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Ida Bozzi, «Un patto tra riviste letterarie» Corriere della Sera, primo luglio 2011 3 Stefano Bartezzaghi, «Fenomenologia del libro per l’estate» la Repubblica, 2 luglio 2011 4 Ida Bozzi, «Il segreto di J.D. Salinger: “Lavoro a nuovi testi”» Corriere della Sera, 7 luglio 2011 6 Luca Mastrantonio, «La generazione Tq c’è ma non si vede» Corriere della Sera, 8 luglio 2011 7 Silvia Truzzi, «Il colpo dello Strega: parolacce e Pennacchi» il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2011 8 Fiorella Iannucci, «Nesi, la mia rabbia e l’orgoglio» Il Messaggero, 9 luglio 2011 10 Giuliano Vigini, «L’amaro destino delle librerie» Avvenire, 13 luglio 2011 12 Alessia Rastelli, «Entro gennaio le vendite di ebook aumenteranno di venti volte» Corriere della Sera, 14 luglio 2011 14 Marco Cassini, «Alcune modeste proposte per le case editrici, a cominciare dalla mia» minima & moralia, 17 luglio 2011 15 Loredana Lipperini, «Meno titoli per tutti» la Repubblica, 18 luglio 2011 18 Alessandra Farkas, «L’anti-canone di Bloom» Corriere della Sera, 20 luglio 2011 20 Gianluigi Ricuperati, «Racconti, arte e grafica. Piccole riviste crescono» la Repubblica, 20 luglio 2011 22 Ilaria Bussoni, «Salva un libro, uccidi un editore» il manifesto, 21 luglio 2011 24 La rassegna stampa di luglio 2011 O blique «Era come se attorno avesse un filo spinato invisibile» | Marco Lodoli rs_luglio2011:Layout 1 03/08/2011 11:42 Pagina 1

Rassegna stampa di Oblique (luglio 2011)

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La rassegna stampa di Oblique Studio. Luglio 2011. “Era come se attorno avesse un filo spinato invisibile”. Marco Lodoli

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Page 1: Rassegna stampa di Oblique (luglio 2011)

– Ida Bozzi, «Un patto tra riviste letterarie» Corriere della Sera, primo luglio 2011 3– Stefano Bartezzaghi, «Fenomenologia del libro per l’estate» la Repubblica, 2 luglio 2011 4– Ida Bozzi, «Il segreto di J.D. Salinger: “Lavoro a nuovi testi”» Corriere della Sera, 7 luglio 2011 6– Luca Mastrantonio, «La generazione Tq c’è ma non si vede» Corriere della Sera, 8 luglio 2011 7– Silvia Truzzi, «Il colpo dello Strega: parolacce e Pennacchi» il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2011 8– Fiorella Iannucci, «Nesi, la mia rabbia e l’orgoglio» Il Messaggero, 9 luglio 2011 10– Giuliano Vigini, «L’amaro destino delle librerie» Avvenire, 13 luglio 2011 12– Alessia Rastelli, «Entro gennaio le vendite di ebook aumenteranno di venti volte» Corriere della Sera, 14 luglio 2011 14– Marco Cassini, «Alcune modeste proposte per le case editrici, a cominciare dalla mia» minima & moralia, 17 luglio 2011 15– Loredana Lipperini, «Meno titoli per tutti» la Repubblica, 18 luglio 2011 18– Alessandra Farkas, «L’anti-canone di Bloom» Corriere della Sera, 20 luglio 2011 20– Gianluigi Ricuperati, «Racconti, arte e grafica. Piccole riviste crescono» la Repubblica, 20 luglio 2011 22– Ilaria Bussoni, «Salva un libro, uccidi un editore» il manifesto, 21 luglio 2011 24

La rassegnastampa di

luglio 2011Oblique

«Era come se attorno avesse un filo spinato invisibile» | Marco Lodoli

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Raccolta di articoli pubblicati da quotidiani e periodici nazionali tra il primo e il 29 luglio 2011. Impaginazione a cura di Oblique Studio.

– Marco Cassini, «Editori iperproduttivi e anomalie del mercato» la Repubblica, 21 luglio 2011 25– Mario Baudino, «Libri, da settembre tetto agli sconti» La Stampa, 21 luglio 2011 26– Gian Arturo Ferrari, «Ecco perché gli editori pubblicano così tanto» la Repubblica, 22 luglio 2011 27– Lettere al direttore, «Libri: i pro e i contro del tetto agli sconti» La Stampa, 27 luglio 2011 29– Raffaella De Santis, «Scrittori, torna l’impegno» la Repubblica, 27 luglio 2011 30– Tq. Generazione trenta-quaranta, «Manifesto Tq/2. Editoria» generazionetq.wordpress.com, 27 luglio 2011 32– Francesco Longo, «Scontri nell’editoria. La generazione Tq si fa sentire» il Riformista, 28 luglio 2011 34– Luigi Mascheroni, «Troppo faziosi. E rimasero 53 Tq al bar» il Giornale, 28 luglio 2011 35– Paolo Mauri, «Kristof, addio alla grande esule ungherese» la Repubblica, 28 luglio 2011 36– Marco Lodoli, «Quando la purezza per salvarsi diventa crudele» la Repubblica, 28 luglio 2011 37– Matteo Marchesini, «I dolci inganni della generazione dei letterati Tq, dove T sta per tartufi» Il Foglio, 28 luglio 2011 39

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Un patto tra riviste letterarie

Ida Bozzi, Corriere della Sera, primo luglio 2011

Collaborazione con altre riviste, più spazio ai giovanie all’online, attenzione maggiore alla visibilità e alladistribuzione, interattività con i lettori: questi gliobiettivi emersi dall’attesa assemblea dei soci de L’In-dice dei libri del mese, che ieri pomeriggio doveva di-scutere il destino della testata, in crisi per un buco dialcune decine di migliaia di euro. Una vicenda cuimercoledì il Corriere aveva dato spazio pubblicandol’allarme del direttore. «Siamo vivi», è un primo com-mento di Mimmo Cándito al termine dell’assemblea,spiegando che la rivista per il momento continueràle pubblicazioni. Ma non nasconde le difficoltà delfuturo: «C’è stata una discussione molto seria, neemerge la necessità di un progetto di rinnovamentoche va affrontato dall’interno». Con la necessità, checontinua, di reperire fondi. Fa il punto il presidentedella cooperativa, nonché primo direttore della te-stata nel 1984, Gian Giacomo Migone: «Sì, la rivistacontinua. Ma non possiamo stare fermi sul nostrobuco. Da settembre partirà un accordo di collabora-zione e di scambio di articoli e in terventi con TheNew York Review of Books (abbiamo ereditato gli ab-bonati della Ri vista dei libri dopo la chiusu ra). Intempi più rapidi voglia mo dare la possibilità di fareabbonamenti online, non solo per offrire un prezzopiù bas so, ma per abbattere questa barriera genera-zionale. Per fortuna abbiamo, dentro L’Indi ce, deigiovani che premo no».Sul piano delle collaborazioni tra riviste, va registratoche ieri l’ideatore della rivista Sa tisfiction, Gian PaoloSerino, ha comunicato di essere pron to a offrire unapagina gratis dedicata alla campagna dell’Indice nelprossimo nume ro, in programma per settem bre. «Loringraziamo molto» risponde Migone «e rilancia mocon lo scambio. Anche noi saremo lieti di offrire allarivi sta uno spazio sul nostro giornale».

Altri cambiamenti prospet tati, il passaggio da coope-rati va a responsabilità limitata a cooperativa di lavo-ratori, cioè poligrafici e giornalisti. E poi l’apertura aifinanziamenti pubblici. Ma molto il giornale spera an-cora dall’aiuto dei let tori, con i quali è aperto tra l’al -tro da alcuni mesi un dialogo interattivo con uno spa-zio di commenti sul sito (che sarà sviluppato).Sul piano economico, pro prio i lettori possono con-tribu ire per esempio abbonandosi alla rivista, o se-condo le moda lità segnalate sul sito www.lin -diceonline.com. «C’è stato e speriamo che continuiun bel lissimo slancio della sottoscri zione dei lettori,con impegni grandi e piccoli» ha afferma to Migone«ma non basta tappare i buchi, a ottobre do vremo in-vestire per andare online modernizzando il sito at-tuale, avremo quindi biso gno anche di fondi per potertrovare qualcuno di giovane e competente, e poterlosalaria re. Certo, se si offrisse un sog getto disposto acomprare la testata, con la garanzia di mantenernel’autonomia culturale, editoriale e di politica cultura -le, ci si potrebbe pensare».

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Fenomenologia del libro per l’estate

Da Primo Levi a «Gorky Park», dalla Tamaro alle raccolte dei comici fino ai classici del Premio Strega, le classifiche degli ultimi trent’anni raccontanocome sono state le letture delle nostre vacanze. Titoli diversi che però possonoessere catalogati sotto alcuni generi. Per spiegare come, tra «non libri», «mattoni», «romanzi sentimentali» e «grandi thriller», si costruiscono i successida spiaggia. E per scommettere su quello del 2011

È il luglio del 1982. Marco Tardelli esulta gridando alSantiago Bernabéu. I tedeschi del Trio ripetono daogni radio il carillon allucinato della loro Da da da. Latraduzione (parziale) del Finnegans Wake di JamesJoyce è quarta nella classifica dei libri di letteraturastraniera più venduti in Italia (dopo Cronaca di unamorte annunciata e prima di Gorky Park). Del futuronon sappiamo nulla, ma a volte persino il passato cirisulta imprevedibile. Anche a non considerare le loropunte maggiori di imprevedibilità (questa è una), lalettura delle liste dei bestseller di una volta è spesso piùsorprendente e anche affascinante di quella dei librimedesimi. Non ne esce una ricetta per il bestseller si-curo, ma alcune fisionomie che si ripetono ed evol-vono. Trent’anni fa, per esempio, fra i bestseller nonmancava mai almeno un titolo del genere di: La co-scienza di Zeno, Il barone rampante, I Malavoglia,Canne al vento (sì, anche Deledda), Il fu Mattia Pascal,Se questo è un uomo, Fontamara. Era il leggendario (èla parola) «libro di lettura». Oggi sappiamo che i pro-fessori assegnano casomai Io non ho paura, di NiccolòAmmaniti. Più alla portata dell’autore vivente (anchesolo per autocertificazione) è senz’altro il Romanzo diSpessore. «Di spessore» perché rilegato in hardcover econ costa di un paio di centimetri (poi magari dentroè scritto largo). Ma «di spessore» anche per l’elevatezzadel tono, pur affabile, non noioso ma ricercato, soprat-tutto negli aggettivi. Nantas Salvalaggio, Alberto Be-vilacqua, Piero Chiara, Saverio Strati, Alberto Moravia,Alfredo Todisco, Giorgio Saviane, Carlo Sgorlon: a te-nere assieme autori di valore letterario tanto diverso

tra loro è il gusto dell’acquirente, la ricerca di un in-trattenimento pensoso come motivazione all’acquisto. Oggi tale motivazione sopravvive per qualche caso,come quello di Margaret Mazzantini o nei libri da pre-mio. Ecco, fra gli animali da classifica estiva il PremioStrega è l’unica certezza pressoché assoluta: si assegna aluglio e ha ininterrottamente mandato i suoi vincitorinella classifica estiva, dal secondo Sillabario di GoffredoParise (1982) allo Stabat Mater di Tiziano Scarpa(2009). Unica, e tutto sommato inspiegabile, eccezione,lo Stanislao Nievo delle Isole del paradiso, alle cui venditela vittoria del prestigioso titolo non giovò più di tanto.Esso stesso Premio Strega, Il nome della rosa di UmbertoEco ha inaugurato un paio di altre categorie: quella deimegaseller (i libri che non vendono bene bensì straven-dono: poi sono venuti Tamaro, Moccia, Fallaci, la pre-miata ditta Camilleri, Harry Potter, Faletti…) e quellache Gian Carlo Ferretti battezzò del «Bestseller di Qua-lità». Ossimorica chimera della cultura di massa o obiet-tivo doveroso per letterati democratici (e anche legitti-mamente aneli di royalties?). Nei primi anni Ottanta lascuola di massa aveva già aumentato la percentuale deilettori, e il riflusso verso le obliose gioie della dealfabe-tizzazione non era ancora impetuoso. Quindi, una gra-nita e Guglielmo da Baskerville, una birra e una Lezioneamericana, un Pennac e un Calippo. Il nome della rosaera anche un thriller (sia pure sui generis) e quindi haaperto la serie della letteratura italiana di genere, cheprima andava in classifica solo con la maglia rosa (Liala,Sveva Casati Modignani), mentre ora è spesso noir, apropensione civile, a propulsione gergal-dialettale e mira

Stefano Bartezzaghi, la Repubblica, 2 luglio 2011

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Oblique Studio | Rassegna stampa luglio 2011

o almeno ammicca all’attualità. Camilleri, Lucarelli, Ca-rofiglio, ancora Faletti… Gradualmente il lettore so-prattutto estivo ha rinunciato, quindi, alle dirette am-bizioni letterarie e si è rivolto alla narrativa di trama:quella che una volta si leggeva quasi esclusivamente intraduzione (le Carré, l’Ottobre rosso, Follett, Grisham,Brown e simili), con l’eccezione di qualche GiorgioScerbanenco postumo che ha venduto meritoriamenteparecchio. Siamo alla Mattonata vera e propria: il late-rizio che si impugna e trasporta un po’ a fatica, di nonmeno di quattrocento pagine e in cui solo verso la cen-tocinquantesima ci si incomincia a orizzontare fra tramae personaggi. Gialli, thriller, fantasy, polpettoni storici,psicologici e parapsicologici: ogni tanto ne riesplode unoqui e là, via King arriva Harris, via Harris ecco Brown,ma la fabbrica del mattone è sempre in produzione, conautori che quatti quatti vendono da decenni per lo stu-pore si immagina innanzitutto loro. La ricetta dellaMattonata è nota quanto quella dell’amatriciana: tantatrama, prima scena di sesso non oltre la settantesima pa-gina, cadaveri e agnizioni dosati con sapienza, cani cheululano nella notte se c’è da riempire una riga. Comequella dell’amatriciana, la ricetta della Mattonataquando funziona, funziona. Un bel giorno qualcunoebbe un’altra idea. Chi fosse non lo sappiamo, ma sicu-ramente fu influenzato dalla teoria del non compleannoche Humpty Dumpty espone in Attraverso lo specchio.Se i non lettori sono molti più dei lettori – si chiese ilseguace di Alice – perché non cerchiamo di vendere an-ziché dei libri dei NonLibri? Era nata la «Varia», quelrefugium peccatorum editoriale che accoglie tutti i mi-granti del libro utile, o divertente, o demenziale, o gos-siparo, o – insomma – «vario». Quello dei NonLibri èun Format-Formicaio. Lo si dice per il brulicare di ti-toletti agili e alacri, dal Manuale delle Giovani Mar-motte alla Guida Michelin, dalla biografia dell’alloraMarina Lante della Rovere, fortunata sin dal titolo (Imiei primi quarant’anni) a Enzo Biagi con la sua Storiad’Italia a fumetti e Roberto D’Agostino che con la suaLibidine (era una Guida sintetica ad una vera degenera-zione fisica e morale) nel 1987 sopravanzava Milan Kun-dera, per una blanda ironia della cronaca. Ma FormatFormicaio anche perché uno dei suoi eroi italiani fu

Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano (con le bat-tute raccolte da Gino & Michele e Matteo Molinari).Oggi il Formicaio ha due regine, Luciana Littizzetto eBenedetta Parodi, che vivono in tv. Sin dai tempi deiprimi libri di Fantozzi, infatti, la Varia deve moltissimoai successi televisivi dei suoi autori, ma la classifica te-stimonia che è così anche per altri settori. Scorrere leclassifiche del passato è anche rivedere alcuni fermo-im-magine d’antan: il maestro Marcello D’Orta, che se lacavava (eccome) da Maurizio Costanzo, Enzo Biaginell’inconfondibile inquadratura, Giobbe Covata sem-pre al Parioli, il «nimmista» Batta da Zelig, Luciano DeCrescenzo (in tv con Arbore e la giovane Lory DelSanto, in un precoce topless tv), Paolo Rossi e AlbertoAlbanese a Su la testa!, Rosanna Lambertucci o WillyPasini qui e là. I loro sono Libri da Camera, intesa cometele. La categoria è oramai definitivamente esplosa, poi-ché comprende libri di giornalisti tv (da Volcic a Vespa),libri di ospiti e personaggi (Sgarbi su tutti), libri-pro-grammi (da Quelli della notte ai libri di Carlo Conti)sino a libri-talea, che trapiantano il successo televisivodell’autore in altro orto (Dandini). L’occasione fal’uomo lettore: l’antico proverbio (cambia solo il cri-mine) pare particolarmente efficiente in estate dove, agiudicare dai precedenti, è costante la presenza in clas-sifica di Libri del Momento. Non solo l’effimero di uncomico di moda: anche il pamphlet urticante (No Logo;Rizzo-Stella), il gioco dell’estate (Sudoku), il libro delpersonaggio più importante del momento (sia esso Gio-vanni Falcone o il papa). Un discorso che oggi fa capoa Roberto Saviano, capofila di un genere a cui parteci-pano inchiestisti, storici, dietrologi, acuti analisti delNon-Detto italiano, furbastri e ciarlatani. I loro sonolibri di denuncia, che scuotono il lettore e lo muovonoalla protesta. Anche in spiaggia? Anche lì, e perché no:oggi si abbronzano fianco a fianco lettori di Angelologye lettrici di Indignatevi! Sotto l’ombrellone, insomma,cerchiamo brividi apocalittici non solo finzionali maanche desunti dalla realtà. Passa il venditore di cocco esulla sedia a sdraio noi ci chiediamo se davvero la’ndrangheta tenga in pugno l’economia nazionale. Laspiaggia su cui l’Italia ama passare le sue estati da uncerto punto di vista è sempre l’ultima.

