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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 5 dicembre 2018 SOMMARIO I Vescovi della Conferenza Episcopale Triveneto hanno incontrato ieri mattina nella sede di Zelarino (Venezia) il cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, da poco più di un anno Prefetto della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede nonché presidente della Pontificia commissione "Ecclesia Dei", della Pontificia commissione biblica e della Commissione teologica internazionale. Il dialogo si è concentrato, in particolare, sui contenuti dell'esortazione apostolica di Papa Francesco "Gaudete et exsultate" sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo e poi sulla lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede "Placuit Deo" sull'unicità della mediazione e della salvezza di Cristo (testi usciti entrambi nella prima parte di quest'anno). "La santità - ha affermato il card. Ladaria nell'illustrare ai Vescovi il documento del Santo Padre - è una realtà della Chiesa, non riservata a coloro che sono canonizzati e troviamo sull'altare. Papa Francesco ci riconduce qui alla santità anonima, della porta accanto, a quella classe media della santità che non è una classe inferiore, a quei santi che non entreranno nei libri di storia ma che sono pienamente santi. La santità non ci toglie vita o gioia, ci dà la vita e la gioia vera. Non bisogna aver paura di puntare in alto, di lasciarsi amare da Dio e di farsi guidare dallo Spirito. Una Chiesa di élite non è la Chiesa di Cristo; la santità è per tutti, è l'unico volto di Dio che si riflette in molti. Sì, ognuno di noi è un riflesso del volto di Dio". "La salvezza cristiana - ha detto poi il Prefetto in riferimento al secondo documento - passa attraverso l'umanità di Cristo e prende in considerazione tutto l'essere integrale dell'uomo, perché l'immagine e la somiglianza di Dio toccano anche la dimensione corporea/carnale dell'uomo. La vita di Cristo risorto è comunione piena con Dio e con i fratelli e la salvezza è incorporarsi in questa sua vita. La salvezza è per tutto l'uomo ed è tutt'altro che individualismo, è relazione e partecipazione. E la Chiesa è la comunità di coloro che sono incorporati in questo nuovo ordine di relazioni e partecipano all'eterno scambio di amore che vi è nella Trinità, tra Padre, Figlio e Spirito Santo". Nel corso del pomeriggio si è poi svolta la riunione periodica della Conferenza Episcopale Triveneto durante la quale i Vescovi hanno fissato il tema per la due giorni di approfondimento che si terrà il 7 e 8 gennaio prossimi a Cavallino (Venezia): "Chiesa e comunicazione: come comunicare nella società di oggi". E, a proposito di comunicazione, su Avvenire di oggi Gigio Rancilio propone una riflessione sul tema “Credibili nella rete”: “Uno dei peggiori difetti del tempo che stiamo vivendo è la fretta con la quale vorremmo vedere risolto qualunque problema. Abituati ad avere «gadget» e «app» che promettono di semplificarci la vita, ci siamo persuasi che la tecnologia possa risolvere ogni nostro problema e senza farci faticare troppo. Ma per comunicare davvero occorre tempo e impegno, quindi fatica. Nonostante le nuove tecnologie, il suo valore non è cambiato. Proprio come il bisogno umano di comunicare. Per questo, guardando al futuro, non è poi così importante provare a indicare quali social resisteranno o quali nasceranno o a che punto arriverà l’interattività e nemmeno quali nuovi strumenti tecnologici useremo. Qualunque rapporto che si basa sulla comunicazione e sulla parola, con la «p» minuscola e tanto più se con la maiuscola (la Parola), deve preoccuparsi innanzitutto del suo fine ultimo. Che per la Chiesa resta lo stesso di sempre: arrivare alle persone per portare loro la Buona Novella. Sembra facile e scontato ma non lo è. Perché è e sarà sempre più difficile raggiungere le persone attraverso il digitale. Le voci infatti si sono moltiplicate e si moltiplicheranno sempre di più e la confusione ha inquinato e inquinerà sempre di più l’attenzione di molti. Le persone avranno quindi sempre più bisogno di «voci autorevoli», di «parole chiare», di «guide capaci di arrivare a tutti in modo efficace» senza banalizzare o camuffare il loro messaggio. Avranno bisogno di pastori che anche sul digitale possano sentire «veri» e «vicini», che parlino come

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 5 dicembre 2018

SOMMARIO

I Vescovi della Conferenza Episcopale Triveneto hanno incontrato ieri mattina nella sede di Zelarino (Venezia) il cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, da poco più di un

anno Prefetto della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede nonché presidente della Pontificia commissione "Ecclesia Dei", della Pontificia commissione biblica e della Commissione teologica internazionale. Il dialogo si è concentrato, in particolare, sui contenuti dell'esortazione apostolica di Papa Francesco "Gaudete et exsultate" sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo e poi sulla lettera

della Congregazione per la Dottrina della Fede "Placuit Deo" sull'unicità della mediazione e della salvezza di Cristo (testi usciti entrambi nella prima parte di

quest'anno). "La santità - ha affermato il card. Ladaria nell'illustrare ai Vescovi il documento del Santo Padre - è una realtà della Chiesa, non riservata a coloro che

sono canonizzati e troviamo sull'altare. Papa Francesco ci riconduce qui alla santità anonima, della porta accanto, a quella classe media della santità che non è una classe inferiore, a quei santi che non entreranno nei libri di storia ma che sono pienamente

santi. La santità non ci toglie vita o gioia, ci dà la vita e la gioia vera. Non bisogna aver paura di puntare in alto, di lasciarsi amare da Dio e di farsi guidare dallo Spirito. Una

Chiesa di élite non è la Chiesa di Cristo; la santità è per tutti, è l'unico volto di Dio che si riflette in molti. Sì, ognuno di noi è un riflesso del volto di Dio". "La salvezza cristiana - ha detto poi il Prefetto in riferimento al secondo documento - passa

attraverso l'umanità di Cristo e prende in considerazione tutto l'essere integrale dell'uomo, perché l'immagine e la somiglianza di Dio toccano anche la dimensione

corporea/carnale dell'uomo. La vita di Cristo risorto è comunione piena con Dio e con i fratelli e la salvezza è incorporarsi in questa sua vita. La salvezza è per tutto l'uomo

ed è tutt'altro che individualismo, è relazione e partecipazione. E la Chiesa è la comunità di coloro che sono incorporati in questo nuovo ordine di relazioni e

partecipano all'eterno scambio di amore che vi è nella Trinità, tra Padre, Figlio e Spirito Santo". Nel corso del pomeriggio si è poi svolta la riunione periodica della

Conferenza Episcopale Triveneto durante la quale i Vescovi hanno fissato il tema per la due giorni di approfondimento che si terrà il 7 e 8 gennaio prossimi a Cavallino

(Venezia): "Chiesa e comunicazione: come comunicare nella società di oggi".

E, a proposito di comunicazione, su Avvenire di oggi Gigio Rancilio propone una riflessione sul tema “Credibili nella rete”: “Uno dei peggiori difetti del tempo che

stiamo vivendo è la fretta con la quale vorremmo vedere risolto qualunque problema. Abituati ad avere «gadget» e «app» che promettono di semplificarci la vita, ci siamo persuasi che la tecnologia possa risolvere ogni nostro problema e senza farci faticare

troppo. Ma per comunicare davvero occorre tempo e impegno, quindi fatica. Nonostante le nuove tecnologie, il suo valore non è cambiato. Proprio come il bisogno

umano di comunicare. Per questo, guardando al futuro, non è poi così importante provare a indicare quali social resisteranno o quali nasceranno o a che punto arriverà

l’interattività e nemmeno quali nuovi strumenti tecnologici useremo. Qualunque rapporto che si basa sulla comunicazione e sulla parola, con la «p» minuscola e tanto

più se con la maiuscola (la Parola), deve preoccuparsi innanzitutto del suo fine ultimo. Che per la Chiesa resta lo stesso di sempre: arrivare alle persone per portare loro la

Buona Novella. Sembra facile e scontato ma non lo è. Perché è e sarà sempre più difficile raggiungere le persone attraverso il digitale. Le voci infatti si sono

moltiplicate e si moltiplicheranno sempre di più e la confusione ha inquinato e inquinerà sempre di più l’attenzione di molti. Le persone avranno quindi sempre più bisogno di «voci autorevoli», di «parole chiare», di «guide capaci di arrivare a tutti in modo efficace» senza banalizzare o camuffare il loro messaggio. Avranno bisogno di pastori che anche sul digitale possano sentire «veri» e «vicini», che parlino come

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parlano le persone, che conoscano i problemi dei fedeli. Che non calino dall’alto i loro messaggi, ma li condividano come si condivide il pane tra fratelli. Avranno, anzi

avremo bisogno di comunicatori che prima di parlare ascoltino chi hanno di fronte. Sul piano tecnico, invece, dovremo migliorare sempre di più la conoscenza dei mezzi ma soprattutto per adattarli alle nostre esigenze. Non per adattarci alle loro. Perché è vero che per essere efficaci dobbiamo sapere come funzionano le piattaforme e le tecnologie che usiamo, ma non serve a nulla scimmiottare le «mode digitali» se poi

non siamo credibili in quello che vogliamo comunicare. Dobbiamo prepararci anche a quella che sarà una nuova rivoluzione non solo tecnologica. Secondo la società ComScore, entro il 2020 la metà delle ricerche digitali sarà vocale. Complice il

crescente successo degli assistenti vocali come Alexa, Google Home, Siri, Cortana e simili, e complice la pigrizia degli utenti che preferiscono dettare una ricerca invece di scriverla, sta cambiando il modo e le parole con le quali si cercano le informazioni in Rete. Ma che risposte avranno le persone quando faranno ai loro assistenti vocali

domande del tipo: «perché dovrei credere in Dio?»; oppure: «come si fa a confessarsi?». In Inghilterra la Chiesa anglicana ha stretto accordi con Amazon,

proprietario dell’assistente vocale Alexa, per rispondere a domande morali, spirituali e religiose con una «voce ufficiale». Noi, per ora, siamo ancora in alto mare su questo punto. Ma dobbiamo affrontarlo. Perché se la voce della Chiesa sarà assente, chi farà domande religiose e spirituali agli assistenti vocali finirà magari con il trovare risposte confezionate da altri. E le prenderà per buone, accontentandosi del «primo risultato»

ottenuto. Con tutto quello che ne consegue. C’è un altro punto importante. Nonostante le difficoltà e i difetti del mondo digitale non possiamo esimerci

dall’essere presenti anche lì, perché è lì che ci sono tante persone. E se vogliamo comunicare con loro non possiamo limitarci a vivere spazi e luoghi che riteniamo più

'protetti'. Dobbiamo abitare il digitale. Con il nostro stile, le nostre parole e soprattutto con la Parola. Senza dimenticare che il miglior modo di comunicare è

anzitutto ascoltare i bisogni dell’altro e della comunità) e, dopo averlo fatto, rispondere con franchezza ma soprattutto con umiltà. Che non significa sminuirsi, ma lasciare che siano gli altri a decidere se “meritiamo” di essere considerati autorevoli.

Come direbbe Tonino Cantelmi «dopo l’impatto emotivo di ogni risposta proposta occorre recuperare la fascinazione della narrazione di sé, del proprio gruppo e del mondo». Non solo. Dovremo «recuperare il gusto del bello». Ma anche «accogliere

l’altro nell’ambito di relazioni interpersonali sane e risananti, riscoprendo la potenzialità terapeutica della relazione umana»” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di martedì 4 dicembre 2018 Pag 22 Moraglia sotto attacco da Forza Nuova “Basta chiese di famiglia” 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Lido, festa di San Nicola: ritrovo dei bambini di L.M. Pag XXVI A S. Stefano si amplia il museo di Daniela Ghio Tante le testimonianze dell’arte sacra con opere realizzate anche dal Tintoretto. L’apertura di Chorus per valorizzare il patrimonio 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Manuale per fare la pace L’omelia a Santa Marta

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AVVENIRE Pag 3 Così il “rumore” dei giovani può cambiar volto alla Chiesa di Chiara Giaccardi Dai ragazzi che sono intervenuti all’assemblea una lezione di metacomunicazione da tenere presente Pag 15 Il cardinale Montenegro lascia la presidenza della Caritas di Mimmo Muolo Pag 15 Ladaria Ferrer: la Chiesa di Cristo non è d’élite Pag 19 Davvero l’ “uomo digitale” è poco attento allo spirito? di Antonio Spadaro Pag 19 Credibili nella rete di Gigio Rancilio Pag 30 Una “via crucis” per le chiese dismesse e violate di Guido Oldani Pag 30 Paolo VI in equilibrio sul rasoio del ’68 di Roberto Righetto IL FOGLIO Pag 1 Basta col presepe di Maurizio Crippa Meglio sottrarre la meditazione sulla nascita di Gesù a chi ne fa una “tradizione” (cattolici per primi) Pag 1 Il lamento di paglia di Matteo Matzuzzi “Non si parla più della morte”, avverte il vescovo. Inevitabile, dopo anni di convegni sui pannelli solari ITALIA OGGI Non si può cancellare il nome di Gesù di Martino Loiacono LA NUOVA Pag 25 I vescovi incontrano il cardinale Ferrer Prefetto per la dottrina della fede AVVENIRE di martedì 4 dicembre 2018 Pag 17 Così nasce la Chiesa di domani di Maurizio Gronchi Sinodalità, collegialità episcopale, discernimento, parole chiave del progetto di riforma avviato da Papa Francesco Pag 17 Basta dire: “Si fa sempre così” di Mimmo Muolo Pag 26 In Avvento “stare svegli e pregare” L’Angelus di domenica: da Francesco l’invito ad allargare la mente e il cuore per aprirsi alle necessità della gente Pag 28 Cosa c’è Oltre? Paglia: la vita è per sempre di Pierangelo Sequeri CORRIERE DELLA SERA di martedì 4 dicembre 2018 Pag 25 “Non si parla più della morte, la colpa è anche di noi cristiani” di Aldo Cazzullo L’arcivescovo Paglia: il linguaggio clericale non arriva né alle menti né ai cuori IL FOGLIO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 1 Il partito dei vescovi di Matteo Matzuzzi Debutta un “movimento” di cattolici che va oltre destra e sinistra. Ma come la mettiamo con il clericalismo? 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

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CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Natalità, il nostro inverno di Vittorio Filippi Demografia AVVENIRE di martedì 4 dicembre 2018 Pag 3 Istantanee di periferia: dove Milano ricomincia di Marina Corradi I figli che non sono nati, i figli che stanno nascendo nella città che cambia Pag 3 Un lavoro abile per i ragazzi disabili di Roberta D’Angelo L’incontro con Mattarella per la Giornata Onu Pag 18 Matrimonio, ipotesi di rinascita di Luciano Moia Se la discesa non si ferma, tra poco più di dieci anni non ci si sposerà più. Come rimediare? Basterebbe ascoltare il Papa CORRIERE DEL VENETO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 1 Ludopatia, fenomeno impietoso di Pierpaolo Romani Il caso di Verona 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Rio di Noale, demolita la passerella della discordia di Michele Fullin Dopo mesi di ingiunzioni, ieri l’opera è stata rimossa sotto il controllo dei vigili Pag VI Bandiera Isis sulla Salute, nessuna segnalazione Pag VII Una colletta per pagare il funerale a Cristian di Daniela Ghio CORRIERE DEL VENETO Pag 10 Passerella abusiva demolita. La lotta ai pontili sui palazzi comincia dal rio di Noale di Elisa Lorenzini CORRIERE DEL VENETO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 5 L’Isis e la bandiera nera su Venezia di Andrea Priante I canali social dello Stato Islamico diffondono il fotomontaggio di un terrorista e del vessillo jihadista issato sopra la Madonna della Salute IL GAZZETTINO DI VENEZIA di martedì 4 dicembre 2018 Pag XX Da Jesolo a Roma per Sand Nativity, saranno in 600 di g.bab. Fervono i preparativi per l’inaugurazione del presepe in Vaticano 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 7 Pochi dubbi a Nordest. Sparare ai ladri? Si può di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin “Effetto Far West? No, diritto” Pag 27 Sicurezza, ecco perché il Nordest non è cambiato di Paolo Legrenzi LA NUOVA Pag 15 Profughi e presepio. Il caso don Favarin divide Lega e M5S di Enrico Ferro La polemica a Padova Pag 18 Il caso del presepe: le nostre radici cristiane sono una speranza, non rinunciamo a Gesù (intervento di Emanuele Compagno) AVVENIRE di martedì 4 dicembre 2018

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Pag 7 Caso Padova: “Il presepio, segno d’amore verso tutti” IL GAZZETTINO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 1 Il presepe agita la politica e fa discutere la Chiesa Pag 9 “Giù le mani dal presepe”, don Luca scuote il Natale di Antonio Bochicchio La provocazione del prete padovano nel mirino. I parroci e i frati del Santo prendono le distanze. Il Patriarca: “Per i cristiani è il cuore della fede” CORRIERE DEL VENETO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 3 “Mandano per strada gli immigrati e poi fanno le battaglie sul presepe” di Michela Nicolussi Moro e Roberta Polese Il vescovo di Chioggia contro la politica. Don Favarin dice di non farlo e lo minacciano di morte. Il Patriarcato: “E’ proposta, non imposizione” Pag 9 Parroco malato di gioco si è giocato 900 mila euro d’offerte alle slot machine di Davide Orsato Chiedeva soldi ai parrocchiani. La Diocesi: troppi dubbi LA NUOVA di martedì 4 dicembre 2018 Pag 15 «No al presepe per rispetto dei migranti». Offese e minacce di morte a don Favarin di Enrico Ferro Padova, il post su Fb del prete degli ultimi diventa un caso. E lui a "la Zanzara" ammette: «Il vescovo si è arrabbiato molto». La diocesi di Padova: «Una provocazione e un invito alla coerenza». La Lega insorge: «Parole gravi». E Salvini twitta: «Giù le mani» … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Sciogliere i nodi del Sud di Angelo Panebianco La crescita negata Pag 1 I toni da bar e le istituzioni di Pierluigi Battista Il corto circuito del leader leghista Pag 8 L’isolamento del ministro dell’Economia. Più forte la tentazione di dimettersi di Federico Fubini Troppe tensioni interne, Tria non vuole essere il capro espiatorio per ciò che non ha funzionato Pag 13 Mattarella e la politica che non va abbandonata di Marzio Breda AVVENIRE Pag 1 Né succubi né presuntuosi di Andrea Lavazza L’ “incompetenza” chiude il futuro Pag 3 Le rimesse dei migranti, tassarle è miope e cinico di Maurizio Ambrosini Scelta che contraddice l’ “aiutiamoli a casa loro” e incentiva le partenze Pag 3 Non si dissangui più la vera antimafia di Giuseppe Savagnone Il colpo ai boss e l’emorragia di giovani siciliani Pag 9 Ma è il ministro a sbagliare tempi e modi Pag 22 Senza figli l’Europa è più povera di Giovanni Maria Del Re Il Continente invecchia, l’Ue in allarme IL GAZZETTINO Pag 1 La nuova alleanza contro la recessione di Oscar Giannino

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LA NUOVA Pag 4 La febbre del Nord cresce e il messaggio è per Salvini di Daniele Marini Pag 14 Proibire il gioco d’azzardo è la scelta di uno Stato etico di Ferdinando Camon AVVENIRE di martedì 4 dicembre 2018 Pag 1 Sulla strada dell’ “Avvenire” di Marco Tarquinio Tre parole. Più una quarta: fraternità Pag 3 “Un Paese frammentato, in cerca di una nuova élite” di Alessandro Zaccuri Il presidente del Censis De Rita: “Ogni 25 anni si invoca il cambiamento. Gli italiani sono il popolo della sabbia, c’è una continuità tutta da interpretare” IL GAZZETTINO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 1 Il ritorno della borghesia che rinuncia alla delega di Alessandro Campi LA NUOVA di martedì 4 dicembre 2018 Pag 5 I padri non c’entrano, le bocciature dei figli sono politiche di Roberto Weber

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA di martedì 4 dicembre 2018 Pag 22 Moraglia sotto attacco da Forza Nuova “Basta chiese di famiglia” Venezia. «Basta chiese di famiglia»: è lo slogan sugli striscioni di Forza Nuova in Piazza San Marco. Il messaggio - come spiega il movimento di estrema destra su Facebook - è rivolto al patriarca Francesco Moraglia perché intervenga sulle chiese di San Salvador e San Zulian, affidate a un sacerdote, don Massimiliano D'Antiga, che non svolgerebbe la funzione di parroco. Don D'Antiga è amministratore parrocchiale di entrambe le chiese, la prima da 5 anni e la seconda da un periodo molto più lungo, oltre 15. Secondo Forza Nuova, il sacerdote avrebbe affidato a sorella, fratello e madre la «gestione delle due chiese e del relativo patrimonio immobiliare». Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Lido, festa di San Nicola: ritrovo dei bambini di L.M. Lido. Ritrovo di tutti i bambini del Lido oggi pomeriggio per la festa di San Nicola. Alle 17 appuntamento per i bambini delle elementari delle classi di catechismo delle sei parrocchie dell'isola nella chiesa di San Nicolò. Come consuetudine ci sarà un incontro con San Nicola in carne ed ossa che poi consegnerà ai presenti caramelle e piccoli doni. Sarà presentato, in maniera giocosa e ben animata, qualche episodio particolare della vita del santo. Oltre ai bimbi ci saranno i loro catechisti, molti genitori e nonni ad accompagnarli. Al termine, dopo un breve momento di preghiera e riflessione, tutti si sposteranno in patronato dove gli scout adulti del Masci del Lido cureranno un momento conviviale con cioccolata calda e biscotti. Domani, giovedì giorno della festa liturgica di San Nicolò, la santa messa solenne alle 18, per tutta la Comunità pastorale, nella chiesa

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a lui dedicata presieduta da monsignor Orlando Barbaro, concelebrata dal parroco don Giancarlo Iannotta e da tutti i sacerdoti del Lido. Pag XXVI A S. Stefano si amplia il museo di Daniela Ghio Tante le testimonianze dell’arte sacra con opere realizzate anche dal Tintoretto. L’apertura di Chorus per valorizzare il patrimonio Venezia. Un tesoro finora nascosto si svela alla città: nella chiesa di Santo Stefano l'area museale si arricchisce, svelando preziosi tesori. Il museo della chiesa di Santo Stefano si sviluppa attraverso un percorso suggestivo che disegna una panoramica dell'arte sacra in ogni sua espressione: dai dipinti dei secoli XIV-XVIII esposti nella Sacrestia Maggiore, tra cui diverse opere di Tintoretto, al tesoro della Chiesa (custodito nella Sacrestia Minore); dalle sculture dei secoli XIV-XIX (esposte nel Chiostrino) fino al Coro ligneo del XV secolo. PERCORSO - L'apertura completa del museo, affidato al Circuito Chorus, intende restituire ai cittadini di Venezia e ai molti visitatori che quotidianamente la percorrono, ignari spesso dei preziosi tesori da essa custoditi, un angolo che merita d'essere riscoperto e conosciuto da tutti. L'ingresso alla chiesa è libero, il museo è gratuito per i veneziani, per i non residenti l'offerta è di 3 euro. «Stiamo cercando di dare un modello che valorizzi il patrimonio artistico di Santo Stefano - spiega il presidente di Chorus, don Roberto Donadoni -. Il nostro sforzo è di tenere aperte il più possibile le chiese. San Samuele, ad esempio, è ora molto più fruibile: da maggio a ottobre è aperta quattro volte la settimana, negli altri mesi tre volte. Il nostro obiettivo è quello tenerle aperte e offrire accoglienza, con un accompagnamento non solo alla lettura artistica delle opere, ma anche a coglierne il messaggio religioso, grazie alla collaborazione di Chorus con il Centro Pattaro». «È importante garantire una presenza in chiesa che accolga i visitatori, altrimenti girano senza capire cosa vedono - afferma il parroco di Santo Stefano, don Luciano Barbaro -. Pur soffrendo del calo di abitanti, ora poco più di un migliaio, riusciamo ad avere dei volontari formati che accolgano e accompagnino i visitatori: in parte ospitando stagisti universitari esperti in materie artistiche, in parte con progetti di alternanza scuola-lavoro con studenti delle medie superiori e con studenti medi preparati dalle parrocchie di San Moisè e Santo Stefano». Durante l'anno la Comunità marciana offre inoltre almeno quattro catechesi sull'arte, con introduzioni storico-artistiche attente al messaggio spirituale, spesso di difficile decifrazione. In questo senso sono stati recentemente fatti incontri sulla figura di alcuni santi agostiniani presenti a S. Stefano, anticamente retta da padri agostiniani, con docenti universitari. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Manuale per fare la pace L’omelia a Santa Marta Con lo stile umile degli artigiani «vivere in pace nella nostra anima, a casa con la famiglia, a scuola, nel lavoro, nel quartiere»: ecco l’impegno pratico per l’Avvento - un vero e proprio manuale per costruire la pace nella quotidianità con tanto di esame di coscienza per tutti, bambini compresi - suggerito da Francesco nella messa celebrata martedì 4 dicembre a Santa Marta. Per questa riflessione sulla pace il Papa ha subito fatto presente che nella prima lettura, tratta da Isaia (11, 1-10), «c’è una promessa, una promessa dei tempi, quando verrà il Signore: il popolo aspettava la venuta del salvatore, del liberatore, del Signore - ha spiegato - e il profeta dice come sarà quel tempo, quando lui verrà». E «dice che tutto sarà in pace, il Signore farà la pace». In particolare, ha fatto notare Francesco, il profeta «descrive questa pace con immagini che sembrano un po’ bucoliche ma belle: tanta sarà la pace che “il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il

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lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte”». Davanti a questo testo, ha proseguito il Papa, ci si chiede se ciò «sarà possibile». In realtà, ha affermato, Isaia «vuol dire che la pace del Signore è capace di trasformare la vita, di trasformare la storia, e Gesù è chiamato proprio principe della pace perché viene a portare questa pace, a offrirci questa pace». «Questo tempo di Avvento è un tempo per prepararci a questa venuta del principe della pace» ha rilanciato il Pontefice. È, dunque, «un tempo per pacificarsi: prima di tutto, pacificarci con noi stessi, pacificare l’anima», perché «tante volte noi non siamo in pace; siamo in ansia, siamo in angoscia, senza speranza e la domanda che ci fa il Signore è: “Come è la tua anima, oggi, è in pace?” - “Eh, non so” – “Ma, guarda, se non è in pace incomincia questa strada per pacificarla” - “Ma io non posso”». Ma «lui può», ha affermato il Papa, invitando a chiedere «a lui di pacificarti: il principe della pace pacifica l’anima». Ecco che, ha fatto presente Francesco, «il primo passo di questo tempo di Avvento è pacificare l’anima di ognuno». In realtà, «noi siamo abituati a guardare l’anima altrui: “Ma guarda quello, guarda quella, cosa fa”». Dobbiamo invece guardare la nostra anima e chiedere e a noi stessi: «Come stai? Il tuo cuore cosa sente? È in pace? Sei arrabbiato? Sei arrabbiata? Sei ansioso, ansiosa?». Così, ha insistito il Papa, «chiedi al Signore la grazia di pacificare l’anima, per prepararti all’incontro con lui». «Poi un’altra cosa da pacificare è la casa» ha detto ancora il Pontefice, suggerendo di domandarci: «a casa come va la pace?». Bisogna sempre «pacificare la famiglia: ci sono tante tristezze nelle famiglie, tante lotte, tante piccole guerre, tanta disunione delle volte». E così «non c’è pace: uno contro l’altro o sfida l’altro». Perciò, ha proposto Francesco, «ognuno si domandi: come è la mia famiglia? È in pace o è in guerra? È unita o c’è la disunione? Ci sono tutti ponti fra noi o ci sono muri che ci separano». Con l’obiettivo di «pacificare la famiglia». Occorre anche allargare gli orizzonti per «guardare il mondo - ha invitato il Papa - e vedere che c’è più guerra che pace: c’è tanta guerra, tanta disunione, tanto odio, tanto sfruttamento. Non c’è pace». Ma «cosa faccio io per aiutare la pace nel mondo?». Ci si potrebbe giustificare dicendo che «il mondo è troppo lontano». E allora il Pontefice ha invitato a verificare «cosa faccio io per aiutare la pace nel quartiere, nella scuola, nel posto di lavoro: prendo sempre qualche scusa per entrare in guerra, per odiare, per sparlare degli altri? Questo è fare la guerra! Sono mite? Cerco di fare dei ponti? Non condanno?». È una questione che riguarda anche i bambini, ai quali bisogna chiedere: «A scuola, quando c’è un compagno, una compagna che non ti piace, è un po’ odioso o è debole, tu fai il bullismo o fai la pace, cerchi di fare pace? Perdono tutto?». Lo stile deve essere quello degli «artigiani di pace» e «ci vuole questo tempo di Avvento, di preparazione alla venuta del Signore che è il principe della pace». «E la pace - ha spiegato Francesco - sempre va avanti, mai è ferma, arriva a un punto e dà un altro passo di pace, un altro passo di pace: è feconda». Di più, «la pace incomincia dall’anima e poi torna all’anima dopo aver fatto tutto questo cammino di pacificazione». Perciò «fare la pace è un po’ imitare Dio quando ha voluto fare la pace con noi e ci ha perdonati, ci ha inviato suo Figlio a fare la pace, a essere il principe della pace». Tutti sono chiamati a essere artigiani di pace. Forse, ha suggerito il Pontefice, «qualcuno può dire: “padre, io non ho studiato come si fa la pace, non sono una persona colta, non so, sono giovane, non so”». Ma è Gesù stesso, nel passo evangelico di Luca proposto dalla liturgia (10, 21-24), a dirci «quale deve essere l’atteggiamento: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”». Magari, ha ripetuto il Papa, «tu non hai studiato, non sei sapiente», ma «fatti piccolo, fatti umile, fatti servitore degli altri: fatti piccolo e il Signore ti darà la capacità di capire come si fa la pace e la forza di farla». «Vivere in pace nella nostra anima, a casa con la famiglia, a scuola, nel lavoro, nel quartiere, vivere in pace, questa sarà la preghiera di questo tempo di Avvento» ha suggerito Francesco. Si tratta di «pacificare, fare la pace, con umiltà». E «ogni volta che noi vediamo che c’è la possibilità di una piccola guerra, sia a casa sia nel mio cuore sia a scuola, a lavoro, fermarsi e cercare di fare la pace». Soprattutto «mai, mai ferire l’altro, mai». E il primo passo «per non ferire l’altro» è proprio «non sparlare degli altri, non buttare la prima cannonata». Con la certezza che «se tutti noi facessimo solo questo - non sparlare degli altri - la pace andrebbe più avanti». «Che il Signore ci prepari il cuore per il Natale del principe della pace» ha concluso il Papa. Ma, ha aggiunto, «ci prepari

