. Prima di candidarsi a sindaco, Brugnaro ha salutato i suoi dipendenti di Umana, la holding del lavoro interinale che raccoglie decine di aziende e ha un fatturato annuo di 420 milioni. «Ci vediamo tra cinque anni», ha detto, «adesso devo sistemare il Comune. Non potevo più girarmi dall’altra parte». Insediato il 2 luglio 2015 ha infilato in partenza qualche gaffe ripresa dai media internazionali. La polemica con Elton John e Celentano, con la sottosegretaria Borletti Buitoni sulle grandi navi, i libri gender. «Inesperienza», sussurrano i suoi collaboratori. Altra accusa, quella di essere «centralizzatore». Nessuno si muove se il sindaco non dà l’ok. Giunta e uffici paralizzati, assessori senza iniziativa. Anche qui lui spiega. «All’inizio dovevo fare così. Non sapevo di chi fidarmi. Adesso vedrete, con la ristrutturazione del Comune tutto funzionerà meglio». I primi 15 giorni Brugnaro li ha passati in municipio portandosi il suo staff di Umana. Morris Ceron e Derek Donadini, poi diventati capo e vicecapo di gabinetto. All’inzio li paga di tasca sua, come di tasca sua paga oggi il nuovo portavoce venuto da palazzo Chigi, Alessandro Bertasi. «Sui soldi e le spese difficile incastrarlo», dicono i suoi fedelissimi. Brugnaro ha rinunciato allo stipendio, usa il suo motoscafo con autista personale per arrivare a Ca’ Farsetti, paga pranzi agli ospiti e trasferte di tasca sua. Conflitti di interessi? Tanti, viste le molteplici attività del gruppo Umana. La proprietà di terreni a Marghera e ai Pili dove era previsto il nuovo palasport con i parcheggi. Ma il sindaco si è ritirato da tutto. Anche dalla gestione della Scuola Grande della Misericordia, gioiello del Sansovino ottenuto in concessione e restaurato con la spesa di 11 milioni, riaperta al pubblico. Non lo preoccupano le polemiche politiche, né il referendum che la Lega in Regione - la stessa che governa con lui a Ca’ Farsetti - vuole mettergli sulla strada. Brugnaro sindaco metropolitano ha già detto che ricorrerà al Tar «contro quella farsa». Non lo preoccupa nemmeno l’opposizione, che orfana di 15 anni di governo stenta a trovare la strada per contrastarlo sui temi forti. Bilancio in pillole: tra le realizzazioni positive il salvataggio del Venezia Calcio - affidato a Tacopina, ora promosso in Lega Pro - e la sicurezza, il «recupero di un ruolo internazionale di Venezia», la soluzione del nodo di Ruga degli Oresi e l’allargamento in terraferma delle iniziative di Fenice e Biennale. La soluzione del mercato di via Pio X e la copertura del buco del Lido, il gemellaggio con San Pietroburgo. Non ancora conclusi i progetti di riorganizzazione della macchina comunale, delle aziende, del commercio e del suolo pubblico, della residenza e del turismo. E il tram a Venezia è arrivato ma non funziona. In autunno l’ora della verità. Venezia. Ha rischiato di essere il sindaco dalla durata più breve nella storia veneziana. La grana più grossa che l’imprenditore Brugnaro catapultato a Ca’ Farsetti aveva sul tavolo era quella del bilancio e dei debiti. «Il commissario ci ha consegnato la cassa, dentro c’era solo un milione di euro», ricorda il suo capo di gabinetto Morris Ceron, «eravamo a un passo dal default 39 milioni di spesa obbligatoria, 40 milioni disponibili. Potevamo svegliarci con i vaporetti fermi, il Comune e le scuole chiusi perché non

c’erano soldi per pagare gli stipendi». La partita del bilancio è secondo lo staff del sindaco una delle questioni risolte in questo primo anno di governo. Le cifre, Brugnaro le ripete ad ogni occasione. Ottocento milioni di debito comprese le società partecipate, 32 milioni di spese da recuperare, 64 milioni di passivo per il Patto di stabilità diventati 18. E nel corso della seconda metà del 2015 Brugnaro ha chiuso partite aperte da tempo. Otto milioni recuperati dall’accordo con Prada per Ca’ Corner, sei milioni dalle Generali per il progetto in Piazza San Marco. E tagli a tutti gli assessorati del 20 per cento. Che hanno coinvolto anche cooperative, associazioni culturali, società sportive. Proteste dal mondo del sociale per la penalizzazione di molte realtà storiche. Secondo la nuova amministrazione era necessario per approvare il bilancio 2015. «Il Comune altrimenti sarebbe stato nuovamente commissariato». I flussi e l’invasione problemi irrisolti - Il turismo e i flussi incontrollati restano un’emergenza della città. Il sindaco ha promesso interventi che al momento ancora non si vedono. Restano le polemiche dell’estate scorsa con Italia Nostra e la sottosegretaria ai Beni culturali Ilaria Borletti Buitoni. Misure di controllo dei flussi che stravolgono la città non ce ne sono. Dalla settimana prossima si parte con gli ingressi separati tra veneziani e turisti per salire sui vaporetti. Un piccolo passo. Più pattuglie nelle zone di frontiera - La sicurezza, uno dei tempi più ricorrenti nella campagna elettorale di Brugnaro. Un anno dopo la situazione è migliorata. Si vedono più pattuglie, in particolare nelle zone «calde» di via Piave e dei parchi in terraferma, di campo Santa Margherita. Qualche risultato visibile sul fronte dello spaccio e della microcriminalità. L’avvio di un lavoro, anche se tanto resta da fare e secondo le opposizioni «non basta». «30 mila nuovi abitanti», ma non ci sono - «A Venezia porterò 30 mila abitanti in più». Una delle promesse più forti lanciate da Brugnaro un anno fa. Molte idee in campo e qualche progetto. Ma sul fronte pratico gli abitanti della città storica continuano a calare. Sono un migliaio in meno dell’anno scorso. 55 mila nella città storica. E continuano a diminuire. In molti casi sfrattati per far posto alle attività di locazione turistica. Gli sfratti non si fermano e la discesa continua. Venezia alla ribalta internazionale - Pochi sindaci hanno portato a Venezia ministri e presidenti del Consiglio come Brugnaro. Questo va ascritto sicuramente a suo merito. Il premier Renzi è venuto quattro volte, molte volte i ministri. Con il vertice Italia-Francia e le iniziative internazionali sull’ambiente e sulla pace. Dal punto di vista mediatico il sindaco imprenditore ci sa fare. E ha portato Venezia al centro dell’attenzione internazionale. I dubbi del progetto Tresse Nuovo - Sulle grandi navi, comunque la si pensi, il sindaco ha indicato una strada e l’ha seguita con coerenza. Difendendo il traffico crocieristico, ma archiviando il progetto di scavo del canale Contorta per puntare sul «Tresse Nuovo». Progetto concordato con l’Autorità portuale e inviato a Roma. Delle alternative al passaggio davanti a San Marco non si sa più nulla, nonostante polemiche e solleciti. Ma questo non è responsabilità del sindaco. Traffico acqueo fuori controllo - Traffico acqueo e moto ondoso. Situazione peggiorata visibilmente, anche se certo non creata dall’amministrazione Brugnaro. Ma il numero dei motoscafi è in aumento, le velocità non cono controllate, le pattuglie dei vigili sono diminuite anche per effetto del taglio degli straordinari e controllano solo certe zone. I gondolieri protestano, e non solo loro. Situazione che si aggrava di giorno in giorno. Si attendono decisioni coraggiose. Il «buco» del Lido coperto dopo anni - Dopo anni di disastri, il sindaco Brugnaro ha affrontato e risolto la questione del «buco» del Lido. Un progetto sciagurato, che prevedeva la spesa di 130 milioni di euro e ha causato la vendita dell’Ospedale al Mare. Ma non è mai stato concluso dalle amministrazioni precedenti. Il nuovo Pala Cinema non

si è visto, 40 milioni sono stati spesi per i lavori bloccati dall’amianto. Il «buco» adesso è stato coperto. Riforma lontana, Municipalità azzerate - «Ho trovato un disastro e 800 milioni di debito». Sicuramente la responsabilità della situazione non è sua. Ma dopo un anno ancora non si vede la riforma promessa della Pubblica amministrazione e della macchina comunale. Bloccato il regolamento edilizio. Per il Bilancio si attendono le decisioni del governo. Le Municipalità sono state azzerate e private delle deleghe. E anche qui la riforma non c’è. Marghera e bonifiche, progetti in sospeso - Il lavoro è stato un altro tema centrale della campagna fucsia della primavera 2015. Grandi progetti sono in arrivo, dice il sindaco. Le bonifiche di Marghera e il rilancio dell’ex area industriale, le nuove periferie disegnate da Renzo Piano, e intanto la Biennale. Con Marghera al centro dell’Esposizione dei Giardini. Ma molte sono le situazioni di crisi del lavoro. Giudizio sospeso, in attesa di vedere i risultati promessi. Plateatico selvaggio e niente regole - Plateatici ovunque, attività per turisti dappertutto. Negozi artigianali costretti a cedere il passo alla paccottiglia. Bar e ristoranti anche di scarsa qualità che aprono uno accanto all’altro. Venezia città del turismo di massa è anche questo. Con tanti saluti al decoro, per l’arrivo ogni fine settimana di gruppi di ubriachi che percorrono urlando le sue strade. Anche qui buona volontà e tante promesse. Ma il Comune non è riuscito a dare regole. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Dolomiti, la grande occasione di Alessandro Baschieri Dopo il verdetto Vittoria. Le Dolomiti avranno questi benedetti mondiali di sci, a lungo rincorsi e finalmente conquistati. Anche perché nell’urna di Cancun non c’erano rivali. L’elezione di Cortina assomiglia un po’ a quella di un sindaco candidato unico che nel giorno del voto deve battere solo il quorum, strappare il requisito minimo della fiducia e della sostenibilità di un progetto. Cortina correva per la patente di presentabile. E l’ha ottenuta, ci mancherebbe. Va da sé che esaltare la vittoria politica, nel senso più nobile e puro del termine, ovvero di chi ha operato per dare valore a un territorio, alla sua gente e alle categorie economiche, stona un po’ se guardiamo ai presupposti e ai tempi che ci separano dal grande evento. È vero, il governo ci ha messo la faccia, ci ha creduto, il comitato si è speso scrivendo un bel dossier, ma la designazione è a malapena un punto di partenza. È solo una grande occasione. La vera gara e la vera partita si devono ancora giocare e sono quelle delle infrastrutture, dell’ambiente, della visione che accompagnerà una kermesse che alternativamente potrebbe ridursi ad una grande settimana di sci con il pienone o diventare volano per ripensare e modernizzare un territorio. La vera sfida oggi è quella di portare Cortina e le Dolomiti a un nuovo livello competitivo, attirare risorse di cui Trentino e Alto Adige godono abitualmente e senza bisogno di grandi eventi. L’Ampezzo deve vincere l’oblio degli ultimi decenni, vissuti di una rendita che potrebbe presto esaurirsi. La designazione mondiale è una carta in un certo qual modo unica e giocata bene potrebbe porre le basi per un nuovo ciclo, lucidare e rinvigorire il mito della Perla: in concreto stiamo pensando all’Alemagna, all’aeroporto di Fiames, alle piste, agli impianti, alle strutture ricettive o anche semplicemente all’immagine. La montagna veneta passerà sui televisori, queste sono le stime, di ottocento milioni di spettatori. Non basterà mungere fondi dal pubblico e dal privato senza sosta - a proposito, il pressing verbale è già cominciato - bisognerà anche e soprattutto spendere bene. E tenere fede a un disegno, facendo argine agli appetiti del malaffare che ad ogni grande evento si presentano puntuali trovando sponde cedevoli. Altrimenti la grande vittoria, le solenni celebrazioni di un giorno, verranno ripagate per contrappasso con inchieste e bocciature postume. Sì,la grande cassa mediatica potrebbe

diventare un boomerang e il territorio questo lo deve sapere. In fondo, l’elezione di Cortina, come quella di un sindaco, è solo una grande assunzione di responsabilità. Se porterà valore alla nostra terra lo sapremo a fine legislatura, fra cinque anni. O forse ancora più in là. Pagg 2 – 3 Cortina conquista i Mondiali di sci di Marco de’ Francesco e Francesco Chiamulera La vera sfida è ora. Il grande evento apre un nuovo ciclo. Strade, aeroporto piste e promozione: partita da 50 milioni Cortina d’Ampezzo (Belluno). C’è qualcosa di più e di troppo pure nell’entusiasmo e nella generale eccitazione successiva alla bella affermazione di ieri notte, quando da Cancún (Messico) - lì dove era riunita la cinquantesima assemblea della Federazione internazionale dello sci - è giunta la notizia dell’assegnazione dei mondiali del 2021. Tecnicamente, le cose sono andate secondo copione, visto che Cortina d’Ampezzo era l’unica candidata nella categoria dello sci alpino; e visto che il governo tricolore c’aveva messo la faccia. Il «no» sarebbe stato uno sfregio con l’acido nitrico, da parte di una categoria (seppure globalizzata) ad uno Stato nazionale. Il fatto è che Cortina ha spezzato il sortilegio: le bocciature per il 2015 e per il 2019 sono finite nel cassetto delle brutte esperienze della vita; il ritiro della candidatura per il 2017, pure. Se la nottata è passata, è anche grazie al team della Fondazione Cortina 2021, quella del fondatore di H-Farm Riccardo Donadon, che ha portato la propria visione del mondo – green, sostenibilità e innovazione tecnologica. Un dossier leggero, in fatto di infrastrutture, ma praticabile. E ora si guarda al domani, con un occhio alle occasioni di business e l’altro alle infrastrutture. Parte, in un certo senso, la caccia ai fondi, una gara a calamitare investimenti pubblici e privati che potrebbero fare da volano per l’intero territorio. Ora: l’elenco di chi si complimenta per il buon esito dell’ardita impresa sarà sempre incompleto. Tra i primi a farsi sentire, ieri mattina, il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, il quale concede le più ampie assicurazioni in fatto di sostegno: «In questo cammino la Regione c’è stata, c’è e ci sarà, con tutte le azioni possibili. Quello che manca si farà, e si farà alla veneta, con serietà, laboriosità, esperienza della gente di montagna e capacità di fare squadra per un nuovo traguardo storico». Gli ha fatto eco il presidente del consiglio regionale, Roberto Ciambetti. E si sono fatti vivi anche il presidente del Coni Giovanni Malagò e della Fisi (federazione italiana sport invernali) Flavio Roda, entrambi da Cancún: in buona sostanza, hanno sottolineato che la felice affermazione è dovuta al lavoro di squadra con il governo e il Comune. Il ministro dell’ambiente Gian Luca Galletti ha rilevato invece che «la “Carta di Cortina” per ridurre l’impatto ambientale delle manifestazioni sportive, sottoscritta da governo e realtà locali è stata parte integrante del dossier per la candidatura e indica la strada da seguire». Il sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti ha ricordato che il governo si è speso tanto per l’obiettivo. D’altra parte è vero: a Cancún è stato diffuso un videomessaggio del premier Matteo Renzi. Si sono fati sentire politici come Roger De Menech (Pd), Raffaela Bellot (Fare) e Giovanni Piccoli (Forza Italia). Ma perché tanto entusiasmo? Le speranze di rilancio, anche economico, del territorio sono molte. Lo ha chiarito il presidente di Confartigianato Veneto Luigi Curto: «Esiste un effetto moltiplicatore che consente di raccogliere, per ogni euro investito (in ristrutturazioni o nella costruzione di nuove opere) prevediamo un ritorno di 1,4 euro sul territorio. Secondo i nostri conti il grande evento porterà benefici per 17 mila imprese». Di qui, la necessità di mantenere l’unità in vista dei finanziamenti. Nel Paese e a Cortina in particolare. Secondo il sindaco di Cortina Andrea Franceschi «è indispensabile riunire tutte le energie e la progettualità per collaborare insieme (Governo, Regione, Provincia, Coni, Fisi, Fis, organizzatori e volontari, attività economiche, associazioni e privati) per garantire con l’evento una crescita non solo di Cortina, ma anche di tutto il territorio. Ognuno di noi infatti è pronto a fare la propria parte con professionalità e impegno». Anche l’opposizione politica nel consiglio ampezzano la pensa così: «Mettiamo da parte le polemiche – ha affermato il leader di “La nostra Cortina”, Stefano Ghezze – e cerchiamo di affrontare al meglio la partita delle infrastrutture. Il rilancio passa attraverso questa operazione. Ci vuole energia, attenzione e buon senso. Peraltro c’è poco tempo». Anche il presidente degli albergatori locali Gianluca Lorenzi pensa a grandi

cambiamenti. E chiede risorse. «Alcuni alberghi – ha affermato - sono come quelli di Sankt Moritz, ma non sono tanti. Si tratta di realizzare serie ristrutturazioni, per offrire servizi all’altezza: wellness, spa, kinderheim, palestra. Abbiamo già fatto un censimento degli hotel che intendono riqualificarsi». Ma chi caccia i soldi? «Quella dei mondiali è una bella notizia, ma si tratta di passare dalle chiacchiere ai fatti - continua Lorenzi - E poi, il premier Matteo Renzi e il governatore Luca Zaia non hanno caldeggiato la candidatura? Ora si tratta di reperire contributi a fondo perduto da Stato, Regione o Unione Europea. E anche la defiscalizzazione degli investimenti sarebbe gradita». Aspettative. Quelle che ogni «grande» città si porta con sé, come un singolare fardello, contrappasso delle proprie glorie. Le aspettative che accampano i ben noti turisti cortinesi quando mettono alla prova (dura) gli esercenti nei momenti di alta stagione, con le loro richieste a volte impossibili, giustificate sempre con quella frase: «Eh, ma siamo a Cortina…». Aspettative mondiali. In assoluto, una delle più tribolate vicende della Cortina contemporanea: voluti, cercati, rifiutati, avvicinati e infine presi. Insieme al blitz fiscale di fine dicembre 2011 e agli scivoloni delle montagne trentine sui manifesti ufficiali, compone un trittico di sventure che la decisione di Cancun sciacqua salutarmente via. Sullo sfondo una storia nota, quella del Novecento cortinese specchio del Novecento italiano, dove si muovono a fasi alterne le pulsioni del cemento e dell’asfalto, dei treni e degli aerei, delle celebrità così come di un antico ceto medio benestante, che una volta nutriva la gloriosa villeggiatura e che adesso, più rarefatto, viene progressivamente sostituito dai principi e dagli emiri del XXI secolo. Si diceva che i mondiali in particolare rappresentano un percorso difficile, un calvario. In questo senso, la giornata di ieri chiude simbolicamente un ciclo. Volendo esercitarsi nella partizione storica, è stato un decennio di grandi trasformazioni, che Cortina non aveva richiesto ma che inevitabilmente le sono precipitate addosso. «Cambiano le etnie», riflette un cortinese doc: «dagli italiani, così affidabili e monotoni, che facevano la gioia degli albergatori particolarmente pigri, quelli che per troppo tempo non avevano ristrutturato, si passa ad un turismo più frettoloso, assai benestante, spesso straniero, giovane e con nuove esigenze». Aspettative. C’è chi dice: ma che cos’è la conquista di un mondiale per una città che nel 1956 aveva ospitato le Olimpiadi invernali? Che cos’è la conquista di un mondiale per un paese che già nel 1906 vantava sul libro ospiti di un suo grande albergo un elenco di sudafricani, indiani, russi, giapponesi, frammenti di una élite già allora cosmopolita? Eppure a volte, nella storia come nella vita degli individui, si misura un successo rapportandolo alle fatiche spese per raggiungerlo. A come si erano dovute ridimensionare le aspettative. Alla crescita esponenziale della concorrenza altoatesina: quando Donatone/Guido Nicheli proclamava dal bar dello Stadio del Ghiaccio «sole, whisky e sei in pole position» - la battuta-icona di Vanzina - Cortina era un’isola di civiltà vacanziera che se la spassava al ritmo di «Amore disperato» di Nada in mezzo a luoghi montani che il turismo ancora quasi non sapevano cosa fosse. Il Sudtirolo aveva appena smesso di essere la terra delle bombe sui tralicci e degli attentati nelle caserme di polizia: un luogo sinistro di risentimenti, incomprensioni e masi isolati. Ed era solo trentatré anni fa. In questo terzo di secolo sono spuntati impianti come funghi tutto intorno alla Conca - la piccola Arabba è meglio collegata della Regina - mentre l’industria turistica si è evoluta con proposte sofisticate ed abbordabili, sfruttando tutta la leggerezza del non portare un nome «pesante» come quello di Cortina. Dove ora sui social sono in molti a dire: «la partita è vinta, ma solo a metà». È il momento di rimboccarsi le maniche e recuperare lo svantaggio. Adesso, solo adesso, si comincia a lavorare. Cortina d’Ampezzo (Belluno). Tra i capitoli più importanti, l’amministrazione generale (8,6 milioni di euro), le infrastrutture locali (9,3), l’organizzazione della pratica sportiva (5,25), i trasporti (3,55), l’accoglienza (3), il marketing (3) e le attività promozionali (1,5). Nel complesso, le voci del dossier di Cortina d’Ampezzo, quello presentato per i ospitare Mondiali di sci alpino del 2021, compongono la cifra di 50,13 milioni di euro. Il documento riporta un precedente accordo di programma, siglato da Comune, Coni, Fisi, Provincia, Regione e consiglio dei ministri: le parti si impegnano a modificare l’attuale Olympia delle Tofane per la disputa delle gare femminili; ad adeguare le piste Valon, Canalone, Vertigine bianca, Rumerlo per le competizioni maschili; a realizzare una nuova

