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Renzismo ALLA PROVA L’ Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha co- nosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e del- la sociologia ma che tuttavia è un processo culturale pri- ma che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere og- gi un processo culturale prima che economico, produ- cendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concet- tuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la na- vigazione nel mercato; trasformando quello che era il cit- tadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso po- polo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assu- mersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale – questo - dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente mono- polista deve rimuovere ogni sovrano concorrente. Berlusconi: il populista che prometteva la modernizza- zione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo aziendalista, con la figura del padre/lea- der sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello cultura- le che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godi- mento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. CONTINUA |PAGINA II Il premier e il motore ingrippato Sbilanciamo l’Europa Lelio Demichelis Renzi parla al popolo e lo raggiunge con le sue brevi frasi tempestive. I giornali e i notiziari televisivi moltiplicano e ripetono i suoi messaggi. Gli avversari vi si aggrappano, i comici ne fanno un successo. Ma ora è il momento di capire: si passerà dalle parole ai fatti? Guglielmo Ragozzino L a voce più critica che gira su Matteo Renzi è che il presiden- te-segretario non sopporta le critiche. Egli chiede e ottiene la rimo- zione dei giornalisti che gli appaiono contrari. Non manda il Kgb, ammes- so che ne abbia uno a disposizione; si serve piuttosto, sempre stando al sentito dire, di un avvertimento ai di- rettori dei giornali: «Quello lì non lo invitiamo più». I direttori capiscono e si affrettano a cambiare inviato e ad attenuare i toni. D’altro canto Renzi si muove con una tale rapidità, agi- sce a ogni ora del giorno, tutti i gior- ni, che un quotidiano non può per- mettersi di essere tagliato fuori. Non invitato, privo quindi di servizi di at- tualità politica, per l’assenza del pro- prio reporter, avrebbe l’impressione di non avere niente da dire il giorno dopo: solo furti in appartamenti e, ben che vada, incidenti stradali, con grave scontentezza dell’editore. Renzi non le manda a dire. Il fatto è che, in senso proprio, non si fida di nessuno. Così è lui stesso che avverte l’Unità: «Non serve avere due giorna- li» e tutti capiscono che è vicina la fu- sione dei due quotidiani del partito: l’Unità ed Europa. Quello fondato da Antonio Gramsci e l’altro. «Dobbia- mo metterci in sicurezza – ha spiega- to Renzi – non possiamo permetterci due giornali diversi, due storie diver- se, dobbiamo tutelare quello che è un brand. Le nostre feste devono tor- nare ad essere quelle dell’Unità». In sottofondo, applauso dell’assem- blea. Si può capire: Renzi parla diret- tamente al popolo e lo raggiunge con le sue brevi frasi tempestive, tipo su Twitter; i giornali e i notiziari televisi- vi moltiplicano e ripetono i suoi mes- saggi. Gli avversari vi si aggrappano, i comici ne fanno un successo. Le bre- vi frasi servono ai capi, come serviva- no a Mussolini che mancando di al- tro aveva l’abitudine di scriverne di si- mili sui muri. Inoltre ci sono le pre- senze in scena, in pubblico o nella più ristretta sede della conferenza po- litica, tutte magnificate dalla televisio- ne e dai media. Altri capi di Stato e di governo si sono accontentati dei cine- giornali e più tardi delle prime incer- te trasmissioni televisive. Rivisitarli, a distanza di decenni, fa sorridere. Sembra di tornare dal mare oscuro al- la chiara sponda della democrazia. Renzi è molto serio: «Trovo sor- prendente che tutte le volte che c’è un tentativo di fare una battaglia in Europa, uno prende l’aereo e non fa in tempo ad atterrare che una parte del suo partito, ancorché minorita- ria, riapre discussioni che sembrava- no chiuse. Un atteggiamento che si giudica per quello che è e che non ha bisogno di parole ulteriori». (Renzi e le riforme: «L’accordo terrà», Barbara Fiammeri, Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2014). «Il Sole» sa quello che vuole e quello che si vuole dalle sue pagine. Così domenica 29 giugno titolava «Il pilota e il motore». Chi sia il pilota lo sappiamo. Roberto Napoletano, il di- rettore, a scanso di dubbi, ce lo ripe- te: «Siamo sicuri che la forza politica e l’energia di Renzi assicurano alla macchina italiana una guida capace di affrontare tutte le curve». Ci per- mettiamo di suggerire la massima at- tenzione al motore della macchina, perché non perda i giri, o, peggio, si ingrippi. Del resto il giorno prima Giorgio Squinzi presidente di Confin- dustria ed editore sostanziale del quotidiano ha anticipato la metafo- ra: «Il governo ha un motore di F1 di altissima potenza, mi auguro poi rie- sca a scaricarla per terra, perché que- sto è quello che conta; io resto fidu- cioso». Ma il motore cos’è? Niente Le immagini di queste pagine sono di Eric Dekker, trat- te da Niente di Remy Charlip Frutto della più sofistica- ta ricerca scientifica, Niente è versatile e polivalente. Ottimo come shampoo o dentifricio, è ideale per lavar- si il viso, ma anche per detergere il lavandino. Per la puzza ai piedi poi, Niente fa le scarpe a tutti. Moderno elisir, Niente guarisce mal di denti e reumatismi, emi- crania e mal di pancia. E non c’è nulla di meglio di Niente per colmare i vuoti della vita! Allegri e scanzonati, i suoi consigli per gli acquisti so- no lo straordinario ritratto dell’anima del commercio. Niente. Niente, Orecchio acerbo 2007, 48 pagine, 10 euro www.orecchioacerbo.com VENERDÌ 4 LUGLIO 2014 WWW.SBILANCIAMOCI.INFO - N˚23 SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO

Renzismo - Sbilanciamoci.info · 2017. 5. 2. · Renzi è molto serio: «Trovo sor-prendente che tutte le volte che c’è un tentativo di fare una battaglia in Europa, uno prende

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  • RenzismoALLA PROVA

    L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha co-nosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent’anni,un record mondiale.Populismo: che è concetto classico della politica e del-

    la sociologia ma che tuttavia è un processo culturale pri-ma che politico.

    E oggi economico prima che culturale e politico, nelsenso che è appunto l’economia capitalista ad essere og-gi un processo culturale prima che economico, produ-cendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concet-tuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la na-vigazione nel mercato; trasformando quello che era il cit-

    tadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitaleumano – ovvero in mero homo oeconomicus.

    Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E ilmezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocatidal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualcheparte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso po-polo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assu-mersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.

    Effetto culturale – questo - dell’antipolitica capitalista,

    che per essere sovrano assoluto e culturalmente mono-polista deve rimuovere ogni sovrano concorrente.

    Berlusconi: il populista che prometteva la modernizza-zione neoliberale del paese. In realtà, un populismo delcambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto isuoi interessi personali e aziendali).

    Un populismo aziendalista, con la figura del padre/lea-der sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto dasolo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello cultura-le che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godi-mento immediato, la deresponsabilizzazione egoisticaed egotistica. CONTINUA |PAGINA II

    Il premiere il motore ingrippato

    Sbilanciamo l’Europa

    Lelio Demichelis

    Renzi parla al popolo e lo raggiunge con le sue brevi frasi tempestive. I giornali e i notiziaritelevisivi moltiplicano e ripetono i suoi messaggi. Gli avversari vi si aggrappano, i comicine fanno un successo. Ma ora è il momento di capire: si passerà dalle parole ai fatti?

    Guglielmo Ragozzino

    La voce più critica che gira suMatteo Renzi è che il presiden-te-segretario non sopporta lecritiche. Egli chiede e ottiene la rimo-zione dei giornalisti che gli appaionocontrari. Non manda il Kgb, ammes-so che ne abbia uno a disposizione;si serve piuttosto, sempre stando alsentito dire, di un avvertimento ai di-rettori dei giornali: «Quello lì non loinvitiamo più». I direttori capisconoe si affrettano a cambiare inviato e adattenuare i toni. D’altro canto Renzisi muove con una tale rapidità, agi-sce a ogni ora del giorno, tutti i gior-ni, che un quotidiano non può per-mettersi di essere tagliato fuori. Noninvitato, privo quindi di servizi di at-tualità politica, per l’assenza del pro-prio reporter, avrebbe l’impressionedi non avere niente da dire il giornodopo: solo furti in appartamenti e,ben che vada, incidenti stradali, congrave scontentezza dell’editore.

    Renzi non le manda a dire. Il fattoè che, in senso proprio, non si fida dinessuno. Così è lui stesso che avvertel’Unità: «Non serve avere due giorna-li» e tutti capiscono che è vicina la fu-sione dei due quotidiani del partito:l’Unità ed Europa. Quello fondato daAntonio Gramsci e l’altro. «Dobbia-mo metterci in sicurezza – ha spiega-to Renzi – non possiamo permettercidue giornali diversi, due storie diver-se, dobbiamo tutelare quello che èun brand. Le nostre feste devono tor-nare ad essere quelle dell’Unità». Insottofondo, applauso dell’assem-blea. Si può capire: Renzi parla diret-tamente al popolo e lo raggiunge conle sue brevi frasi tempestive, tipo suTwitter; i giornali e i notiziari televisi-vi moltiplicano e ripetono i suoi mes-saggi. Gli avversari vi si aggrappano, icomici ne fanno un successo. Le bre-vi frasi servono ai capi, come serviva-no a Mussolini che mancando di al-tro aveva l’abitudine di scriverne di si-mili sui muri. Inoltre ci sono le pre-senze in scena, in pubblico o nellapiù ristretta sede della conferenza po-litica, tutte magnificate dalla televisio-ne e dai media. Altri capi di Stato e digoverno si sono accontentati dei cine-giornali e più tardi delle prime incer-te trasmissioni televisive. Rivisitarli, adistanza di decenni, fa sorridere.Sembra di tornare dal mare oscuro al-la chiara sponda della democrazia.

    Renzi è molto serio: «Trovo sor-prendente che tutte le volte che c’èun tentativo di fare una battaglia inEuropa, uno prende l’aereo e non fain tempo ad atterrare che una partedel suo partito, ancorché minorita-ria, riapre discussioni che sembrava-no chiuse. Un atteggiamento che sigiudica per quello che è e che non habisogno di parole ulteriori». (Renzi ele riforme: «L’accordo terrà», BarbaraFiammeri, Il Sole 24 Ore, 28 giugno2014). «Il Sole» sa quello che vuole equello che si vuole dalle sue pagine.Così domenica 29 giugno titolava «Ilpilota e il motore». Chi sia il pilota losappiamo. Roberto Napoletano, il di-rettore, a scanso di dubbi, ce lo ripe-te: «Siamo sicuri che la forza politicae l’energia di Renzi assicurano allamacchina italiana una guida capacedi affrontare tutte le curve». Ci per-mettiamo di suggerire la massima at-tenzione al motore della macchina,perché non perda i giri, o, peggio, siingrippi. Del resto il giorno primaGiorgio Squinzi presidente di Confin-dustria ed editore sostanziale delquotidiano ha anticipato la metafo-ra: «Il governo ha un motore di F1 dialtissima potenza, mi auguro poi rie-sca a scaricarla per terra, perché que-sto è quello che conta; io resto fidu-cioso». Ma il motore cos’è?

    NienteLe immagini di queste pagine sono di Eric Dekker, trat-te da Niente di Remy Charlip Frutto della più sofistica-ta ricerca scientifica, Niente è versatile e polivalente.Ottimo come shampoo o dentifricio, è ideale per lavar-

    si il viso, ma anche per detergere il lavandino. Per lapuzza ai piedi poi, Niente fa le scarpe a tutti. Modernoelisir, Niente guarisce mal di denti e reumatismi, emi-crania e mal di pancia. E non c’è nulla di meglio diNiente per colmare i vuoti della vita!

    Allegri e scanzonati, i suoi consigli per gli acquisti so-no lo straordinario ritratto dell’anima del commercio.Niente.Niente, Orecchio acerbo 2007, 48 pagine, 10 eurowww.orecchioacerbo.com

    VENERDÌ 4 LUGLIO 2014 WWW.SBILANCIAMOCI.INFO - N˚23 SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO

  • «Uscire dalla palude», «deconge-stionare il sistema», «sbloccarele riforme» dopo trent’anni difallimenti. Sono queste le formule, le paro-le, le sollecitazioni dalle quali siamo statisommersi in queste settimane. Una offensi-va mediatica e culturale talmente pressanteda essere riuscita, in poco tempo, a sortirenel senso comune una stupefacente rimo-zione. Perché non è vero che, in questi an-ni, non sono state fatte riforme. Le riformesi sono fatte, ma sono state riforme sbaglia-te. È il caso della revisione del titolo V avve-nuta nel 2001, rispetto alla quale il Parla-mento si sta oggi adoperando per porre deirimedi. Ma anche della legge elettorale del2005, dichiarata recentemente incostituzio-nale dalla Corte con la sent. n. 1 del 2014.

