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RASSEGNA STAMPA di giovedì 8 settembre 2016 SOMMARIO “La piccola Madre era di fisico minuto; aveva però una grande anima ed è riuscita a far sentire la sua voce ai potenti della terra. La sua testimonianza, il suo servire Cristo, interpella credenti e non credenti. Quella piccola “matita di Dio” ha sempre scritto sotto la divina dettatura e per questo ci ha insegnato e continua ad insegnarci molte cose”: inizia così lo scritto del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia, affidato alle pagine del settimanale diocesano Gente Veneta oggi in uscita (testo integrale sul giornale ed ora anche su www.patriarcatovenezia.it ) e con cui “consegna” la nuova santa - canonizzata domenica scorsa da Papa Francesco - alla Diocesi ed in particolare a tutti i volontari che operano nell’ambito della carità. Santa Teresa di Calcutta, osserva il Patriarca, “ha compiuto le scelte più radicali con grande semplicità, in spirito di profonda comunione ecclesiale. Mai vi è stato, in lei, un atteggiamento di polemica o di rottura. E così ci ha detto come un carisma, anche e seppur nuovo, si possa vivere non dividendo, non mirando a finire sui giornali e soprattutto non giudicando la Chiesa; di questo le siamo grati”. E ai volontari sottolinea che “Teresa fu innanzitutto un’anima eucaristica; per lei la carità nasceva non da una scelta sociologica ma da Gesù Eucaristia, adorato e colto come presenza di salvezza per il mondo. Seguitela fedelmente, ogni giorno, su questa strada”. Mons. Moraglia invita poi a riprendere il discorso che Madre Teresa pronunciò nel 1979 in occasione della consegna del Premio Nobel per la pace e a non dimenticare l’insegnamento reso con la sua forte determinazione a favore della vita: “Stando accanto agli ultimi - a Calcutta come in tante periferie del nostro pianeta - ci ha fatto capire che davanti a Dio e agli uomini la vita di ogni persona è sacra e nessuno può essere considerato uno “scarto”. La vita, allora, va rispettata e tutelata in ogni momento, dal suo sbocciare al suo naturale spegnersi”. “Santa Teresa di Calcutta - conclude il Patriarca nel suo messaggio - aiuti ogni volontario e volontaria e l’intera nostra amata Chiesa di Venezia a compiere “con grande amore” quelle piccole cose che oggi ci sono richieste per il bene e la pace di tutti, nel rispetto della vita e nell’accoglienza delle singole persone”. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Nasce il libro del Verbo della vita di Manuel Nin La Natività della Madre di Dio nella tradizione bizantina Pag 5 Ecumenismo della conversione di Giovanni X Yazigi Pag 8 Nessun ostacolo alla misericordia All’udienza generale il Papa ricorda che Gesù non è venuto per punire i peccatori ma per invitare alla conversione CORRIERE DELLA SERA Pag 19 Benedetto si racconta: “Decidere non è il mio forte, ma non mi sento un fallito” Pag 19 Straordinaria la libertà con cui parla di sé e di Bergoglio di Luigi Accattoli LIBERO Metà dei pellegrini previsti. Il Giubileo sta facendo flop di Caterina Maniaci A due mesi e mezzo dalla chiusura poco più di 15 milioni i fedeli arrivati a Roma, contro gli oltre 30 milioni previsti. La delusione dei commercianti IL FOGLIO

Rassegna stampa 8 settembre 2016 - patriarcatovenezia.it · poi a riprendere il discorso che Madre Teresa pronunciò nel 1979 in occasione della consegna del Premio Nobel per la pace

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Page 1: Rassegna stampa 8 settembre 2016 - patriarcatovenezia.it · poi a riprendere il discorso che Madre Teresa pronunciò nel 1979 in occasione della consegna del Premio Nobel per la pace

RASSEGNA STAMPA di giovedì 8 settembre 2016

SOMMARIO

“La piccola Madre era di fisico minuto; aveva però una grande anima ed è riuscita a far sentire la sua voce ai potenti della terra. La sua testimonianza, il suo servire

Cristo, interpella credenti e non credenti. Quella piccola “matita di Dio” ha sempre scritto sotto la divina dettatura e per questo ci ha insegnato e continua ad insegnarci molte cose”: inizia così lo scritto del Patriarca di Venezia Francesco Moraglia, affidato alle pagine del settimanale diocesano Gente Veneta oggi in uscita (testo integrale sul giornale ed ora anche su www.patriarcatovenezia.it) e con cui “consegna” la nuova

santa - canonizzata domenica scorsa da Papa Francesco - alla Diocesi ed in particolare a tutti i volontari che operano nell’ambito della carità. Santa Teresa di Calcutta, osserva il Patriarca, “ha compiuto le scelte più radicali con grande semplicità, in

spirito di profonda comunione ecclesiale. Mai vi è stato, in lei, un atteggiamento di polemica o di rottura. E così ci ha detto come un carisma, anche e seppur nuovo, si

possa vivere non dividendo, non mirando a finire sui giornali e soprattutto non giudicando la Chiesa; di questo le siamo grati”. E ai volontari sottolinea che “Teresa

fu innanzitutto un’anima eucaristica; per lei la carità nasceva non da una scelta sociologica ma da Gesù Eucaristia, adorato e colto come presenza di salvezza per il mondo. Seguitela fedelmente, ogni giorno, su questa strada”. Mons. Moraglia invita poi a riprendere il discorso che Madre Teresa pronunciò nel 1979 in occasione della

consegna del Premio Nobel per la pace e a non dimenticare l’insegnamento reso con la sua forte determinazione a favore della vita: “Stando accanto agli ultimi - a Calcutta come in tante periferie del nostro pianeta - ci ha fatto capire che davanti a Dio e agli uomini la vita di ogni persona è sacra e nessuno può essere considerato uno “scarto”.

La vita, allora, va rispettata e tutelata in ogni momento, dal suo sbocciare al suo naturale spegnersi”. “Santa Teresa di Calcutta - conclude il Patriarca nel suo

messaggio - aiuti ogni volontario e volontaria e l’intera nostra amata Chiesa di Venezia a compiere “con grande amore” quelle piccole cose che oggi ci sono richieste per il

bene e la pace di tutti, nel rispetto della vita e nell’accoglienza delle singole persone”.

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Nasce il libro del Verbo della vita di Manuel Nin La Natività della Madre di Dio nella tradizione bizantina Pag 5 Ecumenismo della conversione di Giovanni X Yazigi Pag 8 Nessun ostacolo alla misericordia All’udienza generale il Papa ricorda che Gesù non è venuto per punire i peccatori ma per invitare alla conversione CORRIERE DELLA SERA Pag 19 Benedetto si racconta: “Decidere non è il mio forte, ma non mi sento un fallito” Pag 19 Straordinaria la libertà con cui parla di sé e di Bergoglio di Luigi Accattoli LIBERO Metà dei pellegrini previsti. Il Giubileo sta facendo flop di Caterina Maniaci A due mesi e mezzo dalla chiusura poco più di 15 milioni i fedeli arrivati a Roma, contro gli oltre 30 milioni previsti. La delusione dei commercianti IL FOGLIO

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Pag 2 Chi sono gli atei cattolici che in Europa si ribellano a Papa Francesco di Matteo Matzuzzi Niente di nuovo, si torna a Charles Maurras WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT L'amore giovanile di Ratzinger e quelli degli altri Papi di Andrea Tornielli Il giornalista Peter Seewald rivela a «Die Zeit» che Benedetto XVI visse un «grande amore» che rese difficile la sua scelta per il celibato 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 30 Le donne e il femminismo al bivio della maternità di Lucetta Scaraffia AVVENIRE Pag 2 Dalla parte dei nonni (giustizia e amore) di Ferdinando Camon S’incatenano in Veneto per non “perdere” la nipotina Pag 3 Sul lavoro politiche finalmente attive di Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi Speriamo sia la volta buona dopo troppi ritardi IL GAZZETTINO Pag 1 Economia e crescita, i veri numeri di Italia e Germania di Marco Fortis 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 25 Un cuore per sostenere la Scuola di San Rocco di P.G. Il progetto di Jaeger-LeCoultre per la tutela delle bellezze da tre anni finanzia i restauri dell’edificio e delle sue opere 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 1 Le “buone notizie secondo Anna”, pagine d’amore per la figlia Down di Federica Cappellato Facebook e blog: la sfida di un papà 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 34 di Gente Veneta in uscita venerdì 9 settembre 2016: Pag 1 Madre Teresa ha parlato ai potenti della Terra di Francesco Moraglia Pagg 1, 4 – 5 Perché credere, al via la Scuola Iniziano le iscrizioni per la formazione teologica dei laici. Il Patriarca Francesco: «Oggi è ancora più importante saper dire le ragioni della propria fede» Pag 6 Scuola al via, paritarie al palo: dove sono i soldi? di Serena Spinazzi Lucchesi Ancora fermi i 42 milioni di euro destinati dal Miur alle scuole per l’infanzia del Veneto: colpa di un ricorso delle paritarie di Confindustria, che hanno scopo di lucro. Ma le scuole attendono anche i 38 milioni della Regione: in arrivo, forse, a ottobre Pag 7 La Chiesa italiana si rigenera intorno all’Eucaristia di mons. Orlando Barbaro Fonte di incoraggiamento e di rinnovamento, il Congresso Eucaristico ha tre finalità principali: promuovere la centralità dell’Eucaristia, metterne in evidenza la dimensione

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sociale, migliorare la comprensione e la celebrazione della liturgia. A Venezia, nella chiesa di S. Silvestro, messa giovedì 15 settembre (ore 20.30) con il Patriarca in contemporanea all’apertura del Congresso Pag 11 Tolentini, sagrato liberato (per un po’) dal degrado di Francesca Catalano Fino a domenica 11 tende-zanzariere, montate su una struttura lignea, delimitano lo spazio dei gradini. Installazione temporanea realizzata da due studenti dello Iuav per ribadire la funzione originaria della scalinata oggi utilizzata da turisti e universitari per riposare e bere l’aperitivo: «Così se ne torna a cogliere il significato spirituale» Pag 13 Volontariato: mezzo milione di euro per 183 progetti di Chiara Semenzato Stabiliti, dal Centro di Servizio per il Volontariato, quali interventi hanno diritto ad un contributo. Divisi in due bandi, sosterranno soprattutto azioni di solidarietà a persone con disagio psichico o fisico. 102mila euro per piccoli investimenti. Il presidente del Csv, Giorgio Brunello: «Volevamo premiare chi lavora in rete, una tendenza ancora carente» Pag 16 Tre nuove suore per S. Maria Goretti di Giorgio Malavasi Sono della congregazione delle Figlie di Sant’Anna, nata in India nel 1897. In Italia sarà la loro settima comunità. Si dedicheranno al patronato, alla catechesi, alla scuola materna. Il parroco: «Porteranno la loro sensibilità femminile, il saper creare relazioni...» … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’Italia e i sospetti europei di Maurizio Ferrera Flessibilità sul deficit Pag 5 Il caos romano fa regredire il movimento di governo di Massimo Franco Pag 8 Onestà e sospetti, tre mesi di liti di Goffredo Buccini L’ingresso trionfale in Comune. Poi tensioni, nomine opache e addii fino all’inchiesta nascosta Pag 10 Un muro per fermare i migranti a Calais di Paola De Carolis e Franco Venturini Londra finanzia i lavori per impedire il passaggio in Gran Bretagna. Quei mattoni nella patria delle libertà: Europa senza memoria Pag 31 La fragilità del sistema può fare risalire le quotazioni di Renzi di Francesco Verderami LA REPUBBLICA Pag 1 Se il Grillo si chiude a riccio di Mario Calabresi AVVENIRE Pag 1 Questione di democrazia di Arturo Celletti e Eugenio Fatigante Roma, i Cinquestelle e molto di più Pag 8 Dopo 45 mesi il risveglio miracoloso di Rosalba di Alessandra Turrisi Pag 13 Sui pellegrinaggi alla Mecca è “guerra” tra Iran e sauditi di Camille Eid IL FOGLIO Pag III L’identità da non rottamare di Sergio Belardinelli La crisi migratoria e l’essiccamento delle energie dell’occidente. L’Europa non può essere escludente ma nemmeno vacua. Lezioni da linguaggio e cristianesimo

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Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 1 Nasce il libro del Verbo della vita di Manuel Nin La Natività della Madre di Dio nella tradizione bizantina Due grandi feste della Madre di Dio aprono e chiudono l’anno liturgico nella tradizione bizantina: la Natività l’8 settembre e la Dormizione il 15 agosto. Due feste che ricongiungono il ciclo liturgico in un unico mistero, di Cristo, di Maria e della Chiesa stessa. Questa nasce, proprio come Maria, voluta e amata dal Signore, con il Signore percorre i grandi momenti della salvezza e dal Signore infine viene accolta in cielo nella gloria. La tradizione bizantina legge al vespro delle grandi feste tre testi presi di norma dall’Antico Testamento e letti in chiave cristologica, mariologica ed ecclesiologica. Nelle celebrazioni della Madre di Dio una delle letture sempre utilizzate è la descrizione del tempio, con la porta chiusa che guarda a oriente e viene aperta e varcata solo dal Signore (Ezechiele, 43-44). Così, nella festa della Natività della Madre di Dio, si leggono i testi della visione notturna di Giacobbe con l’immagine della scala che sale in cielo (Genesi, 28), della sapienza che si costruisce una casa (Proverbi, 9) e appunto la descrizione del tempio. A partire del testo di Ezechiele, la liturgia presenta con immagini contrastanti da una parte la sterilità di Anna e dall’altra la verginità di Maria, porta che guarda a oriente e, nell’incarnazione, libro in cui la Parola viene scritta nella carne: «Questo è il giorno del Signore, esultate, popoli: poiché ecco, il talamo della luce, il libro del Verbo della vita, è uscito dal grembo; la porta che guarda a oriente è stata generata, e attende l’ingresso del sommo sacerdote, lei che introduce nel mondo, sola, il solo Cristo, per la salvezza delle anime nostre». La liturgia sottolinea che «risplende Maria, poiché, prodigiosamente partorita da madre sterile, ha partorito nella carne il Dio dell’universo, da grembo senza seme, oltre la natura: unica porta dell’unigenito Figlio di Dio, che attraversandola l’ha custodita chiusa, e tutto disponendo con sapienza come egli sa, per tutti gli uomini ha operato la salvezza». I testi liturgici, servendosi della stessa immagine della porta, la utilizzano poi per mettere in parallelo sterilità e verginità, di Anna e di Maria: «Oggi le porte sterili si aprono e ne esce la divina porta verginale. Oggi la grazia comincia a dare i suoi frutti, manifestando al mondo la Madre di Dio, per la quale le cose terrestri si uniscono a quelle celesti, a salvezza delle anime nostre». Nell’ufficiatura della festa una lettura collega la verginità di Maria e l’incarnazione del Verbo: «Il profeta ha chiamato la santa Vergine porta invalicabile, custodita per il solo Dio nostro: per essa è passato il Signore, da essa procede l’altissimo e la lascia sigillata, liberando la nostra vita dalla corruzione». Il nesso stretto tra liturgia e professione di fede si trova nel vespro che con immagini poetiche canta Maria come luogo della congiunzione delle due nature in Cristo: «Venite, fedeli tutti, corriamo verso la Vergine, perché ecco, nasce colei che prima di essere concepita in seno è stata predestinata a essere madre del nostro Dio; il tesoro della verginità, la verga fiorita di Aronne, che spunta dalla radice di Iesse, l’annuncio dei profeti, il germoglio dei giusti Gioacchino e Anna nasce, e il mondo con lei si rinnova. Essa è partorita, e la Chiesa si riveste del proprio decoro. Il tempio santo, il ricettacolo della divinità, lo strumento verginale, il talamo regale nel quale è stato portato a compimento lo straordinario mistero della ineffabile unione delle nature che si congiungono in Cristo: adorando lui, celebriamo l’immacolata nascita della Vergine». I testi liturgici sottolineano infine sia la preghiera di Gioacchino e Anna nell’angoscia per la loro mancanza di discendenza sia la grande gioia per la nascita di Maria: «Sterile, senza prole, Anna batta oggi gioiosa le mani, si rivestano di splendore le cose della terra, esultino i re, si allietino i sacerdoti tra le benedizioni, sia in festa il mondo intero: perché ecco, la regina, l’immacolata sposa del Padre, è germogliata dalla radice di Iesse. Non partoriranno più figli nel dolore le donne, perché è fiorita la gioia, e la vita degli uomini abita nel mondo. Non saranno più rifiutati i doni di Gioacchino, perché il lamento di Anna si è mutato in gioia ed essa dice: Rallegratevi con me, tutti voi del popolo eletto Israele: poiché ecco, il Signore mi ha donato la reggia vivente della sua divina gloria, per la comune letizia, gioia e salvezza delle anime nostre».

