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1 Capitolo estratto dal Manuale di diritto privato europeo, a cura di C. Castronovo e S. Mazzamuto, II ed., in corso di pubblicazione. RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE di Salvatore Mazzamuto SOMMARIO: 1. Il quadro normativo: gli art. 340, co. 1. e 270 tr. fue e lo Statuto dei funzionari dell'Unione europea 2. La giurisprudenza della Corte europea di giustizia 3. L’obbligazione, l’adempimento in natura e il vincolo di responsabilità. – 4. Il fondamento della responsabilità 5. La distinzione tra «obbligazioni di risultato» e «obbligazioni di mezzi» 6. L’esonero dalla responsabilità – 7. Il danno non patrimoniale da inadempimento e il ruolo degli obblighi di protezione. 1. Il diritto privato europeo sfiora il tema della responsabilità contrattuale senza affrontarlo direttamente. Applicando lo schema della suddivisione del diritto privato europeo in cinque piani utilizzato per la trattazione della responsabilità extracontrattuale [Cap. Resp. civ.-1], emerge che il primo e il secondo livello, costituiti dal diritto unitario primario e secondario, non sono certo prodighi di disposizioni dedicate specificamente alla responsabilità contrattuale. L'art. 340 tr. fue si limita infatti a riconoscere la distinzione della responsabilità civile nelle due specie, contrattuale e extracontrattuale, e, mentre per quest'ultima vengono individuati come principale fonte di disciplina i principi generali comuni ai diritti degli Stati membri (art. 340, commi 2 e 3, tr. fue) [Cap. Resp. civile], per la responsabilità contrattuale la soluzione normativa è sostanzialmente classica, rinviando, secondo la tradizione internazionalprivatistica, alla legge applicabile al contratto da cui scaturisce il rapporto da disciplinare (art. 340, comma 1, tr. fue). Non che il riconoscimento della partizione in due forme di responsabilità costituisca una presa di posizione di scarsa portata, tenuto conto che in Europa è sempre stata presente [J. Grandmoulin, De l'u n , Rennes, 1892] ed è ancora viva [per un ridimensionamento della distinzione cfr. variamente G. Viney-P. Jourdain, Les conditions de la responsabilité 3 , in Traité de droit civil, sous la direction de Jacques Ghestin, Paris, 2006; F.D. Busnelli, Verso un possibile riavvicinamento tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, in Resp. civ. prev., 1977, 748 ss.; F. Giardina, Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale. Significato attuale di una distinzione tradizionale, Milano, 1993; G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore 2 , in Il Codice civile. Comm. Schlesinger continuato da F.D. Busnelli, Milano, 2006, 42 ss.] una linea di pensiero che propende per la riconduzione di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ad un unico ceppo, propugnando la riduzione della disciplina positiva a un regime unitario. Le ragioni che, specie di recente, alimentano la spinta al superamento della distinzione vanno ricercate nell'emersione di fattispecie sempre più numerose al confine tra due responsabilità, o per meglio dire ipotesi difficilmente riconducibili alle concezioni tradizionali delle due forme di responsabilità [V. per due approcci antitetici F.D. Busnelli, Itinerari europei nella «terra di nessuno tra contratto e illecito civile»: la responsabilità da informazioni inesatte, in Contr. impr., 1991, 539 ss.; C. Castronovo, La nuova responsabilità civile 3 , Milano, 2006, 443 ss.]. Il prototipo delle fattispecie controverse è rappresentato dalla culpa in contrahendo ma nel tempo il novero si è ingrossato: basti pensare alla responsabilità da prospetto, alla responsabilità del medico dipendente, alla responsabilità dell'insegnante per atti di autolesionismo dello studente, sino alla responsabilità della pubblica amministrazione. Un altro fattore che da sempre esercita una certa pressione sulla distinzione tra le due specie di responsabilità è costituito dall'estensione della responsabilità contrattuale in ambiti tradizionalmente propri della responsabilità aquiliana, come la tutela della persona o dei

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Capitolo estratto dal Manuale di diritto privato europeo, a cura

di C. Castronovo e S. Mazzamuto, II ed., in corso di

pubblicazione.

RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE

di Salvatore Mazzamuto

SOMMARIO: 1. Il quadro normativo: gli art. 340, co. 1. e 270 tr. fue e lo Statuto dei funzionari dell'Unione europea – 2. La giurisprudenza

della Corte europea di giustizia – 3. L’obbligazione, l’adempimento in natura e il vincolo di responsabilità. – 4. Il fondamento della responsabilità

– 5. La distinzione tra «obbligazioni di risultato» e «obbligazioni di mezzi» – 6. L’esonero dalla responsabilità – 7. Il danno non patrimoniale da inadempimento e il ruolo degli obblighi di protezione.

1. Il diritto privato europeo sfiora il tema della responsabilità contrattuale senza affrontarlo

direttamente. Applicando lo schema della suddivisione del diritto privato europeo in cinque piani

utilizzato per la trattazione della responsabilità extracontrattuale [Cap. Resp. civ.-1], emerge che

il primo e il secondo livello, costituiti dal diritto unitario primario e secondario, non sono certo

prodighi di disposizioni dedicate specificamente alla responsabilità contrattuale. L'art. 340 tr. fue

si limita infatti a riconoscere la distinzione della responsabilità civile nelle due specie,

contrattuale e extracontrattuale, e, mentre per quest'ultima vengono individuati come principale

fonte di disciplina i principi generali comuni ai diritti degli Stati membri (art. 340, commi 2 e 3,

tr. fue) [Cap. Resp. civile], per la responsabilità contrattuale la soluzione normativa è

sostanzialmente classica, rinviando, secondo la tradizione internazionalprivatistica, alla legge

applicabile al contratto da cui scaturisce il rapporto da disciplinare (art. 340, comma 1, tr. fue).

Non che il riconoscimento della partizione in due forme di responsabilità costituisca una presa di

posizione di scarsa portata, tenuto conto che in Europa è sempre stata presente [J. Grandmoulin,

De l'u n

, Rennes, 1892] ed è ancora viva [per un ridimensionamento della distinzione cfr.

variamente G. Viney-P. Jourdain, Les conditions de la responsabilité3, in Traité de droit civil,

sous la direction de Jacques Ghestin, Paris, 2006; F.D. Busnelli, Verso un possibile

riavvicinamento tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, in Resp. civ.

prev., 1977, 748 ss.; F. Giardina, Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale.

Significato attuale di una distinzione tradizionale, Milano, 1993; G. Visintini, Inadempimento e

mora del debitore2, in Il Codice civile. Comm. Schlesinger continuato da F.D. Busnelli, Milano,

2006, 42 ss.] una linea di pensiero che propende per la riconduzione di responsabilità

contrattuale ed extracontrattuale ad un unico ceppo, propugnando la riduzione della disciplina

positiva a un regime unitario. Le ragioni che, specie di recente, alimentano la spinta al

superamento della distinzione vanno ricercate nell'emersione di fattispecie sempre più numerose

al confine tra due responsabilità, o per meglio dire ipotesi difficilmente riconducibili alle

concezioni tradizionali delle due forme di responsabilità [V. per due approcci antitetici F.D.

Busnelli, Itinerari europei nella «terra di nessuno tra contratto e illecito civile»: la

responsabilità da informazioni inesatte, in Contr. impr., 1991, 539 ss.; C. Castronovo, La nuova

responsabilità civile3, Milano, 2006, 443 ss.]. Il prototipo delle fattispecie controverse è

rappresentato dalla culpa in contrahendo ma nel tempo il novero si è ingrossato: basti pensare

alla responsabilità da prospetto, alla responsabilità del medico dipendente, alla responsabilità

dell'insegnante per atti di autolesionismo dello studente, sino alla responsabilità della pubblica

amministrazione. Un altro fattore che da sempre esercita una certa pressione sulla distinzione tra

le due specie di responsabilità è costituito dall'estensione della responsabilità contrattuale in

ambiti tradizionalmente propri della responsabilità aquiliana, come la tutela della persona o dei

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beni già acquisiti al patrimonio, e qui i terreni dello scontro sono alcuni tipi contrattuali nei quali

la persona e i suoi beni sono più fortemente implicati, come ad es. il contratto di lavoro, il

contratto di trasporto, il contratto di albergo e il contratto di viaggio. Sul riconoscimento della

distinzione tra le due forme di responsabilità conviene, però, rinviare ad un altro luogo del

Manuale [Cap. Resp. civ.-2] e comunque ci si tornerà nel prosieguo del presente capitolo.

Gli art. 340, comma 4, e 270 tr. fue sono correlati in quanto il primo prevede la

responsabilità contrattuale degli agenti dell'Unione europea e la assoggetta allo statuto dei suoi

funzionari [reg. 31 (C.E.E.) e 11 (C.E.E.A.)], mentre il secondo riconosce alla Corte di giustizia

la competenza in materia di controversie tra l'Unione europea e tali figure. Lo statuto non delinea

una disciplina compiuta della responsabilità contrattuale dei funzionari, ma dagli artt. 11 e ss.

emerge chiaramente il collegamento tra la responsabilità e l'inadempimento degli obblighi

nascenti dal contratto che lega l'agente all'Unione. Gli art. 21 e 22 statuto approntano poi una

rudimentale disciplina della responsabilità che ruota attorno alla violazione dei compiti assegnati

al funzionario (art. 21, comma 1), anche nel caso di fatto imputabile ai suoi ausiliari (art. 21,

comma 2), e al concetto di colpa grave del funzionario «commessa nell'esercizio o in occasione

dell'esercizio delle sue funzioni» (art. 22, comma 1). Il riferimento alla colpa grave è improvvido

perché legittima la convinzione che l'inadempimento debba essere corredato dalla negligenza,

dall'imprudenza o dall'imperizia, oppure dalla violazione di regole di condotta legali, per

generare responsabilità; mentre ciò non è affatto necessario in quanto l'inadempimento

costituisce una qualificazione, quella connessa alla mancata o inesatta attuazione degli propri

obblighi, onnicompresiva ai fini della responsabilità, tale quindi da non richiedere alcun criterio

di imputazione aggiuntivo, come il dolo o la colpa [L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e

obbligazioni «di mezzi» (Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, I, 185 ss., in part. 193-194,

198 ss., 375-376, ora Id., Scritti. II. Obbligazioni e negozio, a cura di C. Castronovo-A.

Albanese-A. Nicolussi, Milano, 2011, 141 ss.; Id., Responsabilità contrattuale (dir. vig.), in Enc.

dir., XXXIX, Milano, 1988, 1087 ss.; A. di Majo, Delle obbligazioni in generale, in Comm.

Scialoja-Branca, a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1988, 480 nt. 7; Id., La responsabilità

contrattuale, Torino, 2007, 44-45; C. Castronovo, La responsabilità per inadempimento da Osti

a Mengoni, in Europa dir. priv., 2008, 1 ss., in part. 6-7; Id., La nuova responsabilità civile, cit.,

455 ss., 555 ss.; S. Mazzamuto, Equivoci e concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il

dibattito sulla vendita dei beni di consumo, in Europa dir. priv., 2004, 1059, 1068 ss., in part.

1074; A. Nicolussi, Il commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di

risultato e obbligazioni di mezzi, in Europa dir. priv., 2006, 797-798; Visintini, Inadempimento e

mora del debitore, cit., 130-131, 162 ss.; F. Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale,

Napoli, 2011, 630 ss.; Id., Sulla natura non colposa della responsabilità contrattuale, in Europa

dir. priv., 2011, 1019 ss.]. Al di là dell'infelice formulazione, l'art. 22, comma 1, statuto vuole

forse attenuare il rigore della responsabilità del funzionario e, quindi, il riferimento alla colpa

grave va più correttamente inteso come un inadempimento di particolare rilievo. Una conferma

sembra trarsi dall'art. 51, comma 1, statuto che regola, nell'ambito delle cause di scioglimento del

rapporto contrattuale tra funzionario e Unione, il licenziamento e che lo subordina non già ad un

singolo atto di inadempimento, magari di portata sufficientemente significativa, ma

all'"insufficienza professionale" del funzionario: sintagma piuttosto ambiguo al punto da poter

giustificare un'interpretazione che subordini il licenziamento a una serie di condotte di

inadempimento sintomatica dell'inadeguatezza del debitore.

Dal piano del diritto unitario secondario provengono indicazioni giusto un po' più

significative: la dir. 90/314 del Consiglio, del 13 giugno 1990, concernente i viaggi, le vacanze

ed i circuiti «tutto compreso» contiene infatti la più compiuta regolazione della responsabilità per

inadempimento. L'art. 5, comma 1, dir. 90/314 prevede infatti la possibilità di rendere

responsabili dell'inadempimento del contratto tanto l'organizzatore quanto il venditore del

pacchetto oppure entrambi, per inadempimenti proprio o dei loro ausiliari (su questa secondo

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ipotesi v. Cass. 11 dicembre 2012 n. 22619, in Contratti, 2013, 667 ss., con nota di F. Romeo,

Pacchetto turistico "all inclusive" e responsabilità del tour operator per i danni causati al turista

dal terzo prestatore di servizi e in NGCC, 2013, I, 538b s., con commento di E. Ruffo,

Responsabilità del tour operator in caso di trasporto sostitutivo), salva la rivalsa [Cap. Contratto

viaggio-], e - che è poi quel che più conta in questa sede - presenta la responsabilità come la

conseguenza dell'inadempimento totale o dell'adempimento inesatto di tali soggetti. Peraltro,

l'interpretazione prevalente concepisce in termini piuttosto ampi i presupposti di tale

responsabilità e li individua non soltanto nell'inadempimento delle prestazioni previste dal

contratto, ma anche di quelle accessorie promesse dall'operatore turistico anche mediante

l'opuscolo informativo, nonché nell'omissione di informazioni rilevanti ulteriori (Cass. 20 marzo

2012 n. 4372, in Danno resp., 2012, 846 s., con commento di L. Caputi, Inadempimento

dell'organizzatore di viaggi, attuazione della finalità turistica e tutela del consumatore). L'art. 5,

comma 2, dir. 90/314 completa il quadro con la disciplina dell'esonero dalla responsabilità,

affidato alla categoria della non imputabilità dell'inadempimento o dell'inesatto adempimento a

colpa dell'organizzatore, del venditore o dei loro ausiliari. La formula - come di frequente accade

con la produzione normativa dell'Unione europea - è discutibile ma la successiva specificazione

della categoria della non imputabilità fornita dalla medesima disposizione esclude il rischio di

eccessiva enfasi sulla colpa e, soprattutto, respinge l'identificazione del limite della

responsabilità tanto con la diligenza quanto con la impossibilità soggettiva. L'art. 5, comma 2,

dir. 90/314 declina infatti la non imputabilità identificandola con eventi ben più significativi

dell'assenza di colpa come: a) il fatto del consumatore che ha inciso sull'esatta esecuzione del

contratto; b) il fatto del terzo imprevedibile o inevitabile e infine c) la forza maggiore,

identificata dall'art. 4, comma 6, lett. ii) con le «circostanze esterne a chi le adduce, anormali e

imprevedibili, le cui conseguenze non si sarebbero potute evitare nonostante ogni diligenza

impiegata», oppure il caso fortuito ossia l'evento imprevedibile con la dovuta diligenza. Sempre

l'art. 5, comma 2, dir. 90/314 prevede inoltre la risarcibilità dei danni sia patrimoniali sia non e,

con riguardo a questi ultimi, preclude il ricorso a clausole negoziali di limitazione [Cap. Contr.

viaggio].

Un altro segmento significativo del diritto privato europeo in materia di responsabilità

contrattuale è senza dubbio la normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali:

dapprima la 00/35 e ora la dir. 11/7 [G. Spoto, La nuova direttiva contro i ritardi di pagamento

della P.A., in Contr. impr., 2012, 443 ss.; F. Taglialavoro, La nuova direttiva europea in materia

di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in NLCC, 2012, 1233 ss.; A.

Canavesio, La nuova direttiva 2011/7 in tema di lotta contro i ritardi di pagamento nelle

transazioni commerciali: prospettive di recepimento, in Contr. impr./Europa, 2011, 447 ss.]

hanno disciplinato la mora debendi nei rapporti contrattuali tra imprese ovvero tra imprese e

pubbliche amministrazioni che abbiano ad oggetto la fornitura di merci o la prestazione di servizi

dietro pagamento di un corrispettivo, inasprendo a favore del creditore adempiente (artt. 3,

comma 1, lett. a) e 4, comma 1, lett. c) dir. 11/7) il tasso degli interessi di mora, pari al tasso di

riferimento maggiorato di almeno otto punti percentuali. L'art. 6 dir. 11/7 prevede inoltre il

rimborso - la disposizione invero parla di risarcimento - delle spese di recupero delle somme

dovute, il cui importo forfettario minimo è pari a 40 euro. Inoltre l'art. 7, comma 1, dir. 11/7

connette alle clausole contrattuali o alle prassi relative al termine di pagamento o al tasso degli

interessi di mora gravemente inique i rimedi dell'inefficacia o del risarcimento del danno.

Com'è noto, larga parte della produzione normativa unitaria tocca la materia del contratto

e, tuttavia, non vi sono altri provvedimenti che affrontino specificamente il tema

dell'inadempimento e della conseguente responsabilità, nonostante la sua evidente implicazione

con la quasi totalità degli interventi normativi via via susseguitisi nel tempo. Si sarebbe quasi

indotti a sostenere che la responsabilità da inadempimento costituisca una nozione giuridica

presupposta, il che peraltro giustificherebbe un approccio analogo a quello che l'art. 340 tr. fue

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accoglie in materia di responsabilità extracontrattuale, ossia l'individuazione dei tratti dell'istituto

comuni alle principali tradizioni giuridiche europee. Ad ogni modo, dal quadro normativo

ricostruito emergono degli elementi minimi che possono costituire l'intelaiatura della

responsabilità contrattuale di diritto europeo: a) la preesistenza di un obbligo; b) la derivazione

dalla violazione di quest'ultimo, nella triplice connotazione dell'inadempimento assoluto,

dell'adempimento inesatto e del ritardo; c) l'effetto giuridico identificato nell'obbligazione di

risarcimento del danno; d) la risarcibilità non soltanto del danno patrimoniale ma anche di quello

alla persona.

Una conferma in tal senso deriva da quell'ulteriore piano del diritto privato europeo

rappresentato dal diritto di libera formazione che è venuto producendosi in vista di un diritto

uniforme europeo di portata generale ossia dai PDEC e dal DCFR. I PDEC contengono una

disciplina vasta e analitica della responsabilità contrattuale che si apre con l'ampio Capitolo,

l'VIII, dedicato all'inadempimento, nel quale vanno segnali, in particolare, gli articoli dedicati

all'inadempimento essenziale (art. 8:103), all'adempimento sanante (art. 8:104) e soprattutto

all'esonero dalla responsabilità (art. 8:108). Quest'ultima disposizione si rivela cruciale a causa

dell'individuazione del limite della responsabilità nella sopravvenienza che travalica la sfera di

controllo del debitore o che non è inclusa nell'alea del contratto e si presenta imprevedibile o

inevitabile. L'art. 9:103 PDEC sancisce poi l'indipendenza del rimedio risarcitorio rispetto a

quello dell'adempimento in natura, sicché precluso il secondo nei casi previsti dall'art. 9:102,

comma 2, PDEC resta pur sempre invocabile il primo. Gli artt. 9:501 ss. PDEC approntano

infine la disciplina del risarcimento, sancendo tra le altre cose: l'inclusione nell'area del

risarcimento anche dei danni non patrimoniali e del danno futuro ragionevolmente prevedibile

(art. 9:501, comma 2); il criterio della prevedibilità del danno al momento della conclusione del

contratto (art. 9:503); quello del concorso del creditore nella produzione del danno (art. 9:504) e

quello della limitazione ad opera sempre del creditore. Un particolare rilievo riveste l'art. 9:502

PDEC, il quale delinea la funzione di attuazione per equivalente svolta dalla responsabilità

contrattuale per il tramite del risarcimento: la disposizione prevede infatti che l'ammontare del

risarcimento vada quantificato in maniera tale da «mettere il danneggiato il più possibile nella

posizione nella quale si sarebbe trovato se il contratto fosse stato esattamente eseguito».

Altrettanto analitico, se non addirittura di più, si presenta il DCFR, il cui Capitolo IV del

Libro III è interamente dedicato ai rimedi contro l'inadempimento. La disciplina ricalca

integralmente quella dei PDEC e al risarcimento del danno sono dedicati gli artt. III-3:701 ss.

Largamente tributaria dell'elaborazione trasfusa nei PDEC prima e nel DCFR poi è la

proposta di regolamento per un common european sales law (CESL). Il contesto è meno

ambizioso rispetto ai primi due testi perché - come si è già chiarito [...] - là si è al cospetto di

progetti di codificazione unitaria europea mentre qui si è in presenza della regolazione unitaria

del solo contratto di vendita, per di più di carattere non vincolante ma, come si è soliti dire,

opzionale. La Parte VI, Capitolo 16, della proposta affronta tuttavia la materia del risarcimento

in termini non dissimili da quanto contenuto nei PDEC e nel DCFR; ma l'orizzonte più ristretto

del CESL incide anche sulle regole di responsabilità, determinando, ad es., l'eliminazione

dall'art. 159, norma di apertura della disciplina del risarcimento, del riferimento al danno non

patrimoniale.

2. Un posto a sé va dedicato alla giurisprudenza della Corte di giustizia, non foss'altro per

il ruolo giocato all'interno dell'ordinamento dell'Unione europea, il quale può a tutti gli effetti

essere definito misto: in parte fondato sul diritto scritto e in parte judge made. Nella materia della

responsabilità contrattuale la giurisprudenza non fornisce però indicazioni più significative di

quelle offerte dalla legislazione. Al riguardo vanno segnalate soprattutto due sentenze: la prima

investe la responsabilità precontrattuale ma indirettamente fornisce un orientamento sulla

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concezione che i giudici europei nutrono del contratto e di conseguenza della responsabilità da

inadempimento; mentre la seconda concerne i rimedi in natura e risarcitorio contro le violazioni

della disciplina sugli appalti pubblici da parte dell'amministrazione aggiudicatrice.