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Il segreto di J.D. Salinger: «Lavoro a nuovi testi»

Nelle missive dell’autore del Giovane Holden all’amico Michael Mitchell la conferma di storie inedite

Forse Salinger, il grande «recluso» della letteraturaamericana, non avrebbe gradito una simile intrusionenella sua privacy, così co me non avrebbe gradito chevenissero diffuse notizie sulle sue abitudini, sui gustipersonali, perfino sulla marca di ketchup preferita,come accaduto a poco a poco dopo la sua morte, avve -nuta nel gennaio 2010.Ma i nuovi indizi diffusi ieri dal New York Times sem-brano interessan ti, e suggeriscono l’esistenza di testiinediti ai quali lo scrittore stava lavo rando «come aivecchi tempi». Le trac ce si trovano in alcune letterefinora inedite, indirizzate da Salinger all’illu stratoredella prima edizione del Gio vane Holden, MichaelMitchell, da po co scomparso.Lo stesso Mitchell nel 1998 aveva venduto undicimissive autografe di Salinger alla Morgan Library andMu seum di New York, con la clausola di mostrarlesolo dopo la morte dello scrittore; ma ora, scomparsoanche Mitchell, la fidanzata dell’illustratore, Ruth E.Linke, ha trovato altre lettere di Salinger tra i docu-menti e i libri del compagno e le ha cedute alla biblio-te ca newyorkese.Le lettere a Mitchell contengono elementi certi perstabilire che l’auto re di The Catcher in the Rye stava ineffetti lavorando ad alcuni progetti, e riferiscono inol-tre una quantità di no tizie sulle passioni e sulle incli-nazioni di Salinger, come il fatto che lo scritto re af-fermasse di «conoscere a memo ria» il film I 39 scalinidi Hitchcock, o che amasse i gatti «al punto di nonca pire che cosa ho trovato nei cani per così tanti anni».«Sto lavorando» scrive Salinger in una lettera del 1994

«come ai vec chi tempi, più o meno». E prosegue:«Continuo a lavorare per diverse buo ne vecchie ore,davvero molto». La scrittura, anche in questi nuoviesem plari, è quella caratteristica dell’auto re, stile «vin-tage Salinger», come spie ga il New York Times, e ap-pare gremi ta di quell’intercalare familiare così ti picodell’indiretto libero del Giovane Holden: l’amico vienechiamato di continuo «Buddyroo», ad esempio, e Sa-linger si dà da solo del cretino, «mo ron that I am».C’è anche una gustosa notazione su un viaggio in Eu-ropa che Salinger compì nel 1994, sulle tracce diKafka: salvo poi confidare all’amico di essere sollevatoall’idea che lo scrittore non potesse assistere alla tra-sformazione della sua casa praghese, così scrive Sa -linger, in «una trappola per turisti».

Ida Bozzi, Corriere della Sera, 7 luglio 2011

«Sto lavorando comeai vecchi tempi,

più o meno»

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La generazione Tq c’è ma non si vede

Premio Strega: il quarantenne favorito è estraneo al gruppo, il fondatore trentenne se ne è chiamato fuori

Paradossi letterari italiani. Allo Strega a arrivato comefavorito un quarantenne che, per ironia del destino,non appartiene alla generazione Tq, un gruppo di in-tellettuali, scrittori e affini che hanno trenta e qua-ranta an ni. Edoardo Nesi, infatti, è del 1964, quindipoteva rientrare a pieno titolo tra i senior di Tq. Maniente. Mario De siati, invece, classe 1977, è co-fon-datore di Tq ma ha vissuto in maniera molto solitariae poco collettiva la sua corsa al premio. Desiati è tra ipiù in vista della nuova classe dirigente intellettuale,in quanto direttore della Fandango Libri (che ha tra isoci fondatori Nesi), dove ha pubblicato il programmadel conterraneo Nichi Vendola, cui è molto lega to. Isuoi romanzi, invece, sono pubbli cati da Mondadori,come l’ultimo, Ter nitti, con il quale vincere lo Stregaè ap parsa subito una missione impossibile o quasi, giàalla serata in casa Bellonci, quando si è scelta la cin-quina e i voti dell’Einaudi non si sono allineati al can -didato di Segrate. Non vivere le ultime settimane dafavorito, l’ennesimo mon dadoriano, ha comunquereso Desiati più simpatico. Perciò, anche nel caso disconfitta, Desiati uscirebbe dal Ninfeo di Villa Giuliacome beautiful loser.Per la generazione Tq invece, que sto Strega è unbrutto pasticciaccio. De siati, da subito, si è sganciatodal grup po che aveva fatto nascere con l’intento, di-chiarato e sottoscritto, di trovare un’identità collettiva.Già dal primo in contro romano nella sede di Laterza,presenziato freddamente, lo scrittore e poeta puglieseha dato l’impressione di volersi disimpegnare. Ci hamesso la fir ma, non la faccia. Ne ha lasciato il se gno,o una vera traccia, nei tanti (forse troppi) dibattiti realie virtuali che in questi mesi si sono susseguiti anchesu internet (creando il gruppo «editoria», il gruppo

«politica»). Nati dal primo seminario di fine aprile efioriti in vista del prossimo incontro a fine luglio, do -ve il pallino, ormai, sembra finito in mano a ChristianRaimo e Vincenzo Ostu ni, molto attivi anche nellagestione del Teatro Valle occupato. Desiati si è defila -to forse per evitare di trovarsi sovrae sposto, in quantocandidato allo Strega. Forse ha agito per immediatodisincan to, o per pudore, vero o falso che sia.Forse per eccesso di cautela, verso il gruppo o séstesso. Resta il fatto che per molti, ormai, il Desiatidel manife sto Tq e quello dello Strega sono un casodi omonimia.Le bordate principali contro il grup po erano arrivatedagli irregolari di destra e dai radicali di sinistra, a for-mare un composito popolo no-Tq che su Fa cebook haproposto persino una baby «legge Bacchelli», un sussi-dio. Le criti che riguardavano per lo più l’aspetto po-tenzialmente lobbistico dell’esperimen to collettivo: deicinque promotori di Tq, ad esempio, due sono votanti(Giu seppe Antonelli e Nicola Lagioia) e uno era datempo papabile per lo Strega. Ra gionevole, allora, sce-gliere un profilo basso. Ma sparire non è troppo? Cisono ragioni più profonde, che riguardano la spaccaturadel gruppo Tq tra mercatisti e anti-mercatisti.Le contraddizioni si sono chiarite an che alla vigiliadella premiazione finale, con una mail di ChristianRaimo, critica verso il premio, rivolta ai Tq e no. Rai -mo non criticava il merito, ma il meto do. Il sistemafatto di telefonate e com promessi, scambi di favori,pressioni e altre «cattive» abitudini. La discussio ne,nonostante un ampio indirizzario, tra cui Desiati, èper lo più caduta nel vuoto, in alcuni casi è stata ad-dirittura respinta al mittente. Molti hanno chie sto difarsi cancellare dalla mailing list, manco fosse spam.

Luca Mastrantonio, Corriere della Sera, 8 luglio 2011

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Il colpo dello Strega: parolacce e Pennacchi

Finale con insulti in diretta televisiva per la serata che incorona Edoardo

Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2011

Al Ninfeo, di ninfette, se ne ve -don poche: potrebbe puntare altitolo Evelina Manna, ex aspi -rante fidanzata di Papi Silvio, in -tercettata giovedì sera in (stra na)coppia con Fulvio Abbate, «can-didato scapigliato» alle primariedel Pd con la lista «si tuazionismoe libertà». Per il re sto è veramentela notte delle Streghe, un profluvio di labbra rifatte, scol-lature ampiamente fuori tempo, ceroni impiastric ciati.Altro che specchio del paese, è un paese senza specchi.Comme d’habitude, il pronostico della vigilia s’è avve -rato. Meno male che doveva essere lo Strega degli one-sti: nien te pressioni, niente cene, niente telefonate.Tra lo stupore ge nerale, ha vinto Edoardo Nesi, conStoria della mia gente (ma dai?): 138 voti che hannofatto la felicità di Elisabetta Sgarbi e Paolo Mieli, pre-sidente di Rcs Libri, di strette di mano e sorrisi amezzo sigaro. Prime parole dell’autore Bom piani:«Dedico il premio a Prato, la mia bel-lis-si-ma città»(evi dente caso di dichiarazione da caldo). Lo costrin-gono a bere lo Strega, si dice che la tradizione lo im-ponga. Più tardi, l’abbrac cio del fair-play con BrunoAr paia, terzo per un’incollatura con L’energia delvuoto, scrittore e persona di grande sobrietà. Co sì la

seconda classificata, Maria PiaVeladiano con La vita accanto,devota esordiente consacrata dalvoto delle scuole. Batosta perMario Desiati, di cui si era par-lato all’inizio come «ipoteti covincitore», quarto con 63 vo ti eun po’ troppa retorica. Quin taLuciana Castellina; 45 voti, 82

anni e una classe sempre inte gra. In un panorama dipseudo vip incartapecoriti e ingessati, svariate impal-cature facciali e finto bon ton (cfr. assalto furio so albuffet dei dolci) il suo ta volo è decisamente il piùviva ce: tifo e applausi. Da New York è arrivata, appo-sta, anche Gio vanna Botteri.Perfino le polemiche sono stan che: la Rai prova a rav-vivarle mandando in onda due lettere (Caro premio tiscrivo), in cui si fanno le pulci a freschezza e me todidell’agone letterario più contestato d’Italia. Una è fir-ma ta dal medievista Franco Cardi ni, che potrebbe ci-tare per dan ni la Rai: l’altro mittente è Piero Sanso-netti. Il fermo posta non piace ad Antonio Pennacchi,presidente della giuria (l’anno scorso ha vinto con Ca-nale Mus solini) che al microfono di Gerar do Grecodichiara in perfetto ro manesco: «Dije a quello c’hamandato ’a lettera de’ scrive un libro come il mio».

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Oblique Studio | Rassegna stampa luglio 2011

La serata televisiva porta scompiglio nello spoglio, so-litamente animato della suspense del voto per voto.Quando inizia la trasmissione, le comunicazioni sul -l’andamento della classifica s’interrompono. RestaMelissa P. che con il gessetto annota i risultati sullalavagna (e in favore di telecamera ha scel to un abitoa schiena nuda, vista tatuaggio). Gli amici della do-menica non gradiscono e rumo reggiano: nemmenole crocette si possono mettere più. Si va per le lunghee Dacia Maraini non nasconde noia e desiderio discappare prima della fine. I di rigenti delle case editricisi av vicinano al palco per seguire le operazioni: Lo-renzo Fazio (Chiarelettere), Stefano Mauri (gruppoGems), Antonio Fran chini (Rizzoli). Sembra un coltodiversivo tra vecchi amici e gen tiluomini, in realtà ingioco ci sono le copie che, da oggi, cominceranno alievitare.Continua il tam tam del pronostico, mentre il pal-mares della gaffe va a Tullio De Mauro, presidentedel Premio. Spiega (c’è la prova televisiva) perché èfalso dire che la giuria del pre mio non si rinnova:ogni anno una quindicina di amici della domenicapassano a miglior vi ta. Imbarazzanti e non riporta -bili scongiuri dei giurati. Accan to a lui il presidentedi Agcom, l’authority delle telecomunica zioni, Cor-rado Calabrò (noto anche come poeta e finalista pro-prio allo Strega nel ’99), con ferma, per la serie versipopo lari: «Squadra che vince non si cambia». Semprein tema di poesia, l’ultima parola spetta a Pennacchi:indispettito perché la Rai gli ha rubato la scena, ri-premia Nesi, incoronato pri ma del tempo da Greco.«Er pre mio lo damo noi, non la Rai». Poi se ne va,

ma il suo ’fanculo an cora in audio fa impallidire leaf fettuosità Tremonti-Brunetta: è il colpo delloStrega. Per fortuna, poco prima, Paolo Mieli avevaparlato di un’edizione del premio contraddistinta dagrande fair play.Si dice, in questi casi, il bello della diretta: ma anchesotto il palco si fanno incontri di un cer to rilievo. Peresempio Aldo Cazzullo è super soddisfatto men tre parladei prossimi libri (Ve spa ha un erede) con i respon -sabili, nel senso di dirigenti, di Segrate. Che non si di-cono affat to preoccupati per l’esito del Lodo di frodo.Riccardo Caval lero, direttore generale di Mon dadoriLibri, se la cava con un sor riso: «Mi occupo di libri,copie, strategie della casa editrice». Ma il fantasma dellatoga non siede solo al tavolo di Mondado ri. MassimoPini, uomo di fidu cia di Salvatore Ligresti, e Luigi Via-nello, portavoce di Cesare Geronzi, sembrano assai piùinteressati alle ultime vicende giu diziarie che alle que-stioni letterarie. Cesare Romiti si fa vedere, ma è un fo-togramma superdefi lato. Politici praticamente non per-venuti, tanto è vero che il pe so massimo della categoriaè Da rio Franceschini (Walter Veltro ni è in trasferta allakermesse culturale del Pd a L’Aquila). Per il centrode-stra, il sindaco di Ro ma Alemanno fa la rituale e in -nocua capatina.Le vecchie glorie non possono mancare: Alberto Be-vilacqua, Walter Pedullà, i registi Ettore Scola e CittoMaselli. Fabiano Fa biani, giornalista, ex direttore deltelegiornale Rai e Stefano Rodotà. Che non deludemai. In fatti al microfono dell’inviata Rai, molto sere-namente, spie ga: «È vero, molti romanzi in ga ra par-lano dei problemi del la voro. Ma registrare la realtà

«Il palmares della gaffe va a Tullio De Mauro,presidente del Premio. Spiega (c’è la prova televisiva) perché è falso dire che la giuria delpre mio non si rinnova: ogni anno una quindicinadi amici della domenica passano a miglior vi ta»

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Nesi, la mia rabbia e l’orgoglio

Parla l’autore di «Storia della mia gente» che ha trionfato allo Strega

Fiorella Iannucci, Il Messaggero, 9 luglio 2011

Mai vista una vittoria alloStrega tanto festeggiata da po-litici e amministratori (to scani):sindaco, presidente di Regione,di Provincia e dulcis in fundo,sindacati. Segno che davveroStoria della mia gente (Bom-piani) di Edoardo Ne si, il libroche ha trionfato l’al tra notte alNinfeo di Villa Giulia, tocca un tasto dolente,smuove emozioni, riapre ferite mai chiuse. E riac-cende il dibat tito. Sulla letteratura? No, sulla globa-lizzazione e sugli effetti disastrosi che ha avuto «inquel la parte d’Italia benedetta da Dio» che è Prato,la città del 47enne scrittore ed ex impren ditore. Cheè anche assessore provinciale allo sviluppo economicoe alla cultura.«Due cose» dice Nesi «che dovrebbero sempre andarea braccetto».

Perché ha voluto dedicare lo Strega «a chi ha perso il la-voro» e alla sua città?Il mio libro mette insieme nar razioni che riguardanotante persone mai raccontate prima dalla letteratura: ipiccoli im prenditori. Si parla sempre di grande indu-stria, di padroni e operai. Ma la stragrande mag gioranza

delle imprese italiane sono pic-cole aziende, e chi le guida hasempre un rapporto speciale coni dipendenti. Io, nella mia fab-brica tessile, che ho dovuto ven-dere nel 2004, conoscevo tutti,mogli e figli compresi. Lavoravocon loro fianco a fianco.