    Riforme, queste (e molte altre), approva-te da maggioranze di governo, su input de-gli esecutivi, a tappe forzate, comprimendoa piè sospinto il confronto parlamentare. Diqueste riforme sbagliate noi oggi stiamo(prevalentemente) parlando e non di altro.

    Sia ben chiaro ciò non vuol dire che la Co-stituzione non abbia bisogno di riforme,ma piuttosto che le poche e necessarie rifor-me da realizzare dovranno essere persegui-te nel rispetto del metodo e dello spirito del-l’art. 138. Dovrà, pertanto, trattarsi di rifor-

    me: a) il più possibile delimitate; b) estra-nee alla sfera dell’indirizzo politico di gover-no; c) prudentemente vagliate. D’altronde èlo stesso procedimento di revisione, così co-me costituzionalmente configurato, ad allu-dere a un confronto aperto, senza blindatu-re, lungo (l’art. 138 non prevede tempi mas-simi, ma solo tempi minimi).

    Il disegno di legge del Governo «per il su-peramento del bicameralismo paritario»(As 1429) contraddice ognuno dei singoliprofili di metodo sopra richiamati: a) la ri-forma Renzi-Boschi non può di certo essereritenuta una riforma circoscritta nei suoicontenuti. Essa - se approvata - è destinataa incidere su un numero significativamentealto di articoli, coinvolgendo più «ambiti»costituzionali: forma di stato e forma di go-verno; prerogative dei parlamentari e decre-tazione d’urgenza; abolizione delle provin-ce e iniziativa del legislativa del Governo;abolizione del Cnel e sindacato di costitu-zionalità); b) il processo di revisione costitu-zionale è oggi parte integrante dell’indiriz-zo politico del Governo. Dominus incontra-stato delle riforme è pertanto divenuto l’ese-cutivo. Non è un caso che finanche la so-pravvivenza del Governo venga oggi fatta di-pendere, dallo stesso Presidente del Consi-glio, dall’esito positivo delle riforme, e inparticolare dalla riforma del Senato; c) ilconfronto politico e parlamentare sulla ri-forma costituzionale è stato fino a oggi con-

    trassegnato da dinamiche asfittiche, epura-zioni (caso Mineo docet), sbreghi procedu-rali. I margini di praticabilità politica per unconfronto aperto e senza forzature decisio-niste sono stati, in questi mesi, costante-mente mortificati dalla retorica degli annun-ci, degli spot, dei «rulli compressori».

    Per ciò che concerne i contenuti della ri-forma essi appaiono confusi e contradditto-ri. Il progetto di riforma del Governo preve-de un vistoso ri-accentramento di materie efunzioni a livello statale (coordinamentodella finanza; ordinamento scolastico; distri-buzione dell’energia; tutela della salute),sopprime la potestà ripartita Stato-Regione,travolge la cd. devolution debole (art. 116.3Cost.) e molto altro ancora. Una soluzionecostituzionale netta che può piacerci o me-no, ma in ogni caso netta. Ciò che non sicomprende però è come questo processo diaccentramento delle funzioni statali possa

    mai raccordarsi con l’agognata composizio-ne territoriale del futuro Senato. Cosa han-no a che fare Presidenti di Regione e Sinda-ci con l’istituzione di una Camera che nullaha di territoriale? E quale il loro ruolo speci-fico all’interno di una Camera dotata di fun-zioni essenzialmente consultive e di unaazione normativa che non va oltre l’appro-vazione delle leggi costituzionali?

    Se obiettivo del Governo era quello di«rottamare» il Senato, si sarebbe allora piùcoerentemente potuto optare per la soluzio-ne monocamerale, sulla scia dei modelliadottati in altre democrazie europee (Dani-marca, Finlandia, Grecia, Portogallo, Sve-zia, Norvegia), integrando questa revisionecon la opportuna costituzionalizzazione diun sistema proporzionale per l’elezione del-la Camera dei deputati. Ma ciò che è contaper il Governo non è il contenuto delle rifor-me, né tanto meno il metodo. Ciò che con-

    ta è fare, «portare a casa» le riforme: non im-porta quali o come. Nell’Italia dei populi-smi vi è solo una priorità che tende ad affer-marsi su ogni altra e che il ciclone Renzi hadimostrato di saper intercettare e rappre-sentare meglio di chiunque altro (Berlusco-ni e Grillo compresi): rottamare la «casta»,abbattere le sedi e i costi della politica, sem-plificare le procedure democratiche (a talpunto che finanche la crisi viene oggi pre-sentata come un portato naturale delle pa-tologie di questo sistema). E quindi bastacon le Province, i Consigli regionali troppoaffollati, il Senato. Anche se la «rottamazio-ne costituzionale» di Renzi non si propone,in alcun modo, di far fuori dal quadro ordi-namentale Province (che continueranno aesistere sotto mentite spoglie), Regioni e Se-nato. Il suo obiettivo è un altro: far fuori daognuno di questi livelli di governo la rappre-sentanza politica e democratica.

    Il populismo tecnocraticodel «rottamatore»Discendenza diretta di quello neoliberista, scardina ancor piùle forme e le pratiche della democrazia, riducendo a nientela società civile. Twittare pare più importante che ascoltare

    DALLA PRIMA PAGINALelio Demichelis

    VENERDÌ 4 LUGLIO 2014SBILANCIAMO L’EUROPAN˚23 - PAGINA II

    Per legittimare – questa l’azio-ne appunto culturale, peda-gogica prima che economica

    - le retoriche neoliberiste dell’essereimprenditori di se stessi e della com-petizione come unica forma di vita.