La prima sentenza è stata emessa nel noto caso Tacconi c. Wagner (Ceg 17 settembre 2002

C-334/00) e la questione ruota intorno all'interpretazione dell’art. 5 della Convenzione di

Bruxelles del 27 settembre 1968, divenuta reg. 01/44, sulla competenza giurisdizionale in

materia civile e commerciale. Il nodo è rappresentato dall'inclusione o meno della responsabilità

precontrattuale nella «materia contrattuale» oppure in quella del fatto illecito, con conseguenze

diverse sul fronte dell'individuazione del giudice competente, e la Corte scioglie l'interrogativo

facendo leva su una concezione tradizionale del contratto come atto sicché tutte le condotte che

ne precedono il perfezionamento vanno considerate sottratte all'area della relativa responsabilità

e incluse invece in quella della responsabilità aquiliana [Cap. Resp. precontrattuale-3]. La

soluzione è criticabile sotto più profili e vi si procederà nell'apposito capitolo, ma in questa sede

va segnalata la corrispondenza biunivoca tra contratto e responsabilità contrattuale instaurata

dalla Corte di giustizia, il che costituisce una posizione primordiale gravemente arretrata rispetto

alle acquisizioni del dibattito teorico europeo, specie tedesco e italiano sull'esempio del diritto

romano classico, nel quale il termine contractus designava tutte le obbligazioni diverse dal

risarcimento del danno per responsabilità ex delicto. Il sintagma "responsabilità contrattuale"

rappresenta infatti una sineddoche [Mengoni, Responsabilità contrattuale, cit., 1072]: indica il

tutto tramite una sua parte e il tutto è costituito dall'inadempimento di un'obbligazione quale che

ne sia la fonte mentre la parte consiste nelle obbligazioni ex contractu, le quali sono

indiscutibilmente le più significative dal punto di vista tanto economico quanto dogmatico.

La seconda sentenza è stata resa nel caso Graz Stadt c. Strabag AG ed altri (Ceg 30

settembre 2010 n. C-314/09 in Europa dir. priv., 2011, 313 ss. con nota di L. Guffanti Pesenti) e

riguarda la portata della dir. 89/665, la quale coordina le disposizioni legislative, regolamentari e

amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione

degli appalti pubblici di forniture e di lavori e che è stata poi modificata dalla dir. 07/66. La

Corte di giustizia stabilisce in particolare che la dir. 89/665 impedisce di fondare il risarcimento

del danno da violazione della disciplina sugli appalti pubblici sulla colpa, anche nella forma più

agevole per la controparte della presunzione di colpa. Ovviamente la Corte nulla dice sulla

natura di tale forma di responsabilità e, com'è noto, una lunga e radicata tradizione di pensiero

colloca la responsabilità della p.a. nell'alveo della responsabilità aquiliana, eppure la circostanza

che l'art. 2, comma 1, dir. 89/665, ora riprodotto nell'art. 2, comma 1, dir. 07/66 venga

interpretato nel senso dell'attribuzione al soggetto leso dalla violazione della disciplina sugli

appalti pubblici anche del rimedio in forma specifica [v. art. 124 cod. proc. amm.], a fianco

dell'annullamento del provvedimento e del risarcimento del danno, dovrebbe sollecitare una

riconsiderazione dell'inquadramento sistematico della condotta illegittima della p.a. [sul punto, in

maniera poco convincente, R. Giovagnoli, Tutela in forma specifica e tutela per equivalente

dell'interesse all'aggiudicazione, in Urb. app., 2011, 409 ss.].

Si tratta con ogni evidenza di due pronunce eccentriche rispetto al tema della responsabilità

contrattuale, ma ciononostante espressive di due tendenze del diritto privato europeo sul punto

che suscitano giudizi diametralmente opposti: l'incardinamento della responsabilità per

inadempimento nel contratto e non già in un'obbligazione nascente anche da altre fonti va

guardato con sfavore; mentre è positivo il ridimensionamento del ruolo della colpa perché

sintomatico di una configurazione più rigorosa del giudizio di responsabilità contrattuale.

3. L’ancoraggio direttamente al contratto della responsabilità da inadempimento costituisce

la conseguenza inevitabile della ricerca di un terreno comune alle tradizioni continentali e al

common law inglese. In quest’ultimo, l’istituto dell’inadempimento e della connessa

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responsabilità rappresenta, infatti, un capitolo della più ampia materia del contratto e la ragione è

duplice: per un verso, la nozione di contratto ruota attorno al concetto di promise [F. Pollock,

Principles of Contract13

, London, 1936, 1], ossia di dichiarazione vincolante, al punto che in

alcune definizioni del contract la promise non si limita a rappresentarne uno degli elementi

costitutivi ma addirittura vi si identifica, dando vita agli unilateral contract che in una certa

misura corrispondono alle promesse unilaterali della tradizione continentale [v. G. Gorla, Il

contratto, I, Milano, 1954, passim, in part. 340 ss.; G. Alpa, Contratto nei sistemi di common

law, in Digesto disc. priv., sez. civ., IV, Torino, 1989, 148 ss.]; e, per altro verso, gli effetti del

contratto vengono per lo più identificati con vincoli che ricalcano quella figura che nella

tradizione continentale è indicata col termine obbligazione. Una sovrapposizione analoga tra

contratto e responsabilità da inadempimento non si giustifica nei sistemi continentali a causa

della pluralità degli effetti del contratto: non soltanto obbligazioni o comunque vincoli di azione,

ma anche effetti reali e di garanzia. Queste ultime due categorie non si prestano a suscitare

responsabilità contrattuale poiché alla base di quest’ultima sta la violazione di una regola di

azione che non si rintraccia invece né nell’effetto reale, a causa del principio consensualistico

che accomuna titulus adquirendi e modus adquirendi, né nell’effetto di garanzia, a causa

dell’automatismo che lo governa legando ad un presupposto una determinata conseguenza.

L’intera evoluzione moderna della responsabilità contrattuale presuppone, invece, l’esistenza di

una regola di azione, ossia l’obbligazione, e si arresta dinanzi all’impossibilità di compiere la

condotta necessaria. Non a caso uno dei massimi studiosi europei della responsabilità

contrattuale ne fornisce una definizione che postula la corrispondenza biunivoca con

l’obbligazione tale per cui «la responsabilità contrattuale nasce all’interno di un rapporto

obbligatorio già costituito, nel quale inerisce un obbligo di risarcimento del danno in luogo, o

accanto al, dovere primario di prestazione, rendendo attuale il vincolo del patrimonio del

debitore a garanzia dell’adempimento» [Mengoni, Responsabilità contrattuale, cit., 1072].

Non va sottaciuta, tuttavia, la tendenza diffusa in Europa a rompere tale connubio,

riconnettendo direttamente la responsabilità al contratto e ciò anche in ambienti come quello

tedesco o italiano nei quali mancano quei presupposti – segnalati in apertura – che giustificano il

collegamento nell’area di common law. Emblematico di questa tendenza è il dibattito sulle

conseguenze del difetto di conformità nella vendita di beni di consumo, dove si tenta di ancorare

la responsabilità ad un vincolo, quello del venditore-professionista, nel quale è per lo meno

dubbia la configurabilità di una regola di azione dotata della struttura di obbligazione [Cap

vendita]. Né lo scenario si schiarisce alla luce della già segnalata predominanza del modello

della vendita ed anzi, a seguito del declassamento del DCFR a proposta di regolamento di

common european sales law, trova conferma la tesi secondo cui il diritto privato europeo è

prevalentemente diritto europeo della vendita. Non a caso in una delle più recenti ricostruzioni

della responsabilità contrattuale si segnala la sostanziale sinonimia delle espressioni

"inadempimento dell'obbligazione" e "violazione del contratto", tanto più se si allarga la

prospettiva al diritto europeo nel tentativo di elaborare un quadro concettuale comune [A. di

Majo, La responsabilità contrattuale, Torino, 2007, 4-6].

Se nelle tradizioni francese (art. 1147 Code civil), tedesca (§ 276), italiana (art. 1218 c.c.),

spagnola (art. 1101 Código civil) la responsabilità costituisce un effetto dell'obbligazione, in

quella di common law la responsabilità – come già detto – è posta in presa diretta con il

contratto. L'apparente contraddizione si scioglie se si scende sul terreno del meccanismo di

funzionamento della responsabilità. Com'è noto, la responsabilità è un meccanismo di traslazione

del costo di un danno a seguito dell’imputazione ad un soggetto assunto come responsabile. Il

criterio di imputazione consiste in un dispositivo deontico che fornisce un metro di valutazione

della condotta. Una tradizione di pensiero europea assai risalente, che ha trovato in von Jhering

uno dei massimi interpreti [R. von Jhering, Das Schuldmoment im römischen Privatrecht

(Leipzig 1967), in Vermischte Schriften juristischen Inhalts, Leipzig, 1879 155 ss. S., in part.

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7

199 ss.], individua tale regola/parametro nella colpa, intesa come violazione delle regole di

diligenza, prudenza e perizia, ossia di regole di condotta, e già questa soluzione conferma la

consustanzialità tra azione e responsabilità: il brocardo che sintetizza la centralità della colpa

suona «ohne Schuld keine Haftung». Le vie della responsabilità si sono poi indirizzate anche

verso meccanismi di traslazione del danno assai differenti come quello del rischio o del cheapest

cost avoider, che sono andati affiancandosi alla colpa dando vita alla responsabilità oggettiva.

Anche in questo caso, nonostante l'abbandono della prospettiva del disvalore della condotta che

invece anima la colpa, si è al cospetto di criteri che presuppongono regole di azione. Tuttavia,

nella responsabilità contrattuale non si è semplicemente e direttamente al cospetto di un danno

da imputare, ma si guarda ad un regolamento di azione che coinvolge più soggetti determinati e

che risulta non realizzato o attuato in maniera imperfetta. E il danno consiste innanzitutto nel

valore economico del risultato che quel regolamento avrebbe dovuto far conseguire. Nella

tradizione giuridica di civil law il giudizio di responsabilità si concentra sul versante degli effetti

del regolamento di azione, vale a dire l'obbligazione che, per l'appunto, rappresenta una

conseguenza coincidente con una condotta dovuta in vista di un fine; mentre nella tradizione

giuridica di common law il medesimo giudizio di responsabilità si incentra sul titolo del

regolamento di azione, vale a dire il contratto. Nonostante la diversa prospettiva, resta il dato

comune della preesistenza di un regolamento di azione tra soggetti determinati, al cui fallimento

consegue la responsabilità, secondo il processo che verrà illustrato da qui a poco, ed è questo il

profilo che evidenzia la caratteristica più vistosa della responsabilità contrattuale: la previa

sussistenza di un rapporto giuridico di natura cogente.

Resta un profilo di ambiguità: il contratto è fonte di obbligazioni ma anche di ulteriori

effetti che nulla hanno a che vedere con una condotta giuridicamente necessaria ad un fine,

sicché permane la possibilità che l'ancoraggio al contratto sospinga la responsabilità contrattuale

oltre il perimetro della disciplina dell'azione. Qui però soccorre la seconda e assai significativa

caratteristica della responsabilità contrattuale: il suo limite universalmente individuato

nell'impossibilità di porre in essere l'azione dovuta a causa di un fattore esterno non imputabile.

Finché la responsabilità contrattuale incontrerà il limite dell'impossibilità di conseguire il

risultato dovuto e finché l'impossibilità verrà concepita come un attributo dell'azione e non già

come l'impedimento di qualsivoglia effetto giuridico, anche non si tratti della conseguenza di una

condotta dovuta, la responsabilità non potrà che poggiare su di una regola d’azione violata. E,

allora, assume soltanto il significato di una convenzione linguistica l'indicare tale violazione

come inadempimento di un'obbligazione o di un obbligo di protezione oppure come violazione

del contratto, dove però il presupposto implicito è ovviamente che si tratti di un contratto ad

effetti obbligatori. Varcando la linea dell'impossibilità o - il che è lo stesso - riconcettualizzando

quest'ultima come l'impedimento di una qualsiasi modificazione giuridica, l'effetto è di slegare la

responsabilità contrattuale dall'azione e la conseguenza ulteriore consisterebbe nel trasformarla

in un giudizio inesorabile, perché sprovvisto di causa di esimente.

La semplificazione dei dispositivi giuridici che sembra caratterizzare questa nostra epoca e

che prende forma nella preferenza accordata agli automatismi non merita di essere applicata alla

struttura della responsabilità contrattuale, della quale va invece ribadita la caratteristica di

conseguire alla violazione di un vincolo di azione di contenuto determinato e finalizzato al

conseguimento di un fine specifico quando tale violazione genera una perdita. Conviene

continuare a designare tale vincolo di azione mediante il concetto di obbligazione o di obbligo e

non tanto per fedeltà alle categorie della tradizione civilian quanto per la maggiore precisione

concettuale che la categoria dell'obbligo assicura rispetto a quella di contratto. Peraltro,

l'ancoraggio della responsabilità contrattuale al contratto farebbe segnare una regressione sul

cammino della conoscenza in questa materia perché determinerebbe il collegamento tra

l'assunzione volontaria del vincolo e la responsabilità che scaturisce dalla sua violazione. Da ciò

discende anche il tentativo di tracciare la linea di demarcazione tra le due specie della

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8

responsabilità civile sul crinale che separa la volontà dalla solidarietà [lo segnala di Majo, La

responsabilità contrattuale, cit., 12, 14-15]: la responsabilità contrattuale poggerebbe sulla

violazione di un impegno volontariamente assunto; mentre la responsabilità aquiliana sulla

violazione dei doveri generici che sono imposti dalla necessità di evitare interferenze tra le sfere

giuridiche dei consociati animata da un'ispirazione solidaristica. Quest'approccio ha manifestato

tutti i suoi limiti proprio nel contesto in cui è sorto e si è sviluppato, il common law, a causa del

proliferare di fattispecie che insidiano la tradizionale distinzione tra le due forme di

responsabilità, come l'arricchimento ingiustificato e il danno causato da affidamento. La

profetizzata morte del contratto [G. Gilmore, La morte del contratto (1974), trad. it. di Fusaro,

Milano, 1988,] è in realtà la morte della rappresentazione tradizionale della contractual liability

e dei torts e dei loro confini. Si moltiplicano infatti le obbligazioni di fonte legale e basti pensare

a due ambiti particolarmente significativi: il rinvigorimento dell’istituto dell’arricchimento senza

giusta causa, che in Italia va affrancandosi dal binomio incremento patrimonio ingiustificato e

correlativo impoverimento di un diverso soggetto, e il campo vasto e variegato della

responsabilità della p.a., dove sempre più di frequente si invoca la violazione di obblighi, specie

di quelli inerenti al procedimento e di quelli desunti dalla buona fede, così da potere ricorrere

alla disciplina degli artt. 1218 c.c. [v., di recente, Cass., 19.9.2013, n. 21454, in Corriere giur.,

2014, 165 ss., con nota di V. Carbone, Obbligazioni ex lege e responsabilità da inadempimento,

il quale si lascia trascinare dall’entusiasmo nel proclamare il tramonto della formula

“responsabilità contrattuale” in funzione denotativa della responsabilità da inadempimento].

L'innesto della responsabilità contrattuale nell'obbligo rappresenta una scelta dogmatica

più moderna e feconda, anche perché in grado di offrire una giustificazione e una disciplina a

fenomeni di incerta collocazione nell'ottica precedente quali i danni da violazione di obblighi ex

lege e i danni da vanificazione di un affidamento legittimo [sul punto v. C. Castronovo, La nuova

responsabilità civile3, Milano, 2006, 443 ss.; Id., La relazione come categoria essenziale

dell'obbligazione e della responsabilità contrattuale, in Europa dir. priv., 2011, 72 s.; Id., La

Cassazione supera se stessa e rivede la responsabilità precontrattuale, in Europa dir. priv.,

2012, 1233 ss., in part. 1239 s.; di Majo, La responsabilità contrattuale, cit., 21 ss.; Id., Profili

della responsabilità civile, Torino, 2011; S. Mazzamuto, Il mobbing, Milano, 2004, 31 ss.; Id.,

La responsabilità contrattuale in senso debole, in Europa dir. priv., 2011, 121 ss.].

L'obbligazione rappresenta una forma giuridica di soddisfazione mediata di interessi

patrimoniali e non patrimoniali: il carattere mediato dipende dall'instaurazione di un rapporto

caratterizzato dalla necessità giuridica che il conferimento al creditore del bene o del servizio da

cui dipende la realizzazione del suo interesse passi per l'attività strumentale del debitore. Se si

osserva il fenomeno dell'inadempimento dell'obbligazione nell'ottica dell'attribuzione, il

tradizionale approccio ai rimedi non può che mutare: se l'obbligazione mira a far conseguire al

creditore un determinato risultato grazie al dispiegamento dei mezzi predisposti ed attuati dal

debitore, il sistema dei rimedi contro l'inerzia o la condotta inesatta del debitore deve

coerentemente tentare di far conseguire al creditore proprio quel risultato che l'inadempimento

gli ha sottratto. Lo impone la simmetria tra il contenuto della posizione sostanziale tutelata e il

contenuto del rimedio che realizza tale tutela. Se nel passato è stato possibile disconoscere la

strutturale preordinazione del rapporto obbligatorio alla sua realizzazione in natura, anche a

seguito dell'iniziale inadempimento del debitore, ciò è dipeso dall'influsso esercitato dal diritto

romano dove la laicizzazione dell'obbligazione è avvenuta con la trasformazione della sanzione

per l'inadempimento nell'obbligo di pagare una somma di danaro. La convinzione, confermata

anche in età moderna, dell'esaurimento della tutela dell'obbligazione nel solo risarcimento del

danno, ereditata dal diritto romano, si è poi saldata con la regola dell'esposizione dell'intero

patrimonio del debitore alle azioni esecutive dei creditori, la c.d. responsabilità patrimoniale (art.

2740 c.c.), esaltandone il ruolo oltre la sua reale portata. In particolare, alla regola della

responsabilità patrimoniale è stata riconosciuta, soprattutto in passato, una tale pervasività da

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9

influenzare addirittura l'individuazione dell'oggetto dell'obbligazione, alimentando quelle

concezioni note come teorie patrimonialistiche dell'obbligazione, le quali, nelle formulazioni più

radicali, identificano l'oggetto del diritto di credito nella pretesa su una parte del patrimonio del

debitore. Queste letture dell'obbligazione sono state giustamente accantonate a causa della loro

eccessiva attenzione per la fase patologica del rapporto obbligatorio, finendo per esaurirne il

contenuto a quella somma di danaro corrispondente al valore della prestazione e ricavata

dall'escussione del patrimonio del debitore. Gli influssi del connubio tra risarcimento del danno e

regola della responsabilità patrimoniale non hanno però cessato di operare e anzi hanno

alimentato la convinzione che non residuasse alcuno spazio per riconoscere al creditore

l'adempimento in natura, ossia il rimedio volto a far ottenere al creditore esattamente il risultato

che l'obbligazione gli consente di pretendere grazie allo strumento giudiziario dell'azione di

adempimento, volta ad ottenere una sentenza di condanna del debitore ad attuare la prestazione

ineseguita o a correggere la prestazione inesattamente eseguita. Il quadro che emergeva riservava

ai soli diritti reali i rimedi specifici e collegava al carattere relativo del diritto di credito la

sostanziale esclusività del rimedio risarcitorio [per un'antesignana critica di questa impostazione

v. M. Giorgianni, Tutela del creditore e tutela «reale», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1975, 854

ss.]. A ciò va aggiunta l'ulteriore preclusione dell'adempimento in natura rappresentata dai limiti

strutturali dei meccanismi del processo di esecuzione, non in grado di assicurare in ogni caso al

creditore munito di titolo esecutivo il risultato riconosciutogli dalla sentenza favorevole. Alcuni

contenuti obbligatori non si prestano infatti ad essere eseguiti tramite il meccanismo della

surrogazione della persona del debitore o tramite la realizzazione per altra via del risultato atteso

(v. l'esecuzione in forma specifica dell'obbligo a contrarre). Si tratta di quell'eterogenea classe di

prestazioni che si è soliti designare come infungibili, particolarmente diffuse nell'ambito delle

obbligazioni di fare. A queste, per lo meno nell'ordinamento italiano, si affiancano le

obbligazioni di consegnare beni generici (art. 2930 c.c.) e la ragione della scelta di politica del

diritto di escludere in questo caso il ricorso all'esecuzione diretta viene individuata nel rispetto

del principio della parità di trattamento dei creditori di cui all'art. 2741 c.c. [si rinvia, per una

valutazione anche critica, a S. Mazzamuto, L'esecuzione forzata, in Tratt. dir. priv., diretto da P.

Rescigno, 20, Tutela dei diritti2, Torino, 1998, 329 ss.]. Dove l'opposizione del debitore non è

superabile è giocoforza ripiegare sull'esecuzione forzata per espropriazione e, a lungo, questo

limite dell'esecuzione diretta ha suggerito ad una parte della dottrina, specie processualistica, che

quel che l'ordinamento non è in grado di garantire con la sua struttura di coercizione non può

essere considerato oggetto della situazione sostanziale. La dottrina più provveduta si è incaricata

di dimostrare che tale conclusione non è altro che un iuris praeceptum, in primo luogo, perché

non sussiste una corrispondenza biunivoca tra l'esito conseguibile in via coattiva con gli

strumenti dell'esecuzione diretta e l'oggetto dell'obbligazione, giacché il creditore potrebbe

conservare interesse alla prestazione pur nella consapevolezza della carenza di mezzi di

esecuzione in forma specifica e poi non si può escludere che il debitore condannato si adegui al

dispositivo della sentenza [A. Proto Pisani, Le tutele giurisdizionali dei diritti, Napoli, 2003, 170

ss.; I. Pagni, Tutela specifica e tutela per equivalente. Situazioni soggettive e rimedi nelle

dinamiche dell'impresa, del mercato, del rapporto di lavoro e dell'attività amministrativa,

Milano, 2005, 18 ss.; Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 53 ss.; M.