area di arrivo in zona Rumerlo, con strutture di ospitalità, media center, tribune, servizi, uffici gara e uffici giuria; a sistemare impianti di risalita e ad adeguare le piste A e B di Col Drusciè. Ma anche a realizzare l’eliporto-aeroporto di Flames e un parcheggio multipiano in località Piazzale delle Poste; e a rifare lo stadio tennis Apollonio. C’è poi tutta la partita delle infrastrutture stradali e logistiche. Secondo il deputato Roger De Menech, chiamato dal sottosegretario Luca Lotti a svolgere un ruolo di collegamento con il territorio , le cose stanno così: «I primi risultati positivi ci sono già. È stato presentato la scorsa settimana il piano per la viabilità provinciale da 140 milioni di euro, di cui già 70 stanziati dal governo e presenti nel piano programmatico di Anas del 2016». Si tratta di interventi per garantire una maggiore scorrevolezza della strada statale 51 Alemagna tra Longarone e Cortina. Quindi: niente progetti faraonici ma aggiustamenti mirati. Si deve tener presente che la coperta è corta anche dalle parti di Roma. Inoltre il deputato ricorda che «dal Fondo dei Comuni di Confine sono in arrivo 17 milioni sempre per progetti riguardanti lo sviluppo della Regina delle Dolomiti». Secondo De Menech «si concretizzano opportunità inimmaginabili per il Bellunese». Peraltro, chiedono risorse anche gli albergatori di Cortina, per adeguare le proprie strutture agli standard internazionali. Di questa partita, però, non è ancora noto l’ammontare dei finanziamenti necessari. Secondo Il presidente degli Industriali bellunesi, Luca Barbini, «c’è molto da fare e il tempo a disposizione non è molto. Perciò è fondamentale individuare subito, e insieme, le opere e gli interventi che servono e che si possono realizzare, seguendo un programma che non ammette lungaggini e ritardi. Sappiamo che questa è un’occasione storica per la nostra provincia, per le Dolomiti, per il Veneto e per tutta Italia. Sarà una vetrina mondiale che ci permetterà di presentare al mondo le nostre eccellenze, anche produttive». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’ombra che cala sul voto Usa di Massimo Gaggi È iniziata la «via crucis» dell’America verso il voto di novembre, anche se per adesso non si parla di attentati pianificati a tavolino da chi vuole alimentare un clima da «scontro di civiltà» alla vigilia delle elezioni presidenziali americane. Il massacro di Orlando, pur con le sue dimensioni impressionanti e l’origine afghana dell’assassino, potrebbe essere il crimine di uno squilibrato dettato dall’odio contro una minoranza: in questo caso quella dei gay. Qualcosa di simile agli attacchi dei «white supremacist» contro i neri in una chiesa di Charleston o in un tempio sikh del Wisconsin. Ma non mancheranno gli imitatori in un Paese armato fino ai denti che con le elezioni offre un palcoscenico straordinario a folli e terroristi. L’estate degli Stati Uniti, già surriscaldata da una campagna elettorale durissima su tutti e due i fronti e dalla prospettiva di contestazioni contro Donald Trump durante la «convention» di Cleveland, rischia di essere costellata da massacri a raffica (ieri un allarme anche a Los Angeles), non necessariamente pianificati da una centrale terrorista. E, proprio per questo, ancor più pericolosi e imprevedibili. Dopo la strage di San Bernardino, a dicembre, era diffuso il timore che l’atmosfera surriscaldata della campagna elettorale potesse alimentare altri attentati di «lupi solitari». Dopo le stragi dell’11 settembre 2001 le forze Usa hanno imparato a prevenire gli attacchi su larga scala di organizzazioni come Al Qaeda, mentre è molto più difficile intercettare il proselitismo individuale coltivato su Internet dall’Isis. Sono oltre 800 le indagini in corso nel Paese su cittadini americani sospettati di aver aderito o di voler aderire a organizzazioni terroriste dell’Islam radicale. Difficilissimo capire chi è veramente pericoloso quando si esaminano delle semplici intenzioni e non crimini già commessi. Ricette semplicistiche (oltre che illegali e controproducenti) come quella di Donald Trump che vorrebbe proibire l’ingresso negli Usa ai musulmani, rivelano tutta la loro inconsistenza in un caso come quello del massacro perpetrato da Omar Mateen che era a tutti gli effetti un cittadino americano: nato nel Paese, lavorava nel campi della sicurezza e aveva tutte le licenze necessarie per detenere le armi con le quali ha fatto strage. Più che al terrorismo, il massacro di Orlando ci riporta alle stragi

insensate nelle scuole, nei cinema, nei «campus» universitari d’America. E agli «hate crime» degli estremisti della supremazia bianca che di volta in volta hanno preso di mira varie minoranze etniche e religiose. Stavolta l’intolleranza è quella di un uomo di origine afghana, ma il suo sembra essere il gesto di uno squilibrato violento più che quello di un estremista religioso con un’agenda precisa. «Era un violento» raccontano gli amici. «Si era infuriato vedendo due gay che si baciavano davanti ai suoi figli e a sua moglie» ha provato a spiegare il padre. Insomma un crimine tanto grave quanto difficile da prevenire. E se, dopo San Bernardino, Barack Obama aveva enfatizzato la pista terroristica e insistito con tono accurato soprattutto sulla necessità di non farsi trascinare in reazioni eccessive e rappresaglie da «clash of civilization», stavolta il presidente ha mostrato soprattutto frustrazione e rabbia per la frequenza degli assassini di massa che continuano a verificarsi in un Paese nel quale circolano almeno 300 milioni di armi da fuoco, una per ogni abitante. Obama ha parlato di terrorismo, ma anche, apertamente, di «hate crime» contro una minoranza particolarmente vulnerabile, quella omosessuale, colpita nel luogo in un certo senso più sacro: uno di quei club nei quali chi a volte è respinto dalla società e magari dalla sua stessa famiglia, è andato a cercare conforto e solidarietà. Più ancora di un possibile retroscena terroristico di matrice islamica, è questa agghiacciante novità a colpire il presidente, insieme alla capacità di una persona sola di ucciderne decine, ferendone altrettante, con un’unica potentissima arma: una vera arma di distruzione di massa - un fucile d’assalto - perfettamente legale, visto il fallimento dei tentativi della Casa Bianca di mettere al bando almeno le più pericolose, quelle da guerra. Obama non c’è riuscito e sa che non ci riuscirà: subito dopo l’attacco di Orlando la Nra, la lobby delle armi, ha difeso il diritto dei cittadini di possedere un Ak-47 definendolo un’arma da caccia e per la difesa domestica. La sconfitta politica del presidente diventerà un vantaggio elettorale per Trump? È il timore di molti democratici, ma proprio attacchi come quello di ieri potrebbero mettere in luce l’inconsistenza del suo progetto. Pag 1 Il lupo spietato vicino di casa di Guido Olimpio Omar Mateen è l’assassino che ogni fazione estremista desidera. Il militante perfetto. Nato negli Usa, la possibilità di vivere tra le sue future vittime, un lavoro che gli ha permesso di addestrarsi a sparare e di comprare le armi necessarie per consumare il Bataclan della Florida. Sarà l’inchiesta ad accertare che tipo di legame c’è tra il terrorista della porta accanto e l’Isis. Intanto c’è una rivendicazione, mentre le informazioni parlano del padre filotalebano e della sua dichiarazione di fedeltà al Califfato. Esattamente come fecero i killer di San Bernardino poco prima di tirare a raffica sui colleghi di lavoro. Comportamento che semplifica il compito quando si è lontani dalla casa madre, si è da soli e il rapporto con i referenti è puramente ideologico. L’ autore del massacro non solo si è preparato in modo meticoloso, ma è riuscito a passare sotto i radar della sicurezza. Lo avevano inquadrato come un tipo pericoloso nel 2013 e 2014, indagato. Eppure - come è avvenuto in Francia e Belgio - è riuscito comunque a concludere l’attacco imitando il modus operandi dei mujaheddin in Medio Oriente. Così simile ad altri, con problemi personali mescolati probabilmente ad aspetti politici, non uno «pulito», ma con un profilo che finisce per ingannare chi deve sorvegliare. E non è caso che abbia usato un fucile e una pistola: negli Stati Uniti sono letteralmente alla portata di mano e Omar - buco clamoroso - ha potuto comprarle nonostante le segnalazioni. Esattamente come predicava uno dei primi americani finiti agli ordini di Bin Laden, uno dei fautori dell’atto individuale in Europa. I tempi scelti per l’assalto sembrano, poi, rispondere al momento. Il portavoce dello Stato Islamico al Adnani, il 23 maggio, aveva auspicato azioni nel mese del Ramadan, «il mese della Jihad», e si era rivolto proprio ai simpatizzanti che vivono in Occidente. Una risposta operativa all’impossibilità di raggiungere la Siria o l’Iraq. Un’indicazione e non un ordine - che può essere intercettato - a colpire i civili «perché non esistono innocenti nel cuore della terra dei Crociati». E con il consiglio ai cosiddetti lupi solitari a non essere troppo esigenti nel prepararsi alla strage: «La vostra più piccola azione è la più cara nei nostri cuori». Di nuovo, vedremo se gli inquirenti scoveranno un coordinamento ampio, ma quello che conta è il risultato. Al Qaeda e l’Isis in questo sono uguali, è stata la prima a tracciare il sentiero poi allargato dai seguaci di al Baghdadi. Perché si applica tanto a chi si auto-

radicalizza, da solo, tra le pareti di casa, come all’estremista affiliato, parte di un network. Infine il target. Un locale pubblico frequentato da gay che agli occhi dell’assassino è simbolo di vita e di «perdizione». Un odio condiviso talvolta da estremisti neonazi finiti anche loro nella lista dei possibili sospetti. Non solo. Quanto avvenuto nella notte a Orlando si trasforma in un modello se qualcuno vorrà emulare il gesto criminale di Omar costringendo le forze di sicurezza ad allungare le linee - già esili - per parare la minaccia. Basta vedere l’allarme di queste ore, da Washington fino alla California, nel timore che accada ancora. E non necessariamente per mano di un radicale jihadista. L’uomo fermato con un arsenale a Los Angeles ne è la prova. Le polizie sono costrette a inseguire, a presidiare, a controllare posti di divertimento tramutati in bersagli. Il ristorante, il salone per i concerti, il semplice pub, lo stadio. Uno sforzo immane che non garantisce la difesa assoluta. Il nostro scudo è corto per la semplice ragione che è impossibile vegliare su ogni aspetto della nostra esistenza. I terroristi lo sanno ed hanno il vantaggio di potere scegliere dove affondare la loro lancia, felici di uccidere, fieri di spargere il panico. Pagg 2 – 3 Spari, urla e sangue di Giuseppe Sarcina Terrore nel locale gay. Killer di origini afghane entra, spara e fa strage: 50 morti e oltre 50 feriti. “Fedele all’Isis”. Il califfato rivendica. New York. Orlando come Bruxelles, come Parigi. Nella notte di sabato 11 giugno l’America si riscopre vulnerabile, bersaglio fin troppo facile dei «lupi solitari dell’Isis». Cinquanta morti, cinquantatré feriti: la strage del club «Pulse» nella città della Florida è la sparatoria più sanguinosa della storia americana. In assoluto la strage più grave dopo l’11 settembre, più devastante di quella del 2 dicembre 2015 (16 morti) a San Bernardino, in California. «Un atto di odio e di violenza», l’ha definito il presidente Barack Obama. Alle due di mattina Omar Mir Saddiq Mateen, 29 anni, cittadino americano di famiglia afghana, si presenta davanti al locale, nella zona downtown di Orlando, in West Kaley street. Il «Pulse» è conosciuto come «the hottest club», il locale «più caldo», aperto nel 2004 e frequentato soprattutto dalla comunità «Lgbt», lesbiche, gay, bisessuali, transgender. Sabato sera circa 300 persone, molte giovanissime, si affollano nella «Lounge», nell’«Adonis room», nell’«Ultra Bar», nel «Jewel Box». È appena finito lo show di mezzanotte, l’atmosfera è molto rilassata. Il servizio di sicurezza è ridotto al minimo, certo nessuno si aspetta l’attacco. Si beve, si chiacchiera, si balla su ritmi «latinos» o «reggae»: la notte più lunga della settimana, in fondo, è appena cominciata. Secondo le prime ricostruzioni della polizia locale, il giovane si è mosso con grande e folle lucidità. E armato come un incursore, con un fucile d’assalto modello Ar-15, semiautomatico, leggero, micidiale, più una pistola e, sembra, diverse granate. Omar comincia a sparare già dall’esterno. C’è un poliziotto fuori servizio che ora lavora come «security» nel locale. Mette mano alla pistola, apre il fuoco, prova a fermare l’assalitore. Ma non ci riesce. E questo è il primo indizio su cui stanno ragionando gli investigatori. Il killer non è un improvvisatore. Anzi prima di entrare in azione aveva chiamato il 911, il numero per le emergenze, annunciando una strage «nel nome dell’Islam». Non si fa impressionare, dunque, maneggia le armi con disinvoltura, probabilmente si è addestrato a lungo. Conosce il luogo, anche se viveva a Port St Lucie, sulla costa, a 210 chilometri da Orlando. Tutto ciò potrebbe spiegare la sua terribile freddezza. Supera la resistenza della «security» e, correndo, si inoltra verso la «Lounge», l’ambiente più aperto del club, con i divanetti disposti a cerchio, la debole luce di lanterne vintage, qualche tavolino. Continua a sparare, intorno a lui cadono le prime vittime. Un testimone racconterà che sembrava «una falciatrice» lanciata nella folla dei ragazzi e ragazze. Rovinosa: decine e decine di proiettili che sollevano un vortice di schegge. Specchi, bicchieri, bottiglie in frantumi. Molti si feriscono, più o meno gravemente, in questo modo. Per qualche minuto, ma che è un tempo infinito, l’ «hip-hop» sparato ad altissimo volume dagli altoparlanti sovrasta il crepitio delle raffiche. Come era accaduto al «Bataclan» di Parigi, nel novembre scorso, molti giovani non si rendono conto di nulla: quei rumori secchi potrebbero essere un’invenzione di Ray Rivera, uno dei tre disk jockey nelle diverse consolle. «Ho avvertito delle esplosioni - dirà poi Rivera - così ho abbassato la musica per sentire meglio, perché non capivo che cosa stesse succedendo. Pensavo fossero fuochi d’artificio. Poi ho sentito almeno 40

colpi, sono corso via per un’uscita laterale. Ho visto corpi sul pavimento, persone sul pavimento dappertutto». In quegli attimi il suono della discoteca si interrompe. I corpi sudati, i colori, le voci, le risate in un istante crudele si trasformano in grida di disperazione, invocazioni. Si sente urlare in inglese, in spagnolo. Panico. Terrore. Molti riescono a uscire: tumultuosamente si ritrovano nelle stradine buie che circondano come un reticolato il «Pulse». Alcuni sanguinano, altri hanno perso le scarpe, altri ancora hanno i vestiti strappati, lacerati. Fuggono dal massacro. Il quartiere si riempie di richiami, i feriti si accasciano sui marciapiedi. I telefonini brillano: si cercano gli amici, si avvertono le famiglie. E si chiama la polizia. Ma non è affatto finita. Il killer, il «lupo solitario» è ancora vitale, tremendamente razionale. Ha un piano e lo persegue fino in fondo. Sa bene che da un momento all’altro irromperanno le squadre speciali, sa che non ha vie di scampo. La sua logica è quella di un ordigno vivente che vuole massimizzare il danno, colpire ancora e ancora. Uccidere il più possibile. Alle 3 del mattino sull’account Facebook del «Pulse» si legge: «Chi è nel club esca e cominci a correre», ma ormai è tardi. A questo punto la ricostruzione dei fatti non è ancora del tutto chiara. Il terrorista avrebbe radunato qualche decina di persone, tenendole in ostaggio, pronto a usarle come schermo contro la polizia. L’atto finale di un disegno perverso: quelle dovranno essere gli ultimi «infedeli» da trucidare, prima di sacrificare se stesso, in questi giorni di preghiera, nei giorni del Ramadan. Intanto una cinquantina di clienti è riuscita a barricarsi nel bagno. I cellulari funzionano, partono centinaia di sms, qualche breve telefonata sussurrata: serviranno a orientare l’azione delle squadre speciali. Il capo della polizia di Orlando, John Mina, spiegherà nella mattinata, le ultime fasi della notte drammatica. Solo alle cinque di mattina l’ufficiale ordina l’irruzione. Si muove un blindato, coperto da due granate stordenti. Dietro gli «swat», le forze speciali. La sparatoria è furiosa. Omar riesce a colpire alla testa un agente, ma la pallottola si infrange contro l’elmetto verde, senza danni. Subito dopo il terrorista viene ucciso. Si aprono le porte del bagno: i poliziotti portano fuori gli ostaggi. Le immagini mostrano ragazzi trasportati a braccia, caricati sui pick-up della protezione civile, perché non ci sono abbastanza ambulanze sufficienti. La città è stordita. Il sindaco di Orlando, il democratico Buddy Dyer, si aggira fianco a fianco con il governatore repubblicano Rick Scott. Insieme dichiarano lo stato di emergenza civile. Arrivano gli ufficiali dell’Fbi, sigillano l’area del «Pulse», prendono il comando delle indagini. Nel frattempo l’Orlando Regional Medical Center riceve i feriti, che poi vengono smistati in altri due ospedali, l’Arnold Palmer e il Winnie Palmer. Vengono avvisati i parenti, e nella notte, si procede a identificare le vittime. Nella mattinata le sale operatorie sono in difficoltà: manca il sangue necessario per le trasfusioni. Verso mezzogiorno il chirurgo Michael Cheatham, del Regional Medical Center, decide di uscire per lanciare un appello pubblico in televisione verso mezzogiorno. Alle 13.42 il sito del giornale locale Orlando Sentinel chiede ai donatori di fermarsi: basta così, tornate a casa, il centro «One Blood» di Orlando è sommerso di uomini, donne di tutte le età corsi ad offrire il sangue. È la reazione dell’America. Pag 5 Le botte alla moglie, la fedeltà all’Isis: l’Fbi lo controllava di Guido Olimpio Washington. Il padre del killer, all’inizio, ha giocato la carta personale. Omar avrebbe compiuto il massacro in reazione ad un episodio avvenuto: aveva visto due uomini che si baciavano. Da qui l’attacco al nightclub Pulse di Orlando. Le indagini raccontano un’altra storia. L’autore era conosciuto all’Fbi, lo aveva messo sotto osservazione per due volte, nel 2013 e nel 2014, in quanto pensavano fosse vicino ad ambienti estremisti. Un periodo di osservazione conclusosi con un nulla di fatto. Film già visto, a molte latitudini, con gli investigatori confusi da informazioni a volte sfuggenti. Hanno lasciato la presa e lui ne ha approfittato, anni dopo, organizzando l’attentato più grave dopo quello dell’11 settembre. Operazione rivendicata dall’agenzia dello Stato Islamico, Amaq. Un’assunzione di responsabilità che ha bisogno, però, delle consuete verifiche. Troppo semplice postare un messaggio dove dice che è «uno dei nostri». Di certo era tra noi. Omar non è venuto su un barcone, neppure violando la frontiera sud, quella lungo il Rio Grande. No, Omar è nato 29 anni fa a New York, membro di una famiglia di immigrati afghani. Un americano con un tetto, una vita, un futuro. Diventato poi, come i cloni jihadisti visti a Parigi e Bruxelles, un soldato della fede. Il suo percorso è anonimo, ma