    Bossi e la Lega: il mezzo populi-smo (non solo perché limitato a unaparte del territorio), apparentemen-te il più classico dei populismi con ilrichiamo alla tradizione, ai simbolidi terra e di sangue. All’essere padro-ni a casa nostra: da intendere perònon come sovrani sulla nostra terrama come padroni nel senso anticodel capitalismo. Populismo da picco-la impresa, da capitalismo molecola-re come versione localistica dell’or-doliberalismo tedesco e della sua pe-dagogia per imporre il modello im-presa all’intera società.

    Grillo: il populista contestatore, ilteorico del net-populismo come for-ma perfetta della democrazia. Grillocome l’uomo del cambiamento maincapace di cambiare (dice solo no)e forse populista anche di se stesso.

    E Matteo Renzi. Un populismo ditipo nuovo ma evoluzione dei prece-denti. Perché anch’egli cerca il rap-porto diretto con il popolo e lo invo-ca come propria totalizzante legitti-mazione. Perché aspira ad essere in-sieme Partito di Renzi e Partito dellaNazione. Un partito-non-partito tut-tavia, ormai anch’esso trasversale –e quasi un non-luogo nel senso diMarc Augé: come un aeroporto, unsupermercato, un luogo di consumodi politica. Un populismo che invo-

    ca il popolo contro le caste e il sinda-cato salvando invece le oligarchieche lo sostengono come un sol uo-mo; che ha grandi mass-media schie-rati dalla sua parte e che gli consen-tono ciò che mai avrebbero consenti-to a Berlusconi; un populismo fidei-stico e teologico-politico (noi controloro, noi il tutto che non accetta ildue e il tre e il molteplice e gli eretici;noi il nuovo, gli altri il vecchio).

    Un populismo che vuole rottama-re appunto il vecchio, ma che nonrottama, non corregge (una volta sichiamava autocritica, ma il nuovoche avanza travolge anche la memo-ria) i molti errori del passato: il sì al-

    l’austerità, all’articolo 81 della Costi-tuzione sul pareggio di bilancio.

    Un populismo finalizzato alla mo-dernizzazione dell’Italia – e ogni po-pulismo è stato, storicamente ancheuna via per la modernizzazione, fa-cendo accettare al popolo, in nomedel popolo quelle trasformazioniche altrimenti non sarebbero statepossibili per trasformare un paese equel popolo. Per questo, quello diRenzi è un populismo tecnocratico:che produce quella modernizzazio-ne neoliberista che Berlusconi non èriuscito a produrre e Grillo fatica apoter produrre.

    Un populismo nel nome della tec-

    nocrazia, che la tecnocrazia ama; unpopulismo che trasforma (forse que-sta volta per davvero) il potere politi-co nel senso richiesto dalla tecnocra-zia: meno democrazia (la riformadel Senato, le proposte di nuova leg-ge elettorale); meno diritti sociali equindi politici (diventati un costo);più decisionismo; meno partecipa-zione e più adattamento alla realtàimmodificabile del mercato; menocittadinanza attiva e più accettazio-ne della ineluttabilità del reale. Per-ché le sue pratiche politiche – al dilà delle apparenze e delle discussio-ni con Angela Merkel e di alcuni in-terventi comunque virtuosi - sono

    tutte dentro alla cultura della moder-nizzazione richiesta dall’ideologianeoliberista (flessibilità del lavoro,privatizzazioni, un nuovo modo diessere imprenditori di se stessi, ridu-zione ulteriore dello stato sociale,crescita invece di sviluppo, competi-zione invece di solidarietà); e la fles-sibilità sul Fiscal compact (invecedella sua abolizione, per evidente ir-razionalità e surrealtà economica),pure invocata, è un pannicello cal-do rispetto al nuovo new deal che sa-rebbe invece necessario (e urgente).Un populismo futurista, inoltre: nelnome della velocità, delle macchi-ne, delle parole in libertà, dell’azio-ne per l’azione.

    Il populismo di Renzi è dunquepiù di un classico neopopulismo,che ha dominato la scena pertrent’anni coniugando populismo eneoliberismo, mercato e popolo, mo-dernizzazione e impoverimento e di-suguaglianze. E’ un neopopulismotecnocratico – per altro discendenzadiretta di quello neoliberista - chescardina ancor più di quello neolibe-rista le forme e le pratiche della de-mocrazia; riduce a niente la societàe la società civile; attacca il sindaca-to o lo rende inutile (in coerenzacon le tecnocrazie globali); che spet-tacolarizza se stesso proponendosicome outsider, come rottura, comealternativa, in realtà portandoci nel-la società dello spettacolo della tec-nocrazia.

    Una tecnocrazia che non si espo-ne più direttamente con i noiosi eantipatici tecnici, ma con la fantasiae l’estro di un populismo mediaticoe spettacolare, moderno e postmo-derno insieme, dove twittare è piùimportante che ascoltare.

    Claudio De Fiores

    «Portare a casa»le riforme. Qualie come, non importaLa nostra Costituzione ha bisogno di modifiche,ma la loro realizzazione dovrà rispettarelo spirito dell’articolo 138 dell’ordinamento

  • In Italia il 2014 è iniziato con il temadel «Lavoro» al centro dell’agenda po-litica. Il Jobs Act annunciato già a gen-naio si fondava su quattro pilastri: 1) ridu-zione del cuneo fiscale; 2) politica indu-striale per il manifatturiero italiano ed ilMade in Italy; 3) ricomposizione del mer-cato del lavoro tramite il contratto di lavo-ro a tutele progressive; 4) semplificazionedelle norme sul lavoro. Erano pilastri im-portanti e di buon auspicio per realizzareil cambio di verso annunciato. Dopo 120giorni di Governo Renzi, cosa è rimasto diquell’annuncio?