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facendo noi del tutto la nostra parte per pacificare: pacificare il mio cuore, la mia anima, pacificare la mia famiglia, la scuola, il quartiere, il posto di lavoro». Ed essere così veramente «uomini e donne di pace». AVVENIRE Pag 3 Così il “rumore” dei giovani può cambiar volto alla Chiesa di Chiara Giaccardi Dai ragazzi che sono intervenuti all’assemblea una lezione di metacomunicazione da tenere presente Il Sinodo non è un evento bensì la tappa di un cammino. Per questo il frutto del Sinodo sui giovani non è tanto il documento finale, quanto ciò che di nuovo è germogliato nelle quattro settimane del tragitto comune e che potrà fiorire nelle diverse realtà locali che saranno capaci di dare carne e concretezza a questo processo. E la prima novità è che i giovani da 'oggetto' del Sinodo hanno saputo farsi soggetti, protagonisti di rinnovamento. Con le loro testimonianze fresche e appassionate, con le parole impregnate di vita e in tanti casi anche di ferite, coraggio e resilienza hanno aperto i lavori, ritmato il loro svolgimento, dilatato la formula sinodale. Veri maieuti di rigenerazione per tutta la chiesa. Grazie a loro, più che le parole scambiate e scritte ha assunto un ruolo cruciale, rigeneratore e autenticamente innovatore la dimensione metacomunicativa. Importanti studiosi, da Bateson a Watzlawick alla scuola di Palo Alto, hanno da sempre indicato come le parole veicolano i contenuti, ma sono la dimensione non verbale e relazionale a determinare il più profondo significato della comunicazione. Si parla di metacomunicazione quando l’aspetto relazionale influenza in modo determinante l’intelligibilità di quello verbale, rafforzandone, negandone o riorientandone il contenuto. È la metacomunicazione che consente di riconoscere, negoziare, contestare, riformulare la definizione della situazione. La metacomunicazione 'incornicia' la situazione riducendo la complessità e facilitando la sintonia tra gli interlocutori poiché fornisce un orizzonte di riferimento comune. L’attenzione si sposta dall’informazione e dai contenuti trasmessi alla relazione. Se dico a qualcuno 'sei proprio un pazzo!' sorridendo e strizzando l’occhiolino faccio due cose: suggerisco una interpretazione non letterale della mia frase, che diventa quasi un complimento; promuovo una definizione della relazione improntata alla benevolenza, all’ironia, alla familiarità affettuosa. E se l’altro sta al gioco, la relazione si rafforza. Attraverso la metacomunicazione si ridefiniscono dunque, contemporaneamente, i ruoli, la situazione, la relazione. In situazione di dissimmetria di potere la metacomunicazione è spesso l’unico modo per portare alla luce, e ridefinire simbolicamente, strutture di ruoli e gerarchie. È perciò un comportamento comunicativo raffinato, che richiede grande competenza e controllo dell’emotività. Grazie all’interazione coi giovani, i padri sinodali hanno svolto un vero itinerario metacomunicativo, passando da una comunicazione molto istituzionale e un po’ ingessata a un’autoironia che si è espressa nelle barzellette sulla chiesa (e persino sul Santo Padre!) raccontate dal cardinal Sako in aula fino alla partecipazione di molti cardinali al ballo di gruppo finale nello spettacolo organizzato dei giovani, passando per i tanti momenti di condivisione, i pasti e i selfie insieme: senza voler promuovere l’illusione di una inappropriata simmetria, i padri hanno saputo entrare nel gioco della reciprocità cui i ragazzi li hanno invitati. E questo si è riverberato anche nei rapporti degli stessi padri tra loro. Da parte dei giovani, rispetto alla definizione della situazione e dei ruoli non c’è stata una contestazione, una controaffermazione, bensì una negoziazione che senza rifiutare la 'cornice' di riferimento è riuscita a dilatarla. Non 'la chiesa e i giovani', ma i giovani nella chiesa. Il metamessaggio di riduzione di distanze e crescente fiducia reciproca è diventato via via più chiaro con lo scorrere dei giorni osservando i volti, gli sguardi, le ridotte distanze interpersonali, i sorrisi. Prendersi reciprocamente sul serio mentre si condivide una definizione della situazione (sinodo, cammino insieme) significa anche fare un salto nella relazione, oltre che rafforzare il frame. Il piano della metacomunicazione consente inoltre una sorta di rovesciamento delle parti: chi veniva sottoposto a valutazione, a giudizio (i giovani in questo caso), assume il ruolo di chi può emettere un parere e, se il caso, una critica. Da universo sconosciuto, indecifrabile e per lo più problematico il mondo dei giovani, degnamente rappresentato dai 34 uditori da tutto il mondo, si è man mano rivelato ricchissimo di

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risorse. Senza i loro apprezzamenti educatamente rumorosi, senza la loro parresía, senza la passione dei loro interventi molti temi delicati non avrebbero potuto essere affrontati con tanta lucida serenità e tanta misericordia. Il cambiamento è stato tangibile. Sono letteralmente mutate nel tempo sia la prossemica (la distanza interpersonale, la distribuzione nello spazio, la gamma delle situazioni spaziali) che la postura, molto meno rigida, che la mimica facciale, molto più espressiva, aperta, sorridente. Una danza relazionale che ha saputo inventare coreografie via via più armoniose. La capacità di metacomunicare è un segno di maturità, equilibrio, consapevolezza di sé, degli altri, della situazione. Ha veramente colpito questa competenza in persone così giovani, capaci di 'comunicare sulla comunicazione' e gettare un po’ di scompiglio nella definizione della situazione 'sinodo', riportandola al suo significato originario: non una procedura della chiesa istituzione, ma un cammino comune della chiesa popolo, tutta insieme. Quali comportamenti siano appropriati in una situazione dipende dalla definizione della situazione che i partecipanti avvallano con la loro interazione: prima di questo Sinodo il comportamento 'barzellette in aula' non era certo contemplato. Così come il minipellegrinaggio, la passeggiata comunitaria sulla via Francigena fino alla tomba di Pietro per circa 8 chilometri proposta da monsignor Fisichella e presa dapprima come una boutade, ma poi organizzata con tutti i crismi, compresi zainetti e cappellini: una versione 'esperienziale' del Sinodo che ha dato ulteriore concretezza al 'camminare insieme' e arricchito i registri comunicativi pertinenti alla situazione. Senza le risate, le camminate, le cene insieme, non avrebbe avuto tanto successo lo spettacolo finale organizzato dai giovani uditori: lettura di poesie, esibizioni canore, scketches, inframmezzati da esibizioni al piano del cardinale Baldisseri, il segretario generale la cui capacità comunicativa si è 'scaldata' man mano che i lavori procedevano. I due impeccabili presentatori, un ragazzo e una ragazza da due diversi continenti, sono riusciti a confezionare un capolavoro di ironia sulle procedure e il principio di autorità, in un sovvertimento carnevalesco – nel senso antropologicamente più nobile e autentico del termine – dei ruoli culminato nell’invito, accolto da molti cardinali, a unirsi a un liberatorio e festoso ballo di gruppo finale. Ballo al termine del quale, con eleganza, i ragazzi hanno espresso il loro auspicio per la chiesa che desiderano: «E ora i padri e le madri sinodali possono tornare a casa». Nessuna rivendicazione. La cornice festosa ha consentito licenze che altrimenti sarebbero suonate polemiche, mentre lì hanno fatto sorridere e, magari, pensare. Chissà, forse senza questo ballo finale molti placet sul ruolo delle donne nella chiesa non sarebbero stati accordati. È la via di una rivoluzione dolce, intelligente, propositiva che ha a cuore prima di tutto la qualità della relazione, senza la quale nessun contenuto può passare davvero. Pag 15 Il cardinale Montenegro lascia la presidenza della Caritas di Mimmo Muolo Roma. Una decisione sofferta e meditata. Alla quale è giunto per senso di responsabilità verso la propria arcidiocesi di Agrigento. Così il cardinale Francesco Montenegro ha motivato le sue dimissioni da presidente della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute e, di conseguenza, anche dalla presidenza di Caritas italiana e della Consulta ecclesiale degli organismi socio-assistenziali. L’annuncio, un po’ a sorpresa, è giunto nel corso del Consiglio nazionale di Caritas italiana e il porporato siciliano l’ha accompagnata con le parole commosse. «Prima di dirvi ciao vi dico grazie e ci metto tutto me stesso – ha sottolineato infatti – perché il mondo Caritas è stato fondamentale per tutte le mie scelte». La decisione, dunque, è il frutto di una lunga riflessione. Nel cardinale è andata via via maturando poiché questo incarico richiedeva sempre più spesso la sua presenza fuori dalla diocesi di cui è arcivescovo – Agrigento – la quale invece richiede la sua attenzione e la sua presenza costante. Alla presidenza della Commissione episcopale e quindi della Caritas italiana, il cardinale Montenegro era stato di nuovo eletto nel maggio del 2015, durante l’Assemblea generale dei vescovi. Per lui si trattava di un ritorno in un incarico ricoperto anche in precedenza, e precisamente dal 2003 al 2008, quando però era vescovo ausiliare di Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela, dunque un po’ più libero dagli impegni pastorali che spettano a un presule diocesano. Proprio nel 2008 era stato nominato arcivescovo di Agrigento e certo non aveva perso la sua sensibilità verso il mondo degli «scartati», come direbbe papa Francesco. In questi dieci anni ha infatti vissuto in prima linea il dramma delle

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migrazioni (l’isola-simbolo di Lampedusa fa parte del territorio della sua diocesi), distinguendosi per la vicinanza ai tanti uomini, donne e bambini che sfidano il mare per fuggire dall’inferno della guerra, delle persecuzioni e della povertà. Ieri, subito dopo l’annuncio delle dimissioni, sul sito di Caritas italiana è comparsa una nota di ringraziamento al porporato. «A lui va la gratitudine del direttore, di tutti gli operatori di Caritas italiana e delle Caritas diocesane per questi anni in cui ci ha accompagnato e guidato con grande umanità, capacità di dialogo e lungimiranza », si legge nel comunicato. «Affidiamo al Signore il suo impegno futuro – prosegue la nota – nella certezza che, nel proseguire il suo servizio alla Chiesa, continuerà ad essere un pastore attento e capace di ascoltare e far ascoltare il grido dei poveri per cercare di aiutarli a riprendere la vita con dignità». Anche ieri, a margine di un evento al quale era presente, il cardinale Montenegro ha commentato gli ultimi sviluppi dell’attualità. «Si può sempre tornare sui propri passi e rivederli», ha detto riguardo alla posizione italiana sul global compact. E sulla legge Salvini: «Dove ci sono uomini che sono in necessità, nel bisogno, non credo sia solo la sicurezza a garantire che tutto sia in ordine: la sicurezza non guarda il cuore, mentre l’uomo ha bisogno di cuore soprattutto se è in difficoltà». Pag 15 Ladaria Ferrer: la Chiesa di Cristo non è d’élite È stata la chiamata alla santità, nel solco dell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate, il tema al centro dell’incontro, ieri a Zelarino, tra i vescovi della Conferenza episcopale del Triveneto e il cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede nonché presidente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, della Pontificia Commissione biblica e della Commissione teologica internazionale. «La santità – ha detto il porporato – è una realtà della Chiesa, non riservata a coloro che sono canonizzati e troviamo sull’altare. Non bisogna aver paura di puntare in alto, di lasciarsi amare da Dio e di farsi guidare dallo Spirito. Una Chiesa di élite non è la Chiesa di Cristo; la santità è per tutti, è l’unico volto di Dio che si riflette in molti». Quindi commentando la Lettera del suo dicastero Placuit Deo, Ladaria ha sottolineato che «la salvezza cristiana passa attraverso l’umanità di Cristo e prende in considerazione tutto l’essere integrale dell’uomo, perché l’immagine e la somiglianza di Dio toccano anche la dimensione corporea/ carnale dell’uomo. La salvezza è per tutto l’uomo ed è tutt’altro che individualismo, è relazione e partecipazione. E la Chiesa è la comunità di coloro che sono incorporati in questo nuovo ordine di relazioni e partecipano all’eterno scambio di amore che vi è nella Trinità, tra Padre, Figlio e Spirito Santo». Pag 19 Davvero l’ “uomo digitale” è poco attento allo spirito? di Antonio Spadaro Internet non è come la rete idrica, o quella del gas. Non è un insieme di cavi, fili, tablet, cellulari e computer. Sarebbe errato identificare la realtà e l’esperienza di Internet alla infrastruttura tecnologica che la rende possibile. La Rete oggi è – soprattutto in mobilità – un contesto esistenziale nel quale si sta in contatto con gli amici che abitano lontano, ci si informa, le notizie, si acquistano cose, si condividono interessi e idee: è un tessuto connettivo delle esperienze umane. Un mio studente africano all’Università Gregoriana una volta mi disse: «Io amo il mio computer perché dentro il mio computer ci sono tutti i miei amici». Le tecnologie della comunicazione stanno dunque contribuendo a definire anche un modo di abitare il mondo e di organizzarlo, guidando e ispirando i comportamenti individuali, familiari, sociali. Aveva scritto Benedetto XVI: «L’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani». Del resto, già la Gaudium et spes aveva già parlato di un preciso impatto delle tecnologie sul modus cogitandi dell’uomo. In generale le «invenzioni tecniche» sono rilevanti perché «riguardano lo spirito dell’uomo» (Inter mirifica). San Paolo VI in un suo discorso del 1964 ribadì che «il cervello meccanico viene in aiuto del cervello spirituale». L’uomo tecnologico è dunque lo stesso uomo spirituale. La cultura del cyberspazio pone nuove sfide alla nostra capacità di formulare e ascoltare un linguaggio simbolico che parli della possibilità e dei segni della trascendenza nella nostra vita. La nostra vita vive anche nell’ambiente digitale. Dunque anche la nostra vita di fede ormai lo è. Quali sono le sfide principali che ci troviamo e ci troveremo ad affrontare alla luce di queste considerazioni? Tra le

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numerose possibili se ne possono individuare almeno due a mio avviso fondamentali. La prima è certamente legata al fatto che l’ambiente digitale ha oggi la natura di un network sociale: emergono le relazioni. Se nel nostro cervello sono connessi i neuroni, in Internet sono connessi i nostri cervelli, le nostre capacità culturali, spirituali, relazionali. Comunicare dunque non significa più trasmettere un contenuto, ma condividerlo. Ecco allora una domanda che potremmo definire radicale: basta moltiplicare le connessioni per sviluppare la comprensione reciproca tra le persone e le relazioni di comunione? Essere connessi non significa automaticamente essere in relazione. La community non è automaticamente comunità. La connessione di per sé non basta a fare della Rete un luogo di condivisione pienamente umana perché la comunione non è un “prodotto” della comunicazione. La Chiesa nell’ambiente digitale è chiamata dunque non a una “emittenza” di contenuti religiosi, ma a una “condivisione” del Vangelo in una società complessa dove la comprensione della realtà è compromessa dalle fake news, dalla manipolazione, dal dominio del consenso. Eppure dalla Rete emerge la necessità di una maggiore partecipazione: ciascuno può esprimersi. Se questo è vero nella dimensione politica e civile non lo è di meno in quella ecclesiale. È fondamentale che essa non sia gestita dalla logica dell’algoritmo. La seconda grande sfida consiste nella capacità di comprendere quella che una volta si chiamava – e a ragione! – la “vita interiore”. La vita spirituale dell’uomo contemporaneo è certamente toccata dal mondo in cui le persone scoprono e vivono le dinamiche proprie della Rete, che sono interattive e immersive. L’uomo che ha una certa abitudine all’esperienza di Internet infatti appare più pronto all’interazione che all’interiorizzazione. E generalmente “interiorità” è sinonimo di profondità, mentre “interattività” è spesso sinonimo di superficialità. Tempo fa Alessandro Baricco fece un elenco: la superficie al posto della profondità, la velocità al posto della riflessione, le sequenze al posto dell’analisi, il surf al posto dell’approfondimento, la comunicazione al posto dell’espressione, il multitasking al posto della specializzazione. Saremo condannati, dunque, alla superficialità? È possibile coniugare profondità e interattività? Chi è abituato all’interattività, interiorizza le esperienze se è in grado di tessere con esse una relazione viva e non puramente passiva, recettiva. L’uomo di oggi ritiene valide le esperienze nelle quali è richiesta la sua “partecipazione” e il suo coinvolgimento. La sfida è di enorme portata. Quale sarà dunque la spiritualità di quelle persone il cui modus cogitandi è in fase di “mutazione” a causa del loro abitare nell’ambiente digitale? Questa è anche una delle principali sfide educative dei nostri giorni. Pag 19 Credibili nella rete di Gigio Rancilio Uno dei peggiori difetti del tempo che stiamo vivendo è la fretta con la quale vorremmo vedere risolto qualunque problema. Abituati ad avere «gadget» e «app» che promettono di semplificarci la vita, ci siamo persuasi che la tecnologia possa risolvere ogni nostro problema e senza farci faticare troppo. Ma per comunicare davvero occorre tempo e impegno, quindi fatica. Nonostante le nuove tecnologie, il suo valore non è cambiato. Proprio come il bisogno umano di comunicare. Per questo, guardando al futuro, non è poi così importante provare a indicare quali social resisteranno o quali nasceranno o a che punto arriverà l’interattività e nemmeno quali nuovi strumenti tecnologici useremo. Qualunque rapporto che si basa sulla comunicazione e sulla parola, con la «p» minuscola e tanto più se con la maiuscola (la Parola), deve preoccuparsi innanzitutto del suo fine ultimo. Che per la Chiesa resta lo stesso di sempre: arrivare alle persone per portare loro la Buona Novella. Sembra facile e scontato ma non lo è. Perché è e sarà sempre più difficile raggiungere le persone attraverso il digitale. Le voci infatti si sono moltiplicate e si moltiplicheranno sempre di più e la confusione ha inquinato e inquinerà sempre di più l’attenzione di molti. Le persone avranno quindi sempre più bisogno di «voci autorevoli», di «parole chiare», di «guide capaci di arrivare a tutti in modo efficace» senza banalizzare o camuffare il loro messaggio. Avranno bisogno di pastori che anche sul digitale possano sentire «veri» e «vicini», che parlino come parlano le persone, che conoscano i problemi dei fedeli. Che non calino dall’alto i loro messaggi, ma li condividano come si condivide il pane tra fratelli. Avranno, anzi avremo bisogno di comunicatori che prima di parlare ascoltino chi hanno di fronte. Sul piano tecnico, invece, dovremo migliorare sempre di più la conoscenza dei mezzi ma soprattutto per

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adattarli alle nostre esigenze. Non per adattarci alle loro. Perché è vero che per essere efficaci dobbiamo sapere come funzionano le piattaforme e le tecnologie che usiamo, ma non serve a nulla scimmiottare le «mode digitali» se poi non siamo credibili in quello che vogliamo comunicare. Dobbiamo prepararci anche a quella che sarà una nuova rivoluzione non solo tecnologica. Secondo la società ComScore, entro il 2020 la metà delle ricerche digitali sarà vocale. Complice il crescente successo degli assistenti vocali come Alexa, Google Home, Siri, Cortana e simili, e complice la pigrizia degli utenti che preferiscono dettare una ricerca invece di scriverla, sta cambiando il modo e le parole con le quali si cercano le informazioni in Rete. Ma che risposte avranno le persone quando faranno ai loro assistenti vocali domande del tipo: «perché dovrei credere in Dio?»; oppure: «come si fa a confessarsi?». In Inghilterra la Chiesa anglicana ha stretto accordi con Amazon, proprietario dell’assistente vocale Alexa, per rispondere a domande morali, spirituali e religiose con una «voce ufficiale». Noi, per ora, siamo ancora in alto mare su questo punto. Ma dobbiamo affrontarlo. Perché se la voce della Chiesa sarà assente, chi farà domande religiose e spirituali agli assistenti vocali finirà magari con il trovare risposte confezionate da altri. E le prenderà per buone, accontentandosi del «primo risultato» ottenuto. Con tutto quello che ne consegue. C’è un altro punto importante. Nonostante le difficoltà e i difetti del mondo digitale non possiamo esimerci dall’essere presenti anche lì, perché è lì che ci sono tante persone. E se vogliamo comunicare con loro non possiamo limitarci a vivere spazi e luoghi che riteniamo più 'protetti'. Dobbiamo abitare il digitale. Con il nostro stile, le nostre parole e soprattutto con la Parola. Senza dimenticare che il miglior modo di comunicare è anzitutto ascoltare i bisogni dell’altro e della comunità) e, dopo averlo fatto, rispondere con franchezza ma soprattutto con umiltà. Che non significa sminuirsi, ma lasciare che siano gli altri a decidere se “meritiamo” di essere considerati autorevoli. Come direbbe Tonino Cantelmi «dopo l’impatto emotivo di ogni risposta proposta occorre recuperare la fascinazione della narrazione di sé, del proprio gruppo e del mondo». Non solo. Dovremo «recuperare il gusto del bello». Ma anche «accogliere l’altro nell’ambito di relazioni interpersonali sane e risananti, riscoprendo la potenzialità terapeutica della relazione umana». Pag 30 Una “via crucis” per le chiese dismesse e violate di Guido Oldani Quando sono stato a Cluny, ho visto i solenni ruderi della storica abbazia quasi fossero i fondali per un’opera musicale tutta rivolta al cielo. Curiosamente, di vivo erano rimasti, lì davanti ai miei occhi, i discendenti dei cavalli di Napoleone, che sterminava popoli e violava chiese facendone stalle. Non vi ho trovato altra traccia spirituale, se non quella fantasticabile. A pochissimi chilometri, stava però la comunità di Taizé, accampamento orante di tende per chi transita nei deserti della fede. Quello che passa è Cluny e quello che resta, Taizé. Le pietre cadono, le tende rimangono. È ciò che mi è venuto spontaneo ricordare, dopo aver letto il ben ragionato intervento del cardinale Gianfranco Ravasi su “Avvenire” pochi giorni fa. Provo ad aggiungere un eventuale modesto appunto. Già, nell’America del Nord, Europa e Oceania, così stranamente non troppo dissimili tra loro, le chiese si dismettono, qualcuna solo sconsacrata, qualche altra del tutto snaturata. Penso che questo abbia a che fare con l’iniziato versamento delle chiese nelle strade, quasi che, specialmente nelle periferie, le vie stesse, a cielo aperto, stiano diventando nuovi schematici edifici di culto. C’è una grande mutazione in corso: una parte di Chiesa si raduna quasi catacombalmente, ma anche con festosità in molte singole abitazioni, basti pensare a quel milione di televisori che alle diciotto di ogni giorno, uniscono una rete di solitari ma anche di famigliole per seguire il rosario di Lourdes. Ho notizia di amici praticanti questa chiesa disseminata e vitale. Forse la tenda o la nudità delle piazze, degli asfalti e dei marciapiedi sono le nuove inenarrabili chiese. Ho presente un sottopassaggio ferroviario dove i poveri si annidano a chiedere qualche soldo e mi domando se Giuseppe e Maria oggi sceglierebbero di far nascere il loro piccolo proprio lì, fra i nobilissimi poveri esposti al sibilo del vento incanalato. Cosa sarà tra qualche secolo, se si dovesse dismettere alcune chiese d’oggi, che sembrano più coppe di gelato coi biscotti che non vele della fede? Di loro forse resterebbe solo l’area edificabile. Bisognerà pensare a chiese che siano mobili, come dei popolari lunapark ma destinati alle celebrazioni e all’orare incessante? Le chiese dismesse e oltraggiate vanno considerate come monumentali e sparse stazioni di una via crucis distribuita nella storia.

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Immagino un grande tempio che raccolga, alle pareti interne, delle brevi targhe che dicano luogo, data di nascita e di dismissione delle singole chiese. Una specie di cattedrale della memoria, dove chi entri si trovi automaticamente in tanti luoghi, in tante storie e in tante memorie di secolari orazioni. Nulla di nuovo sotto il sole. È la via da Pilato al monte del cranio, costellata di queste sculture memoranti e memorabili. Tutto ciò, credo, implicherà necessariamente un nuovo pensiero sulle edificazioni delle chiese del futuro, come luoghi che nella loro, a volte, relatività meglio evidenzino per contrasto la natura dell’eterno che esse mediano, rappresentano e indicano nella nostra libertà di pratico raccoglimento. Queste, e certo molte altre, sono considerazioni che potrebbe fare, almeno in parte, la committenza o i progettanti gli edifici sacri del futuro: tende che attraversano questo mondo in corso di desertificazione, navi che, come la barca di Pietro, salpino da un porto all’altro, da un luogo a uno diverso, perché in fondo la chiesa più opportuna ed esaustiva è proprio il pianeta stesso. Allora, i bronzi delle campane, a orari fissi, come una simbolica di sintesi pasquale, potrebbero inondare contemporaneamente le singole nazioni, in un messaggio sonoro e musicale, che saldi l’orizzontale religiosità con una verticalità della metafisica direzione. Pag 30 Paolo VI in equilibrio sul rasoio del ’68 di Roberto Righetto Quale fu l’atteggiamento di Paolo VI rispetto al Sessantotto? Alcuni discorsi pronunciati all’udienza generale del mercoledì nei mesi successivi alle proteste di maggio ci aiutano a capire la sua posizione. Il 15 gennaio 1969, ad esempio, il pontefice diceva: «L’età nostra segna una stagione storica di grandi cambiamenti e di profondo rinnovamento, che toccano ogni forma di vita: il pensiero, il costume, la cultura, le leggi, il tenore economico e domestico, i rapporti umani, la coscienza individuale e collettiva, la società intera ». Montini poi specificava che «l’attuale generazione è come inebriata da questa mutazione», notando però in questa frenesia di cambiamento il manifestarsi di «segni di impazienza e di intolleranza». L’esaltazione della novità fine a se stessa portava a dimenticare il passato e ad abbandonare la tradizione in toto: «Così si parla sempre di rivoluzione, così si solleva in ogni campo la contestazione, senza spesso che ne sia giustificato né il motivo, né lo scopo». Poche settimane dopo, il 5 marzo, il papa cambiava i toni e ribadiva la visione positiva e ottimistica del mondo espressa dal Concilio: il mondo non è da intendere come il regno delle tenebre e del peccato, ma va identificato con l’umanità, e di fronte a esso la Chiesa «non evade, non si estranea dalla situazione esistenziale del mondo». Rivolgendosi poi ai fedeli il 10 settembre di quell’anno, riconosceva «il fondo di bontà che c’è in ogni cuore; conosciamo i motivi di giustizia, di verità, di autenticità, di rinnovamento, che sono alla radice di certe contestazioni, anche quando queste sono eccessive, ingiustificate e quindi riprovevoli», soprattutto «quelle dei giovani partono per lo più da reazioni e da aspirazioni che meritano considerazione e obbligano a rettificare il giudizio dell’etica sociale, viziato da abusi inveterati e al giorno d’oggi insostenibili». Leggendo queste e tante altre prese di posizione, si comprende come la riflessione di Paolo VI sia stata meditata e articolata. Da un lato egli cercava di valorizzare le giuste istanze di cambiamento, nella società e nella Chiesa, dall’altro si premurava di sottolineare come il processo di riforma non dovesse mai tralignare nel rigetto totale della tradizione o assumere forme violente. Le sue parole non sono mai dure o intransigenti, ma partecipi e a volte sofferte. In ogni caso, in lui nessun tentennamento, come qualcuno ingiustamente ha rilevato. Anche quando, alcuni anni più tardi, probabilmente addolorato per la rottura lefebvriana ed esasperato per alcune spinte del dissenso cattolico che arrivavano a mettere in discussione le fondamenta stessa della Chiesa, alluse al «fumo di Satana» che aveva portato incertezza, buio e tempesta all’interno del «tempio di Dio», egli non abbandonava il concetto di Ecclesia semper reformanda. La posizione di Montini rispetto al maggio ’68 e al postConcilio è assai ben ricostruita nel volume Chiesa contestata, Chiesa contestante. Paolo VI, i cattolici e il Sessantotto, appena pubblicato da Stefano Tessaglia per i tipi di Queriniana (pagine 282, euro 22,00; prefazione di Maurilio Guasco). Si tratta di un saggio storico-teologico che, senza operare un collegamento diretto, ci fa capire come il rapporto fra cattolici e ’68 sia stato determinato dalle aperture del Vaticano II: «Sebbene siano profonde – scrive l’autore – le differenze che separano circostanze prettamente ecclesiali, come l’applicazione di un concilio e le

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necessarie riforme, da fenomeni sociali, quali la contestazione operaia e le proteste studentesche, occorre rilevare una certa sovrapposizione fra i due movimenti». È del resto innegabile la partecipazione dei cattolici al Sessantotto, così come i contenuti della protesta sono in gran parte desumibili da quanto emerso dal Concilio: l’aspirazione all’uguaglianza e alla giustizia, la messa in discussione di modelli autoritari e la richiesta di una partecipazione comunitaria, la condivisione con i poveri e gli emarginati, l’apertura verso il Terzo mondo. Il volume ripercorre vari eventi che scossero la società e la Chiesa italiana, dall’occupazione dell’Università Cattolica nel novembre 1967 alle proteste alla facoltà di Sociologia di Trento che videro protagonisti gli studenti cattolici, fino a gesti clamorosi come l’occupazione del Duomo di Parma. «Questo multiforme e complesso processo – scrive Tessaglia – non ebbe come esito immediato l’allontanamento dalla fede o da modelli di vita cristiani», anzi la spinta propulsiva era proprio il desiderio di un radicamento reale nel Vangelo e nella distanza dal potere, in nome del pauperismo. Così, il cardinale Pellegrino, arcivescovo di Torino, quando 150 operaie di una fabbrica occuparono una chiesa, disse: «Se hanno scelto la chiesa preferendola a una sede sindacale o di un partito perché convinti che la Chiesa è dei poveri, il loro gesto ci conforta. Cristo si sente più onorato dalla presenza di persone che riversano pene e reclamano riconoscimenti di diritti che dal silenzio dovuto all’assenza di gente». Sulla stessa linea Adriana Zarri: «Non ci lamentavamo delle chiese vuote e ci lamentiamo delle chiese occupate, non ci lamentavamo del disinteresse e ci lamentiamo della contestazione appassionata. Forse non meritiamo questo fenomeno stupendo e meriteremmo che tutto tornasse come prima: grigi fedeli devoti e assenti, che naufragano nel disinteresse generale. Staremmo tutti più tranquilli. Saremmo tutti più morti». Sulla scia del Concilio, si invocava una Chiesa che seguisse il modello delle Beatitudini, una Chiesa che stesse dalla parte dei poveri, degli oppressi e dei perseguitati. Ovvio ricordare che questi fermenti portarono pure a numerosi eccessi, quelli che fecero preoccupare Montini, sino all’abbandono della fede cristiana da parte di molti, anche preti, che scelsero l’impegno sociopolitico esclusivo. Tessaglia distingue tre fasi del dissenso ecclesiale: una prima, subito dopo il Concilio, la cui problematica è tutta interna alla Chiesa; una seconda, dopo il ’68, in cui prevale la politicizzazione e inizia la critica alla Chiesa vista come luogo di potere; una terza, dopo il 1970, che vede nascere i movimenti delle comunità di base e dei cristiani per il socialismo. Nel 1968 il Vaticano II si era concluso da solo tre anni e la Chiesa cattolica era impegnata in un processo di riforma che è giunto fino a oggi. Inutile negare che vi furono ritardi, incomprensioni, fughe in avanti, come il cedimento di alcune correnti teologiche e di alcuni movimenti di base verso l’ideologia marxista. L’aveva ben capito Oscar Romero che nel 1965, alla chiusura del Concilio, scrisse: «La Chiesa è in un momento di aggiornamento, cioè di crisi della sua storia. E come tutti gli aggiornamenti emergono due forze antagoniste: da una parte un affanno smisurato di novità, definito da Paolo VI “sogni arbitrari di rinnovamenti artificiosi”; e dall’altra parte, un attaccamento all’immobilità delle forme rivestite dalla Chiesa lungo i secoli e il rifiuto dell’indole dei tempi nuovi. I due estremi peccano di esagerazione».