Dellacasa, Adempimento e risarcimento nei contratti di scambio, Torino, 2013, 287-288]; e, in

secondo luogo, perché non si tiene conto del ruolo assolto dall'esecuzione indiretta, vale a dire

dei dispositivi tecnici finalizzati ad esercitare una pressione psicologica sul condannato,

compulsandolo a dare corso al provvedimento di condanna tramite un meccanismo di

accumulazione di somme di danaro dovute per ogni giorno di ritardo nell'attuazione del

provvedimento o per ogni successiva trasgressione. L'obbligazione pecuniaria sorge iussu iudicis

e non riveste natura risarcitoria ma, per l'appunto, compulsoria, vale a dire natura di misura

coercitiva indiretta. L'Europa conosce una florida tradizione al riguardo [per un quadro pregevole

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10

v. K. Zweigert-H. Kötz, Introduzione al diritto comparato, II, Istituti3, ed. it. a cura di A. di

Majo-A. Gambaro, Milano, 2011, 187 ss.] ed è possibile distinguere due classi di misure di

coercizione indiretta: quella che destina le somme prodotte dal mancato rispetto dell'ordine

giudiziale allo Stato, vincolandole alle finalità più varie, cui appartengono le Zwangsstrafe

tedesche e austriache nella variante pecuniaria (ossia le Geldstrafe previste dai §§ 888 e 890

ZPO e dai §§ 354 e 355 della EO austriaca) e il contempt of court anglo-americano (ovviamente

il civil contempt o contempt in procedure) [cfr. E. Vullo, L'esecuzione indiretta tra Italia, Francia

e Unione europea, in Riv. dir. proc., 2004, 727 ss.]; e quella che invece attribuisce le somme

maturate al creditore procedente, di cui l'esponente più noto è l'astreinte francese e nella quale si

iscrive anche la recente comminatoria italiana prevista dall'art. 614-bis c.p.c. [S. Mazzamuto, La

comminatoria di cui all'art. 614 bis c.p.c. e il concetto di infungibilità processuale, in Europa

dir. priv., 2009, 947 ss.; E. Vullo, L'art. 614-bis c.p.c.: problemi interpretativi, soluzioni

dottrinali e giurisprudenziali (Prima parte), in Studium iuris, 2012, 1359 ss.; Id., L'art. 614-bis

c.p.c.: problemi interpretativi, soluzioni dottrinali e giurisprudenziali (Seconda parte), in

Studium iuris, 2013, 23 ss.].

La corretta rappresentazione dei rimedi contro l'inadempimento affianca al risarcimento del

danno, effetto dell'accertamento della responsabilità contrattuale, l'adempimento in natura,

effetto dell'accertamento della violazione del rapporto obbligatorio. L'idea che sta finalmente

prendendo piede in Europa riconosce il fondamento del rimedio in natura nel carattere vincolante

dell'obbligazione e nella concezione di quest'ultima come vincolo di mezzi in funzione del

conseguimento di un risultato [A. di Majo, L'adempimento « in natura » quale rimedio (in

margine a un libro recente), in Europa dir. priv., 2012, 1155-1159; Piraino, Adempimento e

responsabilità contrattuale, cit., 141 ss.; mentre sono a tal punto convinti dell'implicazione

dell'adempimento in natura nell'essenza dell'obbligazione da non ritenere necessario rintracciare

il fondamento normativo del rimedio: G. Grisi, Inadempimento e fondamento dell'obbligazione

risarcitoria, in Studi in onore di Davide Messinetti, a cura di F. Ruscello, II, Napoli, 2009, 120 e

nt. 29; Pagni, Tutela specifica e tutela per equivalente, cit., 24; Dellacasa, Adempimento e

risarcimento nei contratti di scambio, cit., 291 ss.]. Per quanto concerne l'ordinamento italiano,

non è quindi necessario sforzarsi di rintracciare il fondamento dell'adempimento in natura negli

artt. 1218 e 1256 c.c., il cui combinato disposto delinea piuttosto la struttura della responsabilità

contrattuale e del suo effetto, il risarcimento del danno; e neppure nell'art. 1453 c.c., in primo

luogo, perché si tratta di una disposizione destinata ad un'applicazione più ampia rispetto al solo

campo delle obbligazioni, giacché rivolta anche ai contratti ad effetti reali (Piraino,

Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 144 ss.), e, in secondo luogo, perché in effetti

l'art. 1453 c.c. sembra presupporre più che fondare l'adempimento in natura, preoccupandosi del

diverso problema del rapporto tra tale rimedio e il risarcimento del danno [di Majo,

L'adempimento « in natura » quale rimedio (in margine a un libro recente), cit., 1159].

Facendo leva sulla centralità ricoperta dall'art. 1218 c.c., una parte autorevole della dottrina

propende per la natura risarcitoria dell'adempimento in natura [C. Castronovo, Il risarcimento in

forma specifica come risarcimento del danno, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a

cura di S. Mazzamuto, Napoli, 1989, 492; Id., Le due specie della responsabilità civile e il

problema del concorso, in Europa dir. priv., 2004, 113 ss.; Id., La nuova responsabilità civile,

cit., 598 ss., 807 ss.] sulla base dell'assunto che l'effetto giuridico indefettibile

dell'inadempimento è la responsabilità contrattuale, la quale a sua volta si concretizza

nell'obbligazione di risarcimento del danno [Castronovo, La nuova responsabilità civile, cit.,

809], sicché il c.d. esatto adempimento non può essere altro che risarcimento e, per la

corrispondenza all’interesse violato, risarcimento in forma specifica. La conclusione è coerente

ma soltanto nella prospettiva della logica formale, non anche sotto il profilo della ricostruzione

dogmatica come ha dimostrato una parte consistente della dottrina [S. Mazzamuto,

L’ z ’ z ’ , in Il contratto e le tutele.

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Prospettive di diritto europeo, a cura di S. Mazzamuto, Torino, 2002, 521.; Id., Il mobbing, cit.,

29 nt. 12; A. di Majo, Una dottrina unitaria della obbligazione civile (a proposito del secondo

libro del BGB), in Europa dir. priv., 1998, 234 nt. 30; A. Nicolussi, Diritto europeo della

vendita dei beni di consumo, in Europa dir. priv., 2003, 567 ss.; Piraino, Adempimento e

responsabilità contrattuale, cit., 112 ss.], evidenziando l'irriducibilità dell'adempimento in natura

al risarcimento del danno a causa della loro diversità funzionale. Il primo è un rimedio attuativo

in quanto preordinato alla realizzazione del credito mediante il recupero o la correzione del

rapporto obbligatorio e, quindi, in definitiva mira a impedire la produzione del danno c.d. da

aspettativa, ossia quello commisurato al valore del risultato della prestazione; mentre il secondo

è un rimedio riparatorio giacché si incarica di rimuovere il costo del danno, tanto di quello da

aspettativa quanto di quelli consequenziali (ad es. lucro cessante, spese ulteriori, danni da

violazione di obblighi di protezione).

La corrispondenza biunivoca tra inadempimento e responsabilità contrattuale rappresenta,

quindi, un retaggio delle concettualizzazioni del passato e il problema per la dottrina

contemporanea è allora un altro e consiste nell'individuazione delle regole di coordinamento tra i

due rimedi, di quelle che, in altri termini, possono essere identificate come le regole della

successione dall'adempimento in natura al risarcimento del danno. I modelli astrattamente

concepibili sono due: nel primo il ricorso all'adempimento in natura o al risarcimento del danno è

rimesso alla scelta del creditore; mentre nel secondo è istituito un ordine di priorità che vede

l'adempimento in natura precedere il risarcimento del danno. Quello che sembra prevalere in

Europa è il secondo modello, incarnato tanto nel diritto tedesco (§ 275 BGB) quanto in quello

italiano ed ora anche nell'evoluzione cui è sottoposto il diritto francese così da affrancarsi

dall'originaria prevalenza, se non addirittura dall'esclusività, del risarcimento del danno, tramite

un ridimensionamento della portata dell'art. 1142 code civil, che - com'è noto - sancisce che

l'inadempimento delle obbligazioni (testualmente soltanto quelle di fare e non fare ma la

disposizione è intesa in senso estensivo a tutte le altre tipologie) si risolva in dommages et

intérêts. Nei sistemi dove è riconosciuta, la priorità dell'adempimento in natura è conseguenza

della forza del vincolo obbligatorio, la quale non perde la sua carica né la sua direzione

originaria, quella dell'attribuzione al creditore di un determinato effetto, neppure a causa o a

seguito dell'inadempimento e, quindi, nonostante le resistenze del debitore. Il rilievo acquisisce

una maggiore intensità se si riflette sulla particolare vocazione del rapporto obbligatorio: la

soddisfazione di interessi non soltanto patrimoniali (art. 1174 c.c.). Nell'ordinamento italiano, la

vocazione del rapporto obbligatorio all'attuazione in natura emerge in maniera inequivocabile dal

ruolo svolto dal concetto di impossibilità della prestazione: un ruolo duplice di limite

dell'obbligazione e di causa di esonero dalla responsabilità contrattuale [Mengoni,

Responsabilità contrattuale, cit., 1096; Intervento, in Processo e tecniche di attuazione dei

diritti, I, a cura di S. Mazzamuto, Napoli, 1989, 151-152; Pagni, Tutela specifica e tutela per

equivalente, cit., 21 ss.; Ch. Romeo, I presupposti sostanziali della domanda di adempimento,

Milano, 2008, 100 ss.; Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 141 ss.; L.

Nivarra, I rimedi specifici, in Europa dir. priv., 2011, 170, anche sulla scorta dell'art. 1372 c.c.,

e, con particolare riguardo al ruolo della legislazione speciale, S. Mazzamuto, L'attuazione degli

obblighi di fare, Napoli, 1978, 151 ss.; contra Dellacasa, Adempimento e risarcimento nei

contratti di scambio, cit., 305 ss., favorevole invece all'alternatività giudata dalla scelta del

creditore verso il rimedio più efficace]. Il combinato disposto degli art. 1218 e 1256 c.c. fornisce

indicazioni chiare: a) sino al limite dell'impossibilità la prestazione è dovuta e tale rimane anche

a seguito di inadempimento; b) verificatosi l'evento che rende la prestazione impossibile bisogno

effettuare un giudizio di imputabilità di tale sopravvenienza alla stregua della diligenza di cui

all'art. 1176 c.c. o di altro criterio più rigido (responsabilità ex recepto); c) se l'evento è

imputabile al debitore, la prestazione originaria si traduce nella prestazione succedanea di

risarcimento del danno, cui si somma al risarcimento dei danni consequenziali; d) se invece

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l'evento non è imputabile al debitore, l'obbligazione come rapporto complesso, inclusivo sia della

prestazione originaria sia della prestazione risarcitoria succedanea, si estingue senza residui.

Una questione ulteriore e altrettanto importante è legata alla rigidità della sequenza dei

rimedi appena ricostruita. Un'interpretazione rigidamente testuale delle precedenti disposizioni

potrebbe infatti suggerire che il creditore non abbia alcun margine per domandare il risarcimento

se perdura la possibilità di prestare. E tuttavia l'impossibilità che determina il passaggio

dall'adempimento in natura al risarcimento del danno non va intesa in senso naturalistico, nel

senso che non coincide con l'impedimento che si oppone alla condotta del debitore ma include

anche l'oggettiva perdita di interesse del creditore che il prolungamento del rapporto obbligatorio

determinato dall'evento esterno. Questa è la conclusione ricavabile dall'art. 1256, comma 2, c.c.

quando, in presenza di una sopravvenienza provoca impossibilità temporanea, decreta

l'estinzione del rapporto, nonostante la possibilità che venga meno l'impedimento della

prestazione, se «il creditore non ha più interesse a conseguirla». Anche questa conseguenza è

coerente con la nozione di obbligazione come vincolo di mezzi per realizzare un risultato e,

infatti, impossibilità di dispiegare i primi e impossibilità di conseguire il secondo pari sono

nell'economia del rapporto, determinando il medesimo esito: l'estinzione dell'obbligazione.

Sulla base di questa premessa diviene più agevole comprendere che la centralità

dell'interesse del creditore non esaurisce il proprio rilievo sul terreno dell'impossibilità ma gioca

un ruolo primario anche nella diversa prospettiva dell'abbandono dell'adempimento in natura in

favore del risarcimento: di quel risarcimento designato come sostitutivo, nel senso che si pone in

sostituzione della prestazione. E infatti, se l'interesse a ricevere la prestazione viene meno in

termini oggettivi - e sempre che non venga integrata la fattispecie estintiva dell'obbligazione in

precedenza illustrata - il creditore può domandare il risarcimento sostitutivo nonostante perduri

la possibilità di prestare. La perdita dell'interesse alla prestazione si verifica in presenza della

definitività dell'inadempimento, la quale può dipendere o dalla scadenza un termine essenziale, o

dalla presenza di una clausola risolutiva espressa, o della richiesta di risoluzione [Mengoni,

Responsabilità contrattuale, cit., 1096; di Majo, Le tutele contrattuali, cit., 135-136] (in questo

caso, soltanto se si è disposti a riconoscere che il danno da risoluzione copra il c.d. interesse

positivo: in senso contrario v. A. Montanari, Il danno da risoluzione, Napoli, 2013, 113 ss.),

nonché a seguito dell'infruttuosa costituzione in mora del debitore, secondo un meccanismo in

Italia argomentato sulla base degli artt. 1221 e 1457 c.c. e in Germania espressamente delineato

dal § 281 BGB [di Majo, La responsabilità contrattuale, cit., 79; G. Grisi, La mora debendi nel

sistema della responsabilità per inadempimento, in Riv. dir. civ., 2010, I, 78-79; Piraino,

Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 201 ss.].

Il diritto transnazionale e il diritto privato europeo di matrice culta dedicano ampia

attenzione all'adempimento in natura e una tale sensibilità si spiega nel quadro dell'approccio

rimediale che caratterizza questi interventi normativi e le codificazioni private. Un ruolo

centrale, anche per la sua funzione di modello per le normative europee, riveste la Convenzione

di Vienna sulla vendita internazione di beni mobili (CISG), che agli artt. 28, 46 ss. e 61 ss.

riconosce il diritto del creditore di agire per ottenere la prestazione, ricorrendo allo strumento del

termine di grazia a seguito dell'iniziale inadempimento, ma all'art. 28 introduce una clausola di

derogabilità della disciplina convenzionale grazie alla quale il giudice chiamato ad applicarla

può non ricorrere al rimedio in forma specifica quando l'ordinamento nel quale essa va applicata

non ammetta l'adempimento in natura [S. Herman, Specific Performance: a Comparative

Analysis, in 7 Edinburgh Law Review, 2003, 5 ss., in part. 7]. L'adempimento in natura viene

ampiamente regolato dai PDEC e posto in apertura del Capo relativo ai rimedi contro

l'inadempimento. L'art. 9:102 accorda un tale rimedio ma prevede anche le ipotesi di esclusione:

a) se la prestazione sarebbe illecita o impossibile; b) se la prestazione comporterebbe sforzi o

costi irragionevoli; c) se la prestazione è d'opera o di servizi ed riveste carattere personale o è

collegata con rapporti personali; d) se il creditore insoddisfatto può conseguire la prestazione in

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altra opportuna maniera. Per lo meno espressamente, il PDEC non sembrano istituire un ordine

di priorità tra l'adempimento in natura e il risarcimento del danno di cui all'art. 9:501, ma proprio

l'ultima delle precedenti cause di esclusione suggerisce che il rimedio prioritario consista

nell'adempimento in natura ma che, qualora la prestazione sia conseguibile in maniera agevole e

più conveniente nel mercato, allora sia preferibile il risarcimento del danno. Come è stato

osservato autorevolmente in dottrina, quest'assetto - come d'altro canto anche la disciplina della

CISG e soprattutto l'art. 28 - nasce dall'esigenza di rendere più accettabile l'adempimento in

natura nel common law dove, nonostante una maggiore apertura verso la specific performance, i

damages rimangono il rimedio più abituale: «La soluzione adottata dai Principi prende atto della

maggiore propensione degli ordinamenti di civil law a dare soddisfacimento specifico

all'interesse del creditore, ma con temperamenti che giovino a rendere meno aggressivo l'impatto

nei confronti del common law, più aduso a tradurre senz'altro tale interesse in una valutazione

pecuniaria». La medesima soluzione è stata accolta dal DCFR, il quale dedica la Section 3 del

Libro III al Right to performance, recependo agli artt. III. - 3:301-3:303 sostanzialmente le

medesime regole predisposte dai PDEC, per quanto sia significativa la mancata riproposizione

della lett. d) dell'art. 9:102 PDEC (art. III. - 3:302). Tale scelta si giustifica alla luce della

schietta opzione del DCFR per l'equiordinazione di adempimento in natura e risarcimento del

danno in caso di inadempimento totale, come emerge dalla previsione dell'art. III. - 3:302,

comma 1: « The creditor is entitled to enforce specific performance of an obligation other than

one to pay money». Una soluzione diversa è adottata in caso di prestazione inesatta, sempre che

l'inesattezza non ammonti ad inadempimento grave, grazie all'istituto del "cure by debtor", ossia

alla possibilità per il debitore di correggere, senza costi aggiuntivi per il creditore, l'inesattezza

tanto prima che spiri il termine per adempiere quanto in un tempo successivo ragionevole (art.

III. - 3:202) [G. De Vries, Right to Specific Performance: is there a Divergence between Civil

and Common Law Systems, if so, how has it been bridged in the DCFR?, in ERPL, 2009, 581 ss.;

M. Van Kogelenberg, Article III.3:302 DCFR on the Right to Enforced Performance of Non-

monetary Obligations: An Improvement - Albeit Imperfect - Compared with Article 9:102 PECL,

in ERPL, 2009, 599 ss.]. L'impianto complessivo è confermato anche nella proposta di un diritto

comune della vendita (CESL) con la significativa limitazione dell'istituto del "cure by seller"

soltanto ai rapporti tra imprese (art. 106, comma 2 e 3), ma si deve tener conto che la discutibile

riduzione del DCFR al common european sales law ha determinato l'innesto di regole concepite

nell'orizzonte di una disciplina generale del contratto e delle obbligazioni in un contesto più

ristretto, quello del contratto di vendita, in cui il rimedio in natura non coincide con l'azione di

adempimento ma con gli effetti della garanzia in forma specifica. In altri termini, nella CESL il

vincolo del venditore rispetto alle qualità del bene assume natura di garanzia e non già di

obbligazione e il rimedio in forma specifica è una conseguenza della garanzia e, quindi, non

coincide con l'azione di adempimento, la quale invece presuppone per l'appunto l'obbligazione

[Mazzamuto, Equivoci e concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il dibattito sulla vendita

dei beni di consumo, cit., 1029 ss., in part. 1106 ss.; Id., La vendita di beni di consumo, in

Manuale dir. priv. eur., II, a cura di C. Castronovo-S. Mazzamuto, Milano, 2007, 913 ss.;

Nicolussi, Diritto europeo della vendita dei beni di consumo, cit., 547 ss.; Piraino, Adempimento

e responsabilità contrattuale, cit., 343 ss.].

La specificità della responsabilità contrattuale risiede, dunque, nella sua iscrizione

nell'obbligazione, la quale, sin dal suo sorgere, porta in sé il vincolo di responsabilità come stato

evolutivo del rapporto obbligatorio inteso come rapporto fondamentale [Mengoni,

Responsabilità contrattuale, cit., 1072-1073; in termini meno precisi, discorrono di

trasformazione della prestazione originaria in quella di risarcimento del danno, in ciò

allineandosi dalla ricostruzione di B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts9, a cura di T.

Kipp, II, Frankfurt, 1906, § 264 nt. 7, tanto P. Rescigno, Obbligazioni (nozioni generali), in Enc.

dir., XXIX, Milano, 1979, 205 quanto C.M. Bianca, Diritto civile. V. La responsabilità, Milano,

Page 14: Responsabilit_contrattuale - Mazzamuto

14

1994, 111-112]: in presenza di un'impossibilità imputabile oppure della perdita oggettiva di

interesse da parte del creditore la prestazione originaria si estingue o comunque viene meno e

sorge l'obbligazione del risarcimento del valore della prestazione (id quod interest) nonché dei

costi ulteriori sopportati, del mancato guadagno e dell'eventuale danno ulteriore al patrimonio o

alla persona, connesso alla violazione di un obbligo di protezione. La natura di evoluzione del

rapporto obbligatorio che non ne intacca l'identità e continuità viene di solito tradotta nella

comune - e più piana - affermazione secondo cui la responsabilità contrattuale consegue ad un

precedente rapporto. Quale che sia la formulazione adottata, è comunque alla caratteristica dalla

responsabilità contrattuale come vicenda dell'obbligazione, intesa come rapporto complesso che

va ricondotto il suo regime particolarmente severo rispetto a quello della responsabilità

aquiliana: non solo nei termini di un onere della prova meno gravoso per il creditore rispetto al

danneggiato in sede aquiliana e di un termine prescrizionale dell'azione di risarcimento più

lungo, ma soprattutto nei termini della predeterminazione del soggetto responsabile nella persona

del debitore. Il problema dell'individuazione del soggetto da rendere responsabile e il

conseguente addebito del pregiudizio prodotto, cui in sede aquiliana presiedono i criteri di

imputazione (soggettivi e oggettivi), in sede contrattuale è già risolto: il debitore, in quanto

obbligato, risponde delle conseguenze pregiudizievoli del fallimento del vincolo. La questione

diviene piuttosto un'altra: limitare la serie delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili e il

criterio condiviso in Europa, ed enunciato dall'art. 1225 c.c., si affida alla nozione di

prevedibilità del danno.