    Il primo pilastro è contrassegnato dalcartello «lavori in corso». Il bonus degli 80euro è appunto un bonus, non strutturalee dalle coperture incerte. Dovrà divenirestrutturale con la legge di stabilità delprossimo autunno. La riduzione dell’Irapè prevista nell’ordine del 10%, ma anchein tal caso non vi certezza sulle coperture.Tuttavia, sono passi significativi realizza-ti. Non avranno però effetti economici si-

    gnificativi nel breve periodo come lo stes-so Def2014 certifica. Il secondo pilastro èstato purtroppo abbandonato, a menoche non si ritenga che «politica industria-le» sia sinonimo di «privatizzazioni». Vi ènecessità invece di politica industrialepubblica per i settori strategici, sia tradi-zionali, maturi, sia innovativi, per realizza-re cambiamenti nei processi e nei prodot-ti, nell’organizzazione e qualità del lavo-ro, in tecnologie verdi e conoscenza, qua-li fattori cardine per contrastare la stagna-zione della produttività che frena sia lacompetitività delle imprese che le retribu-zioni dei lavoratori. Il terzo pilastro è sta-to depotenziato e rinviato al disegno dilegge delega, una volta approvata dal Par-lamento, troverà attuazione forse nel2015. Sarebbe stato auspicabile che conl’introduzione del contratto a tutele pro-gressive si segnasse una discontinuità ri-spetto al passato, andando verso una radi-cale eliminazione del supermarket delleforme contrattuali per indurre le impresead investire in capitale cognitivo ed in in-novazione organizzativa. Invece, si ipotiz-za l’introduzione in via sperimentale di

    una ulteriore modalità contrattuale, flessi-bile e graduale nelle tutele, che si aggiun-ge alle numerose forme esistenti, senzasostituirne alcuna. Si è invece intervenutia partire dal quarto pilastro, quello dellasemplificazione normativa sui contratti atempo determinato e sull’apprendistato,declinando la semplificazione in terminidi liberalizzazione. Molto si è già scrittosu ciò. Qui ci preme sintetizzare alcunequestioni.

    Anzitutto, il rischio è che, come vari giu-slavoristi hanno evidenziato, la semplifica-zione dia vita ad un percorso di contenzio-si a livello europeo, non solo nei tribunalidel lavoro italiani, in quanto la revisionedella a-causalità economica-organizzati-va contrasterebbe con importanti diretti-ve comunitarie che distinguono il contrat-to di lavoro subordinato a tempo indeter-minato, inteso come prevalente da quelloa termine. La semplificazione mirava adeliminare i contenziosi in sede nazionale,in realtà rischia di proiettarli su dimensio-ne europea. In secondo luogo, l’elimina-zione della causalità, il meccanismo diproroghe e rinnovi legati alla mansione

    più che al lavoratore, le sanzioni pecunia-rie, pongono il lavoratore stesso in unacondizione di ulteriore debolezza nei con-fronti del datore di lavoro. In aggiunta, al-tre obiezioni sono di tipo economico. Inestrema sintesi, ne indichiamo tre.

    Primo, l’idea che con maggiore flessibi-lità contrattuale si consegua una riduzio-ne della disoccupazione ed un aumentodell’occupazione non trova supporto dal-l’evidenza empirica, come mostrano pe-raltro le stesse analisi condotte dall’Oecd.Questa idea si dimostra in verità una pri-ma falsa credenza. Più che accrescere l’oc-cupazione, sembra emergere una sostitu-zione tra (minore) occupazione stabile e(maggiore) occupazione instabile. Secon-do, la maggiore flessibilità nei contratti atermine favorisce la ripetitività dei con-tratti più che la stabilizzazione degli stes-si, senza peraltro che aumenti la duratacomplessiva dello status occupazionale,mentre si riduce la retribuzione percepi-ta, come insegna anche l’esperienza spa-gnola. Quindi l’idea che maggiori oppor-tunità per un lavoro a termine accresca-no la probabilità che tale lavoro si trasfor-mi in stabile risulta una seconda falsa cre-denza. Terzo, la maggiore flessibilità delrapporto di lavoro, in uscita oltre che inentrata garantita dai contratti a termine edalle semplificazioni apportate ai contrat-ti di apprendistato, non appare positiva-mente correlata alla produttività del lavo-ro ed alla sua crescita. Anzi se una relazio-ne sussiste, è opposta a quella presunta,ovvero la riduzione delle protezioni al-l’impiego (minori tutele per il lavoratore)appare associata a riduzioni della produt-tività piuttosto che ad un suo aumento.La ragione è rintracciabile nel fatto cheforme contrattuali flessibili se da un latopossono favorire la mobilità del lavoro daimprese ed industrie poco dinamiche ver-so quelle più dinamiche, dall’altro abbas-sano la propensione ad innovare ed inve-stire sulla qualità del lavoro da parte del-le imprese, le quali cercano piuttosto ditrarre vantaggio dai minori costi del lavo-ro invece di accrescere la produttività.Per cui, che la maggiore flessibilità del la-voro porti a più produttività è la terza fal-sa credenza.

    Se questi sono i rischi che corre il no-stro paese nel proseguire lungo la stradadella flessibilità del lavoro, peraltro com-provati dall’avere coniugato dalla fine de-gli anni ’90 dosi crescenti di deregolamen-tazione del mercato del lavoro con la pro-gressiva stagnazione della produttivitàdel lavoro, non sarebbe opportuno riparti-re dalle potenzialità che potevano essererintracciate nella versione annunciata delJobs Act piuttosto che percorrere il decli-vio improntato dalla fallace idea della«precarietà espansiva»?

    I l semestre renziano coincide con l’ini-zio dell’ottava legislatura dell’Europar-lamento: dopo il voto del 25 maggio, idiversi gruppi hanno trovato la loro defini-tiva composizione e a novembre si inse-dierà ufficialmente una nuova Commissio-ne. Che, com’è noto, sarà presieduta daJean-Claude Juncker, candidato del Parti-to popolare europeo, cioè del gruppo dimaggioranza relativa: la sua nomina tieneconto, per la prima volta nella storia, del ri-sultato elettorale (come prevede l’articolo17 paragrafo 7 del Trattato Ue). Un indi-scutibile passo in avanti, che non può tut-tavia essere confuso con una piena demo-cratizzazione delle istituzioni Ue, che peressere tale dovrebbe prevedere un autenti-co «governo» dotato di un omogeneo indi-

    rizzo politico, davvero responsabile difronte alla Camera e all’opinione pubbli-ca. Ciò che la Commissione Juncker nonsarà, dal momento che sono gli Stati mem-bri a indicare – uno per ciascuno – i com-ponenti dell’esecutivo comunitario.