Quel che colpisce nelle pagi ne di Storia della mia genteè proprio l’etica del lavo ro. Più in chiave calvinista chemarxista…Il libro non è ideologico: alla fine si parla di benesserediffu so, conquistato, che è sempre una cosa positiva.Più che di calvinismo o di marxismo, par lerei diun’idea del lavoro molto americana. Prato aveva tan -te aziende di imprenditori di ventati, e non nati, tali.La diffusione della ricchezza era capillare: un esperi-mento socia le straordinario, un miracolo della pro-vincia italiana.

Aziende spazzate via dalla globalizzazione…Che non può essere fermata. Ma qualcuno dei nostriprinci pi economisti o politici avreb be dovuto purdirci che la globa lizzazione non è la panacea uni -versale. Lo spieghino ora ai cassintegrati e ai cento

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padri di famiglia che ogni mese perdo no la mobilità,ai ragazzi che escono dagli istituti tecnici, dai licei edalle università e non trovano lavoro, agli imprendi -tori che uno dopo l’altro licen ziano e chiudono le loroazien de, che la globalizzazione è un gioco, e convieneanche a loro.

Si sente uno scrittore no global?Bisogna intendersi sulla definizione. Io parlo a nomedi quelle centinaia di migliaia di persone licenziatealle quali non si può semplicemente dire che le loroimprese non hanno retto la concorrenza mondiale. Cisono responsabilità dei no stri politici e degli econo-misti liberisti.

È davvero molto arrabbiato, Nesi…Sì, lo sono. Si sta perdendo contatto con la vera forzadel paese. Ma la mia è una rabbia positiva: si può e sideve fare qualcosa. Non se ne esce con le formulettee gli antagonismi.

Per tutto questo ha definito Storia della mia gente un«libro di resistenza»?

È anche questo. Non abbia mo bisogno di altro pessimi -smo con il 30 per cento di disoccupazione giovanile.

Parliamo dello Strega, Nesi. Finito sotto accusa e al cen-tro di polemiche per la dittatura delle concentrazionieditoriali…Come si fa ad evitare il soprav vento dei grandi gruppi?Lo Strega si comporta in questo come Confindustria:non c’è mai stato un presidente che veniva dalle pic-cole imprese. Si possono immaginare premi con re-gole diverse, che prevedo no il sorteggio dei lettori-vo-tan ti, come per il Campiello. Ma non è detto chefunzioni meglio o peggio. Nel 2005 non feci polemi-che quando entrai nella cinquina e non vinsi. E se siguarda la lista dei nomi dei premiati dello Strega, c’èben poco da dire.

Il suo libro è un mix: saggio autobiografia pamphlet. Lanarrativa sta cambiando pel le?Io non credo nel romanzo pu ro e non so scriveresaggi. Vole vo solo raccontare una sofferen za metten-domici dentro perso nalmente. E tutto questo mi è co-stato moltissimo.

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L’amaro destino delle librerie

Calo dei lettori, crisi economica e grandi catene che fagocitano i piccoli riven-ditori. Una legge potrebbe salvare il settore. Basterà?

Le librerie stanno andando a ramengo? Sono in moltia crederlo. E in questo momento – a giudicare dallerese anomale (ci sono case editrici che avevano unaresa media dell’8 per cento e sono salite al 30 percento), dalla sensibile diminuzione della richiesta dicopie al lancio delle novità e da altri sintomi di pre-carietà – sarebbe difficile dar loro torto. Crisi econo-mica, margini ridotti, affitti in crescita, difficoltà digestione? C’è naturalmente anche tutto questo. Ma ilcliente della libreria non si fa troppe domande e si li-mita a constatare il fatto: i li bri (quelli che si cercano)non si trovano più. Uno vorrebbe poter ancora repe-rire romanzi o saggi «normali» (ossia non specialistici)a distanza di un paio di mesi dalla loro pub blicazione.Si vorrebbe averli a disposizione subito, magari peruna necessità di consultazione urgente, e invece,quando va bene, ci si deve affidare alla cortesia di unli braio solerte: «Se vuole, posso ordinarlo». Con la ne-cessità sempre più impellente di far tornare i conti conopere di alta o buona vendibilità (lo spazio costa e bi-sogna che quello che lo riempie abbia una redditivitàmedia sostenibile), il problema si è indubbiamente ag-gravato. I più frustrati sono gli autori che, special-mente quando sono pubblicati da piccole o mediecase edi trici, fanno il giro delle librerie per verificarese – per miracolo – si trovi una copia del loro libroappena uscito.Ahimè, capita molto raramente. E allora viene spon-taneo addossare la colpa all’editore che non distribui-sce i propri libri o alla rete di vendita che non fun-ziona, o al sistema commerciale nel suo insieme che

penalizza i piccoli editori. I quali – poveri an che loro– come fanno a sopravvivere con pagamenti del ven-duto a 120 giorni, nel più fortunato dei casi?La risposta non è una sola, ma, a voler semplificarela situazione, potremmo dire così. Una gran parte deilibri che escono ogni giorno non riescono ad arrivarein libreria, anche quando avrebbero le qualitàintrinse che per entrarvi. In genere, o perché alla casaeditrice interessa solo pubblicarli o, più frequente-mente ancora, perché al libraio non interessano opensa di non venderli, e perciò non li ordina. Un’al-tra parte di libri varca la sospirata soglia della libreria,ma, per non incomodare troppo il libraio, è come segli dicesse: stai tranquillo, sto qui per poco; vengo,ma torno a casa presto. Infine, una minima partetrova le porte spalancate; vende bene, anche molto,e naturalmente resta in libreria con tutti gli onori.Questo è il presente. E il futuro? Nella diversifica-zione dei canali e nella radicalizzazione del mercato,la libreria è già diventata un soggetto a rischio, comedel re sto testimoniano tutti i punti vendita che chiu-dono, in Italia e all’estero. In particolare, l’utilizzocrescente dei siti internet come negozi, non solo perla vendita di centinaia di migliaia di titoli di ogni ge-nere, ma di informazioni sui libri e su una vastagamma di altri prodotti editoriali e culturali, italianie stranieri, rende di fatto il commercio elettronicouna servizio molto più completo, comodo, conve-niente e, vantaggio non trascurabile, a completa di-sposizione in ogni momento (le librerie internet sonoaperte a tutte le ore).

Giuliano Vigini, Avvenire, 13 luglio 2011

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C’è qualche speranza per la libreria di recuperare ter-reno? Inutile dire che ogni libreria è un caso a sé, per-ché ci sono pro blemi e situazioni individuali: tipologiadella libreria, dimensioni, localizzazione, posiziona-mento in una particolare zona della città eccetera. Mac’è probabilmente per tutte le librerie la necessità di ri-prendere o intensificare un ruolo specifico rispetto alproprio pubblico di riferimento e rispetto alla concor-renza vicina, con una pluralità di offerte (giornali, sco-lastico, metà prezzo e usato eccetera), con qualche nic-chia di specializzazione e con una capacità di serviziosul territorio che abbiano per la clientela un motivocostante di richiamo. Naturalmente, lo Stato, gli entie le istituzioni locali possono fare qualcosa per salva-guardare un patrimonio – come le li brerie – che è ditutti. In questo momento, ai librai preme in modoparticolare l’ap provazione del disegno di legge Levi(modificato dal Senato il 2 marzo, nuovamente il 22giugno della Camera, ritra smesso al Senato e assegnatoil primo luglio alla 7a Commissione permanente): di-

segno di legge che fissa a una percentuale del 15 percento lo sconto massimo possibile sul prezzo di ven-dita (fatte salve le eccezioni), nel tentativo di porre unargine al mercato selvaggio esistente in materia disconti al pubblico. È chiaro che questa non è la solu-zione a tutti i problemi della libreria, ma è un passonecessario che può contribuire a risolverne qualcuno.Certo, librai e editori auspicano un’organica legge dellibro, ma siccome qualche milione di spesa bisognapur prevederlo, si è del parere che è meglio scordar-sela, perché ogni volta che si arriva all’ultimo articolo(copertura finanziaria o clausola di neutralità finan-ziaria) di una proposta di legge, tutto è destinato a fi-nire in una bolla di sapone. Non è perché oggi ci tro-viamo a mal partito; era così anche venti anni fa, comemi suggerisce la mia esperienza nella Commissionenazionale del libro (1997) e come testimonia l’esitodelle proposte di legge che al riguardo si sono succe-dute (Melandri 2002; Adornato2003; Colasio 2006eccetera). Meglio, dunque, tenere i piedi per terra.

«Una gran parte dei libri che escono ognigiorno non riescono ad arrivare in libreria,anche quando avrebbero le qualità intrinse cheper entrarvi. In genere, o perché alla casaeditrice interessa solo pubblicarli o, più frequentemente ancora, perché al libraio non interessano o pensa di non venderli, e perciò non li ordina»

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Entro gennaio le vendite di ebook aumenteranno di venti volte

Un rapporto presentato per il primo anniversario di BookRepublic prevede per ilibri elettronici un giro d’affari di 12 milioni di euro

«Un milione e mezzo di ebook venduti entro il gen-naio del 2012». Oltre venti volte il numero di romanzie saggi digitali acquistati in tutto il 2010. Tanto che,dopo ripetuti fal si allarmi, «i prossimi mesi potreb -bero segnare la vera partenza del li bro digitale in Ita-lia». È uno scena rio di straordinaria «crescita espo -nenziale» quello descritto dalla so cietà di consulenzaA.T. Kearney nello studio «I lettori sognano i li brielettronici?», presentato oggi in occasione del primoanno di vita della piattaforma e «negozio» digitaleBookRepublic.«Certo, si parte da un mercato esiguo, attualmente lo0,3-0,4 per cento di quello complessivo del li bro»chiarisce Giovanni Bonfanti, curatore della ricerca.«Ma si può prevedere che queste percentuali raddop-pieranno di anno in anno».Più in dettaglio, lo studio ipotiz za che il mercato dellibro elettroni co possa spingersi all’inizio del 2012fino all’uno per cento, toccando un giro d’affari di 12milioni di eu ro, contro i 500 mila del 2010. Condi-zioni essenziali: più dispositivi di lettura (ereader e ta-blet) in circola zione, un maggior numero di titoli initaliano e il loro ingresso – fino ra non avvenuto – nellelibrerie online di Apple, Amazon e Google. «Tuttieventi molto probabili» spiega ancora Bonfanti. «Eanche nel peggiore dei casi, prevediamo comunqueche entro gennaio sa ranno venduti almeno 900 milaebook».Non solo futuro. Il primo anno di vita di BookRepu-blic – che ven de libri elettronici di 328 editori, da

Mondadori a Rizzoli a Voland – of fre anche uno spac-cato di chi sono e che cosa scelgono i lettori digita li.«Risultano diversi rispetto a quelli dei libri di carta» lidescrive l’amministratore delegato Marco Ferrario:«Ci sono più amanti della narrativa di genere (gialli,noir, fan tascienza) e appassionati alla Rete e all’uni-verso elettronico».Basta scorrere la classifica dei ti toli più venduti negliultimi dodici mesi da BookRepublic per renderseneconto: al primo posto Il cimite ro di Praga di UmbertoEco (Bom piani), seguito dal saggio La mente accre-sciuta di Derrick de Kerckho ve (40k), dal thriller L’ul-tima rispo sta di Einstein di Alex Rovira e Francesc Mi-ralles (Newton Compton) e dal libro sul fondatore diAp ple Nella testa di Steve Jobs di Leander Kahney(Sperling & Kupfer).«Visto che siamo uno store onli ne» commenta Fer-rario «è abba stanza scontato intercettare un pub blicosensibile a temi tecnologici. A chi interessa la narra-tiva di genere, invece, possedere un ebook rea derpuò consentire di acquistare immediatamente in di-gitale il libro che si desidera leggere. Oppure, adesempio, di avere sempre con sé la propria collezionedi gialli».Un ultimo dato, infine, riguarda i lettori più giovani.Il 13 per cento dei titoli venduti nel suo primo annoda BookRepublic appartiene alla categoria dei libriper ragazzi. «Un risultato che mi ha sorpreso» am-mette Ferrario. «Segno che dobbiamo iniziare a riflet-tere an che sulla diversa età di chi legge in digitale».

Alessia Rastelli, Corriere della Sera, 14 luglio 2011

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Alcune modeste proposte per le case editrici, a cominciare dalla mia

Marco Cassini, minima & moralia, 17 luglio 2011

Negli ultimi anni, quando mi è capitato di parlare aglistudenti del Master in Editoria dell’Università La Sa-pienza o agli allievi del corso di editoria di minimumfax degli aspetti commerciali di una casa editrice, hopiù volte espresso un concetto (interiorizzato negli ul-timi tre anni passati a fare il direttore commerciale, edella cui intuizione ero piuttosto fiero) che qui sinte-tizzo in brevi affermazioni: noi editori spesso sba-gliamo perché abbiamo sempre in mente come nostridiretti referenti i lettori; pensiamo al pubblico di let-tori che segue le nostre scelte da anni e ci chiediamo:«Cosa penseranno di questa scelta? Leggeranno anchequesto libro? Apprezzeranno il titolo su cui stiamo la-vorando ora?». Ma in realtà quello che dimentichiamoè che noi editori solo molto raramente abbiamo uncontatto, un rapporto diretto coi nostri lettori. Primadi convincere i nostri lettori dobbiamo convincereuna serie di soggetti intermedi: il responsabile dellanostra rete promozionale; che a sua volta convincerài singoli promotori o agenti di vendita; che a loro voltaparleranno del nostro libro a centinaia di librai di ogniregione d’Italia, che infine – solo al termine di questotortuoso percorso – proporranno il nostro libroall’«utilizzatore finale». Perché è così che funziona nor-malmente il sistema distributivo editoriale.Ora, però, sbugiardando quel mio stesso ragiona-mento, credo sia giusto riconquistare proprio la cen-tralità del rapporto (mediato o immediato che sia) fral’editore e il lettore. Credo che noi editori abbiamosbagliato, e sbagliamo, a lasciare che sia il mercato, ei suoi tortuosi percorsi, a regolare le nostre scelte, o

anche solo le forme del rapporto fra noi e i lettori.Quello che il mercato vuole o impone a un editoreche non voglia sparire dalla libreria è la crescita, è unaproduzione maggiore, la conquista di uno spazio neinegozi, che (invertendo il principio di causa-effetto)è sempre più limitato.E così noi editori rischiamo di dimenticarci di parlareai lettori, e parliamo invece al mercato. O quantomeno: cerchiamo di imparare (il più delle volte gof-famente) alcune frasi idiomatiche che crediamo sianola lingua del mercato, nel tentativo di parlare al mer-cato che ci chiede di volta in volta di essere più ag-gressivi; di semplificare i materiali informativi perchéil mercato non è un lettore colto; di usare paratestisempre più simili al packaging di un prodotto dabanco del supermercato; di confezionare i nostri libricon delle copertine che assomiglino ad altre copertinedi successo; di promuoverli come qualcosa di ricono-scibile non perché unico ma perché al contrario si-mile a qualcos’altro; di adottare strategie commercialipiù facili come sconti, campagne promozionali, po-litiche di prezzo al ribasso. E così ci concentriamopiù sul rapporto che la casa editrice ha o dovrebbeavere con gli agenti di vendita, con i buyer delle ca-tene, con la grande distribuzione che sul rapportocon il lettore, l’unico che davvero conti, e rischiamodi trascurarlo, di non parlare più la sua lingua, cheprima era la nostra lingua. E ci allontaniamo. Per unproblema lessicale.Abbiamo ceduto insomma, noi editori, al ricatto delmercato, abbiamo assecondato alcune sue richieste