Una parte della dottrina contesta l'iscrizione della responsabilità nell'obbligazione quale

rapporto complesso e, sulla scorta di uno spunto di Michele Giorgianni secondo cui

l'impossibilità della prestazione estingue l'obbligo di prestazione sempre e comunque ma «genera

la sanzione del risarcimento del danno (ovverosia la nascita di un nuovo obbligo) ove sia

"imputabile" al debitore» in quanto una delle manifestazioni dell'inadempimento [M. Giorgianni,

L'inadempimento3, Milano, 1975, 177], sostiene che l'obbligo di risarcimento sorga all'esterno

dell'obbligazione secondo regole non dissimili da quelle che governano la responsabilità

aquiliana, improntate allo schema evento-danno materiale-causalità [M. Pacifico, Il danno nelle

obbligazioni, Napoli, 2008, 110 ss.]. La tesi risente di un duplice errore di impostazione: in

primo luogo, non tiene conto della nozione di rapporto fondamentale, il quale invece rappresenta

il profilo più significativo della concezione contemporanea dell'obbligazione; e, in secondo

luogo, ritiene, facendo confusione, che l'inerenza del vincolo di responsabilità nell'obbligazione

comporti che il risarcimento del danno contrattuale miri allora al ripristino, tramite il tantundem,

del contenuto qualitativo e quantitativo del diritto leso, caricandosi di una connotazione

funzionale sostanzialmente attuativa. Una tale inferenza non è in alcun modo necessaria e,

infatti, nonostante l'adesione all'idea della responsabilità contrattuale come stato succedaneo

dell'obbligazione, non si può che condividere la convinzione della dottrina in esame secondo cui

la responsabilità contrattuale - come qualsiasi forma di responsabilità - mira a rimuovere non già

inadempimento ma i pregiudizi che da quest'ultimo scaturiscono [Pacifico, Il danno nelle

obbligazioni, cit., 117]. Questa indebita inferenza è giustificata in chiave storica dalla circostanza

che le esposizioni tradizionali della responsabilità contrattuale risentono dello stesso modello

socio-economico di obbligazione adottato dal legislatore nel delineare gli artt. 1218 e 1256 c.c.,

vale a dire l'obbligazione di dare, e, di conseguenza, tali teorizzazioni presuppongono, in maniera

più o meno manifesta, che l'inadempimento coincida con l'impossibilità imputabile della

prestazione e che il risarcimento si esaurisca quasi integralmente nel valore nel bene perito. La

ricostruzione qui proposta ha abbandonato, invece, quel referente guardando all'inadempimento

in tutta la sua varietà, inclusiva dell'inadempimento totale, dell'adempimento inesatto, del ritardo

e dell'impossibilità imputabile, e riconoscendo che la funzione del risarcimento risiede nella

riparazione dei pregiudizi, e di tutti i pregiudizi, innescati dalla violazione del vincolo. Non si

può trascurare però che il pregiudizio principale innescato dall'inadempimento va identificato nel

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c.d. danno da aspettativa, consistente nella perdita economica pari al valore del risultato finale

atteso, e che gli altri pregiudizi risarcibili, inclusi quelli legati alla violazione degli obblighi di

protezione, si collegano tutti giuridicamente a tale pregiudizio primario ed ecco perché vengono

designati come danni consequenziali. Né vi sono ragioni per ritenere che l'equivalente monetario

del valore del credito rappresenti una forma di attuazione in senso proprio del diritto, a meno di

non voler trasformare il diritto di credito in una situazione giuridica conchiusa [così L. Nivarra, I

rimedi specifici, in Europa dir. priv., 2011, 176-177], sattianamente finale [S. Satta, L'esecuzione

forzata, in Tratt. dir. civ. it.¸ diretto da F. Vassalli, Torino, 1963, 3 ss.], il che costituisce

un'evidente forzatura. Nonostante la sua commisurazione al valore del credito, il risarcimento del

danno da aspettativa conserva natura squisitamente riparatoria in quanto destinato a eliminare il

pregiudizio da mancato incremento della sfera giuridica del creditore, riproducendo quest'ultimo

per via monetaria, anche perché soltanto in ottica analitica lo si può distinguere e isolare dagli

altri pregiudizi, visto il carattere onnicomprensivo del risarcimento. Da ciò la irriducibile

distinzione del risarcimento dell'id quod interest dall'adempimento in natura, finalizzato invece

all'attuazione del vincolo e alla realizzazione del diritto credito e non preclusivo del risarcimento

c.d. complementare, ben potendosi affiancare al rimedio in natura l'obbligazione di riparare i

danni consequenziali (ad es. tipicamente il danno da ritardo) [v. Piraino, Adempimento e

responsabilità contrattuale, cit., 117 ss., 651 ss.]. Giacché è una forma di reazione

all'inadempimento, l'adempimento in natura si potrebbe rivelare non in grado di prevenire tutti i

possibili danni derivati. Questi ultimi infatti possono travalicare il valore nominale del diritto di

credito violato, sicché l'adempimento in natura, preordinato invece a prevenire l'insorgere

proprio del danno commisurato a quel valore, potrebbe lasciare sul campo proprio gli eventuali

pregiudizi ulteriori. La proposta di espungere il valore del credito dalle conseguenze risarcitorie,

circoscrivendole alle perdite ulteriori e al mancato guadagno e concependo, quindi, la mancata

prestazione come il fatto produttivo di danno [Pacifico, Il danno nelle obbligazioni, cit., 120-

127], si rivela con ogni evidenza eccessiva e si scontra con il dato inoppugnabile dell'identità del

fatto impeditivo sia dell'obbligo della corresponsione dell'equivalente monetario del valore del

credito sia dell'obbligo di risarcimento dei danni consequenziali. In entrambi i casi il debitore è

esonerato se prova l'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile

oppure se contesta l'allegazione dell'inadempimento del creditore tramite la prova dell'avvenuto

adempimento. Il danno c.d. contrattuale condivide con il danno aquiliano la natura di

conseguenza ma presenta una specificità che lo rende irriducibile a quest'ultimo: è conseguenza

pregiudizievole che consegue al mancato o difettoso funzionamento di un rapporto finalizzato a

realizzare un'attribuzione sicché una porzione di tale pregiudizio consiste nel valore della

modificazione che il rapporto avrebbe dovuto provocare e che non si è prodotta o si è prodotta in

maniera imperfetta.

Nel dibattito europeo non è nuovo il tentativo di presentare l'obbligazione di pagamento

del valore della prestazione inadempiuta come una forma di attuazione per equivalente e, nella

sua formulazione più nota [Ph. Remy, La «responsabilité contractuelle»: histoire d'un faux

concept, in RTDciv., 1999, 323 ss.], un tale assunto si lega alla proposta di un capovolgimento di

prospettiva grazie al quale distinguere le obbligazioni in funzione non tanto del tipo di

responsabilità (contrattuale e extracontrattuale) quanto piuttosto della fonte convenzionale o

meno. Tale lettura è agevolata dalla formulazione letterale dell'art. 1147 code civil che non fa

accenno alla responsabilità né all'obbligazione del risarcimento del danno, ma semplicemente

alla condanna al pagamento «de dommages et intérêts soit à raison de l'inexécution de

l'obligation, soit à raison du retard dans l'exécution». Tale proposta non è stata in grado di

scardinare il concetto di responsabilità contrattuale in Francia e, nell'ordinamento italiano, una

prospettiva simile appare ancora meno credibile alla luce della scelta del legislatore -

ampiamente spiegata in precedenza - di conferire all'obbligazione di pagamento dell'equivalente

pecuniario della prestazione la forma del risarcimento del danno, ossia rielaborando in termini

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giuridici la questione come un problema di responsabilità. Chi, pur non giungendo alla

conclusione estrema dell'abolizione della categoria della responsabilità contrattuale formulata da

Remy, suggerisce anche in Italia la sottrazione dell'obbligazioni di pagamento della somma pari

al valore della prestazione all'area della responsabilità e l'inclusione nel diverso comparto

dell'attuazione del diritto di credito, ancorché per equivalente, sulla falsa riga dell'art. 948 c.c.

[Nivarra, I rimedi specifici, cit., 175 ss.; Id., Alcune precisazioni in tema di responsabilità

contrattuale, in Europa dir. priv., 2014, 78 ss.], svaluta la natura di diritto relativo del credito,

ritenendo che all'atto dell'acquisito della titolarità il creditore registri un incremento della propria

sfera giuridica sostanzialmente pari al valore del risultato dell'adempimento. E tale svalutazione

viene compiuta sotto l’egida dell’assioma secondo cui «la tutela che assiste il diritto di credito è

sempre una tutela specifica, salvo prendere atto degli adattamenti ai quali essa deve acconciarsi,

sotto il profilo tecnico, a causa delle trasformazioni subite dalla realtà materiale» e, infatti, la

prospettiva rimediale, se perseguita sino in fondo, accredita «l’idea che la tutela di cui godono i

diritti, tutti i diritti, ivi inclusi i diritti di credito, è sempre una tutela reale, ossia una tutela che

persegue l’obiettivo di assicurare al titolare del diritto il bene della vita attribuitogli […],

compatibilmente con quanto consentito dall’assetto che le cose del mondo vanno prendendo in

relazione al succedersi degli eventi» [Nivarra, Alcune precisazioni in tema di responsabilità

contrattuale, cit., 83].

La dottrina in esame ritiene che la diversità tradizionalmente riconosciuta tra la restituzione per equivalente

prevista dall’art. 948, comma 1, c.c. e la conversione in danaro della prestazione inadempiuta, altrettanto

tradizionalmente designata come risarcimento sostitutivo e, quindi, ascritta all’area della responsabilità contrattuale,

si alimenti di un apriorismo ideologico che trae origine dal riconoscimento al dominium di una presunta superiorità

ontologica [Nivarra, Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, cit., 80-81]. A questa impostazione,

viene contrapposta una lettura in termini univocamente rimediali, incentrata sulla tipologia della lesione o

dell’interferenza piuttosto che sulla tipologia della situazione lesa o interferita, tale da escludere, in presenta di un

evento identico, vale a dire la definitiva irraggiungibilità del bene della vita preteso, e di una medesima reazione da

parte dell’ordinamento, vale a dire l’attribuzione del tantundem, un inquadramento dogmatico diverso [Nivarra,

Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, cit., 81, 90: emblematico di tale ragionamento è il passo

in cui N. afferma che «in definitiva, è fuor di dubbio che il creditore si trovi fin dall’inizio nella stessa posizione in

cui si troverà il proprietario solo dopo aver subito la lezione»]. Ma sono somiglianze vere o apparenti quelle

segnalate in precedenza? Riveste per davvero il medesimo valore giuridico la perdita definitiva ad opera del terzo

possessore o detentore di un bene altrui di cui è dovuta la restituzione proprio in quando ne è stata accertata l’altruità

rispetto alla perdita definitiva ad opera di chi è tenuto a consegnare un bene nell’ambito di una vicenda traslativa o

nel quadro degli effetti di un contratto che ne prescrive l’immissione in detenzione o in possesso ed ovviamente

anche la conseguente restituzione? In altri termini, non v’è differenza tra un’obbligazione di restituire di natura

rimediale, qual è quella che scaturisce dalla condanna in sede di rivendicazione, da un’obbligazione di consegnare o

di restituire di natura sostanziale? Ovviamente la differenza c’è e, peraltro, la dottrina in esame in un passaggio

precedente del proprio ragionamento aveva colto la specificità delle obbligazioni nascenti dalla legge e in funzione

rimediale rispetto al paradigma generale delineato dagli artt. 1174 ss. c.c. [Nivarra, Alcune precisazioni in tema di

responsabilità contrattuale, cit., 73-74]. E siamo altrettanto certi che la reazione sia anch’essa la medesima?

Nell’art. 948, comma 1, c.c. l’obbligazione di pagamento del valore del bene perduto si presenta, proprio perché in

funzione rimediale, come un vincolo assoluto dal quale non è possibile liberarsi; mentre il risarcimento sostitutivo è

assoggettato all’art. 1218 c.c. ed è quindi un vincolo pecuniario dal quale è possibile liberarsi tramite la prova che il

bene è perito o è stato smarrito a causa di un evento sopravvenuto non prevedibile né evitabile. Se una diversità

tanto sensibile non è percepita dalla dottrina in esame e perché, come è stato obiettato in dottrina [F. Piraino, Sulla

natura non colposa della responsabilità contrattuale, in Europa dir. priv., 2011, 1059], essa fonda la responsabilità

e il suo effetto, ossia il risarcimento del danno, sull’impossibilità imputabile al debitore [Nivarra, I rimedi specifici,

cit., 170, 173; Id., Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, cit., 85, 94, 101-102, 105] ma così

facendo viene amputato – e in un certo qual senso snaturato – il giudizio di responsabilità, eliminando dai suoi

presupposti gli inadempimenti dannosi, ossia quelle forme di violazione del vincolo obbligatorio che, nonostante la

perdurante possibilità della prestazione e, quindi, del suo recupero, hanno determinato l’oggettivo venir meno

dell’interesse del creditore alla prestazione, o per meglio dire disconoscendo la specificità di tali forme di

inadempimento [non a caso Nivarra, Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, cit., 96-97, in un

crescendo agguagliatore, equipara le ipotesi di oggettivo declinare dell’interesse del creditore a seguito di

inadempimento all’impossibilità di prestare e le pone all’ombra dell’art. 1218 c.c.]. D’altro canto, a testimoniare

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l’eccessiva rigidità dell’ancoraggio della responsabilità contrattuale all’impossibilità imputabile c’è evoluzione del

diritto tedesco delle obbligazioni e, in particolare, il novello § 281 BGB [la cui soluzione, infatti, non lascia

entusiasta Nivarra, Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, cit., 95-96].

In dottrina è stata contestata l'equiparazione della titolarità del diritto di credito all'esito

dell'attuazione del rapporto obbligatorio, segnalando che, per quanto il credito riceva un

trattamento giuridico tale da determina una sorta di sua reificazione (v. la disciplina della

cessione, il pegno di crediti, la tutela aquiliana, la pignorabilità), la situazione di spettanza

neppure in termini economici è equiparabile al risultato finale della prestazione, come attesta il

minor valore di mercato del credito rispetto al valore del bene o del servizio che è destinato ad

attribuire, legato al rischio di insolvenza del debitore [Piraino, Sulla natura non colposa della

responsabilità contrattuale, cit., 1098 ss. Sotto questo profilo appare equivoca la qualificazione

di “situazione finale” che Nivarra, Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale,

cit., 91 propone per il diritto di credito]. L'attribuzione della pretesa a conseguire il bene o il

servizio veicolati dall'obbligazione, in cui si sostanzia l'oggetto del diritto di credito, non decreta,

dunque, una forma di appartenenza già compiuta, neppure in senso economico [così invece,

sostanzialmente, Nivarra, Alcune precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, cit., 105,

nt. 79], come peraltro conferma il rinnovato rapporto tra vincolo sostanziale e responsabilità

patrimoniale, fuoriuscito dall'introduzione della disciplina del sovraindebitamento, che delinea

due procedure di natura lato sensu concorsuale di composizione della crisi del debitore non

fallibile, grazie alle quali l'insolvenza rifluisce sul vincolo, con soddisfazione soltanto parziale

dei creditori. La tesi della natura di rimedio attuativo dell'obbligazione di pagamento del valore

della prestazione - di quel che in common law si definisce l'expectation interest - poggia sulla

sottovalutazione della componente per così dire poietica dell'obbligazione, ridimensionando

ruolo e incidenza della condotta del debitore a favore della prevalente considerazione del fine

atteso dal creditore. In tal modo però l'obbligazione viene snaturata e, in un certo qual senso,

"disumanizzata".

4. La questione del fondamento della responsabilità è intimamente connessa al ruolo della

colpa, perché anche in ambito contrattuale ha dominato a lungo, e ancora oggi continua a

ricevere seguito, l'idea della necessaria correlazione tra colpa e responsabilità. Si tratta - come si

è ampiamente anticipato - di una convinzione tanto radicata quanto ingiustificata e la ragione

risiede nell'assoluta superfluità della colpa in seno al meccanismo della responsabilità

contrattuale. La colpa funge da criterio di imputazione della responsabilità e diviene

indispensabile - in alternativa con il criterio di imputazione oggettiva - quando quest'ultima non

abbia nulla di più solido su cui essere instaurata di un'interferenza occasionale nell'altrui sfera

giuridica produttiva di danno. E, pertanto, il luogo di elezione della colpa va identificato nella

responsabilità aquiliana o, comunque, in qualunque altro contesto in cui è necessario sottoporre a

verifica un'attività discrezionale a causa delle conseguenze pregiudizievoli. Nel contesto

contrattuale sussiste una struttura ben più corposa della colpa sulla quale innestare la

responsabilità: la relazione instaurata dal vincolo obbligatorio che, tra le altre cose, produce il

vantaggio della previa individuazione del soggetto da rendere responsabile nel caso di mancato o

inesatto conseguimento del risultato atteso. La colpa torna a giocare un ruolo sul versante del

giudizio di responsabilità su cui si colloca la causa di esonero: l'impossibilità sopravvenuta della

prestazione determina, infatti, l'estinzione senza residui dell'obbligazione, quindi con contestuale

esonero dalla responsabilità, soltanto se deriva da un fattore non prevedibile né evitabile, ossia

non imputabile a colpa del debitore, oppure, nel caso delle forme speciali di responsabilità ex

recepto, se è prodotto da uno degli eventi specificamente individuati come cause di esonero.

L'inadempimento e non la colpa costituisce, dunque, il fondamento della responsabilità

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contrattuale o, più precisamente, il danno prodotto dall'inadempimento, a meno che non venga

provato l'operare della causa di esonero. Se è potuta tramandarsi l'idea che la colpa funga da

fonte della responsabilità contrattuale, dipende dal poco controllato uso linguistico invalso e

ancora diffuso in Europa che adopera il termine "colpa" non solo per designare il criterio di

imputazione legato alla violazione di quelle regole generiche di azione designate dalle locuzioni

"diligenza, perizia e prudenza", ma anche per indicare l'inadempimento dell'obbligazione. Le

ragioni di un utilizzo tanto promiscuo sono varie e non ultima incide la tradizione che, in effetti,

non è sul punto particolarmente analitica. Nella riflessione contemporanea sull'obbligazione,

hanno pesato in misura non minore altri due fattori: il ricorso alla diligenza e alla perizia per

conferire contenuto ad alcune tipologie di obbligazioni relativamente alle quali né il diritto

positivo né la riflessione scientifica e neppure l'elaborazione giurisprudenziale si sono impegnati

in una definizione più puntuale dell'oggetto, adagiandosi sull'indeterminatezza garantita da tali

locuzioni; e il processo culturale di oggettivazione della colpa che ha condotto all'individuazione

di una gamma di regole di azione predeterminate, la cui violazione fornisce l'indice della

sussistenza, per l'appunto, della colpa. I due movimenti sono distinti ma concorrono

all'appannamento del significato proprio, quello tecnico, della colpa e all'uso come sinonimo di

inadempimento.

5. La distinzione tra obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi» ha campeggiato

in una parte considerevole del dibattito europeo sull'obbligazione e sulla responsabilità

contrattuale. Concettualizzata in Francia [R. Demogue, Traité des obligations en général, V,

Paris, 1925, n. 1237; VI (Paris 1931), n. 59] sulla base di uno spunto offerto dalla dottrina

tedesca [F. Bernhöft, Kauf, Miete und verwandte Verträge, in Beiträge zur Erläuterung und

Beurtheilung des Entwurfs eines BGB für das d. Reich, quaderni diretti da E.I. Bekker e O.

Fischer, XII, Berlin, 1889, 17; H.A. Fischer, Vis maior im Zusammenhang mit Unmöglichkeit

der Leistung, in Jherings Jharbücher, 37, 1897, 234 ss.], la distinzione influisce sulla regola di

responsabilità, diversificandola in senso più rigido in presenza di un'obbligazione «di risultato» e

in senso più mite in presenza di un'obbligazione «di mezzi». Il massimo studioso italiano del

tema così tratteggia la distinzione: «Nelle c.d. obbligazioni di risultato, il risultato dovuto

consiste in una realizzazione finale in cui si risolve, con piena soddisfazione, il fine economico

del creditore, l’interesse che ha determinato il sorgere del vincolo; invece oggetto delle c.d.

obbligazioni di mezzi è soltanto un comportamento qualificato da un certo grado di convenienza

o utilità in ordine a quel fine, la cui realizzazione non è di per sé compresa nell’orbita del

rapporto obbligatorio» [Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit.,

190-191]. L'esigenza che originariamente ha alimentato la distinzione consiste nell'attenuazione

del regime della responsabilità contrattuale a favore dei professionisti intellettuali così da

preservarne la libertà di innovazione e di sviluppo delle proprie professioni, alla luce del

guadagno sociale che ne deriva [cfr. , E. Carbone, Diligenza e risultato nella teoria

dell'obbligazione, Torino, 2007, 14 ss. e passim]. L'ordinamento in cui la distinzione ha ricevuto

più ampio riconoscimento e anche una maggiore fortuna è quello francese, nel quale essa è

assurta se non proprio a summa divisio – come abitualmente si ripete – per lo meno a ripartizione

dogmatica delle obbligazioni ossia a distinzione dalla quale discendono ricadute sul piano della

disciplina [R. Demogue, Traité des obligations en général, V, Paris, 1925, n. 1237; VI (Paris

1931), n. 59; H. Mazeaud, Essai de classification des obligations: obligations contractuelles et

x ; “ ” “

”, in RTDciv., 1936, 1 ss.; A. Tunc, La distinction des obligations de résultat et

obligations de diligence, in J.C.P. (chronique), 1945, I, n. 449; Id., La distinzione delle

obbligazioni di risultato e delle obbligazioni di diligenza, in Nuova riv. dir. comm., I, 1947-1948,

126 ss.; J. Frossard, La distinction des obligations de moyens et des obligations de résultat,

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19

Paris, 1965, passim; G. Viney, Les obligations. La responsabilité: conditions, in Traité de droit

civil Ghestin, Paris, 1982, 629 ss.; Carbonnier, Droit civil, IV, Les obligations22

, Paris, 2000, nn.