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Pag 5 Ecumenismo della conversione di Giovanni X Yazigi Dalla Chiesa apostolica di Antiochia dove «per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (Atti degli apostoli, 11, 26), invio a voi la benedizione apostolica con amore sincero e l’abbraccio fraterno in Cristo Gesù nostro Signore. «Dio ha messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo» (1 Corinzi, 4, 9-13). Forse in queste parole dell’apostolo Paolo si trova l’espressione migliore dell’attuale situazione della Chiesa di Antiochia e la sua continua lotta per rendere testimonianza, nel corso dei secoli, al suo Signore e alla sua fede viva. Non appena, infatti, terminò l’era delle persecuzioni dell’impero romano pagano, giunse alle porte delle nostre diocesi nel Mediterraneo orientale l’invasore. Fu un’epoca di rinnovata testimonianza e di martirio aggravata dalle conquiste dei persiani, dei mongoli, dalle invasioni dei mamelucchi e degli altri eserciti stranieri che hanno devastato la nostra regione. Poi fu la volta dell’avanzata ottomana e della creazione dell’impero ottomano nel nostro Oriente. È come se la nostra Chiesa fosse condannata a vivere all’ombra degli invasori e dei conquistatori subendo le loro politiche di repressione religiosa e i loro crimini storici che hanno portato alla frantumazione del corpo ecclesiale antiocheno in diverse realtà ecclesiali. La Chiesa d’Oriente, tuttavia, nonostante il grande prezzo pagato, è rimasta sempre disponibile al dialogo con i fratelli cristiani. Anzi, ha sempre teso la mano verso l’altro per abbracciarlo nel nome dell’agape evangelico e della speranza «che non delude» (Romani, 5, 5). Oggi, come sapete, sui nostri figli e sui nostri Paesi soffiano venti di guerra che mirano a frantumare le nostre società e ad annientare la semplicità, il calore, la lentezza e le belle aspettative che le caratterizza. Guerre di estranei a casa nostra, guerre di estremisti che mancano del minimo accettabile di umanità, di ragionevolezza, di sensibilità. Il nostro popolo, fratelli, ama la pace e la brama ardentemente. Noi siamo un popolo che ha il disgusto per le guerre e che detesta le armi. Nel corso del tempo, ha capito che il confronto violento non genera che distruzione, frantumazione e desolazione. Sì, noi abbiamo capito che la violenza non edifica né le nazioni, né le democrazie, né le libertà come alcuni ritengono, ma al contrario semina calamità come l’odio, l’inimicizia e la divisione. I nostri cristiani d’Oriente oggi cercano qualcuno che porga attenzione al loro grido ma non lo trovano. Nei nostri Paesi noi siamo fautori di pace, di riconciliazione, di armonia, di fraternità. Non andiamo in cerca della pietà dei forti di questo mondo ma, a voce alta, urliamo loro in faccia: «Smettetela di affibbiarci l’etichetta di miscredenti, basta terrorismo, basta menzogne! Smettetela di esportare la barbarie, di adottare slogan insensati! Basta dichiarazioni ipocrite che invitano i Paesi ad accogliere i cristiani [sradicati]». Ciò che di meglio il mondo sta facendo per il bene di cristiani e musulmani insieme nel nostro Oriente è diffondere la cultura del dialogo mettendo un freno alla cultura della spada. Salvate i nostri Paesi dalle grinfie del terrorismo, fermate il commercio sfrenato delle armi e richiamate nei porti le vostre navi da guerra! Non ci sentiremo al sicuro né con navi da guerra né con navi da emigrazione! Ci sentiremo protetti soltanto se nelle nostre terre verrà seminata la pace. Noi siamo piantati qui da duemila anni, qui siamo nati, qui viviamo, qui anche moriremo. Ripeto: non è giunta l’ora che il mondo si svegli? Non è giunta ancora l’ora in cui l’umanità si renda conto che terrorismo e intolleranza religiosa (takfir) che ora prendono di mira i nostri popoli e le nostre Chiese raggiungeranno ogni angolo di questo pianeta? Non è giunta ancora l’ora in cui la politica internazionale si interessi al caso dei due metropoliti, Yuhanna Ibrahim e Bulus Yaziji, e dei padri presbiteri rapiti da più di tre anni? Non è giunta ancora l’ora per la società internazionale di domandarsi, per una volta, perché impone un embargo a un popolo affamato chiudendogli le porte dei suoi mercati mentre gli spalanca quelle del mercato delle armi? La realtà dei nostri Paesi è dolorosissima. Viviamo un’epoca tremenda in cui ampi strati della nostra società subiscono una persecuzione sistematica da parte delle organizzazioni religiose estremistiche che nulla hanno a che vedere con la religione, come si sa nei nostri Paesi. L’ondata di estremismo, di chiusura e di rigetto dell’altro che oggi

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imperversa nel Mediterraneo orientale mirando a estendersi al mondo intero, è un’ideologia che non ha niente a che vedere con la religione. Essa è senza alcun dubbio il risultato diretto di ostinate geopolitiche che non hanno seminato che odio. Tutta l’umanità, ora, non raccoglie se non terrore e morte. Gli abitanti di centinaia di villaggi e di decine di città sono diventati profughi. Migliaia di madri hanno perso i loro figli. Sono state rase al suolo abitazioni, sono stati profanati luoghi di culto. Intere aree vengono ora svuotate dei loro abitanti autoctoni che in esse risiedono dall’alba della storia. Cosa posso dire ancora? Mi servirebbe tempo per raccontarvi dei rapiti, dei prigionieri, dei deportati, dei feriti che non hanno speranza di guarire. Come posso descrivere i corpi torturati o il dolore delle donne deportate o la miseria dei bambini arruolati con la forza per combattere? O come potrei raccontarvi delle famiglie dei rapiti che, instancabilmente, ancora attendono dopo una lunga assenza il ritorno dei loro figli? Sembrano descrivere la nostra situazione le parole della Scrittura: «Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Matteo, 2, 18; Geremia, 31, 15). «Siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini» (1 Corinzi, 4, 9). In verità, non riesco a capire come facciano i politici della terra a stare con le mani in mano, a guardare come spettatori il teatro di violenza che è il nostro Paese dando priorità soltanto agli interessi economici e strategici che servono le loro politiche disumane. Il mondo oggi, fratelli, è in uno stato di smarrimento. Attende da noi cristiani volti oranti, una comunione autentica e una vera unità che superi le barriere della storia, i suoi peccati e le sue ferite. Il mondo oggi ha un impellente bisogno di una testimonianza cristiana fondata sull’incontro e la comprensione, di una voce cristiana unificata e franca che risponda agli interrogativi che lanciano una sfida all’uomo d’oggi in tutte le crisi sociali che è chiamato ad affrontare. Sì, la globalizzazione forse unificherà le nostre società sul piano economico, politico e massmediatico, ma le nostre società continueranno a restare smarrite, frantumate sul piano dell’etica, del sentire umano e dei valori spirituali. Se non ci unirà «un pensiero solo e un cuore solo» come potremo offrire questa testimonianza o come potremmo soddisfare queste necessità? Non è forse giunto il tempo che i nostri dialoghi teologici superino le barriere e i complessi della storia? Non è forse giunta l’ora di comprendere che le nostre divisioni rendono sterile la nostra testimonianza? Tanto più in una terra arida dominata dal materialismo e dall’assurdo, da modelli perversi che vengono sponsorizzati tanto da imporsi come normalità, come unità di misura e principio. Come possiamo, nella nostra frammentarietà, affrontare lo sfruttamento assurdo, di cui siamo testimoni in questi giorni, della religione che viene piegata a dettami politici? Come possiamo essere fautori di pace e far ascoltare la nostra voce in un mondo che in noi non vede che tensioni, divisioni, parcellizzazioni? Se la pace di Dio non sgorga dalle nostre relazioni come possiamo offrire questa pace al mondo? Come possiamo testimoniare che il cristianesimo è affrancamento da ogni laccio e da ogni schiavitù e che, anzi, è principio di vera libertà, se siamo ancora schiavi delle dispute del passato, del peso della storia e della nostra autosufficienza? In quanto Chiese di Cristo sappiamo riflettere, a beneficio del mondo, nel bel mezzo delle nostre divisioni, «la grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo» (2 Corinzi, 13, 13)? Il sangue dei martiri è stato sempre il lievito che fa lievitare tutta la pasta. Rimette in forza il Corpo di Cristo, la Chiesa, rinnovando in essa le grazie dello Spirito tuttosanto. Soffriamo in maniera indicibile per i nostri martiri e per coloro che hanno offerto, per fede, la bella testimonianza (cfr. 1 Timoteo, 6, 13). Ma la nostra consolazione per la gloria divina che hanno ottenuto è senza fine. «Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1 Corinzi, 12, 26). Il martire è testimone di qualcosa che ha amato e per la quale è morto. È un martire dell’amore. E i martiri della verità sono coloro che hanno fatto la gloria della Chiesa nel corso della storia. A partire dalla testimonianza della verità offerta dal Re della gloria sulla sua Croce, veniamo a voi con amore, da una Chiesa ferita e gloriosa allo stesso tempo: ferita per ciò che sta accadendo e gloriosa per la gloria dei suoi martiri giusti. Il cristianesimo orientale è oggi testimone per eccellenza del Signore redentore e risorto. Questo cristianesimo è appeso alla Croce di quest’Oriente e percorre la via del Golgota. Tuttavia, nel suo ventesimo secolo di vita, volge gli occhi alla luce della risurrezione e ha fiducia che il Signore della risurrezione è in mezzo a noi, nonostante l’avversità. La corona del tempo presente può far sanguinare il suo volto.

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Eppure essa è pienamente cosciente di essere figlia di Cristo, figlia di colui che è stato coronato di spine e che ha riposato nel sepolcro. E sa perfettamente che il sonno del sepolcro è stato spazzato via dal Signore risorto che ha distrutto le catene degli inferi facendo sorgere su di tutti la luce della risurrezione. La Chiesa nel nostro Oriente cristiano sa bene che il fuoco della persecuzione, di cui sta pagando il prezzo, ha raggiunto anche i suoi fratelli in Occidente. La malvagità delle ideologie estremistiche non fa distinzione tra un cristiano orientale e uno occidentale. Di questo linguaggio della violenza e del sangue, infatti, è stato vittima per primo un arcivescovo caldeo, Paulos Faraj Rahho, che fu rapito nel 2008 in Iraq. Con il suo martirio fu inaugurata l’era contemporanea di persecuzione nei nostri Paesi. Come possiamo non provare venerazione ricordando il padre gesuita olandese Frans van der Lugt ucciso a Homs dopo aver speso la sua vita nel servizio e nel dono di sé? Come possiamo non inchinarci davanti a quei ventuno copti, uomini di Dio, il cui sangue è stato versato sulla costa libica mentre invocavano Gesù Signore e salvatore. O i trenta martiri etiopi che hanno pagato con il sangue la loro fede nel Cristo, Figlio del Dio vivente. O i tantissimi altri uccisi per il nome del nostro Signore e redentore. O ancora i martiri viventi che sopportano sofferenze fisiche e psicologiche terribili perché appartengono al Signore Gesù. A unirsi a questa schiera moderna di martiri pochi giorni fa è stato don Jacques Hamel morto in Francia, «ucciso tra l’altare e il santuario» (Matteo, 35, 23) come dice la Scrittura. Mi manca il tempo per parlarvi dei martiri dell’Uganda, dell’Armenia, della Russia, dell’Europa orientale, di Charles de Foucauld, di Edith Stein, di Massimiliano Kolbe, di Óscar Romero, di Alexander Men. Volti e nomi che hanno testimoniato, affermato e confessato che l’amore di Cristo è sconfinato e «invita tutti all’unità». La Chiesa d’Oriente sa che i martiri contemporanei sono primizia della nostra unità in Cristo, non importa a quale Chiesa appartengano. Ora, essi sono uniti al Signore della gloria. I loro nomi sono scritti nel libro della vita e attendono la nostra lotta qui sulla terra sperando che possiamo, mediante la nostra instancabile opera, attenta giorno e notte al bene della Chiesa e del suo popolo santo, compiere ciò che è gradito a Dio. Senza dubbio le sofferenze dei cristiani in questa nostra ultima crisi rappresentano per noi il miglior incentivo a pensare attentamente alla nostra unità come cristiani e a dare priorità a un’azione seria tesa a realizzarla. Il sangue dei martiri è un invito rivolto a noi a unirci con Cristo nel suo unico Corpo. Così facendo la storia sarà riscattata e santificata. Il sangue dei martiri è una sfida rivolta a noi affinché realizziamo l’unità piena e tangibile della Chiesa perché la volontà del Padre per la Chiesa è «come in cielo così in terra». Eppure, siamo disposti ad ascoltare quest’appello e a rispondergli? Oppure ci basta vantarci delle gesta dei santi martiri circondandoli di espressioni di lode e onore senza che queste parole abbiano il ben che minimo effetto nel nostro cuore e nella nostra realtà? I martiri della Chiesa dei giorni nostri ci ricordano che ciò che ci unisce è molto più grande di ciò che ci divide. Ma come possiamo rispondere in maniera pratica al loro appello? Ognuno di noi è disposto ad ammettere la propria responsabilità nell’allargare il fossato che divide le nostre Chiese? Ognuno di noi è disposto ad ammettere i propri errori commessi lungo il corso della storia e in particolare quegli errori che hanno contribuito a dividere il Corpo di Cristo? Siamo pronti a curare, con onestà, le ferite del passato e a liberarci della memoria dell’inimicizia? Abbiamo bisogno di mettere in moto con determinazione passi volti a riconciliarci con il sangue dei nostri nuovi martiri. La storia ha gettato sulle spalle di ognuno di noi un giogo fatto di divergenze, di incomprensioni, di pregiudizi terribili che hanno solidificato un «muro di inimicizia» che divide le Chiese. Dobbiamo mettere in atto misure pratiche per abbattere questo recinto per poter entrare in una comunione piena come quella che ci insegnano i martiri dei tempi moderni. Non c’è dubbio che la comunione della sofferenza avvicina tra loro i cristiani e le Chiese. Le condizioni sono propizie per mettere ordine nelle nostre priorità e negli approcci da adottare nell’ambito dell’attività ecumenica nel corso del ventunesimo secolo. In questo senso, dopo aver parlato nello scorso decennio di “ecumenismo spirituale” e di “ecumenismo del sangue” vorrei lanciare l’appello oggi a un “ecumenismo della conversione”. Abbiamo urgente bisogno di un’azione ecumenica comune che si poggi sulla conversione nel senso paolino del termine. Così saremo in grado di rinnovare la nostra mente mediante l’ammissione dei nostri errori, di uscire dal nostro isolamento ecclesiale per stringere la mano dell’altro, di curare l’io ecclesiale collettivo mediante la riconciliazione con l’altro e il perdono con tutto il cuore. Se ciò non

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avvenisse, ci ritroveremmo a rendere inefficace la potenza del sangue dei martiri e priveremmo il mondo della testimonianza dell’unità cristiana di cui esso ha bisogno: «Affinché abbia la vita e l’abbia in abbondanza» (cfr. Giovanni, 10, 10). L’unità cristiana viene costruita e diventa piena nella misura in cui ognuno di noi aspira all’unità con Cristo e si lascia attrarre da lui. Io mi unisco all’altro cristiano nella misura in cui io aspiro con lui a essere in unità con Cristo e a essere attratti da lui in una maniera tale da non essere bloccati dalle contingenze storiche, da superare le questioni futili e superficiali, da essere sostenuti e temprati dalla dottrina vera e dalla fede tramandataci di generazione in generazione. Preghiamo gli uni per gli altri, chiedendo l’intercessione dei martiri santi e la loro protezione per i nostri popoli contro il male, le divisioni e la frantumazione. Supplichiamo lo Spirito divino affinché illumini i nostri cuori, guidi i nostri passi sul cammino della pace, della riconciliazione e dell’unità e ci doni la forza per avvicinarci sempre più ai nostri fratelli affinché possiamo essere illuminati mediante la sua comunione vivificante e Dio sia «tutto in tutti» (1 Corinzi, 15, 28). Onorare i martiri e il martirio, fratelli, non significa assolutamente sminuire il valore della dignità umana e della santità della vita terrena. Noi siamo un popolo che ama vivere e abbiamo diritto a vivere in pace. Ma se siamo costretti ad alzare la voce contro l’iniquità, lo facciamo senza temere la morte. Cosa posso dire ancora? «Accoglieteci nei vostri cuori! A nessuno abbiamo fatto ingiustizia, nessuno abbiamo danneggiato, nessuno abbiamo sfruttato. Non dico questo per condannare; infatti vi ho già detto che siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere. Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Corinzi, 7, 2-4). Sì, fratelli. Noi ad Antiochia, nonostante l’insopportabile dolore che viviamo, nonostante le grandi persecuzioni, nonostante i rapimenti, lo sradicamento, la privazione degli elementi basilari per una vita decente, amiamo ancora i fratelli e quando li incontriamo e dialoghiamo con loro con sincerità, scorgiamo un volto di speranza e la testimonianza resa a Colui che ha vinto la sofferenza e la morte e che ci ha donato, all’alba del terzo giorno, la luce della sua risurrezione e la grande compassione. A lui sia gloria in ogni cosa. Amen. Pag 8 Nessun ostacolo alla misericordia All’udienza generale il Papa ricorda che Gesù non è venuto per punire i peccatori ma per invitare alla conversione Gesù non è venuto per punire i peccatori ma per annunciare a tutti la misericordia di Dio e invitare alla conversione. Lo ha ricordato il Papa all’udienza generale di mercoledì 7 settembre, in piazza San Pietro, esortando i fedeli «a non frapporre alcun ostacolo all’agire misericordioso del Padre». Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Abbiamo ascoltato un brano del Vangelo di Matteo (11, 2-6). L’intento dell’evangelista è quello di farci entrare più profondamente nel mistero di Gesù, per cogliere la sua bontà e la sua misericordia. L’episodio è il seguente: Giovanni Battista manda i suoi discepoli da Gesù - Giovanni era in carcere - per fargli una domanda molto chiara: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (v. 3). Era proprio nel momento del buio... Il Battista attendeva con ansia il Messia e nella sua predicazione lo aveva descritto a tinte forti, come un giudice che finalmente avrebbe instaurato il regno di Dio e purificato il suo popolo, premiando i buoni e castigando i cattivi. Egli predicava così: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 3, 10). Ora che Gesù ha iniziato la sua missione pubblica con uno stile diverso; Giovanni soffre perché si trova in un doppio buio: nel buio del carcere e di una cella, e nel buio del cuore. Non capisce questo stile di Gesù e vuole sapere se è proprio Lui il Messia, oppure se si deve aspettare un altro. E la risposta di Gesù sembra a prima vista non corrispondere alla richiesta del Battista. Gesù, infatti, dice: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (vv. 4-6). Qui diventa chiaro l’intento del Signore Gesù: Egli risponde di essere lo strumento concreto della misericordia del Padre, che a tutti va incontro portando la consolazione e la salvezza, e in questo modo