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che se ci fermiamo a riflettere appena un istante rive-leranno tutta la loro assurdità; abbiamo allentato lamorsa del nostro codice deontologico e abbiamo fi-nito col chiudere almeno un occhio quando ci guar-diamo dentro (nello specchio dell’anima che è il no-stro catalogo) e rischiamo adesso di non riconoscercipiù, di non riconoscere più nella nostra proposta (ma-gari non nel suo contenuto, che resta coerente, ma nelmodo di veicolarlo, che però come sappiamo bene neè parte integrante) qualcosa di coerente con quello cheeravamo prima di cedere.Si dirà: bisogna pur sopravvivere. Oppure: è la libre-ria, baby. O ancora: è tutta colpa del mercato. Manon è vero, il mercato è fatto di lettori, e se sappiamoparlare ai nostri lettori uno a uno, alla fine avremoparlato anche al mercato. In fondo, lettori e mercatosono la stessa cosa, solo che paradossalmente agli unisappiamo parlare (ma stiamo rischiando di dimenti-care come farlo) e all’altro non sarebbe poi così ne-cessario ma ci sforziamo continuamente di farlo.Corriamo insomma il rischio di assomigliare a queiproduttori di cattiva televisione che si dicono costrettia produrre programmi di così basso profilo per andareincontro ai gusti del pubblico mentre il pubblico (unaporzione di pubblico) è molto più elevato di quellaproposta, vorrebbe qualcosa di meglio, se solo ci fosse,e magari quando un raro prodotto di intrattenimentodi qualità arriva in tv viene premiato. Ecco, quellaporzione di pubblico spesso è già una quantità di let-tori sufficiente, se siamo in grado di intercettarla, sesappiamo parlarle col cuore e con la qualità dei nostriprodotti e delle nostre idee che ci abbiamo messo den-tro, e non con la lingua del mercato: una quantità chefarebbe prosperare o quanto meno vivere dignitosa-mente le nostre case editrici.D’altro canto, e non è un dato trascurabile, il mercatoeditoriale italiano è solo uno dei tanti aspetti in cui simanifesta l’anomalia del nostro paese. Stando alla suadefinizione e alla sua dichiarazione di intenti, «L’Au-torità Garante della Concorrenza e del Mercato, me-glio nota come Antitrust (…) garantisce il rispettodelle regole che vietano le intese anticoncorrenzialitra imprese, gli abusi di posizione dominante e le

concentrazioni in grado di creare o rafforzare posi-zioni dominanti dannose per la concorrenza, conl’obiettivo di migliorare il benessere dei cittadini».Non dovrebbe quindi accettare o permettere che iprincipali distributori siano anche i soggetti che pos-siedono le più grandi catene di librerie, e addiritturasiano a loro volta anche editori (e poi perfino grossisti,marchi di franchising, librerie online…) Nel nostromercato editoriale, soggetti che in teoria dovrebberoavere interessi non coincidenti (librai, editori, distri-butori, grossisti) sono presenti in tutte le varie asso-ciazioni di categoria, e questo fa sì che si travesta da«accordo fra le parti» ciò che in realtà è solo l’eserciziodi un potere dei pochi.Allo stesso tempo più volte si è affacciata – propostadal «mercato» sotto forma di consigli da parte di let-tori librai promotori distributori, o suggerita implici-tamente dai tabulati di vendita, dalle classifiche Niel-sen, dalle ospitate al programma televisivo delmomento, e così via – la possibilità di trovarci al bivioa cui ci affacciamo ogni giorno da anni ed essere ten-tati dalla via più battuta, dalla scorciatoia. E così ma-gari ci è capitato di non limitarci a valutare un librosolo per le sue intrinseche qualità letterarie linguisti-che contenutistiche formali ma anche immaginandole sue potenzialità di vendita. Anche qui si dirà: è ilmercato, la casa editrice è un’azienda, deve far qua-drare i conti. Eppure la storia di molte case editrici èfatta di goffi tentativi di andare «verso il mercato»senza averne la predisposizione capacità attitudine, edi successi di critica ma anche di vendite ottenuti pro-prio dai libri che «il mercato» (banalizzandolo e im-maginandolo erroneamente come un enorme sto-maco in grado di digerire solo best seller di scarsaqualità) apparentemente o teoricamente avrebbe do-vuto rigettare. Il titolo di qualità che vende, l’autoreletterario che vende (e ovviamente per vendita nonparlo di giga-seller ma di numeri ancora dignitosa-mente, onestamente a quattro cifre) esistono.Dobbiamo resistere alle tentazioni, alle richieste, alleregole che qualcuno vorrebbe far passare per le unicheleggi di mercato che valgano (iperproduzione, cre-scita, semplificazione, imitazione) e dimostrare che

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non è vero, che si riesce a restare sul mercato anchesenza pubblicare solo le mode del momento, che unromanzo si vende anche senza la fascetta fosforescenteo senza una donna ammiccante in copertina, che unlibro ha il suo valore anche per la rilegatura e l’impa-ginazione che usa, per l’investimento che l’editore hafatto nella traduzione o nell’editing, e nel numero dicorrezioni di bozze cui ha sottoposto il testo, per lastrenua ricerca del nostro libro di essere difficilmenteclassificabile, di non assomigliare a niente se non a sestesso. Perché il lavoro di ognuno di noi, credo, infondo vuole dimostrare un principio semplice: il miolibro non è ilmiolibro.Concordo dunque con l’idea di una graduale decre-scita editoriale (proposta recentemente da Simone Ba-rillari nell’ambito di una discussione in seno al gruppodi lavoro Tq-editoria, ma assai ben praticata e comu-nicata a lettori, giornali e librai, già qualche anno fa,dall’editore marcos y marcos): produrre meno per af-fogare meno le librerie, dare tempo ai librai e ai lettori(ma anche ai critici letterari e alle pagine culturali) di«assorbire» con i giusti tempi la produzione delle caseeditrici.Se dovessi proporre ai miei amici e colleghi editori unipotetico codice deontologico, mi soffermerei innanzitutto su questi punti:1. Impegnarsi insieme, e reciprocamente, in una cam-pagna di «decrescita felice»: produrre meno per pro-durre meglio, per dare tempo ai libri di vivere più alungo prima e dopo la pubblicazione;

2. Impegnarsi a non cadere nella tentazione delle scor-ciatoie, della semplificazione, dell’imitazione;3. Impegnarsi a resistere alle storture del mercato e afare di tutto per cambiare le sue regole che non cipiacciono.Il mercato in sé non è un’entità necessariamentebrutta e cattiva, ma le regole che lo governano a voltesì. Fra le storture che regolano il mercato italiano oggic’è quella di una legislazione fallace. Così come i Mu-lini a vento (un gruppo di editori di cui fanno parteDonzelli, Instar libri, Iperborea, minimum fax, LaNuova Frontiera, nottetempo, Voland) negli ultimidue anni si sono spesi per contribuire a porre unprimo piccolo argine (altri bisognerà costruirne) allastortura della legislazione in materia di prezzo dellibro, forse oggi ci si potrebbe impegnare a proporreal garante per l’Antitrust di regolamentare il mercatoper evitare che tutta la filiera editoriale sia in mano apochi soggetti in posizione dominante.Perché le regole del mercato non le fa il mercato male facciamo (e quindi possiamo anche modificarle) noiche il mercato lo alimentiamo e lo nutriamo con lenostre idee, le nostre proposte, le nostre battaglie.E ancor più perché – ricordiamo le parole trascrittepoco sopra – in ballo non è solo la sopravvivenza diuna piccola libreria di quartiere o di un editore indi-pendente, ma «il benessere dei cittadini». E il nostrobenessere – cioè di noi editori, lettori, librai; di noicittadini – passa in gran parte per le pagine dei nostrilibri.

«Si dirà: bisogna pur sopravvivere. Oppure: è la libreria, baby. O ancora: è tutta colpa del mercato. Ma non è vero, il mercato è fattodi lettori, e se sappiamo parlare ai nostri lettori uno a uno, alla fine avremo parlatoanche al mercato»

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Meno titoli per tutti

«Noi marchi indipendenti rischiamo la bolla editoriale»

Pubblicare meno, pubblicare meglio. L’idea di «decre-scita fe lice» è stata lanciata da un edito re di medie di-mensioni e di rico nosciute qualità come mini mumfax: la settimana scorsa, sul blog let terario minima &moralia, Marco Cassini è intervenuto in una discus-sione che da diversi giorni verteva sulla legittimità diquel «publish or perish», pubblicare di più per soprav-vivere, che è stato il motto an che dell’editoria italiana.Il risultato è nei circa 60 mila titoli che ogni anno in-vadono le librerie. Più di 160 al giorno, in un paesedove i lettori scarseggiano. La conseguen za, denun-ciata da Giuliano Vigini sull’Avvenire, è che per alcunieditori la resa me dia dell’8 per cento è salita al 30 percento. In altre parole la vita dei titoli in libreria è mi-nima. Come conferma Stefano Verdicchio di Quodli -bet: «I distributori mi hanno detto che or mai le grandilibrerie tengono le novità per un mese». E questotema, così come la riflessione, colpisce soprattutto glieditori medi, quelli che stanno tra i 30 e i 60 titolil’anno. Quelli che non hanno grandi grup pi alle spalleo bestseller salva-bilancio.«Capitalismo da straccioni», commen ta Sandro Ferridi e/o che spiega come funziona il mercato: «Noi edi-tori, tutti, facciamo titoli che perdono soldi nell’ot -tanta per cento dei casi, e lo sappiamo in partenza.Ma intanto li facciamo uscire, perché librai e distri-butori li pagano: quando ci sarà la resa, gli ridarai isoldi, ma intanto hai tra le mani un flusso di denaro.Perché lo facciamo? Per avere visibilità, in parte. Igrossi editori prendono sempre più spazio in libreria:e se usciamo con trenta titoli abbiamo più possibilità

di far ci vedere. È perché ci facciamo ingannare daun’illusione». «Un’illusione che è un castello di carte»incalza Daniela Di Sora di Voland «perché se nonposso fare il nu mero di libri previsto per bilanciare lerese di quel determinato mese, ecco che il castellocrolla. Viviamo in una perversio ne: ci sono tanti titoliche avrebbero biso gno di tempo ma oggi i libri sonodiventa ti beni come gli altri e si restituiscono sen zadar loro una chance».Ma pubblicare meno, par di capire, non è sufficiente.Riflette Lorenzo Fazio di Chiarelettere: «La decrescitaha senso e penso che prima o poi anche i grandigruppi editoriali dovranno prenderla in considera-zione. Si tende a pubblicare di più perché statistica-mente è più facile imbroccare il titolo che vende.Quando lavo ravo presso Rizzoli, l’amministratore de-legato spingeva ad aumentare la produ zione perché lenovità erano poche rispet to a quelle di Mondadori.La decrescita ha un rischio: i criteri. Temo che si sce-glie rebbero solo i libri che possono andare in televi-sione». Stefano Verdicchio allarga il dubbio: «La miapaura è che chi decresce ottiene solo uno spazio an-cora più picco lo sugli scaffali, e si dà la zappa suipiedi».È un effetto domino: la questione ne apre altre, a ca-tena, e rivela un mondo edi toriale sotto pressione. Ilproblema degli spazi a pagamento, per esempio. San-dro Ferri si infervora sui cataloghi delle libre rie Mon-dadori, con i rappresentanti che, depliant alla mano,offrono soluzioni di esposizione a prezzi variabili:«pila singola, doppia, tripla, altarino, vetrina», com -

Loredana Lipperini, la Repubblica, 18 luglio 2011

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menta amaramente. È vero, ciclo del li bro e rese sonosolo una spia, riflette Car mine Donzelli: «Marco Cas-sini mette in ri lievo il carattere diabolico di un sistemache si dibatte sotto l’egida delle presunte pretese delmercato, e che mina anche la migliore volontà di co-struire una logica editoriale. Siamo tutti presi nel mec-cani smo al punto di tradire le nostre premes se».Dunque, l’autocritica viene accolta? «Sì, nel senso dialzare la soglia del rigore e della responsabilità: inpoche parole, è giusto selezionare con maggiore atten-zione i testi. Ma nessun buon esempio può sortire ef-fetto se non ci si danno regole. Non esistono vincolialla restituzione del libro al prezzo pieno pagato dallibraio. Non c’è nessuna regolamentazione delle rese.E non siamo mai riusciti ad avviare una discussionevera su una legge sul libro. Quella attualmente in di-scussione sugli sconti si occupa del cinque per centodel problema. Siamo riusciti, noi editori che conver-giamo nei Muli a vento, a far correggere un punto de-ludente solo perché anche i grandi editori hanno ca-pito che la troppo rigida difesa della libertà diapplicazione dello sconto si sarebbe ritorta contro diloro, aprendo a interessi ben più consistenti. Quellidi Amazon». Già, Amazon. Il mega-distributore (e forse colossaleeditore, dal momento che in America sono cominciate

le assunzioni di editor e sono iniziati i contatti con gliagenti europei per tradurre direttamente i ti toli tolipiù venduti) è il vero spettro dell’editoria italiana.Amazon è il motivo per cui Giuseppe Laterza si di-chiara non convinto dalla proposta di Cassini: «Il nu-mero dei titoli, in sé, non è positivo né negativo. Èuna richiesta di pluralismo avere tanti titoli. Semmai,il problema è nella struttura distributiva, non nellaquantità di libri pubblicati. Dunque, sta nella cre-scente concentrazione della distribuzione: e la piùgrande è Amazon. Al di là del segnale richiesto daCassini, l’obiettivo è una vera legge sul libro, che tu-teli il pluralismo delle idee e delle offerte, e che evitila concentrazione sia nei titoli che nella distribuzione.Faccio un esempio. La catena inglese di librerie Wa-terstone è stata venduta a un magnate russo, Alexan-der Mamut, che ha scelto per dirigerla il più intelli-gente libraio indipendente d’Inghilterra. Nella suacatena, niente sconti e politica di ca talogo: quandoesce un romanzo della Rowling, non riempie tutto lospazio a di sposizione, ma ne ordina poche copie e poirifornisce. L’obsolescenza della nostra politica dissen-nata va combattuta puntando sulla qualità dei librai,e non sulla vendita immediata dei titoli. Spero chel’esempio inglese sia il primo segnale di un’inversionedi tendenza».

«Noi editori, tutti, facciamo titoli che perdonosoldi nell’ot tanta per cento dei casi, e lo sappiamo in partenza. Ma intanto li facciamouscire, perché librai e distributori li pagano:quando ci sarà la resa, gli ridarai i soldi, maintanto hai tra le mani un flusso di denaro»

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L’anti-canone di Bloom

Tutti i bocciati del critico: Salinger, Franzen e Foster Wallace

Alessandra Farkas, Corriere della Sera, 20 luglio 2011

Il libro di Harold Bloom, che in Italia sarà pubblicatoda Rizzoli in autunno col titolo L’anatomia dell’in-fluenza. La lettera tura come stile di vita, è stato salutatoin Ameri ca da un profluvio di elogi da parte dei piùauto revoli critici letterari, molti del quali suoi ex stu -denti a Yale. Tra questi Sam Tanenhaus, capo dell’in-fluente Book Review del New York Ti mes che oltre adedicargli una recensione stel lare e a tutta pagina nel-l’inserto domenicale da lui diretto, ha intervistato l’exmaestro per un cliccatissimo video sul NYT online.Per generazioni di americani cresciuti leggen do i suoiquasi quaranta libri che hanno rivoluzionato la storiadella critica letteraria mondiale, Ha rold Bloom è e resta,nelle parole di Tanenhaus, «il critico letterario più fa-moso e controverso dei nostri tempi». Una sorta di ce-lebrità, come oggi lo sono solo le star dello spettacolo,cui è bastato definire il suo nuovo libro «il mio cantodel cigno virtuale» per gettare nell’ansia schiere di fan.«Ho compiuto 81 anni a luglio, ma questo non saràcerto il mio ultimo libro», li tranquillizza ora Bloom,appoggiandosi al bastone ormai onnipresente dopo lacaduta che nel 2008 ri schiò di ucciderlo, costringen-dolo ad abbando nare – ma solo temporaneamente –la cattedra di Sterling Professor of the Humanities andEnglish a Yale. Il 15 agosto uscirà The shadow of a greatrock, sulla Bibbia di Re Giacomo, e tra un paio d’annisarà la volta di The Hum of thou ghts evaded in the mind,che Bloom definisce «l’autobiografia di un lettore».L’anatomia dell’influenza, spiega, è un canto del cigno«nel senso che non scriverò un altro libro di tale por-tata». Nel saggio di 357 pagine, Bloom rivisita gli autoriche più hanno influen zato la sua vita da quando, a 10anni, scoprì Whi te Buildings del poeta Hart Crane («ilmio pri mo amore») in una libreria pubblica del South

Bronx, il quartiere dove viveva coi genitori, po verissimiebrei semianalfabeti provenienti dagli shtetl dell’EuropaOrientale che in casa parlava no solo yiddish.«Questo è il mio libro più personale, una sor ta di me-moir letterario» rivela «anche se dal mio debutto conShelley’s Mythmaking, nel 1959, fino ad oggi, sonosempre stato un critico letterario estremamente pas-sionale. Come dice va il sublime Oscar Wilde, miagrande ispirazio ne, la critica letteraria è l’unica formacivile di autobiografia». Proprio questo suo approcciovi scerale gli ha procurato critiche nel mondo ac -cademico americano dove molti non gli hanno maiperdonato le crociate contro gli autori post-sessantot-tini e politically correct, in nome di una letteratura in-tesa come epifania indivi duale, non come riscattosocio-politico.«Il rapporto tra il poeta e i suoi precursori è una veraguerra psicologica per affermare la propria visione ori-ginale», teorizzava in L’ango scia dell’influenza (un sag-gio uscito in Italia nei primi anni Ottanta al quale giànel titolo si ri chiama la nuova opera), dove l’inven-zione lette raria diventa la distorsione creativa dei mae-stri da parte dei loro successori. Ma Bloom oggi prendele distanze da quell’opera, considerata da molti la suapiù importante: «Non mi sogne rei mai di rileggere imiei lavori giovanili per ché dubito fortemente che riu-scirei a capire che cosa quel tizio avesse in mente» af-ferma. «Quella persona non sono più io: non ha sensoper uno scrittore difendere ogni suo libro».Eppure i suoi grandi «amori», oggi, sono gli stessi cele-brati nel Canone Occidentale del 1994, dalla cui famosa«lista» Bloom ha più tardi preso le distanze: Omero,Chaucer, Cervan tes, Molière, Lorca, Yeats, D.H. La-wrence, Pe trarca, Leopardi, Tolstoi, Ungaretti, tanto