IL FOGLIO Pag 1 Basta col presepe di Maurizio Crippa Meglio sottrarre la meditazione sulla nascita di Gesù a chi ne fa una “tradizione” (cattolici per primi) Ma il presepe è un dogma? E' un Sacramento? Si parla del presepe, nel Catechismo della chiesa cattolica? (No, si parla del Natale, al numero 525: Il mistero del Natale). Che cos'è allora questo benedetto presepe, cui siamo (almeno i cristiani) così affezionati e di cui Papa Francesco ha detto che richiama il mistero dell'Incarnazione, il Figlio unigenito di Dio fattosi uomo per salvarci? Insomma cos'è? Una tradizione? No, per niente. La tradizione sono l'albero, le renne, i segnaposto a tavola. Tutte quelle buone cose di pessimo gusto di cui in una geniale pubblicità natalizia Fiorello dice: nessuno le vuole, alla gente interessano solo i regali. E allora, cosa siete andati a vedere nel deserto?, strillerebbe Gesù a gente che non ha occhi per vedere, ma solo per travisare. Che cosa vedete, quando guardate un presepe? San Francesco lo fece allestire per la prima volta a Greccio nel 1223 come una forma di meditazione vivente, tangibile, della venuta nel

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mondo di Gesù. Non un decorativo ricordo del passato, ma una cosa che stava ri-accadendo lì, proprio in quel 1223, sotto i suoi occhi. Se non è questo, il presepe è niente. E don Luca Favarin, il prete di Padova che scandalizzando molti ha scritto quest'an - no non fare il presepio credo sia il più evangelico dei segni ha detto una cosa cristiana e vera, perfino teologicamente. E' possibile che don Favarin non ci abbia manco pensato, a tutto questo, e che ci sia arrivato per un caso di serendipity, il concetto laico più vicino a quello di Grazia divina che si possa immaginare. Lui ovviamente ce l'aveva con il decreto sicurezza di Matteo Salvini e con questo clima (nemmeno tanto nuovo, va detto, soprattutto dalle sue parti) rispetto ai migranti, ai profughi, agli stranieri, tanto più se di altre fedi religiose, che giungono nel nostro paese. Sempre meno graditi, anzi è proprio ora di rimandarli a casa loro, così ormai la pensa anche una grande parte di coloro che si dichiarano cristiani. E allora: Oggi fare il presepio è ipocrita ha tuonato il don Il presepe è l'immagine di un profugo che cerca riparo e lo trova in una stalla. Esibire le statuette, facendosi magari il segno della croce davanti a Gesù bambino, quando poi nella vita di tutti i giorni si fa esattamente il contrario, ecco tutto questo lo trovo riprovevole. Ora, emendato del fatto che la Sacra Famiglia a Betlemme non era profuga (ma lo sarebbe diventata assai presto) il richiamo alla coerenza evangelica (ero straniero e mi avete accolto) non fa una piega. Ma non è questo il punto. Il punto che don Favarin azzecca, e fa nulla se è per caso, è che non fare il presepe che non equivale a non celebrare la Messa di Natale oggi potrebbe essere davvero il più evangelico dei segni. E non per politica spicciola, o per non darla vinta a Giorgia Meloni e a tutti gli orripilanti utilizzatori demagogici di attrezzature religiose che non sono loro. Il problema riguarda qualcosa che sta più in profondità, ma che determina quanto mai il corso dei pensieri e degli eventi pubblici. La prima questione è appunto la tradizione. La tradizione non è una cosa buona per forza, è una cosa che piace ai tradizionalisti, o ai nostalgici. Un conto è la traditio fidei, e un conto è mantenere la posizione delle statuine come erano disposte ai tempi di sant'Alfonso Maria de' Liguori perché sennò la magia del Natale non arriva. Peggio ancora quando la tradizione come ripetizione di atti e forme serve soltanto a marcare un territorio, una disparità, un confine da difendere con le armi, prima o poi non solo metaforiche. Il presepe di Trump lo abbiamo già visto. Ma oggi una parte del popolo cattolico, e dell'elettorato cattolico, offre la sua tradizione religiosa come strumento per questo tipo di politiche. Per un altro caso di serendipity, il Vangelo ambrosiano di ieri, martedì, parlava proprio della tradizione: Alcuni farisei e alcuni scribi si avvicinarono a Gesù e gli dissero: Perché i tuoi discepoli trasgrediscono la tradizione degli antichi?'. Parlavano del fatto che i discepoli di Gesù non si lavavano le mani prima di mangiare. Ed egli rispose loro: E voi, perché trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione? Ma parlava, siccome conosceva i suoi polli, del fatto che i custodi della tradizione avessero fatto una norma per evitare di aiutare economicamente i genitori vecchi. Ave - te annullato la parola di Dio con la vostra tradizione. Ma soprattutto, e qui don Favarin non c'entra più, il problema è quando la fede cristiana finisce per diventare uno strumento nelle mani di chi la vuole utilizzare per altro: come un segnaposto, una marca di confine. Ed è questo uso distorto della religione quello che non funziona, prima ancora della sua ricaduta politica, che pure è evidente. E' questo che sta dietro lo slittamento del voto dei cattolici che ormai, nonostante i desiderata dalla Conferenza episcopale, votano convinti per i partiti che vogliono uscire dall'Europa, che non vogliono essere solidali con nessuno, manco col vicino di casa, in cambio di una formale difesa della tradizione. Il presepe, ovviamente, è da molto tempo diventato un noioso simbolo divisivo a prescindere persino da Salvini. Le statuine vengono tirate da una parte e dall'altra, indifferentemente. E' il tema anche di La prima pietra, il film in cui Corrado Guzzanti è il preside di una scuola in cui un banale incidente fa saltare la recita di Natale e smaschera quanto sia solo di facciata la retorica buonista dei diritti egualitari. (Geniale come sempre, Guzzanti del suo preside ha detto: E' del Pd, ma non lo sa). Ma appunto, questa è politica. E siccome il presepe non è un dogma, né un Sacramento, e rischia invece di diventare una tradizione vuota a disposizione di altri discorsi, la provocazione di don Favarin ha qualcosa di vero: forse è ora di sottrarre la mistica meditazione di san Francesco a questa canea. Per chi vuole, ci sono sempre Babbo Natale e i regali, come dice Fiorello. Pag 1 Il lamento di paglia di Matteo Matzuzzi

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“Non si parla più della morte”, avverte il vescovo. Inevitabile, dopo anni di convegni sui pannelli solari Roma. Monsignor Vincenzo Paglia ha ragione. "Non si parla più della morte, la colpa è anche di noi cristiani", ha detto ieri al Corriere della Sera intervistato per il lancio del suo nuovo libro, Vivere per sempre. L'esistenza, il tempo e l'Oltre (Piemme). "Anche nella predicazione cristiana si assiste a un occultamento delle cose ultime. Non affrontiamo il tema, o lo facciamo con parole incomprensibili, un gergo clericale scontato e superficiale che non parla più né alla mente né al cuore. Così si finisce nella nebulosa dell' indistinto, nell'illusione della reincarnazione", spiega. Come dargli torto: lo stato delle cose è esattamente questo. I memento mori che si trovano nelle vecchie chiese sono considerati macabri reperti di un'epoca passata, opere d'arte di qualche scultore o pittore eccentrico amante di teschi e scheletri. Per non parlare dei brividi che dà la frase che si legge nella cripta dei cappuccini in via Veneto a Roma, "Noi eravamo quello che voi siete, e quello che noi siamo voi sarete". Quel che sorprende, semmai, è lo stupore di mons. Paglia nel constatare la drammatica realtà, dopo anni passati a discutere di tutto fuorché di temi come quello della morte. Il Vaticano ha ospitato - e organizzato - interessantissimi convegni sulle "dimensioni morali dei cambiamenti climatici e dell' umanità sostenibile" (anno 2015), sulla "sicurezza alimenta re e dieta sana" (2018), sulla "riscoperta della dieta mediterranea e la sua importanza nel mondo del Ventunesimo secolo" (2017). Temi importanti, non v'è dubbio, ma che con i princìpi supremi del cristianesimo c'entrano assai poco, se non lateralmente. E' vero, mons. Paglia non è direttamente responsabile per l'organizzazione dei forum sugli spaghetti al pomodoro più salutari del bratwürst bavarese - la responsabilità in questo caso è del collega Marcelo Sánchez Sorondo, cancelliere della Pontificia accademia delle scienze e della Pontificia accademia delle scienze sociali, convinto che "quelli che meglio attuano la dottrina sociale della chiesa sono i cinesi" - ma in questi anni in cui in Vaticano hanno prosperato i cultori dell'eco catastrofismo moderno, l'ex presidente del Pontificio consiglio per la Famiglia e attuale presidente della Pontificia accademia per la Vita, ha dato il suo contributo fondamentale. Nel 2014, sotto la sua autorevole guida, è stata organizzata la giornata di studio "Famiglia, custodisci il creato!", titolo nobile che però veniva declinato nelle seguenti domande: "Come si può fare in modo che questi nuovi stili di vita siano, oltre che ecocompatibili anche auspicabili?". "E come portare i nuclei familiari ad adottarli affinché si possa parlare di conversione ecologica della società?". Mons. Paglia avvertiva l'urgenza di "individuare strade innovative e coraggiose e stabilire i criteri di un nuovo rapporto con la natura che mettano al centro lo sviluppo di ogni persona e dell' intera umanità". Alla giornata di studio veniva anche invitato l'economista Jeffrey Sachs, ormai di casa oltretevere, nonostante le sue posizioni non propriamente ortodosse, a cominciare dalla convinta necessità di controllare le nascite per risolvere il problema del sovrappopolamento e per raggiungere l'obiettivo per lui alla portata di mano, la fine della povertà entro il 2030. Per farlo, sostiene l'ospite d'eccezione dell'incontro promosso dall'organismo guidato da mons. Paglia, è necessario "costruire società socialmente inclusive, investire nell'uguaglianza di genere, garantire l'accesso ai servizi educativi e sanitari, eseguire una transizione verso economie a basse emissioni di CO2, realizzare un'agricoltura sostenibile". Il prossimo anno, la Pontificia accademia per la Vita discuterà di robotica: "Il nostro compito oggi è di approfondire la riflessione sul significato della vita umana, ampliandoci a temi come l'ambiente, le tecnologie, il divario tra i diversi paesi", ha fatto sapere mons. Paglia. Come dire, l'occultamento delle cose ultime continua. ITALIA OGGI Non si può cancellare il nome di Gesù di Martino Loiacono Con la cancellazione del nome di Gesù dalle canzoncine di Natale, il politicamente corretto ha raggiunto una delle sue vette più alte. In una scuola di Riviera del Brenta, in Veneto, delle maestre hanno deciso di censurare il suo nome dai canti natalizi per non urtare la sensibilità dei non cattolici. Sennonché una giovane studente, di appena 10 anni, si è attivata e con una raccolta firme ha riportato la situazione alla normalità. Diciamo la verità: è inutile stupirsi. Ormai nel nome del multiculturalismo più sfrenato è

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possibile cancellare la propria identità e la propria storia anche con le modalità più subdole e meschine. L'idea di irritare atei e persone di un'altra fede citando semplicemente Gesù fa rabbrividire. Come può il solo nome di un personaggio religioso disturbare i non credenti o gli esponenti di altre religioni? Come è possibile voler rinnegare le proprie radici solo per non turbare qualcuno? Di questo passo, per assurdo, dovremmo abbattere Chiese, monumenti e simboli religiosi. Bisognerebbe altresì depurare tutto il nostro patrimonio artistico-letterario che contiene soggetti legati alla fede. Dovremmo, se portiamo alle estreme conseguenze questo tipo di ragionamento, cancellare il nostro passato perché potrebbe infastidire qualcuno. L'operazione sarebbe molto complicata perché il cristianesimo ha definito l'identità dell'Italia per un lunghissimo periodo. Prima dell'unificazione politica, il legame tra le popolazioni della Penisola, oltre che dalla letteratura che rimaneva un fatto piuttosto elitario, era costituito esclusivamente dalla religione. Insomma, il cristianesimo per l'Italia, prima che una fede, è un elemento identitario imprescindibile. Crocifissi, canti di Natale e presepi hanno un valore storico fondante. Rimuoverli nel nome del multiculturalismo è un eccesso che non si basa sul laicismo, ma su un processo di scristianizzazione forzata. Uno sradicamento violento della nostra identità privo di senso storico. Attenzione: con tutto ciò non si sta affermando che si vuole tornare ad uno Stato confessionale. Si sta semplicemente ricordando il valore del cristianesimo per il nostro paese. E se un liberale laico come Benedetto Croce affermava che non possiamo non dirci cristiani, forse dovremmo iniziare a porci qualche domanda. LA NUOVA Pag 25 I vescovi incontrano il cardinale Ferrer Prefetto per la dottrina della fede I Vescovi della Conferenza Episcopale Triveneto hanno incontrato ieri mattina nella sede di Zelarino il cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, da poco più di un anno Prefetto della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede nonché presidente della Pontificia commissione "Ecclesia Dei", della Pontificia commissione biblica e della Commissione teologica internazionale. Il dialogo si è concentrato, in particolare, sui contenuti dell'esortazione apostolica di Papa Francesco "Gaudete et exsultate" sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo e poi sulla lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede "Placuit Deo" sull'unicità della mediazione e della salvezza di Cristo (testi usciti entrambi nella prima parte di quest'anno). Nel corso del pomeriggio si è poi svolta la riunione periodica della Conferenza Episcopale Triveneto durante la quale, tra l'altro, i Vescovi hanno fissato il tema per la due giorni di approfondimento che si terrà il 7 e 8 gennaio prossimi a Cavallino (Venezia): «Chiesa e comunicazione: come comunicare nella società di oggi». AVVENIRE di martedì 4 dicembre 2018 Pag 17 Così nasce la Chiesa di domani di Maurizio Gronchi Sinodalità, collegialità episcopale, discernimento, parole chiave del progetto di riforma avviato da Papa Francesco Come sarà la Chiesa cattolica nei prossimi decenni? La domanda è legittima – specialmente per un giornale che si volle chiamare Avvenire, proprio nei primi anni dopo il Concilio – perché il cristiano sogna, spera, cammina. Volgere lo sguardo al futuro vuol dire anzitutto confidare nel primato della grazia di Dio, che previene, accompagna e segue ogni retto umano agire. Il vento dello Spirito soffia dove vuole e, per sentirne la voce e sapere dove va, oggi la Chiesa è chiamata ad orientarsi con la rosa dei venti disegnata dall’insegnamento di papa Francesco. Il discernimento si fa tenendo insieme i principali vettori presenti nei documenti e negli eventi ecclesiali che ci sono dati. Viviamo già in una Chiesa in uscita, che non teme venti contrari e resistenze. Certamente è il poliedro della gioia, tracciato sulla carta nautica magisteriale – con Evangelii gaudium, Laudato si’, Amoris laetitia e Gaudete et exsultate –, che indica la rotta della navicella di Pietro. Il Vangelo, la creazione, la famiglia e la santità sono le stelle di quel firmamento che illumina il cammino gioioso dei discepoli di Cristo sulle vie sempre nuove di Dio. Il nostro sguardo, mentre scruta l’orizzonte dove cielo e terra sembrano confondersi, crede

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alle promesse di Dio e guarda con realismo alle sfide contemporanee per coglierle come opportunità. All’interno e all’esterno, la Chiesa discerne i segni del tempo presente, come avvenne con le Costituzioni conciliari Lumen gentium e Gaudium et spes. In primo luogo, dell’urgenza di una effettiva conversione pastorale tutto il popolo di Dio sta diventando sempre più consapevole. Il ministero ordinato e il laicato non sono più percepiti come spazi occupati; l’esperienza del rinnovamento sinodale ha innescato un processo destinato a proseguire. Il progressivo impegno dei laici, e specialmente delle donne, nei ruoli di responsabilità e nei processi di partecipazione ecclesiali è solo all’inizio: dal suo sviluppo dipenderà il contenimento del clericalismo. In questa direzione, la Costituzione apostolica Episcopalis communio ha fatto un significativo passo in avanti, stabilendo la consultazione del popolo di Dio prima di ogni assemblea sinodale. Inoltre, la sinodalità tocca la questione della collegialità episcopale, tema ancora in- gessato nel quadro della «Nota esplicativa previa» di Lumen gentium, e con esso anche l’ampliamento delle competenze delle Conferenze episcopali, nell’ottica di una «salutare decentralizzazione» (Eg, 16). Già le due assemblee sinodali sulla famiglia hanno messo in luce la necessità di un discernimento personale e comunitario che tenga conto, insieme alla dottrina, delle diverse situazioni pastorali alla luce della misericordia e della coscienza. Nella medesima direzione, il recente Sinodo sui giovani, trattando del discernimento vocazionale, ha aperto la strada per interrogarsi in modo rinnovato sull’identità e la missione dei presbiteri nel mondo odierno. Si tratta di un’urgenza determinata anche dalla situazione degli abusi del clero: nei prossimi anni non si potrà fare a meno di affrontare – con coraggio, saggezza ed equilibrio – la gerarchia dei significati della sessualità; questione peraltro riguardante non solo i preti e i religiosi, ma ancor prima i giovani, le coppie, le famiglie. Per quanto riguarda il rapporto tra Chiesa e società, la strada più promettente è ampiamente tracciata dalla Laudato si’, nel segno della stretta correlazione tra vulnerabilità umana e del pianeta, tra questioni sociali ed economico-finanziarie. Il prossimo Sinodo per la regione panamazzonica sarà una concreta occasione contestuale per applicare le indicazioni principali dell’enciclica, che hanno valore sia per la Chiesa universale sia per il mondo intero. Di fatto, stanno sempre più emergendo temi nuovi, assenti o appena accennati nel Catechismo della Chiesa cattolica, ormai bisognoso di aggiornamento, come pure – prendendo il caso dell’Italia – appare indispensabile una nuova edizione degli orientamenti di pastorale familiare. I cambiamenti pastorali divengono effettivi quando sono finalmente recepiti dal diritto canonico; oggi la norma missionis comincia ad assumere la forma di disposizioni, procedure, canoni. I numerosi interventi di natura giuridica con Motu proprio da parte di papa Francesco ne danno prova. Nel prossimo futuro, il metodo di codificazione canonica affronterà la sfida del rapporto tra universalità e particolarità del diritto. Dopo una lunga stagione di percorsi paralleli tra magistero, teologia, diritto e pastorale, negli anni a venire la Chiesa non potrà che accogliere il dono e assumere il compito di una rinnovata armonia ad intra e ad extra, quale miglior frutto dell’impronta missionaria con cui l’attuale pontificato ha irreversibilmente ravvivato l’alba incompiuta del Concilio Vaticano II. Pag 17 Basta dire: “Si fa sempre così” di Mimmo Muolo Ci sono espressioni diventate ormai proverbiali nel magistero di Francesco. «Chiesa in uscita» e «pastori con l’odore delle pecore» sono forse quelle top. Ma ce ne sono altre che al Papa sembrano far venire l’orticaria. Tra queste ultime rientra sicuramente la frase-manifesto della pigrizia pastorale di antico stampo: «Si è sempre fatto così». Molti i riferimenti nei suoi discorsi. Il 19 marzo scorso, per esempio, intervenendo al cosiddetto “pre-sinodo” dei giovani, ricordò che «la logica del “si è sempre fatto così” è un veleno per la Chiesa». Un «veleno dolce, perché ti tranquillizza l’anima, ti lascia come anestetizzato e non ti fa camminare». E l’8 maggio 2017, in una delle omelie di Casa Santa Marta, arrivò a definire quella logica «una chiusura, una resistenza allo Spirito Santo». In sostanza qualcosa che «uccide la libertà, uccide la gioia, uccide la fedeltà allo stesso Spirito Santo che sempre agisce in avanti, portando in avanti la Chiesa». Ecco, potremmo dire, qui sta il punto nodale. La Chiesa di papa Francesco è una barca con la prora al vento, con lo sguardo sempre puntato in avanti e quindi è radicalmente antitetica a quella cara ai “laudatores” del «si è sempre fatto così», che è invece il

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continuo volgere lo sguardo all’indietro, non per fare memoria delle proprie radici e progettare il nuovo, ma solo per restare immobili, cioè ancorati a vecchie certezze, destinate fatalmente ad essere travolte da un mondo in rapida trasformazione. Pensate che cosa sarebbe accaduto se gli apostoli fossero rimasti chiusi nel Cenacolo. Ebbene, questa tentazione è ricorrente nella Chiesa di tutti i tempi, non esclusa quella dell’inizio del terzo millennio. E il Papa, fin dal primo giorno della sua elezione, ci sta mettendo in guardia contro di essa. La messa al bando del «si è sempre fatto così» è perciò l’altro nome di quella «conversione pastorale» di cui parlano i grandi documenti e i grandi gesti (atti magisteriali essi stessi, al pari dei primi) di questo pontificato. È una conversione che non occupa spazi, ma apre processi; che si nutre di discernimento, sinodalità e collegialità; che evita come la peste il clericalismo (non solo dei sacerdoti, ma anche di molti laici ed è proprio Francesco a ricordare che il clericalismo è come il tango: si balla in due); che fa della gioia del Vangelo (“Evangelii gaudium”, appunto) il propellente dell’annuncio; che valorizza il ruolo dei laici e delle donne non in un’ottica di maggior potere all’interno della Chiesa, ma di piena rispondenza al carisma di ognuno e sempre in dialogo con i pastori; che chiede coerenza di vita e testimonianza coraggiosa in tutte le situazioni e gli ambiti della società e della storia; che ascolta il grido dei poveri, dei migranti, degli ultimi, degli scartati, e si lascia evangelizzare da loro. In definitiva una conversione pastorale che privilegia il cammino e il movimento in uscita, soprattutto verso le periferie geografiche ed esistenziali e le illumina con la luce della Parola e il calore dell’amore di Dio. Non è dunque un caso che l’icona evangelica dei discepoli di Emmaus sia diventata il filo conduttore del documento finale del Sinodo dei giovani e probabilmente possa essere assunta come il simbolo (nel senso etimologico del termine) dell’intero pontificato di Jorge Mario Bergoglio. In quell’episodio infatti troviamo unite in pochi paragrafi l’idea del cammino e dell’accompagnamento; il cambiamento di 180 gradi della prospettiva dei due discepoli, prima delusi perché guardano solo all’indietro (la morte in croce di Gesù) e poi sollecitati a mirare ben altro orizzonte grazie alla lettura sapienziale delle Scritture (una “lectio divina”, si direbbe oggi) che il misterioso Viandante compie a loro beneficio; il senso della comunità che si ricrea durante la cena, momento del riconoscimento del Cristo; e infine la nuova dinamica missionaria che li anima nell’annunciare il Risorto. La conversione pastorale di Francesco è fondata proprio su queste coordinate. Senza più «si è sempre fatto così». Pag 26 In Avvento “stare svegli e pregare” L’Angelus di domenica: da Francesco l’invito ad allargare la mente e il cuore per aprirsi alle necessità della gente Il tempo d’Avvento per «alzare lo sguardo». È il filo conduttore della riflessione tenuta dal Papa domenica all’Angelus. Nei saluti ai pellegrini italiani un pensiero al coro polifonico di Modica e ai fedeli di Altamura, Conversano e Laterza. Di seguito le parole di Francesco prima della preghiera mariana. Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Oggi inizia l’Avvento, il tempo liturgico che ci prepara al Natale, invitandoci ad alzare lo sguardo e ad aprire il cuore per accogliere Gesù. In Avvento non viviamo solo l’attesa del Natale; veniamo invitati anche a risvegliare l’attesa del ritorno glorioso di Cristo – quando alla fine dei tempi tornerà –, preparandoci all’incontro finale con Lui con scelte coerenti e coraggiose. Ricordiamo il Natale, aspettiamo il ritorno glorioso di Cristo, e anche il nostro incontro personale: il giorno nel quale il Signore chiamerà. In queste quattro settimane siamo chiamati a uscire da un modo di vivere rassegnato e abitudinario, e ad uscire alimentando speranze, alimentando sogni per un futuro nuovo. Il Vangelo di questa domenica (cfr Lc21,25- 28.34-36) va proprio in tale direzione e ci mette in guardia dal lasciarci opprimere da uno stile di vita egocentrico o dai ritmi convulsi delle giornate. Risuonano particolarmente incisive le parole di Gesù: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso. […] Vegliate in ogni momento pregando» (vv. 34.36). Stare svegli e pregare: ecco come vivere questo tempo da oggi fino a Natale. Stare svegli e pregare. Il sonno interiore nasce dal girare sempre attorno a noi stessi e dal restare bloccati nel chiuso della propria vita coi suoi problemi, le sue gioie e i suoi

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dolori, ma sempre girare intorno a noi stessi. E questo stanca, questo annoia, questo chiude alla speranza. Si trova qui la radice del torpore e della pigrizia di cui parla il Vangelo. L’Avvento ci invita a un impegno di vigilanza guardando fuori da noi stessi, allargando la mente e il cuore per aprirci alle necessità della gente, dei fratelli, al desiderio di un mondo nuovo. È il desiderio di tanti popoli martoriati dalla fame, dall’ingiustizia, dalla guerra; è il desiderio dei poveri, dei deboli, degli abbandonati. Questo tempo è opportuno per aprire il nostro cuore, per farci domande concrete su come e per chi spendiamo la nostra vita. Il secondo atteggiamento per vivere bene il tempo dell’attesa del Signore è quello della preghiera. «Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (v. 28), ammonisce il Vangelo di Luca. Si tratta di alzarsi e pregare, rivolgendo i nostri pensieri e il nostro cuore a Gesù che sta per venire. Ci si alza quando si attende qualcosa o qualcuno. Noi attendiamo Gesù, lo vogliamo attendere nella preghiera, che è strettamente legata alla vigilanza. Pregare, attendere Gesù, aprirsi agli altri, essere svegli, non chiusi in noi stessi. Ma se noi pensiamo al Natale in un clima di consumismo, di vedere cosa posso comprare per fare questo e quest’altro, di festa mondana, Gesù passerà e non lo troveremo. Noi attendiamo Gesù e lo vogliamo attendere nella preghiera, che è strettamente legata alla vigilanza. Ma qual è l’orizzonte della nostra attesa orante? Ce lo indicano nella Bibbia soprattutto le voci dei profeti. Oggi è quella di Geremia, che parla al popolo duramente provato dall’esilio e che rischia di smarrire la propria identità. Anche noi cristiani, che pure siamo popolo di Dio, rischiamo di mondanizzarci e di perdere la nostra identità, anzi, di “paganizzare” lo stile cristiano. Perciò abbiamo bisogno della Parola di Dio che attraverso il profeta ci annuncia: «Ecco, verranno giorni nei quali io realizzerò le promesse di bene che ho fatto [...]. Farò germogliare per Davide un germoglio giusto, che eserciterà il giudizio e la giustizia sulla terra» (33,14-15). E quel germoglio giusto è Gesù, è Gesù che viene e che noi attendiamo. La Vergine Maria, che ci porta Gesù, donna dell’attesa e della preghiera, ci aiuti a rafforzare la nostra speranza nelle promesse del suo Figlio Gesù, per farci sperimentare che, attraverso il travaglio della storia, Dio resta sempre fedele e si serve anche degli errori umani per manifestare la sua misericordia. Francesco Pag 28 Cosa c’è Oltre? Paglia: la vita è per sempre di Pierangelo Sequeri «Perché questo spreco?» (Mt 26, 8b). Considerando l’esuberanza della vita umana e i valori senza prezzo che essa porta nel mondo, il tema della morte meriterebbe un trattamento più serio e solidale di quello che le riserviamo. La frase che abbiamo ricordato all’inizio è tratta dal racconto evangelico noto come “L’unzione di Betania”, quando «una donna» (ma Giovanni dice «Marta», la sorella di Lazzaro, l’amico che Gesù aveva risuscitato) versa olio profumato, molto costoso, sul capo di Gesù, che sta per essere catturato e messo a morte. I discepoli protestano (Giovanni dice che la protesta viene da «Giuda» il traditore, che teneva la cassa e rubava). Il balsamo poteva essere venduto a un prezzo molto alto, ricavandone denaro per i poveri. Gesù si preoccupa dell’umiliazione della donna: «Perché la infastidite?». La donna ha compiuto un gesto d’amore contro l’orribile spreco della vita che siamo abituati a riconoscere alla morte. La donna ha compiuto una azione buona verso di me, spiega Gesù, in vista della mia sepoltura. In altri termini, ha messo un segno di legame, che non vuole essere spezzato, fra una vita generosa di bene e l’amore che ne ha ricevuto e amato i doni. Il vero spreco è la morte, semmai, non l’unguento. Dobbiamo batterci contro la rassegnazione a questo spreco. Con la nostra vita, entra nel mondo una promessa della vita – e sulla vita – che noi possiamo onorare soltanto in minima parte, se ci pensiamo bene. Per quale ragione apparirebbe così tanto amore, di quello che non ha niente a che fare con il denaro e con il godimento, per essere poi semplicemente tradito dallo spegnersi di un interruttore che lo precipita nel nulla, come se nulla fosse stato? Quale natura evolutiva sarebbe così stupida con sé stessa? Per quale ragione saremmo così appassionati – e pronti al sacrificio – per la giustizia di una vita che non è la nostra, se la morte, come un colpo di spugna, riducesse al nulla tutte le orribili efferatezze della storia individuale e collettiva: come se nulla fosse stato? Di fronte alle enormi masse di ingiustizia rimasta senza umana redenzione, quale viltà ci farebbe accettare la morte come una sanatoria?