    La «grande coalizione», insomma, pri-ma ancora che una libera scelta di Ppe ePse (qual è, Germania docet), è una conse-guenza inevitabile della modalità di forma-zione della Commissione: saranno dun-que popolari, oltre al presidente, i com-missari tedesco (sicura la riconferma diGünther Oettinger), spagnolo, polacco egreco – per citarne alcuni –, mentre sociali-sti saranno, fra gli altri, i membri italiano efrancese. Ad ampliare lo spettro di posizio-ni rappresentate ci sarà anche un britanni-co tory (quindi del gruppo Ecr, Conserva-tori e Riformisti europei) designato da Da-vid Cameron, un premier sempre più «eu-

    roscettico», che sul tema dell’appartenen-za del Regno Unito all’Ue sa di giocarsi,l’anno prossimo, il proprio futuro politico.

    Il 16 luglio – quando tornerà a riunirsi ilConsiglio europeo dei capi di governo – sa-premo se il presidente del Consiglio italia-no l’avrà spuntata nella complessa «parti-ta delle nomine», riuscendo a conquistareil prestigioso ruolo di Alto rappresentanteper la politica estera e di sicurezza per laministra Federica Mogherini: in quella cir-costanza, salvo sorprese, dovrebbe chiarir-si definitivamente la distribuzione degli in-carichi di vertice, compreso il successoredell’impalpabile Herman Van Rompuy al-la guida del Consiglio stesso. Sarà impossi-bile non interpretare l’esito della partita apoker dei leader Ue come una misura delpeso politico di ciascuno di loro: Renzi losa, e vuole poter esibire – soprattutto aduso della tambureggiante propaganda in-terna – qualche risultato da celebrare co-me un suo (ulteriore) personale successo.

    Nell’intervento in aula a Strasburgo l’exsindaco ha mostrato di non temere il con-fronto dialettico con le posizioni dell’orto-dossia pro-austerity rappresentate dal ca-pogruppo del Ppe, il bavarese ManfredWeber, criticato con veemenza anche dalneocapogruppo socialista, il democraticoGianni Pittella. È ormai chiaro che Renzi,sull’onda del 40,8%, ha sostituito l’indebo-lito François Hollande nel ruolo di porta-bandiera del «partito della crescita» difronte all’immobilismo di Angela Merkel,ma è chiaro altrettanto che la «dialetticacrescita-stabilità» è più apparente che so-

    stanziale. Una vera svolta non ci sarà, per-ché ottenere «flessibilità in cambio di rifor-me» è poca cosa. Né una vera svolta po-trebbe esserci, dal momento che gli equili-bri di potere restano (purtroppo) quelli fo-tografati dalla grosse Koalition in salsa co-munitaria, riflessi nell’accordo politico (enon «tecnico») fra socialisti e popolari –con l’aggiunta degli immancabili reggico-da liberali. Un assetto che potrà essere al-terato davvero soltanto con l’ingresso diuna voce realmente fuori dal coro nel Con-siglio europeo: al più tardi fra l’invernodel 2015 e la primavera del 2016 andran-no alle urne Spagna e Grecia, e, sulla basedel voto del 25 maggio, è lecito sperare ri-sultati «da forze di governo» per le sini-stre anti-austerità. Nel frattempo, qualco-sa di positivo potrebbe accadere se l’Euro-parlamento – come a volte in passato è ac-caduto – innescherà qualche battaglia exparte populi contro il «circuito di gover-no» Commissione-Consiglio. Ad esem-pio, sul negoziato del Trattato di liberoscambio (Tttip) che avviene in gran segre-to sull’asse Bruxelles- Washington gli eu-rodeputati potrebbero far sentire la lorovoce: il comportamento dei socialisti – fa-vorevole al trattato con alcuni «se e ma» –sarà influenzato dall’opinione di Renzi,essendo la delegazione italiana quella piùgrande all’interno del secondo gruppoparlamentare. Un peso che nei primiscampoli di legislatura si è visto riflessonella «storica» scelta di Pittella quale nuo-vo presidente: mai prima d’ora un italia-no aveva ricoperto quel ruolo.

    Anna Maria Merlo

    VENERDÌ 4 LUGLIO 2014SBILANCIAMO L’EUROPA

    N˚23 - PAGINA III

    PARIGI

    Matteo Renzi, il cavallo su cuipuntare per cambiare l’Euro-pa? Un venticello di Renzi-mania tira in Europa. L’Italia ha lapresidenza semestrale fino a fine an-no e la retorica immaginifica del pre-sidente del consiglio italiano ha unpo’ rinfrescato, mercoledì, l’aria deidiscorsi paludati a cui ormai siamoabituati nei palazzi europei (dovepersino il jurassico Juncker viene ap-pezzato per le sue saltuarie battute).Ma riuscirà Renzi a scardinare unl’eterno compromesso europeo? Do-po le prime esplosioni di entusia-smo, cominciano i dubbi e in moltisi chiedono se c’è davvero la sostan-za. Ma Renzi è solo al comando, nelsenso che non ha più rivali per incar-nare l’offensiva contro l’austerità diMerkel: il Pd ha vinto le elezioni eportato a Strasburgo un consistentedrappello nel Pse, mentre Hollande,che aveva sollevato delle speranzenel 2012, ha subito deluso e ormai isocialisti francesi sono al sesto po-sto, dietro i rumeni. Cameron, chesul fronte della lotta all’austerità erafin dall’inizio fuori gioco, si è impan-tanato da solo nella sua battaglia con-tro la Ue.

    L’Italia è uno dei grandi paesi Ue.La presidenza greca, che ha precedu-to quella italiana, è passata senza la-sciare tracce, malgrado la situazionedrammatica di Atene.

    La Francia è in prima linea nell’in-terrogazione sull’affidabilità di Ren-zi. È a Parigi dove la Renzimania hasoffiato più forte. Al punto che c’èchi ha scritto che «Renzi è l’ultimachance di Hollande», nel senso chese non funzionerà l’asse italo-france-se per smuovere gli investimenti pro-duttivi, il presidente francese rischiadi non arrivare a fine mandato, sfidu-ciato dai cittadini. Renzi è «un allea-to, incontestabilmente» precisa unafonte dell’Eliseo. La road map è simi-le a quella di Hollande: «Un’Europapiù impegnata a favore della crescitaper correggere l’immagine istituzio-nale sinonimo di rigore» aveva dettoil presidente francese. I francesi han-no un programma di rilancio, cheHollande non è riuscito a far passa-re. Ora lo affidano all’energia di Ren-zi: 240 miliardi di euro l’anno, cioè1200 miliardi in cinque anni, per ri-lanciare l’economia, con progetti ininfrastrutture, energia, ricerca, for-mazione dei giovani e salute. A finan-ziarlo dovrebbe essere la Bei, con unapporto del risparmio privato, che inEuropa è alto (12% del pil). L’obietti-vo è costituire un «risparmio comu-ne» nella Ue da «orientare verso il fi-nanziamento delle imprese».