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per ci tarne alcuni. Cioè membri di una grande fami -glia, dove i posti a capotavola spettano a Shake speare eWhitman, «le mie due grandi passioni», su cui s’incen-tra L’anatomia dell’influenza.«Nel bene e nel male Whitman spiana la stra da almondo moderno», teorizza. Per quanto ri guarda Sha-kespeare, «nonostante rivali come Omero, Dante e Cer-vantes, egli è l’unico che tra scende davvero i limiti lin-guistici, storici e geo grafici». «Non è solo un poeta dellalingua inglese e neppure solo il poeta della tradizioneocci dentale» incalza Bloom «ma è Il poeta e dramma-turgo di tutto Il mondo e di ogni èra: una presenza nelpensiero universale. Lo si po trebbe chiamare l’autoredella terra ed è per questo che lo considero come Dio».Come mai l’èra moderna non è stata in grado dicreare un altro Shakespeare? «È come chie dersi perchéil mondo non sia riuscito a produr re un altro Dante,o un altro Cervantes, o perché la tradizione narrativae letteraria non ci abbia dato un’altra Iliade e Odissea.Non penso se ne possa parlare in termini di causa-ef-fetto: si trat ta piuttosto di un vero e proprio incidenteco smologico, unico, raro e inspiegabile».Quasi un miracolo, insomma. «Nel Sedicesi mo secoloa Londra, una figura particolare non solo trascendechiunque, ad eccezione di Dan te, come maestro dellapropria lingua, ma ha an che il dono, che in un certosenso supera Dante, di creare con la penna esseriumani. Ti dà cento personaggi principali e mille per-sonaggi secon dari, che hanno tutti voci proprie, e so-prattutto voci che continuano a cambiare». NeppureDan te, ribadisce, riesce a tanto. «Ad eccezione del pel-legrino stesso, nella Divina Commedia il giu dizio suipersonaggi è dato e non si può cambiare. Anche per leanime del Purgatorio sappia mo già quale sarà l’esito».Tra gli scrittori americani viventi, solo quat tro roman-zieri hanno secondo Bloom «serie probabilità di so-pravvivere»: «Il mio conoscen te Cormac McCarthy, imiei amici Philip Roth e Don DeLillo e quel miste-rioso e affascinante si gnore che è Thomas Pynchon».Ancora più scarno il panorama per la poesia: «Ab-biamo un so lo grande poeta vivente negli Stati Unitiche so pravvivrà al suo tempo: John Ashbery, e anchegli inglesi ne hanno solo uno: Geoffrey Hill».

Bloom vorrebbe non parlare dei romanzieri contem-poranei, «perché la gente poi si arrab bia con me», manon riesce a trattenersi. «Non è mia intenzione pole-mizzare ma ritengo che David Foster Wallace sia unpessimo scrittore. Paragonarlo a James Joyce è sem-plicemente ridi colo». Solo lui può dire cose del generesenza temere ripercussioni da parte di un’industriaeditoriale che peraltro critica da anni.«Editori e riviste letterarie devono avere qual cosa di cuidibattere. Così creano l’illusione che ci sia un genio vi-vente negli Stati Uniti. Ma non è vero. Herman Melvilleha scritto un grande libro con Moby Dick, Mark Twaincon Huckle berry Finn e Nathaniel Hawthorne con LaLette ra Scarlatta. Henry James, il più grande roman ziereamericano, ha lasciato sette o otto capola vori. Dopo dilui gli Stati Uniti hanno creato un genio in WilliamFaulkner, che ha firmato il ro manzo più originale e sen-sazionale del Ventesimo secolo: Mentre morivo. AncheMeridiano di sangue di Cormac McCarthy è un’operasplendida, sebbene lontana dal maestro, Faulk ner».Neppure Salinger passa l’esame. «Salinger è tanto sottileda risultare irrilevante, salvo poi essere meglio di HarryPotter e Stephen King». Hemingway «è un esperto distile e un grande narratore», («non nei romanzi ma neiraccon ti», puntualizza), mentre Scott Fitzgerald «è quasialtrettanto bravo». Il mito del «grande ro manzo ameri-cano» (titolo che il sue ex alunno Tanenhaus conferiscea Jonathan Franzen), secondo il noto critico «è da di-menticare». «Free dom può anche avere un valore socio-logico, ma i personaggi sono solo nomi sulla pagina.Non hanno vita. Diciamo che Franzen non è CharlesDickens, come sostiene qualcuno».Nonostante l’antipatia – reciproca – per le femministe,Bloom non dimentica la letteratu ra al femminile. «GliStati Uniti hanno avuto un numero considerevole didonne in posizioni di potere» riconosce «e infatti il piùgrande poeta dopo Whitman è stata Emily Dickinson.Abbiamo avuto tante scrittrici di romanzi – Willa Cather,Edith Wharton, Flannery O’Con nor, Eudora Welty, Eli-zabeth Bishop e Virginia Wolfe – brave ma non quanto leinglesi Emile Brönte, Charlotte Brönte, Jane Austen e Ge-orge Eliot. E comunque non riesco a pensare a una solaautrice vivente, americana o inglese, dello stesso calibro».

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Racconti, arte e grafica. Piccole riviste crescono

Dall’inizio dell’anno sono nate quattro nuove testate culturali. Su carta e su web

L’editore di una delle nuove riviste indipendenti ita-liane indossa la giac ca della tuta e una magliettabianca. È giovane e sa che sta facendo una follia. Ma,d’altra parte, le riviste – le piccole riviste cartacee diarti e let tere, influenti o irrilevanti, grandi o piccolis-sime, più o meno profes sionali – sono la caffeina dellaproduzione di conoscenza umanistica. In Italia, nel2011, sono venute al mondo almeno quattro nuoveriviste cartacee, di differente ambizione e aree d’inte-resse, ma accomunate da ciò che normalmente si la-menta quando s’affronta lo stato delle cose nella pe-nisola – uno, sono progetti culturali e imprenditoriali;due, chi le fa rischia in proprio; tre, danno l’idea cheda noi si possa vivere facendo crescere idee forti ecompetitive. Se è vero che i grandi giornali inventanoil proprio pubblico, generando comunità elettive,anche queste nuove avventure – forse – sono lo spec-chio di una nuova bor ghesia giovanile, metropolitanae non, curiosa, forse invisibile agli oc chi delle statisti-che ma viva.Si chiamano The Milan Review, Italic, Studio e TheExhibitionist. Par lano d’arte (The Exhibitionist), lette-ratura (The Milan Review), geopo litica generalista evita urbana (Italic), cultura nel senso più ampio e stra-tificato del termine (Studio). Le redazioni delle nuoveriviste italiane sono spesso ospitate da altri uffici, studidi design, redazioni di magazine più commerciali, so -cietà di consulenza, gallerie d’ar te, che magari, se laprovvidenza dovesse cedere sotto i colpi del mercato,potrebbero sostenere quel salvifico passo in quel vuotod’utile che è «fare una rivista». Co sì appare agli occhi

del visitatore il luogo in cui è stata pensata The MilanReview of Ghosts, primo esemplare di una collana cheve drà il prossimo chiamarsi The Mi lan Review of Uni-verse. Tim Small, trentacinquenne italo britannico inpantaloni corti e oc chi concentratissimi, già diretto redi Vice Italia, è un fanatico ap passionato di letteraturaan glofona, e ha investito soldi passioni e desiderio suun volume bianco, disegnato da Riccardo Trotta.Dentro ci sono dodici racconti ispirati al classico temadi fantasmi & affini, scritti da autori ancora ineditida noi ma già piuttosto attivi oltreoceano, tra i qualispicca Deb Olin Unferth, che lavora per Mc Sweeney’s.Ed ecco, appunto, l’unica incrinatura del progetto diSmall: una certa vicinanza, per ora, al modello fon-dato da Dave Eggers.Italic va in edicola ogni mese: da una parte tratta levicende delle città come piattaforme globali, dall’altragli intrecci di commerci, flussi, interessi, conflitti pla-neta ri, con un occhio al mondo del de sign e dell’ar-chitettura, da cui vie ne il fondatore torinese Luca Bal -larini. Vi si trovano rubriche affi date a filosofi comeFranca D’A gostini, ma anche un sintetico ri tratto diAlec Ross, l’uomo che scrive i messaggi-Twitter diOba ma, o un pezzo che consiglia a un comune comefare turismo di successo senza distruggere sé stesso e iritratti di personaggi di versi, dallo scenografo del weba un giovane pastore di pecore.Di tutt’altro segno, con una ve ste visiva all black im-pressa da Marco Cendron, è Studio, bime strale pub-blicato dal duo Ales sandro De Felice/Federico Saricae diretta da quest’ultimo. Studio esce in edicola, in

Gianluigi Ricuperati, la Repubblica, 20 luglio 2011

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italiano. Si pas sa da Matthew Barney alle nuove serietv, da incursioni letterarie a ragionamenti sul concettodi ele ganza nella moda. Ma ad alimen tarla è un fuocopallido, con testi lunghi o brevissimi, che non fa ve-nire in mente esempi già noti: i tre numeri finorausciti, al loro me glio, e al netto di qualche inge nuità,raccontano storie inedite per esempio un bellissimorepor tage sulla Rublevka. La raccolta pubblicitaria,imperniata su mo da e un pizzico di design, sembrasostanziosa: il bel sito di Studio paga i collaboratori,anche se Sa rica, baffi e capelli biondo-ocra, ammetteche «i budget pubblicitari delle nostre aziende sonoan cora un po’ allergici all’idea di in vestire nel web».Poi sospira e ac carezza la superficie liscia della coper-tina: «Ma noi continuere mo a farla anche quando saràil web a pagare la carta, e non vice versa». Infine, e perfortuna, c’è una donna, Chiara Figone, graphic-desi-gner, che ha fondato insieme a Jens Hoffman TheExhibitionist e la pubblica ogni sei mesi con la sua Ar-chivebooks, sospesa tra Torino e Berlino. In un nu-mero a caso si possono scoprire recensioni di mostrestoriciz zate come l’enorme esposizione- scultura che

Pontus Hulten com missionò a Niki de Saint-Phalleal Moderna Museet di Stoccolma, ma anche riflessionisaggistiche accurate e lontane dal mercato.The Exhibitionist, con la coper tine monocroma e l’am-pia foto grafia che fa tanto primissimi Cahiers du Ci-nema, è la meno ita liana e più specialistica di tutte lealtre: si tratta di un giornale per curatori di mostre, sulcurare mo stre, scritto dai più prestigiosi cu ratori inter-nazionali di mostre. Ma come insegna The Milan Re -view of Ghosts ci si può rivolgere a un pubblico chelegge solo ingle se, non includendo neppure un autoreitaliano, senza per questo smettere di essere qui, ora, e«no stra». Ecco, in una sintesi quasi infantile, cosa si-gnifica fare una rivista culturale in Italia, senza mece-nati o fondi pubblici: è un atto politico per il fattostesso di accadere qui; è un gesto ottimista e virale per-ché succede proprio ora. E infine: queste piccolegrandi riviste sono un dono di risve glio, periodico eplurale, alla no stra conoscenza pubblica, in un paesein cui ogni singolo granello di una piazza o una chiesapare più disposto a leggere e capire il fenomeno umanodei cittadini che ogni giorno gli vivono accan to.

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Salva un libro, uccidi un editore

Il settore librario è in crisi. Troppi i titoli stampati, pochi quelli venduti. E c’è chi punta il dito contro le piccole sigle, ree di non sfornare bestseller…

Puntuale come un monsone, tra una medusa assassinae l’allarme meteoriti, ricompare anche quest’anno trai privilegiati argomenti di intrattenimento estivo,l’eterno dibattito sull’editoria. L’estate 2010 è statal’anno della rivoluzione digitale, della fine dei libri dicarta, della guerra tra Apple e Amazon su formati eattrezzi vari da lettura, degli editori che si affrettano atrasformarsi in esperti informatici. L’estate 2011 èquella di una crisi del settore librario che si consumaper eccesso di produzione: in Italia di libri ce ne sonotroppi. Se ne stampano troppi, pochi se ne vendono.A denunciare un’ipertrofia che porta ogni anno più omeno 60 mila nuovi titoli a ingombrare inutilmentegli scaffali delle librerie è, per paradosso, il presidentedell’Associazione librai italiani, Paolo Pisanti, su Re-pubblica del 19 luglio. In realtà, come ogni temaestivo, non è lui ad aver dato il là a un dibattito cheha già visto in merito gli interventi di Giuliano Viginisull’Avvenire o dell’editore Marco Cassini sul blogdella casa editrice minimum fax (con contenuti di-versi, va detto). Ma è Pisanti a osare formulare un pre-cetto finora mai espresso: ad affollare le librerie nonsono i volumi dei grandi editori bensì «quelli dei pic-coli, poche copie moltiplicate per moltissimi marchi».Ad affollare le librerie di libri definiti «inutili» nonsono i «grandi» editori dei bestseller, degli Harry Pot-ter, della Parodi in cucina, delle decine e decine di au-tori noir scandinavi… ad affollare le librerie di libri«inutili» sono tutti quei piccoli editori che si ostinanoa pubblicare libri che non vendono, libri che nessunovuole comprare né leggere.Allora cosa vogliamo farci con 60 milla nuovi titolil’anno? È il leitmotiv dell’estate 2011. Non sarebbemeglio toglierne un po’? Magari proprio quelli che

non vendono. Magari proprio quelli dei piccoli edi-tori che non hanno capito che potrebbero fare i soldipubblicando solo un paio di titoli l’anno, ma si osti-nano a pubblicare migliaia e migliaia di libri che nonvendono.Dalla risposta a questi quesiti nasce la campagna,ideata da chi scrive e diffusa sul web, «salva un libro,uccidi un editore». La prima campagna di vera ecolo-gia libraria, altro che carta riciclata non lavata colcloro. Sessantamila titoli l’anno corrispondono a: in-quinamento da traffico, perché i libri «inutili» in li-breria ci vanno coi camion; sperpero delle risorse, per-ché i libri «inutili» li stampano con le foreste;inquinamento morale, perché i libri «inutili» confon-dono i lettori che arrivano in libreria e tra 60 mila librinon sanno più cosa comprare e magari finisce che noncomprano niente; inquinamento civile, perché i libri«inutili» fanno passare per scrittori degli sfigati qua-lunque che invece non legge nessuno; inquinamentocommerciale, perché i libri «inutili» sono come unabolla speculativa per il mercato immobiliare.Meglio quindi eliminare i 59.800 libri di troppo e la-sciare nelle librerie quei 200 titoli che davvero i lettorivogliono comprare. Facciamola finita con la «biblio-diversità», con i classici in diversi edizioni e le troppetraduzioni disponibili, con i generi letterari e gli stiliche si moltiplicano, con tutte queste lingue tradotte,senza parlare poi delle copertine, dei formati, dellebandelle. Meglio trovare un format che funziona, unmodello-libro-che-si-vende e fare quello. E per farequesti 100-200 libri davvero importanti, questi libriche il pubblico comprerebbe anche se non sapesse leg-gere, che farebbe qualunque cosa per comprare (per-sino andare a cercarli in un supermercato!), bastano

Ilaria Bussoni, il manifesto, 21 luglio 2011

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pochi editori. Sono sufficienti i pochi «grandi» editoridi questo paese.Sui piccoli editori occorre mettere una moratoria.Scremarne un po’. Dargli degli incentivi perché ma-gari tornino all’agricoltura. Penalizzare quelli che siostinano a pubblicare libri che non vendono. Occorrepensare una politica per limitare questa proliferazionedi piccoli editori, al punto che persino stabilirne

quanti sono è complicato: c’è chi dice siano oltre die-cimila, ma nel 2008 l’Istat ne censisce 1.700 in tutto.Dunque, non solo prolificano i piccoli editori, nonsolo inquinano, ma sono pure clandestini. Per tuttequeste ragioni, la salvezza del mercato librario, la sa-lute delle librerie, il benessere dei lettori, la vera rispo-sta alla «crisi del libro» passa da una sola e unica mi-sura: salva un libro, uccidi un editore!