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manifesta il giudizio di Dio. I ciechi, gli zoppi, i lebbrosi, i sordi, recuperano la loro dignità e non sono più esclusi per la loro malattia, i morti ritornano a vivere, mentre ai poveri è annunciata la Buona Notizia. E questa diventa la sintesi dell’agire di Gesù, che in questo modo rende visibile e tangibile l’agire stesso di Dio. Il messaggio che la Chiesa riceve da questo racconto della vita di Cristo è molto chiaro. Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per punire i peccatori né per annientare i malvagi. A loro è invece rivolto l’invito alla conversione affinché, vedendo i segni della bontà divina, possano ritrovare la strada del ritorno. Come dice il Salmo: «Se consideri le colpe, Signore, / Signore, chi ti può resistere? / Ma con te è il perdono: / così avremo il tuo timore» (130, 3-4). La giustizia che il Battista poneva al centro della sua predicazione, in Gesù si manifesta in primo luogo come misericordia. E i dubbi del Precursore non fanno che anticipare lo sconcerto che Gesù susciterà in seguito con le sue azioni e con le sue parole. Si comprende, allora, la conclusione della risposta di Gesù. Dice: «Beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (v. 6). Scandalo significa “ostacolo”. Gesù perciò ammonisce su un particolare pericolo: se l’ostacolo a credere sono soprattutto le sue azioni di misericordia, ciò significa che si ha una falsa immagine del Messia. Beati invece coloro che, di fronte ai gesti e alle parole di Gesù, rendono gloria al Padre che è nei cieli. L’ammonimento di Gesù è sempre attuale: anche oggi l’uomo costruisce immagini di Dio che gli impediscono di gustare la sua reale presenza. Alcuni si ritagliano una fede “fai di te” che riduce Dio nello spazio limitato dei propri desideri e delle proprie convinzioni. Ma questa fede non è conversione al Signore che si rivela, anzi, gli impedisce di provocare la nostra vita e la nostra coscienza. Altri riducono Dio a un falso idolo; usano il suo santo nome per giustificare i propri interessi o addirittura l’odio e la violenza. Per altri ancora Dio è solo un rifugio psicologico in cui essere rassicurati nei momenti difficili: si tratta di una fede ripiegata su sé stessa, impermeabile alla forza dell’amore misericordioso di Gesù che spinge verso i fratelli. Altri ancora considerano Cristo solo un buon maestro di insegnamenti etici, uno fra i tanti della storia. Infine, c’è chi soffoca la fede in un rapporto puramente intimistico con Gesù, annullando la sua spinta missionaria capace di trasformare il mondo e la storia. Noi cristiani crediamo nel Dio di Gesù Cristo, e il nostro desiderio è quello di crescere nell’esperienza viva del suo mistero di amore. Impegniamoci dunque a non frapporre alcun ostacolo all’agire misericordioso del Padre, ma domandiamo il dono di una fede grande per diventare anche noi segni e strumenti di misericordia. CORRIERE DELLA SERA Pag 19 Benedetto si racconta: “Decidere non è il mio forte, ma non mi sento un fallito” Ho scritto io la rinuncia - Il testo della rinuncia l’ho scritto io. Non posso dire con precisione quando, ma al massimo due settimane prima. L’ho scritto in latino perché una cosa così importante si fa in latino. Inoltre il latino è una lingua che conosco così bene da poter scrivere in modo decoroso. Avrei potuto scriverlo anche in italiano, naturalmente, ma c’era il pericolo che facessi qualche errore. Non ero ricattato - Non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte. Nessuno ha cercato di ricattarmi. Non l’avrei nemmeno permesso. Se avessero provato a farlo non me ne sarei andato perché non bisogna lasciare quando si è sotto pressione. E non è nemmeno vero che ero deluso o cose simili. Anzi, grazie a Dio, ero nello stato d’animo pacifico di chi ha superato la difficoltà. Lo stato d’animo in cui si può passare tranquillamente il timone a chi viene dopo. Felice del successore - Il mio successore non ha voluto la mozzetta rossa. La cosa non mi ha minimamente toccato. Quello che mi ha toccato, invece, è che già prima di uscire sulla loggia abbia voluto telefonarmi, ma non mi ha trovato perché eravamo appunto davanti al televisore. Il modo in cui ha pregato per me, il momento di raccoglimento, poi la cordialità con cui ha salutato le persone tanto che la scintilla è, per così dire, scoccata immediatamente. Nessuno si aspettava lui. Io lo conoscevo, naturalmente, ma non ho pensato a lui. In questo senso è stata una grossa sorpresa. Non ho pensato che fosse nel gruppo ristretto dei candidati. Quando ho sentito il nome, dapprima ero insicuro. Ma

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quando ho visto come parlava da una parte con Dio, dall’altra con gli uomini, sono stato davvero contento. E felice. La Chiesa è viva - L’elezione di un cardinale latino-americano significa che la Chiesa è in movimento, è dinamica, aperta, con davanti a sé prospettive di nuovi sviluppi. Che non è congelata in schemi: accade sempre qualcosa di sorprendente, che possiede una dinamica intrinseca capace di rinnovarla costantemente. Ciò che è bello e incoraggiante è che proprio nella nostra epoca accadono cose che nessuno si aspettava e mostrano che la Chiesa è viva e trabocca di nuove possibilità. Riforme: non sono forte - Ognuno ha il proprio carisma. Francesco è l’uomo della riforma pratica. È stato a lungo arcivescovo, conosce il mestiere, è stato superiore dei gesuiti e ha anche l’animo per mettere mano ad azioni di carattere organizzativo. Io sapevo che questo non è il mio punto di forza. Sulla lobby gay vaticana - Effettivamente mi fu indicato un gruppo, che nel frattempo abbiamo sciolto. Era appunto segnalato nel rapporto della commissione di tre cardinali che si poteva individuare un piccolo gruppo di quattro, forse cinque persone. L’abbiamo sciolto. Se ne formeranno altri? Non lo so. Comunque il Vaticano non pullula certo di casi simili. La Chiesa cambi - È evidente che la Chiesa sta abbandonando sempre più le vecchie strutture tradizionali della vita europea e quindi muta aspetto e in lei vivono nuove forme. È chiaro soprattutto che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi. Sono in corso capovolgimenti epocali, ma non si sa ancora a che punto si potrà dire con esattezza che comincia uno oppure l’altro. Non sono un fallito - Un mio punto debole è forse la poca risolutezza nel governare e prendere decisioni. Qui in realtà sono più professore, uno che riflette e medita sulle questioni spirituali. Il governo pratico non è il mio forte e questa è certo una debolezza. Ma non riesco a vedermi come un fallito. Per otto anni ho svolto il mio servizio. Ci sono stati momenti difficili, basti pensare, per esempio, allo scandalo della pedofilia e al caso Williamson o anche allo scandalo Vatileaks; ma in generale è stato anche un periodo in cui molte persone hanno trovato una nuova via alla fede e c’è stato anche un grande movimento positivo. Mi preparo alla morte - Bisogna prepararsi alla morte. Non nel senso di compiere certi atti, ma di vivere preparandosi a superare l’ultimo esame di fronte a Dio. Ad abbandonare questo mondo e trovarsi davanti a Lui e ai santi, agli amici e ai nemici. A, diciamo, accettare la finitezza di questa vita e mettersi in cammino per giungere al cospetto di Dio. Cerco di farlo pensando sempre che la fine si avvicina. Cercando di prepararmi a quel momento e soprattutto tenendolo sempre presente. L’importante non è immaginarselo, ma vivere nella consapevolezza che tutta la vita tende a questo incontro. Pag 19 Straordinaria la libertà con cui parla di sé e di Bergoglio di Luigi Accattoli Le Ultime conversazioni di papa Benedetto è un libro godibile e straordinario per più ragioni e non solo perché non si era mai visto un Papa che tira il bilancio del proprio Pontificato. Straordinaria è innanzitutto la libertà con cui Benedetto parla del successore, di se stesso e di dove va la Chiesa. Si dice «felice» dell’elezione di Bergoglio, difende il proprio operato. Godibile è la schiettezza delle confidenze anche più minute, custodite con scrupolo in tanti anni: scrive solo a matita e mai a penna, quando deve «ponderare bene una questione» si sdraia sul divano. Venendo in Italia si è appassionato alla «pennichella». Dal 1997 ha un pacemaker e non vede dall’occhio sinistro. Siamo colpiti dalla libertà con cui Francesco parla in aereo - ma anche a terra - su ogni questione che gli venga posta, ma ecco che lo fa anche il Papa emerito: a gara si erano spogliati del rosso e a gara liberano la figura papale dai codici linguistici che la bloccavano più della tiara. Questo libro costituisce una riprova convincente del buon rapporto che lega i due papi: se vi fosse stata anche solo una minima difficoltà, né l’emerito - che compirà novant’anni il prossimo aprile - avrebbe osato proporre una tale pubblicazione, né il successore - che compirà gli ottanta a dicembre - l’avrebbe autorizzata.

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LIBERO Metà dei pellegrini previsti. Il Giubileo sta facendo flop di Caterina Maniaci A due mesi e mezzo dalla chiusura poco più di 15 milioni i fedeli arrivati a Roma, contro

gli oltre 30 milioni previsti. La delusione dei commercianti È flop o non è flop? I numeri legati all'affluenza dei pellegrini a Roma in occasione del Giubileo della Misericordia, indetto da papa Francesco, si possono leggere in chiave diversa. Se si considerano in relazione alle pevisioni avanzate all'inizio dell'evento - si parlava di almeno trenta milioni di arrivi - quelli che si registrano oggi possono apparire come il segno di un fallimento. Infatti, a nove mesi esatti dall' apertura della Porta Santa di San Pietro, i fedeli giunti a Roma per il Giubileo della Misericordia hanno di poco superato i 15 milioni. La metà, appunto, rispetto a quelle previsioni, ma pur sempre una cifra ragguardevole. Nel suo ultimo aggiornamento il sito ufficiale dell' Anno Santo, coordinato dal Pontificio Consiglio per la Nuova evangelizzazione, presenta infatti la cifra di 15.113.457 «partecipanti al Giubileo in Roma», che conteggia i pellegrini di tutto il mondo registratisi online, giunti nella Città eterna per gli eventi giubilari e il passaggio della Porta Santa della basilica vaticana. Si parla, quindi, dei soli fedeli registrati (per passare la Porta di San Pietro questo è obbligatorio e bisogna prima ritirare il biglietto): non si tiene conto dei pellegrini magari giunti senza prenotarsi online e che hanno comunque partecipato agli eventi e alle preghiere in piazza o nelle altre basiliche papali romane. Altro elemento negativo che molto ha pesato è stato l' allarme attentati, sempre più pressante, che ha frenato l'arrivo di masse più ingenti. Però, se si tiene presente quanto annunciato nel luglio del 2015, le cifre assumono un altro significato. Il Censis, infatti, proclamava: attesi a Roma 33 milioni di turisti e pellegrini per il Giubileo. Erano stati 25 milioni per il Giubileo del 2000. La spesa complessiva prevista è di 8 miliardi di euro, per circa il 70% da parte di visitatori provenienti dall'estero. Trentatre milioni sono oggi diventati poco più di 15 e dunque il traguardo dei 25 milioni del Grande Giubileo del Duemila, con papa Giovanni Paolo II, resta ancora lontano. Che le cose sarebbero andate diversamente lo si è visto sin dall'inizio. Il numero di pellegrini che hanno partecipato agli incontri pubblici con il Papa nel mese di dicembre è stato infatti inferiore del 30% rispetto allo stesso mese del 2014 passando dagli oltre 461mila ai 324mila presenti. Le stime, elaborate dalla Prefettura della casa pontificia, avevano alle spalle due motivi «scatenanti»: la paura di attentati dopo le stragi di Parigi e il fatto che Papa Francesco abbia invitato i vescovi ad aprire almeno una Porta Santa in ciascuna diocesi del mondo. E che quelle previsioni ottimistiche fossero state un po' azzardate è stato confermato nei mesi successivi. Sono cominciati a fioccare i lamenti e i mugugni, soprattutto da parte delle categorie di commercianti, ristoratori, albergatori della Capitale. Dall'8 dicembre (apertura della Porta Santa) a maggio sono arrivato a Roma poco più di 4 milioni di pellegrini, numero decisamente inferiore alle aspettative. Un turismo "mordi e fuggi", da una notte, massimo due, passata per lo più negli alloggi e dimore religiose o nei b&b abusivi (arrivati a quota 7 mila dai 3 mila che erano a dicembre), visto che quelli autorizzati, tra alberghi e altro tipo di ricettività, hanno perso tra il 4,24 e il 4,47 per cento rispetto al 2015, secondo i dati di Federalberghi Roma. Nello scorso fine settimana il numero di arrivi è aumentato grazie al Giubileo del volontari e all'evento della canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, con 120 mila persone accorse in piazza San Pietro. Altro momento in cui si sono viste folle consistenti a Roma, nel febbraio scorso, con l'ostensione delle reliquie di padre Pio e di padre Leopoldo Mandic. A quasi tre mesi dalla fine del Giubileo, il 20 novembre prossimo, si spera negli ultimi appuntamenti, comunque numerosi. Tra questi, dal 7 al 9 ottobre il Giubileo mariano, il 16 ottobre la canonizzazione di altri sette nuovi santi. E domenica 6 novembre si celebrerà il Giubileo dei carcerati. IL FOGLIO Pag 2 Chi sono gli atei cattolici che in Europa si ribellano a Papa Francesco di Matteo Matzuzzi Niente di nuovo, si torna a Charles Maurras Roma. #pasmonpape, non è il mio Papa. Che Francesco divida, anche i cattolici, non è una novità. Basta passare in rassegna qualche blog più o meno devoto, leggere

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articolesse più o meno dettagliate, perdere qualche minuto davanti alle bacheche di Facebook che a parole e opere papali dedicano spazio e commenti. Tanti applausi, moti impetuosi d'affetto. Ma anche critiche e scherno. Non è affare meramente italiano né ossessione di Antonio Socci, che pure di fan ne ha a bizzeffe. Il fenomeno l'ha indagato di recente anche Jean Claude Guillebaud, giornalista, scrittore e saggista sul giornale belga La Libre. Guillebaud guarda in particolare al caso francese (da qui l'hashtag #pasmonpape) e si chiede cosa sia cambiato nell' ultimo triennio, perché Francesco stia suscitando reazioni così drammaticamente opposte. Neanche con Benedetto XVI, pure accusato d' ogni nefandezza che avesse a che fare con la chiesa e i suoi ministri, la rivolta era così tosta. Curioso, poi, che a lanciare la crociata contro il vescovo di Roma preso quasi alla fine del mondo sia un paese dove il cattolicesimo (salvo enclave quasi miracolose, si veda la Provenza) è a pezzi e i piani per rievangelizzarlo non si contano ormai più. La spaccatura è cosa recente, scrive Guillebaud: covava da tempo ma è esplosa con l'ultima intervista concessa da Francesco a braccio, a bordo dell' aereo che lo riportava in Vaticano dopo la settimana trascorsa con i giovani in Polonia. Il fatto è che il Pontefice ha toccato un nervo scoperto per i francesi, e cioè il terrorismo e la convivenza tra fedi diverse. Il passaggio "incriminato" è quello secondo cui "in quasi tutte le religioni ci sono i fondamentalisti", cattolici compresi. La destra nazionalista è insorta, da Marion Maréchal -Le Pen a Robert Ménard, il Fronte nazionale è insorto. Pure con qualche gaffe, visto che il j'accuse al Papa per aver inserito nella schiera dei fondamentalisti pure i cattolici è stato pubblicato su un sito che ha in Voltaire il proprio nume tutelare (e Voltaire denunciò il fanatismo presente nelle religioni). Il problema, però, è ben più ampio, ha scritto Guille baud. Qui siamo davanti, a suo giudizio, al ritorno del "cattolicesimo ateo", formula così cara a Charles Maurras, fondatore dell' Action française scomunicato da Pio XII. "Io sono ateo, ma cattolico", diceva, sostenendo che quel che interessa non è tanto il messaggio evangelico, bensì la chiesa come istituzione garante dell'ordine sociale. Posizione non troppo dissimile da quella di Benito Mussolini, secondo il quale la chiesa era "la forza più conservatrice della storia". La chiesa, non il cristianesimo. Ma questo, scrive l'autore su Le Libre, altro non è che lo "spirito clericale" che così tanto disgusto creava in George Bernanos. Ci sarebbe proprio questo, insomma, alla base della critica pure violenta alle gesta papali. Un conto è inarcare le sopracciglia leggendo i passaggi vergati dal Pontefice sul riciclo della plastica (sui quali è lecito esprimere perplessità, visto che non si tratta di dogma o pronunciamento ex cathedra), altro è - da cattolici - scrivere che non è il mio Papa. Un ritorno a Maurras, dunque, secondo una lettura colta che tenta di iscrivere la rivolta entro una cornice culturale e storicamente motivata. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT L'amore giovanile di Ratzinger e quelli degli altri Papi di Andrea Tornielli Il giornalista Peter Seewald rivela a «Die Zeit» che Benedetto XVI visse un «grande amore» che rese difficile la sua scelta per il celibato Non è stato discreto Peter Seewald, giornalista e autore di libri intervista prima con il cardinale Joseph Ratzinger e poi con Benedetto XVI. In un'intervista pubblicata sul settimanale tedesco «Die Zeit» ha raccontato che il Papa emerito ha vissuto negli anni della giovinezza un «grande amore» che avrebbe reso più complicata la scelta per il celibato. Ma questo episodio non è mai comparso nei libri-intervista di Seewald, quelli pubblicati e quelli non ancora pubblicati. Dopo la pubblicazione della breve autobiografia a sua firma edita da San Paolo, fu chiesto all'allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Ratzinger se c'erano stati e, se sì, perché non avesse citato eventuali amori giovanili. Il porporato aveva risposto con un sorriso, dicendo che aveva già superato il numero di cartelle concordate con l'editore. Questo amore, ha spiegato Seewald, «gli causò molti tormenti interiori. Dopo la guerra, per la prima volta, c'erano delle studentesse. Era davvero un bel giovane, elegante, un esteta che scriveva poesie e leggeva Hermann Hesse». «Uno dei suoi compagni di studio mi ha raccontato - aggiunge il giornalista - che Joseph Ratzinger faceva effetto sulle donne e anche il contrario. Decidersi per il celibato non fu facile per lui». Anche di altri Pontefici della storia recente sono noti episodi simili. Che Karol Wojtyla, giovane e aitante attore, esercitasse fascino sulle donne è risaputo. Come pure è risaputo che almeno una delle sue compagne di