    Come si è visto mercoledì a Stra-sburgo dalle vive reazioni del capo-gruppo Ppe, il tedesco Manfred We-ber, la strada non è spianata in que-sta direzione. La destra francese nelnuovo parlamento ha ormai perso lapresidenza del gruppo, a causa delcrollo elettorale. Renzi si trova così adover affrontare quasi solo lo scoglioMerkel, che resta ben salda con isuoi alleati austeritari, dall’Olanda al-la Finlandia. Renzi non ha messo iguanti nel ricordare alla Germaniache nel 2003 aveva sforato i parame-tri di Maastricht: l’interpretazione èche, proprio grazie a questo sfora-mento, Berlino è oggi un’economiarisanata (c’è il pareggio di bilancio,è stato annunciato questa settima-na), con un tasso di crescita più altodei vicini e un livello di disoccupa-zione più basso. Renzi può anchescherzare sul colore della giacca scel-to dalla cancelliera per il bilateraleai margini dell’ultimo Consiglio eu-ropeo – il viola, «come la Fiorenti-na» – ma ottenere più di una leggeradilazione nei tempi del rispetto deiparametri non sarà facile. Ci sonogli interessi dei paesi: la Germanianon teme la deflazione, ha una po-polazione anziana attenta al livellodei Fondi pensione. Di qui lo scartocon la Francia, che ha una popola-zione giovane che si presenta sulmercato del lavoro e non lo trova.L’Italia, pur con una demografia incalo, ha tutti e due i problemi.

    Jacopo Rosatelli

    Paolo Pini

    VISTO DALLA FRANCIA

    Quel debole ventodi «Renzimania»contro l’austeritye la retorica paludata

    La partita a pokerdei leader UeIl 16 luglio sapremo se l’Italia avrà conquistatoil prestigioso ruolo di Alto rappresentanteper la politica estera con la nomina di Mogherini

    Lavori in corso e ripensamenti,a che punto è il Jobs Act?L’idea che con maggiore flessibilità contrattuale si conseguauna riduzione della disoccupazione ed un aumentodell’occupazione non trova supporto nell’evidenza empirica

  • Questi mesi di renzismo nellepolitiche economiche ci con-segnano una strana misceladi populismo nuovista, (a parole)rapido e antiburocratico, senza in-taccare la sostanza delle politichedi austerità di questi anni. I cambia-menti (per il momento) invocati daRenzi, anche in economia, si metto-no in sintonia con il senso comunedi un paese stanco dell'immobili-smo, delle lentezze e dell'incapaci-tà di decidere.

    Se si guarda alla sostanza, nullacambia rispetto al passato e le ri-cette sono sempre le stesse: preca-rizzazione del mercato del lavoro,privatizzazioni, riduzione dellaspesa pubblica, riduzione degli in-vestimenti pubblici, agevolazionialle imprese.

    Tutto scritto nel Def (Documentodi Economia e Finanza) dell'aprilescorso. La grande baraonda intornoalla messa in discussione in Europadelle politiche di austerità si è risol-ta in un modestissimo risultato: «il

    migliore uso della flessibilità intrin-seca al patto di stabilità». La monta-gna ha partorito un topolino. Quel-lo che Renzi ha in mente è un paeseche si fa trainare dall'export, unaspecie di Baviera con capitale Pra-to, una sorta di Hub per le piccole emedie imprese che competono sulmercato europeo e mondiale, rinun-ciando ad essere un paese che hauna politica economica, industrialee di investimenti pubblici degna diquesto nome.

    Poi c'è il resto, che attrae l'eletto-rato: l'elargizione populista (spac-ciata per redistribuzione) degli 80euro (bene per chi li prende), lo scia-bolismo antiburocratico della giun-gla della pubblica amministrazio-ne, la crociata anticasta della (po-chissime) auto blu dismesse, la sfi-da facile alle corporazioni già in gi-nocchio o la sforbiciata agli stipen-di dei grand commiss. La girandoladi annunci e micro-provvedimentispiazza la politica e e fa decollarel'immaginario dell'opinione pubbli-ca. Renzi qui colpisce efficacemen-te in superficie (con annunci e pro-clami), almeno tanto quanto nonriesce ancora a intaccare quelloche accade sotto la superficie. Co-pre con l'innovazione populistal'incapacità di rimettere in discus-sione le politiche di austerità e di ri-dare al paese una politica economi-ca di impronta diversa. Infatti, inquesti mesi non ci sono i segni diuna politica fiscale redistributiva,non ci sono misure per il rilanciodegli investimenti pubblici (i 3,7miliardi annunciati per la messa insicurezza delle scuole si sono ridot-ti a 122 milioni nel decreto Irpef),non c'è una politica di lavoro, chenon sia quella dell'ulteriore preca-

    rizzazione del mercato del lavoro.Ricetta, tra l'altro, non nuova: e no-nostante il progressivo allentamen-to delle regole e dei diritti del lavo-ro in questi anni non si sono creatipiù posti di lavoro, ma solo più di-soccupazione e precariato.

    Ma il nuovismo di superficie diRenzi potrebbe giungere presto alcapolinea. In autunno ci sarà la re-sa dei conti, forse anche prima. Al-l'inizio di agosto l'Istat ci fornirà idati del Pil nel secondo trimestre. Esaranno guai (si parla di una decre-scita del Pil con il segno meno): lacrescita dell'0,8% nel 2014 (previstodal Def) è già dunque nel libro deisogni. Questo significherà una ma-novra correttiva con la legge di sta-bilità, che dovrà prevedere anchegli stanziamenti per la stabilizzazio-ne degli 80 euro nel 2015 (14 miliar-di secondo Banca d'Italia, se si in-cludono gli incapienti) e per le altremisure previste nella legge, come le

    missioni internazionali, la cassa inderoga, il cinque per mille, ecc(qualcosa come 6-7 miliardi di eu-ro). Dove troverà tutti questi soldi?Lo stock del debito (135% sul Pil) èdestinato a crescere inesorabilmen-te, come dicono tutti gli analisti: c'èchi parla come ha fatto Federico Fu-bini di una crescita inerziale del de-bito al 150% nel 2016. E proprio daquesto aumento potrebbe arrivarelo stop dall'Europa -con la richiestadi apertura di procedura di infrazio-ne- che porrebbe fine al sogno ren-ziano. Allora, non basterebbero piùi 17 miliardi di tagli nel 2015 (previ-sti dal piano della spending reviewdi Cottarelli, comunque un piano«lacrime e sangue») e ci chiedereb-bero di intervenire ancora più dura-mente su pensioni, sanità e welfare.In questo caso non basteranno piùtweet e power point. Servirebberoinvece politiche veramente radicalie alternative all'austerità.