Caro direttore, l’idea di una «decrescita editoriale» (dicui peraltro non ri vendico la paternità: proposta anni fada marcos y marcos, è stata rilanciata di re cente da Si-mone Barillari) ri schia di diventare uno slogan: al mottofacilmente banalizzabile preferisco il proposito di «pub -blicare meglio» come primo di una lista di propositi in-dirizzati innanzi tutto alla mia stessa casa editrice, e poia quelli fra i miei colleghi che volessero perseguir li.A noi editori rimprovero di aver accettato, certifican-dole così d’un qualche valore, alcune re gole impostedal mercato come iperproduzione, banalizzazio ne,omologazione, e propongo di impegnarci a resistere aque sta semplificazione.L’altro impegno che auspico è a riconoscere di aver ac-cettato di operare in un mercato condizio nato in ma-niera decisiva da una stortura tutta italiana: non tantola concentrazione nelle mani di pochi di gran parte dellaprodu zione editoriale; non tanto il fatto che specular-mente la vendita (catene, franchising, grossisti, negozionline, retailer di ebook) sia fortemente concentrata, oche la distribuzione sia anch’essa appannaggio di pocheazien de. Le concentrazioni infatti esi stono in quasi tuttii mercati editoriali. Ma solo in Italia queste costituisconouna «concentra zione di secondo grado» perché gli stessisoggetti ricoprono l’in tera filiera editoriale.

Come può infatti un editore affidare i propri libri adei part ner che sono al tempo stesso concorrenti? Seun distributore è anche il buyer delle catene a cuideve vendere i libri; se un agente di vendita che si fain quattro per vendere i libri di un editore rice ve lostipendio da un’azienda al cui vertice c’è un altro edi-tore; se la catena di librerie fino a ieri considerata dalpiccolo libraio in difficoltà economica come il suocompetitor, oggi, con un paradosso indicibile, siveste da franchising e gli propone di «salvarlo» tra-mite l’affiliazione; se tutte queste anomalie sono di -ventate l’acqua in cui ci siamo abituati a muoverci,il pericolo è di non poterle più notare. Non pos-siamo più ignorare che que st’acqua sia inquinata operlo meno torbida, e ci fa perdere di vista quella chedovrebbe essere la stella polare di ogni editore, ov-vero il rapporto con i lettori, affi dato a quell’indi-spensabile me diatore culturale che è il libraio. Perfarne un esame batteriologi co dovremmo rivolgerciall’An titrust, presentandogli un cam pione, una fo-tografia del merca to del libro in Italia oggi, per ave -re un suo parere. Questo parere potrà essere la pietraangolare su cui costruire finalmente quella Legge peril libro strutturata, se ria, necessaria, auspicata ormaida anni da molti.

Editori iperproduttivi e anomalie del mercatoMarco Cassini, la Repubblica, 21 luglio 2011

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Libri, da settembre tetto agli sconti

Approvata ieri la legge, dopo anni di polemiche: il libraio potrà diminuire il prezzo fino al 15 per cento

Sarà un natale senza prezzi strac ciati, in libreria e so-prattutto sul web. Dal primo settembre andrà in vi-gore la legge sul libro, che dopo una gestazione didue anni, polemiche e con trapposizioni fra grandi epiccoli edito ri, grandi e piccoli librai, è stata appro -vata anche al Senato. Stabilisce lo scon to massimoche si potrà applicare sul prezzo di copertina: 15 percento. E con sente agli editori – ma solo agli editori– di lanciare promozioni speciali con lo sconto del20 per cento una volta l’an no, per undici mesi. Nonin dicembre.Le conseguenze dovrebbero esse re sostanziose, quasiun riordino del mercato dove soprattutto le librerieonline e i grandi magazzini avevano impostato strate-gie molto aggressive, mettendo in seria difficoltà so-prattut to i librai indipendenti. Le spiega Mar co Po-lillo, presidente dell’Associazio ne editori, visibilmentesoddisfatto do po la lunga maratona: «Il merito va ov -viamente a Ricardo Franco Levi, relatore di una leggevolute fortemente dall’Ali, l’Associazione dei librai.Noi abbiamo collaborato, e si è trovato un punto diequilibrio ragionevole fra esi genze diverse. Ora il li-braio decide lo sconto (fino al 15 per cento) in basealle sue strategie. E l’editore dovrà pro porre le suecampagne promozionali a tutti su un piano di parità,dal piccolo venditore alla grande libreria online. Sonoregole semplici e chiare».Il natale, periodo cruciale e decisi vo, è al riparo dallepromozioni come chiedevano edito ri e librai del

grup po Mulini a ven to; e con soddisfa zione generale.Va le anche per i letto ri? La risposta do vrebbe esseresì. Se questi «paletti» si riveleranno virtuosi, ci sa-ranno più titoli in libreria, più possibilità di scelta equalche chance in più per i piccoli editori di catalogo.«È un punto di partenza» di ce il libraio torineseRocco Pinto, ani matore dei Mulini a vento. «Questalegge ha lacerato parecchio il mondo del libro, ora èuna base su cui costrui re». Aleggia il convitato di pie-tra, e cioè Amazon, che in America e Inghil terra hamesso in serissime difficoltà persino le grandi catenelibrarie, alcu ne delle quali sono fallite; in Italia pra -tica sconti anche fino al 35 per cento.Da settembre non potrà più farlo. E si comincerà acapire se davvero la legge ha disinnescato i pericoli piùseri per un sistema fragile e importantis simo per lavita culturale del paese, come è quello delle librerie.Proprio su questo terreno c’è chi guarda avan ti: l’as-sociazione Forum del libro (che raccoglie editori comeGiunti, La terza, Sellerio, librai, gruppi di lettu ra, do-centi, insomma un mondo varie gato e plurale) sta perlanciare una proposta di legge di iniziativa popola resulla promozione della lettura. Ver rà illustrato alForum di Matera, il 21 e 22 ottobre, e prevede anchela costitu zione di un «Fondo unico per il libro e la let-tura». È vero, siamo reduci dai tormenti di quello perlo spettacolo, tagliato e rifinanziato a spese degli au -tomobilisti; ma senza dubbio, e se non ne ripetesse al-cuni errori, sarebbe una grande conquista.

Mario Baudino, La Stampa, 21 luglio 2011

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Ecco perché gli editori pubblicano così tanto

Gian Arturo Ferrari, la Repubblica, 22 luglio 2011

Come diceva l’immortale Catalano, meglio unadonna bella, intelligente e ricca di una brutta, stupidae povera. Ovvero, trasferendosi nell’editoria, megliopochi libri, belli e di gran successo di molti, brutti einvendibili. Per non parlare della sensazione di averecceduto, come con gli «atimpuri» di Meneghello(«Quante volte?» «Nove» «Da solo o con altri?» «Conaltri» «Con altri o con altre?» «Con altre»), e dei con-seguenti buoni propositi (meno, meno, ne pubbli-cherò meno, quest’anno di sicuro ne pubblicheròmeno…). Non che in Italia (circa 60 mila all’anno)se ne pubblichino più che altrove. Nei quattro paesicon cui ha senso confrontarsi − Francia, Germania,Regno Unito e Spagna − vige la regola del millesimo,secondo la quale ogni anno i nuovi titoli sono nel-l’ordine di grandezza di circa un millesimo della po-polazione. Così nel 2007 si sono prodotti in Germa-nia 96 mila titoli, quasi 85 mila in Gran Bretagna,oltre 55 mila in Francia e oltre 35 mila in Spagna.Troppi? Forse, ma scendere troppo sotto il millesimo,come è avvenuto in tempi non lontani nell’Europaorientale, è pericoloso, il terreno si inaridisce, le radicisi disseccano, la cultura − che è fatta di tante cose,anche inutili, ma tante − perde vita. Peraltro quel chela nuda statistica ci dice è che il numero dei titoli pro-dotti è negli anni sostanzialmente stabile, sia in Italiasia fuori. Dunque non è lì la causa dei nostri più re-centi mali, a livello di sistema perlomeno, perchécerto a livello di singolo editore la riduzione dei titoliè sempre lodevole. A patto che non ci si illuda di pub-blicare solo quelli buoni, sulle orme di quel tale che

una volta mi disse «Voglio fare una collana di soli be-stseller». «Auguri vivissimi», gli risposi, ma non l’hopoi più visto. Se non troppe, di sicuro però le novitàsono tante. Ma perché così tante? Una ragione stanella natura del business: su circa mezzo milione dititoli in commercio in Italia, i primi cinquemila, cioèun centesimo, valgono da soli metà delle copie ven-dute e metà del fatturato a valore. Per un editore in-stallarsi in questa felice riserva è una questione vitale.Non si tratta di pescare il pesce grosso, si tratta di so-pravvivere. Ma siccome il business è di per sé larga-mente imprevedibile, l’unica via per massimizzare lepossibilità di successo e minimizzare, nel senso di di-stribuire, il rischio appare − dico appare − quella direiterare i tentativi. È la strategia denominata «pro-vando e riprovando», il cui continuato abuso finisceper portare a quella notte in cui tutte le vacche sononere e tutte le copertine fosforescenti entro la quale,a detta di molti, ci troviamo. C’è poi una seconda ra-gione, legata al fatto che produrre un libro costa poco,qualche migliaio o poche decine di migliaia di euro.Comunque meno di una indagine di mercato sul suopossibile esito. In pratica costa meno pubblicarlo chetestarlo. E quindi la pubblicazione è insieme indaginedi mercato: la produzione ingloba la ricerca e svi-luppo. Molti libri, le novità di esordienti, sembranolibri, ma sono ipotesi di libri, tentativi di libri. Dopo,quando si è vista la reazione del pubblico, quando siconoscono le dimensioni dell’autore, quando si passa(se si passa) all’edizione in paperback, tutto è più fa-cile, più razionale, arriva persino ad avere parvenze

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industriali. Ma certo tutto il bello è prima, il precarioe un po’ sgangherato fascino del maledetto mestiereè tutto nell’attesa dei primi dati, della conferma diquell’intuizione (ma era poi davvero un’intuizione?),nei radi trionfi e nelle frequenti disillusioni. In-somma, è difficile attribuire a una (supposta) sovrap-produzione i guai presenti. Che dipendono in preva-lenza da un sistema distributivo nel mezzo dinumerosi guadi, con la libreria tradizionale che faticaa trovare una fisionomia adeguata ai tempi, con lagrande distribuzione indecisa se trattare i libri comeun prodotto civetta o come un serio comparto di at-tività, con le vendite online che guadagnano ognigiorno terreno e con, all’orizzonte, il minaccioso rul-lar di tamburi d’oltre Atlantico dove le novità più

commerciali, i cosiddetti bestseller, vendono più nelformato ebook che in quello cartaceo. Tutto cioè statoper diversi anni velato da una prodigiosa fioritura dimegaseller che ha imparzialmente beneficato grandie piccoli editori (si pensi al «riccio» di e/o, al Larssondi Marsilio, al Twilight di Fazi), librerie e catene,grande distribuzioni e e-commerce. Ma ora che perimperscrutabile volere del Fato di megaseller non cen’è, il livello dell’acqua si abbassa ed emergono, do-lorosi, tutti i sassi del fondo. Per non dire che, conquesti chiari di luna, un bel numero di assidui e la-boriosi lettori i trenta euro mensili da dedicare all’ac-quisto di libri non ce li hanno più. Sarà anche veroche il libro è anticiclico e si avvantaggia delle crisi, mafino a un certo punto.

«Su circa mezzo milione di titoli in commercioin Italia, i primi cinquemila, cioè un centesimo,valgono da soli metà delle copie vendute emetà del fatturato a valore. Per un editore installarsi in questa felice riserva è una questione vitale. Non si tratta di pescare il pesce grosso, si tratta di sopravvivere»

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Libri: i pro e i contro del tetto agli sconti

Lettere al direttore, La Stampa, 27 luglio 2011

Gentile Direttore, ho letto con costernazione, sullaStampa, la notizia del tetto sulle pro mozioni relativeal prezzo dei libri. Premetto che sono favorevolissimaa quella che avete definito «bibliodiversità»; che al Sa-lone del Libro di Torino quasi non entro negli standdel mastodonti dell’edi toria, preferendo lasciarmistuzzicare dai piccoli editori e dalle loro proposte; eche amo anche molto le librerie «dietro casa», quei ne-gozi a misura d’uo mo dove il libraio ti sa consigliare,scambia due pa role, ama i libri almeno quanto te.Tuttavia, mi sembra che lo scopo (lodevole) del -l’iniziativa sia perseguito con mezzi sbagliati. Perce -pisco questa manovra come un ennesimo taglio almondo della cultura. Per me leggere è, da un lato, unostrumento imprescindibile di lavoro e di aggior -namento; dall’altro, uno dei piaceri più grandi.Mi chiedo, perciò, per quale ragione si possa ave re qual-siasi altro bene con sconti anche superiori al 70 percento, per esempio in occasione dei saldi, e per i librinon si possa scendere oltre il 15 per cento. Mi chiedo

se sia il caso di aggredire i lettori, piccola nicchia di«resi stenti» allo strapotere della televisione e di altrimezzi di appiattimento mentale e spirituale. Mi chiedose sia il caso di scoraggiare chi, a natale, vuole regalareun libro anziché i soliti videogiochi o le solite saponette.

Chiara Bertoglio

Ho letto con grande stupore che il Senato ha appro-vato una legge che mette un tetto agli sconti sui libri:visto che noi italiani leggiamo poco, è giusto fare unalegge che peggiori ancor più questo triste primato? Lanecessità di questa legge è dovuta al fatto che restandocosì le cose, l’aggressività della grande distribuzioneavrebbe messo a rischio l’esistenza del libraio. Se cosìfosse, servirebbe una legge anche per il verduraio, peril piccolo macellaio e via con molti altri esempi. Benesarebbe invece una legge che limiti alla grande distri-buzione di fare ciò che vuole, e non solo sui libri.

Massimo Tagliati

Questa legge tenta di difendere l’esistente o di salvare ciò che era. Ha certamente aspetti positivi, in primo luogo quellodi aiuta re la sopravvivenza dei librai indipendenti, ma anche quella di ga rantire un alto numero di libri. Questoperché le grandi campa gne di sconti sono possibili solo sui bestseller e questo spinge le librerie a ridurre il numero deititoli in favore di quelli che fanno più volumi.Il regime di sconti molto aggressivi, soprattutto per le vendite online come è accaduto negli Stati Uniti, ha portatoalla chiusura di grandi catene di librerie come l’americana Borders, che ha ap pena chiuso mandando a casa undicimiladipendenti.L’aspetto negativo di queste decisioni ha due facce: la prima ri guarda la possibilità di acquisto dei lettori, la secondal’idea che per legge si stabilisca che un mercato deve essere fossilizzato e non possa provare strade nuove. Ma tutto ciònon riguarda so lo i libri ma tutti i sistemi di distribuzione in un mondo che sta cambiando in modo radicale.

Mario Calabresi

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Scrittori, torna l’impegno

Il gruppo di intellettuali propone una critica radicale alla società culturale che non convince alcuni dei fondatori

Adesso il collettivo c’è. O meglio c’è, ma è dimezzato.Il movimento Tq da oggi esiste ufficialmente, contanto di manifesto nero su bianco e documenti pro-grammatici, ma all’appello mancano molti dellaprima ora. Erano partiti in cento, alla conta finaleperò la generazione degli scrittori e editori trenta-qua-ranta ha perso molti suoi figli per strada e le firme aidocumenti sono state solo cinquantadue. Il «movimento» forse si è mosso troppo, forse ha su-bito qualche scossa imprevista, o forse più semplice-mente, come dicono i suoi fedelissimi, si è andato de-finendo nella sua identità e quindi inevitabilmente hafinito per restringere i suoi confini. L’anima si è fattasempre più politica e le prime discussioni letterariesono state messe da parte. Critica aperta all’industriaeditoriale, occupazione degli spazi pubblici, lotta aldegrado dell’informazione e della scuola, difesa dei di-ritti del lavoro. Addirittura azioni di «guerrilla»(«azioni di disturbo culturali e artistiche»). Il lessicodei Tq non fa sconti, e dunque è fatale che perdapezzi: da una parte i «letterati», dall’altra i «politici».Da una parte chi sperava in un nuovo Gruppo 63,dall’altra chi temeva un nuovo Gruppo 63. Certo, qualche defezione era immaginabile, ma nonla spaccatura tra i padri fondatori, coloro che il 29aprile scorso lo avevano tenuto a battesimo nella sederomana dell’editore Laterza. Così dopo Mario Desiati,che da mesi si era defilato («non aderisco a iniziativecollettive, perché tengo alla mia libertà individuale»),ieri anche Giuseppe Antonelli in dirittura d’arrivo hadeciso di non firmare i documenti finali.