156 ss., 288 ss.; M. Faure Abbad, Le fait générateur de la responsabilité contractuelle, Poitiers,

2003, 242 ss.]. Tuttavia anche in Francia non sono mancate le voci contrarie [H. Capitant, Les

effets des obligations, in RTDCiv., 1932, 724 ss.; P. Esmein, Rémarques sur des nouvelles

classifications des obligations, in Etudes Capitant, Paris, 1930, 235; Id., Le fondement de la

responsabilité contractuelle rapprochée de la responsabilità délictuelle, in RTDCiv, 1933, 627

ss.; Id., Obligations, in M. Planiol-G. Ripert, Traité pratique de droit civil français, VII, Paris,

1952, 498 ss.; G.M. Marton, Obligations de résultat et obligations de moyens, in RTDCiv, 1935,

499 ss.; Ph. Remy, Critique du système français de responsabilité civile, in Droit et Cultures,

1996, 31 ss., in part. 45 ss.; Id., La «responsab »: h ’ f x , in

RTDCiv, 1997, 323 ss.; nonchè ora J. Bellissent, C ’ y

obligations de moyens et des obligations de rèsultat. À propos de èvolution des ordres de

responsabilité civile, Paris, 2001], ma la critica non si è mai spinta oltre il giudizio di inutilità

della bipartizione, dovuta ad un eccesso di schematismo e di genericità [Remy, La

«responsabilité contractuelle», cit., 343]. In Francia la distinzione è stata concepita - come si è

anticipato - col fine di modulare in maniera più favorevole al debitore la questione dei temi di

prova nelle obbligazioni di fare professionale [Demogue, Traité des obligations en général, VI,

cit., n. 599] ed è assurta se non proprio - come si è soliti affermare - a summa divisio [specie a

partire dall'impulso fornito alla distinzione da Mazeaud, Essai de classification des obligations:

x ; “ ” “

générales de prud ”, cit., nn. 24 ss.] certamente a ripartizione dogmatica delle

obbligazioni destinata a sostituire le distinzioni ancorate alla fonte del vincolo. In questa chiave,

dipende dal contenuto e dall'ampiezza del vincolo, piuttosto che dalla sua fonte, la disciplina

applicabile alle obbligazioni, sia che nascano da contratto sia che scaturiscano da delitto, e,

pertanto, alle obligations de résultat è riservato l'art. 1147 code civil, giacché tale disposizione

individua il fatto di esonero dalla responsabilità nella causa estranea, mentre le obligations de

moyens vanno assoggettate all'art. 1137 code civil, che invece è incentrato sulla diligenza [H. e

L. Mazeaud-A. Tunc, Traité théorique et pratique de la responsabilité civile délictuelle et

contractuelle6, I, Paris, 1965, nn. 103 ss.].

La divisione in obbligazioni «di risultato» e in obbligazioni «di mezzi» continua a ricevere

credito tanto nel dibattito culturale europeo intorno alla novellazione dei codici civili quanto

nella riflessione sul diritto trasnazionale e sulla creazione del diritto privato comune europeo.

Sotto il primo profilo, spicca l’Avant-projet de reforme du droit des obligations (artt. 1101 à

1386 code civil) [in Europa dir. priv., 2006, 241 ss. e cfr. G.B. Ferri, L’avant-projet dei Titoli

Tre e Quattro del Libro Terzo del Code Civil, in Europa dir. priv., 2006, 35 ss.], che ha

riconfermato la coppia e addirittura l'ha consacrata in un'apposita disposizione, l'art. 1149,

poiché essa si impone nella disciplina dell’obbligazione «par sa vertu – e sa force - structurante»

[Così testualmente nell’Exposé des Motifs allegata all’Avant-projet.]. Il riconoscimento di una

diversità di oggetto o, per dirla alla francesa, di f ’ produce riflessi sul

versante della responsabilità ed, infatti, l’art. 1364 distingue il tema di prova in capo al creditore

insoddisfatto a seconda della tipologia di obbligazione inadempiuta: «Dans le cas où le débiteur

s’oblige à procurer un résultat au sens de l’article 1149, l’inexécution est établie du seul fait quel

le résultat n’est pas atteint, à moins que le débiteur ne se justifie d’une cause étrangère au sens de

l’article 1349» (comma 1); di contro, «dans tous le autres cas, il ne doit réparation que s’il n’a

pas effectué toutes les diligences nécessaires» (comma 2).

Per quanto concerne il diritto transnazionale, i Principi Unidroit fanno propria la

distinzione nell’art. 5.1.4, rubricato "Obbligazioni di risultato. Obbligazioni di mezzi" e del

seguente tenore: «(1) Quando l’obbligazione di una parte comporti il dovere di raggiungere uno

specifico risultato, quella parte è tenuta a raggiungere quel risultato. (2) Quando l’obbligazione

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di una parte comporti il dovere di adoperarsi con diligenza nell’esecuzione della prestazione,

quella parte è tenuta a compiere gli sforzi che una persona ragionevole della stessa qualità

compirebbe nelle medesime circostanze». I Principi forniscono anche dei criteri per individuare a

quale delle due classi di obbligazione un rapporto obbligatorio vada ricondotto: l’art. 5.1.5

(Determinazione del tipo di obbligazione) difatti chiarisce che «Nel determinare quando

l’obbligazione di una parte sia un’obbligazione di mezzi o un’obbligazione di risultato, bisogna

avere riguardo, tra altro, a (a) il modo in cui l’obbligazione è espressa nel contratto; (b) il prezzo

fissato nel contratto ed altre clausole del contratto; (c) il grado di rischio che di norma è connesso

al raggiungimento del risultato atteso; (d) la capacità dell’altra parte di influire sull’adempimento

dell’obbligazione» [critico G. Alpa, P ff P ’UNIDROIT

sistema contrattuale italiano, in Contr. impr./Europa 1996, 327 ss.]. La scelta di tali criteri è

parso un tentativo di mediazione tra l’impostazione continentale, fedele alla nozione di

obbligazione, e l’impostazione di common law, invece saldamente ancorata al contratto [A. di

Majo, I «Principles»dei contratti commerciali internazionali tra civil law e common law, in Riv.

dir. civ., 1995, I, 622]. L'accoglimento della distinzione nei Principi si presenta però più come

un'operazione classificatoria che come una scelta profonda di disciplina e l'impressione è

confermata dalla constatazione che i Principi non traggono dalla coppia obbligazioni «di

risultato»-obbligazioni «di mezzi» conseguenze sul versante della responsabilità, il cui

fondamento viene individuato nell’inadempimento nella sua oggettività (art.7.1.1). Resta unitaria

anche la causa di esonero, identificata nell’impedimento derivante da circostanze estranee alla

sfera di controllo del debitore: un impedimento che questi non era neanche tenuto

ragionevolmente a prevedere al momento della conclusione del contratto né tanto meno ad

evitare o superare (art. 7.1.7). Sembra pertanto eccessiva la conclusione di un innalzamento della

distinzione alla dimensione sovranazionale grazie al riconoscimento compiuto dai Principi

Unidroit [D. Alessi, The Distinction between Obligations de Résultat and Obligations de Moyens

and the Enforceability of Promise, in European R. Priv. L., 2005, 662; contra Piraino,

Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 515 nt. 17].

Sul fronte dei progetti di codificazione in prospettiva dell’unificazione della disciplina

generale delle obbligazioni e dei contratti, si registra l'implicito riconoscimento da parte del

Code Européen des Contrats, il quale non recepisce espressamente la distinzione tra obbligazioni

«di mezzi» ed obbligazioni «di risultato», ma chiaramente la presuppone, distinguendo le

obbligazioni di fare a carattere professionale – che sono poi la più nota e diffusa incarnazione

della categoria dei vincoli «di mezzi» – da tutte le altre obbligazioni (art. 75, comma 3) [L. Gatt,

Sistema normativo e soluzioni innovative del “Code Européen des Contrats”, in Europa dir.

priv., 2002, 369]. Con scelta assai moderna, il Code si pone però un problema ulteriore: quello

della trasformazione di obbligazioni tipicamente «di mezzi» in obbligazioni «di risultato» (art.

94, comma 3), il che vale come un chiaro riconoscimento della sostanziale mobilità dei confini

tra le due figure. La distinzione qui si riflette sul terreno della responsabilità: l’art. 162, comma

3, precisa infatti che «nel caso previsto dal comma 3, prima parte, dell’art. 75, il debitore è

esente da responsabilità per danni se dimostra di aver adottato la diligenza richiesta nella

situazione specifica, come indicato nella disposizione stessa, e se fornisce le prove richieste

dall’art. 94, comma 3. Se il debitore di una prestazione professionale per eseguirla ha agito – col

consenso informato del danneggiato, o dei suoi parenti, o di chi è preposto alla sua

rappresentanza o assistenza legale – in un campo nel quale la sperimentazione scientifica non ha

ancora raggiunto risultati consolidati, risponde soltanto se si è comportato con colpa grave».

La coppia obbligazioni «di mezzi»-obbligazioni «di risultato» è accolta anche dai Principi

di diritto europeo sui contratti di prestazione di servizi, che agli artt. 1:107 e 1:108 scandiscono

la distinzione tra vincoli aventi ad oggetto l’impiego di determinati mezzi improntati a diligenza

e perizia e vincoli volti al conseguimento di uno specifico risultato concordato dalle parti o

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legittimamente atteso dal creditore [M. Barendrecht-C. Jansen-M. Loos-A. Pinna-R. Cascão-S.

van Gulijk (a cura di), Principles of European Law: Service Contracts (PEL SC), Munich, 2007].

A fronte di questi segnali di vitalità della contrapposizione tra obbligazioni «di mezzi» e

obbligazioni «di risultato» si registrano segnali che vanno nel senso opposto e anche in maniera

assai significativa: basti pensare alla mancata ricezione da parte dei PDEC e poi del DCFR e,

soprattutto, all'estraneità a diverse tradizioni giuridiche europee, e specialmente a quella del

Regno unito, naturale portato della scarsa dimestichezza del common law con la categoria

dell’obbligazione e della conseguente assenza di un’elaborazione concettuale al riguardo [per

quanto è possibile rintracciare un’eco della distinzione nel pensiero di A. Farnsworth, On Trying

K O ’ P : The Duty of Best Efforts in Contract Law, in 46 Univ. of. Pittsburg

L.R., 1 (1984).]. Da una celere rassegna emerge che gli ordinamenti in cui la distinzione è nota e

applicata, magari anche tra contrasti, sono relativamente pochi: oltre alla Francia e all'Italia, sulle

quali si tornerà subito nel prosieguo, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Romania e Polonia [cfr. J.

Bellissent, C ’ y y

obligations de rèsultat. À propos de èvolution des ordres de responsabilité civile, Paris, 2001,

17-18 e nt. 3 e Alessi, The Distinction between Obligations de Résultat and Obligations de

Moyens and the Enforceability of Promise, cit., 662]. La conclusione che in dottrina è, quindi,

maturata è che, a meno di un esplicito recepimento in sede di codificazione, la diade obbligazioni

«di mezzi»-obbligazioni «di risultato» non si presti a divenire una categoria del diritto privato

europeo c.d. positivo [F. Piraino, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi» ovvero

’ ’ , in Europa dir. priv.,

2008, 90-91; contra E. Carbone, D z ’ z , Torino,

2007, 4, 28 ss; L. Follieri, Obbligazioni di mezzi e di risultato nella prestazione del progettista-

direttore dei lavori, in Obbl. contr., 2006, 726]. Va però segnalato che nell'ultimo prodotto del

processo di armonizzazione del diritto privato europeo, il common european sales law, la

distinzione è tornata

In Italia la distinzione è stata introdotta da Giuseppe Osti ma non con lo scopo di attribuirle

il valore assegnatogli dalla dottrina d'oltralpe [G. Osti, Revisione critica della teoria sulla

impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209 ss.; Id., Deviazioni dottrinali in tema

di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, 593

ss.; ma v. anche F. Leone, La negligenza nella colpa extra-contrattuale e contrattuale, in Riv.

dir. civ., 1915, 84 ss.]. In Osti, la distinzione ha una valenza per lo più descrittiva e non rompe

l'unitarietà del regime di responsabilità contrattuale, ancorato all'inadempimento nella sua

materialità, né intacca la causa di esonero, ravvisata nell'impossibilità oggettiva e assoluta non

imputabile a colpa del debitore. E tuttavia il suo accoglimento, specie in giurisprudenza, ha

imboccato ben altre vie e ha condotto alla differenziazione delle cause di esonero dalla

responsabilità: se l'obbligazione è «di risultato», quest'ultima coincide con l'impossibilità della

prestazione derivante da causa non imputabile al debitore; se l'obbligazione è invece «di mezzi»,

alla precedente si affianca la prova dell'adozione delle misure di diligenza e di prudenza e del

rispetto delle regole di perita. Tutto ciò non può che incidere anche sulla disciplina e sul

fondamento della responsabilità: nel primo caso, la regola da applicare va individuata nell'art.

1218 c.c. e il fatto costitutivo va ravvisato nell'inadempimento nella sua oggettiva materialità,

identificato con l'assenza o l'inesattezza del risultato; mentre, nel secondo caso, la regola diviene

l'art. 1176 c.c. e il fondamento va rintracciato nella colpa, ossia una condotta caratterizzata dalla

violazione dei parametri della diligenza, perizia e prudenza. A sua volta, la distinzione influenza

anche l'individuazione dei tempi di prova a carico del creditore, alleggerendone l'onere al

cospetto di un'obbligazione «di risultato», dove si rivela, infatti, sufficiente l'allegazione del

mancato conseguimento del fine dovuto o la sua inesattezza per assolvere all'attestazione

dell'inadempimento, ribaltando sul debitore l'onere di provare l'incidenza di un fatto esterno e

non imputabile che ha generato impossibilità. Nelle obbligazioni «di mezzi», tutt'al contrario,

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l'onere è più gravoso per il creditore a causa della necessità di fornire la prova di uno specifico

appunto in termini di negligenza, imprudenza o imperizia nei confronti del debitore, il quale può

tentare di ottenere il proprio esonero della responsabilità limitandosi a contestare tali assunzioni

del creditore, provando di aver invece rispettato le regole ricavabili da criteri della diligenza,

prudenza e perizia.

Nella formulazione più compiuta ed elaborata in Italia [G. D’Amico, La responsabilità ex

z z “ zz ” “ ”. C

responsabilità contrattuale, Napoli, 1999, 105 ss., in part. 124 ss.; ed ora Id., Responsabilità per

inadempimento e distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, in Riv. dir. civ., 2006, 141

ss.] le conseguenze sul terreno della diversificazione delle regole di responsabilità vengono

abbandonate e se ne riafferma l'unitarietà all'insegna dell'art. 1218 c.c., sicché la distinzione tra

obbligazioni «di mezzi» ed obbligazioni «di risultato» viene ancorata alla convinzione della

diversità di oggetto delle due specie dell’obbligazione. Tale differenza di contenuto si ripercuote

non tanto sul limite della responsabilità (consistente in ogni caso nell’impossibilità oggettiva ed

assoluta della prestazione), quanto piuttosto sul suo fondamento, ravvisato nella colpa, se

inadempiuta è un’obbligazione «di mezzi», e nel rischio, se inadempiuta è invece

un’obbligazione «di risultato» [D’Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione tra

z “ zz ” “ ”, cit., 152-153]. Nella tesi in esame, la distinzione riveste

una funzione dogmatica e, quindi, determina conseguenze sul piano applicativo, che si

concentrano, in particolare, nella diversa distribuzione nelle due specie di obbligazioni tanto dei

temi di prova quanto del rischio delle cause ignote. Nelle obbligazioni «di mezzi» il debitore si

può liberare dalla responsabilità limitandosi a fornire la prova dell’osservanza degli standard

tecnici e di diligenza normalmente praticati e, pertanto, fornita la prova prima facie della

diligenza e della perizia, il mancato conseguimento del risultato sperato dal creditore determina

l'insorgere della presunzione che tale cattivo esito sia da ascrivere a una causa estranea che il

debitore non è peraltro tenuto ad individuare, incombendo piuttosto sul creditore la sua

identificazione per dimostrarne la prevedibilità ed evitabilità da parte del debitore. Grava,

dunque, sul creditore della prestazione «di mezzi» il rischio della causa ignota, ossia

l'esposizione alle conseguenze negative della mancata individuazione di tale fattore [D'Amico,

L x z z “ zz ” “ ”, cit.,

124-125]. Nelle obbligazioni «di risultato», tutt'al contrario, proprio a causa della particolare

intensità del vincolo, che prevede l'inclusione nell'oggetto dell'obbligazione dell'interesse

primario del creditore, l'allegazione della mancata realizzazione di tale fine solleva il creditore da

ulteriori adempimenti istruttori e addossa al debitore l'onere di individuare l'accadimento

sopravvenuto e non imputabile che ha reso la prestazione impossibile. Qui il rischio della causa

ignota è, quindi, accollato al debitore «di risultato» [D'Amico, La responsabilità ex recepto e la

z z “ zz ” “ ”, cit., 130].

Sull'onda dell'insegnamento di Mengoni [Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di

mezzi», cit., 185 ss.], la dottrina maggioritaria bolla la distinzione tra obbligazioni «di mezzi» ed

obbligazioni «di risultato» come artificiosa ed inconsistente a causa di una chiara insufficienza di

impianto e di struttura [M. Giorgianni, L’ 3, Milano, 1975, 227-228; P. Rescigno,

Obbligazioni (diritto privato), in Enc. dir., XXIX, Milano, 1979, 190-192; U. Natoli,

L’ z , t. 2. Il comportamento del debitore, in Tratt. dir. civ. e

comm., diretto da A. Cicu e F. Messineo continuato da L. Mengoni, Milano, 1984, 47 ss., in part.

53; di Majo, Delle obbligazioni in generale, cit., 109-111; 456 ss.; Id., Obbligazione I) Teoria

generale, , in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, 21; C. Castronovo, Profili della

responsabilità medica, in Studi in onore di Pietro Rescigno. V. Responsabilità civile e tutela dei

diritti, Milano, 1998, 117 ss.; Id., La nuova responsabilità civile, cit., 560 ss.; 785 ss.; S.

Mazzamuto, Equivoci e concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il dibattito sulla vendita

dei beni di consumo, in Europa dir. priv., 2004, 1068 ss.; C.M. Bianca, D ’

Page 23: Responsabilit_contrattuale - Mazzamuto

23

delle obbligazioni,, in Comm. cod. civ. a cura di A. Scialoja-G. Branca, sub artt. 1219-1222,

Bologna-Roma, 1979, 33; Id., Diritto civile. 4. L’ z , Milano, 1993, 73-75; U. Breccia,

D z f ’ z , Milano, 1968, 106 ss.; Id., Le

obbligazioni, in Tratt. dir. priv. a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 1991, 137 ss., 488-491; G.

Visintini, Inadempimento e mora del debitore2, in Il Codice Civile. Commentario Schlesinger,

diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2006, 117-118; L. Nivarra, La responsabilità civile dei

professionisti (medici, avvocati, notai): il punto della giurisprudenza, in questa Europa dir.

priv., 2000, 518 ss.; A. Nicolussi, Il commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra

obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, in Europa dir. priv., 2006, 797 ss.; Piraino,

Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit., 83 ss.; Id., Adempimento e

responsabilità contrattuale, cit., 518 ss.; G. Cerdonio Chiaromonte, L’ z

professionista intellettuale tra regole deontologiche, negoziali e legali, Padova, 2008, 135] e se

ne suggerisce, quindi, l'abbandono [Castronovo, Profili della responsabilità medica, cit., 124.].

L'argomento dogmatico grazie al quale è possibile svelare la fallacia su cui poggia la distinzione

tra obbligazioni «di mezzi» ed obbligazioni «di risultato» sottolinea che in ogni obbligazione v'è

un risultato per la semplice ragione che essa è sempre sintesi di mezzi in funzione di un fine,

soltanto che, in alcuni casi, si registra una piena coincidenza tra l'interesse che ha spinto il

creditore all'acquisizione del credito (interesse-primario o interesse-presupposto) e l'interesse che

il debitore è in grado di realizzare posto; mentre, in altri casi, tra il primo, l'interesse di fatto, e il

secondo, l'interesse giuridicamente rilevante, si riscontra una divergenza tale da far sì che

l'interesse giuridicamente rilevante si arresti prima di quello di fatto, presentandosi come una sua

necessaria premessa. Il ragionamento è il seguente: «l’interesse-presupposto dell’obbligazione è

sempre orientato al mutamento o alla conservazione di una situazione di fatto iniziale. Ma non

sempre l’oggetto della qualificazione giuridica, ossia il contenuto del rapporto obbligatorio,

coincide con la realizzazione di questo interesse che potremmo chiamare primario. Talvolta la

tutela giuridica, che è misura del “dover avere” del creditore, è circoscritta a un interesse

strumentale, a un interesse di secondo grado che ha come scopo immediato un’attività del

debitore capace di promuovere l’attuazione dell’interesse primario. In tali ipotesi il fine tutelato,

cioè appunto il risultato dovuto, non è che un mezzo nella serie teleologica che costituisce il

contenuto dell’interesse primario del creditore» [Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e

obbligazioni «di mezzi», cit., 188-189.]. Una linea, questa, che, con un minor investimento

teorico, è stata finalmente fatta propria anche dalla giurisprudenza [Cass., sez. un., 28-07-2005,

n. 15781, in Europa dir. priv., 2006, con nota di Nicolussi, Il commiato della giurisprudenza

dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, cit., 775 ss.; Cass. 13-04-

2007 n. 8826, in Resp. civ. prev., 2007, 1824 ss. con nota di M. Gorgoni, Le conseguenze di un

intervento chirurgico rivelatosi inutile; Cass., sez. un., 11-1-2008, n. 577, in Danno resp., 2008,

788 ss., con nota di G. Vinciguerra, Nuovi (ma provvisori?) assetti della responsabilità medica e

ivi, 2008, 871 ss., con nota di A. Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra

obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico], che ha così

ripudiato la distinzione, in passato invece sempre utilizzata per dare forma alle prestazioni di

fare, specie di quelle di natura intellettuale. Va segnalata, tuttavia, una recente e assai poco

persuasiva presa di posizione della Cassazione in materia di appalto di sevizi, con la quale la

Suprema corte ha ribadito l'adesione all'indirizzo precedente, coronato con la sentenza delle

Sezioni unite del 2008, ma poi ne ha smentito in pratica le conclusioni, decidendo il caso di

specie tramite l'inquadramento della particolare prestazione assunta dall'appaltatore nello schema

dell'obbligazione «di mezzi» [Cass., 28 febbraio 2014, n. 4876, in Contratti, 2014].