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palcoscenico si era innamorata di lui, anche se alla fine non era stata ricambiata. Un invaghimento giovanile, anzi in questo caso adolescenziale, è attestato anche per Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII, il quale, tredicenne, scrisse un componimento intitolato «Santa Marinella 1889», dal quale si evince una simpatia per una ragazza, «verginella, grata, dolce, pietosa, docile, pura», invitata con quei versi a diventare «più vaga d’olezzante fiore», per risplendere «qual fulgente stella, per virtute e per beltà». È piuttosto evidente l’ispirazione dantesca di queste parole. Di quale fanciulla si trattava? Fra le ragazze che frequentavano le sorelle e la cugina Adele, ad Onano, ce n’era una di nome Lucia, per la quale Eugenio doveva essersi invaghito. Molti anni più tardi, la sera della sua elezione al pontificato, avvenuta il 2 marzo 1939, l’allora parroco di Onano, don Matteo Alfonsi, racconterà a un cronista in piazza San Pietro che «se Lucia avesse detto sì, oggi non ci sarebbe un papa Pacelli», lasciando dunque intendere che la ragazza avrebbe rifiutato la dichiarazione di Eugenio. La stessa notizia è confermata nei diari dello scrittore Giovanni Papini che riporta i racconti dei vecchi di Onano. Evidentemente quella simpatia di Eugenio per Lucia era risaputa in paese. Infine Papa Francesco. Da cardinale, dialogando con l'amico rabbino Abraham Skorka, Bergoglio aveva parlato di essere stato molto colpito da una ragazza. Rispetto agli altri casi qui citati, questo è l'unico raccontato di persona dall'interessato in un libro («Il cielo e la terra»). «Quando ero seminarista - ha raccontato Bergoglio - mi colpì una ragazza che avevo conosciuto al matrimonio di uno zio. Rimasi sorpreso dalla sua bellezza, dalla sua luce intellettuale… e restai confuso un bel po’, mi girava la testa. Quando tornai in seminario dopo il matrimonio non riuscii a pregare per un’intera settimana perché quando mi disponevo a farlo nella mia testa appariva l’immagine della ragazza. Dovetti ripensare a cosa facevo. Ero ancora libero perché ero seminarista, potevo tornarmene a casa e addio a tutto. Dovetti ripensare alla mia scelta. Scelsi di nuovo – o mi lasciai scegliere di nuovo – il cammino religioso. Sarebbe anormale se non accadessero cose del genere. Quando accadono, bisogna ricollocarsi. Bisogna vedere se si torna a fare la stessa scelta o si dice: “No, questa cosa che sto provando è molto bella, ho paura di non essere in seguito fedele al mio impegno, lascio il seminario”. Quando succede una cosa del genere a un seminarista, lo aiuto ad andarsene in pace, ad essere un buon cristiano e non un cattivo sacerdote». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 30 Le donne e il femminismo al bivio della maternità di Lucetta Scaraffia Mi è capitato di recente: una ragazza bella, intelligente, molto impegnata nella sua professione, raccontandomi la situazione che stava vivendo, mi ha detto: «sono tre mesi che non batto chiodo» alludendo cioè all’assenza di rapporti sessuali recenti. Un linguaggio che un tempo - ma neanche poi tanti anni fa - avrebbe usato solo un soldato con un commilitone. E, dal momento che la conosco bene, so che è una ragazza che sognerebbe solo un amore vero, e una famiglia con dei figli, ma sa bene che la cultura post-rivoluzione sessuale non le permette di esprimere pubblicamente - ma forse neppure a se stessa - questa aspirazione, se non a costo di vedersi definita come una retrograda antiquata. Proprio lei è l’esempio più chiaro della situazione delle giovani donne a rivoluzione sessuale realizzata: possono fare di tutto, nessuno si permette un giudizio su di loro partendo dal loro comportamento sessuale - e questo è senza dubbio un bene - ma questa libertà le rende veramente libere? O - se ancora è possibile parlare in questi termini - più felici? Per esempio più felici delle loro nonne, che vivevano in mezzo alle proibizioni ma che potevano dire a se stesse e agli altri che aspiravano all’amore e alla famiglia? Con la pillola, le donne hanno potuto vivere una libertà sessuale fino ad allora sperimentata solo dagli uomini, ma si sono trovate a vivere un tipo di rapporti modellati sulla sessualità maschile. Promiscuità, leggerezza, superficialità di relazioni. Rapporti che forse non erano poi così congeniali alla sessualità femminile. Per di più si sono dovute assumere, con la pillola, tutto il peso della contraccezione, anche a costo di pagarne un prezzo non irrisorio per la loro salute. Non è un caso che

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oggi, in Francia e in area anglosassone, molte giovani donne si rifiutino di utilizzare la pillola per salvaguardare la loro salute, e preferiscano ricorrere a metodi naturali. Sì, proprio quei metodi naturali che proponeva Paolo VI nell’ Humanae Vitae , suscitando al tempo sghignazzi e irrisione. Del resto, bisogna anche considerare che i profeti della «liberazione sessuale» erano tutti uomini - da Reich a Kinsey - mentre alle donne era stato lasciato solo il compito di confermare le loro teorie con libri autobiografici. Le donne, probabilmente, non avrebbero mai sviluppato un programma utopico di tal portata sulla sessualità, conoscendone troppo da vicino anche gli aspetti negativi - che ovviamente non consistono solo nel timore di una gravidanza - che non sono certo stati cancellati in questi decenni di liberazione. Ma certo il femminismo degli anni Settanta ha in grande misura fatto propria questa utopia, travestendola da utopia di liberazione della donna. Di liberazione da cosa? In primo luogo liberazione dalla maternità, attraverso due strade che sono state pagate dalle donne sul loro corpo, cioè la pillola e l’aborto. Oggi le giovani donne, che hanno tutta la libertà sessuale che vogliono, non hanno quella di fare figli, soprattutto di fare figli da giovani. E non solo perché il mercato del lavoro non glielo permette, ma anche perché non trovano facilmente giovani maschi che abbiano il desiderio di assumersi la responsabilità di fare i padri. In passato, i maschi diventavano padri nel matrimonio, che coincideva più o meno con l’inizio della loro vita sessuale: oggi non hanno certo bisogno di sposarsi per avere rapporti sessuali, e in più non hanno problemi di tempo. Per loro infatti non esiste l’orologio biologico che invece continua a condizionare la possibilità di diventare madri per le donne, che non è superato neppure grazie ai progressi della procreazione assistita. I tempi della fecondità femminile sono rimasti invariati, infatti, ma la società sembra non tenerne conto, non vuole vedere questa nuova occasione di differenza fra i sessi che penalizza le donne. In sostanza le donne, nei Paesi occidentali, stanno pagando il mancato riconoscimento culturale e sociale attribuito alla procreazione. Proporre il dilemma fra creazione di qualsiasi tipo (la creazione di una linea di abbigliamento, di un nuovo piatto o di un marchio pubblicitario...) e procreazione - e svalutando la seconda a favore della prima - significa, infatti, negare valore al ruolo biologico della donna e spingerla ad assumere un ruolo maschile. Mentre la procreazione dovrebbe essere considerata una ricchezza essenziale per tutta la comunità umana. L’antitesi alla libertà sessuale, intesa sempre, in fondo, come libertà dalla procreazione, non è solo il Fertility day proposto dalla ministra della salute Lorenzin. In Francia ci sono filosofe femministe che stanno elaborando una visione nuova e critica del femminismo cercando di affrontare la questione fondamentale: come rinnovarsi senza perdere il senso profondo e ricco delle relazioni femminili tradizionali? Senza condannarci a una società fredda e dominata dall’utile, dall’utopia del piacere? Come fare perché le donne, anche dal punto di vista del comportamento sessuale, non diventino «un uomo come un altro» ma possano restare se stesse? C’è ancora molto lavoro da fare, molto da riflettere senza lasciarsi incantare dalle ideologie del passato, che ormai hanno fatto il loro tempo, e in sostanza hanno fallito la loro promessa utopica di felicità. AVVENIRE Pag 2 Dalla parte dei nonni (giustizia e amore) di Ferdinando Camon S’incatenano in Veneto per non “perdere” la nipotina Tempo fa, su questo giornale, mi sono chiesto se era giusto che un giudice attribuisse a un coniuge separato una responsabilità se l’altro coniuge stava male, andava in analisi, deperiva, si ammalava. Perché le cose erano andate proprio così: un giudice aveva stabilito che c’era una colpa nel far star male il coniuge, e ci voleva un risarcimento. Il codice prevede il diritto di separarsi? Quindi si può fare, è legittimo. Ma un conto è ciò che è legittimo, altro conto ciò che è giusto. E questo vale in tutti i campi. Anche quello economico: che uno abbia una pensione da 3mila euro al giorno (succede) e un altro da 300 euro al mese (succede anche questo), sarà legittimo ma non è giusto. Chi ha moglie e figli, e lascia moglie e figli per andare a vivere con un’altra, reclama un suo diritto alla felicità. Ma quel giudice stabilì che finché uno è solo, insegue la felicità individuale, quando si sposa insegue la felicità di coppia, quando ha dei figli insegue la felicità di gruppo, cioè della famiglia. Parlavo allora di questo problema perché c’era stato il suicidio di un ragazzo, dopo la separazione dei genitori, e la Rai pensava di farci una

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trasmissione. Io ero per la tesi che se la separazione provoca un trauma nei figli e qualche figlio non ce la fa più, allora chi si separa deve valutare se la propria felicità vale questo prezzo. M’ha scritto un vescovo per quell’articolo. M’ha telefonato un parroco, che l’aveva letto a Messa. Eran d’accordo. Non ho cambiato idea. Quando t’impegni per la felicità di gruppo, e poi insegui la tua felicità personale, tradisci il tuo impegno, e questo ha un peso. La legge non lo afferra, ma questo non elimina il problema. Ieri leggevo di una coppia di nonni, nel Veneto, che si sono incatenati davanti al municipio di Treponti per protestare contro la sentenza di un giudice che, regolando la separazione dei genitori di una bambina, aveva stabilito che i nonni potessero vederla solo un’ora al mese, ma non a casa, bensì in uno stanzino dell’Usl. Non giudico il giudice. Se ha stabilito così, vuol dire che così è legittimo. Cosa lamentano i nonni? Di non poter neanche consegnare un regalo alla piccola, se non per interposta persona. L’anno scorso si son serviti del sindaco. Lamentano di non poter assistere alle recite scolastiche. Le recite scolastiche sono orrendamente deliziose. Ricordo ancora quando i miei figli uscivano dall’asilo per entrare in prima elementare. Cantavano: «Ciao vecchio asilo, / grandi siam già / e a scuola si va. / Noi siamo le colonne / della prima elementar, / adesso le colonne voi dovete rispettar». Noi genitori dobbiamo rispettare i nostri bambini diventati colonne? Orripilante. Però sono grato alla suora che ha inventato quella filastrocca. Nel cervello dei miei figli, ha acceso una lampadina. Il giudice che ha imposto queste condizioni ai nonni gli toglie la continuità della vita, perché i nostri nipoti siamo noi che continuiamo. Gli toglie la sopravvivenza. Tanto vale morire. E infatti i due nonni minacciano: «Ci daremo fuoco». Chiamo il cronista che ha fatto il pezzo sul Mattino di Padova, Gianni Biasetto: «Le son sembrati nonni pericolosi per la nipote», «Al contrario, devotissimi», «Ma il sindaco da che parte sta?», «Dalla loro, dice che li aiuterà». Se le cose stan così, siamo all’ennesimo episodio in cui i nonni non hanno peso giuridico nella relazione con i nipoti, come se fosse una relazione accessoria ed eliminabile. Invece, per i nonni è un ancoraggio alla vita che se ne va, per i figli è una radice della vita che cresce. Signor giudice, il codice non ha psicologia, ma ce ne metta un po’ lei, di sua iniziativa. I nonni le saranno grati subito. La bambina, domani. Pag 3 Sul lavoro politiche finalmente attive di Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi Speriamo sia la volta buona dopo troppi ritardi Veloci nel rottamare le vecchie tutele, molto meno nel predisporre un moderno regime di ricollocazione per chi perde il lavoro. Dopo oltre un anno di attesa, e con non poche modifiche rispetto all’impianto originario, sembrerebbe che il secondo pilastro del Jobs Act stia ora per partire. Parliamo del capitolo fondamentale sulle politiche attive, per il quale il condizionale è tuttavia d’obbligo essendo uno dei fronti del 'mercato del lavoro' in cui si registra amaramente una enorme distanza tra la legge scritta e la pratica quotidiana. Già con il pacchetto Treu del 1997 e ancor più con la legge Biagi di cinque anni dopo è pian piano emersa nel nostro Paese, quasi contemporaneamente rispetto alle nazioni che spesso consideriamo un modello, la coscienza che alcune certezze che avevano guidato il Novecento industriale stavano rapidamente venendo a meno. Prima fra tutte l’idea che il medesimo posto di lavoro potesse riempire l’intera carriera di un lavoratore, che dopo la sua formazione entrava in una impresa e vi usciva solo una volta pensionato. Questo era reso possibile da mercati stabili, per i quali il ruolo stesso del lavoratore, visto come consumatore dei beni che egli stesso produceva, era proprio garanzia di stabilità. Si poteva produrre in maniera costante e controllata perché si conosceva e si governava anche la domanda dei beni, sia attraverso i salari che attraverso altri strumenti propri del sistema di Welfare pubblico. Entrato in crisi questo equilibrio, per molteplici ragioni (globalizzazione, sviluppo tecnologico, dinamiche demografiche e altro ancora) si è introdotta una notevole dinamicità all’interno dei percorsi professionali e oggi un ragazzo che si affaccia al lavoro sa bene che il posto fisso non può neanche vagamente essere contemplato nel suo orizzonte, ma che lo aspetta una carriera composta da diverse fasi. A fronte di questa consapevolezza teorica, la logica porterebbe a costruire strumenti per accompagnare i lavoratori nei sempre più frequenti periodi di transizione da un posto all’altro, valorizzandone le competenze e le attitudini e aiutando le imprese a individuare i lavoratori a esse

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necessari. Un grande aiuto viene oggi anche dalla tecnologia, con la possibilità di costruire potenti banche dati per l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro che ben potrebbero costituire l’infrastruttura di quella borsa nazionale del lavoro di cui si parla oramai da troppi anni. Purtroppo di buone pratiche in questo senso ne abbiamo viste ben poche, salvo esempi virtuosi di qualche regione italiana. Le numerose norme approvate sul tema, legge Biagi in primis, sono rimaste sistematicamente prive di attuazione pratica. E anche le ingenti risorse pubbliche spese per la 'Borsa del lavoro' non hanno sin qui prodotto neppure una minima infrastruttura tecnologica comparabile a quella presente in molto altri Paesi. Prova della scarsa considerazione di questo pilastro centrale di un moderno mercato del lavoro è anche la lentezza che ha caratterizzato il capitolo politiche attive del Jobs Act. Inoltre, dopo il processo di decentramento avviato con la legge Treu, si è ora tornati a una concezione centralistica di dubbia efficacia già fallita in un non lontano passato e che rischia, se non sviluppata entro una vera logica sussidiaria, di essere lontana dai territori e dalle persone. Come ha confermato il fallimento di Garanzia Giovani, è ancora agli inizi il processo di cooperazione tra attori pubblici e operatori privati mentre fermo sulla carta è il contratto di ricollocazione e cioè la tutela di nuova generazione pensata per superare l’articolo 18 e che in sostanza prevede un insieme di misure personalizzate, tra cui una dote economica, per la presa incarico e il successivo reinserimento professionale di chi ha perso il lavoro. Quello che ci possiamo augurare è che alla coscienza teorica della necessità di un sistema di politiche attive segua una vera azione politica e pratica che dia vita a un percorso che coinvolga tutte le persone di buona volontà che si occupano della grande emergenza del mercato del lavoro italiano. A partire dal sistema formativo, vero volano per l’occupazione giovanile, passando per gli operatori pubblici che molto hanno da imparare da quelli privati, che a loro volta devono svolgere al meglio la loro funzione coniugando in modo moderno la conciliazione tra funzione pubblica e interesse d’impresa. Attendiamo fiduciosi – mentre continuiamo a sperimentare l’alternarsi di dati in chiaroscuro sull’occupazione – l’esito pratico della ennesima riforma annunciata, sperando che questa volta gli errori compiuti negli anni passati siano un monito per fare meglio e bene, e non solamente occasione di uno scontro politico e ideologico sui temi del lavoro, che ha lasciato indietro troppe persone in situazioni di grande difficoltà su quello che è la ricchezza più preziosa per una società che vuole essere giusta perché, al tempo stesso, efficiente e inclusiva. IL GAZZETTINO Pag 1 Economia e crescita, i veri numeri di Italia e Germania di Marco Fortis Negli ultimi 6 trimestri il Pil dell’Italia non soltanto è cresciuto di più di quello della Germania dal lato della domanda, se si esclude l’apporto della spesa pubblica. Ma anche dal lato dell’offerta il valore aggiunto italiano è aumentato di più di quello tedesco nei settori tipici dell’economia reale, mentre il nostro Paese ha invece sofferto nel settore finanziario e assicurativo e in quello delle telecomunicazioni. Infatti: nell’agricoltura la crescita del valore aggiunto è stata dal primo trimestre 2015 al secondo trimestre 2016 del 7,4% in Italia e solo dello 0,1% in Germania; nell’industria escluse le costruzioni dell’1,5% in Italia e solo dell’1% in Germania; nel commercio, trasporti e turismo dell’1,8% in Italia e appena un poco più alta, del 2,1%, in Germania; nei servizi immobiliari del 2,1% in Italia e dell’1,7% in Germania; nell’arte, cultura e servizi ricreativi dell’1,5% in Italia e appena un poco più alta, dell’1,8%, in Germania. Pur considerando che l’industria delle costruzioni in Germania nello stesso periodo è cresciuta del 2,8% mentre è progredita solo dell’1,3% in Italia, se sommiamo il valore aggiunto di tutti i sopracitati settori incluse le costruzioni il valore aggiunto complessivo dell’Italia nell’economia reale è aumentato negli ultimi 6 trimestri dell’1,9% mentre quello tedesco soltanto dell’1,6%. È sufficiente analizzare le statistiche disaggregate dell’Eurostat sul Pil che sono state aggiornate nel week end scorso per prendere atto di questo dato di fatto. Ciò ribalta tutte le argomentazioni che in questi mesi sono state spese nei dibattiti e sui media sulla presunta miglior competitività e produttività della Germania, soprattutto nell’industria, quale spiegazione fondamentale del perdurante divario di crescita tra Germania e Italia. E sulla presunta scarsa efficacia delle azioni di politica economica messe in atto dal Governo italiano per rilanciare l’economia. In