«Siamo cresciuti in ordine sparso, senza un’ideologiacomune. Senza metodi, strumenti, terminologie con-divise e questo forse è stato un bene. Qui invece, nonsolo la premessa è politica, ma precede tutto il resto».Sono queste le prime righe della lettera di congedo diAntonelli dal gruppo. Per lo storico della lingua qual-cosa non ha evidentemente funzionato come previsto.Così se ai tempi dei primi incontri si augurava di or-ganizzare una sorta di «Woodstock generazionale»,adesso il professore Tq è tornato sui suoi passi e hadetto no. La generazione del riflusso è comunque pronta aduscire da dietro le quinte e a conquistare la scena, ri-scoprendo l’«impegno». E per farlo si fa promotricedi una nuova visione della cultura. Una visione cosìespressa nel «Manifesto Tq Editoria»: «Nell’operaredi Tq, due sono le preoccupazioni che ne dettano lescelte: etica e qualità». Come? Difendendo i «libri chevalgono» e la «trasparenza» degli editori, combattendola «concentrazione nelle mani di pochi grandi gruppieditoriali», chiedendo soldi per la cultura («contrattie tariffari di riferimento»), rifiutando il sistema dellerecensioni a pagamento e così via… E qui si sonocreate le prime fratture. «Non mi sento di condividere l’assolutizzazione cheviene fatta del concetto di etica, che individua un’unicamorale e elegge un gruppo di persone a garante e vigi-lante», spiega Antonelli, tenendo a precisare che la suapresa di distanza non è una frattura, ma semplicementeun altro modo per «mantenere aperto lo spirito del dia-logo». Ma chi è che può decidere se un libro è bello o

Raffaella De Santis, la Repubblica, 27 luglio 2011

Ma la generazione Tq si spacca subito sul manifesto politico

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brutto? Per Vincenzo Ostuni, editor di Ponte alle Gra-zie, «non bisogna arrendersi all’idea di vendere solo laletteratura cattiva, quella digestiva». Insomma, per i Tqnon solo si può, ma si deve stabilire in anticipo qualisiano i libri che meritano e segnalarli. A Simone Baril-lari sarebbe piaciuto ad esempio inserire nel documentofinale un «marchio di qualità» per i libri di prima pub-blicazione, ma la proposta si è arenata lasciando il postoa una più generica «bibliodiversità». Un collettivo costituito da una generazione di indi-vidualisti è però una scommessa. Quasi una contrad-dizione in termini. Ma la virata politica dell’ultimafase a molti piace. Così a Gabriele Pedullà: «La no-stra è una generazione di solitari che vuole ricomin-ciare a fare politica», spiega lo scrittore, anche pro-fessore di Letteratura contemporanea. Dunque sequalcuno si è sfilato, altri, come Pedullà appunto,non solo sottoscrivono i documenti finali, ma ne ap-prezzano la distanza dallo spirito troppo vago delleorigini: «C’è una maggiore attenzione ai problemipolitici, dunque rispetto alle mie perplessità inizialioggi sono più convinto».

Nessun dubbio. I documenti parlano chiaro. I Tqsono un gruppo politico e non un’avanguardia arti-stica o letteraria. Si dicono indignati e rivendicano«azioni comuni» per combattere il «diffondersi delneoliberismo come nuova epidemia dell’Occidente»(è quanto si legge in apertura del Manifesto politico).Parole che sembrano prese in prestito dal secolo scorsoe che parlano della «responsabilità collettiva» di un’in-tera generazione chiamata finalmente ad «agire in-sieme». Nicola Lagioia ha scelto di firmare, nono-stante non sia d’accordo su tutto: «La nostragenerazione è cresciuta nel vuoto ideologico degli anniOttanta. Per anni abbiamo vissuto una situazione diprostrazione, come se fossimo usciti da una guerra,senza che la guerra ci sia mai stata». Insomma lagrande sfida è quella di imparare a lavorare insieme.Ci crede Giorgio Vasta, tra i cinque che hanno lan-ciato l’idea del movimento, insieme a Desiati, Ales-sandro Grazioli, Lagioia, e al dimissionario Antonelli:«La nostra guerrilla è attenzione al valore civile delladiscussione». Concretezza, dunque: meglio pochi, mabuoni.

«Critica aperta all’industria editoriale, occupazione degli spazi pubblici, lotta al degrado dell’informazione e della scuola, difesa dei diritti del lavoro. Addirittura azionidi “guerrilla” (“azioni di disturbo culturali eartistiche”). Il lessico dei Tq non fa sconti, e dunque è fatale che perda pezzi: da unaparte i “letterati”, dall’altra i “politici”»

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Manifesto Tq/2Editoria

Tq. Generazione trenta-quaranta, generazionetq.wordpress.com, 27 luglio 2011

In un tempo in cui l’editoria non si distingue ormai piùda qualsiasi altro settore dell’economia, con l’aggravantedello sfruttamento che molti di coloro che la dirigonofanno della passione di coloro che vi lavorano, in untempo in cui gli editori non scelgono più i bei libri spe-rando che vendano, ma i libri che vendono sperandoche siano belli, Tq ritiene che l’editoria, pur essendoun mercato, non possa tuttavia essere solo un mercatosenza rinunciare a essere anche uno dei luoghi elettiviin cui si forma la coscienza dei cittadini; e vuole che illibro sia sottratto allo statuto di merce e restituito aquello di un bene alla cui preservazione dev’essere in-teressato anche chi non legge.Dovendo dunque contrastare i deserti e le derive che ilconsumismo e il capitalismo hanno prodotto nelcampo della cultura, Tq si impegna ad agire secondoquelli che possono essere definiti come criteri di «eco-logia culturale» al fine di proteggere e coltivare l’unicitàe la varietà delle scritture, e assume come criterio car-dinale la bibliodiversità, battendosi contro l’omologa-zione delle scritture indotta da una produzione edito-riale sempre più orientata al largo consumo. In secondoluogo Tq, constatando come la quantità di libri pub-blicata ogni anno sia ormai ampiamente oltre la sogliadella sostenibilità non solo culturale ma addiritturacommerciale, si fa promotrice di una proposta di rie-quilibrio nella produzione dei libri che impegni gli edi-tori a privilegiare la qualità rispetto alla quantità.Nell’operare di Tq, due sono le preoccupazioni chene dettano le scelte, l’una strettamente legata all’altra:etica e qualità.

Etica. L’etica di Tq è improntata a un continuo im-pegno di trasparenza e di riconoscimento della com-petenza e del merito.Trasparenza. Tq promuove la trasparenza e la pubbli-cità, da parte degli editori, delle modalità di otteni-mento e di gestione dei finanziamenti pubblici (con-tributi, provvidenze, agevolazioni) e le eventuali formedi reinvestimento non lucrativo. Tq invita inoltre acompiere un’opera di divulgazione dei meccanismi –e delle anomalie – che governano la filiera editoriale.Concentrazioni editoriali. Tq difende e sostiene l’in-dipendenza e l’autonomia in ogni segmento della fi-liera; intende inoltre individuare e formulare propostedi correzione per ogni stortura che provenga dallaconcentrazione, nelle mani di pochi grandi gruppi,non solo della fase di produzione dei libri (concentra-zione orizzontale attraverso la proprietà dei maggiorimarchi) ma anche di quella di distribuzione e vendita(concentrazione verticale attraverso la proprietà dellereti distributive, delle catene librarie e di altri servizieditoriali).Diritti del lavoro. Tq si impegna a promuovere la di-gnità e i diritti dei lavoratori editoriali stabilendo re-gole e parametri e approntando contratti e tariffari diriferimento per i mestieri dell’editoria, dai correttoridi bozze agli impaginatori.In particolare, prendendo posizione in favore di unadelle categorie professionali più importanti e meno tu-telate dell’editoria, Tq si farà promotore di una cam-pagna pubblica affinché il nome del traduttore appaiaquantomeno sul retro di copertina e nel frontespizio

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interno di tutti i libri e sia sempre citato nelle recensionie nelle segnalazioni su giornali, radio, televisioni e in-ternet. Inoltre Tq intende redigere e far adottare quantopiù possibile un tariffario generale che, contemperandole esigenze degli editori e quelle dei traduttori, esprimastandard minimi di compenso per le varie lingue. Nelsuo sito, infine, Tq allestirà un database che favorisca ildebutto degli esordienti più capaci e l’affermazione ditraduttori che abbiano svolto poche traduzioni ma cheabbiano dimostrato abilità e affidabilità.Editoria a pagamento. Condannando senza compro-messi antiche e cattive pratiche come l’editoria a pa-gamento o in conto d’autore e l’ottenimento di recen-sioni a pagamento o in cambio dell’acquisto diinserzioni pubblicitarie, Tq stigmatizza la legittima-zione e la promozione che tali pratiche stanno rice-vendo da gruppi editoriali di grande peso e prestigioin un processo di finta democratizzazione della cul-tura, in base al quale si considera ormai la pubblica-zione come un diritto.Sostegno pubblico. Esercitando una costante operadi pressione sulle forze politiche e sulle istituzionicompetenti, Tq reclamerà l’attuazione di politiche dilotta al precariato in ambito culturale, nonché di pro-mozione e sostegno ai libri di qualità e alle librerieindipendenti.Ecosostenibilità. Tq promuove l’utilizzo di carte, in-chiostri, metodi di lavorazione dei libri e di smalti-mento dei rifiuti pienamente ecosostenibili.Qualità. Tq si impegna ad alimentare l’attenzionepubblica sulla questione della qualità letteraria, che èindipendente dal successo commerciale di un libro, ea fare ragionate battaglie contro le più deleterie derivemercatistiche dell’editoria italiana, come lo sposta-mento delle risorse delle case editrici dalla fase di pro-duzione a quella di promozione dei libri.Proprio in quest’ottica Tq intende costruire un cir-cuito virtuoso per i libri di qualità che inizi ancheprima della loro pubblicazione e che predisponga, at-traverso i migliori critici letterari, librai e lettori,un’accoglienza attenta e qualificata in grado di au-mentare la longevità, la risonanza e la redditività diquei libri.

Tq chiede anche agli autori di abbracciare e promuo-vere pratiche di qualità nel lavoro creativo e praticheetiche in quello critico.Sempre a tal fine Tq si ripropone di essere un riferi-mento e un raccordo tra le migliori voci della criticaletteraria che sono, negli ultimi anni, sempre più iso-late e inascoltate, così da conferire al loro impegno infavore dei libri di qualità ancora maggior forza e risaltoe da fondare, insieme a loro, una nuova autorevolezza.A testimoniare e consolidare questa militanza per laqualità letteraria vi è anche il proposito di Tq di se-gnalare opere miliari da tempo fuori commercio, cre-ando un catalogo di grandi libri dimenticati.Osservatorio sulle buone e cattive pratiche. Tq si im-pegna a realizzare un osservatorio sulle buone praticheche censisca sul territorio i soggetti di qualità (caseeditrici, librerie, biblioteche, festival, agenzie letterariee organi di informazione libraria) e a incoraggiareforme di solidarietà e cooperazione tra questi soggetti.Specularmente, Tq si ripropone di denunciare in sedepubblica tutte le pratiche che contrastino con principidi etica e di qualità e in particolare quelle che tendonoa erodere gli spazi della critica e a depotenziare il di-battito e la formazione di un’opinione pubblica: traesse l’abuso delle anticipazioni dei libri e la pubblica-zione, sui giornali italiani, di recensioni positive dellastampa straniera fornite a spese dell’editore.Anche in materia di premi letterari Tq eserciterà unruolo attivo di osservatorio critico, al fine di docu-mentare le dinamiche di selezione dei premi italianie di segnalare pubblicamente le eventuali incon-gruenze tra le dichiarazioni di principio e gli esitidelle votazioni.Infine Tq intende formare un nuovo pubblico, edu-care nel tempo una comunità di lettori forti, facendoriassaporare il piacere estetico della lettura attraversointerventi pubblici e seminari. Si ripromette di perse-guire questo obiettivo anche proponendo e valoriz-zando, sia in ambito accademico che giornalistico,un’attività di critica letteraria in cui la recensione siadialogo con il libro e con i lettori e bandisca gli sloganpromozionali in favore di un giudizio complesso ecompetente.

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Scontri nell’editoria. La generazione Tq si fa sentire sul web

Guerra dei libri. Approvati i tre documenti programmatici del gruppo, in cui il valore della trasparenza si somma a quello della responsabilità politica degli intellettuali. Analisi di un dibattito, dalla decrescita culturale alla nuova legge sugli sconti

Nel mondo dell’editoria, e più in generale nella cultu -ra italiana, sta succedendo qualcosa di molto impor-tante e inedito: nel giro di pochi giorni si sono apertimolti fron ti di conflitto. È bene cercare di fare unquadro di ciò che sta accadendo.Ieri mattina sono stati pubblicati i documenti delgrup po Tq (generazione di trenta-quatrantenni) com-posto da persone che operano nell’ambito dell’edito-ria: scrittori, giornalisti, editori eccetera. Il gruppo ènato lo scorso 29 apri le nella sede della casa editriceLaterza e in questi mesi ha dato vita a dei gruppi dilavoro che hanno redatto tre do cumenti programma-tici (i documenti sono: «Politica», «Editoria» e «Spazipubblici»). I documenti sono stati ap provati e firmatie si possono ormai leggere interamente sul blog:generazione tq.wordpress.com. Tra i numerosi valoririvendicati dal gruppo Tq c’è quello della traspa renzaed è giusto quindi dire che chi scrive l’articolo chestate leggendo ha seguito tutte le fasi della formula-zione dei documenti per poi decidere di non firmare.Sul blog di Tq è possibile entrare e aggiungere la pro -pria firma a quella del primo gruppo di promotori. Ècom plesso riassumere il contenuto dei tre documenti,ma ciò che si nota subito è il richiamo ad una respon-sabilità po litica degli intellettuali. La necessità di met-tere insieme forze diverse per fare pressione sulle istitu-zioni quando queste indeboliscono il peso della cultura,la necessità di mettere sotto revisione tutta la filiera dellaproduzione edi toriale, dal ruolo dei traduttori alla tra-sparenza dei premi, dai contratti precari alla mercifica-zione del libro, dall’e gemonia di grandi gruppi edito-

riali al rapporto tra qualità e quantità dei libri che sitrovano nelle libreria. È proprio qui che le questionispinose su cui ha giustamente inten zione di far luce lagenerazione Tq incontrano altri due temi che sono alcentro del dibattito culturale in questi giorni.Il primo, lanciato proprio dalle pagine del Riformistadove si discuteva un articolo dell’editore Marco Cassi -ni, riguarda il tema della decrescita editoriale. Ovverol’intento di diminuire progressivamente il numero dipubblicazioni che logora la qualità stessa dei libri. Ilsecondo tema, strettamente connesso con l’appello deldi rettore editoriale di minimum fax, riguarda invecela re centissima legge approvata al Senato che regolalo sconto massimo sui libri fissando il tetto al 15 percento (si può ar rivare al 25 per cento solo per promo-zioni speciali e comunque non durante il periodo dinatale). La legge, che è stata anche il frutto della pres-sione di piccoli e medi editori riuniti nel nome di Mu-lini a vento (Instar libri, Iper borea, marcos y marcos,minimum fax, Nottetempo, Vo land), è stata accoltacome un buon inizio dai piccoli edi tori ma ha rice-vuto anche numerose critiche. Il dissen so per la leggeproviene, da una parte, dai semplici let tori, a cui nonè stato spiegato sufficientemente quale vantaggioavrebbero nel non avere «sconti forti», e dal l’altraparte da 800 firmatari di una lettera spedita al Pre -sidente della Repubblica. In questa petizione, che haa capo il Centro Studi Bruno Leoni, si chiede a Na-polita no di non firmare la legge appena approvata.Anche all’interno dell’Aie (Associazione italiana edi-tori) qualcosa si muove. Mario Guaraldi, per esempio,

Francesco Longo, il Riformista, 28 luglio 2011

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Oblique Studio | Rassegna stampa luglio 2011

ha dato le proprie dimissioni scrivendo una lette ra alpresidente Marco Polillo in cui si dissocia dalla suasoddisfazione manifestata dopo l’approvazione dellalegge che Guaraldi invece considera «un capo lavorodi ipocrisia farisaica».Non si contano quante discussioni ci sono in Rete inqueste ore sui temi legati all’editoria, al gruppo Tq, alladecrescita, alla legge sugli sconti. In tutta la complessitàdelle posizioni alcuni punti essenziali restano indubi -tabi li. L’editoria e la cultura in Italia sono in un mo-mento di estrema sofferenza. Soffrono i precari all’uni-versità, ce dono gli editori piccoli, faticano ad emergere

alcuni libri di qualità tramortiti dai gruppi editorialiche forzano il mercato. Se è interessante il dibattito conforti richiami al l’etica e alla deontologia tra gli addettiai lavori, che si esprimono attraverso Tq, bisogna tenerpresente che la grande maggioranza di intellettuali po-tenziali oggi non ha accesso al mondo dell’editoria, deigiornali, dell’univer sità. Molti raffinati dottori di ricercasono chiusi nei call center e sottopagati. Forse, moltidegli intellettuali tren ta-quarantenni sono senza voce.La speranza è che riu sciranno a salire su questo trenoin corsa, diretto verso un nuovo e più sano riequilibriotra cultura e politica.