La riflessione teorica più recente ha riconfermato l'inconsistenza dogmatica della

distinzione, riproponendone l'abbandono così da fugare qualunque equivoco sull'unitarietà del

giudizio di responsabilità contrattuale, il quale trova il proprio fondamento non già nella colpa

ma nell'inadempimento in sé [Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi»,

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cit., 199-200, 203] e si arresta soltanto in presenza di un fatto non imputabile generatore

dell'impossibilità della prestazione, che rappresenta la sola causa di esonero dalla responsabilità.

L'unico valore che è possibile riconoscere alla distinzione riveste natura pragmatica e si lega al

suo contenuto descrittivo [di Majo, Delle obbligazioni in generale, cit., 462-463]: la distinzione

si limita a cogliere una nota fenomenica dell'obbligazione, registrando che, nella varietà delle sue

manifestazioni, ve ne sono alcune nelle quali il risultato spicca in maniera netta e risulta

predeterminabile e altre nelle quali il risultato appare meno facilmente individuabile a priori e

va, quindi, colto ex post. La valorizzazione di questo dato empirico può agevolare

l'individuazione dei temi di prova a carico dei due soggetti del rapporto obbligatorio, assicurando

maggiore concretezza e realismo; ma tutto ciò non si può mai tradurre nella pretesa dei fautori

della distinzione di munire una particolare categoria di debitori (quelli «di mezzi») di una causa

di esonero dalla responsabilità diversa e più agevole rispetto all’impossibilità della prestazione

derivante da causa non imputabile al debitore. È infatti difficilmente contestabile che nelle

obbligazioni connotate da un risultato dotato di un minor grado di predeterminazione

quest'ultimo si esponga alla reciproca contestazione, divenendo in altri termini controvertibile

[Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 583 ss.]. In tali frangenti, il debitore,

chiamato a rispondere del proprio inadempimento, gode, quindi, di un'alternativa: confutare

l'assunto del creditore sulla mancanza o inesattezza del risultato già sul terreno delle mere difese,

confutando che il risultato preteso dal creditore non coincida con quello in realtà dovuto e

dimostrando, dunque, che quanto realizzato rappresenta proprio quello che era possibile

conseguire adottando i mezzi prescritti dal vincolo obbligatorio; oppure fornire la prova del fatto

non imputabile fonte di impossibilità della prestazione. Un'analoga alternativa non è invece a

disposizione del debitore nelle obbligazioni caratterizzate da un risultato chiaramente

predeterminato e, quindi, non disputabile, sicché l'unica via che il debitore può imboccare per

l'esenzione della responsabilità resta la prova dell'impossibilità non imputabile della prestazione

[Nicolussi, Il commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e

obbligazioni di mezzi, cit., 797 ss.; Piraino, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di

mezzi», cit., 145 ss.; Id., Adempimento e responsabilità contrattuale, cit., 585 ss.].

6. La normativa europea che dedica maggiore attenzione alle questioni della responsabilità

contrattuale è senza dubbio la dir. 90/314/CEE concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti

«tutto compreso», la quale, all'art. 5, co. 2, sancisce: «Per quanto riguarda i danni arrecati al

consumatore dall'inadempimento o dalla cattiva esecuzione del contratto, gli Stati membri

prendono le misure necessarie affinché l'organizzatore e/o il venditore siano considerati

responsabili, a meno che l'inadempimento o la cattiva esecuzione non siano imputabili né a colpa

loro né a colpa di un altro prestatore di servizi in quanto: - le mancanze constatate

nell'esecuzione del contratto sono imputabili al consumatore, - tali mancanze sono imputabili a

un terzo estraneo alla fornitura delle prestazioni previste dal contratto e presentano un carattere

imprevedibile o insormontabile, - tali mancanze sono dovute a un caso di forza maggiore come

definito all'articolo 4, paragrafo 6, secondo comma, punto ii), o ad un avvenimento che

l'organizzatore e/o il venditore non potevano, con tutta la necessaria diligenza, prevedere o

risolvere». A seguito di un susseguirsi di interventi di attuazione, tale disposizione ha infine

preso, nell'ordinamento italiano, la forma dell'art. 46, co. 2, cod. tur. che fissa la causa di esonero

dalla responsabilità per l'organizzatore e per l'intermediario del pacchetto turistico e ne delinea

anche il perimetro con un'analiticità sconosciuta ai codici civili, con l'eccezione del § 275 BGB a

seguito della Schuldrechtsmodernisierung, da leggere in combinato disposto con i §§ 280 e 283

BGB. L'art. 46, co. 2, cod. tur. identifica infatti la causa di esonero con l'impossibilità della

prestazione derivante da causa non imputabile al debitore ma ne specifica anche le possibili

declinazioni, che consistono: a) nel fatto imputabile al turista che ha determinato

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l'inadempimento o l'inesatto adempimento dell'organizzatore o dell'intermediario; b) nel fatto di

un terzo a carattere imprevedibile o inevitabile; c) nel caso fortuito o nella forza maggiore. Non

va tuttavia trascurata un'altra disposizione, apparentemente meno pertinente, ma invece centrale

almeno quanto quella in materia di pacchetti turistici: l'art. 3, co. 3, dir. 99/44, su taluni aspetti

della vendita e delle garanzie dei beni di consumo. Secondo la lettura che sembra preferibile [v.

cap. vendita], la disciplina della vendita di beni di consumo affida la protezione del consumatore

contro i difetti di conformità non al meccanismo dell'obbligazione e della conseguente

responsabilità ma al congegno della garanzia e degli eventuali suoi effetti. E tuttavia gli effetti

della garanzia consistono in prima istanza proprio in un'obbligazione, quella di ripristinare la

conformità del bene, che può assumere due diversi contenuti, la riparazione del bene e la

sostituzione. L'art. 3, co. 3, dir. 99/44 fissa i limiti dell'esigibilità di tali obbligazioni e, quindi,

implicitamente delinea le cause di esonero dalle responsabilità per la loro violazione, stabilendo

che « In primo luogo il consumatore può chiedere al venditore di riparare il bene o di sostituirlo,

senza spese in entrambi i casi, salvo che ciò sia impossibile o sproporzionato. Un rimedio è da

considerare sproporzionato se impone al venditore spese irragionevoli in confronto all'altro

rimedio, tenendo conto: - del valore che il bene avrebbe se non vi fosse difetto di conformità; -

dell'entità del difetto di conformità, e - dell'eventualità che il rimedio alternativo possa essere

esperito senza notevoli inconvenienti per il consumatore. Le riparazioni o le sostituzioni devono

essere effettuate entro un lasso di tempo ragionevole e senza notevoli inconvenienti per il

consumatore, tenendo conto della natura del bene e dello scopo per il quale il consumatore ha

voluto il bene». Una delle particolarità di questa normativa consiste nel perdurare della garanzia

nonostante che l'obbligazione ripristinatoria sia venuta meno senza che sia possibile addebitare

al professionista alcun profilo di responsabilità: il declinare dell'obbligazione di ripristino

innesca infatti i rimedi successivi della risoluzione del contratto e della riduzione del prezzo [v.

cap. Vendita]. La portata di questa disposizione è tale che la ricordata riscrittura del § 275 BGB,

a seguito della riforma del diritto delle obbligazioni tedesco, non è stata indotta dalla direttiva sul

pacchetto turistico ma proprio dalla direttiva sulla vendita di beni di consumo, portando

all'affiancando alla tradizionale impossibilità oggettiva ed assoluta le figure dell'impossibilità

oggettiva e relativa e dell'inesigibilità. Nell'ordinamento italiano, l'art. 3, co. 3, dir. 99/44 è stato

attuato in maniera ancora più articolata con l'art. 130, co. 4, 5 e 7, cod. cons. Le scelte compiute

sul versante dei limiti dell'obbligazione ripristinatoria dalla disciplina della vendita di beni di

consumo sono confermate nella proposta di regolamento sul common european sales law, che,

all'artt. 110, annovera l'impossibilità, cui affianca l'illiceità sopravvenuta, e l'eccessiva onerosità,

a sua volta declinata nei termini noti all'art. 111.

Disposizioni analoghe per dettaglio non si rintracciano nella disciplina codicistica e ciò ha

determinato, in Italia, la ben nota contrapposizione sul concetto di impossibilità tra fautori della

nozione oggettiva ed assoluta [G. Osti, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della

prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209 ss.; Id., Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità

per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1954, 593 ss.; Id.,

Impossibilità sopravveniente, in Novissimo Dig. it., VIII, Torino, 1968, 288 ss.] e fautori della

nozione oggettiva e relativa [L. Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi»

(Studio critico), in Riv. dir. comm., 1954, I, 280 ss.; Id., Responsabilità contrattuale, cit., 1087

ss.], che oggi è risolta a favore di questi ultimi poiché ha prevalso l'insegnamento secondo cui la

corretta identificazione della prestazione come sintesi di un risultato e del relativo

comportamento strumentale del debitore impone di approdare all'idea dell'impossibilità come

concetto oggettivo ma squisitamente relativo, non solo e non tanto « nel senso di impossibilità

relativa a quel particolare tipo di rapporto obbligatorio di cui la prestazione, della quale si

discute, forma l'oggetto specifico » [E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni:

funzione economico-sociale dei rapporti d'obbligazione, Milano, 1953, 48, 112], quanto nel

senso che « il giudizio di impossibilità deve essere argomentato in relazione al contenuto del

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26

concreto rapporto in questione così come risulta determinato dalla fonte » [Mengoni,

Responsabilità contrattuale, cit., 1087-1088; v. ora F. Piraino, Adempimento e responsabilità

contrattuale, cit., 486; 614 ss.].

La nozione oggettiva e relativa considera, dunque, l'impossibilità come impedimento che si

deve dirigere esclusivamente sulla prestazione in sé per sé considerata (requisito dell'oggettività)

e non può coinvolgere, invece, la capacità di adempiere del particolare debitore della cui

responsabilità si tratta (la c.d. impossibilità soggettiva), ma non anche come impedimento di

intensità tale da renderlo insuperabile da qualsivoglia debitore perché posto al di là delle umane

forze o superabile solo tramite un'attività illecita o un rischio per l'incolumità fisica o per la

personalità del debitore (requisito dell'assolutezza). L'impossibilità va, quindi, apprezzata in

concreto e non già in astratto (requisito della relatività), con riferimento alla specifica

prestazione dedotta in obbligazione così come ricostruita alla luce del suo titolo, anche sulla

scorta del precetto di buona fede poiché è dal contratto interpretato secondo buona fede-

correttezza ex art. 1366 c.c. che si « desume quali speciali capacità e conoscenze il debitore deve

prestare, quali sono le tecnologie del cui mancato e difettoso impiego rispondere, e in genere con

quali mezzi si è obbligato a procurare quel tipo di risultato al creditore […]. Perciò in un

medesimo tipo di rapporto l'intensità del vincolo obbligatorio, cioè la misura dell'impegno

assunto dal debitore per soddisfare l'interesse del creditore, può essere diversa a seconda delle

circostanze individuali in cui la promessa è stata fatta » [Mengoni, Responsabilità contrattuale,

cit., 1088].

La concezione dell'impossibilità come impedimento oggettivo e assoluto poiché

insuperabile da chiunque sottende un'idea di prestazione dalla quale è espunta la considerazione

dell'attività del debitore e che si identifica, invece, con un risultato inteso come apporto di utilità,

anche quando tale apporto si traduce in una mera attività (le c.d. obbligazioni di mezzi: ad es. la

prestazione medica) poiché il debitore è vincolato a compierla indipendentemente dalle sue

concrete possibilità, e risponde del mancato compimento di essa se non prova che la sua attività

in sé per sé considerata è diventata impossibile per sua colpa [Osti, Impossibilità sopravveniente,

287 ss.; ed ora G. D'Amico, La responsabilità ex recepto e la distinzione tra "obbligazioni di

mezzi" e "di risultato". Contributo alla teoria della responsabilità contrattuale, Napoli, 1999, 56

ss.]. Al fondo di questa dottrina si avverte l'ideologia positivistica, che è ostile alle clausole

generali e protesa a ridurre al minimo i margini di discrezionalità del giudice [Mengoni,

Responsabilità contrattuale, cit., 1088] e, dunque, si presenta come posizione storicamente

datata [di Majo, Delle obbligazioni in generale, 467], tanto più alla luce del diritto privato

europeo che introduce criteri autonomi di gestione dei rimedi come la ragionevolezza, la

proporzionalità e la non eccessiva onerosità (ad es. art. 130 cod. cons. in materia di rimedi

ripristinatori nella vendita di beni di consumo) che mirano a fondare valutazioni in concreto delle

condizioni di attivazione del mezzo di tutela.

Lo «spirito del tempo» ha fatto irruzione - come si è anticipato - anche nello Schuldrecht,

la cui Modernisierung non ha lasciato immune l'Unmöglichkeit la classica e blasonata nozione di

impossibilità: il § 275 BGB ne estende il contenuto sino ad includervi la c.d. impossibilità di

fatto ossia la grave sproporzione degli oneri necessari per eseguire la prestazione rispetto

all'interesse del creditore, in considerazione del contenuto del rapporto obbligatorio e dei precetti

della buona fede (co. 2), e la c.d. « pretendibilità » (Zumutbarkeit) ossia l'inesigibilità della

prestazione che il debitore è chiamato ad eseguire personalmente a causa di un impedimento che

rende irragionevole la pretesa della sua esecuzione (co. 3).

7. Il danno non patrimoniale consiste nelle c.d. perdite di utilità personali ossia nei

pregiudizi che colpiscono direttamente i profili della personalità umana: dalla salute alla dignità,

dalla gestione delle informazioni di carattere personale all’identità, a volersi limitare alle figure

più ricorrenti. Le elaborazioni più approfondite e sofisticate intorno alla nozione di danno non

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patrimoniale sono state compiute nell’ambito del dibattito sulla maggiore o minore ampiezza

dell’area della risarcibilità in campo aquiliano, ma i risultati lì conseguiti sono ovviamente validi

anche nel diverso campo della responsabilità contrattuale.

Danno non patrimoniale e responsabilità contrattuale per lungo tempo sono stati

considerarti due fenomeni non comunicanti a causa dell’idea radicata secondo cui la tutela della

persona sarebbe di competenza esclusiva della responsabilità extracontrattuale, sul modello della

lex Aquilia de damno, e ciò ha dato la stura alla perniciosa figura del concorso di responsabilità

[sul punto v. A. Zaccaria, Il risarcimento del danno non patrimoniale in sede contrattuale, in

Resp. civ., 2009, 28 ss. e in senso critico sul cumulo/concorso S. Mazzamuto, Una rilettura del

: z ’ , in Europa dir. priv., 2003,

670; Castronovo, La nuova responsabilità civile, cit., 555 ss.], addirittura talvolta prospettata

come cumulo [Cass. 16 maggio 2000 n. 6356; Cass. 21-06-1999 n. 6233]. L’immediata

conseguenza è stata l’affermarsi di una raffigurazione della responsabilità contrattuale come

dispositivo incapace di consentire il risarcimento generalizzato del danno non patrimoniale [G.P.

Chironi, La colpa nel diritto civile odierno. III. Colpa contrattuale, Torino, 1903-1925, 567 ss.;

R. Scognamiglio, Il danno morale, in Riv. dir. civ., 1957, I, 313, ma v. il ritorno sul tema e la

limitata apertura nei confronti del danno non patrimoniale da inadempimento in Id., Il danno

morale mezzo secolo dopo, ivi, 2010, I, 616; V. Zeno Zencovich, Interesse del creditore e danno

contrattuale non patrimoniale, in Riv. dir. comm., 1987, 77 ss.; M. Cenini, Risarcibilità del

danno non patrimoniale in ipotesi di inadempimento contrattuale e vacanze rovinate: dal danno

esistenziale al danno da « tempo libero sacrificato »?, in Riv. dir. civ., 2007, II, 633 ss., in part.

639; M. Barcellona, Trattato della responsabilità civile, Torino, 2011, 823 e nt. 71.] e

l’introduzione nel codice civile dell’art. 2059 c.c. non ha agevolato il superamento di tale

impostazione, accreditando piuttosto l’idea che proprio la disposizione sul danno non

patrimoniale aquiliano esprima una regola di portata ben più ampia, un vero e proprio principio,

che circoscrive anche in sede contrattuale il risarcimento del danno non patrimoniale nei limiti

segnati proprio dall’art. 2059 c.c. [G. Russo, Concorso dell'azione aquiliana con la contrattuale

nel contratto di trasporto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, 971; A. Asquini, Massime non

consolidate in tema di responsabilità nel trasporto di persone, in Riv. dir. comm., 1952, II, 9; A.

De Cupis, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, I, Milano, 1979, 127 ss.; C.M.

Bianca, Diritto civile. V. La responsabilità (Milano 1994), 170]. La questione centrale consiste,

per l’appunto, nella generalizzata possibilità di risarcire il danno alla persona secondo le regole

della responsabilità contrattuale poiché nessuno ha mai seriamente dubitato che alcune tipologie

contrattuali includano nella propria causa la salvaguardia dell’integrità di controparte, come

d’altro canto inequivocabilmente emerge in primo luogo dagli artt. 1681, co. 1, e 2087 c.c. ed ora

anche dall’art. 44 cod. tur. La linea di pensiero tradizionale sostiene che la responsabilità

contrattuale si apra alla protezione della persona soltanto per diritto speciale, mentre per regola

generale essa risulti preordinata alla tutela per equivalente delle sole situazioni soggettive di

natura patrimoniale. Su questa concezione influisce una lettura tralaticia dell’art. 1174 c.c.

[Barcellona, Trattato della responsabilità civile, 821 ss.; mentre v. Piraino, Adempimento e

responsabilità contrattuale, cit., 618 ss.].

L’iniziale e a lungo sostenuta inidoneità delle regole di responsabilità contrattuale ad

ammettere in maniera generalizzata il risarcimento del danno non patrimoniale ha certamente

risentito del clima culturale di sostanziale diffidenza nei confronti di una tipologia di pregiudizio

immateriale e, dunque, priva per lo più di una consistenza tale da consentire una liquidazione del

risarcimento su basi oggettive. Una riprova di tale diffidenza si ricava dall’assai noto passo della

relazione al codice civile relativo all’art. 2059 c.c., nel quale il danno alla persona viene ritenuto

risarcibile soltanto se l’evento lesivo integri gli estremi di un reato, considerando questo

approccio assai restrittivo espressione della coscienza giuridica del tempo la quale «avverte che

soltanto nel caso di reato è più intensa l’offesa all’ordine giuridico e maggiormente sentito il

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28

bisogno di una più energica repressione con carattere anche preventivo» [Relazione n. 803].

L’identificazione dei «casi previsti dalla legge» con le fattispecie dannose che costituiscono

reato e la scelta di regolare la materia soltanto in ambiente aquiliano hanno ingenerato il τόποσ

dell’irrisarcibilità del danno non patrimoniale che scaturisce dal mero inadempimento di

un’obbligazione, salve le già ricordate eccezioni. È fin troppo nota la vicenda interpretativa che

ha coinvolto l’art. 2059 c.c.: il diritto pretorio ha preso le mosse dallo stringente tenore letterale

della norma, che prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale secondo le regole della

responsabilità aquiliana soltanto nei casi determinati dalla legge, ed è infine approdato ad una

sua rilettura costituzionalmente orientata che consente di ritenere integrata la riserva di legge in

tutti i casi di perdita connessa alla lesione di un valore non economico riconosciuto come oggetto

di un diritto inviolabile [Cass. s.u. 11 novembre 2008 n. 26972].

Il diritto privato europeo, con l’apertura al danno non patrimoniale da inadempimento fatta

segnare dalla disciplina del contratto di pacchetto turistico e, più in particolare, dalla previsione

degli art. 44 e 47 cod. tur., ha riportato alla ribalta il tema del danno contrattuale non

patrimoniale ed ha fornito un ulteriore appiglio normativo alla linea di pensiero che, contro

l’impostazione tradizionale, ammette la compatibilità tra responsabilità ex contractu e danno non

patrimoniale [S. Mazzamuto, Il danno non patrimoniale contrattuale, in Europa dir. priv., 2012,

437 ss.]. Un rilievo del tutto particolare riveste l’art. 47 cod. tur. che riconosce espressamente il

c.d. risarcimento del danno da vacanza rovinata, recependo così, le istanze di dottrina e di

giurisprudenza, e prevede che, nel caso in cui l’inadempimento o l’inesatta esecuzione delle

prestazioni che formino oggetto del pacchetto turistico non si rivelino di scarsa importanza a

mente dell’art. 1455 c.c., il turista possa domandare, oltre alla (ed indipendentemente dalla)

risoluzione del contratto, un risarcimento del danno correlato al tempo di vacanza inutilmente

trascorso ed all’irripetibilità dell’occasione perduta [Mazzamuto, Il danno non patrimoniale

contrattuale, 442-443; F. Romeo, I “ ” z : ’ .

47 del codice del turismo, in Resp. civ., 2011, 565 ss.; A. Rossi, Tutela del turista: conferme e

novità, in Danno resp., 2011, 989 ss.].

L’art. 47 cod. tur. recepisce l’art. 5 della dir. 90/314 sul quale si è già formata una

giurisprudenza in sede europea. L’apertura della responsabilità contrattuale al ristoro anche dei

pregiudizi di natura non patrimoniale connessi all’inadempimento, infatti, è stata espressamente

riconosciuta dalla Corte europea di Giustizia, chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale

sull’interpretazione con riferimento alla questione se in linea di principio il consumatore abbia

diritto al risarcimento del danno morale derivante dall'inadempimento o dalla cattiva esecuzione

delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio «tutto compreso» (Ceg 12 marzo 2002 C-

168/00).