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effetti, tra il primo trimestre 2015 e il secondo trimestre 2016 il valore aggiunto complessivo dell’economia tedesca è aumentato del 2,3% (rispetto al quarto trimestre 2014) mentre quello italiano è cresciuto soltanto dell’1,2%. Ma questo divario non è affatto dipeso, come la maggior parte degli analisti ritengono, da ipotesi che spesso si trasformano in dogmi quali la minore competitività e capacità di presidiare i mercati internazionali delle nostre imprese manifatturiere o la nostra minore produttività o, ancora, la nostra più bassa spesa in ricerca e sviluppo, ecc. Bensì, più banalmente, il differenziale di crescita tra Berlino e Roma è stato determinato dalla circostanza che la Germania ha fatto più spesa pubblica dell’Italia e che le sue banche e assicurazioni, nonostante esse piangano continuamente miseria per i bassi tassi di interesse provocati dalla Bce, sono andate molto meglio di quelle italiane. Se si somma il valore aggiunto dei servizi pubblici, delle banche e assicurazioni, delle telecomunicazioni e dei servizi professionali e di supporto, il valore aggiunto tedesco dal primo trimestre 2015 al secondo trimestre 2016 è aumentato del 3,5%, mentre quello italiano è rimasto praticamente fermo (+0,1%). Questo è il dilemma su cui ragionare, non l’industria, il turismo, l’agricoltura. Tuttavia, poiché l’economia reale - almeno nell’ultimo anno e mezzo - è andata molto meglio in Italia che in Germania, le questioni non meno urgenti da mettere sul tavolo per capire la dinamica economica italiana comparata con quella tedesca a nostro avviso sono soprattutto le seguenti: 1) come possa la Germania continuare ad atteggiarsi a “falco” del rigore in Europa visto che oltre i 2/5 della sua crescita dell’ultimo anno e mezzo è stata “keynesianamente” generata dal settore pubblico? Ciò al punto che i servizi della pubblica amministrazione, della difesa, della istruzione e della salute sono cresciuti trimestralmente nello stesso periodo di 3,1 miliardi di euro in Germania contro gli appena 318 milioni dell’Italia. 2) come sia possibile che il settore delle telecomunicazioni nell’ultimo anno e mezzo sia cresciuto a valori costanti trimestrali di 1,1 miliardi di euro in Germania e diminuito di quasi mezzo milione di euro in Italia? 3) perché il valore aggiunto dei servizi tecnici, professionali, amministrativi e di supporto nello stesso periodo è cresciuto trimestralmente di 3,5 miliardi in Germania ed è aumentato solo di 374 milioni in Italia? Quali attività sono incluse in questa voce (forse in Germania vi sono ricompresi anche i lavori socialmente utili?) e come sono misurate per spiegare un simile divario? 4) il valore aggiunto trimestrale di banche e assicurazioni è cresciuto negli ultimi sei trimestri di quasi 600 milioni di euro in Germania mentre in Italia è arretrato di 129 milioni. Chi pagherà, alla fine, il conto dei nostri dissesti bancari e della distruzione di risparmio che essi hanno generato, con un effetto depressivo anche sui consumi? Sul punto 1 la risposta è principalmente politica e va trovata in Europa. Sui punti 2 e 3 possono dire cose importanti gli economisti, se smettono di inseguire facili e banali spiegazioni sulla bassa crescita dell’Italia, ma anche Eurostat ed Istat, perché i settori delle telecomunicazioni e dei servizi professionali presentano non banali problemi di misurazione e omogeneità statistica che possono generare asimmetrie nei confronti internazionali. Sul punto 4, dopo che il Governo ha fatto ciò che poteva per evitare che continuasse la cattiva gestione di diverse banche locali (colpevolmente tollerata nel passato), è auspicabile che anche la giustizia penale faccia rapidamente il suo corso, punendo i malfattori e restituendo ai risparmiatori fiducia nel futuro e nelle banche corrette. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 25 Un cuore per sostenere la Scuola di San Rocco di P.G. Il progetto di Jaeger-LeCoultre per la tutela delle bellezze da tre anni finanzia i restauri dell’edificio e delle sue opere Venezia - Anche quest’anno, in occasione della 73esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, di cui è sponsor principale dal 2005, Jaeger-LeCoultre ha deciso di invitare gli appassionati del cinema ad aumentare, semplicemente con un piccolo gesto, le donazioni a favore della Scuola Grande di San Rocco. Fino a sabato prossimo, tutti coloro i quali vorranno dare il loro supporto a questo importante

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progetto potranno disegnare il proprio cuore sul libro d’oro presente nella lounge Jaeger-LeCoultre all’Hotel Excelsior del Lido di Venezia: ogni cuore diventerà un sostegno concreto e un contributo economico nel restauro del patrimonio artistico di San Rocco. E’ ormai da più di dieci anni che Jaeger-LeCoultre è strettamente legata a Venezia nell’ambito dell’amore per l’arte e la tutela del patrimonio, attraverso la sua collaborazione con la Mostra del Cinema ma anche diventando mecenate della Scuola Grande di San Rocco, grazie ad un importante progetto di restauro, avviato nel 2013. La prima partecipante al progetto è stata Carmen Chaplin, ambasciatrice Jaeger-LeCoultre, che ha disegnato un cuore poi inciso sul retro di un orologio Reverso (che non verrà messo in vendita) esposto nella lounge per l’occasione. Merita di essere ricordato che grazie all'intervento della maison svizzera, nel corso degli anni la Scuola di San Rocco ha beneficiato di notevoli migliorie, a salvaguardia del proprio patrimonio culturale ed artistico. E’ stato possibile migliorare l’illuminazione nella Sala dell’Albergo, valorizzando cosi le opere del Tintoretto in essa custodite. Un secondo intervento ha reso possibile il restauro dei marmi della Scuola, in particolare nella Sala Capitolare e sul portale monumentale che porta alle scale in stile imperiale. Questo perché il restauro è un’arte al centro dei valori della maison. La tutela e la salvaguardia del patrimonio sono valori fondamentali per Jaeger-LeCoultre, che è impegnata nella protezione del patrimonio mondiale naturale, attraverso la sua collaborazione con l’Unesco, ma anche del patrimonio artistico, così come dimostra il suo sostegno ai lavori di restauro di Venezia. Conservare ciò che l’uomo ha pazientemente creato, grazie al suo genio e alle sue mani esperte, per assicurarne una migliore trasmissione è quindi una vera e propria missione per chi, considera come naturale la conservazione del prezioso patrimonio proprio ed altrui. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 1 Le “buone notizie secondo Anna”, pagine d’amore per la figlia Down di Federica Cappellato Facebook e blog: la sfida di un papà Quando era giovane, durante un campo-scuola a Roma incrociò per caso un gruppo di Missionarie della Carità. Insieme a loro, una suorina esile ma dalla tempra d'acciaio e lo sguardo dirompente. Era Madre Teresa di Calcutta, oggi santa. Il padovano Guido Marangoni, all'epoca 17 anni, le si avvicinò per chiederle un autografo. Lei risposte regalandogli un'immaginetta dove, sopra, vi scrisse: «God bless you». Dio ti benedica. Poi, guardandolo fisso occhi, gli disse: «Quando diventerai padre, non avere paura». Parole che a Marangoni, ingegnere informatico quarantenne, da quasi vent'anni sposato con Daniela, non hanno mai smesso di frullare nella testa, per cercarvi un senso. Scoperto tre anni fa quando Daniela, dopo le figlie ora adolescenti Marta e Francesca, era nuovamente incinta. «All'ospedale di Padova ci annunciarono che alcuni valori erano fuori norma, che qualcosa non andava. Eravamo pronti al peggio. Quando ci dissero che il nostro terzo figlio era affetto da sindrome di Down quasi tirammo un sospiro di sollievo. Tra le varie ipotesi, ci sembrava la più sostenibile. Non dico che non abbiamo avuto paura, ma abbiamo affrontato tutto come famiglia e, insieme, capito una cosa essenziale: tua figlia, perché fu un'altra bambina, viene prima di tutto. Molto prima dei problemi, delle disabilità che può avere». Così in un giorno di marzo del 2014 nacque Anna, con quel cromosoma in più, Trisomia 21. E fu subito amore, un amore intensissimo e sconfinato. Tanto che papà Guido decise di far fruttare le sue competenze informatiche per una buona causa, la causa di sua figlia. E d'accordo con la moglie s'inventò un modo per raccontare Anna, per sdrammatizzare e sorridere, per abbattere a picconate e servendosi dell'ironia un tabù duro a morire, per far capire che la vita va oltre gli occhi a mandorla e la lingua in fuori. Su Facebook Marangoni ha aperto la pagina «Buone notizie secondo Anna» che oggi conta 18mila followers, ed è anche blog dall'omonimo nome. Il pezzo forte sono cartoline/fumetto che arrivano anche a 3 milioni di visualizzazioni. «Io NON sono la mia sindrome di Down, quella è solo una parte di me.

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Come tu NON sei i tuoi occhi, il tuo lavoro, la tua pelle... sono solo una parte di te», così si presenta Anna. Che con la sua malattia gioca, prendendo in giro i «grandi», quelli «Up» con l'hastag #evoisaresteup. Satira leggera, per così dire, che affonda le sue radici in una storia di vita vera, a gestione familiare. «L'ispirazione - racconta papà Guido, per hobby comico con spettacoli portati in giro per l'Italia, compresa un'esperienza a Zelig Lab - mi è venuta da una frase di Papa Francesco: "La sfida che oggi ci si presenta è reimparare a raccontare, non semplicemente produrre e consumare informazione". Così abbiamo iniziato a sfruttare le potenzialità di Facebook. È partito tutto un po’ come un esperimento il cui obiettivo era far almeno intuire, a chi non aveva ancora incontrato la disabilità, che gestirla poteva essere molto più semplice delle convinzioni che spesso ci costruiamo addosso. Ci si poteva anche ridere su e provare a guardare da un nuovo punto di vista le nostre normo-certezze che tanto ci regalano sicurezza, scoprendo magari che i veri "dis-abili" siamo noi». Tanto più se a insegnare a vivere è una simpatica bimba di due anni e mezzo. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’Italia e i sospetti europei di Maurizio Ferrera Flessibilità sul deficit Sulla scia del drammatico terremoto in Italia centrale, Matteo Renzi ha riaperto la questione della cosiddetta flessibilità, chiedendo a Bruxelles un consistente sconto sul deficit pubblico del 2017. Sarebbe la terza volta dal 2015. A questo punto è chiaro che non si tratta solo di iniziative giustificate da eventi imprevisti, quanto piuttosto del tentativo di rinegoziare quel «vincolo esterno» sul bilancio pubblico che negli anni è diventato sempre più stretto. E che compromette i margini di manovra considerati essenziali per il governo dell’economia. Dal punto di vista interno, l’obiettivo appare comprensibile e legittimo. Lo stesso si può dire, però, dei dubbi e delle resistenze dei nostri partner, a cominciare dalla Germania. Osservato dall’esterno, il sistema Italia continua infatti a produrre segnali contrastanti. Al dinamismo di alcuni settori produttivi si contrappone un preoccupante ristagno dell’economia nel suo complesso, recentemente confermato dall’Istat. I turisti che viaggiano per il nostro Paese colgono gli indizi di una società prospera. E le statistiche confermano che la ricchezza privata degli italiani è fra le più elevate d’Europa. Eppure abbiamo un debito pubblico enorme e tuttora in crescita, livelli di povertà (soprattutto minorile) da Terzo Mondo, servizi pubblici scadenti. Persino dal terremoto, con il suo terribile fardello di vittime e distruzione, sono emersi messaggi ambigui. Da un lato, una grande mobilitazione di solidarietà spontanea, testimonianza di un robusto capitale sociale. Dall’altro, la persistente diffusione di indegni fenomeni di inefficienza, corruzione e frodi nell’uso delle risorse pubbliche, in occasione del precedente terremoto. Verso l’Europa Matteo Renzi ha adottato un discorso nuovo, tutto incentrato sulla rottura con il passato e sulle riforme. Il 31 agosto il presidente del Consiglio ha riassunto in trenta slide altrettanti successi del proprio governo: dall’occupazione alle tasse, dagli interessi sul debito alla giustizia. Un esercizio utile, per carità. Ma chi ci osserva dall’esterno, per quanta simpatia possa avere per il nostro premier, sa bene che si potrebbero compilare altrettante slide sui vizi persistenti del sistema Italia, nonché sulle questioni che sono rimaste ai margini dell’agenda governativa: lavoro femminile (siamo ancora il fanalino Ue), ricerca e sviluppo, economia sommersa e illegale e soprattutto il drammatico e crescente divario del Mezzogiorno dal resto del Paese. È in questa cornice che vanno inquadrate le perplessità europee a concedere quel credito (anche finanziario) che il governo rivendica. Il paradigma dell’austerità, caro a molti commissari Ue e ministri dell’Eurogruppo, spiega una parte non secondaria di queste perplessità. Ma il resto è colpa nostra. Della «politica», in primo luogo. In buona parte, però, anche di quei corpi intermedi (sindacati, associazioni imprenditoriali, corporazioni varie) che oggi chiedono a gran voce più coinvolgimento nei processi decisionali. Non possiamo stupirci se a Bruxelles il tentativo di rinegoziare il vincolo esterno possa sembrare una tattica

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opportunista, volta a comprare tempo e risorse che poi verranno utilizzate in modi non virtuosi. La credibilità internazionale è un bene difficile da conquistare. Renzi non ha torto quando dice che le riforme richiedono tempi lunghi per dispiegare i propri effetti. Siamo tuttavia sicuri che l’agenda del governo sia sufficientemente ambiziosa, basata su una diagnosi articolata e coerente di tutte le ombre? Ammesso (ma, francamente, non concesso) che lo sia, quali sono esattamente gli strumenti con cui realizzarla con tempi non biblici? Dov’è quella «squadra» di esperti, lungamente promessa, che dovrebbe progettare, monitorare, valutare le politiche pubbliche? E infine: in che misura i famosi corpi intermedi concordano sulla diagnosi di base e sulle linee strategiche per il cambiamento? Senza risposte chiare a questi interrogativi, è difficile dissipare i sospetti. E invece di essere (se usata bene) una soluzione per far ripartire la crescita, la riduzione del vincolo esterno rischia di alimentare molti dei vecchi vizi, relegandoci in una lunga eclisse di ristagno economico e sociale. Pag 5 Il caos romano fa regredire il movimento di governo di Massimo Franco C’è una vistosa incongruenza tra l’evocazione di un complotto da parte dei giornali, e il direttorio del M5S che chiede a Virginia Raggi di liberarsi di tre collaboratori e un assessore. E i vertici del Movimento che si riuniscono in piazza in una cittadina balneare a sud di Roma con Beppe Grillo senza incontrare la sindaca della Capitale, rafforzano l’impressione di una strategia da ricostruire. Grillo, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista additano nemici intenti al sabotaggio. «Il sistema è compatto contro di noi», tuona Grillo, e insulta tutti. La Raggi lamenta di essere sotto tiro perché dà fastidio. Sono messaggi che vogliono essere rassicuranti per il proprio elettorato; e che in parte riflettono la realtà, in parte la costruiscono artificiosamente per fornire un alibi di fronte ai pasticci e alle mezze verità di questi giorni. È chiaro che l’unica scelta possibile in una fase così confusa è la resistenza. Il tentativo mal riuscito è di presentarsi come forza compatta, concorde: al massimo un po’ ingenua. Ma in questi riflessi condizionati si colgono gli indizi di un pesante passo indietro del M5S. La telefonata di ieri tra la sindaca e Grillo conferma non solo una divergenza sul modo di trattare l’assessore all’Ambiente, Paola Muraro, inquisita, va oltre. Tocca due temi che esaltano le ambiguità del M5S. Il primo è il doppio standard sulle iniziative della magistratura, che oscilla tra giustizialismo verso gli avversari, e garantismo per i propri indagati. Il secondo riguarda l’opacità delle dinamiche che fanno scegliere una persona invece di un’altra. La pretesa di una totale trasparenza è umiliata dalla scoperta che dietro la Raggi si muovono interessi e personaggi dai contorni poco chiari. La questione non riguarda solo il Campidoglio dei Cinquestelle: lo si è visto nel sottobosco di Mafia Capitale e nelle giunte precedenti. Ma la connotazione antisistema dell’esercito di Grillo deve fare i conti col rischio di infiltrazioni da parte di interessi che non sembra in grado né di valutare né di controllare; e che sfruttano i vuoti di competenza e di classe dirigente di oggi. Il difetto di esperienza e di professionalità del M5S suona come virtù e elemento di forza, dopo i fallimenti degli «altri». Quando si passa dal successo elettorale all’amministrazione, però, il dilettantismo può rivelarsi letale. Il rischio vero del M5S non è di essere aggredito da partiti identificati con il malgoverno, e alle prese con una crisi economica che indebolisce tutti. La sua parabola potrebbe essere accelerata dall’ostinazione a non voler cambiare; a non rimettere in discussione il suo modello di leadership; e a non riconoscere gli enormi difetti di quella che chiama «democrazia della Rete». La Rete si sta smagliando perché quella «democrazia» è solo virtuale. Gridare al complotto non basterà a ricucirla. Pag 8 Onestà e sospetti, tre mesi di liti di Goffredo Buccini L’ingresso trionfale in Comune. Poi tensioni, nomine opache e addii fino all’inchiesta nascosta L’unica certezza è l’incipit. Ancora risuona nell’aula Giulio Cesare l’eco di quel grido, «onestà, onestà!», così carico di entusiasmo militante da impedire, persino oggi, facili ironie anche al più maramaldo. È il 7 luglio. Per la prima volta a Roma si insedia sindaco una donna, una madre, una grillina: Virginia Raggi. Tra i flash, mamma Virginia fa salire sullo scranno di primo cittadino il figlio Matteo, 6 anni: discontinua anche nello stile. In