non privo di segnali che rivelano aspetti inquietanti. Dal nord degli Usa, Mateen ha seguito i suoi in Florida, a Fort Pierce. Ha lavorato come guardia privata, con in tasca il porto d’armi e la possibilità di andare al poligono e di addestrarsi. Nonostante i precedenti sorveglia palazzi federali. Nel 2009 si sposa con una ragazza uzbeka conosciuta online, hanno un figlio, però il matrimonio dura poco. Picchia la moglie, piccoli contrattempi accendono la rabbia di una persona definita «chiusa, riservata, instabile, poco religiosa», anche se va alla moschea. Parole della compagna che evita il peggio solo perché i suoi genitori decidono di sottrarla a quell’inferno. Nel 2011 divorziano. Chissà che i suoi guai non accentuino certe simpatie. Del resto i suoi, pur stabilitisi in America, si erano portati dietro qualche idea non proprio pacifica. Il padre Mir - secondo il Washington Post - non ha mai nascosto di pensarla come i talebani. «I nostri fratelli in Waziristan, i nostri fratelli guerrieri nel movimento talebano si stanno sollevando», è uno dei testi postati su Youtube assieme ad un bizzarro messaggio dove, in divisa, ordina l’arresto di dirigenti politici afghani. La strada tortuosa di Omar prosegue nella discrezione, anche se come si è detto i federali si interessano al suo caso in quanto rivela ai colleghi propositi estremisti. Non certo l’unico. Sono oltre 800 i «soggetti interessanti» sparsi sul continente statunitense, elementi che possono varcare il confine dell’integralismo per entrare nel terrorismo. Cani sciolti visti in azione a Charlie Hebdo e poi a San Bernardino, con la coppia Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik. Ma prima ancora a Times Square con l’americano-pachistano che fallisce di un soffio o i fratelli Tsarnaev, originari della Cecenia, accolti come rifugiati a Boston e poi autori delle esplosioni alla maratona. La differenza sostanziale è che Mateen ha fatto più vittime ed ha ottenuto il sigillo dello Stato Islamico dopo averlo invocato con una telefonata alla polizia durante la quale ha dichiarato la fedeltà al Califfo. Un particolare dell’inchiesta mette in luce un aspetto che rende l’idea di come possano essere fluidi i rapporti con le fazioni. L’Fbi aveva indagato Omar per i suoi possibili contatti con Moner Abusalah, un altro cittadino americano, anche lui di Fort Pierce, morto come kamikaze in Siria nel maggio 2014 e noto per alcuni filmati dove invoca la morte per gli omosessuali. Il militante, prima della sua fine alla guida di un camion bomba, era tornato per un periodo in patria per una missione di proselitismo. Ma non era dell’Isis bensì vicino ad una brigata qaedista. Distinzioni non nitide emerse anche nell’attacco a Charlie Hebdo. Non sarebbe una sorpresa se Omar avesse deciso di mettersi sotto la bandiera dello Stato Islamico in quanto è il movimento che accetta, senza troppe esitazioni, chi è disposto al martirio. Lui ha solo dovuto attendere il momento propizio. Il 23 maggio i vertici dell’Isis hanno rinnovato l’invito rivolgendosi proprio ai lupi solitari in vista del Ramadan. Lui era pronto, doveva solo armarsi e lo ha fatto pochi giorni fa, acquistando il fucile AR 15 e la pistola. Domanda: dai controlli previsti non è uscito nulla? Vediamo quale sarà la risposta. Quanto a Mateen ha ripetuto uno schema operativo noto, scegliendo i gay come bersagli, quelli che lo Stato Islamico uccide a Raqqa buttandoli giù da una torre. Vittime facili. Poi la presa d’ostaggio, la battaglia finale e l’Isis è passato a incassare. Pag 27 La crisi dei migranti è il banco di prova dell’identità europea di Mauro Magatti Le ultime rilevazioni dicono che l’attrazione verso la Ue è in forte calo nelle opinioni pubbliche del Vecchio Continente. E come potrebbe essere diversamente? Se si guarda l’Europa dal di fuori, ci potrà forse risultare più chiaro che il nostro mito politico ruota attorno a un’idea: il principio della dignità umana come base possibile, insieme, dell’ordine democratico e dello sviluppo economico. Qualcosa che ci distingue tanto dagli Stati Uniti (dove prevale il mito della nuova frontiera e del self-made man ) quanto della Cina (che vive del mito dell’armonia). Non si tratta solo di un principio astratto. Se si prende una cartina geografica, si può constatare che solo nel Vecchio Continente esiste un sistema universalistico di protezione sociale chiamato welfare . Al di là di tutte le sue inefficienze e insufficienze, è questo il tratto che più ci contraddistingue e di cui dovremmo essere più gelosi e orgogliosi. Non è dunque per caso che la questione dei migranti sia oggi il punto di tensione più forte che sta attraversando l’Europa. Da una parte, c’è il richiamo a questo nostro principio, messo alla prova in modo drammatico. Dall’altro ci sono comprensibili e legittime preoccupazioni, accentuate dalla mancanza di una chiara linea d’azione comune. I nostri sistemi politici sono profondamente scossi da

questa sfida, che coinvolge dimensioni economiche, politiche, culturali. Al punto che siamo arrivati a costruire muri! E persino nella civile Inghilterra, la gestione dell’immigrazione è uno dei temi caldi della dibattito sulla Brexit. Si può arrivare a dire che proprio la questione storica del migranti sarà il terreno su cui vivrà - dandogli misura, sostenibilità e sensatezza istituzionale - o morirà il progetto politico che sta alla base della Ue. Ma cosa significa questo? Almeno tre cose. Primo: senza la capacità di tradurre in una forma istituzionale concreta il principio della dignità umana l’Europa non c’è più. Semplicemente perché viene meno la ragione dello stare insieme. Non c’è dubbio che il mutuo vantaggio economico sia un argomento forte. Ma nella storia non si è mai vista una forma politica nascere senza la condivisione di un mito comune. Secondo: nel momento in cui assume forma istituzionale, il principio della dignità della persona deve fare i conti con la complessità del reale. La riflessione sul welfare - e la sua concreta costruzione istituzionale - è stata storicamente vittoriosa perché ha saputo mostrare che la mediazione tra le esigenze della crescita e la cura delle persone non solo è possibile ma è addirittura vantaggiosa. Oggi sappiamo quanto il welfare sia minacciato dalla crescente pressione della globalizzazione, oltre che per il progressivo invecchiamento della popolazione e la crescita della domanda sanitaria. Tanto che ci poniamo domande sulla sua sostenibilità. Ed è proprio da questa angolatura che la questione dei migranti va ripensata. Intanto, tenendo conto che le curve demografiche europee sono allarmanti. Il previsto calo della popolazione e il suo invecchiamento nei prossimi decenni saranno il fattore di rischio più importante per la nostra prosperità. Il recupero - da avviare in modo urgentissimo - di un equilibrio migliore passa, almeno in parte, da una corretta gestione del fenomeno migratorio. E poi considerando che il lungo e difficile processo di integrazione dei migranti - un lavoro vero e proprio che richiederà anni - può essere un modo per generare occupazione. Che è qualcosa di cui in Europa abbiamo molto bisogno. Negli anni 30, per spiegare il senso del New Deal , Keynes sosteneva che l’uscita dalla crisi passava dal ruolo anticiclico della spesa pubblica: arrivando a dire che, se necessario, si dovevano scavare buche per poi ricoprirle. Ovviamente ciò richiede risorse. Ma come è evidente in questi anni di politiche monetarie convenzionali, le risorse finanziarie possono essere anche create ex nihilo . Laddove esiste una volontà politica per farlo e sostenerlo. In terzo luogo, una politica di apertura e accoglienza non può essere senza misura. Deve rispettare la sostenibilità. Che più che economica è qui di ordine sociale e cultuale: l’innesto di persone provenienti da altri mondi è sempre un’operazione delicata e che può facilmente provocare una crisi di rigetto quando non è chiaro il patto di cittadinanza (fatto di diritti e doveri) che si propone ai nuovi arrivati. Negli anni scorsi si è parlato tanto di identità europea. Spesso solo retoricamente. Ma l’identità si costruisce - culturalmente e istituzionalmente - solo in rapporto all’esperienza, alla vita. Per questo la crisi migratoria - che l’Onu avverte è destinata a durare molti anni essendo una conseguenza di medio termine del grande salto storico rappresentato dalla «globalizzazione» - costituisce per l’Europa il terreno di gioco su cui si forgerà la sua identità futura. A partire dalla capacità di fare del principio della dignità della persona umana la base di nuovi assetti istituzionali. Ma anche dell’identità che vogliamo dare all’Europa. Dalla storia che vogliamo scrivere. Quella dei migranti è cioè il principale banco di prova per dire cosa è l’Europa e quale tipo di società politica vuole essere. Sempre ammesso che una tale aspirazione stia nella testa e nel cuore degli europei . LA REPUBBLICA Pag 1 Comunali, occupazione e sicurezza: le emergenze delle città decisive per i ballottaggi di Ilvo Diamanti Manca una settimana ai ballottaggi. Ultimo atto di questa consultazione amministrativa, che tanta attenzione ha sollevato. Perché in Italia non c'è elezione che non abbia riflessi sul piano politico. Nazionale. Naturalmente, la dimensione "locale" conta. Incrociata con quella "personale". D'altronde, 23 anni fa l'elezione diretta dei sindaci è stata istituita e istituzionalizzata, per legge, come risposta a Tangentopoli e alla crisi della Prima Repubblica. Sostituendo le persone - cioè i sindaci - ai partiti. Così l'elezione del sindaco può apparire - e in parte è - anzitutto un giudizio sulla persona. Tanto più nei ballottaggi, quando le persone sono ridotte a due. Tuttavia, il peso delle identità

politiche e dei problemi locali si conferma significativo. Si spiega così il risultato ottenuto dai candidati a 5 Stelle, soprattutto in alcune grandi città. Nonostante disponessero di una "popolarità" personale minore, rispetto ad altri concorrenti. Ma il marchio 5 Stelle ne ha rafforzato il significato "politico" di "alternativa" agli altri. Soprattutto, agli esponenti dei partiti "nazionali". Allo stesso tempo, i problemi hanno avuto importanza, in ambito territoriale. Come ha riconosciuto Piero Fassino, quando ha osservato che: "Il voto riflette una situazione di crisi sociale che si è sentita nelle grandi città". I dati del sondaggio di Demos per Repubblica, pubblicati due settimane prima delle elezioni, confermano e legittimano ampiamente le considerazioni - e le preoccupazioni - di Fassino. Torino risulta, infatti, insieme a Napoli, la città dove la disoccupazione preoccupa maggiormente. Secondo il 40%, circa, dei cittadini (in entrambe le città) è il problema più grave da affrontare per l'amministrazione comunale. A Torino, peraltro, la disoccupazione preoccupa in misura maggiore (di circa 5 punti) gli elettori di Chiara Appendino, del M5S. E ciò ne spiega, in parte, il risultato. Superiore alle previsioni (nostre, almeno). A Napoli, invece, il problema è sentito in misura molto simile dagli elettori di entrambi i candidati al ballottaggio. Tuttavia, la base di Luigi De Magistris si sente maggiormente inquieta, rispetto ai sostenitori di Gianni Lettieri, per la questione della legalità e soprattutto della sicurezza. Un tema particolarmente critico a Napoli. A Roma, invece, rispetto alle altre metropoli, prevale la sensibilità per la qualità dei servizi, dei trasporti, per la viabilità e il decoro della città. Ma, soprattutto, è acuta (più che doppia rispetto agli altri contesti metropolitani indagati) l'insofferenza verso la corruzione. Un tema sul quale Virginia Raggi e il M5S appaiono largamente più credibili degli altri candidati. In particolare, di Roberto Giachetti. Ma, soprattutto, del PD e dei partiti di centro-sinistra che lo sostengono. Perché il legame fra candidato e partito resta importante, per intercettare il consenso elettorale in città. La persona: è il volto, il riferimento conosciuto e comunque riconoscibile. Ma il partito, la coalizione, garantiscono identità e organizzazione. Nel bene, nel male. E viceversa. Così, a Napoli, dove la politica si è, tradizionalmente, appoggiata su reti di relazioni personali e spesso clientelari, la domanda di "legalità" appare interpretata - letteralmente - da De Magistris. Un magistrato. Estraneo ai partiti tradizionali. Per stile personale: abbastanza "populista" da risultare "popolare" alla "popolazione". Mentre a Torino e a Roma, in particolare, il malessere contro la politica e le istituzioni di governo - non solo locale - si traduce nel voto a 5 Stelle. Considerato estraneo e alternativo rispetto all'establishment. Locale e centrale. Come la Lega a Bologna, dove è riuscita a imporre la propria candidata - Lucia Borgonzoni - al secondo turno. Non per caso. A Bologna, infatti, il tema considerato più critico dagli elettori è, in misura più marcata delle altre grandi città, la criminalità: indicata dal 35% (e associata all'immigrazione). E il piglio securitario - e autoritario - della Lega di Salvini, sull'esempio del modello francese, di Marine Le Pen, appare assai più esplicito e aggressivo - dunque credibile - rispetto ai concorrenti. M5S compreso. Tanto più rispetto a Virginio Merola. Che interpreta la tradizione post-comunista. Al potere in città. Resta Milano. La metropoli del Nord. Capitale economica e finanziaria del Paese. Dove diversi problemi sociali gravano sulla percezione dei cittadini. Su tutti: disoccupazione, immigrazione, sicurezza, disuguaglianza sociale. Fra le altre città "indagate", peraltro, a Milano il grado di soddisfazione per l'amministrazione in carica è fra i più elevati. Tuttavia, il sindaco, Giuliano Pisapia, non si è ri-candidato. E i due sfidanti in lizza, Beppe Sala e Stefano Parisi, sono arrivati al duello finale in assoluto equilibrio. Un punto percentuale li ha divisi, al primo turno. D'altronde, hanno un profilo molto simile. Entrambi manager e tecnocrati. Rappresentano, entrambi, soggetti politici influenti, nella metropoli. Sala: il centrosinistra che ha governato negli ultimi 5 anni, con buon livello di consenso fra i cittadini. Egli stesso, alla guida di Expo, un'esperienza di successo. Parisi: indicato dal Centro-destra forza-leghista. Nella Metropoli di Berlusconi e di Bossi. Simbolicamente - e non solo - capitale alternativa a Roma. Ebbene, i due candidati, pur con un profilo professionale simile, riassumono domande molto diverse. Parisi: le paure. Verso la criminalità e l'immigrazione. Mentre Sala attrae la richiesta di legalità. Ma anche di qualità dei servizi sociali e sanitari. Per questo, più che altrove, a Milano l'esito del ballottaggio appare incerto. Perché i volti dei due candidati non riescono a impersonare due città diverse. E perché non emergono questioni capaci di segnare, in modo alternativo, il presente e il futuro della metropoli. D'altronde, il 1993 è lontano. I sindaci non sono il volto del Paese che cambia. Al massimo (e non sempre),

della loro città. Per conquistare il governo nazionale, non per caso, il sindaco di Firenze è divenuto Sindaco d'Italia. E si è appoggiato non al Partito dei Sindaci. Ma al PD. In seguito: al PdR. Il Partito di Renzi. Pag 33 L’orrore che cambia la corsa elettorale di Alexander Stille La strage in un locale gay di Orlando - circa 50 morti, la mattanza più grave d'America - cambierà il dibattito negli Usa sul terrorismo, le armi, l'Islam e naturalmente le elezioni presidenziali di novembre: soprattutto se verrà confermato il sospetto che l'assassino, Omar Mateen, un giovane musulmano americano, abbia agito per ragioni religiose e politiche o fosse addirittura parte di una rete di jihadisti. L'Is, del resto, ha rivendicato la strage. Il presidente Obama ha parlato di atto di «terrore e odio», rilanciando la sua battaglia contro le armi facili. Il padre di Mateen, Mir Seddique, intervistato dalla rete televisiva Nbc, ha sostenuto che «ciò che è avvenuto non ha niente a che fare con la religione», spiegando che forse la strage è legata a un «incidente», l'ira che il figlio provò quando vide due uomini baciarsi a Miami, un paio di mesi fa. L'anatema nei confronti dell' omosessualità, secondo tradizione islamica, e il fatto che sia ancora criminalizzata in molti paesi musulmani accenderà di nuovo il dibattito attorno la compatibilità dell'Islam e la democrazia. La famiglia di Mateen viene dall'Afghanistan, dove l'omosessualità è proibita e qualche volta punita con la morte. Mentre il padre Mir è sospettato di legami con i talebani. Certo, vari gruppi islamici americani hanno condannato l'attacco, insistendo che è profondamente contrario ai loro principi religiosi-etici. Ma siamo in piena campagna elettorale. E mentre Hillary Clinton ha insistito con l'impegno a «tenere le armi lontano dalle mani di terroristi e altri violenti criminali», perché «non c'è posto per le armi da guerra sulle nostre strade», Donald Trump ha suggerito un blocco totale dell'immigrazione musulmana nel paese: «Ho avuto ragione, serve il pugno di ferro». E questa strage gli rinforzerà la mano. Gli attacchi terroristici, di solito, hanno avuto l'effetto di spostare l'opinione a destra, almeno nel breve termine. Questo riaccenderà anche il dibattito sull'accesso facile alle armi, un tema che Hillary Clinton ha sottolineato spesso nella sua campagna elettorale. L'assassino, Mateen, aveva almeno due armi con sé durante l'attacco, compreso un fucile d'assalto. La Florida è uno dei tanti stati dove chiunque può comprare un'arma senza licenza e senza registrazione, quasi come si compra un litro di latte. Nel 2015 ci sono state 373 stragi negli Usa, per un totale di 475 morti e 1,870 feriti, secondo Mass Shooting Tracker, che definisce strage un episodio in cui almeno quattro persone vengono colpite. Quasi 13mila persone sono morte uccise dalle armi di fuoco negli Usa nel 2015, un vero bilancio da guerra, soprattutto se si considera che nel Regno Unito i morti ammazzati per arma di fuoco non superano i 50 l'anno. In Italia il numero era 202 nel 2011, ultimo anno disponibile per le statistiche. Quindi, tenendo conto della popolazione degli Usa, il tasso di mortalità è 12 volte più grande qui rispetto all'Italia - e più di 50 più grande del Regno Unito. Non solo. Mentre dopo ogni strage ci si aspetterebbe un nuovo impulso verso il controllo delle armi, ciò non accade. Spesso c'è anzi un' impennata di vendite, malgrado gli studi rivelino che la presenza delle armi abbia l'effetto di triplicare la probabilità delle cause di morte violenta. La difficoltà dopo l'11 settembre di infiltrare gli Usa per realizzare attacchi su grande scala ha fatto poi sì che negli ultimi anni la strategia preferita sia stata quella dei "lupi solitari", cioè individui (cittadini americani) che compiono delle stragi con armi d'assalto comprate legalmente. Una triste verità sia che si parli di jihadisti che dei militanti dell' estrema destra: pensiamo agli attentati contro i medici che praticano l'aborto o alla strage di Charleston, dove un giovane razzista ha sparato e ucciso nove persone dentro una chiesa frequentata da afro-americani. Un altro dato significativo. Prima dell' attacco di Orlando, il bilancio tra terroristi islamici e terroristi della destra americana era quasi pari: dal 2002 al 2016 i morti causati da estremisti islamici sono stati 45, quelli causati dagli estremisti di destra 48. Eppure sembra che solo gli attacchi jihadisti incidano davvero nel dibattito politico. La persona sola e armata «è il nuovo volto del terrore», ha detto Marco Rubio, senatore repubblicano della Florida ed ex-candidato per la presidenza. «La guerra contro il terrore si è evoluta in qualcosa che non abbiamo dovuto affrontare in passato: individui che compiono attacchi come questi, con grandi numeri, in luoghi inaspettati». Dopo una