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Per non parlare delle opere della bellezza, dell’intelligenza, della convivenza, che scrivono su questo pianeta una storia della vita dalla quale anche le divinità create dai sogni o dagli in- cubi dell’uomo hanno da imparare. Ebbene, sì, noi siamo misteriosamente capaci di sacrifici impensabili e senza prezzo per dare vita alle opere che rendono amabile – e non solo godibile – la vita comune. L’ottusa singolarità iniziale del Big Bang poteva mai saperne qualcosa, di tutto questo? Vincenzo Paglia, in questo libro incalzante e appassionato (Vivere per sempre, L’esistenza, il tempo e l’Oltre, Piemme, pagine 198, euro 17,50, da oggi in libreria) ci provoca. Non parliamo abbastanza di ciò che, nella vita che riceviamo e dobbiamo interpretare, non giustifica la morte come fine di tutto. E di ciò che non si lascia giustificare dalla morte, come rivincita del nulla. La fede nella risurrezione di Gesù – non la rianimazione del suo cadavere, ma l’ingresso della sua stessa condizione umana nel mondo delle cose invisibili che forma il valore aggiunto della creazione di Dio – trafigge la mente dell’umanità intera: nessuno aveva mai osato lanciare un simile annuncio dell’importanza della vita che viviamo, nella carne e nel sangue. Gli stessi credenti appaiono un po’ meno appassionati per questa scommessa della fede contro la morte, che dovrebbe riaccendere complicità – fra gli esseri umani – almeno sulla necessità di non trasmettere alla generazione che viene il virus del nichilismo. Il virus è trasmesso da portatori apparentemente sani (sta qui la sua insidia). I figli della società del benessere vengono ammoniti a pensare molto razionalmente la morte come buco nero, e contemporaneamente incoraggiati a riempire la vita di beni deteriorabili: l’idea infatti è che non ce ne sono altri, né questa vita, né in una qualsiasi altra. In questa prospettiva, è difficile scegliere se dobbiamo indignarci per l’ipocrisia che dissimula ai nostri figli l’interrogativo sulla serietà della condizione mortale o scandalizzarci per l’ingenuità che li vuole stupidi sulla vita reale. In realtà, suggerisce Paglia, la morte è un «passaggio» già per la nostra mente: mette alla prova la sincerità del nostro attaccamento «interiore» alla vita. Se la morte fosse la semplice naturalezza del niente (che ha esaurito i suoi effetti speciali) da dove mai sarebbe uscita la vita che scommette contro la sua cinica giustizia omologatrice? E perché insegnare ai bambini l’onore della parola data e l’amore del prossimo? (Naturalmente, c’è già chi sostiene la scorrettezza politica dell’etica). Per questo la nostra testimonianza a riguardo del «passaggio » della vita, di fronte alla morte, si decide qui e ora. Quale che sia la tua visione del mondo, che cosa insegni ai bambini a riguardo del passaggio della vita e del passaggio della morte? Quali sono i beni che resistono alla morte, e quindi valgono più di tutti per dare speranza al riscatto e alla continuità della vita, individuale e collettiva? L’onestà intellettuale dell’intelligenza planetaria deve ritrovare complicità sulla cura di queste domande sollevate dalla vita mortale. La religione stessa scommise contro la morte per prima e sin dall’inizio: non nacque affatto dalla paura della morte (che, semmai, culturalmente parlando, è un’ossessione moderna, alimentata dai piccoli padreterni di complemento). Noi siamo migliori di questi trucchetti da cultura post-secolare. E possiamo ritornare a essere più leali con le generazioni che vengono a riguardo della promessa contro la morte che è contenuta nella vita creata da Dio: che noi trasmettiamo, meglio che possiamo, senza averla minimamente potuta inventare. Oltre la morte, c’è più vita di quella che si trova scritta nei nostri trattati e nei nostri alambicchi. Il vangelo di Gesù la chiama Regno di Dio. E dice che questo Regno è già qui, nel momento stesso in cui sta arrivando il tempo inarrestabile del suo «passaggio» al compimento. Esso viene per tutti, credenti e non credenti. Tutti devono passare di lì. Possono ben ritrovarsi, dunque, sulla necessità di non ostruire il passaggio, fintanto che cercano la porta. Per i loro figli, almeno, se non per loro. CORRIERE DELLA SERA di martedì 4 dicembre 2018 Pag 25 “Non si parla più della morte, la colpa è anche di noi cristiani” di Aldo Cazzullo L’arcivescovo Paglia: il linguaggio clericale non arriva né alle menti né ai cuori Monsignor Paglia, perché un libro sulla morte si intitola «Vivere per sempre»? «Perché tutti siamo abitati da un istinto che pretende la continuazione, esige una destinazione, e trova risposta nel risorgere. Siamo mortali, ma non per la morte». Sartre diceva che siamo una parentesi tra due nulla.

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«Sarebbe davvero ingiusto, non solo per la fede ma anche per la ragione. Sarebbe un gigantesco spreco se tutto quello che abbiamo fatto, gli affetti, la famiglia, finissero nel nulla. Ed anche l’etica sarebbe senza senso. Il bisogno di un oltre è insito nel profondo dell’uomo». Della morte però si parla pochissimo. «È vero. La morte è uno scandalo. Una domanda che cerchiamo di nascondere. Non vogliamo pensarci, tanto che ci auguriamo di morire all’improvviso, nel sonno, senza prepararci. Anche nella predicazione cristiana si assiste a un occultamento delle cose ultime. Non affrontiamo il tema, o lo facciamo con parole incomprensibili, un gergo clericale scontato e superficiale che non parla più né alla mente né al cuore. Così si finisce nella nebulosa dell’indistinto, nell’illusione della reincarnazione». Che la Chiesa esclude. «Noi riconosciamo il valore unico e universale di ciascuno di noi, tutti destinati ad abitare i cieli nuovi e la terra nuova che verranno». Lei scrive che la vita risorta è anche vita con i sensi. «Certo. Il cristianesimo va oltre la sopravvivenza platonica dell’anima. Il cristianesimo è amore per la carne, per il corpo, per la creazione. Lo dico a partire da Gesù che dopo la resurrezione parlava, sentiva, toccava, mangiava, odorava... Non sappiamo come, però risorgiamo con il corpo, certo risorto, ma con i sensi. Paolo lanciò questa sfida ad Atene: quei filosofi di formazione socratica che accettavano il discorso sull’immortalità dell’anima, ma non della carne, gli dissero: “Di questo ti sentiremo un’altra volta”. Lo scandalo era troppo forte». Lei come concepisce la resurrezione della carne? «È difficile anche solo concepirla. Furono i momenti più difficili anche per gli apostoli: non riuscivano a credere che Gesù fosse risorto. Gesù ci mette quaranta giorni per convincerli. E loro lo vedevano con le sue mani e i suoi piedi ancora bucati dai chiodi. È il senso delle parole del credo cristiano: credo nella resurrezione della carne e nella vita del mondo che verrà». Poi però ascende al cielo. «Dove vuole al suo fianco la Madonna. Per Maria si parla della morte molto tardi, comunque si tramanda che si “addormentò” e fu portata con il suo corpo nel cielo, accanto al figlio». E Lazzaro? «Lazzaro viene riportato alla vita mortale. Non risorge. È un grande miracolo di Gesù. La sua fama si allargò a tal punto che i capi religiosi decisero da allora di ucciderlo. Gesù però, a differenza di Lazzaro, risorge alla vita eterna, che non conosce più la morte». E scende nel limbo, a liberare Adamo, Eva e i patriarchi. «Nel Credo noi diciamo che Gesù discese agli inferi. L’iconografia orientale la rappresenta con Gesù che trae dal buio della morte Adamo e Eva. È una immagine piena di speranza. Per troppo tempo abbiamo predicato un cristianesimo della paura; ora dobbiamo sottolineare la misericordia, come fa papa Francesco. Anche noi dobbiamo scendere negli inferni di questo mondo. Li dobbiamo svuotare. È il senso di una grande misericordia che salva tutti i disperati, gli eliminati, gli oppressi». Anche secondo lei l’inferno esiste ma potrebbe essere vuoto? «L’inferno esiste, è certamente una possibilità. L’inferno è la solitudine assoluta. È la mancanza dell’incontro con Dio. Chi vive l’amore riceve l’immortalità. Chi lo distrugge, distrugge il proprio futuro». E il paradiso? «La parola viene dal persiano e significa giardino. Gan, in ebraico: un giardino dove le famiglie dei popoli si ritroveranno in pace». Ma nell’Antico Testamento, come ha fatto notare il rabbino Di Segni, l’idea dell’aldilà è vaga. «È vero. In alcuni passaggi si intravede la luce della resurrezione; ad esempio nel martirio dei sette fratelli Maccabei, che subiscono l’ingiustizia suprema della tortura e dell’uccisione per amore di Dio. Lo snodo del cristianesimo è la forza di Dio che resuscita Gesù e con lui tutti coloro che si lasciano toccare dall’amore». Una vita non solo spirituale?

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«No. Una vita risorta, quindi non astratta. Una vita che risorge con il suo corpo, la sua storia, il suo bagaglio di amore. Da quando Dio prende la carne, il paradiso non può più fare a meno della carne, quindi di noi». Ma c’è un passo dei Vangeli che suona terribile. I sadducei tentano di mettere in difficoltà Gesù chiedendogli di chi sarà moglie nell’aldilà una vedova che ha avuto sette mariti. E lui risponde che nell’aldilà non ci saranno né moglie né marito. Quindi non ci rincontreremo? «Le parole di Gesù vanno intese nel senso che veniamo liberati non dall’affetto che unisce le persone care, ma dal possesso. Sarà un affetto che non esclude gli altri. È possibile sperimentarlo già in questa vita, quando una famiglia aiuta gli altri, e questi diventano fratelli e sorelle». Lei da quanto tempo fa il prete? «Sono entrato in seminario a nove anni, ma già a sette sentivo il desiderio di diventare prete». Avrà accompagnato nell’ora ultima molte persone. Come si muore? «Tutti hanno paura della morte, anche i santi. Anche Gesù. Ma tanti muoiono serenamente, se sono accompagnati dall’amore dei loro cari. È una morte confortata. Alcuni parlano anche di una sensazione di luce». Il cardinale Ruini ha dedicato un capitolo del suo libro «C’è un dopo?» alle esperienze pre-morte, per concludere che non significano nulla: quelle persone non sono morte, quindi della morte non sanno niente. «È così. C’è una morte biologica, che porta al dissolvimento del corpo, ma non rappresenta la fine; semmai, un passaggio. La morte è il momento del passaggio nel quale ci troviamo davanti a Dio, lo vediamo faccia a faccia. E lo vedremo come un Padre che ci sta aspettando per abbracciarci, per condurci con sé nel paradiso. Non è un Dio che giudica con severità. Ricordo il cardinale Parente, che ha vissuto nella casa dove ora abito. Al momento della morte mi disse: per fortuna, Dio è più misericordioso che giusto». IL FOGLIO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 1 Il partito dei vescovi di Matteo Matzuzzi Debutta un “movimento” di cattolici che va oltre destra e sinistra. Ma come la mettiamo con il clericalismo? Testo non disponibile Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Natalità, il nostro inverno di Vittorio Filippi Demografia L’Italia non è un paese per giovani per il semplice fatto che non è un paese per neonati. Ed il Veneto segue a ruota questa tendenza. A dirlo è l’Istat con i suoi dati sul bilancio demografico dello scorso anno. Un bilancio che, se fosse quello di un’azienda, sarebbe fallimentare, meritevole solo di dover portare i libri contabili in tribunale. Nel 2017 sono nati nel paese 15 mila bambini in meno rispetto all’anno precedente, 120 mila in meno dal 2008; ed anche il Veneto fa la sua parte, con 1.300 bambini che mancano all’appello rispetto al 2016. Lontani i tempi quando, dopo la grande guerra, eravamo davvero «proletari» con 2 figli e mezzo per donna; per poi scendere ai 2 figli del secondo dopoguerra planando infine all’1,36 figli (per essere pignoli) del misero paesaggio natalistico veneto che ci ritroviamo oggi. Tenendo conto che tra le donne nate nel 1950 (oggi nonne, probabilmente) solo il 10 per cento non aveva figli mentre tra quelle nate nel movimentato 1977 quasi una su quattro non avrà nemmeno un figlio. Sono interessanti due dati che l’Istat presenta. Il primo dice che tre quarti della contrazione delle nascite è da imputare al semplice fatto che – per effetto della denatalità dei decenni passati – il numero delle donne in età feconda si è drasticamente ridotto. Detto

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così sembra non ci sia più nulla da fare per correggere la tendenza verso l’inverno demografico. Tuttavia una strada che in altri paesi (Francia docet, con i suoi quasi due figli per donna) funziona è quella di promuovere sia il lavoro femminile sia una mentalità maschile capace di una genitorialità condivisa. Certo, non è facile partire così in ritardo con politiche di sostegno: come scrivono gli autori di «Genitori cercasi» (Università Bocconi, 2018), trent’anni di bassa fecondità lasciano il segno. Il secondo dato che l’Istat offre è la fecondità delle donne straniere: in Veneto è pari a 2,1 figli per donna, esattamente il numero che in demografia serve per mantenere una popolazione in perfetto equilibrio. Tuttavia la tendenza è decrescente: i nati da genitori stranieri sono in calo dopo aver toccato il picco nel 2010. Di conseguenza politiche di chiusura dei confini alle migrazioni non aiuteranno certo il ringiovanimento necessario, dato che – nel breve periodo – i potenziali genitori si possono trovare solo fuori dell’Italia. Discorsi difficili da accettare: perché questa demografia malata sta trasformando la democrazia in gerontocrazia, dove un elettorato sempre più impaurito, vecchio e longevo chiede dosi crescenti di sicurezza, pensioni, sanità, assistenza. E teme l’immigrazione, la globalizzazione, le nuove tecnologie. D’altronde alle ultime politiche il voto alla Camera degli under 30 valeva il 14 per cento, quello degli anziani il doppio. Davvero difficile essere un paese per giovani. AVVENIRE di martedì 4 dicembre 2018 Pag 3 Istantanee di periferia: dove Milano ricomincia di Marina Corradi I figli che non sono nati, i figli che stanno nascendo nella città che cambia In un anno 15mila nati in meno, 120mila che mancano, dal 2008, dice l’Istat. Traiettoria che pare inarrestabile. Un declino: un Paese senza figli è in declino. Leggi questi numeri su un tram della linea 1 che traversa il cuore di Milano. Sono le nove e la città corre, lavora, vive nei passi della gente che risale quasi di corsa le scale del metrò. Declino? Qui il declino non si vede. Il tram procede verso Cadorna e il Parco, traversa bei quartieri borghesi e case d’epoca da cui trapela un solido benessere. Declino? Non sembra, o almeno i grandi portoni di legno massiccio non lo lasciano trapelare. Poi il tram accelera e svolta per Espinasse, tu scendi. Qui a destra comincia la Cagnola, quarant’anni fa quartiere operaio: dignitose case popolari nei cui cortili giocavano frotte di bambini. Nelle corti spesso, in un angolo, c’è ancora un’edicola con una Madonnina. Ma quella Cagnola non c’è più, da un pezzo. Dalle case spesso senza ascensore, con le scale anguste, le giovani famiglie se ne sono andate nell’hinterland. Sono rimasti i vecchi. Quando muoiono, gli eredi vendono: è una sequela di cartelli 'vendesi', sui portoni. E, dentro, piccoli locali colmati dai massicci armadi di una volta. E, in ogni casa, immagini di papa Giovanni, e Padre Pio. Non che fossero tutti credenti, da queste parti. Ma quei due, si vede, erano facce trasversali. I cortili sono silenziosi, le officine chiuse, qualcuna è diventata un 'loft', comprato a caro prezzo da benestanti. Rara, però, questa tipologia di nuovi abitanti. Il popolo della Cagnola ora è in buona parte cinese. Sono le giovani mamme che spingono passeggini a due posti, uno per l’ultimo nato, uno per il fratello di due anni. Come faranno, sulle scale strette, con due bambini, e le borse della spesa? La fatica delle milanesi di un tempo è oggi la loro. Al posto delle vecchie botteghe, piccole sartorie, alimentari, lavanderie. Per quaranta euro, accanto, ti riparano un cellulare. Immagini un lavoro duro, spesso in nero, senza orari. Le tute blu, gli scioperi, i minimi sindacali, in confronto un’aristocrazia proletaria. Questo angolo di Milano l’hanno ereditato gli stranieri più poveri. Che, tuttavia, hanno figli: i giardinetti di Console Marcello al pomeriggio sono pieni di bambini. Per metà cinesi e per metà arabi, le mamme col velo in testa. Perché più in là, verso piazza Castelli, i tratti si fanno mediorientali e maghrebini. Anche qui quanti 'vendesi', sui portoni. Nelle case di ringhiera puoi imbatterti nelle antiche due stanzette di un sarto venuto su dal Sud negli anni Cinquanta. E ancora, incredibile, c’è la sua vecchia Singer nera: dei tempi in cui i meridionali li chiamavano terroni, e li guardavano come invasori. (Come, pensi, quella differenza si è appianata, certo a costo di umiliazioni e di fatica, e come, oggi, non distingui più i nipoti degli uni dai nipoti degli altri). Per queste strade i bambini ora hanno gli occhi a mandorla, o la pelle ambrata. Qui è assente proprio una generazione di milanesi, oppure due: giacché, come sottolinea l’Istat, mancano i figli anche perché mancano le mamme, le italiane che dagli anni Settanta in qua non sono nate. Restano,

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in queste antiche roccaforti popolari, i più vecchi, che trascinano adagio un carrello della spesa mezzo vuoto. E i figli? E i nipoti? Nell’hinterland, già. Anche se questi nonni spauriti nell’attraversare la strada, sembrano proprio soli. Mancano in tanti, qui dove fanno capolinea i tram per il centro. Là, fra turisti e vetrine del lusso, ci si può non far caso. Ma qui, quel pezzo che non c’è lo tocchi con la mano. Così quando, inaspettata, una schiera di bambini cinesi esce da un oratorio, vociando, ridendo, finito il doposcuola, fra te ringrazi i loro genitori, e anche chi li cura, in queste ore pomeridiane. Stanno trovando dei maestri, stanno trovando chi vuole loro bene e li ha a cuore, e se sarà ancora così, anche quest’onda che a tanti fa paura col tempo si appianerà. E, magari, fra una generazione, si farà fatica a distinguere fra loro e quelli che c’erano già e non ci sono più stati abbastanza. E insieme saremo 'noi', indistinguibili. (Non fosse per quei nerissimi occhi a mandorla che ti fissano dai passeggini a due posti, alla Cagnola, curiosi e ignari). Pag 3 Un lavoro abile per i ragazzi disabili di Roberta D’Angelo L’incontro con Mattarella per la Giornata Onu Brillano di emozione gli occhi dei ragazzi dell’orchestra Magica Musica – una quarantina – mentre incrociano lo sguardo compiaciuto di Sergio Mattarella. Il presidente della Repubblica sorride benevolo ai giovani delle scuole primarie invitati al Quirinale per celebrare la Giornata indetta dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1992: è la loro occasione, è il momento giusto per accendere i riflettori sulla disabilità, e loro, ciascuno con la propria storia, sono lì a testimoniare per tutti i disabili italiani il carico di umanità spesso nascosto dietro a una più evidente sofferenza. C’è naturalezza e delicatezza nelle parole del capo dello Stato che ha caratterizzato il suo mandato con un’attenzione speciale ai disabili. E la naturalezza viene ripagata. Si parla di diritti, di impegno per le istituzioni, di garanzie indispensabili. Si parla di scuola. Di sport. Di arte (le note dell’Inno di Mameli si diffondono cariche di intensità). E si parla di lavoro. I bambini disabili ascoltano seri. La scuola è senz’altro un ammortizzatore fondamentale. È l’occasione più importante per affermare la piena titolarità dei diritti dei giovani segnati da difficoltà fisiche o mentali. Ma la scuola ha un termine, come è giusto che sia. Un termine che si sposta un po’ più avanti, di frequente, quando la malattia costringe a ritardare di qualche anno la fine del corso scolastico. Spesso, anzi, sono le famiglie dei disabili a cercare di prolungarlo il corso. Perché dopo c’è il salto nel vuoto. E le tante conquiste fatte per affermare i diritti degli studenti disabili si infrangono e si sgretolano di fronte alla impossibilità di trovare un lavoro. I ragazzi disabili per lo più non si specializzano, per lo più fanno fatica a trattenere quello che apprendono, per lo più vanno gestiti, vanno contenuti. Non producono molto – a volte niente – e consumano meno i prodotti più comuni. Hanno un’energia interiore da incanalare, che spesso si sprigiona in maniera inconsulta. Richiedono impegno. Bisogna entrarci in sintonia per comunicare con loro. Ecco, in un mondo che comunica sempre più a distanza, in modo impersonale, loro hanno bisogno di umanità. Vogliono essere guardati in tutta la loro dimensione, anche quella meno gradevole. Senza trucchi né inganni. Non possono nascondersi. Non sanno essere ipocriti. Ci interrogano. Interrogano quella parte di noi che non ammette la fragilità, che vorrebbe evitarla, che scansa la differenza, l’handicap. Il disabile ti invita a guardare i limiti. E lo fa nell’era in cui i limiti devono essere superati a tutti i costi. Parlare di lavoro, allora, diventa ancora più difficile. Per i disabili si può ragionare di assistenza, e anche questa spesso non raggiunge la soglia di dignità. Si cerca di ascoltare il grido delle famiglie, come nel caso della legge per il 'Dopo di noi': un modo per cercare di garantire al disabile un futuro una volta che non ci saranno più i genitori. Un provvedimento che ha acceso tanta speranza nelle case di chi combatte quasi in solitudine la battaglia quotidiana per i propri figli e i cui fondi vengono messi in discussione di manovra in manovra. Si può in alcuni casi occupargli il tempo: e anche questa è una grande fortuna per le famiglie che non trovano tregua alla fatica. Ma non si ascoltano i disabili adulti che vogliono sentirsi utili alla società, che sentono di avere qualcosa da dare al Paese. La loro domanda di 'normalità' resta un’eco che rimbalza tra le pareti domestiche. È già dura per gli altri trovare lavoro. Ebbene, in un’epoca che cavalca l’esclusione, quando il bambolotto nero non può più entrare nell’asilo, in una fase storica in cui una madre con un bimbo vengono scansati per il colore della pelle,

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parlare di diritti di una fascia fragile della società può suonare stonato. Perché i diritti non sono esclusiva di qualcuno né sono una concessione. A fronte degli occhi sinceri del capo dello Stato, la rabbia e l’egoismo che si diffondono lasciano una certa inquietudine in chi ogni sera, prima di andare a dormire, dà un bacio al proprio figlio disabile. Pag 18 Matrimonio, ipotesi di rinascita di Luciano Moia Se la discesa non si ferma, tra poco più di dieci anni non ci si sposerà più. Come rimediare? Basterebbe ascoltare il Papa Cinquant’ani fa, quando Avvenire andava in edicola per la prima volta, si celebravano ogni anno in Italia oltre 400mila matrimoni. Oggi siamo a meno della metà. Se il trend negativo dovesse continuare, nel prossimo mezzo secolo si potrebbe rischiare di vedere l’estinzione del matrimonio. Anzi, forse capiterà molto prima. Un paio d’anni fa il Censis ha stimato, proiezioni statistiche alla mano, che l’ultimo 'sì' nel nostro Paese potrebbe essere pronunciato nel 2031. È vero che la previsione era stata calcolata sulla base dei dati 2014, mentre nel 2015 e nel 2016 c’è stata un’imprevista risalita oltre quota 200mila. Ma il nuovo, brusco, arretramento registrato nel 2017 – meno 12mila matrimoni rispetto al 2016 – potrebbe far presagire che il rischio 'evaporazione nuziale' sia tutt’altro che remoto. Inutile chiedersi se succederà davvero. Nessuno ha la sfera di cristallo per vedere nel futuro. Ma forse non è stravagante interrogarsi su quello che rischiamo di perdere se davvero dovesse verificarsi un’eventualità così sciagurata. E, soprattutto, su quello che possiamo fare noi, oggi, concretamente, per risalire la china e uscire da una stagnazione che non fa bene a nessuno, né alla società, né alla Chiesa. Potrà sopravvivere la nostra civiltà occidentale senza l’istituto matrimoniale così come l’abbiamo conosciuto negli ultimi millenni? Forse sì, ma sarà sicuramente una società più povera, più liquida, più instabile. Il matrimonio è promessa di amore che estende i suoi effetti benefici dalla coppia alla comunità. È percorso che parla di scelte definitive, che irradia certezze, che trasmette dentro e fuori casa sicurezza, responsabilità, volontà di durata nel tempo. Certo, poi non sempre succede così. Ma i comportamenti delle persone sono variabili che non si possono determinare a priori e non incidono sulla qualità di una scelta che, al di là del dato culturale, rimane via preferenziale non solo per i rapporti della coppia, ma anche per le garanzie che offre ai figli, sul piano pratico e su quello psicologico. Già, sarebbe facile obiettare, ma i figli nascono lo stesso. Oggi in Italia un terzo dei bambini – dati Istat 2017 – nasce fuori dal matrimonio. In alcune aree del Paese che anticipano le tendenze europee, ci sono percentuali ancora più rilevanti. Il 34,5% nel Nordest, addirittura il 45,9% nella provincia di Bolzano, dove però si registrano le medie più elevate di figli nati per donna (1,64 per le italiane, 2,55 per le straniere). Casualità o coincidenza paradossale che stende sulla riflessione altri motivi di preoccupazione? Come mai sono sempre di più le giovani coppie che decidono di mettere al mondo un figlio senza sposarsi? Quali sono stati i fattori che hanno determinato una progressiva e – sembra – inarrestabile perdita di interesse verso il matrimonio? È vero che una quota di coloro che si aprono alla gioia di una nuova vita durante la convivenza, avvertono poi l’esigenza di 'sistemarsi' dopo la nascita del figlio. Tanto che il 90 per cento di coloro che, soprattutto al Centro e al Nord, frequentano i percorsi di preparazione al matrimonio nelle nostre comunità, risultano conviventi e, spesso, anche genitori. Ma dobbiamo riconoscere che non si tratta di numeri che modificano le statistiche nazionali. Anzi, sul totale dei matrimoni, quelli religiosi sono sempre meno – nel 2017 la perdita è stata del 10,5% rispetto all’anno precedente – e in alcune aree del Paese sono minoritari rispetto a quelli civili. Come rimediare? Forse basterebbe prendere sul serio quello che papa Francesco ci spiega in Amoris laetitia. Se è vero come ci dice – e chi potrebbe dubitarlo? – che abbiamo presentato per troppo tempo «un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono», perché non fare il contrario? Perché non mettere un po’ da parte – ma solo un po’ – «questioni dottrinali, bioetiche e morali» (Al 37) per privilegiare la bellezza del cammino di crescita insieme, per indicare strade di felicità, per puntare su un approfondimento graduale, senza caricare pesi teologicamente insostenibili e incomprensibili sulle spalle dei giovani. Aprire i cuori, dare nuove ragioni alla speranza, «formare le coscienze senza pretendere di sostituirle», accogliere il loro personale

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discernimento, anche davanti a «situazioni in cui si rompono tutti gli schemi» (per esempio le convivenze), potrebbe avvicinare alla proposta del matrimonio cristiano coloro che stanno progressivamente allontanandosi. Perché non provare? D’altra parte non ci sono alternative. O si cambia con coraggio e spirito profetico, o il matrimonio muore davvero. CORRIERE DEL VENETO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 1 Ludopatia, fenomeno impietoso di Pierpaolo Romani Il caso di Verona Lo sperpero di circa 900 mila euro al gioco d’azzardo di cui si è reso protagonista un sacerdote veronese, riporta all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni il drammatico e sempre più diffuso fenomeno della ludopatia, vale a dire della dipendenza da gioco. Secondo la prima indagine epidemiologica nazionale sul gioco d’azzardo realizzata dall’Istituto Superiore di Sanità e presentata a Roma tre mesi fa, nel nostro Paese i giocatori sono stimati in 18 milioni e 400 mila, il 36,4% della popolazione maggiorenne. Vi è una prevalenza di uomini (10.500.000) rispetto alle donne (7.900.000). Si gioca d’azzardo soprattutto tra i 40 e i 64 anni, ma si inizia molto prima, in genere tra i 18 e i 25 anni. In Veneto si stima che ci siano 32.500 persone che soffrono di gioco d’azzardo patologico (Gap), di cui quasi 1.900 seguiti dai Servizi per le dipendenze (Serd), in favore dei quali la Regione del Veneto lo scorso anno ha stanziato 5,3 milioni di euro previsti da uno specifico Piano di prevenzione e contrasto. Perché tante persone giocano d’azzardo, soprattutto giovani e anziani? Tra le ragioni principali si trovano il divertimento, la necessità di abbattere la noia, gli stimoli pubblicitari, perché lo fanno diversi amici e compagni. Tuttavia, oltre a questo, va detto che in Italia si gioca molto d’azzardo perché da quasi vent’anni è sensibilmente aumentato il numero di macchinette e di sale gioco sui territori. Conseguenza della scelta dello Stato di legalizzare il gioco d’azzardo, nella convinzione che in tal modo si sarebbero sottratte quote di mercato alla criminalità organizzata e si sarebbero incassati cospicui denari con cui pagare gli interessi sul nostro debito pubblico. Obiettivi sostanzialmente falliti, poiché le inchieste giudiziarie continuano a dimostrare la presenza delle mafie nel settore del gioco, sia lecito che illecito, e i dati sulla spesa sanitaria attestano come, a fronte dei quasi 10 miliardi di imposte incassati, la quasi totalità si deve spendere per curare i malati di Gap. Ogni mese in Italia, secondo lo studio Lose for life, si perde quasi un miliardo di euro al gioco, qualcosa come 420 euro per cittadino. La nostra penisola detiene il record a livello dei paesi occidentali. E i dati ci parlano di un consistente aumento, essendo giunto a circa 100 miliardi il fatturato del comparto gioco d’azzardo maturato lo scorso anno. Tante persone giocano d’azzardo anche sul loro smartphone oppure frequentando sale Bingo ovvero acquistando varie tipologie di «Gratta e vinci». In tempi di crisi e di aumento della povertà, più di qualcuno pensa di sfidare la sorte tentando la grande vincita al gioco. In realtà, come hanno dimostrato diversi studi scientifici, si tratta solo di un’illusione. La verità è che più si gioca e più si perde. E più si corre il rischio di diventare dipendenti da gioco d’azzardo. Il gioco d’azzardo è stato riconosciuto ufficialmente come malattia. I Comuni stanno emanando ordinanze e regolamenti per stabilire orari di apertura e chiusura delle sale gioco, orari di accensione e spegnimento delle macchinette nonché debite distanze dei luoghi di gioco dai cosiddetti «luoghi sensibili», come scuole, chiese, ospedali, ecc. Nel Decreto dignità è stato stabilito un divieto di pubblicità per il gioco d’azzardo. Manca ancora, tuttavia, una legge organica che regolamenti il settore del gioco d’azzardo. Forti sono le pressioni da parte delle imprese del comparto e le resistenze del ministero dell’Economia. È necessario trovare un equilibrio ragionevole tra il diritto di fare impresa, incassare le imposte e la salvaguardia della salute e della sicurezza pubblica. Tocca alla politica agire con determinazione, responsabilità e rapidità. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA

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Pag VI Rio di Noale, demolita la passerella della discordia di Michele Fullin Dopo mesi di ingiunzioni, ieri l’opera è stata rimossa sotto il controllo dei vigili Venezia. Sono passati sei mesi di carte bollate, denunce e ordinanze di demolizione. Ieri mattina, alla fine, la passerella provvisoria in legno e acciaio, imbullonata ad un palazzo antico sul rio di Noale, è stata demolita e rimossa. Ad effettuare i lavori una ditta incaricata dalla proprietà, il Seminario patriarcale, di rimuovere quello che era diventato un abuso vero e proprio. A SBALZO - Tutto era cominciato la scorsa primavera, quando un gruppo di cittadini segnalò l'inizio dei lavori di una passerella a servizio di un ristorante posto al pianterreno. Fu fatta una petizione firmata da migliaio di cittadini preoccupati per la pericolosità del manufatto in un canale tanto trafficato come quello. E poi si mossero i consiglieri fucsia Maurizio Crovato, Paolo Pellegrini e Francesca Rogliani per capire se quella struttura lunga 15 metri ed estesa per 21 metri quadrati, avesse tutte le carte in regola. Nel corso della risposta a un'interrogazione è emerso che la stessa non solo era per più aspetti abusiva, come verbalizzato dai tecnici comunali sin dal 19 febbraio, ma giudicata pericolosa per la circolazione anche dall'ufficio Mobilità acquea di Ca' Farsetti. «La relativa richiesta di autorizzazione paesaggistica all'amministrazione da parte di una ditta privata risale al 25 luglio 2014 - aveva spiegato Crovato - La passerella trovava la sua motivazione in quanto via di fuga da unità commerciali tra il portone d'acqua e la riva giardino. In materia la Soprintendenza aveva imposto l'osservanza di precise condizioni, non del tutto rispettate. E l'autorizzazione paesaggistica provvisoria era subordinata a una deroga antincendio mai pervenuta dai vigili del fuoco». DIFFORMITÀ - Dal dibattito in commissione era emerso anche che i materiali utilizzati e le dimensioni eccedono i limiti di tolleranza, e sono state riscontrate sostanziali difformità rispetto alla Scia e che la Soprintendenza aveva deciso di sanzionare, dopo l'inutile richiesta ai privati di un adeguamento del progetto da presentare entro 30 giorni. In corso c'era la richiesta ai vigili del fuoco di una deroga in materia di prevenzione incendi, che però non è mai arrivata. Il tempo è passato e la scorsa estate, nonostante due ordinanze di demolizione, la struttura era ancora al suo posto. Così al Comune, per mezzo della polizia locale non è rimasto che annunciare l'imminente sequestro. ALTRE SITUAZIONI - Di situazioni simili ce ne sono anche altre e grazie alle denunce dei cittadini, il Comune si sta occupando anche di quelle. La passerella in legno a servizio dell'hotel Palazzo Abadessa sul rio Priuli (dietro la chiesa di Santa Sofia, a Cannaregio) è stata posta sotto sequestro dalla polizia locale ed è inutilizzabile Anche in questo caso l'amministrazione comunale ne ha intimato la rimozione almeno per quanto riguarda la presunta invasione della riva pubblica, che in virtù della passerella è stata resa parzialmente inservibile. E, oggi che la passerella è sotto sequestro, lo è ancora di più. Pag VI Bandiera Isis sulla Salute, nessuna segnalazione Venezia. Nessuna segnalazione alla procura antiterrorismo di Venezia sul fotomontaggio che gira nel mondo di internet e vede il vessillo nero dell'Isis sventolare trionfale sulla cupola della Madonna della Salute, quasi in faccia a San Marco e a Palazzo Ducale. L'immagine, che nelle scorse settimane era stata rilanciata dai circuiti social vicini allo Stato islamico, tanto da finire tra le immagini che avevano attirato l'attenzione di alcune agenzie americane come «Site» e «Trac», il Consorzio di ricerca e analisi sul terrorismo, che durante questi anni di guerra (anche) mediatica si sono specializzate nel monitoraggio dei mezzi di comunicazione dei fondamentalisti jihadisti. Che questa volta, invece che mettere nel mirino due punti nevralgici di Roma, come il Colosseo o il Vaticano, hanno applicato a Venezia l'iconografia del Califfato. L'immagine del cielo cupo e del vessillo nero sulla Salute, presagio di un fosco finale, non è però stata inoltrata alla magistratura lagunare, diretta dal procuratore capo Bruno Cherchi. Nessun segnale di allarme è stato fatto arrivare né alla procura ordinaria né, tantomeno, alla sezione che si occupa di terrorismo. Segno questo che, seppur vero, il fotomontaggio non rappresenta un pericolo reale per Venezia. Pag VII Una colletta per pagare il funerale a Cristian di Daniela Ghio

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Venezia. Saranno gli amici di Cristian Stefan Spinu a pagare le spese delle onoranze funebri e il suo ultimo viaggio nella terra natia, la Romania. Oggi arriveranno a Venezia i familiari del cuoco ventiseienne morto annegato per partecipare alla messa funebre che si terrà venerdì alle 11 nella chiesa di San Moisè, celebrata da don Roberto Donadoni, il sacerdote che ha seguito il ragazzo da quando era arrivato da Roma. Conosciute le difficoltà economiche della famiglia, il personale e i clienti del cocktail bar Skillà a Santa Margherita, i colleghi di lavoro del Bauer Palladio, i parrocchiani di San Moisè e la Caritas hanno dato la propria disponibilità a sostenere le spese funebri, aprendo una raccolta fondi anche per quanti ancora volessero contribuire. «Cristian era sì un cliente del nostro esercizio ma era soprattutto un amico spiega il titolare di Skillà, Raffaele Barresi -. Era un ragazzo dal cuore grande, sempre disponibile a dare una mano alle persone bisognose di aiuto. Era il primo ad offrirsi, senza mai chiedere qualcosa in cambio». Barresi, come la studentessa in psicologia Bianca Lenzi e i tanti amici dello sfortunato ragazzo sono fortemente contrariati per il video, divenuto virale sui social, che riprende il recupero del corpo di Cristian, commentato da due veneziani. «Mi auguro che persone di buon senso cancellino quel video vergognoso commenta ancora il ristoratore -. È imbarazzante. Dovrebbero mettersi nei panni dei familiari e degli amici. Non ci fa nessuno bella figura a livello di umanità, su queste cose non si scherza». «Per coloro che hanno girato il video è stato più facile ridurre questo ragazzo a degradanti epiteti scrive Lenzi su Facebook -. A quanto pare, nemmeno dopo una fine tanto drammatica un essere umano ha il diritto di riposare in pace, nel ricordo e nel cuore di quanti lo amavano». CORRIERE DEL VENETO Pag 10 Passerella abusiva demolita. La lotta ai pontili sui palazzi comincia dal rio di Noale di Elisa Lorenzini Venezia. I tecnici ieri mattina ci hanno messo qualche ora per smontarla. Hanno levato le tavolate di legno e la struttura in ferro fissata con perni metallici al palazzo quattrocentesco. La passerella abusiva del ristorante Beccafico che si affacciava sul trafficato rio di Noale non c’è più. Una vittoria dei cittadini che appena sorta avevano protestato raccogliendo un migliaio di firme contro il manufatto. Ed è la prima delle passerelle fuori norma ad essere demolita. Nemmeno un mese fa su ordine della Procura la polizia locale ha messo sotto sequestro preventivo il pontiletto dell’hotel Abadessa. La passerella del Beccafico era comparsa nell’estate 2017: ieri a demolirla è stata la stessa proprietà, la Curia. Su di essa pendeva un’ordinanza di demolizione coattiva da parte del Comune in quanto la passerella aveva solo un permesso paesaggistico provvisorio di 12 mesi e i materiali non erano conformi a quelli del progetto approvato. Se l’avessero smontata i tecnici del Comune i costi sarebbero lievitati, quindi la proprietà da deciso di fare da sé. «Era una passerella provvisoria chiesta dai vigili del fuoco e nata come via di fuga in caso di incendio, eravamo in attesa di un permesso definitivo ma il comando non ha risposto alla nostra richiesta di deroga e lo scorso agosto è scaduto il permesso - spiega per la proprietà don Fabrizio Favaro -. Poi è arrivato l’ordine di demolizione e i 90 giorni che il Comune ha concesso per abbatterla sono scaduti». La Curia spiega che la passerella era nata per ottenere la conformità antincendio del ristorante: la cucina è stata progettata a vista, con un affaccio sulla sala da pranzo, e per ottenere i certificati era stato chiesto di realizzare una seconda via di fuga valida in caso di incendio. La passerella collegava infatti la cucina con il cortile interno, saltando la sala. Così per continuare a tenere aperto il ristorante senza poter contare sulla passerella si è dovuta trovare una soluzione diversa: sono già stati costruiti muri capaci di trattenere il fuoco per un certo tempo come richiede la normativa. La prossima a dover essere demolita o rifatta con misure conformi a quelle del progetto approvato sarà quella dell’hotel Abadessa sul rio di Santa Sofia che a distanza di un mese ha ancora con i sigilli. Ma ce ne saranno diverse altre. Nel mirino c’è un pontile di una vetreria di Murano e altre passerelle sorte in rio di Ognissanti e in rio San Pantalon. Ma il piano di riordino dei rii con regole stringenti per pontili e opere sporgenti, annunciato oltre un anno fa dall’assessore all’Urbanistica Massimiliano De Mar tin è ancora nel cassetto.

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CORRIERE DEL VENETO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 5 L’Isis e la bandiera nera su Venezia di Andrea Priante I canali social dello Stato Islamico diffondono il fotomontaggio di un terrorista e del vessillo jihadista issato sopra la Madonna della Salute Venezia. C’è tutta l’iconografia cara ai tagliagole dello Stato islamico: il terrorista armato fino ai denti e pronto a colpire, una città occidentale con i suoi simboli religiosi, e, a dominare su tutto, il vessillo dell’Isis. Ma la bandiera nera non sventola sul Colosseo o sulla basilica di San Pietro, in Vaticano, come era già capitato in altre immagini diffuse dagli organi di propaganda jihadisti. Stavolta la città nel mirino dei fondamentalisti è Venezia con i suoi canali, i suoi palazzi storici e la cupola della chiesa della Madonna della Salute, quasi di fronte a Piazza San Marco, sulla quale svetta il drappo scuro con la scritta «Shahada La ilàha illa Allàh», ossia «Non c’è divinità se non Allah». Si tratta di un fotomontaggio, ovviamente. Ma a preoccupare è il fatto che da alcune settimane circola nei canali social utilizzati dai fondamentalisti vicini allo Stato Islamico, che lo hanno diffuso via Telegram. È la prima volta che Venezia - da sempre considerata un obiettivo sensibile - viene presa direttamente di mira dalla propaganda anti-occidentale. A scovare l’immagine sono state alcune agenzie americane - come «Site» e «Trac», il Consorzio di ricerca e analisi sul terrorismo - specializzate nel monitoraggio dei mezzi di comunicazione (da Instagram a Facebook, fino a Twitter) dei fondamentalisti. «Si tratta di un fotomontaggio diffuso tra la fine di ottobre e i primi di novembre anche su blog e siti Daesh attestati all’estero», spiega una fonte investigativa al Corriere del Veneto. Che però rassicura: «L’allerta è sempre alta: Venezia è un possibile obiettivo, alla pari di molti altri centri nevralgici del nostro Paese». Insomma, l’esistenza dell’immagine sarebbe già nota alla nostra intelligence ma gli esperti tendono a escludere che possa far riferimento a un ben preciso piano di attacco al cuore del Veneto. E quindi dal giorno della sua comparsa non si è reso necessario un innalzamento della soglia d’allerta. Resta l’orrore di ciò che rappresenta. La città viene inquadrata dal ponte dell’Accademia. È in quel punto che l’autore del fotomontaggio ha inserito il terrorista armato, con lo sguardo rivolto alla bandiera nera. Oltre alla Madonna della Salute, si distinguono le bricole, un motoscafo ormeggiato e i palazzi antichi che si affacciano sul canale, a cominciare dal museo Guggenheim. Inoltre, campeggia una frase in arabo che si può tradurre così: «Tornerà la promessa nel nome di Dio: la Russia e Costantinopoli cadranno». Per il professor Stefano Allievi, esperto di Islam e membro della Commissione di studio sulla radicalizzazione jihadista della Presidenza del consiglio dei ministri, «la scritta fa riferimento a uno degli hadîth di Maometto, stando al quale dopo Costantinopoli anche Roma, intesa come il simbolo della cristianità, si sottometterà all’Islam». Fa riflettere il fatto che i fondamentalisti minaccino Venezia proprio quando le cronache dalla Siria ci restituiscono uno Stato Islamico ormai allo sbando. «È un’immagine di propaganda - spiega Allievi - molto simile a quelle che abbiamo visto in passato e che prendevano di mira San Pietro o le capitali europee. Ha un alto valore simbolico, e non solo perché può terrorizzare gli abitanti della città. Ha soprattutto lo scopo di galvanizzare gli animi dei lupi solitari e di tutti coloro che credono che un giorno l’Occidente si piegherà all’Islam». Quella usata dagli organi di comunicazione - più o meno ufficiali - dello Stato Islamico, è una strategia che si è dimostrata fin da subito molto efficace. E in fondo ricorrono a tecniche di propaganda non molto diverse da quelle messe in campo da qualunque agenzia pubblicitaria. «Basta osservare l’elemento principale: la bandiera nera. È il brand dell’Isis e, come tale, viene piazzato proprio sopra al simbolo del “nemico”: il campanile. Il messaggio che recepisce chi la osserva è facile e immediato: nel futuro che vogliamo, il cristianesimo sarà soggiogato allo Stato Islamico». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di martedì 4 dicembre 2018 Pag XX Da Jesolo a Roma per Sand Nativity, saranno in 600 di g.bab. Fervono i preparativi per l’inaugurazione del presepe in Vaticano Jesolo pronta a stupire il mondo. Dopo l'apertura di domenica scorsa della 17esima edizione di Sand Nativity, cresce l'attesa per l'inaugurazione del presepe di sabbia allestito in Vaticano, in piazza San Pietro. Un omaggio della città a Papa Francesco, che verrà svelato venerdì pomeriggio. Da Jesolo partiranno circa 600 persone che

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parteciperanno alla cerimonia di apertura mentre una delegazione di 150 jesolani guidati dal sindaco Valerio Zoggia venerdì mattina sarà ricevuta in udienza speciale da Papa Francesco all'interno della sala Nervi. Il Natale che ci aspetta è quest'anno un momento straordinario - commenta il sindaco di Jesolo, Valerio Zoggia - che consentirà alla nostra città di aprirsi una finestra sul mondo, nello scenario spettacolare di piazza San Pietro dove troverà posto il frutto di un'intuizione tutta jesolana. Ringrazio il patriarca Francesco Moraglia per aver sostenuto il nostro sogno. Il presepe di sabbia di Jesolo che tra poco sarà svelato al mondo in piazza San Pietro - aggiunge il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia - è un'opera che certamente resterà nella storia dei presepi allestiti nella Città del Vaticano ed è una dimostrazione delle capacità e della laboriosità di un territorio che negli anni è stato capace di trasformare una buona idea in un evento unico al mondo. Intanto a suscitare un grande interesse sono anche gli altri eventi legati al Natale organizzati in città, tanto che a Jesolo domenica scorsa è arrivata anche Cia Yun Iris che in Cina gestisce un'agenzia che organizza viaggi high-end (ovvero esclusivi) ed è una importante blogger, con post seguiti sempre da svariate migliaia di persone. La sua presenza rientra nel progetto Anno del Turismo Europa-Cina 2018 cui ha aderito la regione del Veneto, promosso dalla Commissione Europea e dal governo cinese. Nella individuazione delle attività di marketing più adatte per promuovere il prodotto Veneto in Cina, sono così rientrate le iniziative svolte da Jesolo durante il periodo natalizio. Dopo avere visitato altri angoli del Veneto, Cia Yun domenica è stata nella cittadina balneare veneziana. A seguire il progetto a Jesolo è stato il Consorzio di Imprese Turistiche JesoloVenice. Ha visitato il Sand Nativity, il Paese di Cioccolato di Jesolo Paese e lo Jesolo Christmas Village. Quello cinese è un mercato importante anche per la nostra località dice il presidente del Consorzio di Imprese Turistiche JesoloVenice, Luigi Pasqualinotto che nelle ultime stagione ha già confermato l'interesse per la vacanza balneare, unita alla vicinanza per Venezia. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 7 Pochi dubbi a Nordest. Sparare ai ladri? Si può di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin “Effetto Far West? No, diritto” «Se una persona trova dei ladri in casa ha sempre il diritto di difendersi anche usando delle armi»: oltre sette nordestini su dieci si dichiarano moltissimo (37%) o molto (34%) d'accordo con questa opinione. L'Osservatorio Nord Est, curato da Demos per Il Gazzettino, analizza oggi l'orientamento dell'opinione pubblica di Veneto, Friuli-Venezia Giulia e della provincia di Trento in relazione al tema della legittima difesa. Nei giorni scorsi, ha tenuto banco la drammatica vicenda di Fredy Pasini, il gommista aretino che ha sparato all'ennesimo ladro che stava tentando un furto nella sua azienda, uccidendolo. Parallelamente all'avvio dell'indagine per eccesso di legittima difesa a carico dell'imprenditore, sono comparse numerose iniziative a suo sostegno. Il gruppo Facebook Io sto con Fredy ha ottenuto in poche ore oltre 25.000 adesioni e promuove una raccolta fondi a sostegno della famiglia Pasini. La fiaccolata organizzata la scorsa settimana, invece, ha radunato nel paese di Monte San Savino, in provincia di Arezzo, tra le 1500 e le 2000 persone. I dati pubblicati oggi sono stati raccolti prima di quest'ultimo fatto di cronaca che ha suscitato tanto interesse ed esprimono quindi una profonda richiesta di attenzione al tema della sicurezza al di là del recente clamore. Il 71% dei rispondenti, infatti, ritiene che, se si trovano dei ladri in casa, si ha sempre il diritto di difendersi anche attraverso l'uso delle armi. Alla vastità del sostegno a questa posizione si unisce anche una certa trasversalità: raramente, infatti, l'assenso scende sotto la soglia della maggioranza assoluta. Guardando al fattore anagrafico, possiamo osservare come siano le persone tra i 25 e i 34 anni (82%) e quelle di età centrale (35-44 anni, 75%) a mostrare l'adesione più ampia all'idea che sia sempre giusto difendersi, anche con l'uso di armi, dai ladri trovati in casa. Il valore non si discosta dalla media dell'area tra coloro che hanno tra i 45 e i 54 anni (73%) e tra gli over-65 (71%). Al di

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sotto di questa soglia, ma comunque superando ampiamente la maggioranza assoluta, è il consenso raccolto sia tra sia i giovani (15-24 anni, 63%) sia tra gli adulti tra i 55 e i 64 anni (58%). È nell'analisi della relazione con l'orientamento politico che emergono delle differenze più evidenti. Il sostegno più ampio all'idea che sia giusto che una persona si difenda anche sparando, nel momento in cui trova dei ladri in casa, tende a crescere soprattutto tra gli elettori dei partiti attualmente al Governo. Tra i leghisti, infatti, il consenso raggiunge l'88%, mentre tra chi guarda al Movimento 5 Stelle si attesta al 77%. Tra chi guarda ai partiti minori (46%) e ancor di più tra gli elettori del Partito Democratico (42%), invece, il sostegno, pur mantenendosi su percentuali tutt'altro che trascurabili, scende sotto la soglia della maggioranza assoluta. Gli elettori di Forza Italia, infine, si attestano intorno alla media dell'area (69%), così come coloro che si riconoscono nell'area grigia dell'incertezza e della reticenza (68%). Tra i più attenti studiosi della difesa legittima, l'avvocato Riccardo Mazzon ha pubblicato due saggi sul tema per le case editrici Cedam e per Giuffrè. E per un giurista appassionato come lui, prima di parlare dei risultati del sondaggio è indispensabile partire dal Diritto Romano e dal brocardo Vim Vi Repellere Licet, ovvero dal È lecito respingere la violenza con la violenza. «Un principio sacrosanto - sottolinea Mazzon - sempre applicato e ribadito i vari codici». Questa la premessa. Ma la responsabilità nel caso di legittima difesa? «Il Pubblico Ministero ha l'obbligo, come per qualunque reato, di raccogliere prove a carico e a discarico dell'indagato. In questo caso per valutare l'adeguatezza della reazione nella concreta situazione di minaccia subita o, comunque, di quella percepita». Per buona parte del Nordest pare sia giusto poter usare le armi al fine di tutelare la sicurezza delle abitazioni. «Non mi colpisce la maggioranza dei consensi, quanto piuttosto la minoranza. Ho come l'impressione che si tratti di opinioni confuse: in parte figlie di un'ideologia di centrosinistra portata naturalmente a sostenere il contrario dei simpatizzanti di centrodestra; e in parte anche portate da una cultura cattolica estrema, sbadata, che non tiene conto di come anche il perdono e la compassione, così come la beneficenza debbano essere disciplinate da regole». C'è anche chi teme l'effetto Far West? «L'allusione è figlia di una strumentalizzazione politica e mediatica. Il nostro Ordinamento garantisce i diritti di ogni cittadino e, ripeto, la difesa legittima è un principio antico del Diritto ancestrale, cioè quello Romano». Pag 27 Sicurezza, ecco perché il Nordest non è cambiato di Paolo Legrenzi Più di due terzi degli abitanti del Nordest dicono che, trovando ladri in casa, si ha diritto di difendersi anche usando armi. Non sappiamo se la percentuale sarebbe stata identica mezzo secolo fa. Anche se la distinzione tra credere e sapere in epoca di social non gode ottima salute, credo che i nordestini non siano cambiati. Sono cambiate le circostanze in cui alcuni di loro sono convinti di vivere. Il senso di comunità in Veneto e in Friuli per fortuna è ancora forte. Così chi non vive in ambienti ostili simpatizza con i vulnerabili, talvolta colpiti. Perché non credo che i veneti e i friulani siano cambiati, anche se molti lo pensano? Un risultato solido della psicologia sperimentale è la dimostrazione che, erroneamente, si tende a dare peso alla personalità degli individui più che alle circostanze in cui vivono. Sappiamo che, se cambiano le circostanze, mutano anche gli atteggiamenti. Possiamo pur dire che una persona è paurosa. Il punto però è che non è per natura paurosa. Se lo fosse, sarebbe sempre così. Invece, se il mondo è percepito sicuro, scompare la paura. I nordestini ritengono che le circostanze siano cambiate, che le forze dell'ordine non riescano più a difenderli come un tempo. È una storia vecchia. Quando, nel 1831, il governo spedì Alexis de Tocqueville per raccogliere informazioni sul sistema carcerario statunitense, il francese si trovò di fronte a una sorta di esperimento naturale. Il racconto di Alexis de Tocqueville del viaggio divenne celebre. L'esperimento naturale consiste nel fatto che molte comunità di frontiera si trovavano costrette a farsi giustizia da sé, eleggendo uno sceriffo e dandogli pieni poteri, come oggi possiamo vedere in molti film western. In queste circostanze ognuno poteva girare armato e il confine tra offesa e difesa era naturalmente spostato. La proprietà, più vulnerabile che

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altrove, divenne sacra. Ancor oggi, in un mondo molto cambiato, affiorano tracce di questo passato nella costituzione e nella giurisprudenza. Talvolta si parla di paure degli italiani quasi si trattasse di sentimenti irrazionali. A questo riguardo consiglio il film Butch Cassidy and the Sundance Kid, un classico del 1969 con Robert Redford e Paul Newman, giovanissimi. Un film bello, ma anche istruttivo. Racconta la storia di due banditi che svaligiano treni. Il proprietario delle linee dei treni assume poliziotti espertissimi per dare loro la caccia. I due decidono di rifugiarsi in Bolivia. Credono di essere sicuri. Ritengono, impavidi, che scovarli sarebbe stato più costoso del danno da loro arrecato alle ferrovie. La loro compagna (condivisa) è una maestra che pensa invece che il proprietario delle ferrovie può permettersi le spese sproporzionate della caccia e che vorrà dare un esempio. Li lascia prima del tragico finale che lei sa arrivare. LA NUOVA Pag 15 Profughi e presepio. Il caso don Favarin divide Lega e M5S di Enrico Ferro La polemica a Padova Padova. Pazienza per il limite di due mandati, che la Lega in Regione ha abolito e invece il M5s voleva mantenere. Pazienza anche per la Pedemontana, che la Lega vuole a tutti i costi e il M5s invece osteggia in ogni modo. Ma scoprire che in Veneto l'alleanza di Governo non va d'accordo nemmeno sul presepe, ecco questo fa abbastanza sorridere. È don Luca Favarin a portare a galla l'ennesima contraddizione in seno alla coalizione pentaleghista. La polemica è quella esplosa in questi giorni sul presepio, definito dal prete padovano "un gesto ipocrita" visto che poi si applaude al decreto sicurezza di Salvini e si lasciano sulla strada migliaia di migranti. Apriti cielo. Ma se erano scontati gli strali del partito "basta buonisti", meno scontata era la difesa del prete da parte di un senatore grillino. E così ci sono due colleghi senatori che si inzuccano anche su questo. Andrea Ostellari difende il suo diritto al presepio sbertucciando don Favarin. Giovanni Endrizzi sostiene il prete con una dichiarazione pubblica. Endrizzi (m5s):«Cosa c'è di assurdo se un prete rileva che sul tema dei migranti non si fa abbastanza? Se lo fa invitando a riflettere che Gesù nacque in una stalla, perché respinto altrove?». Inizia così il lungo intervento pubblicato dal senatore grillino Giovanni Endrizzi sulla pagina Facebook di don Luca. Il suo intervento giunge dopo 24 ore di polemica battente, con il partito dei "crocifissi obbligatori" e dei "presepi a ogni costo" già sul piede di guerra. «Cosa c'è di scandaloso se chiede di rinunciare al presepio, oppure a mettere qualcosa di concreto accanto al presepio?» scrive ancora il senatore pentastellato «Cosa c'è di scandaloso se si rivolge ai fedeli e non agli elettori? Allora si condanna un prete perché stimola e richiama ad una coerenza? Non lo fece Gesù con i mercanti al Tempio?». Gli arrivano oltre 100 commenti, buona parte dei quali con insulti e minacce. Gli stessi rivolti al prete. Ostellari (Lega)Qualche seggio più in là, a palazzo Madama, c'è un collega di governo che manda messaggi alle agenzie. È Andrea Ostellari della Lega, presidente della Commissione Giustizia del Senato. «La tentazione di nascondere i simboli cristiani è vecchia quanto la Chiesa e la Chiesa le sopravviverà. Mentre fallirà il progetto di ridurla al rango di un'associazione benefica fra le tante. Don Favarin faccia come crede. Io sono ipocrita? Forse, ma Cristo è nato anche per me. Quindi farò il presepe, come ogni anno, con i miei figli e mia moglie». Quasi un voto per acclamazione da parte della marea populista che lo segue e lo incoraggia. Ma non è finita qua, perché Ostellari, abile a fiutare l'argomento cattura-consensi, ci torna sopra anche il giorno dopo, ieri. Così nel tardo pomeriggio, sempre su Facebook, pubblica la locandina della manifestazione di sabato a Roma, come fa il suo "capitano Matteo". E chi ci mette in foto? Don Luca Favarin. "Lui non ci sarà" a caratteri cubitali. Nuova acclamazione e, chissà, forse anche qualche voto. Pag 18 Il caso del presepe: le nostre radici cristiane sono una speranza, non rinunciamo a Gesù (intervento di Emanuele Compagno) Da consigliere comunale a Camponogara e da ex presidente vicariale di Azione cattolica nel vicariato di Campagna Lupia non posso restare indifferente sulla vicenda proprio della scuola di Campagna Lupia. Soprattutto oggi, alla luce del tam tam mediatico acceso da don Luca Favarin che, riferendosi al decreto Salvini, pare invitare coloro che

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non sono in grado di concretizzare nella vita autentici gesti di accoglienza, a non fare il presepe. Conosco don Luca da molti anni, fin da quando era a Fossò, e apprezzo il suo sforzo a favore dei bisognosi, degli ultimi, immigrati, prostitute. Un impegno che gli rende onore. Credo, però, che il Natale e il presepe siano per tutti, giusti e peccatori, occasione di riflessione e redenzione. Altrimenti il presepe non dovrebbe essere realizzato nemmeno da chi pecca dalla parte opposta di Salvini. Perché avere paura di un bambino che viene alla luce? Gesù è venuto a noi ponendosi proprio accanto ai peccatori. Se tutti noi, peccatori, dovessimo per questo rinunciare al Natale e al presepe, allora nessuno di noi dovrebbe mai realizzarlo. Il presepe e Gesù non vanno mai strumentalizzati per ragione di partito, a destra o a sinistra, come vessillo che giustifichi un'idea di parte. Mi aspetterei, invece, una Chiesa che sappia farsi pescatrice di uomini, seminatore che esce a seminare, che sappia intessere relazioni e contagiare tutti con la forza della buona novella. Al di là di destra e sinistra, perché il presepe e Gesù sono per tutti. Atei e credenti, di destra e di sinistra, giusti e peccatori. Proprio oggi, invece, nel nostro tempo, frammentato e litigioso, serve il buon Gesù che ci indichi l'essenziale, che porti la vera pace, non quella sbandierata, ma quella incarnata nella nostra ferialità. AVVENIRE di martedì 4 dicembre 2018 Pag 7 Caso Padova: “Il presepio, segno d’amore verso tutti” «Il presepio è segno di amore universale e di apertura accogliente nei confronti di tutti gli uomini. La nostra società, oggi, ha bisogno di segni eloquenti che sappiano significare e indicare tale realtà. Per il cristiano, poi, il presepio indica il 'cuore' della sua fede». Il Patriarcato di Venezia è intervenuto ieri sulla questione dei presepi nel giorno in cui ha tenuto banco, scatenando polemiche, l’appello lanciato da Don Luca Favarin, prete di strada di Padova. «Quest’anno non fare il presepio credo sia il più evangelico dei segni», aveva detto il sacerdote. Parole che hanno scatenato polemiche, con il vicepremier Matteo Salvini che ha commentato: «Giù le mani da Gesù Bambino e dal presepe! Viva il Natale». «Per il cristiano e per ogni persona, il presepio non è un’imposizione ma una proposta» ha sottolineato il Patriarcato. IL GAZZETTINO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 1 Il presepe agita la politica e fa discutere la Chiesa La provocazione lanciata da don Luca Favarin - «non fare il presepe sarebbe il più evangelico dei segni, applaudire il decreto sicurezza di Salvini e allestire il presepio è schizofrenia pura» - agita la politica e fa discutere la stessa Chiesa. Da una parte c'è il ministro dell'Interno Matteo Salvini che, chiamato direttamente in causa da don Favarin e nei giorni scorsi anche dal quotidiano Avvenire, replica: «Giù le mani da Gesù Bambino e dal presepe, viva il Natale». Ma la questione suscita anche dibattito all'interno della Chiesa. Il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, pur scegliendo una linea di apertura non manca di sottolineare la centralità del presepe: «È segno di amore universale e di apertura accogliente nei confronti di tutti gli uomini. La nostra società, oggi, ha bisogno di segni eloquenti che sappiano significare e indicare tale realtà. Per il cristiano, poi, il presepio indica il cuore della sua fede. Comunque sia, per il cristiano e per ogni persona, il presepio non è un'imposizione ma una proposta offerta affinché l'uomo si ritrovi nell'amore e nell'apertura verso l'Altro e gli altri». Una centralità condivisa anche da molti parroci delle chiese disseminate sul territorio: «Noi il presepe lo facciamo», hanno risposto pressoché compatti. A prendere la mira contro don Luca Favarin anche il ministro dei Beni Culturali Alberto Bonisoli: «A me il presepe piace. Ma quando una cosa si obbliga o la si vieta, nessuna delle due onestamente mi piace come scelta finale». E un messaggio distensivo arriva anche dalla Lega islamica del Veneto: «A noi il presepe non dispiace». Pag 9 “Giù le mani dal presepe”, don Luca scuote il Natale di Antonio Bochicchio La provocazione del prete padovano nel mirino. I parroci e i frati del Santo prendono le distanze. Il Patriarca: “Per i cristiani è il cuore della fede”