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platea, plaudente, c’è tuttavia un bel tratto di continuità: Pieremilio Sammarco, titolare dello studio che assiste Cesare Previti. L’avvocato Virginia proprio da Previti ha fatto il praticantato, Sammarco mentore. Ha dimenticato di scriverlo nel curriculum, e non è la sola omissione. S’è scordata anche un incarico nella società di una segretaria di Franco Panzironi, anima nera di Mafia Capitale. L’hanno pure beccata a fare il copia incolla dal web sul suo programma elettorale. Ma quel grido, «onestà, onestà», sembra un inno alla gioia che tutto cancella. Persino i prodromi di questo giallaccio: passo indietro necessario per capire quasi tre mesi di segreti e bugie. 17 giugno, la profezia - Mancano due giorni al ballottaggio. Alle 21.07 Virginia preannuncia quattro assessori in caso di vittoria. Tra loro Paola Muraro: «Collabora con l’Ama, sa cosa fare...». Allora sembra un viatico, oggi pare una sinistra premonizione. Dev’essere suonata sinistra anche ai bene informati del Movimento: «Hanno messo la volpe a guardia del pollaio», è uno dei primi, acidi commenti su Facebook. Parte su Change.org una raccolta di firme contro l’assessora in pectore: ottocento in un battito di ciglia. 5 luglio, il raggio magico - Comincia un balletto estenuante sulle poltrone. I giorni si consumano in trattative tra le anime del Movimento, la rivalità con Roberta Lombardi è piombo nelle ali: la Raggi vuole accanto gente di cui si fida. Il primo è Daniele Frongia, angelo custode che l’accompagna in macchina all’insediamento. Azzoppato dai cavilli della legge Severino e dall’ostilità della Lombardi, Frongia non può occupare lo strategico posto di capo di gabinetto: diventerà vicesindaco. Si tira dietro Raffaele Marra, vicecapo di gabinetto e vero plenipotenziario politico: 120 mila euro l’anno di stipendio, malvisto dal direttorio romano (egemonizzato dalla Lombardi e da Paola Taverna) per avere lavorato con Alemanno e la Polverini e sospettato di essere un fil noir che connette molti punti attorno a Virginia. Chi decide per la sindaca? 9 luglio, il primo addio - Dagli studi legali «previtiani» alla destra affarista della vecchia giunta Alemanno fino a Manlio Cerroni, il «Supremo» boss della mondezza romana cui, si scoprirà poi, la Muraro è collegabile almeno da un contatto societario comune: si profila un quadro complesso che forse spaventa Daniela Morgante, indicata dall’ala lombardiana come capo di gabinetto: «Mi hanno messo nel tritacarne, rinuncio, sono un magistrato». Grillo interviene, la Lombardi fa un passo indietro. L’assessore al Bilancio Marco Minenna, ex Consob, voluto da Luigi Di Maio come segno di rinnovamento, ottiene la nomina di Carla Raineri, magistrato anticorruzione, con uno stipendio da 193 mila euro subito al centro delle polemiche. 17 luglio, la rivelazione - Paola Muraro, sempre più chiacchierata (12 anni di consulenze Ama per oltre un milione di euro di compensi) chiede accesso agli atti della Procura in base all’articolo 335 del codice. Si scopre indagata dal 21 aprile per gestione illecita di rifiuti in un’inchiesta sull’Ama e le ditte che fanno capo a Cerroni (a sua volta inquisito). Informa subito dopo la sindaca. La Raggi sosterrà di averne informato il direttorio romano. Saltano fuori anche tre telefonate (non rilevanti penalmente) tra la Muraro e Salvatore Buzzi, socio del boss Carminati in Mafia Capitale. L’assessora che all’Ama controllava la regolarità dei flussi di rifiuti in entrata e uscita, si scopre fidata collaboratrice di Panzironi e di Giovanni Fiscon, ex dg della municipalizzata, pure lui dentro Mafia Capitale. 25 luglio, in streaming - L’assessora entra, telecamere al seguito, in Ama, umiliandone pubblicamente il presidente Daniele Fortini,che annuncia le dimissioni. In ballo c’è l’idea di tornare ad usare una discarica a Rocca di Cencia riconducibile proprio a Cerroni. I giornali cominciano a incalzare sindaca e assessora, entrambe ripetono che la Muraro «non ha ricevuto avvisi di garanzia», giocando sull’equivoco: la qualità di indagato non ne dipende, l’avviso si manda solo se necessario ad atti di indagine e la Muraro era già «informata» dal 17 luglio. 4 agosto, «caro Luigi» - Il 2 agosto, a cena da Alessandro Di Battista al Flaminio, la Raggi (con Frongia) incontra il direttorio nazionale per discutere il «caso Muraro». Tace ciò che sa? Due giorni dopo Paola Taverna manda a Di Maio una mail dettagliata in cui lo informa che l’assessora è indagata. Di Maio dirà di avere frainteso il testo. In un’estate di dossier incrociati da «tutti contro tutti», scoppia anche il caso di Salvatore Romeo, capo segreteria politica, fedelissimo di Marra, messo in aspettativa e di nuovo «ingaggiato» al triplo dello stipendio (105 mila euro).

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1 settembre, i 5 in fuga - Richiesta di un parere, l’Anac di Cantone si pronuncia sfavorevolmente sulla procedura di nomina della Raineri. La Raggi lo comunica su Facebook con un post alle 5 di mattina; si sospetta che l’estensore della richiesta sia Marra. Con la Raineri si dimettono Minenna e i vertici delle aziende di trasporti e rifiuti. Paolo Berdini, assessore all’urbanistica, si dimette, poi ci ripensa: «Bisogna mettere Marra nelle condizioni di non nuocere». La giunta è a pezzi. 4 settembre, cade il velo - Davanti alla commissione Ecomafie, Raggi e Muraro ammettono di essere da tempo a conoscenza dell’indagine sull’assessora. A cena in una pizzeria di Testaccio, la sindaca si sfoga (secondo il Fatto) con Di Maio al telefono: «O mi dite cosa fare o andiamo a casa, un’altra come la Muraro dove la trovo?». Quando sostituisce Minenna, posta una foto (con 1.300 like su Twitter): lei, Romeo e lo staff che scrutano un computer, «stiamo scegliendo il nuovo assessore al Bilancio, il lavoro non si ferma!». Purtroppo, quasi in contemporanea, il nuovo prescelto, il magistrato contabile Raffaele De Dominicis, rivela: «Un amico, l’avvocato Sammarco, mi ha chiesto disponibilità e ho ritenuto di dovermi mettere a disposizione del sindaco Raggi». Come in un gioco dell’oca truccato, si torna sempre al punto di partenza. Non ci fosse Roma sul tabellone, sarebbe anche divertente. Pag 10 Un muro per fermare i migranti a Calais di Paola De Carolis e Franco Venturini Londra finanzia i lavori per impedire il passaggio in Gran Bretagna. Quei mattoni nella patria delle libertà: Europa senza memoria Londra. I lavori non sono ancora iniziati, ma il nome già c’è: la grande muraglia di Calais. Un chilometro di lunghezza per quattro metri di altezza per proteggere il porto e il traffico diretto in Gran Bretagna dai migranti della Giungla. Il costo sarà di 1,9 milioni di sterline di fondi pubblici, parte del pacchetto anglo-francese su maggiori misure di sicurezza al confine. La ministra degli Interni britannica Amber Rudd ha sottolineato che non si tratta di un’idea nuova, né tantomeno di un progetto britannico. «Il nostro compito è di permettere ai francesi di aumentare la sicurezza a Calais. Forniamo i fondi ma sono loro a decidere come gestirli». Colpa di Parigi, allora, se il Nord Europa avrà presto un muro che per il deputato laburista Chuka Umunna, membro della Commissione parlamentare sugli Affari interni, sembra ispirato dalla visione del mondo di Donald Trump. Non è un piano che raccoglie consensi. Per l’associazione dei camionisti britannici «è un utilizzo poco intelligente di fondi pubblici». Le strade minori, ha detto un portavoce, sono il vero problema. «È lì che i trasportatori incontrano di tutto, dal fuoco, ai tronchi d’albero, ai carrelli della spesa: misure sempre più estreme con le quali i profughi cercano di costringere i camion a rallentare». Secondo François Guennoc, dell’associazione Auberge des Migrants, il muro è «uno spreco di soldi». «Non fermerà nessuno, renderà la traversata più pericolosa e aumenterà ulteriormente i prezzi dei trafficanti». Fanno eco i medici di Doctors of the World, che lavorano all’interno dei campi di Calais. «Non servono muri, ma ponti per affrontare una crisi umanitaria che sembra senza fine». Per Steve Symmonds, del ramo britannico di Amnesty, il muro «è un ulteriore esempio della mancanza di leadership e alla sconcertante incapacità dei governi europei di trovare una soluzione che abbia un po’ di umanità». Il sottosegretario britannico per l’Immigrazione Robert Goodwill si è detto fiducioso dell’efficacia del progetto. Il muro verrà realizzato in acciaio lungo entrambi i lati della strada che conduce al porto, la Rocade. L’effetto estetico sarà ammorbidito con verde e piante. Il muro non sostituirà le recinzioni già esistenti: «Le misure attuali non bastano», ha sottolineato Goodwill, aggiungendo che il piano prevede anche uno «spazio sicuro» per 200 camion dove sostare senza temere l’arrivo di migranti. I lavori, ha promesso, inizieranno entro la fine del mese e si concluderanno prima della fine dell’anno. Le critiche non si sono fatte attendere, anche perché Goodwill, nominato segretario meno di due mesi fa, non è mai stato a Calais e non è in condizione di fornire la data di una possibile visita. Il problema esiste. La media, stando a dati ufficiali, è di un migrante bloccato al confine ogni sei minuti, ma secondo Vikki Woodine, dello studio legale DWF, «non serve un muro, servono più controlli e più agenti».

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Che stesse rinascendo l’Europa dei muri, lo si era già detto mentre la «rotta dei Balcani» percorsa dai rifugiati provenienti dalla Siria veniva bloccata, ad ogni nuovo confine, da reticolati e cavalli di frisia. Ma nessuno avrebbe immaginato, in quei mesi, che nella Francia patria delle libertà sarebbe sorto un muro in mattoni e cemento proprio come quello di Berlino, alto quattro metri e lungo un chilometro. Nessuno avrebbe potuto prevedere, allora, che un tale muro sarebbe stato il frutto di un accordo anglo-francese, e che il governo di Londra sarebbe stato il primo ad annunciarlo senza nascondere la sua soddisfazione. Che la crisi dei migranti abbia infiacchito l’antico e proverbiale orgoglio nazionale dei nostri cugini d’Oltralpe? Nella vigilia elettorale che già domina i dibattiti francesi qualcuno vorrà sapere chi ci guadagna, ma nell’attesa può essere utile provare a capire cosa stia accadendo. Decine di migliaia di migranti provenienti dalla «rotta mediterranea», quella che tocca l’Italia, hanno trovato e trovano ancora il modo di giungere a Calais, il porto francese dirimpettaio della Gran Bretagna. Nella «giungla» - così è stato battezzato quel mondo di umanità sofferente ma non sempre innocente — il gioco al quale tutti vogliono vincere è passare la Manica. Attraverso l’Eurotunnel, con imbarcazioni di fortuna, ma molto più spesso bloccando con un finto incidente l’autostrada che conduce al porto e approfittando del rallentamento per nascondersi a bordo dei Tir diretti dall’altra parte. Undici morti negli ultimi mesi, forti proteste britanniche, propositi francesi di smantellamento della «giungla». Fino all’accordo: un muro vero in sostituzione delle reti attuali, per impedire l’accesso all’autostrada. Costo 17 milioni di sterline, quota britannica 2 milioni di sterline (fonte Ap ). Ma non hanno il senso della storia, i due governi? Oppure non hanno memoria? E poi, un muro di un chilometro, non è facilmente aggirabile? E quella gente, se ha attraversato il Mediterraneo rischiando la vita, non continuerà a rischiarla con maggiori probabilità di cavarsela anche a Calais? E visto che tutti i migranti dovrebbero rimanere in Francia, chi e come smantellerà una «giungla» ancor più piena di furori e di disperazione? La neofita Theresa May rischia una delusione. E il presidente Hollande fa pensare a un disorientamento pre-elettorale che può favorire soltanto una certa signora Le Pen. Pag 31 La fragilità del sistema può fare risalire le quotazioni di Renzi di Francesco Verderami La fragilità del sistema politico è tale che basta poco perché gli equilibri cambino. E infatti sono bastati due mesi per invertire la tendenza: l’estate che era iniziata offrendo l’immagine di un nuovo bipolarismo imperniato sul duello Renzi-Di Maio, va chiudendosi con il premier che torna ad apparire come l’uomo senza alternative. Certo il leader del Pd si è progressivamente indebolito, l’aura del rottamatore è stata intaccata dagli eventi, dalle difficoltà di governo, sfruttate dagli avversari esterni e soprattutto interni al suo partito, che ormai mostrano pubblicamente di volerlo rottamare. Questa strategia di logoramento e accerchiamento faceva (e fa tuttora) perno sulla forza d’urto dei Cinquestelle. Ma i vincitori delle Amministrative sono finiti prigionieri di un teorema - se sapranno governare Roma sapranno governare l’Italia - che sembra ribaltarsi. E che rischia di annichilirli. La crisi del Movimento potrà anche essere momentanea, però è stata sufficiente a modificare la geografia politica. È da vedere se tutto ciò inciderà nel Palazzo e nel Paese, perché quel blocco sociale ostile all’establishment - radicato peraltro in tutto l’Occidente - prescinde dal grillismo. Anche se in Italia è il grillismo a rappresentarlo. E dunque, al fixing attuale, la partenza fallimentare della giunta Raggi in Campidoglio potrebbe influire persino sul risultato referendario: magari non si assisterebbe a uno spostamento di voti dal No verso il Sì, ma basterebbe che un pezzo di elettorato grillino deluso trasmigrasse verso l’area dell’astensionismo, per avvantaggiare Renzi e la sua riforma costituzionale. Non a caso l’approccio del premier alla crisi di M5S è scevro di accenti polemici: serve a conquistare consensi in vista della consultazione popolare, o quantomeno a spostarli su posizioni meno intransigenti. Le difficoltà dei grillini hanno riflessi anche sulle manovre in Parlamento, riducono i margini d’azione di quanti puntavano (e puntano) sulla sconfitta del referendum per sostituire il presidente del Consiglio nello scorcio finale della legislatura: è il «governo della Bicamerale», che il leader del Pd ha evocato parlando dell’intesa tra D’Alema e Berlusconi. Il progetto, di per sé complicato, appare allo stato irrealizzabile per effetto del «caso Roma», perché dentro M5S è finita sotto accusa l’area guidata da Di Maio, che