settimana dominata dai commenti considerati razzisti di Donald Trump, l'attacco di Orlando cambia, improvvisamente, tutto il dibattito sulla corsa alla Casa Bianca. LA STAMPA Conoscere l'identità del nemico di Maurizio Molinari Il più sanguinoso atto di terrorismo compiuto contro gli Stati Uniti dagli attacchi dell'11 settembre 2001 è stato realizzato da un afghano-americano di 29 anni che ha chiamato il numero delle emergenze affermando di appartenere allo Stato Islamico del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, che lo ha poi definito un «nostro guerriero». Quanto avvenuto nel Pulse Nightclub di Orlando, Florida, riassume i tre elementi-chiave dell'identità del nemico da cui le democrazie devono difendersi. Primo: Omar Seddique Mateen ha scelto come obiettivo omosessuali, lesbiche e transgender in quanto considerati «impuri» ed «appestati» da un'ideologia totalitaria che identifica nei diritti gay l'estrema degenerazione delle democrazie occidentali, evidenziando come l'obiettivo strategico dei jihadisti è distruggere la modernità. Secondo: il killer che ha ucciso a sangue freddo almeno 50 esseri umani era nato a New York da genitori afghani ed è stato contagiato dal verbo jihadista da messaggi, digitali e non, che Isis diffonde come un virus per reclutare ovunque, trasformando gli esseri umani in kamikaze. Terzo: ciò che nutre tale virus è l'identificazione con la violenza, la passione per la morte e la vocazione al martirio islamico. Riconoscere l'identità di un simile nemico è il primo passo da compiere per poterlo battere. IL FATTO QUOTIDIANO L'irrilevanza del voto cattolico e i frutti laici di papa Bergoglio di Fabrizio D’Esposito Il flop alle amministrative di tutte le liste clericali, dagli alfaniani di Ncd al popolo del Family Day Il voto non ha più padroni: è questa la tendenza più importante delineata dal primo turno delle amministrative. Nel nuovo schema tripolare (M5s, Pd, destra in ordine sparso) condito dalla solita alta percentuale di astensionismo, è venuta meno - vivaddio è il caso di dire - finanche la centralità del voto cattolico. Basta analizzare i dati. Le liste che si richiamano esplicitamente al centro clericale hanno percentuali che vanno dallo zero virgola qualcosa all'uno sempre virgola qualcosa. Il caso più smaccato riguarda il partitino ministeriale di Angelino Alfano, Ncd, quello più vicino alle curie. Nella Capitale, che è anche la città del Vaticano, il progetto di Roma Popolare sponsorizzato dalla ministra cattolica Beatrice Lorenzin, titolare della Salute, ministero di spesa e clientele, ha raccolto consensi miseri, circa 15mila. Idem per tutti quei raggruppamenti, anche della destra radicale e omofoba, ispirati dalla difesa della famiglia tradizionale. Il disastro non ha risparmiato neanche uno dei leader dell' ultimo Family Day, Marione Adinolfi. È il nuovo corso di Bergoglio, bellezza, e i pasdaran del guelfismo non possono farci nulla. Un corso che continua a seminare e raccogliere i suoi frutti sanamente laici. Via dalla politica italiana, questo il mandato del suo pontificato, dopo i corvi e i teocon della stagione ratzingeriana. In particolare, sullo scacchiere italico, sta tramontando la dottrina dell' ingerenza ruiniana, che ha dominato il ventennio breve della Seconda Repubblica. L'identità cattolica, almeno in queste elezioni amministrative, non è stato uno dei tratti dominanti della campagna propagandistica. Anche i fedeli votano come vogliono, a prescindere dalle indicazioni dei loro pastori, laddove vengano date. Questo salutare distacco è visibile persino su Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani. Sabato scorso, l'appello di Bagnasco, presidente della Cei e ultimo epigono del ruinismo, contro l'astensionismo è stato relegato in un box basso nelle pagine interne. Per la Cei bergogliana, a contare è la dimensione sociale, non politica. IL GAZZETTINO Pag 1 Benzina gettata sulla campagna elettorale di Mario Del Pero Si attende di sapere qualcosa di più di Omar Matee, il 29enne americano di origine afgana autore di questa ennesima, terribile carneficina. Odiava gli omosessuali e

simpatizzava per l’Isis, ci dicono le prime ricostruzioni. È probabile, ma non certo, fosse un cane sciolto. Un uomo che come tanti altri prima di lui ha potuto sfruttare le maglie larghe della società statunitense – che tali rimangono, al di là di tutti i controlli e le campagne anti-terroristiche – e il facile accesso alle armi da fuoco per compiere questa strage. Era, ed è, in fondo la preoccupazione principale: l’emergere di un terrorismo autoctono e fai da te, disarticolato e mosso da spirito emulativo, capace di colpire in modo imprevedibile come era già accaduto il dicembre scorso a San Bernardino, in California. Un terrorismo al contempo più e meno pericoloso del suo contraltare europeo. Che non sembra godere della rete di legami e supporti logistici del secondo; che manca, negli Usa, di quel terreno offerto in Europa da pezzi, minoritari ma non marginali, delle comunità d’immigrati arabi; ma che anche per questo sembra più difficile da individuare, prevenire e sconfiggere. Rimangono però le rilevanti implicazioni politiche. Ancor più acute in questo anno elettorale, come ben mostra l’immediato tentativo di Donald Trump di capitalizzare su quanto è avvenuto. È chiaro che di tutto Hillary Clinton e i democratici hanno bisogno oggi meno che di una emergenza terrorismo. Sulla paura di un pezzo d’America, spregiudicatamente canalizzata contro l’altro mussulmano e gli immigrati messicani, Trump ha costruito parte delle sue fortune politiche. È un pezzo d’America, questo, che può essere ampliato, laddove vi dovessero essere altri attentati e l’emergenza terroristica occupasse il centro del dibattito pubblico. Una prospettiva che finirebbe per legittimare Trump e rendere più rispettabili anche le sue proposte politiche e il linguaggio, estremo e violento, con il quale sono veicolate. Di nuovo, è qualcosa che abbiamo visto all’opera anche dopo San Bernardino, quando la percentuale di americani preoccupati per il terrorismo islamico, e disposti a sostenere misure estreme per fronteggiarlo, crebbe in modo rapido e significativo. Su questo agisce ancora l’onda lunga del trauma degli attentati dell’11 settembre 2001, qualcosa che fuori dagli Stati Uniti si dimentica o fatica a comprendere. Barack Obama ha cercato in molti modi di rispondere a queste fobie e di contenerne gli effetti. I suoi tanti compromessi in materia di politiche di sicurezza e di anti-terrorismo sono spesso originati da questo sforzo. Nell’ultimo anno – e ancor più dopo gli attentati di Parigi del novembre scorso – ha cercato di offrire un messaggio ragionevole e pacato nel tentativo di rassicurare un’opinione pubblica spaventata e preda potenziale di demagoghi come Trump. Capiremo nel tempo se sia stata la reazione più appropriata; se affermare, come ha fatto più volte il Presidente, che l’Isis e il terrorismo di matrice islamica non costituiscono delle “minacce esistenziali” per l’America e la sua sicurezza sia il modo più efficace per relazionarsi a un’emotività popolare comprensibile e naturale. Libero da vincoli elettorali, e condizionamenti conseguenti, Obama ha offerto un messaggio sì pragmatico, ma non di rado algido, distaccato e, in una certa misura cerebrale, che nessun candidato alla Presidenza potrebbe in questo momento replicare. Ecco perché la strage di Orlando, che piomba su un dibattito elettorale già di suo assai abbruttito e polarizzato, quasi certamente contribuirà ad avvelenare ancor più il clima politico e ad acuire le divisioni e le contrapposizioni oggi esistenti. Pag 1 Non abbiamo niente da perdere, dobbiamo provarci di Claudio De Min Quattro volte campione del mondo, l’Italia ha invece conquistato una sola volta l’Europa, quasi 50 anni fa, e per farlo ha avuto bisogno, nell’ordine: 1. Di giocare in casa; 2. Di una monetina amica (quella, lanciata dall’arbitro tedesco Tschenscher negli spogliatoi del San Paolo di Napoli, che ci permise di eliminare l’Urss in semifinale); 3. Di una finale bis con la Jugoslavia (2-0) dopo che la prima era finita in parità (1-1); 4. Di un arbitro molto molto casalingo, lo svizzero Dienst, che nella prima finale negò due evidenti rigori agli jugoslavi. Perché? Forse è vero che l’Europeo è (meglio, era) storicamente più difficile del Mondiale; forse che lo abbiamo sempre considerato come un torneo di passaggio, quasi preparatorio ai Mondiali; forse che ci è mancata, soprattutto nell’ultimo ventennio, un po’ di fortuna: vedi la finale incredibilmente persa a Rotterdam con la Francia nel 2000 (il pari di Wiltord all’ultimo secondo dei 4’ di recupero e il Golden Gol di Trezeguet nei supplementari) o l’altra, persa anche quella, nel 2012, contro una Spagna troppo forte e, ahinoi, incrociata proprio nel cuore del suo quadriennio magico. L’Italia che si appresta ad esordire stasera contro il Belgio appare decisamente inferiore sia a quella di Zoff (poi “licenziato” da Silvio Berlusconi) sia a quella di Prandelli e, insomma,

destinata a prolungare la strana euroastinenza di uno dei movimenti calcistici storicamente più importanti del mondo: a dirla tutta, un’Italia così piccola nei valori assoluti forse non si era mai vista. Abbiamo una buonissima difesa ma un centrocampo senza costruttori di gioco (Marchisio, Verratti e persino Montolivo sono a casa, infortunati), senza fantasia e non di primo livello anche sul piano fisico, e un attacco inferiore a quello delle migliori. In più, un centrocampo tanto incompleto rischia di minare anche l’unico reparto europeo, la difesa della Juve, capace in campionato di far trascorrere intere partite senza che Buffon dovesse nemmeno accennare ad una vera parata ma che, in azzurro, non potrà contare sulla stessa, fondamentale, protezione preventiva. Da qui l’idea, molto contiana, di fare di necessità virtù, di rovesciare i valori con altre armi, una squadra tutta corsa e fisicità, equilibrio e sentimento, anima e cuore, tattica e disciplina e, perché no?, anche spregiudicata, senza paura: “Continuano a dirci che siamo scarsi ma possiamo battere chiunque. Credeteci e siate coraggiosi” ha ripetuto fino alla noia ai suoi giocatori il citì che non avrà una seconda occasione azzurra, l’uomo ossessionato dagli schemi e dalla voglia di dimostrare, sempre, di essere il migliore, qui e adesso, come, il mese prossimo, a Londra. Anche approfittando di un Europeo al momento molto più equilibrato ed incerto del previsto. Senonché, l’idea diffusa è che l’Italia abbia uno dei migliori allenatori del torneo e questo – più che il prestigio e la tradizione di chi ha vinto quattro volte il Mondiale e, quanto a palmares, è secondo solo alla Germania - può essere un fattore in grado di riequilibrare sfide apparentemente sbilanciate come quella di stasera, dove il ranking (il Belgio è n.2 del mondo dietro l’Argentina, noi 12. appena davanti all’Ecuador) e il talento complessivo non sembrano lasciarci grandi speranze. Che poi, a dirla tutta, questo Belgio potrebbe anche assomigliare alla Francia: tanta qualità, d’accordo, ma idee di gioco poco delineate, e un gruppo di difensori tutt’altro che straordinari, soprattutto dopo la rinuncia obbligata agli infortunati Kompany e Lombaerts. E, quanto a strategia, onestamente, fra Conte e Wilmots non c’è partita. Insomma, perché non credere che l’Italia possa fare con il Belgio quello che la Romania ha fatto con la Francia, magari con un po’ di furbizia e buona sorte in più e, dunque, con un finale diverso? LA NUOVA Pag 1 I sindaci maltrattati da Roma di Francesco Jori Il Risiko nel deserto. In vista dei ballottaggi di domenica, leader e leaderini dei vari partiti si impegnano nel gioco di piantare le bandierine nella mappa elettorale del Paese, esercitandosi nella contabilità del voto. Ma lo fanno solo sulla colonna dei possibili successi, trascurandone una di ben più determinante: la debolezza dei vincitori; cioè di sindaci chiamati per i prossimi cinque anni ad amministrare realtà grandi o piccole dovendo scontare l’handicap di riscuotere la fiducia di una ristretta minoranza dei loro cittadini. Perché considerando l’astensione già registrata nel primo turno, e sommandoci l’ulteriore calo dell’affluenza nel secondo, salvo rare eccezioni i sindaci saranno l’espressione di metà della metà della popolazione. E non è certo un buon viatico. È una delle conseguenze della legge che dal 1993 prevede l’elezione diretta? Certo, ma in passato ha avuto un ben diverso impatto. Fin dall’inizio la lista degli iscritti alla competizione per i municipi è risultata affollata. Ma fin dall’inizio gli elettori hanno dimostrato molta più maturità del ceto politico, concentrando già in primo turno oltre l’80 per cento dei voti su due soli candidati, vale a dire attuando nei fatti il tanto invocato bipolarismo. E soprattutto, sono andati alle urne in misura massiccia: il fatto di poter scegliere il proprio sindaco ha a lungo incentivato la partecipazione. Ma poi il deficit di credibilità della politica si è via via esteso verso il basso: domenica scorsa, la media dell’affluenza nei 25 Comuni capoluogo è stata del 57 per cento, con un calo di cinque punti rispetto alla volta precedente. C’è un altro aspetto da considerare. Il meccanismo del voto a due turni fa sì che nel primo l’elettore scelga il candidato più vicino alle proprie idee, mentre nel secondo è “costretto” a scegliere tra i due superstiti il meno lontano; e non è un gioco di parole. Comunque è chiamato a decidere tra due persone del posto. Stavolta, invece, negli spareggi elettorali di domenica prossima il messaggio dei partiti azzera il significato locale del voto, e si polarizza su un’unica alternativa: salviamo o cecchiniamo il soldato Renzi. Nessuno sembra preoccuparsi di quello che accadrà dopo: quando i sindaci eletti da una minoranza, per giunta spinta a

sceglierli non per quel che sono in casa loro ma per ciò che possono provocare a Roma, dovranno cominciare a governare, e quindi a sostituire le promesse con le risposte. Compito improbo, perché significa muoversi in un campo minato in cui bisogna fare i conti con un centralismo statale pervicace da sempre, chiunque sia alla guida del Paese; con una burocrazia centrale e periferica miope e prepotente; con una finanza pubblica devastata che scarica costi e rogne in periferia; con una domanda sociale sempre più esasperata a causa di una crisi che sta facendo sprofondare milioni di italiani nella palude della povertà. In un simile contesto, i sindaci dovrebbero fare il possibile per cercare di rappresentare tutti i propri cittadini, compresi i contrari e gli indifferenti, nella pratica quotidiana e non solo nelle litanìe delle vigilie elettorali. Molti di loro invece preferiscono muoversi come gauleiter di periferia, confondendo la fascia tricolore col bastone del comando. Scelta infelice: che servirà magari a soddisfare qualche ambizione e a consumare qualche vendetta. Ma che finisce per diventare un boomerang. Per i sindaci, destinati a trovarsi sempre più isolati e sempre più espressione di minoranze ristrette. Per la politica, condannata a un crescente discredito esteso all’ultimo baluardo della credibilità delle istituzioni, il Comune. E soprattutto per gli italiani, costretti a prendere atto dell’amara verità di una vecchia battuta sempre più prossima a diventare realtà: la politica è l’arte di chiedere al cittadino il nullaosta a infischiarsi di lui. Pag 1 “Mein kampf”, conoscere e riflettere di Mario Bertolissi Documentarsi è una parola d’ordine. Dovrebbe esserlo, perché l’impressione che si può trarre dalla polemica che ha interessato l’iniziativa editoriale del Giornale, di abbinare al quotidiano “Mein Kampf” di Adolf Hitler, è che si sia persa una ulteriore occasione o per tacere o per parlare avendo prima riflettuto almeno un istante. Perché? Perché, ben più corrosivo della reazione indignata è, in questi casi, il silenzio. Perché il volume maledetto è assistito da questo appunto: “Edizione critica a cura di Francesco Perfetti”, storico contemporaneo non impreparato. Per non dire del fatto che le pensate hitleriane si accompagnano al primo volume di un classico: la “Storia del Terzo Reich” di William L. Shirer. Termine di riferimento con cui misurarsi, per evitare di essere travolti dalle banalità, sono alcune tra le esternazioni formulate, a tambur battente, dalla politica, da titolari di cariche istituzionali, da taluni esponenti del mondo ebraico. Tutte legittime, sia ben chiaro, ma destinate naturalmente ad essere sottoposte a vaglio critico. La differenza che passa tra una società, nella quale le libertà sono non declamate ma praticate, emerge nitidissima quando si considera la manifestazione del pensiero. Se ne occupa l’articolo 21 della Costituzione. Detto in due parole e per sommi capi, mentre nel mondo anglosassone si tutela addirittura l’opposizione anticostituzionale, nel mondo germanico e latino - in particolare, in Italia - si può essere incriminati per vilipendio, ad esempio: per aver offeso, criticandolo, qualche governante, da ritenere invece, Legge fondamentale alla mano, «irresponsabile». Residui di concezioni risalenti, intrise di ideologie illiberali. Questo è, a tutto concedere, il mondo delle libertà razionali, dedotte da sommi principi. Mentre altrove - in Inghilterra e negli Stati Uniti - si praticano le libertà generate dai costumi. Giuseppe Maranini le definì libertà storiche, sulle quali non incidono, di certo, anche le levate di genio. Adolf Hitler fu un genio? Del Male, sì! Di qualcos’ altro, è discutibile e non è quel che conta. Lo si dovrebbe chiedere a quanti lo hanno ritenuto guida impareggiabile e hanno, insieme a lui, incendiato il mondo. In ogni caso, può essere di una qualche utilità leggere il testo di questo rilievo preliminare di Francesco Perfetti: «l’ opera..., oltre ad essere logorroica e sovrabbondante, di lettura difficile e faticosa, non era priva di inciampi stilistici e sintattici e rivelava, per un verso, un narcisistico tentativo di autoesaltazione unito a un proposito propagandistico e, per un altro verso, tutta la preoccupazione dell’autodidatta di nascondere il disordine della propria cultura con il ricorso ossessivo a parole roboanti, a ripetizioni continue e superflue, a metafore forzate». Questo il profilo, smentito dalla storia. Oppure, più precisamente, tale da aver consentito a un caporale di divenire l’ incarnazione del Male assoluto. Allora, negli anni del primo dopoguerra, strangolata da un trattato di pace feroce, la Germania era alla disperazione. Quel che poi accadde lo previde lucidamente Keynes, in sede di lettura, commento e critica del trattato. Fu profeta e lo fu perché scelse la strada della conoscenza e della riflessione critica. Un’operazione concepita per finalità politiche - la diffusione del “Mein Kampf” - ha detto qualcuno, destinata a

favorire uno dei candidati al ballottaggio di domenica prossima, in quel di Milano. Davvero? Davvero a migliaia leggeranno quest’opera stucchevole, ne saranno soggiogati e non voteranno per Sala, ma per il mite Parisi, che si è affrettato, pure lui, a manifestare il proprio sdegno? Una domanda: è meglio ridere o piangere? Pag 3 Difendere ragione e libertà di Gianfranco Bettin Al centro del personale “Mein Kampf” di Omar Mateen, il trentenne vigilante autore della peggiore strage per sparatoria della storia americana, oltre 50 morti e altrettanti feriti nella discoteca “Pulse” di Orlando, c’era l’odio omofobo oltre alla dichiarata fedeltà all’Is. È stato suo padre stesso a confermarlo, raccontando che da due mesi Omar era ossessionato dall’immagine di due uomini che aveva visto baciarsi per strada a Miami. Che abbia inneggiato all’Is durante la sua tragica impresa, che già prima sia stato segnalato come simpatizzante del “Califfato” e dei talebani, non contraddice, anzi, la pista omofoba. Omofobia, sessuofobia, misoginia impregnano la predicazione dei fondamentalisti tanto quanto l’odio per la democrazia, per qualunque altra ideologia o fede, per ogni altro stile di vita (come si è visto il 13 novembre 2015 al Bataclan di Parigi). La strage compiuta dal fondamentalista islamico nato negli Stati Uniti da genitori afgani, in questo senso, è molto simile a quella compiuta a Oslo e a Utoya il 22 luglio 2011 dal nazista purosangue norvegese Andres Breivik, autodefinitosi «salvatore del Cristianesimo» (ma protestante e antipapista, accanito contestatore di papa Ratzinger) e «il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa». Anche nel mirino di Breivik sono finite decine di giovani, in quel caso militanti del partito laburista impegnati in un campo estivo. Non è quindi difficile vedere in questi assassini e/o terroristi la volontà di colpire, insieme a una gioventù che non si conforma alla loro visione cupa e intollerante, la libertà delle singole persone di scegliere il proprio modo di comportarsi, di amare, di vivere. L’Is, i talebani, le altre organizzazioni che assumono l’intolleranza come base della propria predicazione e del proprio reclutamento, contano anche su queste pulsioni arcaiche, su queste visioni regressive del mondo (e del sesso, e della donna, e dell’amore: in definitiva, dell’idea stessa di umanità e di vita). È un aspetto cruciale, questo, proprio ora che, in campo militare, il “Califfato” perde terreno e potrebbe, in tempi non lunghissimi, veder cadere la costruzione statuale finora perseguita con successo in Medio Oriente. La sconfitta sul campo potrebbe spingere il fondamentalismo a dislocare ancor più la propria iniziativa nel resto del mondo, nelle nostre società, facendo appunto leva anche su quelle pulsioni e visioni regressive per conquistare adepti e influenza. Insieme a un accentuato e più efficace lavoro di intelligence, di prevenzione e repressione, resta perciò decisiva nella lotta al terrorismo fondamentalista la battaglia culturale e politica, la difesa delle libertà personali e collettive, in primis la dura lotta all’omofobia e al femminicidio (all’idea stessa di sottomissione della donna, in ogni sua forma, dalla schiavitù praticata nei territori controllati dai fondamentalisti agli abusi commessi fin dentro le nostre case e famiglie e coppie) e a ogni intolleranza. Nel piccolo mondo odierno, nei brucianti cortocircuiti che elettrizzano fedi, ideologie, pregiudizi, patologie nel disgustoso e velenoso calderone del fondamentalismo contemporaneo, garantire la nostra sicurezza significa difendere la ragione e tutelare ed estendere le nostre libertà. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Le sconfitte dell’Isis sul campo di Franco Venturini Libia e incognite Dopo tanti tira e molla la battaglia tra l’Occidente e l’Isis sembra volgere, sul campo, a nostro favore. In Libia, priorità assoluta dell’Italia che vorrebbe controllare l’ampiezza e la sicurezza dei flussi migratori, le bandiere nere dal Califfato stanno per essere cacciate dalla loro roccaforte di Sirte. In Iraq il completamento della liberazione di Falluja si rivela arduo, ma prima o poi avrà luogo e metterà in rampa di lancio l’offensiva per riconquistare Mosul. In Siria è in corso una gara di velocità tra l’esercito di Assad (fortemente appoggiato dai russi) e formazioni arabe e curde (fortemente appoggiate