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Padova. Il prete padovano senza tonaca, don Luca Favarin, jeans e giubbino, capelli lunghi e notti in strada tra extracomunitari, barboni e prostitute con la bandiera della onlus Percorso Vita, divide la politica e suscita numerose reazioni anche nella Chiesa. «Quest'anno non fare il presepe credo sia il più evangelico dei segni. Non farlo per rispetto nel Vangelo e nei suoi valori, non farlo per rispetto dei poveri» aveva postato domenica sul proprio profilo facebook, schierandosi apertamente contro il ministro dell'Interno Matteo Salvini e la sua difesa del presepe unita al decreto sicurezza: «Ci vuole una coerenza umana e psicologica. Applaudire il decreto sicurezza di Salvini e allestire il presepio è schizofrenia pura». E ieri l'onda d'urto di queste parole ha colpito. Per cominciare il mondo ecclesiastico: il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, è intervenuto con linguaggio ecumenico ricordando il messaggio di accoglienza che la Natavità porta con sé, ma ribadendo anche con parole forti il valore e la centralità del presepe cuore della fede. «Il presepio è segno di amore universale e di apertura accogliente nei confronti di tutti gli uomini», ha scritto Moraglia. «La nostra società, oggi, ha bisogno di segni eloquenti che sappiano significare e indicare tale realtà. Per il cristiano, poi, il presepio indica il cuore della sua fede. Comunque sia, per il cristiano e per ogni persona, il presepio non è un'imposizione ma una proposta offerta affinché l'uomo si ritrovi nell'amore e nell'apertura verso l'Altro e gli altri». LE REAZIONI - Più netta la posizione di tanti parroci padovani: noi il presepe lo facciamo, hanno risposto pressoché compatti. Sostenuti con fermezza dal rettore della Basilica del Santo di Padova, padre Oliviero Svanera. E sul fronte politico la reazione del ministro Matteo Salvini è stata secca. Il vicepremier, che con la legge sulla sicurezza e i migranti è di fatto il bersagliò del prete padovano (e non solo, vista la posizione espressa sempre domenica dal quotidiano dei vescovi Avvenire), ieri non è arretrato sui simboli religiosi: «Giù le mani da Gesù Bambino e dal presepe, viva il Natale». Una replica a don Favarin arriva anche da Elena Donazzan, assessore regionale in Veneto all'Istruzione: «La risposta più bella alla provocazione di don Favarin l'hanno data le scuole che hanno accolto l'iniziativa originale, voluta dal Consiglio regionale del Veneto, con 546 scuole che hanno concorso al bando per realizzare i presepi». Da Roma, è intervenuto anche il ministro dei Beni Culturali Alberto Bonisoli: «A me il presepe piace, a casa ho sempre fatto un mini presepio: quando una cosa si obbliga o la si vieta, nessuna delle due onestamente mi piace come scelta finale». IL CARROCCIO - Ma la reazione più dura viene dalla Lega: «La tentazione di nascondere i simboli cristiani è vecchia quanto la Chiesa e la Chiesa le sopravvivrà. Mentre fallirà il progetto di ridurla al rango di un'associazione benefica fra le tante - ha polemizzato il senatore Andrea Ostellari - Cristo non ha cambiato la Storia perché è stato il più coerente o caritatevole degli uomini, ma perché ha vinto la morte e portato su di sé i peccati di tutti: poveri, rifugiati, pubblicani, prostitute e anche ipocriti. Don Favarin faccia come crede. Io sono ipocrita? Forse, ma Cristo è nato anche per me. Quindi farò il presepe, come ogni anno, con i miei figli e mia moglie». «Le parole di don Luca Favarin sono gravi e fuori luogo ha tuonato il consigliere regionale Fabrizio Boron - Come può un parroco invitare i cristiani a non allestire il presepe, uno dei simboli della cristianità? Se don Luca cercava un po' di visibilità per non finire nell'anonimato, l'ha trovata, peccato però che abbia usato questa ribalta mediatica per affermare una cosa assolutamente sbagliata: che un parroco inviti i Cristiani a non fare il presepe è qualcosa di allucinante, contro natura». «Il presepio è un simbolo cristiano e non ha senso nasconderlo. Io lo farò, come ogni anno. Credo che sia giusto farlo perché è un segno di amore che può diventare importante innanzitutto per noi stessi e poi anche per gli altri» ha sottolineato invece il senatore Udc Antonio De Poli, mentre «le parole di don Favarin sono inqualificabili per l'europarlamentare forzista Elisabetta Gardini Il presepe va fatto perché rappresenta la nostra tradizione e la nostra cultura». Non la pensa così il parlamentare del Pd Alessandro Zan: «Don Luca ha fatto bene a lanciare questa provocazione. Il presepe non può essere utilizzato come una clava ideologica. Il Bambino nella mangiatoia è, prima di tutto, un simbolo di pace e di amore». E in favore del presepio si schiera Bouchaib Tanji, presidente della Lega Islamica del Veneto: «Spero che questa sia davvero l'ultima volta che si parla di queste cose, perché oramai come musulmani abbiamo detto, chiarito e sottolineato che nel vedere un presepe, cantare il Natale o ascoltare il nome di Gesù e di Maria, a noi non dispiace, anzi. Basta leggere il Corano per sapere che per i musulmani Gesù Cristo è un grande profeta che ha

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compiuto miracoli. Gesù Cristo e la Vergine Maria si incontrano in circa cento versetti del Corano. Negli anni scorsi abbiamo acquistato pagine intere di giornali per fare gli auguri di Natale ai cristiani e a tutte le persone di buona volontà, abbiamo donato presepi, abbiamo partecipato alle sante messe nelle chiese cattoliche». CORRIERE DEL VENETO di martedì 4 dicembre 2018 Pag 3 “Mandano per strada gli immigrati e poi fanno le battaglie sul presepe” di Michela Nicolussi Moro e Roberta Polese Il vescovo di Chioggia contro la politica. Don Favarin dice di non farlo e lo minacciano di morte. Il Patriarcato: “E’ proposta, non imposizione” Venezia. Nel 2013 tirò le orecchie all’allora vicepresidente del Senato, il leghista Roberto Calderoli, che definì «orango» il ministro Cécile Kyenge: «C’è solo da vergognarsi di questi rappresentanti». Nel 2015 bacchettò Massimo Bitonci, sempre leghista e al tempo sindaco di Padova, autore di ordinanze e fiaccolate anti-profughi: «Gioca con i mal di pancia della gente per fini elettorali». Lo scorso luglio la svolta, con la difesa di un altro big del Carroccio, l’attuale ministro dell’Interno, Matteo Salvini, dall’accusa di essere Satana mossa da «Famiglia Cristiana». Ma ora monsignor Adriano Tessarollo, focoso vescovo di Chioggia e per anni delegato Migrantes della Cei, rimprovera anche lui, per il contrasto tra la difesa del presepe e il decreto sicurezza che, come scrive il direttore di Avvenire , Marco Tarquinio, «scarica fuori dalla porta gli immigrati». Monsignore, come interpreta la nuova legge? «Un paradosso. Questi politici dicono di voler preservare l’identità cattolica e cristiana, basata sull’amore per il prossimo, predicando l’odio e l’esclusione invece dell’inclusione». È la degenerazione maxima della polemica scatenata dalla scelta di alcuni presidi di non fare il presepe a scuola per non offendere gli alunni di altre religioni? «Strumentalizzano il presepe, che poi mica tutti fanno. Lo pensano i politici, ma non è così. Loro parlano alla pancia della gente per ottenere il consenso, senza capire che in questo modo aizzano gli italiani contro gli immigrati. Agevolano il rigurgito dei peggiori luoghi comuni: gli stranieri vengono qui a rubarci il lavoro, ad assorbire tutti i finanziamenti statali, a commettere reati. Giocano sulle paure delle persone per creare contrapposizione invece dell’integrazione». La decisione di certi dirigenti scolastici non aiuta... «Sono dei microcefali. Il presepe per gli alunni musulmani è l’ultimo dei problemi. Tanto è vero che nella mia Diocesi hanno rifiutato l’ora alternativa a quella di religione, preferendo frequentare quest’ultima. Quella di eliminare le tradizioni cattoliche è una fisima di revisionisti che aspettano solo l’occasione per esprimere avversità nei confronti degli stranieri. Spiace che messaggi di tal genere arrivino da uomini di cultura. Dimenticano due concetti fondamentali». Cioè? «Anche il Corano parla di Maria e di Gesù. Conosco musulmani che recitano il rosario. E poi il presepe per secoli ha ispirato l’arte, anche laica: pensiamo alla pittura, alla scultura, alle mostre dedicate alla Natività, come quelle di Verona e Napoli». È vero che la scuola le ha sbattuto le porte in faccia? «Eh sì, il nuovo preside di un istituto di Porto Tolle mi ha vietato la visita pastorale. Ha detto: il vescovo non mette piede a scuola, perché è laica. Non mi era mai successo, mica faccio proselitismo, il mio è solo un dialogo aperto con le altre istituzioni del territorio. Ma che razza di idea hanno dell’inclusione?». Conservatorismo esasperato? «Io direi piuttosto che l’esclusione ce l’hanno nella loro testa. Ed è un impoverimento che crea nella gente rabbia contro gli stranieri. Il pensiero comune diventa: per colpa loro non possiamo mantenere le tradizioni». È successo anche a lei di dover rinunciare al presepe? «Tanti anni fa, quando reggevo una parrocchia a Vicenza, i genitori dei bambini che frequentavano la scuola statale non l’hanno voluto allestire per non offendere i figli dei musulmani, preferendo coinvolgere tutti nella recita della favola Il Brutto anatroccolo. Qualche mese dopo però la direttrice di quella scuola venne a chiedermi di poter organizzare una gara di dolci fuori dalla chiesa per attirare fondi a favore di attività

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didattiche. Piccole e grandi contraddizioni che alimentano uno scontro assurdo e dannoso per tutti». Padova «Il concetto che volevo esprimere è talmente elementare che trovo imbarazzante tornarci sopra». Don Luca Favarin, che da anni a Padova si occupa di progetti di accoglienza per migranti, non si aspettava il clamore provocato da un suo post su Facebook: «Quest’anno non fare il presepe credo sia il più evangelico dei segni, non farlo per rispetto del Vangelo e dei suoi valori, non farlo per rispetto dei poveri», riferendosi al simbolo di Gesù, povero e straniero, nato in una mangiatoia. I commenti al post sono stati feroci, e i messaggi e le mail private ancora peggio: minacce di morte colme di odio sono arrivate privatamente al sacerdote che ieri mattina ha ricevuto anche una lavata di capo dalla Curia. Il commento più «leggero» è giunto dal ministro dell’Interno Matteo Salvini in persona che su twitter ha commentato la frase di don Luca: «Giù le mani da Gesù Bambino e dal presepe #vivailNatale». «Sono rimasto stupito, poteva andarmi peggio con lui – spiega il religioso – e invece è stata la gente a coprirmi di insulti e minacce di uccidermi, ma mi spaventa di più la loro ignoranza, non le loro parole». Don Favarin, che nella Bassa Padovana gestisce un progetto di accoglienza con 140 ragazzi africani, non è solo in questa sua battaglia. Al suo fianco ha anche altri parroci «di strada». «Noi andiamo avanti– racconta don Nardino Capovilla, parroco di Marghera – nessuna persona è illegale, daremo aiuto a tutti, come sempre». Anche don Nardino ha usato i social per diffondere il suo pensiero in merito all’ipocrisia che da un lato riconosce e festeggia in Natale, e dall’altro applaude leggi che condannano i poveri a diventare invisibili. Il sacerdote ha ripreso un articolo del quotidiano Avvenire . «La denuncia e la condanna più dura e originale della legge anti-immigrati viene dal giornale dei Vescovi: la chiama ‘La legge della strada’ – scrive il prete -. Infatti, non solo è dura ma feroce e non solo in queste ore ha già messo in strada e ridotto in povertà come homeless centinaia di rifugiati col permesso “umanitario” in mano, ma, “darwinianamente, li elimina”. Domenica prossima a Messa, prima di accendere la seconda candela, sarà meglio che io pensi a chi è quel Dio che invoco nella liturgia». Due critiche, quelle di don Luca e di don Nardino, che hanno un obiettivo comune: riconoscere nella statuetta di Gesù il prossimo, il povero, lo straniero. «Mi sembra ovvio che il presepe non è una collezione di statuine ma un simbolo in cui riconoscersi – spiega don Favarin – ma a fronte dei pesantissimi insulti ricevuti non ho avuto un frammento di solidarietà da parte delle istituzioni». Una replica a don Favarin arriva da Elena Donazzan, assessore regionale del Veneto all’Istruzione: «La risposta più bella alla provocazione di don Favarin l’hanno data le scuole, ben 546 istituti hanno partecipato al bando sui presepi della Regione, e hanno capito che il presepe è un’esperienza culturale». Venezia. «Il presepio è segno di amore universale e di apertura accogliente nei confronti di tutti gli uomini. La nostra società oggi ha bisogno di segni eloquenti che sappiano significare e indicare tale realtà. Per il cristiano, poi, il presepio indica il cuore della sua fede. Comunque sia, per il cristiano e per ogni persona, il presepio non è un’imposizione ma una proposta offerta affinché l’uomo si ritrovi nell’amore e nell’apertura verso l’Altro e gli altri». Lo sottolinea una nota ufficiale diffusa dal Patriarcato di Venezia. Sul tema interviene anche Bouchaib Tanji, presidente della Lega islamica del Veneto: «Come ogni anno, a Natale, spuntano le polemiche sul presepe nelle scuole e ancora una volta si cerca di tirare in ballo i musulmani. Spero che sia l’ultima volta, perché abbiamo detto, chiarito e sottolineato che nel vedere un presepe, cantare il Natale o ascoltare il nome di Gesù e di Maria a noi non dispiace, anzi. Basta leggere il Corano per sapere che per i musulmani Gesù Cristo è un grande profeta, che ha compiuto miracoli. Gesù Cristo e la Vergine Maria si incontrano in circa 100 versetti del Corano». Tanji non nasconde poi la sua esasperazione: «Gli scorsi anni abbiamo acquistato pagine intere di giornali per fare gli auguri di Natale ai cristiani, abbiamo donato presepi, partecipato alle Messe nelle chiese cattoliche. Le famiglie musulmane non si sentono quindi offese se nella loro scuola di costruisce un presepio. Ci piacerebbe invece che si creassero occasioni per far conoscere a tutti, bambini compresi, i fondamenti della nostra Fede e le nostre tradizioni». Il presidente della Lega islamica chiude: «A questo proposito abbiamo avuto alcune esperienze molto positive, grazie a docenti che credono nel dialogo tra le diverse

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Fedi. Benvenuto è quindi il presepe, benvenuta è ogni pratica e tradizione religiosa che rispetta la persona umana e la sua libertà di scelta». Pag 9 Parroco malato di gioco si è giocato 900 mila euro d’offerte alle slot machine di Davide Orsato Chiedeva soldi ai parrocchiani. La Diocesi: troppi dubbi Verona. Un sacerdote irreprensibile, preparatissimo nella dottrina. Una persona schiva, ma quando qualcuno bussava alla canonica chiedendogli aiuto, non esitava ad aprirgli. Solo una cosa non tornava, la pressante richiesta di soldi che faceva ai fedeli: non solo a quelli della sua parrocchia, Tomba Extra, dalle parti di Borgo Roma, periferia sud di Verona, ma anche quella dove era stato parroco precedentemente, Ca’ di David, praticamente confinante. Ci sono luci e ombre nella storia di don Giuseppe Modena, stimatissimo presbitero della diocesi di Verona, ora accusato di essersi «mangiato» centinaia di migliaia di euro provenienti dai fedeli nel gioco d’azzardo, in particolare alle slot machine. Una contraddizione che si accompagna ad un’altra stranezza: nessuno, al momento, pare aver sporto denuncia. Nemmeno la Curia, che ha il problema, in tempo di vacche magre, di dover ripianare un buco enorme nel bilancio parrocchiale. La vicenda ha, però, dei punti fermi. Il trasferimento, firmato dal vescovo nell’agosto del 2017, con cui don Modena veniva sollevato dall’incarico di parroco per andare a dirigere il centro di spiritualità diocesano di San Fidenzio, sulle colline a nord della città. Un incarico di rilievo, ma che non presuppone, per l’appunto, il contatto con i parrocchiani. In seguito, il sacerdote è stato accolto da un convento milanese, come rende noto sempre la diocesi di Verona. Il secondo aspetto riguarda i debiti della parrocchia, una delle più grandi della città, con i suoi 5.500 fedeli. Si parla di centinaia di migliaia di euro, frutto di lavori non pagati sulle numerose opere parrocchiali. E anche i soldi raccolti dal sacerdote, casa per casa, ammonterebbero a una cifra rilevante: 900 mila euro, è il conto che ha fatto qualcuno dei parrocchiani, mettendo insieme le persone che gli avrebbero donato dei soldi, chi cento, chi mille, chi cinquemila euro, proprio per consentire di andare avanti con la risistemazione degli immobili. Dove sono finiti quei soldi? In mancanza di un’indagine della polizia, la diocesi ha solo qualche indizio: «Ci sono testimonianze di persone che l’hanno visto giocare – afferma don Stefano Origano, portavoce della Curia – ma sono solo alcune affermazioni: in realtà non sappiamo quello che è successo nel dettaglio. C’è il dubbio che si sia messo nelle mani di qualcuno di poco affidabile, magari proprio per realizzare qualcosa in parrocchia o aiutare qualcuno che potesse avere bisogno». Detto in altre parole, c’è anche il timore che il prete sia finito vittima dell’usura. Pieno di dubbi anche uno dei suoi più stretti collaboratori, un laico che lavora in oratorio: «Dal 2014 – spiega – ha dismesso il comitato per il bilancio del consiglio parrocchiale e non abbiamo più capito dove finivano i soldi. Se li giocava? Non possiamo saperlo, quel che certo è che ne era sempre alla ricerca. Secondo me ci siamo mossi tutti troppo tardi, noi, e i suoi superiori. E anziché aiutarlo, la situazione è peggiorata». LA NUOVA di martedì 4 dicembre 2018 Pag 15 «No al presepe per rispetto dei migranti». Offese e minacce di morte a don Favarin di Enrico Ferro Padova, il post su Fb del prete degli ultimi diventa un caso. E lui a "la Zanzara" ammette: «Il vescovo si è arrabbiato molto». La diocesi di Padova: «Una provocazione e un invito alla coerenza». La Lega insorge: «Parole gravi». E Salvini twitta: «Giù le mani» Padova. Offese e minacce di morte a don Luca Favarin che difende i migranti e invita a "Non fare il presepe per rispetto del Vangelo e dei poveri". L'Italia che santifica (solo) le feste si ribella e si sfoga con una raffica di messaggi (quasi mille a fine giornata) direttamente sulla pagina Facebook del prete padovano. «Lei non è un sacerdote, Lei è un seguace di Satana», «Traditore della tua gente, traditore della tua Fede. Dio ti punirà a dovere», «Modernista maledetto, i sacri fuochi sono pronti», «Hai bisogno di un buon dottore che curi la tua demenza. Falso prete che non sei altro. Tu rappresenti la chiesa malata», sono solo alcuni degli attacchi. A metà pomeriggio arriva anche il ministro dell'Interno Matteo Salvini, che guida la rivolta dei predicatori del crocifisso nelle scuole e, di conseguenza, anche del presepe in salotto. E per finire ci si mette pure la

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trasmissione radiofonica "la Zanzara" che simula una telefonata di quattro minuti abbondanti con un Papa Bergoglio indignato. Ma don Luca resiste con il candore che lo contraddistingue: «La Chiesa deve essere schierata dalla parte dei poveri. E questo non è interpretabile». La polemica. Lui, prete di frontiera che ha lasciato la canonica ormai da anni per dedicarsi agli ultimi, segue 140 ragazzi africani giunti dall'Africa subsahariana. Li assiste e insegna loro a lavorare attraverso le cooperativa Percorso Vita. Grazie al suo modello sono nati un ristorante etnico, un bar e due appezzamenti di terreno coltivati con frutta e verdura. Si muove tra mille difficoltà nell'Italia del "aiutiamoli a casa loro" e ora il nuovo decreto sicurezza mette ulteriormente in pericolo i "suoi" ragazzi. Ecco perché domenica mattina si è sentito di esprimere ciò che covava dentro ormai da giorni, soprattutto alla luce della nuova legge sull'immigrazione voluta dal ministro dell'Interno Matteo Salvini. «Quest'anno non fare il presepio credo sia il più evangelico dei segni. Non farlo per rispetto del Vangelo e dei suoi valori, non farlo per rispetto dei poveri», è il post pubblicato su Facebook. Il suo è un ragionamento lineare: «Ci vuole una coerenza umana e psicologica. Applaudire il decreto sicurezza di Salvini e mettere il presepio è schizofrenia pura. Come dire: accolgo Dio solo quando non puzza, non parla, non disturba. Lo straniero che vedo per strada, invece, non lo guardo e non lo voglio». Raffica di offese. Ma il senso del suo intervento viene travisato da molti, pronti a bollarlo come il messaggio di uno dei soliti "comunisti" o, ancora peggio, "buonisti". Dunque la scomunica è il migliore degli auguri che piovono durante tutta la giornata, intervallati ogni tanto da qualche messaggio a favore. «Io non sono contro il presepio, sono contro un gesto esteriore che non ha significato e che rischia di essere una cosa vuota», chiarisce lui sommerso da tutte le sollecitazioni di una "giornata difficile". Anche perché, ammette parlando con il finto Papa de "la Zanzara": «Il vescovo si è arrabbiato tantissimo». Padova. «Spiace vedere che ogni anno presepio o crocifisso diventano occasione di inutili polemiche che superano il senso profondo di ciò a cui si riferiscono». La voce della Diocesi di Padova è quella di don Marco Cagol, vicario episcopale per le relazioni con il territorio. È lui a trovare il senso più puro delle parole di don Luca Favarin, nel giorno in cui intorno alle dichiarazioni del prete degli ultimi infuriano le polemiche. «Ciò che ha detto don Luca è forse una provocazione per richiamare la necessità di una coerenza oltre i segni», aggiunge don Marco Cagol. «È chiaro che il presepio è un segno cristiano, ci mancherebbe, e chi lo fa, fa bene a farlo. Ma è un segno cristiano che parla alla vita quotidiana, perché essere cristiani è dare una forma reale alla vita quotidiana: è credere in Dio, è sapere che la storia va verso il bene, è amare con tutto se stessi gli altri, facendosi carico del loro desiderio di vita piena». In serata interviene anche il Patriarcato di Venezia con una nota in cui precisa che il presepio è un segno di amore verso tutti, non una imposizione. «Il presepio è segno di amore universale e di apertura accogliente nei confronti di tutti gli uomini», si legge nella nota. «La nostra società, oggi, ha bisogno di segni eloquenti che sappiano significare e indicare tale realtà. Per il cristiano, poi, il presepio indica il "cuore" della sua fede. Comunque sia, per il cristiano e per ogni persona, il presepio non è un'imposizione ma una proposta offerta affinché l'uomo si ritrovi nell'amore e nell'apertura verso l'Altro e gli altri». Padova. «Don Favarin faccia come crede. Io sono ipocrita? Forse, ma Cristo è nato anche per me. Quindi farò il presepe, come ogni anno, con i miei figli e mia moglie». Il leghista Andrea Ostellari, presidente della commissione Giustizia del Senato, è fra i primi a rispondere a don Luca Favarin. «Cristo non ha cambiato la storia perché è stato il più coerente o caritatevole degli uomini», aggiunge Ostellari, «ma perché ha vinto la morte e portato su di sé i peccati di tutti: poveri, rifugiati, pubblicani, prostitute e anche ipocriti». Parla di parole «gravi e fuori luogo» Fabrizio Boron (Zaia Presidente): «Se don Luca cercava un po' di visibilità per non finire nell'anonimato, l'ha trovata», afferma il consigliere regionale. «Peccato che abbia usato questa ribalta mediatica per affermare una cosa assolutamente sbagliata: che un parroco inviti i cristiani a non fare il presepe, è qualcosa contro natura». Il coro leghista contro Favarin prosegue per tutto il giorno. In serata si aggiunge anche il ministro Matteo Salvini che twitta: «Giù le mani da Gesù bambino e dal presepe! Viva il Natale». Dopo di lui il deputato Arianna Lazzarini: «Don Favarin non utilizzi il Natale per i suoi interessi. A questo prete, evidentemente più vicino

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ai finti profughi che alle nostre famiglie cristiane, rispondo semplicemente che il presepe è il simbolo delle nostre tradizioni e rappresenta la celebrazione della vita. Ma non solo, il suo allestimento regala ai nostri bambini una gioia indimenticabile che va preservata».«Il presepe è un simbolo cristiano e non ha senso nasconderlo», sostiene il senatore Udc Antonio De Poli. «Io lo farò, come ogni anno. Credo che sia giusto perché è un segno di amore che può diventare importante innanzitutto per noi stessi e poi anche per gli altri». Per la giunta regionale, risponde l'assessore all'Istruzione Elena Donazzan: «La risposta più bella alla provocazione di don Favarin l'hanno data le scuole che hanno accolto l'iniziativa originale, voluta dal Consiglio regionale del Veneto con propria mozione lo scorso anno e che si è tradotta nella proposta della Giunta veneta concedere 250 euro alle scuole che avessero realizzato il presepe», si legge in una nota diffusa dalla Regione. «Ben 546 scuole hanno concorso al bando indetto dall'Ufficio scolastico regionale: di queste 281 sono statali, 247 paritarie, 18 i centri di formazione professionali. Le scuole che hanno partecipato al concorso», prosegue l'assessore, «hanno compreso che il presepe non è solo un simbolo legato al culto ma è una esperienza culturale, un messaggio di rispetto della tradizione nella quale viviamo, un modello di integrazione culturale anche per chi proviene da altre parti del mondo o professa un'altra religione». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Sciogliere i nodi del Sud di Angelo Panebianco La crescita negata Sono molti quelli che continuano a fissare il dito anziché alzare lo sguardo alla luna. Sono gli afflitti da politicismo acuto, quelli che credono che tutto si riduca a ciò che, ogni giorno, fanno e dicono Salvini, Di Maio, Conte, Grillo, Martina, Berlusconi, eccetera. Che cosa indicano gli equilibri politici nati dalle elezioni del 4 marzo scorso? Che cosa suggeriscono i tira e molla su reddito di cittadinanza, pensioni, grandi opere? Che cosa lascia intendere la decrescita economica in atto? Tutto ciò fa pensare, a parere di chi scrive, che la divisione, il divario fra il Nord e il Sud del Paese - un problema per troppo tempo rimosso - ci stia ora esplodendo in faccia. Fin quando durerà il governo giallo-verde le tensioni saranno tenute sotto controllo grazie alle normali (normalissime) lotte per la spartizione delle risorse all’interno della coalizione di maggioranza. Ma quando il governo cadrà, quando quel Sud che ha votato massicciamente 5 Stelle alle ultime elezioni, non si sentirà più rappresentato nelle posizioni di comando, allora sarà difficile trovare un punto di mediazione fra le parti di Italia che chiedono più crescita, più sviluppo e le parti che, con rassegnazione, chiedono solo ridistribuzione delle risorse esistenti. È vero: i sondaggi indicano la Lega come potenziale, irresistibile, partito pigliatutto (a scapito dei 5 Stelle ma anche di ciò che resta di Forza Italia) pure al Sud ma mi permetto di restare un po’ scettico. Per lo meno tengo ferma la fondamentale distinzione fra «intenzioni di voto» e voti veri. In ogni caso, penso che se davvero la Lega avesse in futuro un successo elettorale nel Sud, si tratterebbe comunque di un successo effimero, transitorio. Sembra improbabile che possa ricostituirsi davvero un solido e stabile federatore (come furono per decenni la Dc e per alcuni anni Forza Italia e anche , ma solo in parte, il Pd) capace di tenere insieme il Nord e il Sud. La ragione è piuttosto semplice. L’esistenza di un vero federatore era possibile quando esistevano plausibili aspettative, speranze non campate in aria, di riuscire, prima o poi, a unificare economicamente e socialmente il Paese: un sogno che ha orientato e condizionato la politica e le sue scelte dall’unificazione d’Italia in poi. Con tanti grossolani errori, certamente. Con fallimenti politici, a loro volta facilitati da letture sbagliate delle condizioni del Paese e del Sud in particolare. Ma il sogno c’era e alimentava idee e progetti a ripetizione (si pensi alla grande stagione, ancora negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo, del pensiero e degli studi meridionalisti). Le tradizionali politiche stataliste, assistenziali e clientelari erano sempre massicciamente presenti ma, per lo meno, dovevano fare i conti con una insistente domanda di modernizzazione e di

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sviluppo (e con politiche che qualche volta riuscivano, almeno in parte, a soddisfare quella domanda). Era una combinazione (tradizionale assistenzialismo più spinte allo sviluppo) che comunque contribuì a trasformare nel corso dei decenni l’Italia meridionale. Ma il «motore» di ciò che di buono portò al Sud tale trasformazione era alimentato da quel sogno e da quei progetti. Tutto questo è finito da un pezzo, il sogno si è infranto, nessuno più ha progetti o idee. Per questo il «cambiamento» proposto dal governo del cambiamento è solo, per quanto riguarda il Mezzogiorno, la stanca riproposizione di statalismo e assistenzialismo senza che ci sia più qualcosa a bilanciarne il peso e a contrastarne gli effetti. Forse i buoi sono scappati definitivamente dalla stalla, forse si sono sprecate, nel corso del tempo, troppe occasioni e ormai non è più possibile rimediare. Forse bisognava tempo addietro contrattare con l’Europa un piano per il Sud che permettesse di farne un’area a bassa o nulla tassazione capace sia di favorire le forze imprenditoriali meridionali sia di attirare investimenti esteri. Forse, ancora, hanno ragione quelli che pensano che la combinazione fra riorganizzazione del Paese in senso autenticamente federale e un definivo stop ai trasferimenti di risorse dalle regioni ricche a quelle povere, avrebbe liberato energie, spinto le componenti migliori della società meridionale a rimboccarsi le maniche sfruttando ogni possibile occasione di innovazione e di crescita. Forse, infine, hanno ragione quelli che pensano che, una volta garantite alcune condizioni minime di welfare, lo Stato avrebbe dovuto concentrare la sua azione al Sud quasi esclusivamente nel contrasto alla criminalità organizzata. Giusto a proposito: chi combatte i termovalorizzatori nel Sud in nome della difesa dell’ambiente, danneggia l’ambiente (restano le discariche) e fa un favore alle mafie che sulle discariche possono continuare a lucrare. Comunque sia, ora siamo qui e, nel breve-medio termine, non sembra proprio che ci sia molto da fare per modificare una situazione così difficile. La ragione di fondo che induce al pessimismo è che, di sicuro, non sarà la politica nazionale (in nessuna delle sue componenti) che, autonomamente, potrà fare qualcosa di buono per il Sud. È solo dalla società meridionale che un giorno potrebbe partire un movimento capace di rimettere in moto lo sviluppo (sia pure con tutta l’attenzione del caso alle specificità della società meridionale) e di prendere finalmente le distanze da una interpretazione rancorosa del passato e del presente tuttora dominante la quale genera irresponsabilità: quella che nega i vizi della società meridionale nascondendoli dietro al risentimento e alla pretesa di «risarcimenti» da un Nord a cui si attribuisce ogni colpa per i mali del Sud. Senza un movimento di tal fatta che sorga spontaneamente (ma del quale oggi non c’è traccia) è impossibile che la classe politica nazionale sia in grado di proporre e fare scelte politiche intelligenti per il Mezzogiorno. Nell’attesa, possiamo solo constatare che il più antico e persistente dei problemi italiani, come altre volte nella nostra storia, si è di nuovo aggravato e condiziona pesantemente la nostra vita pubblica. Pag 1 I toni da bar e le istituzioni di Pierluigi Battista Il corto circuito del leader leghista Ora Matteo Salvini, che è ministro dell’Interno, la cui missione dovrebbe essere la tutela della sicurezza pubblica, invita bruscamente e inurbanamente il magistrato Armando Spataro a ritirarsi in pensione. Reazione sproporzionata, oltre che maleducata, a una considerazione critica del Procuratore capo di Torino su un precedente e intempestivo tweet di Salvini su un’operazione di polizia contro la mafia nigeriana, con il rischio di mandare per aria tutta l’indagine. Un’istituzione dello Stato e del governo gioca pesantemente contro un altro uomo delle istituzioni. Ma è solo l’ultimo caso. Poche ore prima Salvini, capo della Lega e ministro dell’Interno riuniti in un’unica figura, aveva sbrigativamente liquidato come un molesto boicottatore il presidente di Confindustria. Confindustria non è un’istituzione e una critica alla sua linea e ai suoi metodi è legittima e democraticamente necessaria, figurarsi. Ma che senso ha una risposta come «andate a lavorare» come se la critica al governo, anch’essa legittima e democraticamente necessaria, fosse un'inammissibile perdita di tempo? Prima ancora Salvini aveva rinfacciato al leader della Commissione europea una sua presunta inclinazione al consumo alcolico. E poi aveva preso in giro la Commissione europea, esortandola a scrivere una «letterina di Natale». E ancora prima aveva detto al presidente della Camera Fico, peraltro membro di un partito coalizzato al governo con la Lega, di farsi un