    I n un’intervista a Repubblica, il pri-mo giugno scorso, è stato chiesto aMarco Buti, Direttore generale pergli affari economici e finanziari dellaCommissione europea, se l’Europa insi-sterà nel pretendere dall’Italia una com-pressione dei conti pubblici in presen-za di una disoccupazione «strutturale»dell’11%. Autorevolmente è stato rispo-sto che, a differenza della Spagna, perl’Italia la stima della Commissione «èsostanzialmente corretta, è proprio tut-ta disoccupazione strutturale, o quasi»e che, se la disoccupazione dovessescendere al di sotto di quel livello, si ge-nererebbero pressioni inflazionistiche«non immediatamente quando iniziala ripresa, ma nel medio termine sì.»

    Il che significa che, fino a che la di-soccupazione rimane a questi livelli, ilgoverno italiano sarà costretto a ridur-re il deficit pubblico e a deprimere ladomanda (che, come noto, non ha perla Commissione alcun effetto rilevan-

    te). A giustificazione di questa politica,l’economista Buti raccomanda di guar-dare la Germania che «ha ridotto la di-soccupazione anche durante la crisi»;e, alla perplessità dell’intervistatoreche osserva che è difficile chiamare oc-cupazione una situazione «di 7 milionidi mini-job, quasi un quinto degli occu-pati, a 450 euro al mese», la risposta è«Beh, meglio quella che niente».

    Un’intervista istruttiva che, nellastringatezza del bravo intervistatore, of-fre alcuni spunti di grande interesse. In-nanzitutto che Marco Buti è un fiorenti-no, laureatosi in Italia, master aOxford, visiting professor in diverse uni-versità europee e che dal 1987 lavora al-la Commissione europea dove diventanel 2006 Direttore Generale aggiunto.Se si desidera un ritratto del funziona-rio che «tecnicamente» gestisce la poli-tica economica europea, la sua visione«politica» mi sembra emblematica.

    Eppure non è tedesco, ma uno deitanti italiani, spagnoli, finlandesi, porto-ghesi, francesi e anche tedeschi che,formatisi in giro per il mondo, costitui-

    scono la nuova classe (tecno)dirigenteeuropea (se non globale). Si autodefini-sce «keynesiano» (anche se «ragionevo-le») in quanto aderente a quel New Key-nesian Consensus che mi sembra ab-bia poco a che fare con Keynes.

    Basti pensare a come esprime la suasensibilità sociale e politica con tutta lafranchezza di chi non ha dubbi: l’Italianel medio periodo (5-10 anni?) nonpuò aspettarsi di adottare alcuna politi-ca economica che gli permetta di ridur-

    re la sua disoccupazione strutturale aldi sotto del 10%.

    Ovviamente, Buti sa che il 10% è unamedia, per cui quella del nostro Sudsfiora il 20%, non molto lontana daquella della Spagna (e dei problemi chesono stati posti alla Commissione per isuoi metodi di calcolo).

    Ma soprattutto sa anche che ai 3 mi-lioni di disoccupati strutturali si som-mano un certo numero di precari, inat-tivi, scoraggiati e Neet che, complessi-

    vamente, non sono molto minori diquei 7 milioni di tedeschi, senza dispor-re peraltro nemmeno dei 450 euro disussidio al mese. E, nonostante tuttoquesto, non gli sembra che questo siaun problema (dimenticando forse che,per Keynes, questo era «il» problema).

    Per una classe dirigente ragionevole(non solo italiana, ma anche europea,che nel complesso non sta molto me-glio) questa situazione dovrebbe essereda incubo. Non si sfugge allora ad alcu-ne domande nodali.

    Quando il nostro Primo Ministro, di-ce programmaticamente «prima di tut-to il lavoro» pensa a soluzioni diverseda quelle della dirigenza europea? Ritie-ne di continuare a non voler avanzare –come sostiene Buti – alcuna contesta-zione su una metodologia e una politi-ca economica così «recessiva»?

    Crede che il problema dell’occupa-zione si risolva tutto dal lato dell’offer-ta, ovvero che, sebbene non abbia pro-dotto un posto di lavoro in più, «la stra-da è quella … delle riforme del mercatodel lavoro» (Buti, Commissione euro-pea, dixit)?

    Pensa che politiche di aumento dellaproduttività e di riduzione del costo dellavoro, per quanto necessarie alla cre-scita della produzione, siano le sole ingrado di risolvere nel medio e lungo pe-riodo il problema della crescita dell’oc-cupazione (nel breve – 2/3 anni – nes-suno si azzarda a sperare in qualcosadi più del contenimento delle perditedi occupazione)?

    Ma soprattutto, ritiene che attraver-so queste politiche si possa frenare ildeterioramento/precarizzazione dellerelazioni sociali? Penso che queste sia-no le questioni decisive e urgenti; il se-mestre italiano può essere l’occasioneper chiarire se la visione renziana dellasocietà italiana futura si differenzia, co-me e quanto, da quella dei nostri tecno-crati europei.

    VENERDÌ 18 APRILE 2014SBILANCIAMO L’EUROPAN˚13 - PAGINA IV

    VENERDÌ 4 LUGLIO 2014SBILANCIAMO L’EUROPAN˚14 - PAGINA IV

    Giulio Marcon

    Lavoro: Marco Butiversus Renzi. O no?Il Direttore per gli affari economici della Commissioneeuropea raccomanda di guardare alla Germaniache «ha ridotto la disoccupazione durante la crisi»

    Un’idea di Bavieracon Prato capitaleIl premier ha in mente un Paese trainato dall'exportsenza una politica economica, industriale e di investimenti

    Claudio Gnesutta