dagli americani) per attaccare Raqqa, la «capitale» dell’Isis. Rispetto alla sostanziale passività di pochi mesi addietro la determinazione nella lotta agli uomini di al Baghdadi sembra aver fatto passi da gigante. Alla buon’ora. Ma abbandonarsi a una prematura euforia sarebbe da parte occidentale un gravissimo errore strategico, per molti buoni motivi che in questi giorni si tende troppo spesso a sottovalutare. Il confronto militare, per cominciare, non è ancora risolto e nasconde implicazioni politiche decisive. In Libia la presa di Sirte rappresenterebbe un importante successo del governo di unità nazionale e di chi lo ha appoggiato (Italia in testa). Ma lascerebbe del tutto aperto il problema più ampio della stabilizzazione interna. Battuto l’Isis a Sirte (benché i jihadisti siano capacissimi di disperdersi e di ricomparire altrove), quali saranno i rapporti tra i miliziani di Misurata che hanno condotto l’offensiva e le forze del generale Haftar che da Bengasi poco sembrano aver contribuito all’impresa in corso di completamento? Ci sarà accordo, guerra civile sulla base di antichi odi, oppure una separatezza che diventerebbe la premessa della divisione del Paese con grande soddisfazione dell’egiziano al Sisi e forse anche di britannici e francesi? In Iraq la battaglia di Mosul sarà durissima e la spartizione è in realtà già in atto tra curdi, sunniti e sciiti. In Siria, soprattutto, si gioca dalle parti di Raqqa e di Aleppo una partita cruciale. Non soltanto perché è lì che l’Isis vince o perde. Anche perché la competizione per procura tra America e Russia somiglia tanto a una collaborazione inconfessabile per gli americani e comunque provvisoria, con le due potenze pronte per il duello finale quando si tratterà di decidere, formalmente a un tavolo diplomatico, chi comanderà in futuro a Damasco. Su questo, se sarà lei a succedergli alla Casa Bianca, Hillary Clinton rischia di ricevere da Obama una eredità perdente con Putin nei panni del più forte. Molto, come si vede, deve ancora essere deciso sui campi di battaglia prima di poter annunciare l’incombente sconfitta dell’Isis. Tanto più che, bombardamenti aerei a parte, l’impegno dell’Occidente continua ad essere assai limitato: piccoli gruppi di commandos Usa, britannici, francesi e ora anche italiani in Libia, forze speciali e addestratori in Iraq, altre forze speciali americane in Siria. E non pare probabile che nel dopo-Obama le essenziali e prudenti scelte di Washington siano destinate a cambiare di molto, se non sarà Trump a recitare la parte di un inverosimile grande timoniere. Ma se la spada era e resta indispensabile, e deve ora completare la sua opera, sarebbe suicida non capire sin da ora che la campagna militare anti-Isis non avrà e non potrà avere una «exit strategy» simile a quelle che accompagnano, quando tutto va per il meglio, i successi bellici o presunti tali. Per battere davvero l’Isis non serve soltanto un impegno militare e di sicurezza di cui non si vede la fine, anche perché la minaccia terrorista è destinata a crescere di pari passo con il declino «statale» del Califfato. Bisogna andare oltre la linea del fuoco, si deve acquisire una consapevolezza storico-culturale che non ha termini di scadenza e che mette alla prova tanto il mondo islamico quanto l’Occidente. La fallita modernizzazione del Mondo arabo dopo i traumi del colonialismo e della decolonizzazione, il sistematico doppio gioco di fortezze petrolifere come l’Arabia Saudita, le sbandate di una Turchia che non vede al di là della questione curda, l’esplosione dello scontro non soltanto religioso tra sunniti e sciiti anche a seguito di errori occidentali (si pensi all’esito dell’intervento americano-britannico in Iraq nel 2003), sono soltanto alcune delle circostanze che hanno in momenti diversi favorito o rafforzato il revanscismo della Jihad radicale. Anti-occidentale e anti-sciita, certo, ma soprattutto nemica di una modernità che pure utilizza a proprio vantaggio sulla rete, ostile ad ogni forma di tolleranza, chiusa ad ogni pretesa di libertà a cominciare dall’interpretazione del Corano. L’islamismo perfetto, insomma, per il «conflitto di civiltà» preconizzato da Samuel Huntington. Risiede in questo suo forsennato estremismo e nella sua barbarie ben pubblicizzata, il fascino perverso che l’Isis esercita su qualche migliaio di giovani occidentali e prima ancora su parti consistenti delle società arabe sunnite. Ed è appunto questa la battaglia culturale e politica che ci attende e che deciderà davvero, ben più delle armi, chi avrà vinto. Nelle masse arabe come nei quartieri islamizzati di molte capitali europee andranno rifondati valori e speranze che oggi appaiono in tutta la loro fragilità davanti alla sirena del martirio identitario. Si tratta molto concretamente di lavoro, di educazione, di sanità, di piccole o grandi conquiste capaci di restituire l’orgoglio e la stabilità psicologica a chi non le ha più, perché sono questi gli elementi che possono uccidere l’Isis per mancanza di reclute oppure farlo rinascere di continuo. Più del destino di Sirte e di quello di Raqqa. Più dei confini alla Sykes-Picot. Più delle diversità religiose diventate ormai una guerra di

supremazia regionale tra Iran e Arabia Saudita. Più dei flussi migratori che spesso peggiorano, in Europa, la condizione degli islamici cittadini del Paese in cui risiedono. Il Mondo arabo denuncia un grande ritardo, e talvolta una certa ambiguità, davanti a traguardi tanto impegnativi. L’Occidente si limita a compiacersi dell’arretramento militare dell’Isis, anche se i suoi studiosi lanciano l’allarme su chi vincerà «davvero». È giusto essere preoccupati, davvero. Pag 1 Le ragioni e i falsi miti che avvolgono la Brexit di Ferruccio de Bortoli Nella campagna referendaria britannica c’è un po’ di tutto. La fantasia non ha limiti, la spregiudicatezza pure. Fosse un appuntamento elettorale italiano, avremmo frotte di reporter inglesi pronti a sorridere del nostro infantile folclore. Il sito Infacts, schierato contro la Brexit (Britain+exit), ha collezionato, con implacabile precisione, le storie più strampalate apparse sulla stampa inglese o agitate nei discorsi dei leader. Dall’esistenza di un milione e mezzo di immigrati clandestini al collasso in tre anni dei conti del servizio sanitario nazionale. Dal fatto che il ripristino di controlli nazionali aumenterebbe di dieci volte la possibilità di fermare sospetti terroristi, allo spettro di settecento reati settimanali commessi da immigrati comunitari. Sarah Wollaston, deputato tory, pro Brexit, alla fine ha sbottato: troppe falsità. Nella campagna referendaria britannica c’è un po’ di tutto. La fantasia non ha limiti, la spregiudicatezza pure. Fosse un appuntamento elettorale italiano, avremmo frotte di reporter inglesi pronti a sorridere del nostro infantile folclore. Il sito Infacts, schierato contro la Brexit (Britain+exit), ha collezionato, con implacabile precisione, le storie più strampalate apparse sulla stampa inglese o agitate nei discorsi dei leader. Dall’esistenza di un milione e mezzo di immigrati clandestini al collasso in tre anni dei conti del servizio sanitario nazionale. Dal fatto che il ripristino di controlli nazionali aumenterebbe di dieci volte la possibilità di fermare sospetti terroristi, allo spettro di settecento reati settimanali commessi da immigrati comunitari. Sarah Wollaston, deputato tory, pro Brexit, alla fine ha sbottato: troppe falsità. E ha cambiato schieramento denunciando la propaganda euroscettica che assicura un risparmio per il servizio sanitario di 350 milioni di sterline alla settimana. Le dichiarazioni ad effetto si sprecano. Non c’è solo l’ineffabile ex sindaco di Londra Boris Johnson che intravede nel disegno dell’unione politica europea l’avverarsi dello stato totalitario nazionalsocialista. Johnson quando era giornalista del Telegraph si distinse, come corrispondente da Bruxelles, per la sua bravura nell’occuparsi delle storie più curiose legate alle norme comunitarie, come la circonferenza dei wurstel e quella, con sommo divertimento, dei preservativi. Secondo Dominic Raab, sottosegretario alla Giustizia, numero due di Michael Gove che, all’interno del governo Cameron, guida il fronte dell’uscita, del leave, le norme comunitarie avrebbero steso “un tappeto rosso” a cinquanta assassini e stupratori di altri Paesi Ue, liberi di girare indisturbati per il Regno Unito. Nigel Farage, leader dello Ukip, il partito indipendentista britannico, avverte: restando nell’Unione europea, gli assalti sessuali alle ragazze aumenteranno. Si può continuare. I temi di fondo a sostegno della Brexit sono però tutt’altro che immaginari: gli immigrati, la sicurezza sociale, la casa. Riflettono la creazione di nuove disuguaglianze, la siderale distanza, in termini di redditi e importanza sociale, fra Londra e le zone meno sviluppate del Regno Unito, il disagio della popolazione più anziana per lo stravolgimento etnico dei quartieri, la voglia popolare di ribellarsi allo strapotere della finanza, delle banche. Votando Brexit si manda un segnale di disgusto anche alla City, al cosiddetto mainstream dell’economia che vota compatto per restare in Europa, all’ostentazione della ricchezza. E’ come se ci fosse un altro leave nel voto del 23 giugno. Tutto interno. Del Paese sulla sua capitale. La Brexit rilancerebbe anche le voglie indipendentiste scozzesi frustrate dal voto del 18 settembre del 2014. Non sono centrali nel dibattito referendario – e questo dice molto del successo dell’economia inglese – la disoccupazione e le tasse. A differenza di quello che accade in altri Paesi europei, il lavoro non sembra tra le principali preoccupazioni dei sudditi di sua maestà, anche se le cronache registrano il malessere dei lavoratori dell’acciaio, dei pescatori di Brixham o di Appledore, inferociti contro le limitazioni comunitarie che avrebbero decimato la flotta di pescherecci. Il sindacato nazionale degli agricoltori non ha preso posizione. I propri iscritti sono divisi. Da una parte le odiate regole europee, dall’altra i vantaggiosi sussidi. Ma chi vive in campagna detesta l’Europa. Il fronte europeo non è privo di incongruenze

né alieno a mosse avventate. Il premier Cameron si batte generosamente per un Regno Unito più forte in un’Europa diversa, vantando i risultati del negoziato di febbraio con Bruxelles (esempio: sussidi per i cittadini europei che cercano lavoro limitati a sette anni). Per il premier l’arma del referendum rischia di essere a doppio taglio dopo averla invocata per governare un partito diviso e vincere le elezioni. Il capo del Labour, Jeremy Corbyn, è sulla stessa posizione ma appare timido, imbarazzato. I suoi interventi sono persino controproducenti. Sembra scegliere, fra due mali il meno peggio ha scritto Fabio Cavalera sul Corriere. Le voci sagge puntano sul tradizionale pragmatismo inglese. Chris Patten, ultimo governatore di Hong Kong, ex commissario europeo, ha ricordato sul Guardian che, quando nel 1970 il suo Paese entrò nella comunità europea, era il vero malato d’Europa, dietro persino all’Italia (parole sue). Da allora, tenendosi fuori dall’euro (e da Schengen) è cresciuto mediamente più degli altri e ha creato più posti di lavoro. Perché tornare indietro? La Confindustria inglese stima, con la Brexit, una perdita di un milione di posti di lavoro. Comunque vada, la sera del 23 giugno l’Europa non sarà più la stessa. E qualcosa cambierà anche per noi italiani che continuiamo ad essere, nonostante tutto, tra i più favorevoli all’Unione europea con il 58 per cento dei consensi (Pew Research Center). L’Italia però è la meno esposta a contraccolpi di mercato, nonostante lo spread in questi giorni sia al livello più alto da quando Draghi ha avviato gli acquisti di titoli. Ovviamente, lo scenario peggiore è quello che vede prevalere l’addio di Londra all’Unione, ovvero il leave, rispetto al remain. Le previsioni danno in recupero i pro Brexit con i favorevoli all’Europa ancora in apprezzabile vantaggio. Ma la credibilità di questo genere di sondaggi è modesta ovunque. Il Regno Unito non fa eccezione. Forse gli allibratori hanno più naso. Le scommesse impazzano. Se vincesse il leave sarebbe la prima volta, nella storia ormai sessantennale dell’Europa faticosamente unita, che un Paese decide di abbandonare il percorso comune. Le celebrazioni, l’anno prossimo, dell’anniversario del trattato di Roma - cui il governo Renzi tiene in modo particolare - assumerebbero un significato diverso. La tristezza di un probabile declino dell’Unione velerebbe le espressioni di orgoglio per i tanti successi ottenuti. Uno su tutti: il più lungo periodo di pace mai avuto nell’Europa degli eterni conflitti fratricidi. La memoria del Novecento delle ideologie totalitarie e delle generazioni perdute è sbiadita. Le ferite non bruciano più. Ma la pace non è uno stato naturale. Si discute di altro. Ma che cosa accadrà se Londra decidesse di salutarci? Posti di fronte a questa domanda, nella quiete del festival dell’Economia di Trento, due banchieri centrali come Francois Villeroy de Galhau (Banque de France) e Ignazio Visco (Banca d’Italia) hanno disegnato scenari foschi. Seri contraccolpi sui mercati e necessità di un intervento della Banca centrale europea (Villeroy); probabile effetto domino che non esclude che altri membri dell’Unione facciano altrettanto (Visco). Ma forse le conseguenze potrebbero essere meno traumatiche. I mercati stanno già scontando, almeno in minima parte, il leave. La sterlina si è già indebolita sull’euro, rispetto al suo picco del luglio 2015 (0,6971). Potrebbe perdere, con la Brexit, un ulteriore 15-20 per cento. Qualcuno pensa che si arriverà alla parità con l’euro. Il prodotto interno lordo britannico accusa già nella prima parte dell’anno un indebolimento di mezzo punto percentuale rispetto alle stime. Senza la Brexit rimarrebbe comodamente sopra il 2 per cento. Vette vertiginose per chi, come noi, si agita per un decimale in più o in meno. La Bank of England ha già previsto un fondo di stabilità - come peraltro è pronta con tutte le sue munizioni la Bce – sia per i mercati valutari sia per quelli obbligazionari. L’attesa di mosse espansive della banca centrale inglese ha portato il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni al minimo storico (1,218 per cento). Sul mercato azionario i volumi non sono alti. I grandi investitori si sono già prudentemente allontanati da titoli con attività troppo esposte sul Regno Unito. In un periodo assolutamente straordinario di tassi negativi, la tendenza a tenere posizioni liquide aiuta. Una vittoria del leave potrebbe scuotere l’Europa e accelerare, una volta sciolta la decennale ambiguità inglese, l’integrazione e l’unione politica? Ferdinando Nelli Feroci, ex ambasciatore italiano a Bruxelles e commissario, ora alla guida dell’Istituto affari internazionali, è convinto che la tesi possa avere un fondamento. Ma solo nel medio periodo. Nelli Feroci paventa un periodo di incertezza e sbandamento nelle istituzioni europee, innestato anche dal cambio di governo a Londra con la sconfitta di Cameron (e il candidato alla successione è Johnson). Un guado difficile in acque sconosciute. “L’articolo 50 del Trattato - dice - prevede un periodo transitorio di due anni nel quale andrebbero rinegoziati tutti gli accordi bilaterali”. Il Regno Unito fuori dall’euro

potrebbe avere uno status simile a quello della Norvegia, nello spazio economico europeo. O paragonabile a quello svizzero, tenendo conto che dopo il referendum elvetico a favore dei limiti all’immigrazione del 9 febbraio del 2014, tutti gli accordi tra Berna e Bruxelles sono sub judice. Ma in una intervista a Der Spiegel il ministro delle Finanze Wolfgang Schauble lo ha escluso. Effetto domino su altri Paesi? Nelli Feroci lo teme, vede l’emergere di irresistibili voglie nazionaliste, specie nei Paesi dell’Est. Guarda con timore il lento scivolamento polacco dai principi democratici dell’Unione. Stefano Sannino, ex ambasciatore italiano presso l’Unione e ora a Madrid, è persuaso che anche un’auspicabile vittoria del remain non sarebbe senza effetti indesiderati. Il Paese comunque si troverebbe spaccato in due. C’è chi addirittura parla di un nuovo referendum. “La futura e necessaria evoluzione dell’Eurozona dovrebbe fare i conti con lo status speciale concesso, con gli accordi di febbraio, a Londra. Si dovrà ragionare, per esempio, su come rendere compatibile un bilancio di chi sta nell’euro con chi ne è fuori. La Commissione ne presenterebbe due? E il Parlamento ne voterebbe due?”. Ipotesi e scenari nella fragile e disorientata Europa. In attesa del 23 giugno. Intanto a Padstow, in Cornovaglia, hanno già votato: il gemellaggio con un Paese bretone non lo faranno mai e poi mai. Sarah Wollaston ha dunque cambiato schieramento denunciando la propaganda euroscettica che assicura un risparmio per il servizio sanitario di 350 milioni di sterline alla settimana. Le dichiarazioni ad effetto si sprecano. Non c’è solo l’ineffabile ex sindaco di Londra Boris Johnson che intravede nel disegno dell’unione politica europea l’avverarsi dello Stato totalitario nazionalsocialista. Johnson quando era giornalista del Telegraph si distinse, come corrispondente da Bruxelles, per la sua bravura nell’occuparsi delle storie più curiose legate alle norme comunitarie, come la circonferenza dei wurstel e quella, con sommo divertimento, dei preservativi. Secondo Dominic Raab, sottosegretario alla Giustizia, numero due di Michael Gove che, all’interno del governo Cameron, guida il fronte dell’uscita, del Leave , le regole di Bruxelles avrebbero steso «un tappeto rosso» a cinquanta assassini e stupratori di altri Paesi Ue, liberi di girare indisturbati per il Regno Unito. Nigel Farage, leader dello Ukip, il partito indipendentista britannico, avverte: restando nell’Unione Europea, gli assalti sessuali alle ragazze aumenteranno. Si può continuare. I temi di fondo a sostegno della Brexit sono però tutt’altro che immaginari: gli immigrati, la sicurezza sociale, la casa. Riflettono la creazione di nuove disuguaglianze, la siderale distanza, in termini di redditi e importanza sociale, fra Londra e le zone meno sviluppate, il disagio della popolazione più anziana per lo stravolgimento etnico dei quartieri, la voglia popolare di ribellarsi allo strapotere della finanza, delle banche. Votando Brexit si manda un segnale di disgusto anche alla City, al cosiddetto mainstream dell’economia che vota compatto per restare in Europa, all’ostentazione della ricchezza. È come se ci fosse un altro Leave nel voto del 23 giugno. Tutto interno. Del Paese sulla sua Capitale. La Brexit rilancerebbe anche le voglie indipendentiste scozzesi frustrate dal voto del 18 settembre del 2014. Non sono centrali nel dibattito referendario - e questo dice molto del successo dell’economia inglese - la disoccupazione e le tasse. A differenza di quello che accade in altri Paesi europei, il lavoro non sembra tra le principali preoccupazioni dei sudditi di Sua Maestà, anche se le cronache registrano il malessere dei lavoratori dell’acciaio, dei pescatori di Brixham o di Appledore, inferociti contro le limitazioni comunitarie che avrebbero decimato la flotta di pescherecci. Il sindacato nazionale degli agricoltori non ha preso posizione. I propri iscritti sono divisi. Da una parte le odiate regole europee, dall’altra i vantaggiosi sussidi. Ma chi vive nella campagna inglese detesta l’Europa. Il fronte europeo non è privo di incongruenze né alieno a mosse avventate. Il premier David Cameron si batte generosamente per un Regno Unito più forte in un’Europa diversa, vantando i risultati del negoziato di febbraio con Bruxelles (esempio: sussidi per i cittadini europei che cercano lavoro limitati a sette anni). Per il premier l’arma del referendum rischia di essere a doppio taglio dopo averla invocata per governare un partito diviso e vincere le elezioni. Il capo del Labour, Jeremy Corbyn, è sulla stessa posizione ma appare timido, imbarazzato. I suoi interventi sono persino controproducenti. Sembra scegliere, fra due mali, il meno peggio, ha scritto Fabio Cavalera su Sette, il settimanale del Corriere. Le voci sagge puntano sul tradizionale pragmatismo inglese. Chris Patten, ultimo governatore di Hong Kong, ex commissario europeo, ha ricordato sul Guardian che, quando nel 1970 il suo Paese entrò nella Comunità europea, era il vero malato d’Europa, dietro persino all’Italia (parole sue). Da allora, tenendosi fuori dall’euro (e da Schengen)