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stava tentando di dare un volto istituzionale al Movimento. Nei mesi scorsi il vicepresidente della Camera aveva detto che - in caso di crisi di governo - i grillini avrebbero «rispettato le decisioni del capo dello Stato», accreditando l’idea di un «patto di non aggressione» verso chi mirava (e mira) al cambio di premier e di governo, prefigurando così un tipo di opposizione inflessibile ma non barricadera. Il «caso Roma» cambia però i rapporti di forza nel Movimento. E lo spostamento verso una linea se possibile più radicale - anche in ambito parlamentare - innescherà una competizione con gli altri partiti di opposizione, a partire dalla Lega. A quel punto Forza Italia - semmai puntasse davvero al «governo della Bicamerale» - sarebbe costretta ad abbandonare i propositi di larghe intese per non correre il rischio di spaccarsi ulteriormente. È il default di sistema che induce tanto le Cancellerie internazionali quanto il mondo delle imprese e del lavoro a propendere per un appoggio a Renzi, restituendolo - seppur sbiadito - al ruolo dell’uomo senza alternative. È il timore del caos che spinge (anche) a sostenere il fronte del Sì al referendum. D’altronde oggi le riforme costituzionali sono vissute - per effetto del gioco mediatico - come un rifugio dei conservatori, mentre il voto contrario incarna l’idea del voto antisistema. Sarà un paradosso, ma per il premier entrato in scena con l’immagine dell’innovatore è oggi un ancoraggio da sfruttare nel Paese. Nel Palazzo, invece, Renzi cerca di riprendere vantaggio facendo leva sulla modifica dell’Italicum, annunciando che è pronto a cambiarlo «se in Parlamento ci saranno i numeri». Ma i numeri in Parlamento li ha il Pd, di cui Renzi è il leader, perciò la furbizia tattica è presto smascherata: tocca al premier e segretario dei Democratici innescare il processo politico e incardinare l’iniziativa a livello parlamentare, se davvero vuole ritoccare la legge elettorale «anche senza l’intervento della Corte costituzionale». In caso contrario, specie se la Consulta non dovesse agire, sarebbe chiaro che si è trattato di un espediente, di una mossa dettata dalla contingenza. Ma la fragilità del sistema è tale che basta poco perché gli equilibri tornino a cambiare. E il fixing di oggi non è detto che resti stabile. LA REPUBBLICA Pag 1 Se il Grillo si chiude a riccio di Mario Calabresi Alla fine anche la soluzione è la più tradizionale che il mondo politico conosca: chiudersi a riccio, difendere tutti e tutto, rifugiarsi nell'omertà e gridare al complotto. Ma lo scandalo resta, intatto ed evidente. Resta al suo posto un'assessora che si occupa di rifiuti ed è al centro di un'indagine per i mancati controlli sui rifiuti; occuperà il suo posto un assessore dai modi estrosi, selezionato non dalla rete ma direttamente dall'ex avvocato di Cesare Previti; resta al suo posto il dipendente comunale che si è messo in aspettativa per farsi riassumere a tempo dallo stesso comune con il triplo dello stipendio. E resta il fatto che da oggi nei 5 Stelle è lecito e tollerato mentire all'opinione pubblica e ai propri elettori, nascondendo ciò che si conosceva da mesi. Trasparenza e legalità sono finite ancora una volta nella categoria degli annunci e delle buone intenzioni, l'opacità, il depistaggio e la furbizia sono la cifra di questa storia e di questa nuova amministrazione che doveva dare un esempio rivoluzionario al Paese. Francamente spiace, perché ai valori civili questo giornale e la sua comunità di lettori sono sempre stati attaccati e nessuno, nemmeno i più feroci avversari politici, avrebbero mai immaginato che potessero essere messi da parte così in fretta da Grillo e dal suo movimento. AVVENIRE Pag 1 Questione di democrazia di Arturo Celletti e Eugenio Fatigante Roma, i Cinquestelle e molto di più Ci sono due aspetti che colpiscono nello psicodramma capitolino di M5S. C’è la sconcertante serie di tossine, rivalità, gaffe, equivoci, dimissioni e camarille intorno e dentro la squadra di governo cittadino di Roma, che rischiano di far assomigliare il tutto a una pochade politica dai sapori forti. E c’è il coro, unanime, degli altri, partiti e dei mass media, lesti a “sparare” sulle inadeguatezze del Movimento e dei suoi rappresentanti, prefigurandone un rapido tramonto. Virginia Raggi siede in Campidoglio da nemmeno 80 giorni, forte di un consenso superiore al 67% dei voti. E ai cittadini è

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stato sinora offerto uno spettacolo non certo edificante, soprattutto se si pensa che la sindaca e i suoi hanno avuto dodici mesi per prepararsi (la vittoria elettorale di M5S era scontata). Ma è anche vero, dopo anni e anni di mala gestio della “vecchia politica”, quella più tradizionale, che il tempo passato è troppo poco per pretendere già di buttare dalla rupe Tarpea un’esperienza, quella del Movimento ispirato da Beppe Grillo, che resta innovativa soprattutto per la scelta strutturale di impegnare «cittadini » che – coi loro limiti e le loro virtù, senza aver mai avuto prima esperienze di governo – si attivano “dal basso” nell’amministrazione della cosa pubblica. Chi già prefigura una prossima «fine» dei cinquestelle lo fa perché spera di recuperare voti – populisti o pseudo tali – che però difficilmente torneranno alla base sic et simpliciter o magari perché tifa per vecchie logiche, quelle che hanno purtroppo dominato nella città di “mafia capitale”. La sua chance, però, la sindaca eletta a furor di popolo deve ancora sapersela meritare. Senza evocare a ogni difficoltà Grillo come deus ex machina. Senza costruirsi alibi a base di ostili «poteri forti» (che ci sono, ma per tutti). E senza straparlare, come fa Di Maio, di «casi montati dal sistema dei partiti e dell’informazione » (il caso, invece, c’è tutto...). Diceva di sé una grande donna di potere, Margaret Thatcher: «Non sono un politico che si basa sul consenso. Sono un politico che si basa sulla persuasione». Il consenso Raggi l’ha avuto. Le fa difetto la persuasione. Il vero pasticcio di questi giorni nasce dal fatto che, al di là della fumosa «visione biocentrica» esposta nel primo discorso al Consiglio comunale, non ha ancora comunicato ai cittadini romani – suoi elettori – una sola idea forte programmatica. Qual è la sua idea di Roma? Quali i suoi progetti? Che cosa prepara per rifiuti e trasporti, o per affrontare i tanti malesseri sociali della metropoli? E ancora, che cosa vuol fare per le Olimpiadi 2024? Se ha una sua linea, la sviluppi e se necessario la imponga. O ha paura di fare come Pizzarotti a Parma? Più che l’azzeramento delle nomine chiesto dal «direttorio » pentastellato, costruisca la sua “indipendenza” con un momento alto di trasparenza, quella trasparenza che il Movimento proclama tra i propri principi ispiratori. Va in questo senso il messaggio video che la sindaca ha lanciato ieri su Facebook. E mezzi ancora più efficaci sarebbero un passaggio in Consiglio comunale per un chiarimento istituzionale e, magari, una sorta di “discorso alla città”. Idem sulle nomine. Per Roma è tempo di governare, non di trastullarsi in una sarabanda di nomi. Su alcuni suoi collaboratori ci sono dubbi, non solo della magistratura (vedi Marra, indotto ieri sera a un passo indietro, come l’assessore Muraro, inevitabilmente in rapporti da anni con Cerroni, il 90enne “re dei rifiuti” a Roma), ma lei operi scelte definitive, davvero una volta per tutte e le difenda se è convinta delle capacità delle donne e degli uomini che l’affiancheranno nella complessità, anche tecnica, delle attività di guida di una capitale. «Le ipotesi di reato le decidono i pm, non i partiti né i giornali», ha tuonato ieri Raggi, dimentica forse del fatto che questo sacrosanto concetto vale sempre. Ora come allora. Insomma, vale anche quando gli indagati sono altri e il “tritacarne” del M5S scatta inesorabile. Certo, c’è la possibilità che imboccando questa strada, la sindaca Raggi finisca di diventare per M5S una replica di quello che l’ex sindaco Ignazio Marino era diventato per il Pd: un corpo estraneo. E questo sviluppo potrebbe non essere necessariamente un male. Raggi ha la personalità per farlo, riscattando l’immagine da “bambolina imbambolata” che si è lasciata appiccicare addosso anche coi suoi errori? Lei ha assicurato ieri di avere «le spalle larghe»: ce lo auguriamo perché Roma ne ha bisogno. Ma non si può, a questo punto, evitare una riflessione pure sul Movimento. La democrazia diretta è un bel concetto in sé, però è inevitabile che il principio dell’«uno vale uno» debba trovare un serio livello di “mediazione politica”. Quel che serve al Movimento, privo ormai della visione strategica di Gianroberto Casaleggio, non è tanto il ritorno di Grillo, che è e resterà sempre un trascinatore e al tempo stesso un leader sui generis, quanto un gruppo dirigente che sia al tempo stesso degno di questo nome e capace di sostanziale unità. Il «direttorio» – a parte l’infelice definizione – appare un club elitario autoreferenziale, e a tratti un’accozzaglia di primedonne. In esso finora è sembrata prevalere l’ambizione sulla lucidità politica, la voglia di contare piuttosto che quella di dare soluzione ai problemi, l’immagine e la battuta tagliente più che la sostanza (che non coincide con un completo da uomo Facis). M5S, insomma, deve riuscire a trovare una specifica e più efficace “via di mezzo” fra la natura movimentista di partenza e una struttura simile a un partito “vero” – anche se leaderistico, figuriamoci, visto che oggi lo sono tutti… – cioè capace di indicare una direzione, assicurare e governare la partecipazione dei militanti, prendere

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decisioni e proporsi come alternativa reale.Verrebbe da dire: “Dimostrate di fare gioco di squadra e pensate a Roma (e all’Italia), non ai vostri destini personali. Perché o ce la fa il Movimento o non ce la fa nessuno di voi”. Se non compirà questo passaggio, M5S finirà solo col rendere facile le rivalse nei suoi confronti. Quella intollerabile dei poteri opachi che hanno fin qui piagato la Capitale. E quelle dell’«altra politica». Che ha gravi responsabilità, infatti sanzionate dagli elettori, ma non è affatto tutta da buttare e, in qualche misura, a sinistra come a destra, comincia a considerare i propri errori e prova a liberarsi da tic e da ormai irrealistiche sicumere. Se accadesse, sarebbe una clamorosa autorete per i cinquestelle. E, sul piano partecipativo, una non-vittoria per tutti. A Roma non si pone solo un duro nodo amministrativo, ma anche e soprattutto una grande questione democratica. Pag 8 Dopo 45 mesi il risveglio miracoloso di Rosalba di Alessandra Turrisi Una donna, madre di sei figli, si risveglia dal coma dopo quasi quattro anni e ricorda perfettamente le parole delle canzoni che hanno segnato i momenti di tutta la sua vita. «Rose rosse per te», scandisce la nipote accanto al letto d’ospedale. «Ho comprato stasera », sussurra Rosalba con la sicurezza di chi ha cantato mille volte quel successo di Massimo Ranieri. È il trionfo della gioia e della speranza. Gioia dei figli che non si sono arresi e hanno visto quella madre, che sembrava morta, tornare in vita. Speranza di medici e infermieri che svolgono il loro lavoro con competenza, professionalità e passione. Il caso di Rosalba Giusti, 68 anni, palermitana, è il caso che sta facendo discutere la sanità siciliana in questi giorni e regalando una speranza a tutti i familiari di persone nelle sue stesse condizioni. Un 'miracolo' vivente, a giudicare dalla complessità della malattia che aveva causato quel coma profondo e una diagnosi di stato vegetativo. Ma Rosalba si è risvegliata nel reparto neurolesi dell’ospedale Bonino Pulejo di Messina, come ha raccontato 'Repubblica' di Palermo, è ancora paralizzata, ma per lei e la famiglia è l’inizio di una nuova battaglia, che punta a rendere possibile risvegli e riabilitazioni anche in altre città. «Migliora giorno dopo giorno, non sappiamo quale recupero potrà avere, ma per noi è già un successo straordinario», racconta Vincenzo Caravello, il penultimo dei figli della signora, che ogni settimana, da quel fatidico 5 dicembre 2015, aspetta il giorno in cui poter staccare dal lavoro e raggiungere la mamma a due ore e mezza di strada per vederne i progressi. «Quando mi dissero che si era risvegliata, non riuscivo a crederci, è stata una felicità immensa», sorride e ringrazia per l’entusiasmo generato dalla storia. I figli hanno registrazioni e video che testimoniano quel risveglio straordinario dal limbo in cui la donna era confinata da 45 mesi, dopo la violenta emorragia cerebrale. Anche la neurologa Patrizia Pollicino di Messina è sorpresa: «Un anno fa avrei risposto che era impossibile». La donna conosce i nomi di medici, infermieri, evidentemente riusciva a percepirli anche chiusa nel suo silenzio. I figli non smetteranno mai di ringraziare il personale del Bonino Pulejo di Messina, ma anche Giancarlo Perra, neurochirurgo del Civico di Palermo, che ha tentato il tutto per tutto in sala operatoria il 6 marzo 2012. E ha avuto ragione. Racconta con entusiasmo come è riuscito a intervenire su quell’aneurisma della basilare con una derivazione ventricolare esterna, «l’intervento neurochirurgico più difficile, ma dà i suoi frutti», sostiene Perra, che da 40 anni si occupa di coma e non ha mai smesso di sperare per la paziente. «Questo apre molti spiragli – aggiunge –. Il cervello ha un meccanismo che riduce al minimo l’attività per far bastare quel po’ di ossigeno che gli arriva e la fase di recupero è lunga». Sul caso interviene Gian Luigi Gigli, presidente del Movimento per la vita: «L’ennesima dimostrazione che la vita continua a pulsare anche nello 'stato vegetativo'. Ci auguriamo che i paladini dell’eutanasia riflettano con onestà intellettuale». Pag 13 Sui pellegrinaggi alla Mecca è “guerra” tra Iran e sauditi di Camille Eid Si inasprisce la “Guerra dello hajj” tra Iran e Arabia Saudita alla vigilia del pellegrinaggio annuale nei luoghi sacri dell’islam – che Teheran ha deciso di boicottare – che inizierà sabato. Ieri la Guida suprema iraniana, l’ayatollah Alì Khamenei, ha duramente attaccato la famiglia reale saudita, che a suo giudizio non merita di gestire i due luoghi santi islamici (La Mecca e Medina) dopo il tragico incidente avvenuto l’anno scorso a Mina –

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una delle tappe del pellegrinaggio – quando 2.177 pellegrini (ma altre fonti parlano di 2.426) morirono nella calca. Ricevendo le famiglie dei 464 iraniani morti nell’incidente, Khamenei ha dichiarato che «la morte di 78mila pellegrini mostra ancora una volta che questa maledetta dinastia (i Saud, ndr) non merita di gestire i luoghi santi». «Se la famiglia saudita – ha proseguito Khamenei – non fosse coinvolta nella catastrofe, avrebbe autorizzato il lavoro di una commissione d’inchiesta islamica mondiale». Lunedì lo stesso Khamenei aveva lasciato intendere che sarebbe opportuno affidare la gestione dei luoghi sacri dell’islam a «un organo super partes». Nell’aspra polemica tra i due Paesi è intervenuto anche il presidente iraniano che ha invitato i musulmani a «punire l’Arabia Saudita», stavolta per i suoi crimini «politici». «I Paesi della regione e il mondo islamico – ha dichiarato Hassan Rohani nel corso di una riunione del consiglio di gabinetto – devono coordinare le loro azioni per risolvere i problemi e punire il governo saudita. Se il problema con Riad si fosse limitato allo hajj si sarebbe potuta trovare una soluzione. Ma purtroppo questo governo, con i crimini che commette nella regione e con il suo sostegno al terrorismo, di fatto ha versato il sangue dei musulmani in Iraq, in Siria e nello Yemen». La replica è arrivata dall’erede al trono di Riad, il principe Mohammed Bin Nayef che ha accusato l’Iran di tentare di «politicizzare lo hajj». Più dura la reazione del muftì saudita Abdel-Aziz al-Sheikh che ha definito Khamenei e il suo regime «nemici dell’islam». «Dobbiamo ricordarci, ha detto il muftì, che quelli non sono musulmani, bensì discendenti degli zoroastriani la cui ostilità verso i musulmani è antichissima». Nella diatriba è sceso anche Abdellatif Zayani, segretario generale del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg), l’organizzazione che riunisce le monarchie del Golfo e di cui l’Arabia Saudita è capofila. Zayani ha definito «inappropriate e offensive» le proposte iraniane di togliere ai sauditi la gestione dei luoghi sacri islamici affidandola a un organo indipendente, nonché «una chiara istigazione e un tentativo disperato di politicizzare il rito» del pellegrinaggio. Nella polemica tra i due poli islamici mondiali non poteva mancare la voce di al-Azhar. In un comunicato, i grandi ulema della storica istituzione cairota hanno rigettato «categoricamente la proposta di alcune potenze regionali di internazionalizzare i luoghi sacri», considerandola un’istigazione alla «fitna», ossia alla guerra tra sciiti e sunniti. Dal 1986 il sovrano saudita vanta il titolo di “Custode dei due luoghi santi”, un dettaglio non irrilevante nel braccio di ferro che oppone le due capitali su quasi tutti i dossier regionali. IL FOGLIO Pag III L’identità da non rottamare di Sergio Belardinelli La crisi migratoria e l’essiccamento delle energie dell’occidente. L’Europa non può essere escludente ma nemmeno vacua. Lezioni da linguaggio e cristianesimo L'Europa attraversa uno dei momenti più difficili della sua storia. La grave crisi economica che l'attanaglia ormai da diversi anni, gli attentati terroristici di Parigi da parte dell'Isis, i milioni di profughi che, scappando dalle guerre e dalla fame, si stanno riversando entro i suoi confini minacciano non soltanto la sua moneta, la tenuta delle sue istituzioni, la sicurezza dei suoi cittadini e l'equilibrio sociale di molti suoi paesi, ma la sua stessa identità culturale. E' un po' come se, all'oggettiva difficoltà dei problemi, si aggiungesse una sorta di essiccamento delle energie culturali e spirituali, necessarie a fronteggiarli. Emblematica in proposito la drammatica questione degli immigrati. Dietro le interminabili discussioni sui costi economici, sociali e politici della loro accoglienza, sta emergendo soprattutto la crisi dell'uomo europeo e della capacità inclusiva dell'Europa. Fallite clamorosamente, e direi inevitabilmente, le strategie multiculturaliste di tipo inglese nonché quelle assimilazioniste di tipo francese, dobbiamo purtroppo prendere atto della pericolosa xenofobia che sta prendendo piede in molti paesi europei. Se per anni ci siamo preoccupati soltanto di neutralizzare le differenze culturali, a tutto vantaggio di identità deboli, sfumate, liquide, fino ad auspicare che il modo migliore di dialogare con tutti fosse quello di farsi nessuno, oggi vediamo emergere ovunque in Europa un'ostentazione d'identità sempre più vacua, aggressiva ed escludente. L'altro, il diverso, lo straniero ci incutono paura. Capita persino che qualcuno confonda l' emergenza umanitaria rappresentata dai profughi che stanno arrivando in Europa con quella rappresentata dal terrorismo di matrice islamica, così come, all'opposto, c'è chi, per una sorta di viltà culturale, fatica persino a chiamare per nome i terroristi che