L’ipotesi presa in esame dalla Corte è anche la figura di danno non patrimoniale da

inadempimento del contratto di pacchetto turistico più frequente nella prassi: il c.d. danno da

vacanza rovinata, consistente nel disagio subito dal consumatore e/o nella vanificazione

dell’interesse a godere di un periodo di rilassamento, di svago, di crescita culturale e di

divertimento determinatasi a causa del mancato od inesatto adempimento delle prestazioni di

servizio turistico.

Il § 651 f, Abs. 2, BGB ne fa espressa menzione, stabilendo che qualora il viaggio non

abbia luogo del tutto o rimanga pregiudicato in misura rilevante il viaggiatore può pretendere

anche un congruo indennizzo pecuniario per il fatto di avere impiegato in modo infruttuoso il

periodo di vacanza del quale disponeva («Wird die Reise vereitelt oder erheblich beeinträchtigt,

so kann der Reisende auch wegen nutzlos aufgewendeter Urlaubszeit eine angemessene

Entschädigung in Geld verlangen»). Un analogo esplicito riconoscimento mancava in Italia nei

vecchi artt. 93 e 94 cod. cons., ma tanto la dottrina quanto una sempre più copiosa

giurisprudenza riconoscevano la risarcibilità del danno da vacanza rovinata quale perdita

Page 29: Responsabilit_contrattuale - Mazzamuto

29

connessa alla violazione di interessi contemplati nella lex contractus e, dunque, rientranti nello

«scopo di protezione» dei comportamenti dedotti in obligatione.

La categoria del danno contrattuale non patrimoniale è ora accolta anche dai PDEC, che

all’art. 9:501 contemplano la risarcibilità del danno non patrimoniale e del danno futuro, purché

ragionevolmente prevedibili, dai Principi Unidroit, che all’art. 7.4.2 riconoscono che il danno

possa essere di natura non pecuniaria e comprendere, per esempio, la sofferenza fisica e morale,

e dall’art. III.-3:701, co. 3, DCFR, che ripartisce la perdita risarcibile nel danno patrimoniale e in

quello non patrimoniale.

Gli argomenti invocati nella prospettiva tradizionale per negare il risarcimento

generalizzato del danno contrattuale non patrimoniale appaiono ora più deboli alla luce

dell’evoluzione del diritto positivo e sono sostanzialmente riconducibili al preconcetto che il

contratto, ex art. 1321 c.c., è volto a regolare rapporti giuridico-patrimoniali e, di conseguenza,

l’obbligazione, che del contratto è l’effetto, e la connessa responsabilità da inadempimento non

si prestano a veicolare e tutelare interessi di natura non patrimoniale. In questo quadro, il

tentativo di ampliare l’area del risarcimento del danno non patrimoniale in ambito contrattuale

rischierebbe, quindi, di tradursi in un’aporia di sistema [A. Zoppini, La pena contrattuale,

Milano, 1991, 144 ss.] ed una conferma ulteriore della vocazione della responsabilità

contrattuale alla tutela dei soli interessi patrimoniali si ricaverebbe dalle disposizioni sulla

liquidazione del danno per lo più presuppongono il solo danno patrimoniale, come l’art. 1223

c.c. che, con il riferimento ai concetti di perdita subita e di mancato guadagno, sembra evocare la

sola dimensione economica. La replica è però agevole e si incentra non soltanto sulla

constatazione del carattere anodino dell’art. 1223 c.c., giacché il termine «perdita» si presta ad

abbracciare ogni forma di privazione, quale che sia il bene o il vantaggio perduto e, dunque,

tanto di un bene che è suscettibile di valutazione economica quanto di un’utilità che vi si sottrae,

perché non appartenente al mondo dei valori patrimoniali [G. Bonilini, Il danno non

patrimoniale, Milano, 1983, 232; E. Navarretta-D. Poletti, I danni non patrimoniali nella

responsabilità contrattuale, in I danni non patrimoniali. Lineamenti sistematici e guida alla

liquidazione, a cura di E. Navarretta, Milano, 2004, 62; F. Tescione, Il danno non patrimoniale

da contratto, Napoli, 2008, 54 ss., 117 ss.], ma soprattutto sull’ulteriore rilievo che la ratio

dell’art. 1223 c.c. è quella non certo di delineare le diverse tipologie di danno ammesse al

risarcimento ex art. 1218 c.c., quanto piuttosto di fornire un criterio di rilevanza e di

delimitazione dei pregiudizi risarcibili [Castronovo, Il risarcimento del danno, in Riv. dir. civ.,

2006, I, 87-88], ancor più che di causalità giuridica, neppure sfiorando quindi la questione, del

tutto distinta, della risarcibilità del danno non patrimoniale, come peraltro dovrebbe apparire

chiaro alla luce del rilievo che l’art. 1223 c.c. si applica anche alla responsabilità

extracontrattuale [S. Delle Monache, Interesse non patrimoniale e danno da inadempimento, in

Contratti, 2010, 723].

La disciplina della responsabilità contrattuale contiene, in verità, svariati profili cui

agganciare il risarcimento del danno contrattuale non patrimoniale. Una corrente di pensiero

invoca l’art. 1174 c.c., che – com’è noto – ammette che l’interesse del creditore possa avere

anche natura non patrimoniale e da ciò si vorrebbe trarre la conclusione che, una volta

riconosciuta la possibilità di volgere l’obbligazione al soddisfacimento di bisogni non suscettibili

di un’immediata ed oggettiva valutazione in danaro, sia giocoforza affermare quantomeno la

risarcibilità in via equitativa dei danni conseguenti alla loro mancata realizzazione [U. Breccia,

D z f ’ z , Milano, 1968, 673; M.

Costanza, Danno non patrimoniale e responsabilità contrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 1987,

127 ss.; C. Scognamiglio, Il danno non patrimoniale contrattuale, in Il contratto e le tutele.

Prospettive di diritto europeo, a cura di S. Mazzamuto, Torino, 2002, 469]: sempre che non si

voglia privare di tutela l’interesse del creditore alla prestazione, ma ciò mal si concilia con

l’attuale orientamento della cultura giuridica propenso a privilegiare il profilo dei rimedi ancor

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prima di quello dei diritti che essi sono preordinati a tutelare [A. di Majo, Il linguaggio dei

rimedi, in Europa dir. priv., 2005, 341 ss.; Id., Adempimento e risarcimento nella prospettiva dei

rimedi, in Europa dir. priv., 2007, 1 ss. e soprattutto Id., L’ “ ” quale

rimedio (in margine ad un libro recente), in Europa dir. priv., 2012, 1149 ss.; nonché S.

Mazzamuto, Il mobbing (Milano 2004), 64; Scognamiglio, Il danno non patrimoniale

contrattuale, 472].

La valorizzazione dell’art. 1174 c.c. – sulla quale si può in parte dubitare in chiave di

fondazione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento perché la norma si

limita a delineare i contorni tipologici della fattispecie costitutiva – si iscrive comunque in

quell’imprescindibile opera di previa ricognizione degli indici normativi della rilevanza del

danno non patrimoniale contrattuale, solo a seguito della quale risulta possibile procedere alla

reinterpretazione della norma in discorso che la affranchi: a) dalla tradizionale lettura secondo

cui la mera deduzione in obbligazione di un interesse non patrimoniale ne determina la

«patrimonializzazione» [De Cupis, Il danno, 131; A. Ravazzoni, Riparazione del danno non

patrimoniale, Milano, 1962, 228; contra R. Scognamiglio, Il danno morale, in Riv. dir. civ.,

1957, I, 283.]; b) dalla connessione, altrettanto tradizionale, con l’istituto della clausola penale

(artt. 1382 c.c. ss.) quale strumento di attribuzione pattizia di valenza patrimoniale ad un

interesse non patrimoniale [F. Gazzoni, D ’ ’ ’ f in

Rass. dir. civ., 2002, 841.].

Questa prospettiva va abbandonata come suggerisce il sempre più ampio il ventaglio di

norme del diritto dei contratti che attribuiscono rilievo ad interessi non patrimoniali: basti

pensare a quegli schemi contrattuali tipici orientati in via esclusiva o in via concorrente alla

tutela della persona del creditore, quali il contratto di trasporto di persone (art. 1681 c.c.), il

contratto di prestazione sanitaria, il contratto di lavoro subordinato (art. 2087 c.c.). E sempre

nell’ambito della normativa lavoristica, non va dimenticato quel corpus normativo

particolarmente sensibile alle ragioni della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale offerto

dalla legislazione antidiscriminatoria, peraltro di matrice europea, la quale riconosce l

risarcimento del danno al lavoratore o al prestatore di servizi. Gli artt. 4, n. 5, d.lgs. 215/03 e 4,

n. 6, d.lgs. 216/03 presentano un identico contenuto: «Il giudice tiene conto, ai fini della

liquidazione del danno anche non patrimoniale, che l’atto o comportamento discriminatorio

costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una

precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di

trattamento». Su tali disposizioni, e soprattutto sul già ricordato art. 2087 c.c. e sull’art. 2103

c.c., viene edificata la disciplina giuridica del mobbing, una forma di inadempimento complesso

e procedimentale destinato a produrre principalmente danni non patrimoniali [Mazzamuto, Il

mobbing, 53 ss.; Corte cost. 10 dicembre 2003, n. 359; Cass. s.u. 4 marzo 2004, n. 8438.; Cap.

rimedi].

L’altro pilastro normativo su cui ancorare la risarcibilità del danno non patrimoniale è

costituito dall’art. 1175 c.c., che – come si è già ricordato [Cap. Obbligazioni] – amplia l’area

degli interessi tutelati dal rapporto obbligatorio includendovi l’interesse alla conservazione della

propria sfera personale, oltre a quella patrimoniale, perseguita per il tramite della categoria degli

obblighi di protezione (Schutzpflichten). Una recente opinione addirittura reputa che tali

obblighi, e la radicale riconcettualizzazione del rapporto obbligatorio che la loro comparsa ha

determinato, rappresentino il fondamento più solido, e certamente quello culturalmente più

avanzato, su cui costruire la regola di risarcibilità ex art. 1218 c.c. del danno non patrimoniale [L.

Nivarra, L zz z : ’ , in Europa dir.

priv., 2012, 475 ss., in part. 483 ss.]. La ragione risiederebbe nell’irriducibilità dell’interesse alla

protezione della sfera personale (Schutzinteresse) all’interesse alla prestazione

(Leistungsinteresse) [il rinvio non può che essere al primo teorizzatore degli obblighi di

protezione: H. Stoll, Abschied von der Lehre von der positiven Vertragsverletzung, in AcP, (16),

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31

1932, 257 ss., in part. 298 ss.] pure quando quest’ultimo si dovesse esaurire nella cura e nella

protezione della sfera giuridica dall’altra parte del rapporto, perché in tali ipotesi la lesione dei

valori della persona si tradurrebbe in un puro e semplice inadempimento e, dunque, si

rivelerebbe altro dal c.d. danno non patrimoniale da inadempimento, il quale invece andrebbe

identificato nel pregiudizio alla persona prodottosi in occasione della nascita e dell’attuazione

dell’obbligazione. Nella prospettiva in discorso la tutela della persona al di fuori del rapporto di

strumentalità tra l’obbligo di protezione e l’esecuzione della prestazione principale richiede

allora un’apposita autorizzazione normativa tramite legge speciale quale ad es. l’art.47 cod.tur.

[Nivarra, La contrattualizz z : ’ , 489, 497 s.]

L’opinione in esame ritiene che «al fine di dare una radice contrattuale al danno verificatosi in occasione

dell’inadempimento, bisognerà postulare l’esistenza di un ulteriore obbligo, che si affianca a quello di prestare

l’utilità idonea a soddisfare l’interesse primario del creditore, e strumentale alla tutela dell’interesse, per così dire,

secondario del medesimo creditore alla conservazione dell’integrità della propria persona e del proprio patrimonio.

In definitiva, quindi, la contrattualizzazione del danno in discorso esige che il bene della vita, altrimenti presidiato

dagli artt. 2043 e 2059 c.c. nella sua proiezione di diritto soggettivo o, quanto meno, di interesse giuridicamente

protetto, si spogli di questi panni e vesta quelli di un interesse presidiato mediante l’imposizione al debitore di un

obbligo, a sua volta fronteggiato da una pretesa a contenuto negativo: in difetto di ciò, l’intera costruzione, monca

della necessaria mediazione dogmatica, collassa riducendosi la contrattualizzazione del danno non patrimoniale da

inadempimento a puro e semplice gesto declamatorio» [Nivarra, La contrattualizzazione del danno non

: ’ , 482-483].

L’accentuazione del ruolo degli obblighi di protezione va certamente condivisa perché,

senza alcun dubbio, riporta l’attenzione sul principale e imprescindibile presupposto

dell’allargamento della responsabilità contrattuale alla riparazione di forme di pregiudizio

tradizionalmente appannaggio della responsabilità aquiliana. Quale che sia l’oggetto

dell’obbligazione, grazie agli obblighi di protezione è possibile estendere l’intera protezione

offerta dal rapporto obbligatorio anche alla persona, sempre che sussista un nesso tra il

Schutzinteresse protetto dalle Schutzpflichten e il Leistungsinteresse.

In cosa poi consista tale nesso è questione abbastanza controversa. Stoll, [Id., Abschied von der Lehre von

der positiven Vertragsverletzung cit., nt. 87] prospetta un collegamento tra Schutzpflichten e Leistungspflicht

piuttosto lasco visto che lo Schutzinteresse può essere vulnerato anche da comportamenti che sono slegati

dall’attività di prestazione. Di diverso avviso è Mengoni, [Id., Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi»,

cit., 369 nt. 15] per il quale il danno alla persona o alle cose di una delle parti deve scaturire da un’attività risultante

essenzialmente connessa all’esecuzione del contratto. Sulla quest’ultima linea sembra collocarsi la dottrina in

esame, la quale sposa l’idea del nesso di strumentalità tra la condotta lesiva della persona e l’esecuzione o la

ricezione della prestazione [Nivarra, La contrattualizzazione, 486 nt. 14 e 487-488].

In altri termini, gli obblighi di protezione assicurano la salvaguardia in sé della persona e

non in quanto tale salvaguardia risulti implicata in tutto o in parte nell’oggetto dell’obbligazione,

come accade, ad esempio, nelle prestazioni sanitarie o in quelle di vigilanza su di un minore o di

un incapace. Sotto questo profilo, si deve convenire sull’affermazione che gli obblighi di

protezione sono preordinati a rimuovere proprio quel danno non patrimoniale che, se originatosi

al di fuori del rapporto obbligatorio, ricadrebbe sotto l’egida della responsabilità aquiliana.

Purtuttavia se si irrigidisce troppo il rapporto tra obbligo di protezione ed obbligo

principale di prestazione si ottengono due conseguenze indesiderate: a) la tutela della persona è

variabile dipendente o della legge speciale o della corretta esecuzione della prestazione

principale; b) si comprimono indirettamente gli spazi dell’autonomia privata nel definire il piano

dell’obbligazione.

In altri termini, se si spinge alle estreme conseguenze il connubio tra danno non

patrimoniale da inadempimento e obblighi di protezione in modo a tal punto rigoroso da negare

che al di fuori del perimetro dei secondi sia rintracciabile il primo, si approda ad una soluzione

biunivoca che esaurisce il danno non patrimoniale nelle conseguenze pregiudizievoli di una

Page 32: Responsabilit_contrattuale - Mazzamuto

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specifica tipologia di violazione del rapporto obbligatorio, quella che scaturisce, per l’appunto,

dal mancato rispetto degli obblighi di protezione, con il risultato di spostare la prospettiva dal

pregiudizio al fatto che lo genera (ossia la violazione degli obblighi di protezione). Il binomio

obblighi di protezione-danno non patrimoniale proietta allora quest’ultimo in quella dimensione

tipica che è connaturale ai primi, rendendo risarcibili secondo le regole della responsabilità

contrattuale soltanto quei pregiudizi alla persona che sono connessi all’attuazione del vincolo per

lo meno in termini di correlazione, il che però circoscrive la protezione ai profili della

personalità in un certo senso implicati dalla prestazione. E tutto ciò innesca inevitabilmente un

procedimento lato sensu di tipizzazione. Il rischio è quello di un eccesso di dogmatismo e per

giunta in due diverse direzioni: la prima è quella di concepire il danno non patrimoniale soltanto

nella forma della violazione degli obblighi di protezione e la seconda è quella – peraltro

ricorrente, come si è visto – di ritenere che, per il solo fatto di venir incluso nella prestazione,

l’interesse non economico perda la sua specificità e si patrimonializzi. E tutto ciò si correla alla

convinzione, non esplicitata, che l’obbligazione non possa essere preordinata – dunque anche

nella dimensione strettamente legata all’obbligo primario di prestazione – alla salvaguardia della

persona o allo sviluppo della personalità umana, il che è evidentemente errato. Va certamente

riconosciuto che la compatibilità logico-pratica tra la lesione della persona e l’attuazione

dell’obbligazione integra senza alcun dubbio un canone di selezione dei danni non patrimoniali

corretto e rigoroso e che tale connessione necessaria è perfettamente rappresentata dalla

categoria dogmatica degli violazione degli obblighi di protezione, ma l’interrogativo da porsi è

se tale dispositivo esaurisca i margini della rilevanza in sé della persona all’interno del rapporto

obbligatorio. E la risposta sembra dover essere negativa, senza con ciò voler concedere nulla

all’idea che il nesso tra danno alla persona e obbligazione scolori nella generica occasionalità [v.

Mazzamuto, Il danno non patrimoniale contrattuale, 451 ss.].

L’impostazione in esame taglia fuori, infatti, una prospettiva non ancora emersa nella

stagione pioneristica del danno alla persona da inadempimento: la già accennata valorizzazione

del soddisfacimento degli interessi personalistici come ammissibile risultato principale del

rapporto obbligatorio. Si tratta di un’evoluzione del concetto e della portata dell’obbligazione

che non può più essere trascurata, malgrado nel più recente dibattito si continui talora a ritenere

che il danno non patrimoniale per lo più rientri tra i «rischi» non contabilizzati né

contabilizzabili dalle parti poiché «il rischio dell’inadempimento è – per così dire –

nell’“ordinario” dello scambio e per l’“ordinario” operatore economico appare circoscritto alla

dimensione economica, di guisa che, dal punto di vista dell’ordinamento, il “soffrirne” o l’avere

stravolte le “abitudini di vita” denota piuttosto l’inadeguatezza di chi entra nel mercato senza

averne la tempra» [Barcellona, Trattato della responsabilità civile, 823].

L’obbligazione si spinge in ambiti non più esclusivamente patrimonialistici e per di più in

maniera ben più decisa di quel che si potrebbe immaginare sulla scorta dell’art. 1174 c.c. Al di là

della precedente immagine che fornisce una rappresentazione squisitamente materialistica dei

rapporti economici del connesso rischio di un certo darwinismo sociale, il più recente e

sofisticato negazionismo capovolge la giusta prospettiva perché quel che il danno non

patrimoniale da inadempimento seriamente inteso implica non è certo la «sentimentalizzazione»

del contratto e dell’obbligazione, tale per cui all’inadempimento si potrebbe sempre accoppiare

la lagnanza per la sofferenza che ne è derivata al creditore [Nivarra, La contrattualizzazione,

491], ma piuttosto il riconoscimento che nulla osta a che l’oggetto dell’obbligazione o la sfera di

protezione che essa stende sulle parti possano talora includere anche la rilevanza della sofferenza

o degli altri valori della persona per sé considerati.

L’opinione ventila il rischio che il disancoraggio del danno non patrimoniale dagli obblighi di protezione

finisca per accreditare l’idea di «un “doppio” non patrimoniale» che si affianca al danno patrimoniale, e subito bolla

una tale ipotesi come bizzarra. Il che, se si volesse sostenere l’esistenza di un danno non patrimoniale come voce

costante dei c.d. danni consequenziali da inadempimento, al fianco del lucro cessante e del danno da violazione

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degli obblighi di protezione, sarebbe certamente vero, ma forse diviene meno vero, se il problema si imposta nei

seguenti termini: il danno alla persona in sé non è risarcibile in termini generali, sempre e comunque, ma nulla osta a

che lo sia in determinati casi, senza dover necessariamente attendere interventi specifici del legislatore [Mazzamuto,

Il danno non patrimoniale contrattuale, 452 nt. 36].

La conferma della prospettata linea evolutiva del rapporto obbligatorio è ora puntualmente

offerta dal diritto positivo con l’introduzione del già ricordato art. 47 cod. tur., che esplicita la

risarcibilità del c.d. danno da vacanza rovinata, ed è in questa chiave che tale disposizione va

letta, riconoscendo che il suo significato più profondo dal punto di vista dogmatico risiede

proprio nell’escludere che sussistano impedimenti, per così dire di struttura, all’inclusione del

danno morale nel piano dell’obbligazione e, di conseguenza, nell’area della risarcibilità secondo

le regole della responsabilità contrattuale. Sarebbe un grave errore di prospettiva, che ricalca

molto da vicino quello che ha investito gli artt. 1681, co. 1, e 2087 c.c. [U. Natoli, L’ z

del rapporto obbligatorio. 1. Comportamento del creditore, in Tratt. dir. civ. diretto da A. Cicu-

F. Messineo, XVI, Milano, 1974, 18 ss.], ridimensionare l’art. 47 cod. tur., riducendolo a norma

speciale espressione dalla scelta giuspolitica di inasprimento delle conseguenze connesse

all’inadempimento c.d. turistico [Nivarra, La contrattualizzazione, 497 ss.].