è cresciuto mediamente più degli altri e ha creato più posti di lavoro. Perché tornare indietro? La Confindustria inglese stima, con la Brexit, una perdita di un milione di posti di lavoro. Comunque vada, la sera del 23 giugno l’Europa non sarà più la stessa. E qualcosa cambierà anche per noi italiani che continuiamo ad essere, nonostante tutto, tra i più favorevoli all’Unione Europea con il 58 per cento dei consensi (Pew Research Center). L’Italia però sembra la meno esposta a contraccolpi di mercato, nonostante lo spread in questi giorni sia al livello più alto da quando Draghi ha avviato gli acquisti di titoli. Ovviamente, lo scenario peggiore è quello che vede prevalere l’addio di Londra all’Unione, ovvero il Leave, rispetto al Remain. Le previsioni danno in recupero i pro Brexit con i favorevoli all’Europa ancora in apprezzabile vantaggio. Ma la credibilità di questo genere di sondaggi è modesta ovunque. Il Regno Unito non fa eccezione. Forse gli allibratori hanno più naso. Se vincesse il Leave sarebbe la prima volta, nella storia ormai sessantennale dell’Europa faticosamente unita, che un Paese decide di abbandonare il percorso comune. Le celebrazioni, l’anno prossimo, dell’anniversario del Trattato di Roma - cui il governo Renzi tiene in modo particolare - assumerebbero un significato diverso. La tristezza di un probabile declino dell’Unione velerebbe le espressioni di orgoglio per i tanti successi ottenuti. Uno su tutti: il più lungo periodo di pace mai avuto nell’Europa degli eterni conflitti fratricidi. La memoria del Novecento delle ideologie totalitarie e delle generazioni perdute è sbiadita. Le ferite non bruciano più. Ma la pace non è uno stato naturale. Si discute di altro. Ma che cosa accadrà se Londra decidesse di salutarci? Posti di fronte a questa domanda, nella quiete del festival dell’Economia di Trento, due banchieri centrali come François Villeroy de Galhau (Banque de France) e Ignazio Visco (Banca d’Italia) hanno disegnato scenari foschi. Seri contraccolpi sui mercati e necessità di un intervento della Banca centrale europea (Villeroy); probabile effetto domino che non esclude che altri membri dell’Unione facciano altrettanto (Visco). Ma forse le conseguenze potrebbero essere meno traumatiche. I mercati stanno già scontando - e lo si è visto venerdì - almeno in parte, il Leave . La sterlina si è indebolita sull’euro rispetto al suo picco del luglio 2015 (0,6971). Potrebbe perdere, con la Brexit, un ulteriore 15-20 per cento. Qualcuno pensa che si arriverà alla parità con l’euro. Il Prodotto interno lordo britannico accusa già nella prima parte dell’anno un indebolimento di mezzo punto percentuale rispetto alle stime. Senza la Brexit rimarrebbe comodamente sopra il 2 per cento. Vette vertiginose per chi, come noi, si agita per un decimale in più o in meno. La Bank of England ha già previsto un fondo di stabilità - come peraltro è pronta con tutte le sue munizioni la Bce - sia per i mercati valutari sia per quelli obbligazionari. L’attesa di mosse espansive della Banca centrale inglese ha portato il rendimento dei titoli di Stato a dieci anni al minimo storico (1,218 per cento). La fuga verso porti sicuri ha quasi azzerato i tassi decennali sul bund tedesco. Sul mercato azionario i volumi non sono alti. I grandi investitori si sono già prudentemente allontanati da titoli con attività troppo esposte sul Regno Unito. In un periodo assolutamente straordinario di tassi negativi, la tendenza a tenere posizioni liquide aiuta. Una vittoria del Leave potrebbe scuotere l’Europa e accelerare, una volta sciolta la decennale ambiguità inglese, l’integrazione e l’unione politica? Ferdinando Nelli Feroci, ex ambasciatore italiano a Bruxelles e commissario, ora alla guida dell’Istituto affari internazionali, è convinto che la tesi possa avere un fondamento. Ma solo nel medio termine. Nelli Feroci paventa un periodo di incertezza e sbandamento nelle istituzioni europee, innestato anche dal cambio di governo a Londra con la sconfitta di Cameron (e il candidato alla successione è Johnson). Un guado difficile in acque sconosciute. «L’articolo 50 del Trattato - dice - prevede un periodo transitorio di due anni nel quale andrebbero rinegoziati tutti gli accordi bilaterali». Il Regno Unito fuori dall’Unione potrebbe avere uno status simile a quello della Norvegia, nello spazio economico europeo. O paragonabile a quello svizzero, tenendo conto che dopo il referendum elvetico a favore dei limiti all’immigrazione del 9 febbraio del 2014, tutti gli accordi tra Berna e Bruxelles sono sub judice. Ma, in una intervista a Der Spiegel, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble lo ha escluso. Effetto domino su altri Paesi? Nelli Feroci lo teme, vede l’emergere di irresistibili voglie nazionaliste, specie nei Paesi dell’Est. Guarda con timore il lento scivolamento polacco dai principi democratici dell’Unione. Stefano Sannino, ex ambasciatore italiano presso l’Unione e ora a Madrid, è persuaso che anche un’auspicabile vittoria del Remain non sarebbe senza effetti indesiderati. Il Paese comunque si troverebbe spaccato in due. C’è chi addirittura parla

di un nuovo referendum. «La futura e necessaria evoluzione dell’eurozona dovrebbe fare i conti con lo status speciale concesso, con gli accordi di febbraio, a Londra. Si dovrà ragionare, per esempio, su come rendere compatibile un bilancio di chi sta nell’euro con chi ne è fuori. La Commissione ne presenterebbe due? E il Parlamento ne voterebbe due?». Ipotesi e scenari nella fragile e disorientata Europa. In attesa del 23 giugno. Intanto a Padstow, in Cornovaglia, hanno già votato: il gemellaggio con un Paese bretone non lo faranno mai e poi mai. Pag 13 La sconfitta del Califfato? di Lorenzo Cremonesi I jihadisti perdono terreno ma restano forti in Iraq A due anni esatti dalla presa di Mosul in Iraq, Isis appare sempre più prossimo al collasso. Nel giugno 2014 sembrava destinato a imporre un nuovo ordine sul Medio Oriente in nome del jihadismo wahhabita, tanto da poter ridisegnare i confini definiti cento anni fa da Francia e Inghilterra sulle rovine dell’Impero Ottomano sconfitto nella Grande guerra. Ma negli ultimi mesi ha perso quasi il 50 per cento delle terre sotto suo controllo in Iraq. In Siria le perdite ammontano a oltre il 20 per cento e la sua roccaforte a Raqqa potrebbe cadere presto sotto la pressione «a tenaglia» delle forze leali alla dittatura di Bashar Assad, con il sostegno determinante di Russia, Iran e delle milizie sciite libanesi, e da nord delle milizie curde siriane aiutate soprattutto dagli Stati Uniti. In Libia la disfatta totale a Sirte, suo centro principale, è imminente. Però Isis resta un mostro a più teste, caratterizzato da dinamiche diverse nelle situazioni in cui opera. I suoi rovesci militari hanno dunque valenze e conseguenze differenti a seconda dei contesti. E non è affatto detto che, una volta persa la sua dimensione di «Califfato» caratterizzato dal controllo territoriale quasi-statuale, non torni a quella della guerriglia terroristica-qaedista. Iraq - Questo è il Paese natale di Isis. E la sua forza, più che in altre regioni, dipende dal sostegno delle grandi tribù sunnite locali. La sfida dunque è sostanzialmente politica. Non basta che le milizie sciite, i loro alleati iraniani e gli aiuti militari americani stiano facilitando l’assedio di Falluja, come del resto hanno già fatto per la presa di Tikrit e Ramadi nei mesi scorsi. E come si prevede che faranno quando verrà lanciata l’offensiva per liberare Mosul, dove saranno fondamentali anche i militari dell’enclave curda nel nord. Occorre infatti che il governo a Baghdad rilegittimi la minoranza sunnita alla gestione dello Stato. Sino a quando i sunniti, da secoli alla dirigenza della regione interrotti solo dall’invasione americana nel 2003, non si sentiranno pienamente integrati nel Paese, le condizioni per il loro sostegno a Isis (o a movimenti simili) non muteranno. Siria - La grave debolezza di Isis si riassume nel classico scontro tra militanti «dell’interno» e volontari stranieri «dell’esterno». È tipico delle rivoluzioni violente, avvenne tra l’altro nell’Iran khomeinista, quando i religiosi radicali eliminarono decine di migliaia di oppositori comunisti e liberali (o meno integralisti dell’ayatollah Khomeini) allo Scià, e nelle battaglie interpalestinesi tra Olp, arrivato dalla diaspora dopo gli accordi di Oslo nel 1993, e Hamas, cresciuta nell’Intifada contro l’occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza. In Siria i jihadisti fondamentalisti stranieri non sono riusciti a integrarsi tra i movimenti dell’opposizione locale al regime di Damasco. Isis mirava ad imporre il monopolio politico e militare. Ma è rimasto un movimento militante elitario e stretto nelle zone sotto il suo controllo, incapace di assorbire persino Al Nusra e le altre formazioni ribelli pur ispirate dall’ideologia messianica della «guerra santa». Crescono tra gli stessi sunniti siriani i dissensi contro gli eccessi di Isis, quali le torture, le esecuzioni, i divieti contro il fumo, le imposizioni della barba per gli uomini e il velo per le donne, le crescenti limitazioni alla libertà personale. Libia - Il 12 giugno 2015 i gruppi islamico-radicali di Derna, nel cuore della Cirenaica, insorsero spontaneamente contro gli «stranieri» di Isis che si erano insediati con prepotenza nella zona. Fu allora che si cementò l’alleanza tra Isis e alcuni degli ex fedelissimi di Gheddafi in cerca di vendetta e riscatto da Sirte. Ma emerse anche il carattere artificiale della presenza dei militanti di Al Bagdadi nella Libia tribale e frazionata dopo la rivoluzione del 2011. Ora Isis potrebbe cercare di ricostruire le proprie basi nel deserto del Fezzan. Ma, se Tripoli riuscisse a costituire una solida sovranità centrale, l’esistenza di Isis in Libia sarebbe segnata.

AVVENIRE di domenica 12 giugno 2016 Pag 2 Sconfiggere il Daesh non è ancora vincere di Riccardo Redaelli Dopo il possibile successo militare serve una pace positiva La marea è infine cambiata e le milizie del califfato di Daesh sono ora sulla difensiva, quando non in vera rotta. Come sta avvenendo in Libia, dopo la riconquista di Sirte da parte delle milizie che appoggiano il governo di unità nazionale del premier Sarraj. Ma il cerchio si va stringendo anche al cuore del feroce califfato di al-Baghdadi, i cui territori in Siria e Iraq si riducono sempre più. Sono lontani gli anni in cui affluivano da ogni dove migliaia di volontari sotto le sue nere insegne, mentre i vertici dell’organizzazione potevano contare su grandi risorse finanziarie. Al contrario, ora molti miliziani cercano la fuga dalle zone di guerra, al pari di tanti civili sunniti che avevano scelto di vivere nei suoi territori. Si sono altresì ridotti gli ambigui comportamenti di tanti attori locali (privati, fondazioni religiose, apparati statali di potenze regionali) che a parole condannavano la follia estremista di Daesh, ma sottobanco non disdegnavano aiuti tattici. La sua sconfitta, insomma, non sembra più impossibile per i doppi e tripli giochi dei protagonisti della scena mediorientale. E ciò è oggettivamente un fatto positivo. Daesh rappresenta infatti un cancro fuoriuscito dall’interpretazione più fanatizzata dell’islam che deve essere estirpato. Ma non cadiamo nella trappola del gioire di una probabile vittoria militare: sconfiggere le milizie di Daesh non significa vincere. Sarebbe illusorio e pericoloso ritenere che la vittoria sia rappresentata dal successo militare; al contrario essa viene solo dalla creazione di una vera e durevole pace positiva. L’obiettivo a cui dobbiamo puntare è molto di più della sconfitta del nemico: implica il lavorare con i governi e le società del Medio Oriente per rimuovere le cause profonde che producono Daesh. E al-Qaeda prima di esso. Quando saranno riconquistate completamente Falluja, Mosul, la stessa Raqqa non si dovranno compiere gli errori commessi in questi anni in Siria, Iraq, Yemen e Libia. Non bisognerà accanirsi sulle popolazioni sunnite e sugli individui che in qualche modo hanno guardato con favore all’esperienza jihadista, ma bisognerà cercare di capirne le motivazioni. Ragioni legate al senso di straniamento dai propri governi, o alle politiche settarie che hanno trasformato le comunità arabo-sunnite e quelle arabo-sciite in nemici mortali e hanno schiacciato e scacciato le mioranze, specialmente cristiane e yazide. Si dovrà lavorare per spingere Arabia Saudita e Iran a un compromesso politico, sapendo bene quanto sia difficile, ma rifiutando l’idea di chi non vuole agire perché 'tanto è impossibile'. È fondamentale far comprendere al governo di Baghdad che le milizie sciite hanno, sì, salvato la capitale in questi anni, ma non possono essere la soluzione per il futuro dell’Iraq, perché le milizie non sono mai i difensori della democrazia. Non è la repressione delle minoranze ma la loro inclusione a offrire l’unica strada per una pacificazione duratura. Tante volte abbiamo sottolineato la follia del credere che per cacciare Assad si potesse fare leva sugli assassini di al-Qaeda e di Daesh. Ma ora non dobbiamo cadere nell’errore opposto: il dittatore di Damasco non può essere il futuro della Siria. Senza umiliare i suoi sostenitori e riconoscendo gli interessi di chi lo sostiene, l’Occidente può e deve giocare con abilità la partita della sua successione. Il che non significa certo dar retta a certi governi sunniti che ritengono che le milizie di al-Qaeda ( Jabhat al-Nusra) siano un’alternativa accettabile per controllare Raqqa e tener buone le tribù sunnite. Bisogna insomma capire che la mancata risoluzione dei problemi di fondo del settarismo, così come della corruzione enorme che umilia i popoli e arricchisce in modo scandaloso i governanti, produrrà sempre frutti avvelenati. Anni fa, in Afghanistan, il generale McChrystal – comandante in capo di Isaf – disse che la Nato non era nel Paese per «ammazzare taleban», ma per aiutare gli afghani a ritrovare la stabilità. E di questo dobbiamo essere convinti anche noi. Non dobbiamo sterminare gli jihadisti, ma togliere l’acqua che fa crescere i loro frutti avvelenati. In Medio Oriente come nelle periferie delle città europee. Pag 3 Ma la terra dei fuochi non è fatta di ecoballe di Maurizio Patriciello L’impegno del premier, la realtà da cambiare Sono tanti, troppi, a voler cancellare l’appellativo 'Terra dei fuochi'. Personalmente non ho fretta. Non che mi piaccia, ma sono dell’opinione che è bene resti a futura memoria. Come per altri tristi luoghi di cui ci vergogniamo. Perché il passato non abbia a ritornare.

Perché i figli sappiano che cosa accadde ai loro padri. La storia non si cancella, non si deve cancellare. Non ho fretta. Vogliamo che le cose vengano fatte bene. Che la verità, in tutta la sua complessità e gravità, venga alla luce. Vogliamo che tutti sappiano che cos’è per davvero la 'Terra dei fuochi'. Nessuna terapia mai potrà essere efficace senza una esatta diagnosi. Matteo Renzi è venuto a Marcianise, nel Casertano e a 'Taverna del re' nel Giuglianese. E di questo lo ringraziamo. È venuto nel cuore della 'Terra dei fuochi', in quelle zone dove i morti per cancro e leucemia, anche in giovanissima età, non si contano. Proprio a Marcianise, solo pochi mesi fa, furono individuati ben 22 pozzi avvelenati da liquami industriali. 'Taverna del Re': oggi un luogo da incubo. Campagne amene – il corrispettivo di 320 campi di calcio – dove negli anni sono state ammassate ben sei milioni di tonnellate di immonde immondizie. Renzi: «La politica italiana e campana prenda degli impegni affinché questo territorio torni a respirare». Queste parole ci riempiono di gioia. Respirare: per tanti solamente un sogno. Renzi ci restituisce il diritto al respiro e di questo non finiremo mai di essergli grati. Quando avverrà, naturalmente. Perché dopo essere stati tante volte delusi da promesse non mantenute, ci andiamo con i piedi di piombo. Ma non siamo rassegnati, no. Solo facciamo attenzione che alle parole seguano i fatti. Stavolta sarà diverso? Non solo lo speriamo, ma per questo preghiamo e ci impegniamo. Renzi, però, fa un passaggio, già tentato altre volte, che ci preoccupa non poco. Dice: «Entro 3 anni nessuna ecoballa in Campania, cancelleremo vergogna Terra dei Fuochi». Il fatto è che le famigerate e assurde «ecoballe» non sono il pericolo principale della 'Terra dei fuochi'. E Renzi lo sa bene. Durante l’incontro avuto con lui alla Reggia di Caserta io stesso ebbi modo di farglielo notare: «Presidente – gli dissi – 'Terra dei fuochi' non sono le ecoballe di Giugliano. 'Terra dei fuochi' è il risultato dei rifiuti industriali che dal centro e nord Italia sono giunti in Campania con la complicità della camorra nostrana e di una politica collusa, corrotta o ignava. 'Terra dei fuochi' è anche il risultato delle mille fabbriche che lavorano in regime di evasione fiscale. Se scarpe, borse, indumenti vengono prodotti in barba alle regole e al fisco, è del tutto logico che poi gli scarti dovranno bruciare o essere interrati da qualche parte. Presidente, anche dalla Toscana sono arrivati in Campania questi orribili rifiuti industriali». Renzi abbassò lo sguardo e sussurrò: «Lo so, padre...». Se, dunque, Renzi sa bene che cos’è veramente lo scempio della 'Terra dei fuochi', saprà certamente che lo smaltimento delle immondizie – urbane? – accumulate a Giugliano non potrà risolvere il dramma immenso della 'Terra dei fuochi'. Queste cose i volontari e i cittadini le sanno bene. Certo da qualche parte occorre cominciare e a noi sta bene che si cominci da 'Taverna del re'. L’importante è che si dica la verità. Anche quando è troppo complessa e complicata. Resistendo all’ansia di chiudere in fretta questa ferita. La verità è che finché non si vanno a mettere le mani sulla piaga del lavoro nero e dell’evasione fiscale, 'Terra dei fuochi' continuerà a bruciare. Finche non vengano tracciati i Tir che attraversano l’Italia in lungo e largo, 'Terra dei fuochi' continuerà a esistere. Finche non si guarderà con trasparente onestà al rapporto ambientesalute-lavoro la gente continuerà ad ammalarsi e morire. Ma a Renzi siamo riconoscenti anche per aver riportato il discorso sul nostro Meridione: «Per troppo tempo tutto ciò che è qualità, innovazione, eccellenza nel Mezzogiorno è stato scientificamente mascherato e nascosto». Diciamolo: quel «scientificamente» spaventa. Il nostro Sud ha sofferto troppo. Non è un caso se gli scarti industriali hanno seguito la rotta Nord-Sud e non viceversa. E poiché il Presidente ha fatto riferimento alla piaga della camorra, non è superfluo ricordare che la camorra è tenuta in vita anche soprattutto dalla povertà che si fa miseria. In un mondo dove i giovani non riescono a trovare lavoro per poter mettere su casa e realizzare i loro sogni, la camorra non fatica a fare incetta di seguaci. Diamo una mano alla nostra cara gioventù. Arriviamo prima. Presidente, noi ci siamo. La Chiesa campana c’è. I volontari ci sono. Una bella società civile c’è. Eliminiamo, una volta per sempre, la vergogna di un Sud in una posizione di inferiorità. Cancelliamo quell’obbrobrioso «scientificamente» e camminiamo verso una Italia veramente unita. IL GAZZETTINO di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Malessere sociale, i vecchi partiti pagano il conto di Romano Prodi In tutti i paesi democratici dell'occidente la sorpresa per gli esiti elettorali è ormai diventata un'abitudine: i partiti tradizionali sono ovunque in difficoltà. Dalla Danimarca