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vorrebbero annientarci. Segni evidenti di una crisi dell' Europa, che è soprattutto una crisi d'identità. Per certi versi è incredibile come la cultura europea, avvezza come poche altre al confronto continuo con la diversità e che proprio su questa base ama definirsi "aperta", "liberale" e "pluralista", faccia oggi così tanta fatica a essere fedele a se stessa. Sta di fatto però che, indebolitosi il principio antropologico universale che sta alla base dell'identità europea, l'Europa ha come smarrito se stessa, e quindi anche il pluralismo che la costituisce fin nel profondo. A partire dal concetto greco di "theoria", l'uomo europeo ha imparato a prendere le distanze da se stesso, a guardarsi, a mettersi al posto dell'altro, a decentrarsi da sé e dal mondo; ha scoperto insomma quella che Plessner direbbe la sua "eccentricità", la sua caratteristica specifica, che con altro linguaggio potremmo definire la sua trascendenza, l'irriducibilità di ogni uomo alle condizioni materiali e culturali della sua esistenza. Trascendendosi, l'uomo incontra l'alterità come suo elemento costitutivo; scopre non soltanto l'alterità degli altri e del mondo in cui vive, ma anche quella di se stesso. Per questo, nei secoli, l'Europa ha saputo inglobare gli elementi più disparati; per questo l'Europa non è propriamente un'entità geografica o etnocentrica, bensì intrinsecamente plurale; per questo quando l'Europa si pensa su basi etnocentriche o, per qualsiasi motivo, si chiude in se stessa entra drammaticamente in contraddizione con se stessa. Il suo principio costitutivo è fondamentalmente antropologico, universale, quindi aperto e plurale. Indebolitosi questo principio antropologico universale che sta alla base dell' identità europea, è diventato difficile anche il riconoscimento del valore della pluralità. Anziché riporre nell' incontro con l'altro la vera condizione che rende possibile l'arricchimento di se stessi, ci stiamo arroccando su tanti fantasmi. Proprio come nel racconto biblico di Babele, ognuno vorrebbe ormai "una lingua sola", senza sapere che la pluralità delle lingue, diciamo pure, la pluralità delle culture, non è il segno di una condanna da parte del Signore Iddio, ma il semplice ristabilimento dell' ordine rispetto alla tentazione dell' uniformità. Occorrerebbe dunque difendere Babele proprio per difendere l'identità europea, questo intreccio secolare e straordinario di ciò che è proprio e familiare con ciò che è altro ed estraneo. Con un'espressione molto bella che mutuo da Hannah Arendt, direi che essere uomini, essere persone umane, coincide con "il vivere come distinto e come unico essendo fra uguali". E questo non soltanto perché, pur appartenendo tutti alla stessa specie, il nostro volto, la nostra corporeità hanno sembianze diverse da individuo a individuo, ma per ragioni che hanno a che fare soprattutto con la nostra interiorità e la nostra capacità di riflessione e di azione. Il nostro "essere altro" rispetto alle cose che ci circondano, così come il nostro "essere distinti" rispetto agli altri esseri viventi diventano in noi "unicità" e la pluralità umana si configura come "la pluralità paradossale di essi unici". Con i nostri corpi, con le nostre azioni e i nostri discorsi noi ci distinguiamo, anziché essere meramente distinti, e tuttavia eccediamo costantemente anche ciò che di noi stessi diamo a vedere; lo stesso rapporto che abbiamo con il nostro corpo è ambivalente; da un lato sentiamo di essere il nostro corpo, dall' altro sentiamo di avere un corpo; sperimentiamo insomma una sorta di strutturale eccentricità rispetto a noi stessi, di irriducibilità al nostro aspetto fisico o alla nostra stessa biografia; tanto è vero che a chi ci domanda "chi sei?" rispondiamo in genere dicendo semplicemente il nostro nome e cognome, non certo mostrando la nostra fotografia o mettendoci a raccontare la nostra storia. (...) Il nostro vivere "come distinto e come unico tra uguali" implica dunque che anche il rapporto che abbiamo con noi stessi sia spesso opaco; la domanda "chi sono io?" non è meno difficile della domanda "chi sei tu?"; qualche volta ci accorgiamo persino che gli altri, per esempio nostra madre, ci conoscono molto di più di quanto ci conosciamo noi; per non dire dei momenti di insoddisfazione che proviamo nei confronti di noi stessi, dei desideri di cambiare, di diventare un altro. Tutto ciò potrebbe far pensare al vano desiderio di saltare sulla nostra ombra; ma in realtà esprime lo stato normale del nostro "io", il quale, contrariamente a quanto ritiene una parte considerevole del pensiero moderno e contemporaneo, recita sì volta a volta un ruolo, ma non è mai soltanto il ruolo che volta a volta recita, pensa e ha coscienza, senza essere semplicemente pensiero e coscienza. Siamo insomma persone perché siamo eccentrici; sentiamo che ciò che siamo, il nostro "io", dipende dalla "natura", se così si può dire, ossia dall' equipaggiamento genetico col quale siamo venuti al mondo, ma anche dagli altri, dalla famiglia e dalla città nelle quali siamo nati, dall' educazione che abbiamo avuto, dalle persone che abbiamo incontrato, eccetera; solo poi intervengono,

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seppure in modo decisivo, la nostra intelligenza e la nostra volontà. Siamo "persone", poiché in ultimo siamo noi a sceglierci la "maschera" con la quale vogliamo apparire nel mondo. La Arendt direbbe che proprio questo "elemento di scelta deliberata intorno a ciò che si mostra e si nasconde sembra specificamente umano". Se dunque l'estraneo, comincia in noi stessi, non fuori di noi, allora vuol dire che nessuno di noi è mai compiutamente presso se stesso. D'altra parte come potrebbe essere altrimenti? Veniamo al mondo senza averlo chiesto, portiamo un nome che altri hanno scelto per noi, parliamo una lingua che impariamo da altri e che conosciamo soltanto per sentito dire, la hegeliana dialettica del riconoscimento ci dice che ci specchiamo continuamente negli occhi degli altri. Prima ancora che con l'estraneità degli altri, abbiamo dunque a che fare con l'estraneità di noi stessi. Altro che pretese di poterci rannicchiare in "una lingua sola"! Nessun uomo, pur essendo un animale socio-culturale, è mai riducibile in toto alle condizioni biologiche e socio-culturali della sua esistenza. Allo stesso modo nessuna cultura, pur esprimendo una totalità di significato, può arrogarsi il diritto di coprire tutto lo spazio di dicibilità di ciò che è "umano". L'uomo è dunque il vero fondamento della pluralità delle culture, la dignità dell'uomo il vero metro di misura, il vero criterio normativo di ogni cultura. In questo senso una cultura non vale mai l'altra, indifferentemente; né possiamo dire che una cultura sia totalmente incommensurabile rispetto a un'altra. Alcuni elementi di opacità, di difficile comprensione e quindi anche di conflitto sono invero sempre possibili, allorché due culture, specialmente se sono vive, entrano in contatto tra loro. Del resto ciò vale anche per individui appartenenti a una stessa cultura. Tuttavia, essendo in gioco una dimensione profondamente umana, non si tratterà mai di una incommensurabilità, diciamo così, assoluta. L'unicità e la trascendenza di ogni uomo rispetto alle condizioni biologiche o socioculturali della sua esistenza costituiscono insomma il vero fondamento, rispettivamente, della pluralità delle culture e della strutturale "apertura" di ogni cultura, premessa indispensabile sia per crescita di ogni cultura, sia per un autentico incontro tra culture. Da questo punto di vista, il mito di una "lingua sola" rivela tutti i suoi limiti. Del resto, e vengo così alla seconda parte di questo mio intervento, è proprio la natura del nostro linguaggio a mostrare il valore incommensurabile della pluralità degli uomini e delle culture. Come dice George Steiner, "vi è un impulso centrifugo nel linguaggio", tale per cui anche una stessa lingua, quando si estende sul territorio, tende a produrre dialetti e regionali smi, la cui comprensione esige una traduzione sempre più vicina a quella che avviene tra lingue diverse. Gli uomini sono insomma animali che traducono. "Comprendere è tradurre", ha detto lo stesso Steiner. E questo vale sia per il dialogo tra individui appartenenti a una stessa cultura, individui che parlano una stessa lingua, sia tra individui appartenenti a culture differenti, individui che parlano lingue differenti. La cultura, ogni cultura, non esisterebbe senza l'opera di traduzione in virtù della quale essa si ricostruisce continuamente. Un confronto continuo con se stessi che è insieme mutamento e permanenza. Come dice sempre Steiner, "l'esistenza dell' arte e della letteratura, la realtà della storia vissuta in una comunità, si basa su un interminabile, anche se assai spesso inconsapevole, atto di traduzione interna. Non è eccessivo dire che possediamo la civiltà perché abbiamo imparato a tradurre dal tempo". Quest'idea che anche la comprensione tra persone che parlano la stessa lingua sia in ultimo una forma di traduzione rompe chiaramente l' ideale romantico di una lingua pura, ma soprattutto, e questo dal mio punto di vista è particolarmente importante, essa rende visibile ancora una volta la strutturale eccentricità dell' uomo e del linguaggio. "Il fatto che decine di migliaia di lingue diverse e reciprocamente incomprensibili siano state o siano attualmente parlate sul nostro piccolo pianeta è un’illustrazione chiarissima dell'enigma più profondo dell' individualità umana, della prova biogenetica e biosociale che non esistono due esseri umani totalmente identici" (Steiner). Siamo appunto animali culturali, linguistici, e, in quanto tali, aperti, sempre proiettati oltre noi stessi. Per dirla con le parole di Humboldt, "ogni lingua è un tentativo"; un tentativo di concettualizzare l'infinita ricchezza del mondo, un modo particolare, limitato, selettivo, di venirne a capo. Di qui la pluralità delle lingue. Inoltre, sempre Humboldt ci dice che la natura della lingua non si esaurisce in questa sua opera di strutturazione dell' esperienza e del mondo, è sempre eccedente, diciamo pure, trascendente; è insomma una sorta di processo generativo irriducibile. Ecco, a mio modo di vedere, il luogo dove si inserisce la particolare natura singolare e universale di ogni lingua, la quale costringe i parlanti,

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anche quelli che parlano una medesima lingua, seppure in un modo diverso, a una continua opera di traduzione. Parlare è tradurre, perché anche tra chi parla la stessa lingua la comprensione può diventare difficile; bisogna fare i conti con zone di intraducibilità; è necessario insomma prendere un po' le distanze da se stessi, non "sacralizzare" mai la propria lingua, altrimenti ogni traduzione diventa un tradimento, un affronto al mito etnocentrico della "lingua sola". Questa capacità di prendere le distanze da se stessi si rivelerà particolarmente preziosa proprio nel confronto con lingue diverse, dove l'intraducibilità, il conflitto, sono forse più evidenti e più necessaria diventa la disponibilità a meticciarsi. Ma ciò non significa, come purtroppo pensano in tanti, che bisogna ormai abbandonare il lessico dell' identità, considerato aggressivo, esclusivo e inadatto a vivere pacificamente in un mondo plurale; significa piuttosto il contrario: proprio di fronte al relativismo e al fanatismo che sembrano fronteggiarsi nel mondo odierno c'è bisogno che l'Europa e l'intero Occidente riscoprano la loro identità: un'identità che è, sì, aperta, ma non relativista, permeabile verso l'esterno, diciamo pure, inclusiva nei confronti dell'altro, ma anche decisa a fronteggiare ciò che la minaccia dall' interno e dall' esterno. Come in parte ho cercato di esplicitare, la forza della nostra cultura sta principalmente in un ideale antropologico universale, grazie al quale l'universalità dell'umano si concilia con la particolarità dei modi di attuarla, sia sul piano della vita individuale, sia sul piano della vita dei popoli e delle nazioni. E' sempre grazie a questa idea che siamo pervenuti a quell' "universalismo interattivo", di cui parla Seyla Benhabib, che ci consente di relazionarci continuamente con ciò che è "altro", senza perdere la consapevolezza di ciò che siamo, di tenderci il più possibile verso l'altro, senza spezzare i legami che abbiamo con noi stessi, con la nostra storia e la nostra tradizione. E' ormai l' elastico la metafora ideale di una identità complessa. Ma per dare a questo elastico la giusta flessibilità non servono certo l'indifferenza, mascherata magari da tolleranza, o le esortazioni a coltivare la "virtù della mancanza di orientamento" (Beck). Ci vogliono al contrario convinzioni forti, un deciso orientamento alla libertà e alla dignità dell' uomo e, soprattutto, una grande, fantasiosa capacità di traduzione e di testimonianza. Il confronto interculturale non è mai soltanto un problema di tolleranza, di reciprocità o di integrazione; è certo anche questo; ma guai se resta soltanto questo, diventando magari un alibi per non mettersi in gioco fino in fondo, per nascondersi. E' la nostra stessa umanità, l'umanità che condividiamo con tutti gli uomini del mondo, a esigere che, nel confronto con coloro che provengono da culture differenti dalla nostra, ciascuno di noi sia in primo luogo se stesso, un testimone creativo della propria identità. Del resto, se ci pensiamo bene, l'incontro con l'altro o con una cultura "altra" è sempre in primo luogo un'avventura con noi stessi, con la cultura che ci è propria. Un po' come quando si traduce un testo. "Comprendere è tradurre", dicevamo con Steiner; ed è in quest'opera di traduzione che noi mobilitiamo veramente tutte le risorse di cui disponiamo nella nostra lingua madre; è nell'incontro con l'altro che noi possiamo scoprire non soltanto i nostri limiti, ma anche i tesori che si nascondono nella nostra cultura e ai quali avevamo smesso di pensare o non avevamo mai pensato prima. E' per questo che, al limite, dobbiamo persino ringraziare l'altro per averci aiutato a scoprirli; è per questo che l' altro può diventare persino una risorsa, un'opportunità, un impulso ad andare più a fondo in noi stessi e quindi ad arricchirci. Il Cristianesimo, pur con tutte le inadeguatezze, sconfinate nel passato persino nel sangue, costituisce da oltre duemila anni uno degli esempi più riusciti di questa capacità di imparare dall'altro senza rinunciare a se stesso. L'idea della trascendenza, la particolare escatologia cristiana, la stessa chiesa, nel momento in cui entrano nella storia di un popolo e di una nazione, istituiscono una sorta di tensione costante in tutta la realtà. Di fronte al Dio di Abramo e di Gesù Cristo, nessun ordine del mondo, se così si può dire, è più lo stesso, nessun uomo e nessuna cultura sono più "totalmente altri". Come aveva ben capito Hegel, l'Occidente, proprio in virtù del principio cristiano del "compimento", non conosce un "esterno assoluto". E nonostante i fraintendimenti che possono esserci stati in proposito nel corso dei secoli, oggi pare abbastanza evidente che abbiamo a che fare con un ordine sempre attento alle distinzioni (le cose della scienza e quelle della fede, le cose di Cesare e quelle di Dio), sempre "perfettibile", sempre sollecitato a una "novità" che, di per sé, non ammette irrigidimenti né sul piano della vita individuale, né su quello della vita sociale. Da questo punto di vista, la traduzione dell'"altro" di cui parlavo deve diventare davvero una forma di testimonianza; una testimonianza che va resa alla

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dignità di ogni uomo, senza pretendere di conoscere in anticipo "che cosa" si dovrà volta a volta tradurre, né "come" farlo, né se sarà possibile farlo, poiché zone più o meno ampie di intraducibilità e quindi di possibili conflitti vanno sempre messe nel conto nel rapporto tra culture. Come ha scritto MacIntyre, "le tradizioni, quando sono vitali, implicano continui conflitti"; solo culture e lingue morte possono stare una accanto all' altra senza frizioni di sorta. Ma la diversità e la presenza di conflitti non impediscono che la traduzione sia possibile, che cioè tutte le lingue possano arricchirsi, grazie al nuovo e all' imprevisto che ogni volta scaturisce dal concreto incontro con l'altro. Un mondo che va mescolando individui e popoli di ogni cultura ha bisogno in questo senso di traduttori -testimoni che conoscano bene la propria lingua e che abbiano sufficiente fantasia creatrice per tradurre quella degli altri e, quindi, tradurla in quella degli altri. In questo modo intendo il dialogo interculturale di cui oggi tanto si parla e di cui tanto si sente il bisogno. Un mondo dove gli uomini riusciranno tanto più a convivere in pace, quanto più saranno consapevoli dell' "umanità" che si esprime nella propria cultura e in ogni cultura (ecco la pluralità come valore culturale) e sapranno testimoniarla in mezzo agli "altri", insieme agli "altri", con il dovuto rispetto, la necessaria apertura, addirittura con amore. Altro che relativismo culturale. E' su questa capacità di rendere testimonianza in ultimo alla dignità dell'uomo che si misura oggi la vera identità, la vera apertura, la vera universalità, al limite, la vera "superiorità" di qualsiasi cultura. Di certo possiamo dire che in questa capacità si incarna la realtà spirituale dell' universalismo cristiano, che tanto ha attinto e tanto ha saputo incidere sulla cultura occidentale. E poiché le grandi realtà spirituali, quando esistono, hanno quasi sempre il carattere di un compito da assolvere, non stupisce poi molto che sia proprio la suddetta testimonianza ciò di cui il mondo intero, oggi come ieri, ha massimamente bisogno. Una testimonianza che le sfide drammatiche del tempo presente rendono ancora più urgente. Torna al sommario