Nella riflessione sul danno non patrimoniale da inadempimento, si deve muovere dagli

obblighi di protezione ma per spingersi oltre. Non che gli obblighi di protezione necessitino di

un’ulteriore fondazione, costituendo una categoria entrata ormai stabilmente a far parte dello

strumentario concettuale del giurista italiano [v. di recente F. Venosta, Profili della disciplina dei

doveri di protezione, in Riv. dir. civ., 2011, I, 839 ss.; L. Lambo, Obblighi di protezione, Padova,

2007, passim], per lo meno a partire dai magistrali studi di Luigi Mengoni [Id., Obbligazioni «di

risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit., 185 ss.; per una ricapitolazione di tale contributo cfr. A.

di Majo, Le obbligazioni nel pensiero di Luigi Mengoni, in Europa dir. priv., 2012, 119 ss.],

tuttavia una loro recente, ancorché implicita, riaffermazione è contenuta in un segmento assai

significativo del diritto privato europeo, che guarda al danno non patrimoniale proprio dalla

prospettiva qui suggerita, concentrandosi sulla natura del pregiudizio piuttosto che sulla sua

scaturigine. Il riferimento è all’art. 33, co. 2, lett. a), cod. cons.: una disposizione spesso

trascurata nei discorsi teorici su questa materia, che andrebbe invece valorizzata anche alla luce

della particolare ampiezza del suo ambito di applicazione, giacché la disciplina delle clausole

abusive rappresenta la «parte generale» del contratto del consumatore. La norma in esame

colpisce di nullità relativa le clausole contrattuali, anche ove oggetto di trattativa individuale, che

escludono o limitano la responsabilità del professionista in caso di morte o di danno alla persona

del consumatore, risultante da un fatto o da una omissione del professionista: la fonte del danno

non patrimoniale è qui un fatto di inadempimento delle prestazioni gravanti sul professionista,

senza alcuna distinzione tra sfera della prestazione e sfera della protezione.

La conclusione da trarre è che il danno non patrimoniale prodotto dall’inadempimento è

risarcibile alla stregua delle norme sulla responsabilità contrattuale ogni qualvolta gli interessi

non patrimoniali assumano rilievo all’interno del piano delle obbligazioni contrattuali o perché la

singola obbligazione è specificatamente preordinata al loro soddisfacimento o perché tali

interessi rientrano, comunque, nell’area di protezione offerta dal contratto grazie alla figura degli

obblighi integrativi di cui all’art. 1175 c.c., anche facendo leva sulla presupposizione e sulla

causa, intesa come funzione economico-individuale [Mazzamuto, Il danno non patrimoniale

contrattuale, 454; Costanza, Danno non patrimoniale e responsabilità contrattuale, cit., 131 s.;

Scognamiglio, Il danno non patrimoniale contrattuale, 476 ss.]. La determinazione dell’ambito

di risarcibilità dei danni non patrimoniali rimane, per un verso, un problema di corretta

interpretazione del titolo circa la delimitazione degli obblighi gravanti sulle parti e, in

particolare, sul debitore [Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», 330

ss.] e, per altro verso, un problema di prevedibilità del danno al tempo in cui è sorta

l’obbligazione ex art. 1225 c.c. [Scognamiglio, Il danno non patrimoniale contrattuale, 477].

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Ecco allora che appare del tutto insoddisfacente l’itinerario argomentativo con il quale le Sezioni unite del

2008 [Cass. s.u. 11 novembre 2008 n. 26972] hanno affermato la risarcibilità del danno non patrimoniale

nell’ambito della responsabilità per inadempimento. Il meno che si possa dire è che la Cassazione in questa

circostanza non si è dimostrata conseguente giacché essa muove dalla premessa, fuori segno, secondo cui

«l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia

della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali» e svolge poi un ampio

ragionamento – ben più corretto – che lega la risarcibilità dei valori della persona secondo le regole della

responsabilità da inadempimento all’accertamento che tali valori siano ricompresi nel piano dell’obbligazione o per

previsione di legge o per opzione delle parti, in quanto inclusi nella causa in concreto del contratto.

Il Supremo collegio recepisce, dunque, le indicazioni offerte dal dibattito dottrinale degli ultimi decenni

[Mazzamuto, Il mobbing cit., 61 s.], ma le colloca in una cornice fuorviante per due ragioni: a) perché nessun

conforto in ordine all’ampiezza del danno risarcibile ex art. 1218 c.c. si può trarre dal distinto campo della

responsabilità aquiliana [C. Castronovo, Danno esistenziale: il lungo addio, Danno e resp., 2009, 8-9; G. Grisi, Il

danno (di tipo) esistenziale e la nomofilachia «creativa» delle Sezioni Unite, in Europa dir. priv., 2009, 453-454;

diversamente F.D. Busnelli, Le Sezioni unite e il danno non patrimoniale, in Riv. dir. civ., 2009, II, 100-101]; b)

perché così si trascura che il contratto dà vita ad un piano della rilevanza giuridica autonomo, anche se ovviamente

coordinato con lo ius positum, che è in grado di conferire rilievo anche ad interessi non espressamente previsti né

dalla Carta fondamentale né dalla legislazione ordinaria, ma al contempo può persino attenuarne la tutela, ma non

certamente sino a compromettere la dignità o la libertà, sicché il moto tra contratto e legge in questo caso procede in

senso esattamente inverso rispetto a quello prospettato dalle Sezioni unite.

A tale proposito si considerino due esempi. Il contratto con il quale si commissiona ad un professionista la

confezione dell’abito da nozze conferisce giuridica rilevanza a profili soggettivi – come la partecipazione emotiva

legata alla circostanza che l’oggetto della prestazione professionale è funzionale ad un evento di speciale rilievo e

per lo più irripetibile – rispetto ai quali si può certamente concepire una lesione a causa dell’inadempimento della

prestazione principale, soprattutto se le modalità del mancato o inesatto adempimento si rivelino di particolare

gravità, come nel caso limite del dolo o dell’imperizia grave [Contra Castronovo, Danno esistenziale: il lungo addio

cit., 9].

La lex contractus può essere però anche il luogo in cui taluni valori personalistici subiscono un’attenuazione

della tutela rispetto alla loro normale rilevanza, come potrebbe accadere nel caso di un contratto di insegnamento

improntato ad un metodo didattico particolarmente ruvido che contempli la possibilità di pubbliche umiliazioni dello

scolaro neghittoso: è evidente che in un’ipotesi del genere la lex contractus consente lesioni della dignità personale

che altrimenti ammonterebbero ad inadempimento per violazione dell’art. 1175 c.c., quale fonte dell’obbligo del

debitore di proteggere la dignità del creditore in ossequio dell’art. 2 Cost., sempreché una siffatta limitazione rientri

in quel margine di disponibilità riservato ai soggetti privati in materia di valori personalistici (come accade per la

privacy, per il nome, per l’immagine etc.).

Sotto questo profilo, non è condivisibile l’opinione che nega la risarcibilità ex artt. 1218 ss. c.c. del danno

morale se non nei limiti imposti dall’art. 2059 c.c., ossia nei casi di espressa previsione legislativa [Castronovo,

Danno esistenziale: il lungo addio cit., 9]. E la ragione è duplice. Per un verso, v’è un rischio di incoerenza e, come

si ritiene di non poter trarre dal sistema della responsabilità extracontrattuale indici della rilevanza del danno non

patrimoniale nel diverso settore della responsabilità contrattuale, così non se ne possono ricavare limitazioni. Per

altro verso, la rilevanza o meno del patimento va desunta anch’essa dal piano dell’obbligazione e, se si tratta di

obbligazione nascente da contratto, dalla causa negoziale, entrambi conformati dalla legge e/o dalla privata

autonomia [v. Busnelli, Le Sezioni unite e il danno non patrimoniale cit., 112], sicché, se da tali indici si desume

l’inclusione nella prestazione o negli obblighi accessori della godibilità del bene dovuto o della serenità del

creditore, l’eventuale regola di responsabilità non potrà che stendere la propria ala anche sul patimento o sul disagio

d’animo: il caso emblematico è quello del pregiudizio per vacanza rovinata a proposito del contratto di pacchetto

turistico [S. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo (Torino 2012), 407 ss.], su cui si sono pure pronunziate la

Corte europea di Giustizia [Corte eur. giust. 12-03-2002 C-168/00, in Resp. civ. prev., 2002, 360 s., con nota di E.

Guerinoni, L’ z C G z « z »] e la Corte di

cassazione [Cass. 24 aprile 2008, n. 10651, in Corr. giur., 2008, 1396 s., con nota di V. Mariconda, Contratto di

viaggio, mare sporto e diritti dei consumatori].

Un discorso analogo vale per la chiosa dedicata dalle Sezioni unite al danno non patrimoniale da

inadempimento del datore di lavoro nei confronti del sottoposto ex art. 2087 c.c.: i giudici supremi reputano che i

danni da lesione della dignità del lavoratore connessi alla dequalificazione non siano altro che «pregiudizi attinenti

allo svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento

in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia

costituzionalmente qualificata»[ Cass., s.u., 11 novembre 2008, n. 26972, n. 4.5]. A tale proposito, va ricordato

innanzitutto che la categoria dell’ingiustizia del danno è addirittura inconcepibile al di fuori del perimetro della

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responsabilità extracontrattuale e l’uso che se ne propone è ancora il frutto del peccato originale consistito

nell’impropria invocazione dell’art. 2059 c.c. per legittimare la risarcibilità del danno non patrimoniale da

inadempimento. Il requisito dell’ingiustizia del danno dà luogo, infatti, ad un ordine di valutazioni del pregiudizio

per così dire estrinseco rispetto al piano dell’obbligazione o, più in generale, della lex contractus [Ecco perché non

ha senso parlare di iniuria in sede di responsabilità contrattuale come invece fanno Navarretta-Poletti, I danni non

patrimoniali nella responsabilità contrattuale cit., 66-68; cfr. correttamente sul punto Piraino, Adempimento e

responsabilità contrattuale cit., 664 ss.] cui solo invece si riferisce l’art. 1218 c.c. collegando il danno

all’inadempimento secondo una relazione di effetto a causa. Ne discende che il danno da inadempimento viene alla

luce di per sé giuridicizzato e rilevante ai fini del risarcimento, proprio perché rappresenta l’epilogo di un rapporto

giuridico preesistente tra il danneggiato e il danneggiante, sicché è fuor di luogo ricercarne altrove nel sistema la

fonte della risarcibilità. Ciò vale con riguardo al danno patrimoniale, tant’è che la responsabilità da inadempimento è

la sede naturale del risarcimento del danno meramente patrimoniale [S. Mazzamuto, Spunti in tema di danno

ingiusto e danno meramente patrimoniale, in Europa dir. priv., 2008, 370 ss.]; ma vale nella stessa misura anche

con riguardo al danno non patrimoniale. Non si vuol certo dire che l’obbligazione e il contratto restino insensibili

alle istanze di tutela della persona che provengono dall’ordinamento nel suo complesso e, in particolare, dalla Carta

fondamentale; ma soltanto che il meccanismo deputato alla bisogna, fuori dall’espressa volontà delle parti, è ben

diverso dall’immediata rilevanza sul piano risarcitorio ed opera per altre vie: l’una è la previsione di legge – il caso

emblematico è l’art. 2087 c.c. in tema di obbligo di sicurezza del datore di lavoro – e l’altra è la concretizzazione

della clausola generale di buona fede/correttezza. Per l’ampliamento dell’area della responsabilità da

inadempimento al danno non patrimoniale, non si può reputare invece risolutivo – come troppo spesso accade

[Costanza, Danno non patrimoniale e responsabilità contrattuale, cit., 127 ss.] – il pur corretto richiamo dell’art.

1174 c.c., formulato in dottrina ed accolto anche dalle Sezioni unite, poiché, come è stato ha opportunamente

rilevato [Castronovo, Danno esistenziale: il lungo addio cit., 9], il riferimento all’interesse non patrimoniale

contenuto nell’art. 1174 c.c. «intese avere soltanto la funzione di rendere chiaro che esso non era in contrasto con la

natura essenzialmente patrimoniale dell’obbligazione».

Non si può, dunque, condividere l’idea della Drittwirkung in materia di responsabilità contrattuale allo scopo

di ampliare l’area della risarcibilità sul fronte degli interessi della persona [Cass., s.u., 11-11-2008, n. 26972, n. 4.7;

E. Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la sostanza dei danni non patrimoniali, in Foro it.,

2009, I, 141; Id., Danni non patrimoniali: il compimento della Drittwirkung e il declino delle antinomie, in NGCC,

2009, 79 ss.; M. Franzoni, Il danno non patrimoniale del diritto vivente, in Corr. giur., 2009, 14 e, per quel che

sembra, anche Ponzanelli, Sezioni unite: il «nuovo statuto» del danno non patrimoniale, in Foro it., 2009, I, 137]:

così come va esclusa la diretta invocazione delle norme costituzionali per riempire di contenuto il sintagma «casi

determinati dalla legge» di cui all’art. 2059 c.c. perché in tal modo si aggira il filtro dell’ingiustizia dal quale anche i

diritti costituzionalmente protetti devono transitare per spiegare i propri effetti nel settore della responsabilità

extracontrattuale [S. Mazzamuto, Il rapporto tra gli artt. 2059 e 2043 c.c. e le ambiguità delle Sezioni unite a

proposito della risarcibilità del danno non patrimoniale, in Contr. impr., 2009, 589 ss.]; allo stesso modo va esclusa

la diretta invocazione dei profili della personalità di rango costituzionale dall’area del contratto o, in chiave più

generale, dell’obbligazione, poiché anche qui opera, oltre all’eventuale previsione di legge, un filtro consistente nel

canone della correttezza/buona fede costituzionalmente coniugato che veicola i valori della persona protetti dalla

Carta fondamentale nel regolamento contrattuale o nel piano dell’obbligazione sotto forma di obblighi di

comportamento preposti alla salvaguardia dei valori personalistici: il congegno tecnico tramite cui l’innesto avviene

è, dunque, rappresentato dalla «struttura dogmatica assiologicamente orientata» [L. Mengoni, Spunti per una teoria

delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 18] degli obblighi di protezione.

La concezione moderna della responsabilità da inadempimento ha fatto per di più un passo

innanzi, consentendone l’insorgere anche in presenza di obblighi di protezione che perdono la

loro strutturale natura accessoria [V-7.4] ed acquisiscono rilievo autonomo: è il caso della

responsabilità da inadempimento dell’obbligazione senza prestazione, concepita originariamente

per dare adeguata risposta al danno meramente patrimoniale, ma idonea a reagire anche a

pregiudizi di natura non patrimoniale che si producono tra soggetti legati da una relazione

giuridicamente rilevante ma priva della piena consistenza di un rapporto obbligatorio vero e

proprio [Castronovo, La nuova responsabilità civile, cit., 443 ss.].

La via dell’integrazione alla luce del criterio della correttezza/buona fede offre delle

garanzie che l’ascesa alla Costituzione per attingere direttamente alla tavola dei valori della

persona non è in grado di assicurare [diversamente Navarretta, Il valore della persona nei diritti

inviolabili e la complessità dei danni non patrimoniali, cit., 69-70]: tali garanzie consistono nel

test di coerenza dell’integrazione dei diritti costituzionali con il regolamento contrattuale

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predisposto dalle parti o con il piano dell’obbligazione che viene imposto dalla clausola generale

della correttezza/buona fede, la quale si rivolge alle fonti eteronome di integrazione ma con lo

sguardo alla regolamentazione da completare anche alla stregua di un criterio di ragionevolezza.

Una riprova se ne può trarre dall’inesigibilità della prestazione che metta a repentaglio un

interesse del debitore reputato dall’ordinamento prevalente rispetto all’interesse sotteso alla

pretesa creditoria: la dottrina più autorevole ritiene, infatti, che anche in questa funzione di limite

del carattere vincolante del rapporto obbligatorio i valori della persona o più in generale le

gerarchie di interessi, se affidati all’apprezzamento del giudice in ordine alla valutazione di

inesigibilità, debbano transitare comunque per la direttiva di correttezza di cui all’art. 1175 c.c.

[Mengoni, Responsabilità contrattuale, cit., 1089 ss.], salvo com’è ovvio a fungere di per sé per

il loro rango costituzionale da parametro di costituzionalità di particolari discipline [Cfr. Corte

cost. 18-3/1-4 1992, n. 149 (redattore Luigi Mengoni) e successivamente Corte cost. 24-1/3-2

1994, n. 19].

La questione che rimane aperta in termini di sistema è legata semmai alla circostanza che

la responsabilità extracontrattuale poggia su di una norma, l’art. 2043 c.c., la quale si impernia

sulla nozione generale di danno ingiusto, a sua volta oggetto di specificazione, tramite l’art. 2059

c.c., qualora il pregiudizio sia di carattere non patrimoniale. Un percorso normativo analogo non

è rintracciabile nella disciplina della responsabilità contrattuale, giacché l’art. 1223 c.c., con il

suo riferimento alla perdita subita e al mancato guadagno, reca su di sé i segni della

patrimonialità e regola un aspetto specifico dei problemi posti dal riconoscimento della

responsabilità del debitore ossia la direttiva di fondo in tema di liquidazione del danno.

Sulla scorta di tale rilievo, se ne dovrebbe trarre la conclusione di una strutturale

inadeguatezza del sistema di responsabilità contrattuale alla rimozione dei danni non

patrimoniali. È questo, tuttavia, un epilogo che si può scongiurare se soltanto si rifletta sulla

circostanza che la disposizione in cui viene proclamata la risarcibilità del danno c.d. contrattuale

non è certo l’art. 1223 c.c., ma l’art. 1218 c.c. che è la norma di fondazione delle responsabilità

da inadempimento e che contiene inoltre l’espressa indicazione del pregiudizio, pur collegandolo

esclusivamente alla prestazione inadempiuta o inesattamente adempiuta, ma senza impegnarsi in

una qualificazione ulteriore in ordine al requisito della patrimonialità così come del resto l’art.

2043 c.c.

Ciò potrebbe indurre ad affermare che allora il danno non patrimoniale vada risarcito ex

art. 1218 c.c. soltanto nei casi in cui il valore personalistico faccia corpo con l’interesse primario

del creditore, entrando a far parte del contenuto della prestazione, come tipicamente accade nel

contratto di lavoro. In questo modo si finirebbe però col trascurare il moderno percorso evolutivo

dell’obbligazione culminato nel superamento del iuris praeceptum che ne identificava l’oggetto

nella sola prestazione e ciò grazie alla nuova figura dell’obbligo accessorio al dovere primario di

condotta. L’art. 1218 c.c. è figlio di quella stagione in cui l’obbligazione non aveva altro

contenuto che la prestazione ed è, dunque, naturale che esso rappresenti la responsabilità come la

conseguenza giuridica del rapporto di causa ad effetto tra l’inadempimento, per l’appunto, della

prestazione ed il pregiudizio. Tuttavia, l’art. 1218 c.c. si colloca oggi in un diverso orizzonte

dogmatico e in un mutato contesto normativo.

Sotto il primo profilo, pesa la rilettura dell’obbligazione che – abbandonata l’idea

romanistica del rapporto lineare ai cui estremi si collocano il debito e il credito tradizionalmente

intesi – dà luogo ad «una configurazione in termini di rapporto complesso, ove attorno alla

prestazione principale si coagula una costellazione di obblighi di natura accessoria, la cui finalità

è di assicurare la piena realizzazione di tutti gli interessi per il soddisfacimento dei quali il

vincolo è sorto o che comunque a tale vincolo necessariamente si ricollegano» [Mazzamuto, Il

mobbing cit., 24 e cfr. anche i fondamentali studi di Mengoni, Obbligazioni di «risultato» e

obbligazioni di «mezzi» cit., 368 ss.; di Majo, Delle obbligazioni in generale, cit., 316 ss.; C.

Castronovo, Obblighi di protezione, in Enc. giur., XXI, Roma, 1990, 1 ss.].

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L’entusiastica adesione al percorso argomentativo delle Sezioni unite del 2008 è la pecca di fondo di

un’interessantissima ordinanza del Magistrato di sorveglianza di Lecce del 9 giugno 2011 che ha riconosciuto la

responsabilità del Ministero della Giustizia per danno non patrimoniale in favore di un detenuto rinchiuso, per

diciotto ore al giorno, in una cella angusta oltre ogni limite, dotata di una sola finestra e per di più condivisa con altri

due detenuti, nell’ambito di una Casa circondariale sovraffollata. Al di là del pedissequo accoglimento della

ricostruzione del danno non patrimoniale da inadempimento offerta dalle Sezioni unite, l’ordinanza fa segnare un

progresso significativo di civiltà giuridica e si accoda alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 16

luglio 2009, caso Sulejmanovic c. Italia (ricorso n. 22635/03) [Cedu 16-7-2009 n. 22635/03 c. Sulejmanovic c.

Italia, in Cass. pen., 2009, 4928 ss., con nota di N. Manina, L’I lia condannata dalla Corte europea dei diritti

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Rebibbia nel 2003, ma assolta per la gestione, in quel contesto, della sovrappopolazione carceraria e di L. Eusebi,

Ripensare le modalità della risposta ai reati traendo spunto da C. Eur. Dir. Uomo 19 giugno 2009, caso

Sulejmanovic c. Italia], che ha ravvisato nella detenzione in condizioni inumane e degradanti un forma di tortura.

L’affermazione della responsabilità per detenzione disumana passa per il riconoscimento nel carcere di un pezzo di

società civile dove alcune persone vengono sottoposte ad un regime restrittivo ma non per questo private dei diritti

fondamentali, i quali subiscono le inevitabili compressioni necessarie all’espiazione della pena che però non si

possono spingere fino ad una loro sostanziale negazione. Quest’obiettivo impone obblighi di protezione a ciò

preordinati in capo all’amministrazione penitenziaria e determina il riconoscimento al singolo detenuto di una

situazione soggettiva piena, non certo assimilabile all’interesse legittimo. Tale assetto dei rapporti tra p.a. e

detenuto, coniugato con la proclamazione dello status di civis communis di quest’ultimo, determina l’accesso non

soltanto al risarcimento del danno, come è ora affermato dall’ordinanza, ma anche alle altre forme e tecniche di

tutela, inclusa la comminatoria di portata generale di cui all’art. 614 bis c.p.c. Se così fosse, l’estremamente cauto

legislatore del 2009, preoccupato di circoscrivere l’ambito di applicazione del 614 bis c.p.c. escludendone le

controversie di lavoro subordinato pubblico e privato e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui

all’articolo 409 c.p.c., andrebbe rimproverato di imprudenza per non aver incluso nella zona franca dell’esecuzione

indiretta anche i rapporti tra amministrazione penitenziaria e cittadini/detenuti.