alla Francia, dalla Germania alla Gran Bretagna, dalla Spagna all'Italia, passando per l'Austria e l'Olanda i partiti classici di destra e di sinistra arretrano, lasciando spazio ai nuovi movimenti che, per convenzione chiamiamo populisti ma che, in ogni caso, sono il segno di un disagio crescente. Un'ondata che ha investito anche gli Stati Uniti: Trump, a parte le "americanate", interpreta il disagio dell'Occidente con le stesse posizioni di molti leader protestatari europei. Questo perché le ragioni che generano il disagio delle nostre società, anche se si presentano con caratteristiche diverse, sono le stesse. Esse sono prodotte da un malessere comune, che investe l'Occidente da quando si è affrontata l'inevitabile globalizzazione con strumenti che hanno progressivamente distrutto i fondamenti delle nostre società. Nel primo dopoguerra, anche se con passo lentissimo, le differenze di reddito erano infatti costantemente diminuite. Dagli anni ottanta in poi (pensiamo soprattutto al ruolo di Reagan e della Signora Thatcher) si è invece lasciato che il mercato, il crescente peso della finanza nell'economia e la diminuzione del compito distributivo dello stato producessero crescenti differenze all'interno di tutti i paesi. L'ascensore sociale si è bloccato in entrambe le sponde dell'Atlantico, i salari hanno cominciato a calare in termini reali, il ceto medio si è indebolito ovunque. L'allungamento della vita media si accompagna ad un'angoscia per il futuro che accomuna vecchi e giovani. La colpa di questo crescente disagio è naturalmente attribuita alle insufficienze e agli errori dei governi in carica, siano essi di destra che di sinistra. Di qui la progressiva diminuzione della fiducia nei partiti che hanno la responsabilità di questi governi. Una sfiducia che si trasforma in un'erosione della loro base elettorale da parte di movimenti che cercano di interpretare la nostra crescente angoscia ma non sono (almeno fino ad ora) in grado di offrirne una credibile via d'uscita. Come conseguenza naturale di questa realtà, le nuove espressioni politiche si affermano dove il disagio sociale è maggiore. Non è un caso che in Europa siano soprattutto le periferie che cercano sicurezza nei nuovi partiti e che negli Stati Uniti anche uno come Trump abbia avuto più successo nelle aree degradate del Midwest che non tra gli uomini d'affari e i banchieri di Wall Street. In questa iniqua distribuzione dei redditi i risparmi si accumulano infatti nelle classi sociali più elevate, che hanno ovviamente una minore propensione al consumo, mentre la sfiducia verso il futuro rallenta gli investimenti privati e l'obiettivo del pareggio del bilancio dello Stato frena quelli pubblici. Le posizioni degli studiosi che parlano di una progressiva caduta verso la "stagnazione secolare" non sono più voci isolate ma descrivono in modo scientifico le conseguenze più probabili del crescente squilibrio che si verifica nelle nostre economie. Il disagio che i nuovi partiti rappresentano non può perciò che preparare un loro sempre maggiore successo, anche se le proposte che essi esprimono, rivolte soprattutto a produrre una chiusura politica ed economica nei confronti del resto del mondo, preparano risultati ancora peggiori. L'unica risposta efficace può essere solo in uno sforzo da parte delle grandi forze politiche che ancora hanno la responsabilità di governo nel correggere le distorsioni indicate, in modo da garantire ai cittadini maggiore sicurezza e maggiore equità. Tutto ciò esige tuttavia una consapevolezza (che richiede tanto studio), un disinteresse e una cooperazione internazionale di cui non si vede ancora traccia. In mancanza di tutto questo l'affermazione dei nuovi partiti politici diventerà ancora più rapida e la loro connotazione più radicale. Non è tuttavia probabile che questo porti ad un miglioramento delle cose perché, se non si sa in quale direzione navigare, il cambio del timoniere può produrre danni ancora maggiori. LA NUOVA di domenica 12 giugno 2016 Pag 1 Ballottaggi con il Pd al bivio di Massimiliano Panarari Non ci sono più i comunisti di una volta. Anzi, non ci sono semplicemente più “i comunisti” dalle parti del “PdR” (come lo chiama Ilvo Diamanti). Le avvisaglie c’erano da parecchio, ma si può dire che la metamorfosi sia giunta a definitivo compimento con le ultime elezioni amministrative. Il Partito democratico si è “gentrificato”, e la sua composizione sociale prevalente si è via via modificata nel corso degli anni, facendolo passare da partito del lavoro dipendente (quando si trattava, appunto, del Pci e delle sue rietichettature sempre all’interno dei confini della sinistra storica) a partito dell’impiego pubblico fino, attualmente, a partito “dei centri storici e dei quartieri benestanti”. Una mutazione della sinista - come si dice in Francia, che l’ha vista sperimentata dal Partito

socialista - in senso “bobo”, bourgeois-bohémien (per sommi capi: portafoglio a destra e cuore a sinistra, politiche economiche pro-business e diritti civili), perseguita da Matteo Renzi con un certo decisionismo. E che ha colto nel segno; con l’esito e l’effetto (non propriamente collaterale), evidenziato dai flussi elettorali, che il Pd ha ceduto (all’astensionismo o ai partiti-imprenditori politici della protesta) larghe fasce di voto popolare. La strategia renziana appare modellata sul paradigma della terza via: la competizione per la conquista del centro sociale ed elettorale del mercato politico, vale a dire, i ceti medi; e, in questo, il premier-segretario può sicuramente dire: «Missione compiuta». Il punto, però, è che la terza via risultava pienamente vittoriosa negli anni Novanta della new economy affluente e in crescita, mentre in Italia in particolare ci troviamo purtroppo ad assistere al tema drammatico dell’impoverimento del ceto medio, con una sua progressiva proletarizzazione; e, al contempo, il Pd si trova di fronte la problematica della mancata mobilitazione e della perdita dei blocchi sociali storici della sinistra (gli strati popolari conquistati dalle issues della rabbia e della contestazione radicale dei partiti antisistema). A complicare ulteriormente la strategia renziana della competizione per il centro, producendo l’emorragia di voti vista nel primo turno delle consultazioni locali, c'è poi l’insorgenza di un tripolarismo a geometrie alterne che ha ormai scalzato il (peraltro mai davvero acquisito) bipolarismo centrodestra-centrosinistra. E, allora (per rievocare una domanda celebre a sinistra): che fare? Il Pd dovrebbe verosimilmente elaborare una nuova strategia di portata nazionale che lo porti a superare i particolarismi locali e, contemporaneamente, Renzi dovrebbe mettere mano alla sua organizzazione e struttura. Scegliendo di ricaratterizzare il Pd come il partito maggioritario del centrosinistra che affronta il disagio presente nel Paese con un adeguato armamentario di politiche sociali progressiste, e stipulando alleanze tattiche con le forze che si collocano alla sua sinistra. Oppure, al contrario, andando definitivamente nella direzione di un “partito della nazione” che fuoriesce anche a livello di narrazione dal campo della sinistra, e adotta in talune circostanze e su talune policies un linguaggio di tipo populistico per competere direttamente con le formazioni anti-establishment (perché se si fa schiacciare sul segmento elettorale e il profilo politico del “partito di sistema”, in un contesto sociale problematico quale quello odierno, smarrisce parecchio appeal). Mentre, nell’immediato di questi giornate che ci separano dai ballottaggi, il Pd deve adottare soluzioni variabili, nella consapevolezza che ogni città fa storia a sé, attivandosi altresì in pieno per rimobilitare e riportare alle urne la totalità gli elettori che gli hanno dato il consenso al primo turno. Cercando di riaprire i canali della “connessione sentimentale” con il proprio elettorato perduto più tipicamente di sinistra in ognuna delle metropoli che tornano a votare. E, in più, costruendo al volo, per quanto possibile, un progetto alto di città a Roma e Bologna, e rivendicando con forza e puntigliosamente le esperienze e i risultati delle amministrazioni uscenti a Torino e Milano (anche, e soprattutto, in quest’ultima città dove la fine della giunta Pisapia ha lasciato delusi parecchi votanti progressisti). Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Femminicidi, un appello agli uomini di Paolo Di Stefano Lucia Annibali porta sul volto sfregiato dall’acido il segno di quella ferocia che gli uomini continuano a scatenare contro le donne. Anche per questo va ascoltata, con lo stesso rispetto con cui si ascolta il sopravvissuto di una guerra. L’appello che ha lanciato ieri, in seguito alla strage continua cui abbiamo assistito e stiamo assistendo, è rivolto agli uomini: perché «la rivoluzione, qui e oggi, la possono fare solo gli uomini per gli uomini, affrontando un percorso di liberazione simile a quello che ha portato le donne all’emancipazione». Un invito che interroga noi uomini, anche quella grandissima maggioranza di uomini che si sentono estranei, per natura e/o per cultura, ad ogni violenza, figurarsi alla tentazione di uccidere la moglie o la compagna. Ci dice, Lucia Annibali nel testo scritto con Alessia Morani, che la tragedia del femminicidio è un dramma delle donne - certo - ma è fondamentalmente un problema degli uomini. Di tutti gli uomini, non solo di quelli che ci viene da definire subito bestie, mostri, artefici di mattanze quasi quotidiane. Perché quella ferocia demente ha un terreno fertile ovunque:

nelle famiglie, nella scuola, nel mondo del lavoro, nella società, nelle mille piccole e grandi discriminazioni di cui sono vittime le donne, troppo spesso valutate ancora per le loro qualità di mogli fedeli, madri devote, compagne, vallette, modelle. Per non parlare del fatto che, con tutti i discorsi di emancipazione dell’uno e dell’altro sesso, i loro corpi mercificati sono presenti ovunque - nei manifesti pubblicitari delle nostre città, in tv, in Rete - come oggetti di eccitazione a beneficio del maschio. Che dire di questa «sana» normalità avvolgente e inebriante? Che cosa ne diciamo noi maschi non feroci e non dementi? Quante volte accettiamo con un’alzata di spalle la strage di donne, confortati dai sondaggi numerici: «Caro lei - mi scriveva qualche settimana fa un lettore - basta con questa faccenda del femminicidio! Bisognerebbe piuttosto ammettere che sono diminuiti...». Dunque, sarebbe assurdo preoccuparsi di un rigurgito di peste visto che nel Seicento manzoniano i morti erano più numerosi? Che cosa pensiamo della normalità che prevede dolcemente per la donna (anche in una famiglia di professionisti, non è questione di livello sociale) il sovraccarico quotidiano maggiore di impegni, ventisette ore al giorno di attività, tra lavoro fuori casa, accudimento figli e genitori, gestione economia domestica, spesa, pulizie, cena eccetera. Non c’è bisogno di essere un maschio demente e feroce né di avere un’idea padronale del rapporto tra i sessi per offendere una donna: è quel che dovremmo comunicare, da padri, ai nostri figli maschi. Ma prima dovremmo esserne impregnati noi, di questo senso di libertà. Quanti bambini e adolescenti nativi digitali, tecnologicamente all’avanguardia, ritengono - come pensavano i nostri bisnonni e nonni migliori - di essere paternalisticamente destinati, per missione genetica, a proteggere la sorella, minore o maggiore che sia: perché comunque la donna andrebbe protetta come si fa con le specie floreali e faunistiche più fragili. Dunque, ricollocando, anche a fin di bene, la questione femminile in una dinamica di potere (il più forte e il più debole...) e non in una visione di autentica eguaglianza e libertà. Cari uomini, non c’è bisogno di essere feroci - come lo sono gli uomini che uccidono le donne considerandole loro esclusiva proprietà e che con facilità allontaniamo da noi - per essere discriminanti. Non c’è bisogno di disprezzare il delitto passionale per commettere piccoli delitti giornalieri contro l’uguaglianza. Non c’è bisogno di odiare la libertà della propria compagna, fidanzata, moglie, sorella per lederla. Non c’è bisogno di essere padri o fratelli di vittime per accogliere l’appello di Lucia Annibali e far sentire la nostra voce. Pag 1 Aiuti all’Africa, le ambiguità che l’Europa deve sciogliere di Goffredo Buccini È un passo avanti, sì, ma su un terreno assai scivoloso: e dunque è un passo incerto, gravato da un notevole fardello di ambiguità. Il nuovo piano dell’Unione Europea per i migranti (con le relative intese bilaterali sui rimpatri e sui flussi) ha soprattutto un merito: quello di affrontare infine il problema; e nel senso giusto, ovvero mutando - da passiva ad attiva - la posizione di noi europei verso un fenomeno di riallocazione globale di esseri umani mai visto dalla Seconda guerra mondiale in avanti: non più spettatori di un dramma biblico ma attori di una palingenesi collettiva. La filosofia alla base del piano coincide, in buona sostanza, con il Migration compact tanto caro a Matteo Renzi. E tuttavia i limiti che si intravedono sono notevoli: anzitutto per la scarsa disponibilità dei singoli Stati ad aprire i cordoni della borsa, come s’è capito già ieri in Lussemburgo alla riunione dei ministri degli Interni. Qualcosa s’è mosso, certo. Federica Mogherini e Frans Timmermans, vicepresidenti della Commissione, hanno proposto alle capitali dell’Unione di mettere assieme le risorse confezionando «accordi su misura»: 8 miliardi nel breve, fino a 62 nel lungo termine, da concedere almeno a nove Paesi (sette africani) cui dare sviluppo e cooperazione in cambio del ritorno in patria dei loro migranti irregolari e di un freno alle nuove partenze. È in sostanza il modello Erdogan esportato al Sud del Mediterraneo. Diecimila morti in mare solo dal 2014 sono del resto una cifra che non ci consente di girarci dall’altra parte. Però le perplessità rimangono forti. E, come si intuisce dal riferimento a Erdogan, non solo per le pur gravi ragioni economiche («i soldi non sono il focus del piano, non è il momento di discutere gli aspetti finanziari», s’è giunti a dire ieri in Lussemburgo). Angelino Alfano ha ragione quando sostiene che «l’Europa può diventare protagonista solo se prende su di sé tutto il sistema delle migrazioni, anche nel rapporto con i Paesi terzi dell’Africa». Ma è difficile non sottoscrivere i dubbi del Financial Times il quale, pur rallegrandosi che l’Europa aprisse

«finalmente» ai propri vicini, poneva l’altro giorno la questione etica (la stessa che si può sollevare sull’accordo con la Turchia): per chiudere la maggiore rotta sahariana, l’Europa, tanto fiera dei propri valori democratici, dovrà ad esempio venire a patti con Paesi come il Sudan, con la sua storia di violazioni dei diritti umani. O invogliare atteggiamenti ricattatori: il Niger ci ha già chiesto un miliardo, il 14 per cento del suo Pil, per collaborare. Diciamolo: è nello scorrere l’elenco dei potenziali partner che vengono i dubbi più seri: Etiopia, Mali, Libia (se le condizioni lo consentiranno) e così via… In alcuni casi parliamo di Stati falliti, di guerre civili aperte, di scenari terroristici. Immaginiamo di coinvolgere la Libia (quale piano serio potrebbe, d’altra parte, escluderla?). A chi daremmo i soldi? Con quali garanzie? Come evitare che il primo tiranno apra - per «accontentarci» - qualche lager nello stile del (compianto…) Gheddafi e trasferisca il tesoretto in un paradiso offshore anziché farne un volano di benessere per la sua gente? La triste verità è che i quattrini europei dovrebbero essere accompagnati da un esercito di maestri, medici e ingegneri, a sua volta protetto - in ovvio accordo con i «partner» africani - da soldati europei ben lungi dall’esistere: non certo per fisime neocoloniali, ma per risarcire popoli e nazioni di una decolonizzazione basata sulla fuga dalle responsabilità. Si tratterebbe naturalmente di aprire vere trattative bilaterali con quei pochi Stati (Marocco e Tunisia, ad esempio) strutturati e affidabili come alleati del Mediterraneo meridionale. E infine di stare in Africa per evitare che l’Africa intera salga da noi (quale sarebbe la differenza tra un profugo «con diritto d’asilo» e una mamma «migrante economica» che scappa col neonato dalla carestia?). Siamo, come si vede, di fronte a condizioni che al momento rendono perlomeno claudicante il piano dell’Unione. A meno che non si dichiari un obiettivo alto e nobile per centrarne uno basso e inconfessabile: lo stop ai flussi purchessia, pagando ai nostri confini buttafuori mascherati da «partner» e da capi di Stato. In questa distanza morale e politica l’Europa potrà liquefarsi o decidersi infine a esistere davvero. Pag 1 Confalonieri e Silvio: tanti colonnelli, ci sarà un generale? di Francesco Verderami Ci sono momenti in cui la vita costringe a fare un punto, e certe volte a metterlo. E per quanto la vita di Silvio Berlusconi e quella di Forza Italia siano state finora un tutt’uno, «è giunto il momento in cui il partito deve iniziare a camminare con le proprie gambe». Fedele Confalonieri dice ciò che è giusto fare, per dettare il tempo e non per essere costretti ad accettarlo. Nelle parole del patron di Mediaset non c’è l’idea di una cesura o di un distacco tra il Cavaliere e la sua creatura politica, quanto piuttosto un processo naturale, un futuro percorso comune che porterà a una fase nuova: «E allora si vedrà se tra tanti colonnelli ci sarà qualcuno capace di guadagnarsi i gradi di generale». Berlusconi continuerà ad esserci, «la sua figura è indispensabile», per il carisma e il rapporto con l’opinione pubblica. Al cospetto degli elettori, infatti, è come lo scudocrociato ai tempi della Dc: dove c’era il simbolo c’è sempre stato un voto, anche dopo la fine di quel partito. Sia chiaro, oggi non c’è nessun direttorio da costituire, non è alle viste alcuna supplenza nel partito. Ma la storia del leader di Forza Italia con la politica è destinata a cambiare, continuando comunque a esercitare una grande influenza fuori e dentro il Palazzo. Ce n’è la prova nel dispiacere e nella preoccupazione di Matteo Renzi, che in Berlusconi - anche dopo la rottura del patto del Nazareno - ha sempre visto un interlocutore oltre che un avversario. Però quel «Silvio ora deve pensare a se stesso» pronunciato da Confalonieri è un convincimento che interpreta anche il sentimento della famiglia Berlusconi. I figli sarebbero persino disposti ad assecondarlo sul Milan, se del caso, ma un conto è pensare di impegnarsi in uno sforzo finanziario per il calcio, altra cosa è pensare di accettare ancora lo sforzo fisico a cui è stato sottoposto il genitore, vederlo circondato da persone che hanno lucrato sulla sua figura e la sua fiducia. Raccontano che da tempo Confalonieri soffrisse per certe situazioni e che un lunedì, al pranzo di Arcore, si sia affidato a una reminiscenza storica: «I grandi uomini sono minacciati dai parassiti. A volte se ne circondano, perché nella loro grandezza sono attratti dagli opposti. Come quei monarchi che di notte si travestivano per andare a vedere le zone malfamate. Ma loro restavano monarchi, anche se camuffati». È già iniziata l’opera di smantellamento di quel muro che ha sottratto Berlusconi agli amici e talvolta alla famiglia. Cambieranno le figure al suo fianco,