Troppo faziosi. E rimasero 53 Tq al bar

Luigi Mascheroni, il Giornale, 28 luglio 2011

Le scissioni sono l’anima della politica, e le correnti dellaletteratura. Ma anche viceversa. Mettetele insieme, eavrete la «generazione Tq», il gruppo di intellettualitrenta-quarantenni che propone un rinnovamento ra-dicale del mondo culturale italiano. Il movimento èstato concepito l’inverno scorso nella mente di Scurati,Vasta, Cassini e Desiati, è nato a primavera a casa La-terza, è cresciuto questa estate nella Sala Arrigoni a SanLorenzo in Roma. Ha prodotto un Manifesto e si è ino-pinatamente spaccato: i dorotei dell’ergagement politicoda una parte, la nuova sinistra del dialogo editorialedall’altra, i centristi letterari nel mezzo. Divisi, ma ege-moni. Le convergenze parallele dell’intellighenzia. La re-ductio a pochi è il destino ineludibile di ogni avanguar-dia che osi più di quanto sappia volare. Tra scrittori,editor, giornalisti e editori erano partiti in centocin-quanta. Sono arrivati a firmare il documento conclusivoincentrato su una critica radicale alla società capitalisticae al liberalismo avanzato, in cinquantatré. Quel che restadi Adorno. Dialettici ma non illuminati. I sopravvissutiall’impegno di ritorno, senza più leader né big – in so-stanza è rimasto il giro romano allargato di minimumfax – promettono benissimo, dicendosi per «una culturadella differenza», «aperti al dialogo» e «pronti al con-

fronto», ma mantengono poco. Il politburo dei Tq dauna parte firma un manifesto che è «un invito, aperto atutti coloro che lavorano nell’ambito della cultura e dellearti, a pensare e ad agire insieme» ma dall’altro escludecategoricamente la possibilità di discutere con chiunquerientri nella galassia del neoliberismo («un’epidemia»),del berlusconimso («col suo portato insostenibile di au-toritarismo, di sprezzo della legalità, di saccheggio perbande private del bene comune») e del leghismo («igno-bile razzismo padano»). Ossia: vanno bene tutti, bastasiano identici a noi. L’intolleranza del vero fascismo.Maximum fez. Defezioni caratteriali, spaccature morali,insofferenze salottiere, politicizzazione dogmatica, eticaa senso unico. Se non ci fosse tutto ciò, il manifesto sa-rebbe peraltro condivisibile. Chiunque, al netto delle fa-ziosità delle premesse, sottoscriverebbe alcuni puntidello svolgimento: la cultura come bene comune il cuiaccesso dev’essere universale e tendenzialmente gratuito,la difesa e la riqualificazione delle biblioteche, la con-danna delle recensioni a pagamento, la creazione di uncatalogo dei grandi libri dimenticati, un «controllo» deipremi letterari et alia. Irricevibile, invece, la proposta diazioni di «guerrilla» culturale e artistica. Perché sarà lapeggiore delle guerre. Quella unilaterale.

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Kristof, addio alla grande esule ungherese.Scrisse un solo libro: è un capolavoro

L’autrice della «Trilogia della città di K.» è scomparsa ieri a 71 anni in Svizzera.L’opera che l’ha resa celebre è stata scritta in francese. La fuga dal suo paesenel 1956, la condizione operaia e la scarsa padronanza della nuova lingua nehanno segnato i temi e lo stile

Paolo Mauri, la Repubblica, 28 luglio 2011

Nessuno può dire di aver letto un racconto o un ro-manzo di Agota Kristof senza restarne in qualchemodo toccato o perfino fe rito. L’autrice, nata in unvillaggio ungherese nel 1935, è scom parsa ieri a Neu-châtel, la città svizzera dove si era stabilita. Nel ’56,in seguito all’invasione sovietica del suo paese, la scrit-trice fuggì con il marito e la figlia di quattro mesi. Lasua lingua di venterà allora il francese, che non riusciràperò a dominare completamente, anche se è con que-sto idioma che costruirà la sua opera letteraria.La fuga, l’esistenza da esule, la condizione operaiahanno se gnato lo stile della Kristof, quella sua scarni-ficazione delle frasi, con la sintassi ridotta al minimo,semplice e proprio per questo diretta e ineludibile. Epoi le storie, le trame, i personaggi, se così si possonochiamare gli strani attori dei suoi racconti spesso in-tenti a fare e a farsi del male come se fosse la cosa piùnaturale del mondo. Dun que una scrittura usata comeuna materia viva e la voglia di raccontare un incubocome se fosse la pura normalità.Per quel suo francese incerto, a lungo la Kristof si con-si dererà un’analfabeta (L’anal fabeta è il titolo di unsuo rac conto autobiografico). E qui sta forse anche lanecessità di lavorare su una struttura po vera dellafrase. Però c’è una ragione più profonda alle spalle deilibri di Agota Kristof.Il racconto spietato di un mondo che ha perduto ilproprio senso e dunque va avanti alla cieca lasciandoche acca da tutto ciò che può accadere senza tentare di

impedirlo. La Trilogia della città di K., il suo capola-voro, scandisce storie in cui tutto è uguale a tutto. Idue gemelli, Lucas e Klaus, sono non solo nel nomeuna sola persona e dunque nel pro seguire del mondonon c’è salvezza possibile.È inevitabile pensare a que sto punto al capostipite diuna lettura del mondo senza Spe ranza, e cioè a FranzKafka. Solo che Kafka ha uno spicca tissimo senso delcomico e le sue costruzioni, sebbene portino il lettoredentro labirinti senza uscita, hanno sempre un che difortemente para dossale. Nella Kristof invece il para-dosso non c’è, c’è so lo il silenzio e l’insensatezza.Come nella raccolta di brevi racconti intitolata Lavendet ta dove spietati delitti si ac compagnano a unghigno demenziale.Scrittrice appartata come pochi, Agota Kristof ha vis-su to la scrittura come il doppio di un’esistenza nonfacile. Operaia in una fabbrica di orologi dove il suolavoro con sisteva nel fare dei forellini, ha esistito«fuori di sé» come spesso accade agli esuli che mai sisentono fino in fondo a casa nella nuova patria. LaKristof appartiene dunque al filone più nobile dellalettera tura novecentesca: diciamo quella dei «non con-ciliati» che soffrono nello scrivere le pene di un’esi-stenza alternativa forse peggiore di quella vera. ComeBernhard, come Coet zee, tanto per fare due nomi.Così, in modo indimenticabi le, Agota Kristof ha scru-tato il mondo da un abisso e lo ha inevitabilmentecondannato.

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Quando la purezza per salvarsi diventa crudele

Il ricordo dello scrittore che è stato anche traduttore di un suo romanzo

Le sono arrivato a un passo: Agota Kristof era lì, avreipo tuto allungare la mano e toccarla, per lo meno avreipotuto dirle quanto la ammiravo, quanto tempo ave -vo passato in compagnia dei suoi pensieri e delle sueparole, cercando di trovare in italiano le corrispon -denze esatte, di non tradire quel suono nitido, sco-stante, petro so. Un anno intero avevo dedicato allatraduzione di Hier, l’altro capolavoro della Kristofoltre alla Trilogia della città di K., un anno in compa-gnia di Tobias Horvath, il protagonista del libro, dellesue emozioni gelate, della sua severissima vocazionealla scrit tura: mi sembrava di aver fatto un buon la-voro e allo stesso non ne ero convinto fino in fondo,e ora ero lì, al teatro Argentina di Roma, e Agota Kri-stof, ospite di non so quale rassegna, parlava con qual-cuno: anzi, non parlava, ascoltava e basta, e forse ne-anche ascoltava. Ri cordo una faccia tonda, capel licorti e lisci, grigi, occhi di sas so grigio, un’aria da bam-bina vecchia, semplice e intransi gente, presente almondo ep pure assente, come chi sta qui e insieme daun’altra parte. Stavo per dirle ho tradotto il suo ro-manzo, e non ho detto niente, sono scivolato via.Se devo esprimere con sin cerità quale sentimento miabbia allontanato, devo am mettere che fu la paura. Hoavuto paura di quella donna, la paura di parlare con leiper due minuti, da soli. Era come se at torno avesse unfilo spinato in visibile, carico di punte e di un’energiaelettrica così po tente da incenerire chi osasse provare araggiungerla. Eppure quanto ho sentito nell’ani ma e

nel corpo questa scrittri ce, quanto ne ho parlato, cer -cando di farla leggere a tutti quelli che amano la lette-ratu ra. All’inizio mi dicevano: «Ma chi, Agatha Chri-stie?», per un equivoco inevitabile. Ci met tevo sempreun po’ a spiegare che si trattava di due persone diverse.Neppure le più grandi esperte di letteratura femmi nileavevano mai sentito no minare la piccola ungherese chescriveva da sempre in francese. A me era capitato tra le ma ni un po’ per caso il primoro manzo della trilogia, edito da Guanda. Le grand ca-hier era diventato Quello che resta e credo avesse ven-duto quasi niente. Guanda stampò anche La prova, conuguali risultati, quindi mollò. Ma chi aveva letto la sto-ria di Lucas e Klaus, i due gemelli ferocemente uniti eferocemente divisi, non po teva più dimenticarli. Sonodue ragazzini cresciuti in un paese dilaniato dalla guerrae dall’occupazione nemica, un paese senza nome,astratto come una terra dove regna so lo il dolore, mariconducibile all’Ungheria, dove la Kristof aveva pas-sato tutta la prima parte della sua vita. Klaus e Lu cassanno che possono resi stere solo se saranno più forti diogni sofferenza, sanno che per reggere l’urto brutaledel l’orrore, della violenza, del l’insensatezza dovrannodi ventare due piccoli samurai. Il tema di fondo è tipi-camente novecentesco, ma ribaltato: qui nessuno si faminimo nel l’abulia, nell’indifferenza, nel timore cheruba l’anima. Qui ci si tempra nella disciplina sponta-nea, si diventa duri co me l’acciaio, impietosi con séstessi, capaci di sopportare pesi e prove, di rinunciare a

Marco Lodoli, la Repubblica, 28 luglio 2011

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tutto pur di crescere. Lucas è il maestro di Klaus e Klauslo è di Lucas: sono due e si controlla no, si incoraggiano,si giudica no, sono due e sembrano uno, come se unasola volontà abi tasse due corpi.E leggendo il dubbio cresce, diventa quasi un sospetto:ma davvero esistono i due gemel li, davvero questa en-tità si sdoppia, o forse si tratta di una sola potentissimamente che si rispecchia per rafforzarsi, per perfezionarsi,come una palla che batte e ribatte sul muro e torna in-dietro sempre più precisa? Non c’è alcun psicologismo,siamo immediata mente dalle parti del mito, della favolaprimaria, nera e archetipica. Da una parte c’è il mondo– che potrebbe essere l’Ungheria comunista, ma an chequalsiasi posto dove il so pruso e la violenza imperano– e dall’altra parte c’è una in nocenza che non può ce-dere, che per conservarsi deve di ventare crudelissima.Tutto accade in virtù di una lingua scabra ed elemen-tare, elusiva per semplicità e chiarezza. Se si comincia aleggere, si entra in un bosco di pietra, in un la birintodal quale si esce solo saltando il muro altissimo, co mei gemelli faranno alla fine del libro.Ieri rappresenta il secondo capitolo di una vita: la fugada Budapest ormai è avvenuta, il 1956 e i carri armatisovietici sono alle spalle, ora dovrebbe esserci l’Occi-dente, la libertà, la pienezza e le diversità dell’e sperienza.

Ma per Agota Kri stof conta soltanto la conqui sta di unalibertà interiore, e questa dimensione si ottiene solo conla rinuncia a ogni lu singa. Se Lucas e Klaus erano duesamurai, Tobias è un mo naco. Lavora in una fabbricadi orologi in Svizzera, alle spalle crede di avere solo unomici dio e l’infinito amore per la so rella. Attorno nonha niente. La sua vita è un vuoto purissi mo, un nidoche deve acco gliere le parole esatte della scrittura. Ogniavvenimento è solo distrazione. La sorella ar riverà dalontano, qualcosa tra loro avverrà, ma poi la vita sarà dinuovo una cella fredda dove concentrarsi per scrivere lave rità.Così sono i libri di Agota Kri stof: implacabili manualidi sopravvivenza psichica, inviti alla sottrazione perritrovare la densità della vita, storie di san ti moderniche vagano nel de serto, si nutrono di nulla e pensanoin silenzio a qualcosa che dia senso a tutto questodolo re. Ero a un metro da Agota Kri stof, avrei tantovoluto abbrac ciarla, ringraziarla, offrirle da bere in unbel caffè di Roma, e non ce l’ho fatta. Me ne pento,ma so che nessuna cordialità, nessun sorriso facile,nessuna umana dolcezza potevano fare breccia in unavita che non perdonava niente a nessuno, soprattuttoa sé stessa. Viveva solo nella letteratura, la Kri stof,dunque vivrà per sempre.

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I dolci inganni della generazione dei letterati Tq, dove T sta per tartufi

Matteo Marchesini, Il Foglio, 28 luglio 2011

Per uno scrittore, ci sono due forme serie di «impe-gno». Primo, schivare populismo e dandysmo, ricor-dando che senza un rigore stilistico capace di aderirecastamente al proprio oggetto si dicono cose false. Se-condo, riflettere sulla falsa coscienza che il suo lavoro,come ogni attività sociale, inevitabilmente comporta.Chi stende arringhe su mafia, guerra o corruzione, manon ci spiega qual è il suo posto e la sua parte di re-sponsabilità nel mondo; chi finge che la Parola se negiri «povera e sola», e non ci lascia capire come lo con-dizionino i media che usa – costui è un tartufo. Nesiamo circondati. Non a caso trionfa una caricaturadel peggior metellismo: si usano le tragedie sociali inchiave pittoresca, sovrapponendo retorica tribuniziaed estetismo. Certo, esiste poi l’impegno della personain quanto tale: ciò che nelle nostre diatribe GoffredoFofi chiama «pulire il culo alle vecchiette».Ma questa è una cosa che si fa (o non si fa) e basta.Fingere di pulire il culo alle vecchiette mentre si bat-tono al pc poesie o romanzi, saggi o drammi, è inveceuna cattiva azione: e sfociando in un linguaggio po-sticcio non emancipa affatto i lettori né li rende piùcivili, ma aggiunge idolo a idolo. Se i letterati italianihanno un compito, è quello di riconoscere nel lavorointellettuale una funzione universalmente umana,proprio mentre si impone la credenza che sia faccendadi ruoli e caste, di divi che usano l’«engagement»come strumento di autoaffermazione midcult.Il gruppo Tq – «trenta-quarantenni», di cui ieri è statopresentato il manifesto – è l’ultimo sbiadito segno diquesto clima. A partire dalla selezione mediatico-gene-

razionale, cioè da un principio da cui è assente il pen-siero, ma ben presente lo Spirito del tempo. Questi (ex)giovani evitano di compiere l’unico atto davvero «im-pegnativo»: l’autoanalisi dei criteri attraverso i quali unsimile pseudosindacato si autoconvoca. Non diversi daquelli con cui si scelgono veline, anchorman o accade-mici à la page. Siamo sempre alla parodia editorialedelle poetiche civili del Novecento (che spesso eranogià macchine pubblicitarie acchiappa-potere), o a mi-noranze che sono caricature delle odiate maggioranze.Credere di poter parlare politicamente «in quantoscrittori» vuol dire avere un’idea reazionaria e pom-pieristica del proprio status. Chi è onesto sa che si fa-tica ormai a condividere un linguaggio comune per-fino con l’amico più empatico. Quindi, rifiutarsi dimostrare così com’è questa atomizzazione, coprendolasotto un generico programma tipo Unione, scritto daVeltroni e Vendola e corretto da Scalfari e i Wu Ming,è un’altra azione cattiva. Quando si dice di voler sal-vare la «cultura» bisogna dire quale: molti Tq hannoin mente i metellismi pubblicitari o i sedicenti speri-mentalismi cui qualche professore offre fumosi alibiextratestuali. E che dire dell’accezione dozzinale in cuisono intesi termini come «neoliberismo»? Se si vuoldiscutere sul divario tra mercato e valore etico-este-tico, troppo comodo indicare bersagli così vaghi. E’più facile nominare Berlusconi che i piccoli Gian Ar-turo Ferrari, i funzionari editoriali da cui concreta-mente dipende la posizione di molti Tq. Ecco alloral’ennesima corporazione. Gli scrittori non fanno ca-tegoria: e anzi come categoria dovrebbero sparire.

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