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po’ gli affari suoi, come se una legge uscita dal Parlamento non fosse anche un po’ affare del suo presidente. Prima aveva bersagliato il presidente dell’Inps, invitandolo a levare il disturbo anzitempo e presentarsi alle elezioni con il Pd. Prima aveva deriso i magistrati palermitani che gli avevano spedito un avviso di garanzia per la nave Diciotti, sbertucciandoli pubblicamente e dicendo loro che, non essendo eletti, non avrebbero avuto titolo a indagare un politico eletto. Fatti diversi, con interlocutori e bersagli diversi. La magistratura, un’istituzione dello Stato, non è un associazione di categoria, un gruppo di interesse, per esempio. E il presidente dell’Inps ha un profilo politico molto marcato, che ovviamente può essere discusso anche polemicamente. Ma tutti questi fatti, queste dichiarazioni tonitruanti, queste battute beffarde da bar che sostituiscono lo sforzo dell’argomentazione, hanno in comune un’insofferenza assoluta e incondizionata per ogni genere di critica. Un crescendo di derisione, di liquidazione brutale, di demolizione aggressiva dell’interlocutore che appare sempre più incompatibile con i modi e gli atteggiamenti che un rappresentante del governo è tenuto ad osservare, qualunque sia il colore e la linea politica di quel governo. Il problema non è solo stilistico, o estetico, qualcosa che riguarda soltanto il lessico o la posa di un politico e nemmeno lo strumento, Twitter e Facebook, che Salvini usa con perizia collaudata, peraltro. Il problema è che Matteo Salvini non solo non sa distinguere il suo ruolo di capo della Lega e di ministro dell’Interno, ma soprattutto usa la sua tribuna di ministro dell’Interno per dare massimo risalto alla sua figura di capo della Lega. Qui è il corto circuito, che non è solo questione di «toni» e di buona creanza (che pure non andrebbe calpestata con tanta voluttà da curva dello stadio), ma è una confusione istituzionale che avvelena il dibattito politico e svilisce il ruolo di governo. Come capo della Lega Salvini rappresenta una parte degli italiani, di italiani che ne condividono la linea e che nutrono per lui consenso, ammirazione e anche amore, ma come ministro dell’Interno rappresenta tutti gli italiani, anche quelli che non lo hanno votato e che, legittimamente e in forme ovviamente civili e non violente, lo detestano sul piano politico. Come capo della Lega Salvini può entrare in conflitto con chiunque, ma come membro del governo di tutta l’Italia non può, pena il caos istituzionale, entrare in conflitto aspro e senza esclusione di colpi con tutte le istituzioni, nazionali ed europee. Come capo della Lega può scontrarsi con chiunque, è la democrazia. Ma come ministro dell’Interno e addirittura come aspirante al titolo di premier alle prossime elezioni, il suo dovere è di non consumarsi e anche incarognirsi in uno scontro permanente e distruttivo con chiunque gli si pari davanti, nel mondo delle istituzioni soprattutto. Una sovrapposizione pericolosa. Il ministro dell’Interno è obbligato a tenerne conto, anche a costo di qualche sacrificio sul terreno della propaganda. Pag 8 L’isolamento del ministro dell’Economia. Più forte la tentazione di dimettersi di Federico Fubini Troppe tensioni interne, Tria non vuole essere il capro espiatorio per ciò che non ha funzionato Non lo aveva neanche preso in considerazione a metà settembre quando Rocco Casalino, portavoce di Palazzo Chigi, aveva orchestrato un’aggressione senza precedenti ai suoi uomini. Non ci aveva pensato più di qualche ora a fine settembre, quando i vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini ignorarono la sua proposta sul bilancio. Ora però Giovanni Tria, ministro «tecnico» dell’Economia in un governo politico, è tentato dalle dimissioni più che in qualunque altro momento da quando venne chiamato a sorpresa nel governo sei mesi fa. Lo è così tanto da avere già segnato mentalmente un momento nel quale potrebbe passare la mano: durante la pausa di fine anno, quando la legge di Bilancio sarà stata approvata in Parlamento. Non si tratta di una decisione già presa - sottolineano varie persone che lo conoscono - quindi Tria potrebbe restare al suo posto come del resto è già successo dopo vari incidenti politici del passato. Una figura dell’amministrazione precisa che il ministro certo non lascia, «per adesso». Ma chi ha parlato con lui racconta di averlo trovato stanco sul piano fisico e mentale ma soprattutto «stufo» di subire dal governo quelli che considera colpi alla sua credibilità. Ultimo in ordine di tempo, il comunicato di Salvini e Di Maio domenica scorsa nel quale i due leader politici ignorano Tria e sottolineano solo la loro fiducia nel premier Giuseppe Conte quale protagonista della trattativa con la Commissione Ue sui conti pubblici. Il

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dettaglio decisivo di quel comunicato arriva quando i vicepremier rimarcano il ruolo di Conte nel rapporto con colui che sarebbe l’interlocutore istituzionale del ministro dell’Economia: il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici. Proprio come se Tria non esistesse o il suo ruolo non fosse apprezzato nel governo. In effetti, a quanto pare, non lo è molto. E non solo per l’estraneità politica e culturale del ministro, coinvolto in circostanze un po’ rocambolesche entro una compagine populista e euroscettica. Né solo per l’amarezza di questo economista universitario di 70 anni, che la cui proposta di un deficit all’1,9% del prodotto lordo (Pil) era stata scartata in settembre a Palazzo Chigi eppure ora sembra la sola praticabile per Bruxelles. Pesano in realtà anche gli incidenti più recenti e il loro significato politico-istituzionale. I meno cruenti, ma più significativi, sono le divergenze con Conte stesso. Non sono mai degenerati in uno scontro personale, ma le discussioni fra i due uomini sono state ripetute perché il premier non ha condiviso alcune delle proposte che Tria aveva avanzato per provare a far accettare la manovra di Bilancio alla Commissione Ue. Il ministro di recente aveva suggerito di nuovo di correggere i saldi di Bilancio con aumenti mirati del gettito sull’Iva, ma Conte ha respinto l’idea con un certo fastidio. Il ministro aveva anche proposto di lasciare l’obiettivo di deficit del 2019 al 2,4% del Pil - troppo per Bruxelles - ma di provare a far accettare la manovra spostando tutte le spese su investimenti che aumentino il potenziale di crescita dell’Italia. Anche qui, il premier ha risposto che il contratto vincola il governo a lavorare sulle pensioni e sul reddito di cittadinanza. La procedura - L’Italia rischia la procedura Ue per deficit eccessivo che potrà essere aperta nel 2019. C’è però un livello più profondo - potenzialmente più carico di conseguenze - in queste tensioni interne al governo sul rapporto da tenere con la Commissione europea. Perché Tria si sente trattato sempre di più come il capro espiatorio di tutto ciò che non ha funzionato fra Roma e Bruxelles: lui e la sua squadra del ministero dell’Economia, quella che già Casalino aveva aggredito verbalmente quando ancora i piani di Bilancio erano ancora da scrivere. La versione dei vertici politici del governo - fanno notare alcuni nell’amministrazione - è che l’Italia oggi rischia una procedura europea per deficit eccessivo soprattutto perché i tecnici dell’Economia non avrebbero preparato il terreno in modo adeguato, né avrebbero difeso abbastanza la logica della legge di Bilancio. Vista dai palazzi delle istituzioni, non da quelli della politica, la realtà sembra diversa: Tria e la sua squadra finora non hanno potuto scongiurare la minaccia della procedura, perché l’obiettivo di deficit fissato dai politici è troppo alto e i tecnici non hanno ricevuto dal governo un mandato negoziale preciso. La posta in gioco qui è la qualità del processo politico-istituzionale che dovrebbe permettere al Paese di maturare una posizione e difenderla in Europa.A Tria questo ingranaggio sembra ormai diventato disfunzionale, o assente. Il ministro teme di diventare il capro espiatorio per ciò che non ha funzionato, ora che l’accordo sembra possibile ma tutt’altro che scontato. Di qui la tentazione delle dimissioni, sempre che alla fine non svaniscano nell’aria di Roma anche stavolta. Pag 13 Mattarella e la politica che non va abbandonata di Marzio Breda Lo angustia «il pericolo» che il legame tra istituzioni e società sia minato da una «frattura». Scenario possibile, oggi, teorizzato da certi movimenti populisti quasi come una formula liberatoria. Una prospettiva rischiosa che Sergio Mattarella percepisce in modo acuto e non a caso esorta tutti a «scongiurarla», ritrovando, appunto, lo spirito di una «stretta connessione tra le pubbliche istituzioni rappresentative e i corpi intermedi», cioè «le formazioni sociali autonome e spontanee». Questa riscoperta, oltre a coincidere con un principio costituzionale che vuole quelle realtà «affiancate», risponde a un’«esigenza» importante di ogni democrazia. Infatti, quando tale rapporto viene indebolito, «le istituzioni deperiscono e si inaridisce la loro vitalità». Per lui valgono le parole di Cicerone quando scese in polemica contro gli epicurei impegnati a ripetere che «non è saggio occuparsi di politica». No, dice il presidente della Repubblica da Firenze, dove partecipa all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università. Quelle parole che «tante volte abbiamo ascoltato in ogni ambiente, per le strade, nei salotti, nei ristoranti e un po’ dappertutto», sono sbagliate. Basta ripensare all’ultima lettera ai genitori di un condannato a morte della Resistenza, un ragazzo di vent’anni. «Tutto questo è avvenuto perché la vostra generazione un giorno non ha voluto più saperne della politica». Una

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rinuncia che, sottolinea il capo dello Stato con tono grave, consentì al fascismo di scrivere nell’indifferenza generale «la pagina grave, triste e spregevole» delle leggi razziali del 1938. La stessa «apatia dei cittadini» che Montesquieu aveva marchiato definendola «non meno grave per il bene pubblico della tirannia del principe». «Lo strumento, l’antidoto contro tale pericolo è la cul-tu-ra», sillaba, rivolto agli studenti. Che esorta a non restare «catturati da un presente immutabile, senza passato e senza orizzonte», perché ciò che serve è invece «una società consapevole, attiva, vigile». In grado di capire il proprio tempo anche grazie al «pluralismo informativo, valore fondamentale per ogni democrazia, che va difeso e concretamente attuato e sostenuto», aveva aggiunto in mattinata, con un messaggio per il centesimo anniversario di fondazione della Stampa parlamentare. AVVENIRE Pag 1 Né succubi né presuntuosi di Andrea Lavazza L’ “incompetenza” chiude il futuro Spoils system o lotta alla competenza? Si muove tra questi due poli l’interpretazione di alcune recenti mosse del governo giallo-verde, a partire dalla rimozione del presidente dell’Agenzia spaziale Battiston fino al recentissimo 'licenziamento' del Consiglio superiore di sanità. Ma se qualche forma di 'lottizzazione' ha caratterizzato l’azione anche di molte altre maggioranze – e non solo in Italia –, quando si agisce su istituzioni e ruoli tecnici, che non hanno una diretta valenza politica, allora le scelte non dovrebbero a loro volta essere esclusivamente legate all’affinità di partito. E qui entra l’altro aspetto che sembra peculiare di molte formazioni genericamente dette populiste. Ne ha già scritto con efficacia su queste colonne Leonardo Becchetti, evidenziando come in campo sanitario (no-vax), finanziario (sovranismo anti-euro) e ingegneristico (avversione alle grandi infrastrutture) si manifesti una rivendicazione di posizioni sbagliate o incoerenti alla luce della migliore scienza oggi disponibile. C’è da chiedersi da dove venga e che conseguenze abbia questa linea di riscrittura 'dal basso' di conoscenze affidabili che lunghe e rigorose ricerche ci hanno consegnato nel tempo. Perché gli esperti, da rispettati portatori di competenze utili, sono diventati il bersaglio di una critica distruttiva? Non è la specializzazione in quanto tale a essere sotto accusa. Nessuno dei novax, se si rompe una gamba, pensa di curarsi da solo, correrà piuttosto dall’ortopedico del pronto soccorso più vicino (anche se vi sono pericolose derive verso cure alternative, per esempio in campo oncologico). A essere messe in discussione nell’ambito medico sono le indicazioni che riguardano i comportamenti personali (profilassi, stili di vita, alimentazione), così come in ambito economico vengono contestate le grandi scelte di sistema (nessuno degli anti-euro rinuncerebbe però al commercialista per compilare il 730). La nostra è una società complessa e risulta sempre più difficile padroneggiare le situazioni in cui ci troviamo a vivere e agire. Aumenta, quindi, il senso di perdita di controllo personale, mentre permane il classico effetto psicologico che ci porta a sovrastimare le nostre competenze individuali. In un contesto in cui si sommano l’apparente facile accesso alle conoscenze tramite Internet, la possibilità di intervenire rumorosamente nel dibattito pubblico e l’attenuarsi fino al dissolvimento delle gerarchie sociali, può così trovare sfogo e acquisire dimensioni inedite un fenomeno che di per sé non è nuovo. Sovrastati dalle capacità specialistiche possedute dagli esperti, molti reagiscono con un moto di ribellione, verso la scienza e il mondo intellettuale, paragonabile ai sentimenti e alle mobilitazioni anti-globalizzazione. I movimenti popu-listi hanno allora buon gioco nel canalizzare questi stati d’animo di rivalsa che, nel caso di M5s (con un contagio ad altre forze politiche, Lega compresa), propagandano l’idea di un egualitarismo sintetizzato nello slogan 'uno vale uno'. Se è lodevole la sottolineatura della dignità di ciascuno, il rischio nel campo della conoscenza è di promuovere una democrazia epistemica in cui ogni cittadino è titolato a esprimere un’opinione che ha lo stesso valore di quella di un esperto del settore di cui si parla. Gli scienziati e gli intellettuali possono sbagliare, ma la competenza non s’improvvisa e si può valutare oggettivamente. La cosiddetta tecnocrazia sottrae ai cittadini lo spazio decisionale che appartiene loro perché li ritiene non all’altezza di decidere. La lotta alla competenza conduce invece a cattive scelte perché considera i cittadini molto più esperti di quello che sono e li porta a pagare un prezzo altissimo a causa della loro presunzione.

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Per combattere vere e presunte tecnocrazie, non vorremmo trovarci presto in una situazione assai peggiore. Pag 3 Le rimesse dei migranti, tassarle è miope e cinico di Maurizio Ambrosini Scelta che contraddice l’ “aiutiamoli a casa loro” e incentiva le partenze Come è noto, uno slogan portante della retorica politica e governativa sulle migrazioni è «aiutiamoli a casa loro». Non è qui il caso di approfondire la validità dell’idea. Basti qui accennare al fatto che gli immigrati non arrivano dai Paesi più poveri in assoluto, ma da Paesi intermedi, e lo sviluppo di un territorio in una prima non breve fase suscita nuove partenze, anziché rallentarle. Sta di fatto che il governo ha varato un’imposta dell’1,5% sui trasferimenti di denaro verso Paesi extracomunitari, ossia principalmente sui risparmi che gli immigrati inviano alle loro famiglie. Le contraddizioni con l’asserita volontà di prevenire le migrazioni, promuovendo lo sviluppo e le politiche effettive, saltano agli occhi. Le rimesse degli emigrati globalmente hanno raggiunto nel 2017 hanno raggiunto il valore di 613 miliardi di dollari, di cui 466 inviati in Paesi in via di sviluppo. Secondo la Banca mondiale, dovrebbero raggiungere i 642 miliardi nel 2018 e i 667 nel 2019, contribuendo a sostenere circa 800 milioni di persone nel mondo. Le rimesse sono più importanti in valore degli aiuti pubblici allo sviluppo. In altri termini: gli emigranti aiutano casa loro già da soli, e non poco. Diversi Paesi del mondo hanno le rimesse tra le prime voci attive della bilancia dei pagamenti, e in qualche caso esse rappresentano la prima voce in assoluto. Questi flussi di denaro hanno inoltre la caratteristica di arrivare direttamente nelle mani dei beneficiari. Si calcola che le famiglie ne spendano circa i tre quarti per necessità basilari, come cibo, istruzione dei figli, assistenza medica, manutenzione e miglioramento delle abitazioni. Gli studi in verità colgono anche effetti negativi, ma qui interessa soprattutto fissare un punto. Chi manda consistenti rimesse è chi ha ancora i familiari in patria, specialmente i figli. Spedire rimesse è un modo per mantenere la famiglia nei luoghi di origine, prendendosene cura a distanza. L’invio di rimesse è una strategia alternativa al ricongiungimento familiare, ossia a nuove emigrazioni. Anche per questa ragione le istituzioni internazionali da anni raccomandano una riduzione del costo dei trasferimenti monetari, e consistenti progressi in questo senso sono avvenuti nel tempo. Pure il Global Compact for Migration ne parla, fissando al n. 20 l’obiettivo di promuovere «trasferimenti di rimesse più rapidi, sicuri ed economici»: in cifre, si vorrebbe gradualmente scendere dall’attuale 6% medio a un costo al di sotto del 3% nel 2030. A rafforzare questo indirizzo, ci si propone inoltre di promuovere e sostenere una giornata internazionale delle rimesse familiari sotto l’egida dell’Onu e un Forum Globale su rimesse, investimenti e sviluppo. Il nostro Governo ha scelto, dunque, di mettersi in contrasto con indirizzi largamente condivisi nel mondo, e soprattutto dai Paesi beneficiari di questi flussi di aiuti. In Italia le rimesse da alcuni anni si aggirano intorno ai 5 miliardi di euro, avendo sofferto un sensibile calo rispetto al 2011, quando avevano raggiunto i 7,4 miliardi. I Paesi che più ne ricevono sono nell’ordine Romania, Bangladesh, Filippine, Senegal, India. Probabilmente sul calo dei valori complessivi e sulla scomparsa dalle prime posizioni di alcuni dei Paesi che contano più emigrati in Italia (pensiamo ad Albania, Marocco, Cina) incidono proprio i fenomeni di stabilizzazione delle famiglie e l’allentamento dei legami con la madrepatria. Dall’improvvida iniziativa del Governo si devono trarre tre conclusioni. Primo, l’obiettivo di aiutare gli immigrati 'a casa loro' rivela la sua natura retorica e polemica. Una scelta come questa dimostra che non si vuole aiutare gli immigrati, ma ribadire inimicizia nei loro confronti, strizzando addirittura l’occhio agli odiatori da tastiera. Secondo, così si otterrà l’effetto di incentivare il ricorso a canali informali e incontrollati di trasferimento di denaro. Terzo, sommandosi con altri segnali questo provvedimento inciterà gli immigrati a ricongiungere i familiari e appena possibile a diventare cittadini, allo scopo di evitare guai peggiori. Certe politiche, a volte, producono il contrario di ciò che vorrebbero. Pag 3 Non si dissangui più la vera antimafia di Giuseppe Savagnone Il colpo ai boss e l’emorragia di giovani siciliani

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Sono ben 46 gli arrestati, a Palermo, con l’accusa di aver ricostituito, nello scorso maggio, poco dopo la morte di Totò Riina, la nuova 'cupola' mafiosa del capoluogo siciliano. Tra essi, Settimo Mineo, ufficialmente rispettabile gioielliere, in realtà accusato di essere l’anziano capo riconosciuto del mandamento di Pagliarelli, scelto per guidare la 'commissione provinciale' di Cosa Nostra, che si ricostituiva per la prima volta dopo il 1993. Dopo la scomparsa del 'capo dei capi', dunque, la mafia, fino a questo momento operante in ordine sparso, si era sentita autorizzata a eleggere il suo successore e a riorganizzarsi in una struttura unitaria. L’operazione dei carabinieri, frutto di pazienti e lunghe indagini, ha stroncato sul nascere questo tentativo. Non è la prima volta, del resto, che le forze dell’ordine intervengono efficacemente contro 'cosa nostra'. Le brillanti operazioni che, in questi anni, hanno portato in carcere i maggiori boss ne sono una eloquente testimonianza. Eppure, proprio il ripetersi di questi successi non può non far nascere il dubbio inquietante che siamo davanti a un cancro capace di riprodursi, dopo ogni colpo subìto, con rinnovata, malefica vitalità. Come l’idra, il mostro affrontato da Ercole, che, ogni volta che una delle sue nove teste veniva mozzata, ne faceva nascere dal moncherino altre due. Non è certo un motivo per desistere dalla giusta e necessaria lotta contro la struttura criminale della mafia. Ma sembra ragionevole chiedersi se essa sia sufficiente a debellare in modo radicale questa piaga. In realtà il risorgere periodico di 'cosa nostra' dalle sue ceneri si spiega solo guardando a un contesto sociale, economico e culturale più ampio, che non coinvolge solo i mafiosi in senso stretto, ma tante persone giudiziariamente incensurate, che, con la loro mentalità, con la loro connivenza, con il loro esplicito e implicito appoggio, ne costituiscono il 'brodo di coltura'. Ci sono, certamente, anche tante forze sane, educate a una cultura civile, in grado di lavorare a una società migliore, dove la mafia non troverebbe posto. Di esse sono state espressione personalità come Falcone e Borsellino, come tutti coloro che li hanno amati e sostenuti, come tanti onesti e impegnati funzionari. Ma, salvo che in certi momenti pieni di speranza, queste forze non sono riuscite a diventare maggioritarie e a sconfiggere il clientelismo, la corruzione, l’inefficienza amministrativa, che formano il triste quadro del degrado della Sicilia e la premessa della malefica resilienza mafiosa. Ciò che però è più drammatico è che questa parte più sana della società siciliana è, ormai da molti anni, vittima di una costante emorragia. I giovani più preparati, più consapevoli, più intraprendenti fuggono da Palermo e dalla Sicilia, alla ricerca di migliori opportunità di studio e di lavoro. Nel solo 2017 sono stati diecimila i ragazzi siciliani che hanno lasciato la loro terra, non per amore di avventura – molti partono con l’angoscia di dover abbandonare la famiglia, gli amici, i legami affettivi, insomma, la loro vita –, ma per la drammatica carenza di sbocchi lavorativi. Le università siciliane hanno perduto e perdono centinaia di iscritti ogni anno, non perché i loro docenti siano meno qualificati, ma per il vuoto a cui chi le frequenta si trova inesorabilmente di fronte dopo la laurea. Ecco dunque dei nuovi migranti che, come in un tempo passato, dal Sud vanno verso il Nord o verso altri Paesi. Ma non sono più i poveri braccianti con la valigia di cartone. Sono, spesso, i migliori, quelli per la cui formazione si sono spese tante risorse e che dovrebbero costituire la nuova classe dirigente, in grado di restituire alla Sicilia una vitalità economica e civile sempre più debole. Non basta catturare i boss mafiosi. Onore alle forze dell’ordine che lo fanno e ai magistrati che sulla base delle indagini lo ordinano. Ma, se non si ferma questo flusso migratorio, la mafia potrebbe vincere la guerra anche perdendo queste battaglie. Bisogna assolutamente ridare prospettive di lavoro ai giovani siciliani. Bisogna investire nell’ambito produttivo e in quello universitario (gli atenei del Sud hanno ormai pochissimi posti da offrire ai loro laureati più brillanti), per far rimanere i migliori. Solo così potremo sperare in una classe dirigente sana e responsabile. E solo così la mafia potrà essere veramente sconfitta. Pag 9 Ma è il ministro a sbagliare tempi e modi Funziona sempre, signor ministro. È un sistema collaudato: si aspettano i risultati del lavoro della magistratura e degli investigatori (spesso lungo mesi, quando non anni, magari con appostamenti, pedinamenti, intercettazioni, gravi pericoli...) e ci si appunta al petto una bella medaglia tutta politica. Da che mondo è mondo, va così. Nessuno scandalo. Però, diamine, signor ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini, poteva almeno aspettare che l’operazione terminasse, oppure che chi l’ha coordinata

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decidesse se renderla pubblica o meno. Perché, sa - ma senz’altro lo saprà, è il ministro dell’Interno! - quando ci sono indagini in corso, una fuga di notizie può comprometterne l’esito. Eppure lei, nella sua incontenibile frenesia da social, non ha resistito alla tentazione del tweet. Con tanti saluti al duro lavoro di quelle forze dell’ordine di cui tanto ama indossare magliette e cappellini. Poi, appreso del comprensibile disappunto del procuratore Armando Spataro, anziché scusarsi per l’errore commesso (imperdonabile, dato il suo ruolo), lo ha svillaneggiato e accusato di «aver sbagliato nei modi e nei tempi». Che invece è esattamente ciò che ha fatto lei. «Est modus in rebus», dicevano i nostri avi. Non i celti, gli antichi romani. Pag 22 Senza figli l’Europa è più povera di Giovanni Maria Del Re Il Continente invecchia, l’Ue in allarme Bruxelles. «Un assordante silenzio circonda il suicidio demografico dell’Europa previsto per il 2050». Forse nessuno ha trovato parole più drammatiche della Fondazione Schuman in un documento pubblicato lo scorso febbraio per descrivere quanto sta accadendo: l’Europa si trasforma sempre più, davvero, nel «Vecchio Continente », con una pesante ipoteca sul futuro. «L’Europa dei 28 (inclusa la Gran Bretagna, ndr) – avverte il documento – potrebbe ristagnare nel 2050 a circa 500 milioni di persone, perdendo 49 milioni di persone in età lavorativa». I dati diffusi a luglio da Eurostat (l’ufficio statistico dell’Ue) rivelano che nel 2017 a fronte di 5,1 milioni di nati si sono registrati 5,3 milioni di decessi. Complessivamente, in 14 Stati membri si registra un saldo negativo, che per l’Italia è pari al 3,2 per mille. Ed è di questi giorni il rapporto Istat per il 2017 che vede per la Penisola un calo di 120.000 nascite rispetto al 2008. Nelle proiezioni Eurostat, la popolazione italiana è destinata a scendere dai 60,8 milioni di abitanti nel 2016 a 54,9 nel 2070. Le culle restano sempre più vuote: secondo dati Eurostat relativi al 2016, la media Ue è di 1,6 bambini per donna. Si va da un minimo in Italia e Spagna di 1,3 a un massimo di 1,9 in Francia. Secondo il consenso scientifico il minimo per assicurare il ricambio generazionale è di 2,1 figli per donna. L’impatto economico è evidente. Il Rapporto sull’invecchiamento 2018 della Commissione Europea avverte che da qui al 2070 «l’Ue passerà dall’avere 3,3 persone in età da lavoro per ogni persona over- 65, a solo 2». Un carico insostenibile. Tanto che, secondo un rapporto del Comitato economico e sociale europeo (Cese) del luglio 2011, si può arrivare a uno «scenario catastrofico, in cui l’inverno demografico si intensifica», che potrebbe «spingere giovani qualificati a lasciare un’Ue vecchia per nazioni più imprenditoriali mentre calerebbe anche l’immigrazione, visto che, essendo più povera e colpita da un più carente dinamismo, gravi problemi di bilancio e difficoltà nel tenere in equilibrio i sistemi di sicurezza sociale, l’Europa diverrebbe una destinazione meno attraente». Una società vecchia, avverte la Fondazione Schuman, è meno di- namica, «se vogliamo investire e consumare, dobbiamo avere fiducia nel futuro e aver bisogno di acquistare beni primari. Sfortunatamente, queste due caratteristiche calano con l’età». E infatti le proiezioni Eurostat indicano un Pil anemico per l’Ue, prima sotto il 2%, poi, dal 2035, sotto l’1,5%. Un problema serissimo, eppure a livello Ue c’è poco. «L’inverno demografico – lamenta Antoine Renard, presidente della Fafce (Federazione delle associazioni delle famiglia cattoliche europee) – tocca tutta l’Europa, ma è come se non esistesse. Ai massimi livelli Ue non se ne parla mai». Peggio, la Commissione Europea, ammette un portavoce, «ha progressivamente spostato l’attenzione dalla demografia in generale all’attività in età avanzata». Tradotto: si punta semmai a prolungare l’età lavorativa, l’attività e la cura degli anziani, mentre il tema natalità resta quasi tabù per ragioni ideologiche. Certo, le politiche familiari sono pura competenza nazionale, ma l’Unione potrebbe creare un contesto più favorevole, la sola migrazione non può bastare (senza contare gli umori popolari). L’unica iniziativa a livello Ue in qualche modo collegata è la proposta di una direttiva sulla conciliazione tra lavoro e famiglia, lanciata nel 2016 dalla Commissione e ora in discussione tra Parlamento Europeo e Stati membri. Un’«eredità» delle Commissioni precedenti: è basata su una comunicazione del 2008, in cui si afferma che «è provato che gli Stati membri che si sono dotati di efficaci politiche per consentire a donne e uomini di trovare un equilibrio tra responsabilità lavorative e familiari hanno tassi di fecondità e di occupazione femminile più elevati». La direttiva punta ad aumentare, ad esempio, le possibilità di «paternità», e a garantire un minimo