persone di fiducia che avranno un profilo diverso rispetto ad alcune attuali. E mentre dall’ospedale il Cavaliere esorta Forza Italia a stare unita, nel partito sono tutti con i nervi a fior di pelle, divisi tra il fronte del Nord e il blocco del Sud, impegnati in uno scontro che rischia così di destinarli all’irrilevanza. Le parole di Confalonieri - che ha sempre rigettato l’immagine di politico prestato all’impresa - indicano invece un’altra strada. Perché si intuisce che lo schema immaginato dal capo del Biscione non passa né per la designazione del leader da parte di Berlusconi né per lo scontro tra i contendenti. Passa piuttosto per la competizione. E c’è un solo modo per garantire il corretto svolgimento della gara: le regole del gioco e le regole per la successiva convivenza. È vero che sull’altare delle primarie si consumò la fine del Pdl, con le sue numerose diaspore, siccome il Cavaliere - ancora nel pieno delle forze - poteva accettare l’anarchia ma non la messa in discussione della monarchia. In prospettiva però, se il partito dovrà «camminare sulle proprie gambe», servirà uno strumento per selezionare e stabilire i gradi. E la competizione, oltre a rivitalizzare il rapporto con i territori, potrebbe rimettere insieme quanti si sono divisi: ognuno con le proprie forze e tutti tutelati dalle regole. Nulla di nuovo, in fondo i segretari della Dc - prima di essere gestori del potere di maggioranza - erano garanti della minoranza. E quella storia è andata avanti per quasi cinquanta anni. Berlusconi in ogni caso resta, anche se la malattia oggi lo costringe a fare un punto e a prevedere il punto. Per certi versi proprio la malattia gli consentirà, quando sarà il momento, di lasciare senza ritirarsi, di uscire di scena senza essere stato cacciato dalla scena. Perché, pur escluso dal Palazzo, è rimasto nel Paese. La sfida dal suo punto di vista è vinta. Il resto, cioè le modalità per cambiare ruolo, sarà deciso dopo. Per ora non c’è alcun vuoto da colmare, anche se per la prima volta in un comunicato fa appello a Dio. AVVENIRE di sabato 11 giugno 2016 Pag 3 Europa imbarbarita se si difende soltanto di Laura Zanfrini I migranti e l’accoglienza che è possibile Culla dei diritti umani e dell’istituto del rifugio politico, di fronte alle migrazioni di massa di questi mesi l’Europa ha esibito tutta l’arbitrarietà dei suoi confini interni ed esterni. Se la «gestione integrata dei confini», votata ad arginare la pressione migratoria, s’è realizzata proprio negli anni in cui l’Europa si ampliava - fino a includere 28 Paesi – e concretizzava la promessa dell’abbattimento delle frontiere interne, la Fortezza Europa rischia oggi di sgretolarsi sotto la pressione di interessi ed egoismi nazionali. E lo stesso, insistente, richiamo all’Europa evoca l’esigenza di ripartire tra gli Stati il 'peso' dei profughi, piuttosto che la volontà di condividere la responsabilità nella gestione di un fenomeno che impone, con la forza della disperazione che infrange i muri di filo spinato e quelli definiti da leggi e regolamenti, una collaborazione che i governi sono stati finora incapaci di costruire e una giusta dose di lungimiranza. La ricollocazione di poche migliaia di profughi è peraltro un traguardo ben più modesto dell’auspicabile ridisegno del governo delle migrazioni secondo logiche coerenti coi valori profondi delle nostre democrazie. Quanto al piano discusso in questi giorni, se per un verso annuncia l’impegno dell’Europa a promuovere il fondamentale diritto a non emigrare, per l’altro non basta a superare i maggiori limiti dell’approccio europeo. Avendo ridotto il governo dei confini a un compito tecnocratico, valutato in termini di efficienza – ne è emblema la contabilità del numero di respingimenti, celebrati come un successo, così come l’enfasi tributata agli aspetti procedurali nella gestione di un’emergenza che è ormai improprio definire tale –, l’Europa si è trovata sprovvista di criteri convincenti e condivisi per distinguere i rifugiati 'autentici' da quelli fittizi. Una circostanza che concorre a delegittimare gli istituti di protezione e a ridurre le risorse per tutelare chi ne ha più bisogno. D’altro canto, attraverso la strategia d’esternalizzazione del presidio dei confini nei cosiddetti Stati sicuri e di accordi coi Paesi terzi - quello con la Turchia è l’ultimo di una lunga serie -, l’approccio europeo ha visto prevalere l’esigenza di contenimento su quella di un effettivo governo dei flussi, segnatamente i flussi per ragioni umanitarie. Così da trovarsi sguarnita di strumenti, come i «corridoi umanitari», che avrebbero consentito di gestire l’emergenza nel rispetto della dignità umana. Ci è voluta l’immagine straziante di un cucciolo d’uomo senza vita riverso su una spiaggia per ricordarci come si fossero smarrite le istanze di giustizia, equità e libertà che dovrebbero irrorare il

delicatissimo tema del governo dei confini. Ma s’è trattato di un’emozione consumatasi nel giro di poche settimane, travolta in troppi dalla preoccupazione di dover farsi carico «di tutti i poveri del mondo». Il confine tra migrazioni economiche e umanitarie è oggi sempre più labile. Tuttavia, dietro la disputa sulle definizioni – profughi, clandestini, migranti economici... –, si scorge la penuria di criteri eticamente fondati per la gestione tanto delle migrazioni forzate quanto di quelle volontarie, piegata agli interessi dei mercati e intrisa di retoriche – come la migrazione circolare – che rievocano l’ambizione d’equiparare la mobilità delle persone a quella di qualsiasi altro fattore produttivo. L’immigrazione è, per sua natura, un fenomeno che sfida i confini di una comunità; non soltanto quelli fisici e politici, ma anche quelli identitari, mettendo in discussione i principi su cui si fonda la convivenza, quelli forgiati da una storia condivisa e quelli imposti dalla mitologia nazionalista. È dunque quasi inevitabile che, quando si presenta con dimensioni tanto portentose che preannunciano un’evoluzione imprevedibile, susciti risposte allarmistiche e svariati modi per selezionare profughi e migranti, sulla base ad esempio del background culturale e religioso (erigendo il cristianesimo, espunto dalla Costituzione europea, a meccanismo d’esclusione), del livello di qualificazione (reintroducendo una concezione classista della membership) o della nazionalità, aprioristicamente eretta a criterio di meritevolezza. Tentativi per attutirne l’impatto, renderlo economicamente vantaggioso, scongiurare il rischio che il loro arrivo possa modificare irrimediabilmente i caratteri 'ereditari' di un popolo e l’identità di una nazione. Ma è proprio l’identità più preziosa e profonda dell’Europa, quella che ha generato il principio della dignità di ogni persona e l’idea di una solidarietà istituzionalizzata, che rischierebbe l’imbarbarimento qualora l’istanza di difendersi dovesse avere la meglio su quella di difendere chi ne ha più bisogno. Pag 21 Mein Kampf, i rischi di una lettura fuori contesto di Edoardo Castagna «La distribuzione nelle edicole del Mein Kampf, accompagnato al quotidiano “Il Giornale”, rappresenta un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza. Bisogna dirlo con chiarezza: l’operazione del “Giornale” è indecente. E bisogna soprattutto che a dirlo sia chi è chiamato a vigilare e a intervenire sul comportamento deontologico dei giornalisti italiani». Non si può certo dire che Renzo Gattegna abbia indugiato in eufemismi. Ma il punto è esattamente quello centrato dal presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane: a far problema non è la pubblicazione in sé dello scritto hitleriano, che anzi può essere uno strumento di conoscenza utile, se non indispensabile, delle dinamiche che hanno funestato il Novecento. Ma un conto è studiare e approfondire, un altro è distribuire a pioggia, attraverso le edicole, un testo il cui interesse sta tutto nel ruolo storico che ha ricoperto. E che per essere compreso ha bisogno, necessariamente, di un contesto in cui inserirlo. Il fatto poi che tale pubblicazione arrivi a pochi giorni di distanza dall’approvazione definitiva della legge che punisce il negazionismo in Italia è probabilmente casuale, ma aggiunge nota stonata su nota stonata. Sia chi sostiene sia chi contesta la legge concorda su un punto fondamentale: a far davvero la differenza non sono le norme, ma la conoscenza. Il negazionismo è il ribaltamento della verità storica, un ribaltamento particolarmente odioso perché è compiuto a danno della memoria di milioni di vittime innocenti e delle loro sofferenze: sofferenze letteralmente “inenarrabili”, come spiegava Primo Levi, che le aveva vissute. Un po’ autobiografia, un po’ manifesto ideologico, il Mein Kampf fu scritto da Hitler in carcere, dove era stato rinchiuso dopo il tentato colpo di Stato del 1923, e fu pubblicato nel 1925. Il futuro Führer veste a tratti i panni del profeta e affresca lo scenario del “Reich millenario”, enunciando esplicitamente i principi che sarebbero tragicamente diventati operativi dopo il 1933: dalla supremazia della “razza ariana” all’annientamento dei “nemici” ebrei e bolscevichi. In Germania ha generato ampio e aspro dibattito la recente pubblicazione del Mein Kampf nella monumentale edizione critica curata dall’Istituto di Storia contemporanea di Monaco di Baviera. L’edizione, corredando lo scritto di uno sterminato apparato storico e interpretativo, ha cercato di mettere le mani avanti e di impedire che, con lo scadere dei diritti d’autore sull’opera, iniziassero a circolare, soprattutto negli ambienti neonazisti, edizioni più o meno abborracciate e comunque non adatte a dar

conto della complessità del testo. Il Mein Kampf dell’Istituto bavarese è una colossale opera in due tomi, con centinaia di pagine critiche: ben altra cosa quindi da quanto può essere distribuito in un’edicola allegato a un quotidiano. «Come reagirà il cittadino comune, già all’orlo della povertà e aizzato contro i migranti, quando leggerà in Mein Kampf le pagine contro “questi sporchi immigrati”?», si chiedeva Carlo Ossola nell’imminenza della pubblicazione tedesca. Su queste colonne Ferdinando Camon ha precisato: «Se quel libro ha aperto una storia nemica dell’umanità, il superamento di quella storia va cercato nella conoscenza e nella confutazione ». L’arma più forte per combattere l’ignoranza storica e i suoi cascami contemporanei – non ultimo il periodico riaffiorare di sentimenti e atti antisemiti – è insegnare, fornendo i necessari strumenti critici, a distinguere gli storici su cui è possibile fare affidamento dai manipolatori più o meno consapevoli dei fatti. Non certo mettendo in mano anche al più impreparato dei lettori il Mein Kampf. IL FOGLIO di sabato 11 giugno 2016 Pag 3 Anche per il Vaticano è genocidio Il card. Tauran: “Piano per eliminare il cristianesimo dal medio oriente” Sono parole pesanti quelle che ha pronunciato ieri il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, in merito all'appello lanciato su questo giornale dall'associazione Aiuto alla chiesa che soffre affinché anche il Parlamento italiano (dopo quello europeo, il Congresso americano e il Dipartimento di stato di Washington) definisca "genocidio" quanto sta capitando alle popolazioni cristiane del vicino e medio oriente. "Sì, sono sostanzialmente d'accordo", ha detto il porporato francese, sottolineando che in Siria e Iraq "i cristiani vengono uccisi, minacciati, ridotti al silenzio o cacciati via, con le chiese che vengono distrutte o rischiano di trasformarsi in musei". Frasi come queste assumono un rilievo notevole se a farle proprie è un esponente di altissimo rango della gerarchia vaticana, qual è appunto Tauran. Diplomatico di carriera, è stato segretario per i Rapporti con gli stati (cioè il numero tre della Segreteria di stato) dal 1990 al 2003 e - dopo la parentesi da archivista e bibliotecario vaticano - è stato scelto da Benedetto XVI per presiedere il dicastero che si occupa delle relazioni con le altre religioni. Tauran, poi, ha organizzato il recente e storico incontro tra il Grande imam di al Azhar e il Papa. Fino a oggi, molti osservatori si domandavano quale fosse la reale posizione della Santa Sede circa la richiesta - comune alla gran de maggioranza dei vescovi siro-iracheni - di riconoscere che in corso è un genocidio e non una semplice mattanza. La prudenza, dettata dal pericolo di non aggravare la condizione delle popolazioni già costrette all'esodo dalla piana di Ninive e martoriate dagli attentati nelle città e nei villaggi siriani, finora aveva suggerito di non usare la parola "genocidio". La situazione reale sul campo, però, non consente più di tergiversare. Le migliaia di uomini e donne e bambini spariti nel nulla a Mosul, le fosse comuni che spuntano un po' ovunque, le "N" di nazareno impresse sulle case occupate dai miliziani, sono un fatto incontrovertibile, che rende sterile il dibattito su quanti sono i cristiani macellati e quanti invece gli sciiti o gli yazidi. Già la scorsa Pasqua, in occasione della benedizione Urbi et Orbi, il Papa aveva ricordato "i nostri fratelli e sorelle perseguitati per la fede e per la loro fedeltà al nome di Cristo". Ora è il cardinale responsabile del dialogo interreligioso a dirlo: "Il cristianesimo rischia di non essere più presente, proprio nella terra in cui è nata la fede di Cristo. Nel 1910, il venti per cento della popolazione mediorientale era cristiana. Ora è meno del quattro per cento. Evidentemente - ha chiosato Tauran - c'è un piano d'azione per cancellare il cristianesimo dal medio oriente e questo può chiamarsi (o quantomeno richiamare) il genocidio". IL GAZZETTINO di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 Silvio, l’occasione per chiudere il cerchio (magico) di Bruno Vespa L'intervento chirurgico al quale dovrà sottoporsi Silvio Berlusconi è serio, ma appartiene ormai alla routine della cardiochirurgia e comunque nella norma non è invalidante. Un uomo di ottant'anni dovrà prendere qualche precauzione, ma sbaglia di chi fa del ricovero al San Raffaele la data terminale della sua esperienza politica. La coincidenza di

questo episodio con le elezioni amministrative consentirà tuttavia al Cavaliere di fare chiarezza sulla propria successione (tema aperto da tempo) e sul futuro del centrodestra italiano. Ex malo bonum, come usa dire citando Sant'Agostino. 1. La ribellione della figlia Marina e una ragionevole convalescenza sono per Berlusconi una eccellente occasione per chiudere una volta per tutte la storia del "cerchio magico" che va ben al di là dello staff normale di un capo politico. Ogni leader ha il rischio che qualche collaboratore esondi dalle deleghe che gli sono state assegnate. Nel caso del Cavaliere questa esondazione è stata perniciosa ed è dunque ora che ruoli e competenze tornino alla normalità. Una discreta dose di stress potrà così essergli risparmiata. 2. I risultati delle elezioni comunali hanno fatto fallire l'opa di Matteo Salvini sul centrodestra. La Lega è in crescita, ma al Sud ancora non esiste e i nove punti di distacco in favore di Forza Italia a Milano dimostrano che - pur decimato - il partito del Cavaliere è ancora capace di grandi sorprese. Al tempo stesso lo spazio settentrionale di Giorgia Meloni va poco oltre i confini di Roma Nord. 3. Gli errori che hanno impedito al centrodestra di andare al ballottaggio a Roma non sono da addebitare al solo Cavaliere. Sia Berlusconi che Salvini che la Meloni hanno cambiato idea in campagna elettorale, qualcuno più di una volta. Il risultato è la perdita di una grande occasione, ma se l'accordo Meloni-Salvini puntava alla definitiva emarginazione del Cavaliere, esso dovrà aspettare tempi migliori e appare comunque fortemente indebolito. 4. I risultati hanno chiarito che l'Italia non è pronta per la svolta lepenista. La decisione di Berlusconi di riportare Forza Italia al moderatismo delle origini e di restare nel Partito popolare europeo allo stato pare vincente. L'affermazione di Stefano Parisi a Milano, indipendentemente dall'esito del ballottaggio del 19 giugno, dimostra che personalità autorevoli e moderate possono essere il collante di una nuova aggregazione che riporti a casa i Fitto, i Verdini e quanti hanno lasciato la casa vecchia senza trovarne una nuova. 5. Il centrodestra ha confermato di poter vincere se è unito. Sbagliano Salvini e Meloni a pensare a Forza Italia come a una propria appendice, sbaglierebbe la nuova Forza Italia ad abbandonare una destra che dimenticasse Casapound per tornare ragionevole. 6. Gli avanguardisti di Forza Italia già pronti a mollare il Cavaliere per svoltare a destra hanno fatto una frenata di cui si vedono i segni sull'asfalto. La storia è piena di trasformismi, ma bisogna farli al momento giusto. 7. Il cuore malato non impedirà a Berlusconi di essere il "padre nobile" dei moderati italiani. A patto che disboschi la foresta clientelare che lo circonda e sappia indicare per il nuovo partito una leadership autorevole e moderata che si prepari in posizione di forza all'appuntamento elettorale del 2018. LA NUOVA di sabato 11 giugno 2016 Pag 1 La destra costretta a cambiare di Bruno Manfellotto Innanzitutto, i più sinceri auguri a Silvio Berlusconi costretto a un delicato intervento chirurgico al cuore. Che tutto vada per il meglio. L’abbiamo combattuto, esorcizzato, inseguito fin nella camera da letto perché a questo ci obbliga lo spirito critico che fa tutt’uno con il mestiere di giornalista. Ma è sempre stato un combattente fiero e indomito, anche quando ha lasciato gli altari per la polvere, e a lui abbiamo riconosciuto il miracolo, e il merito, di aver messo insieme la destra sdoganando il postfascismo e temperando lo spirito ribellista del leghismo. Ora che il delicato accordo di cui lui è stato per vent’anni il garante si è rotto e che per la destra sarà necessario trovare altri equilibri e missioni, non potrà più essere l’ex Cav. a escogitare nuovi “predellini”: i medici sconsigliano la tensione della politica. Fine, basta, ora tocca ad altri. E non sarà facile rimettere insieme i cocci. La destra deve risorgere dopo una lunga parentesi di inchieste giudiziarie, di incertezze e di confusione politica, di cerchi magici rosa (Rossi, Pascale & C.) e di feroci lotte intestine. Già, ma come? Con quale leadership? Certo, anche dopo l’operazione il peso di Berlusconi, della sua famiglia, dei suoi finanziamenti sarà determinante; ed è vero, come ha detto lui stesso entrando al San Raffaele, che «Forza Italia è operativa», ma certamente si chiude per sempre la lunga parentesi del partito azienda con un unico padre padrone: in trincea dovrà andare qualcun altro. Chi, allora? E con quale disegno strategico? Per capire qualcosa di più bisognerà guardare con attenzione a due città in attesa di ballottaggio, Roma e Milano, dove già si sono

consumate alcune puntate della lunga telenovela «La caduta dell’impero berlusconiano». Nella capitale di Buzzi e Carminati, infatti, Matteo Salvini ha recitato più o meno questo copione: qui la destra non ha molte possibilità di vittoria, o meglio qualche chance di battere la superfavorita grillina Virginia Raggi ce l’avrebbe pure se fossimo tutti uniti, ma a patto che l’ex Cav. si allei con me e alle mie condizioni, ripeteva, alle sue non ci sto. A tradurla in termini finanziari, il capo della Lega, amico di Marina Le Pen e di Donald Trump (ma all’insaputa di Donald Trump...), non ha fatto altro che lanciare un’Opa, un’offerta pubblica di acquisto, su Forza Italia e sulla destra: in politica dettare condizioni è come dire «qui comando io». Berlusconi ha capito il gioco e vi si è prontamente adeguato scegliendo un candidato - Marchini - che non era quello di Salvini - Meloni - cioè puntando non sulla vittoria sua, ma sulla sconfitta dell’altro. Il primo round è andato a lui perché il ticket Matteo-Giorgia non ha conquistato il ballottaggio, ma sarà molto interessante vedere ora come si schiereranno i suoi seguaci: con Giachetti, con la Raggi o con l’astensione? Sarà una verifica dell’esistenza stessa della destra e di quale sia il suo volto vincente. Ma una cosa è certa: il fronte lepenista di Salvini ha perso. L’altra pièce è andata invece in scena nei locali del Replay Store di Milano dove ha chiuso la campagna elettorale Stefano Parisi, scovato dall’ex sindaco Albertini, che lo ebbe city manager, e lanciato con convinzione da Berlusconi: ha risposto unendo tutta la destra, Lega compresa (come faceva a sfilarsi?), ora se la batte da pari a pari con Beppe Sala. Ancora giovane, nuovo alla politica con brevi trascorsi socialisti presto dimenticati per il managing e per l’impresa, Parisi avrebbe il profilo adatto per aspirare alla leadership di una destra moderna e liberale; se poi dovesse arridergli il successo contro Mr. Expo, la strada sarebbe spianata a furor di popolo. Anche perché sul suo nome potrebbero convergere anche i transfughi Verdini, Fitto e Alfano, toh chi si rivede, fino a oggi attratti dalle sirene di Renzi, domani dalla possibilità di giocare un’altra partita in una destra rinnovata e non più legata a un solo grande capo. Una rivoluzione. Che costringerebbe anche Renzi a ripensare alle sue alleanze e magari a dare un’occhiata dalle parti delle truppe grilline. Ma questa è tutta un’altra storia... Torna al sommario