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di quattro mesi di permessi. Del resto, osserva il rapporto del Cese, il tema della conciliazione è solo una delle componenti, altre sono la prevenzione della povertà, politiche a lungo termine, attenzione alle famiglie numerose. C’è però anche un fatto culturale: «Nella società contemporanea – scrive il Cese – il successo è principalmente definitivo in termini individuali e professionali. Ci sono invece altre forme di successo personale, collegate alla nostra relazione con gli altri e il bene comune, incluso il successo nella famiglia, la comunità o la vita culturale, cui bisognerebbe dare più attenzione». «È urgente – avverte Renard – avviare un’azione vasta, pressante e concordata per mostrare a ogni livello sociale, culturale e politico che la famiglia è la prima risorsa della società. Senza la famiglia l’Europa non avrà futuro. Le prossime elezioni europee rappresentano un’occasione fondamentale di svolta». IL GAZZETTINO Pag 1 La nuova alleanza contro la recessione di Oscar Giannino Gli oltre trentamila cittadini scesi in piazza a Torino per dire sì alla Tav senza vessilli né simboli di partito, le 12 associazioni d'impresa che l'altro ieri ancora a Torino hanno dato vita a un incontro senza precedenti per dire no alla decrescita: senza volersi avventurare in previsioni azzardate, quali sono in ogni caso le macroevidenze che mostrano agli occhi di tutti? Di sicuro indicano una realtà diversa da quella invalsa nell'interpretare ciò che è avvenuto alle ultime elezioni politiche, e via via nei sondaggi successivi a giugno, con la somma di Lega e Cinque Stelle tra il 55% e il 60% delle preferenze espresse. In media il 35% degli interpellati in quelle indagini demoscopiche non esprimeva consensi. Ora gli eventi torinesi mostrano che in quell'atteggiamento di muta sospensione del giudizio iniziano a manifestarsi segni espliciti di una delusione che ha preso corpo e spessore, sino a diventare una convinzione espressa al di fuori dell'offerta politica del 4 marzo. Tanto al di fuori che non è possibile in alcun modo ricondurla alle opposizioni dell'attuale maggioranza di governo. Le 12 associazioni d'impresa strette insieme alle Officine Grandi Riparazioni torinesi rappresentano insieme pressoché per intero il mix dell'economia italiana: la manifattura e l'industria, il commercio con la distribuzione grande e piccola, l'artigianato che da anni non è più il piccolo modo antico della manualità professionale ma è inserito nelle catene del valore industriale, l'agricoltura e le maggiori centrali cooperative. Oltre l'80% dell'export e del 65% del valore aggiunto nazionali, più di 13 milioni di occupati rispetto ai 23 milioni del nostro Paese. In una storia pluridecennale ormai alle spalle da tempo, la cosiddetta concertazione, i governi incontravano le decine di sigle datoriali e sindacali nella Sala Verde di palazzo Chigi. E la politica consisteva nella preferenza accordata a questa o quella delle istanze da loro rappresentate, non solo distinte ma quasi sempre contrapposte ed elidenti. La novità assoluta è la loro convergenza, ed è in questa scelta maturata senza alcuna forzatura il vero e più forte elemento di novità. Qualcuno ha parlato di delega ritirata alla Lega e ai Cinque Stelle. Ma se si trattasse di questo saremmo in presenza di toni e proposte che preludono a un'offerta politica nuova. Non è così, invece. Ed è forse per questo che Lega e Cinque Stelle rischiano di non comprendere la portata del fenomeno nuovo, liquidandolo con qualche battuta sferzante. Ciò che ha indotto le 12 associazioni a parlare insieme la stessa lingua è una crescente preoccupazione divenuto esplicito allarme. Da giugno i segnali economici di energica frenata si sono estesi e sommati. Non pesa solo la frenata dell'export, dovuto alla guerra commerciale internazionale tra Usa e Cina. Il contributo delle esportazioni al Pil del terzo trimestre si è attenuato fortemente rispetto al passato, dall'aumento tendenziale che nei quattro trimestri 2017 oscillava tra il +5 e il +6,4% si è scesi verso il +1%. Ma resta un apporto positivo, per quanto modesto. Ad averci risospinto in terreno negativo è il segno meno sulla domanda interna e sugli investimenti. E gli indicatori che anticipano il quarto trimestre segnano ulteriori peggioramenti: acquisti e ordinativi delle imprese, fiducia di aziende e famiglie, tutti in discesa. Tradizionalmente, se ci fermiamo alla mera materia fiscale le imprese manifatturiere chiedevano meno cuneo fiscale e meno Irap, mentre quelle del commercio e artigiane meno Irpef, per sostenere la domanda interna di consumi e il potere d'acquisto. Ora è la somma globale delle delusioni su ciascuno di questi terreni e al contempo su tutti insieme, rispetto alla legge di bilancio di Lega e Cinque Stelle, a disegnare agli occhi di tutti il rischio di una recessione in cui sembra ci si voglia infilare

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ignorando l'evidenza dei dati. E la grande novità è che a questo rischio un'alleanza tanto vasta di forze dell'economia reale decida di opporre un serio e motivato no, senza restare nel silenzio che vide sorprese e sgomente le imprese italiane nell'estate 2011, quando si scatenò l'uragano che chi ha regalato la peggior perdita di prodotto e di reddito del Novecento. Uscire dallo stallo delle grandi e piccole opere infrastrutturali bloccate da vent'anni è solo il compendio simbolico di questo no generale alla decrescita. Più investimenti e più innovazione e produttività, meno fisco su lavoro e impresa disegnano una ricetta molto diversa da quella della legge di bilancio. Senza più concessioni a divisioni e contrapposizioni, perché con lo spread e il maggior costo del credito e del debito siamo tutti sulla stessa barca. Non è la grande industria, non è l'alta borghesia finanziarizzata, non è l'élite globalista a parlare per la prima volta insieme questo linguaggio di consapevolezza. E' una vastissima porzione d'Italia che muove l'economia nazionale, del Nord e del Sud, interclassista e radicata in pressoché tutti gli scaglioni di reddito. Politica e governo farebbero bene a prenderla sul serio. Trimestri successivi di nuova recessione autoinflitta, credendo lucrino un trionfo elettorale, potrebbero tradursi invece in un esito molto diverso da quello sin qui promesso dai sondaggi. Oltre che economicamente molto doloroso per tutti gli italiani. Un'Italia che si esprime con la serietà e la dignità che mancano totalmente ai gilé gialli che devastano Parigi e bloccano la Francia lasciano probabilmente stupefatte le forze populiste. Ma rappresentano un patrimonio civile di operosità e coesione sociale contro il quale voler governare l'Italia è un azzardo totale. LA NUOVA Pag 4 La febbre del Nord cresce e il messaggio è per Salvini di Daniele Marini La campagna del Nord dei 5Stelle per ascoltare i produttori è iniziata. Di Maio ha incontrato a più riprese, nei giorni scorsi, i vertici delle categorie economiche. E ha cominciato da Nordest, dove la Lega ha la sua roccaforte. Troppo forte è il malessere di queste categorie per non cercare un'interlocuzione, per dimostrare attenzione alle loro istanze, oltre che per fare digerire misure (il reddito di cittadinanza) percepite come assistenzialistiche e improduttive. E per incalzare l'attivismo del collega Salvini. A maggior ragione adesso che il Pil, per la prima volta dal 2014, porta il segno meno e le prospettive per il 2019. La parola "recessione" rischia di essere domani una realtà concreta, e non solo uno spauracchio futuro. Insomma, il clima è di forte incertezza e preoccupazione. Al punto che - cosa rara - gli stessi ceti produttivi e le loro associazioni si mobilitano per reclamare una politica favorevole allo sviluppo e alla crescita. La febbre del Nord sta aumentando e la visione sul futuro di gran parte della popolazione (ricerca Centro Studi di Community Group) è di continuare a svilupparsi (84,4%), non di decrescere (15,6%). Il bersaglio palese di tali manifestazioni sono le posizioni dei pentastellati sulle infrastrutture e sul mondo del lavoro, frutto di una cultura che attinge ai filoni della decrescita e di un'idea dell'imprenditoria fatta di sfruttamento e capitalismo speculativo. Ma c'è un obiettivo sotteso e ben più dirompente: sollecitare la Lega (e Salvini) a farsi portatrice delle istanze della sua base elettorale. Perché il cortocircuito fra imprenditori e Lega nasce dalla sua sostanziale assenza nel sostenere le sollecitazioni dei produttori. Nel disegnare politiche di sviluppo e di investimento coerenti con la competitività del paese. C'è un contatto che genera un cortocircuito e si trova nel "contratto". Quello sottoscritto dalla Lega corrisponde solo parzialmente al mandato dei suoi elettori. Perché quel "contratto" è frutto di un accordo successivo per la necessità di formare un governo e trovare una piattaforma comune con i 5S. Salvini per andare a governare - e diventare un soggetto politico nazionale - ha contenuto le istanze produttive per muoversi maggiormente su temi di opinione nazionale (immigrati, sicurezza, pensioni). Ma così facendo ha limitato le iniziative sul piano economico, pensando di far diventare i 5S l'unico bersaglio dei ceti produttivi. Oggi, l'equilibrismo leghista della sua osservanza contrasta con le domande del Nord, e rischia di ritorcersi contro. Gli italiani hanno bisogno di figure politiche "forti", nel senso di qualcuno che dia una svolta radicale a una società e a istituzioni bloccate da troppo tempo. Così, ieri grande era il consenso al "rottamatore" Renzi, oggi grande approvazione al "ruspatore" Salvini. La ruspa scava, movimenta e distrugge, ma non costruisce. E con una

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prospettiva di difficoltà economica, c'è bisogno anche di qualcuno che edifichi per il futuro. Pag 14 Proibire il gioco d’azzardo è la scelta di uno Stato etico di Ferdinando Camon Il padre che gioca al Gratta e Vinci è un cattivo padre, il marito che gioca alle slot machines è un cattivo marito, chi pensa di fare soldi col gioco d'azzardo fa il proprio male e il male di chi vive con lui. Non è questione di stupidità, anche Dostoievski era un giocatore d'azzardo ma non si può dire che fosse stupido. Non è una questione di cervello ma di nervi, l'azzardo ha un'irrazionale forza di seduzione, chi ne è vittima va guarito prima che punito. Il prete veronese, che avrebbe speso alle slot machines circa 900mila euro raccolti tra i parrocchiani per opere di bene, a quanto risulta era un ottimo prete, attirava i fedeli e faceva presa su chi lo frequentava, solo che era caduto, da uomo come tutti, sotto il miraggio di aver molti soldi a disposizione, e questo miraggio è un raggio del sole del potere: avere soldi vuol dire aver potere. Se giocare d'azzardo è irrazionale, il freno dovrebbe venire dalla razionalità. Basta ragionare per smettere. Giocare al totocalcio lo san fare tutti, tutti pensano che le probabilità di vincita siano alte, si tratta di indovinare 14 risultati, non sono tanti. Ma non è così. Per indovinare una partita devi compilare tre colonne, per indovinarne due devi compilare non sei ma nove colonne, per indovinarne 14 devi compilarne una quantità gigantesca, gli esperti dicono 1/3 alla quattordicesima potenza: e invitano a pensare che hai più probabilità di imbroccare Sharon Stone facendo un numero telefonico a caso della California. Stai compilando una schedina? Pensa a Sharon Stone e rinuncia. Chi gioca d'azzardo spesso è buono, perché pensa che se vince farà buon uso del denaro. Purtroppo il gioco è inventato non per far vincere il giocatore ma il tavolo. In quel momento chi gioca non lo sa, e se non vince pensa che sia sfortuna, e ritenta. Pensa che se vince vivrà alla grande, lui e sua moglie e la sua famiglia, quindi se gioca è per amore della famiglia. Non gioca per combattere la noia, ma per realizzare un sogno di potenza. Se continua a perdere, si sente un martire della famiglia, e a casa si sente in credito con la famiglia, non in debito. Non è colpevole di rovinarla, è l'amore per la famiglia che rovina lui. I giocatori sono megalomani, sognano in grande, vogliono la super-vita, non si accontentano della vita normale. La vita normale è grama. Nelle epoche di crisi, come questa, la vita normale è super-grama, è misera, perciò nei tempi e nelle zone di crisi il gioco d'azzardo fiorisce. Lo Stato lo sa e sull'azzardo impianta nuove tasse. Come se dicesse: "Rovinatevi, ma arricchitemi". Non è uno Stato etico. Etico sarebbe proibire l'azzardo. AVVENIRE di martedì 4 dicembre 2018 Pag 1 Sulla strada dell’ “Avvenire” di Marco Tarquinio Tre parole. Più una quarta: fraternità Cinquant’anni fa, quando 'Avvenire' arrivò per la prima volta in edicola e nelle case degli abbonati, il direttore che lo tenne a battesimo – Leonardo Valente – scrisse che coloro che si accingevano all’impresa di costruire 'il' giornale nazionale di ispirazione cattolica intendevano farne uno «strumento comune di ricerca, di proposta e di partecipazione». Programma impegnativo. Imperniato su tre parole miti e forti, buone per oggi come per allora, e che oggi, anzi, suonano in modo provocatorio, perché alternative a propagande, rabbie, volgarità e nichilismi travestiti da informazione, da politica e persino da religione. Ricerca ovvero «uscita» da sé e da ogni sentenziosa certezza, ovvero strada verso la Verità, a passi grandi e anche piccoli, come le minuscole verità della cronaca. Proposta, cioè l’esatto contrario dell’imposizione e dell’indifferenza, cioè l’annuncio secondo i cristiani, cioè laicamente l’atteggiamento proprio di chi dimostra coi fatti di credere che gli esseri umani sono davvero tutti uguali e meritano tutti lo stesso ascolto, le stesse occasioni, lo stesso rispetto. Partecipazione, che è un altro, personale e generoso nome della libertà e della responsabilità. È un programma che vogliamo continuare a onorare, sostenuti da un Editore 'garante' della nostra autonomia e della nostra coerenza con l’impegno assunto di informare per «fare del bene» non per «farsi clienti» (clienti nostri, i lettori; clienti dei potenti di turno, noi stessi). Per questo non abbiamo paura di

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ritrovarci in minoranza o di essere fraintesi. Per questo – non mi stanco di ripeterlo – non abbiamo paura, in una stagione segnata da incredulità e nuove idolatrie, di trovare compagni di strada (di ricerca, di proposta, di partecipazione...) che vengono da percorsi diversi dai nostri eppure etsi Deus daretur sono disposti a vivere e a spendersi per il buono, il bello e il vero, non lasciando all’«io» più irresponsabile il posto di Dio. Cominciamo oggi, un nuovo e appassionante tratta di strada. Lo facciamo anche rinnovando – all’insegna della leggibilità, secondo i suggerimenti di tanti lettori – la forma grafica del nostro giornale. Lo facciamo confermando la fedeltà al mandato cristiano e civile che Paolo VI affidò alla 'gente d’Avvenire' all’indomani del Concilio: costruire unità nella Chiesa e nella società, difendere l’umanità, vedere bene tutta l’Italia, capire e spiegare il mondo, mettere sempre i piccoli e i senza voce al primo posto. Un mandato che papa Francesco lo scorso primo maggio ha scolpito per noi in maniera indimenticabile: «Nessuno detti la vostra agenda tranne i poveri, gli ultimi, i sofferenti...». Tre parole miti e forti ci sono di guida e desideriamo condividere: ricerca, proposta, partecipazione. Più una quarta, alla quale è urgente ridare pieno corso morale e politico. È parola che può rianimare il mondo e dare senso anche all’informazione: fraternità. È la strada dell’Avvenire che siamo e che saremo. Pag 3 “Un Paese frammentato, in cerca di una nuova élite” di Alessandro Zaccuri Il presidente del Censis De Rita: “Ogni 25 anni si invoca il cambiamento. Gli italiani sono il popolo della sabbia, c’è una continuità tutta da interpretare” Prima dei saluti, guardo ancora una volta tra gli scaffali: l’edizione dell’Encyclopédie in anastatica, i Sonetti del Belli nel loro cofanetto nuovo fiammante, tanti classici, molte immagini sacre. «Il Talmud dove lo tiene?», domando. «A casa», risponde sollecito Giuseppe De Rita, ma dal tono si intuisce che è solo l’inizio della risposta. «Però guardi che il Talmud non è un libro – aggiunge infatti –. È un processo continuo, è il lavoro e la sfida dell’interpretazione ». Non casualmente, fra gli autori citati con maggior frequenza da De Rita c’è Emmanuel Lévinas, il pensatore per il quale il commento sapienziale della Scrittura ebraica è insieme metodo e programma. Da oltre mezzo secolo, del resto, questo fa De Rita: interpreta l’Italia, che molti si ostinano a considerare irriducibile a ogni interpretazione. «L’idea di un rapporto sulla situazione del Paese era venuta agli americani, che però avevano rinunciato – ricorda il sociologo durante il nostro incontro nel suo studio romano del Censis –. All’inizio degli anni Sessanta, quando con Gino Martinoli e Pietro Longo fondammo il Centro studi investimenti sociali, ci sembrò che si potesse riprendere quello spunto, adattandolo alla realtà italiana. “Lei deve avere un ego smisurato”, mi disse qualche tempo dopo uno degli esperti statunitensi che avevano deciso di abbandonare il progetto. Può darsi che avesse ragione, non discuto. Resta il fatto che l’Italia è un Paese meno indecifrabile di quanto si creda. Forse perché, a dispetto dei ricorrenti appelli alla discontinuità, è caratterizzato da un’insospettabile continuità di fondo». Dal 1967 (data del primo storico Rapporto Censis, nel quale già si celebrava l’«addio alla società semplice») fino al 2016 è sempre stato De Rita a stilare le Considerazioni generali poste in apertura del documento. Una volta ceduto il passo all’attuale segretario generale, il figlio Giorgio, il presidente del Censis ha voluto raccogliere quei testi in un corposo volume edito da Mondadori. Il titolo, Dappertutto e rasoterra, è anche una sintesi della tensione fra auspicata discontinuità e continuità effettiva che, secondo De Rita, permette di comprendere meglio quanto sta accadendo in questi mesi. «Dallo scorso anno non sono più io a firmare le Considerazioni generali – ribadisce –, ma l’esigenza di interpretare rimane. Mi viene da dire che mai come oggi l’Italia ha bisogno del Talmud non meno che del Vangelo: di una logica che sia mobile e duttile, ma non compiacente». La discontinuità, per cominciare. «Si tratta di uno dei grandi temi della retorica nazionale e, in quanto tale, nasconde più di un’insidia – osserva De Rita, che nel luglio scorso ha compiuto 86 anni –. Il cambiamento viene invocato a più riprese, secondo un ritmo che dall’8 settembre del 1943 ha una base di venticinque anni. Ci faccia caso: un quarto di secolo è la distanza che separa l’Armistizio dal Sessantotto ed è anche quella che corre tra il deflagrare della contestazione giovanile e la tempesta di Tangentopoli, nel ’93. Altri venticinque anni ed eccoci alle elezioni del 4 marzo 2018, al contratto di Governo, al Governo del cambiamento. Il problema è che, di volta in volta, l’entusiasmo è passeggero e la palingenesi viene

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puntualmente rimandata. Ma questo non vuol dire che il Paese sia impermeabile alle trasformazioni. Mi torna in mente il dibattito tra Enrico Berlinguer e Bettino Craxi sul finire degli anni Settanta. Allora era il segretario del Pci a battersi per un “Governo del cambiamento”, mentre il suo collega socialista era persuaso che il cambiamento andasse governato, sì, ma che in sostanza fosse già in atto. Uno chiedeva, l’altro vedeva, entrambi appartenevano alle élite che, lungo tutto il Novecento, si sono fatte carico di dare forma a istanze che altrimenti sarebbero rimaste pulviscolari. Gli italiani, si è detto, sono il popolo della sabbia, un insieme di individualità che faticano a esprimersi in forma comunitaria. Esattamente a questo è servita, nei decenni passati, quella classe dirigente di cui oggi pare si siano perse le tracce». Secondo De Rita, non è dal rischio di una involuzione autoritaria che occorre difendersi: «Se guardiamo al passato – suggerisce – il desiderio del cambiamento a ogni costo ha sempre trovato una valvola di sfogo, che per molti aspetti rientra appunto nella formula del “dappertutto e rasoterra”. Nell’immediato dopoguerra, per esempio, la ricostruzione è passata per una serie di iniziative molecolari. Allora era il singolo padre di famiglia ad accordarsi con il geometra di fiducia per rimettere in sesto la casa, in una dinamica non diversa da quella che, passando per il “sommerso” degli anni Settanta, ha fatto sorgere la trama di piccole imprese locali dalla quale è poi nato il made in Italy e nella quale, in definitiva, si è spenta la violenza innescata dalle frange estreme della contestazione. Ed è ancora alla figura del piccolo imprenditore che fece appello Silvio Berlusconi sul crinale del ’93, offrendo un’ulteriore valvola di sfogo alla rabbia che covava nel Paese. Venendo al presente, bisogna ammettere che ancora non capiamo come la discontinuità possa rientrare nell’alveo della continuità. Per la prima volta nella storia della Repubblica, chi raccoglie voti sul territorio non riesce a interpretare la complessità che il territorio stesso esprime. Anche l’azione di governo procede per segmenti, nel tentativo di accontentare chi vuole o non vuole la Tav o il Tap, chi si aspetta il reddito di cittadinanza, chi pretende provvedimenti ancora più restrittivi in termini di sicurezza. Le riforme si adeguano a questo criterio frammentato, senza mai trasmettere un autentico sentimento di futuro». Abile coniatore di metafore, De Rita mostra di apprezzare l’immagine del “Paese sospeso” con il quale il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, si è di recente riferito alla situazione italiana. «In un certo senso, mi pare che sia sempre stato così – dice –. Di certo, fino al marzo scorso, abbiamo assistito a una crescita del rancore che, a mio giudizio, sta almeno in parte defluendo. Tutto sta a capire che cosa possa venire dopo il rancore: un effettivo ritorno alla normalità oppure un’esplosione della rabbia, magari innescata da una crisi del sistema bancario, come temono alcuni? Il mio timore, a questo punto, è che manchino le personalità autorevoli, disposte ad assumersi le responsabilità che la complessità dei tempi comporta. Ora come ora, il solo riferimento sicuro è rappresentato dal presidente Mattarella, che non per niente appartiene a una tradizione di classe dirigente ben preparata e capace, appunto, di farsi carico della crisi». Non è questione di casta o non casta, avverte De Rita: «Davanti al rischio di deriva occorre una élite capace di fare la propria parte. Ma per formare una élite di questo tipo occorre, una volta di più, un’idea generale della società, che al momento non mi pare di vedere all’orizzonte. Motivo per cui torno sulla mia convinzione del “dappertutto e rasoterra”: continuità e discontinuità si misurano sulla base di processi diffusi, non sul trasformismo delle sovrastrutture di potere, che per garantire la propria sopravvivenza si concentrano sul presente. Sa qual è stato, in questo mezzo secolo, il peggior nemico della società italiana? La cronaca, intesa come successione di fatti scollegati l’uno dall’altro, buoni tutt’al più per sorreggere il commento del politico di turno. Ma la cronaca, di per sé, non spiega nulla, non è una conferma né una smentita». Tra pochi giorni, il 7 dicembre, il Censis presenterà il 52mo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. Giuseppe De Rita non vuole anticiparne i contenuti, ma alla fine lascia trapelare un indizio: «Mi ha colpito, nelle Considerazioni redatte mio figlio Giorgio, una citazione tratta da Gianni Rodari. Era uno degli autori prediletti da mia moglie Maria Luisa, morta nel 2014. In un frangente come quello in cui ci troviamo, questo ricorso alle parole della madre mi ha fatto molto riflettere. Ma non mi ha stupito troppo, lo confesso: anche per me quella donna, mia moglie, è stata il vero Talmud». IL GAZZETTINO di martedì 4 dicembre 2018

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Pag 1 Il ritorno della borghesia che rinuncia alla delega di Alessandro Campi In un Paese intriso di cultura anti-borghese, l'attivismo politico della borghesia ha sempre ingenerato il sospetto di pericolose trame classiste contro i lavoratori o dato il pretesto per rappresentazioni caricaturali di una fetta di società che si immagina preoccupata soprattutto di come vestirsi per andare al ristorante o di quale località scegliere per le proprie vacanze (mentre il popolo, va da sé, tira la cinghia). Gli intellettuali italiani, d'estrazione in prevalenza borghese e piccolo-borghese, dunque portati all'autodenigrazione per timore d'apparire megafoni ideologici del loro ceto, sono stati specialisti nel costruire simili stereotipi negativi. Se altrove il borghese è stato considerato un produttore di ricchezza (per sé e gli altri) proprio in virtù della sua noiosa ripetitività e del suo senso del dovere talvolta maniacale, nell'Italia sempre a caccia di sensazioni e dominata dagli umori se n'è fatto un tipo umano retrivo, segnato dall'egoismo e dalla tendenza al bigottismo. Una deformazione che ha segnato tutte le culture politiche del Novecento italiano dal fascismo al popolarismo cattolico, passando per il comunismo e che oggi si ritrova nel grillismo politico-giornalistico (l'anti-borghesismo è ciò che ancora oggi unisce tutti i populismi). Accade così, per limitarci alla cronaca di queste settimane, che se sette signore della buona società torinese si mettono a capo di una manifestazione a sostegno della Tav, per guidare la protesta dei produttori contro una politica che inibisce lo sviluppo e gli investimenti, si tenda a delegittimarle (e dileggiarle) come madamine annoiate ignare della materia che trattano o, peggio ancora, come agenti involontari di un sistema di potere che dietro le parole d'ordine della crescita nasconde in realtà la difesa dello status quo affaristico o chissà quali altri loschi intenti. Ma la storia insegna che quando i ceti borghesi si mettono autonomamente in moto, in polemica proprio con chi dovrebbe politicamente rappresentarli, ne scaturiscono rivoluzioni sociali più serie di quelle realizzate dal popolo quando assalta le barricate e impicca qualche nemico di classe. Che è la regione per cui quello che sta succedendo in Italia da qualche settimana (e quello che è accaduto ieri a Torino, con la riunione di tremila esponenti delle categorie produttive per chiedere al governo politiche di rilancio economico) andrebbe seguito con maggiore interesse. Per ciò che ci dice su come è cambiata la politica nell'epoca segnata dalla fine dei partiti di massa e su come potrebbe cambiare ancora nel contesto della crisi crescente dei tradizionali canali di rappresentanza. Cosa fare quando la politica smette di ascoltare la società (per eccesso di autoreferenzialità) o scopre di non avere più gli strumenti per farlo? Si punta sulle promesse di rinnovamento di un nuovo attore politico, che si annuncia più ricettivo dei precedenti. Ma nel caso una simile strategia dovesse fallire l'unica soluzione è organizzarsi in proprio. E' quanto accaduto in Italia negli ultimi anni. Malamente conclusosi il ciclo berlusconiano, il mondo professionale-imprenditoriale, appunto in senso lato borghese, per definizione più attento alle questioni dello sviluppo economico e più interessato al buon funzionamento della macchina burocratico-statale, ha inizialmente strizzato l'occhio all'esperimento dei governi tecnici, confidando in una politica all'insegna finalmente del buon senso e del pragmatismo. Ma prima Monti poi Letta hanno invece dato l'impressione di perseguire il rigore contabile (così come richiesto dall'Europa) senza però alcuna idea strategica su come rilanciare il sistema economico-produttivo nazionale. Gli stessi ambienti hanno quindi visto in Renzi una sinistra attenta, oltre che alla giustizia sociale e all'eguaglianza, anche al merito e alla crescita. Ma l'idillio col segretario del Pd si è rotto per le stesse ragioni che avevano prodotto il disincanto verso la rivoluzione liberale del Cavaliere: troppi annunci e poche realizzazioni, una retorica modernizzatrice che nascondeva in realtà il permanere di antiche incrostazioni ideologiche, una visione eccessivamente personalistica del potere che invece di favorire il dialogo con le parti sociali tendeva a delegittimarle in quanto fautrici di una visione corporativa della società superata dalla capacità del leader di dialogare col popolo senza filtri. Ne è nata una frustrazione che, complice l'avvitarsi del Pd nelle lotte intestine, ha finito per dirottarsi, anche con intenti punitivi verso le promesse inevase dai governi precedenti, sul mondo grillino e, in parte, leghista. Ma anche quest'ultimo atto di delega non sembra aver funzionato per svariate ragioni. I pregiudizi nei confronti delle grandi opere infrastrutturali, dettati da un ambientalismo basato sul mito infantile della decrescita felice. L'idea, tipica del democraticismo grillino, che il dilettantismo del cittadino (magari nel frattempo divenuto ministro) sia da

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preferire alla competenza del tecnico (sospetto per definizione di appartenere ai poteri forti). Scelte di governo, come quelle contenute nella Legge di stabilità, improntate in larga parte a logiche assistenzialistiche e alla redistribuzione, in cambio di consenso, d'una ricchezza nazionale che non si capisce da chi venga prodotta. Un anti-europeismo irrazionale e rumoroso che non promette nulla di buono per i risparmi dei cittadini e l'attività delle imprese. Dopo averle provate tutte non restava che auto-organizzarsi e battersi in prima persona per gli interessi (legittimi) di cui si è portatori. Che è appunto quello che sta succedendo: un pezzo di società che politicamente si mette in proprio e prova a rappresentarsi da sola, senza più deleghe a forze politiche che sembrano aver dimenticato cosa significhi governare, ascoltando e mediando, una società complessa e articolata. I social media oggi favoriscono nuove forme di soggettività politica collettiva. Quando c'è da scendere in piazza per protestare in maniera violenta, come sta accadendo in Francia. Oppure quando c'è da dare corpo a istanze ed esigenze che un tempo, in mancanza di un partito disposto a farsene carico, sarebbero rimaste confinate in una sfera ristretta. Ieri a Torino non si è raggrumata una nuova forma di opposizione politica in attesa del prossimo leader. Ma non si è nemmeno mobilitata la società civile cara alla sinistra, quella che va in piazza per le grandi cause etiche ed umanitarie. L'impressione è che si sia compattato per farsi sentire su temi concreti: lavoro, efficienza della burocrazia, infrastrutture un blocco sociale che naturalmente non può parlare a nome di tutti (questa è invece la pretesa dei populisti: la parte che vuole interpretare il tutto) ma che di certo rappresenta un segmento sociale (ed economico) fondamentale per il futuro del Paese. Che tutto ciò stia accadendo a Torino naturalmente non è un caso. E' la città d'Italia dove storicamente la borghesia (piccola, media e grande) non è stata solo una classe economica, ma anche uno stile di vita e una mentalità. Improntati all'operosità sul lavoro, al senso del dovere e alla disciplina, ma anche i borghesi, nel loro piccolo, ogni tanto si incazzano... LA NUOVA di martedì 4 dicembre 2018 Pag 5 I padri non c’entrano, le bocciature dei figli sono politiche di Roberto Weber "Ho detto a mio padre che deve smaltire i frigoriferi e non li deve lasciare in campagna...". Così Luigi Di Maio, dopo che la polizia municipale aveva rinvenuto dei materiali inerti sui terreni di proprietà della famiglia. Più opportunamente io suggerirei a Di Maio, alla Boschi, a Renzi etc. etc. di "smaltire" loro - non i frigoriferi, o le banche, o le relazioni improprie - ma i propri padri. Eh sì, li smaltissero questi loro padri impiccioni, pasticcioni, e ci lasciassero finalmente liberi di giudicare i figli per quello che effettivamente valgono. In questi casi infatti corriamo sempre il rischio di farci trascinare dalla cosiddetta macchina del fango e dai social sui cui queste "notizie" dilagano, andando a nutrire le istanze giudicanti degli italiani. Berlusconi invece, il grande statista moderato, le cui gesta ormai sembrano affondare nella notte dei tempi, sotto questo punto di vista era impeccabile. Quando le "combinava", lo faceva di persona, non c'entrava la famiglia. Il bersaglio era lui, i guai erano i suoi, le toppe che ci metteva, le metteva lui di persona, le registrazioni telefoniche c'erano, le immagini molto spesso anche. Era facile giudicare, eppure... eppure mezza Italia lo giudicava con asprezza e l'altra mezza lo assolveva. Senza contare che poi a questi benedetti incolpevoli figli viene sottratta la verità sul proprio operato. Accade infatti che quando sono costretti ad andarsene - perché perdono i referendum o le elezioni - gli rimane come giustificazione, l'idea che senza la macchina del fango, senza le devastanti fake news avrebbero vinto, ce l'avrebbero fatta, per cui passato lo smarrimento iniziale, ci riprovano. È il caso della Boschi, di Renzi, non vedo perché domani non potrebbe essere il caso di Luigi Di Maio. Ci siamo capiti? Se li inchiodiamo su queste cose qua, forniamo il più comodo degli alibi, li mettiamo in condizione di rimuovere le ragioni vere per cui hanno perso consenso. Renzi è stato mandato a casa perché ha sbagliato politicamente, non dando ascolto ai milioni di italiani che chiedevano protezione. Di Maio probabilmente perderà tutte o quasi le elezioni regionali e perderà pure quelle Europee perché il Movimento 5 Stelle - che lui guida - ha promesso il cambiamento senza riuscire a concretizzarlo. Funziona così. Ma, è bene sottolinearlo, il giudizio è guidato da motivazioni di sostanza, ha una matrice politica. La persona, la sua immagine pubblica, i possibili guai privati, hanno rilevanza, ma solo quando la traiettoria del suo percorso politico, gli obiettivi che si era

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posto, le risposte alle attese che aveva suscitato, si rivelano fallimentari. In conclusione, Di Maio tiri dritto e pensi quanto più possibile alla rotta da dare al suo M5S. Se morire deve - parliamo di morte politica, ovviamente - non morirà per le marachelle del padre, ma per le inadeguatezze di lui figlio. Torna al sommario