Riassunto Dal XI Al XX Canto

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Gerusalemme liberata, T. Tasso

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CANTO UNDICESIMO

E' un canto di preghiera e di guerra, di solennit liturgica e di epica militare, ripartito in due grandi scene collettive: quella introduttiva, che accoglie la processione propiziatoria al Monte Oliveto, e quella dell'assalto alle mura di Gerusalemme.

Pietro l'Eremita esorta Goffredo a implorare, con pubbliche preghiere, i favori del cielo alla vigilia della battaglia campale, e lui stesso, sul far dell'alba, si mette alla testa di un lungo corteo, seguito dai sacerdoti e dai vescovi, dal duce dei crociati e dallo stato maggiore e, infine, dall'esercito allineato in ben ordinate schiere. Nessun suono o grido bellico accompagna la processione, ma unicamente il devoto canto delle litanie. Lo spettacolo inusitato suscita lo stupore dei pagani, accorsi sulle mura a contemplarlo e, quindi, eccita la loro barbarica furia, sotto forma di ingiurie e bestemmie. Lo scontro che segue ha a che vedere con un'oculata e tempestiva messa in opera di un piano strategico attentamente studiato e predisposto. Questa volta, lo stesso Goffredo, alla testa del suo esercito, rompe gli indugi e procede verso Gerusalemme. Dopo alterna fortuna, il sopraggiungere delle tenebre notture pone provvisoriamente termine alla lotta. I sapienti colpi dei carpentieri cristiani, intenti a riparare la grande torre d'assalto, e i fuochi che ne illuminano la febbrile attivit suggellano la sanguinosa giornata bellica.

CANTO DODICESIMO

E' il canto di Clorinda, della morte e trasfigurazione di Clorinda: in brevissimo tempo, tra le ultime tenebre della notte e le prime luci dell'alba, si compie il fatale destino della giovane donna, preannunciato da un sogno tristemente profetico; si consumano gli atti estremi di un'esistenza intrepida e generosa: l'audace sortita di Clorinda e Argante da Gerusalemme per incendiare di soppiatto la grande torre mobile, l'allarme e la reazione dei cristiani, il vano tentativo di rientrare occultamente entro le mura, l'inseguimento dell'ignaro Tancredi e il notturno combattimento, il tragico epilogo e il doloroso riconoscimento, la dichiarazione di fede, il battesimo e la mirabile morte.

Clorinda, fino a questo momento, era figura singolarmente dimidiata: ora vergine guerriera a fianco di altri guerrieri ed ora, invece, creatura della fantasia innamorata di Tancredi, luminosa immagine di belt femminile, apparizione tanto suggestiva quando fugace. Soltanto alla vigilia della sua ultima impresa militare e, quindi, fino al momento della morte, Clorinda acquista una propria vita autonoma, rivelando la profonda complessit e la delicata sostanza affettiva del suo spirito. Il racconto del vecchio servo Arsete e il sogno premonitore provvedono, infatti, a creare una mutazione in Clorinda che, se continua ad obbedire all'antica legge militare, internamente, per, non pi la stessa, apparendo, per la prima volta, smarrita e spaventata. S che quando, trafitta da Tancredi, implora perdono e, a sua volta, lo concede all'avversario, e abbraccia la nuova fede e chiede il battesimo e, infine, spira visibilmente trasfigurata.

Nell'ultima parte del canto, si prolunga il compianto per la morte di Clorinda: sia nelle forme esasperate del lamento di Tancredi che in quelle pi sostenute, ma non meno vibranti, della giurata vendetta di Argante.

CANTO TREDICESIMO

Il canto dominato dagli incantesimi del mago Ismeno che evoca i demoni e popola di forze maligne la selva di Saron, allontanandone terrorizzati i carpentieri cristiani e anche i guerrieri crociati, Alcasto e Tancredi, che temerariamente vi penetrano per porre fine agli allucinanti prodigi e consentire cos la costruzione di una nuova torre d'assalto. Ed sempre Ismeno che annuncia ad Aladino la terribile siccit che di l a poco render impossibile la vita a Goffredo e ai suoi soldati. Cos, ai misteriosi fremiti e ai cupi terrori della selva, subentrano le allucinate visioni degli assetati e la lenta e crudele consunzione del mondo vegetale e animale, sino all'improvviso ristoro della impetuosa e benefica pioggia, inviata dal cielo per le preghiere di Goffredo, che dissolve ogni infernale inganno, lava e deterge ogni cosa e inebria i guerrieri cristiani e li immerge in una sorta di eccitata fantasia acquorea. Sul campo cristiano, sulla santa impresa dei crociati, brilla dunque di nuovo il sole di piena primavera.

CANTO QUATTORDICESIMO

Si apre con l'immagine notturna che ancora prolunga i benefici effetti della grande pioggia purificatrice, mentre il sogno di Goffredo, che segue subito appresso, ripropone, a sua volta, il tema della selva incantata e del ritorno al campo cristiano di Rinaldo, destinato dal cielo a sciogliere quel malefico sortilegio. Accoglie, poi, l'inizio dell'avventuroso viaggio di Carlo e Ubaldo, inviati sulle tracce di Rinaldo per ricondurlo al campo e la loro sosta nella sontuosa dimora sotterranea del mago d'Ascalona, gi filosofo naturale pagano, converito e battezzato da Pietro l'Eremita e designato da Dio a favorire il ravvedimento di Rinaldo e la sua liberazione dai lacci d'Armida. Da lui, i due cavalieri cristiani apprendono che il loro valoroso compagno d'armi stato attirato dalla maga, desiderosa di vendicarsi, in un'isoletta del fiume Oronte, e che poi la bellissima fanciulla, sinora cinica e spietata, avendo veduto il giovane eroe crociato immerso nel sonno, stata presa da irresistibile amore per lui e lo ha perci tratto a volo, ancora dormiente, in una delle isole Fortunate, in mezzo all'Oceano, e quivi lo tiene legato a s, con blandizie e lusinghe d'ogni genere, in una sorta di paradiso terrestre, avendolo reso dimentico d'ogni dovere e spogliato d'ogni sentimento di dignit e fierezza. Ma dalla stessa bocca del mago d'Ascalona, Carlo e Ubaldo apprendono anche il modo di pervenire a quell'isola remota e di vincerne gli incantesimi maligni. Per riuscire in questa difficile impresa, che porr a confronto la magia bianca e quella nera, i due guerrieri cristiani saranno scortati dalla Fortuna e, quindi, avranno con s, come talismani, una verga d'oro, un foglio e uno scudo incantati.

CANTO QUINDICESIMO

Il canto interamente dedicato al fantastico viaggio di Carlo e Ubaldo, attraverso il Mediterraneo e l'Oceano, oltre le colonne d'Ercole, sulla navicella velocissima e sicura della Fortuna, e, quindi, alla loro ascesa alla cima della montagna incantata su cui sorge il palazzo d'Armida. Sino alle colonne d'Ercole si pu dire che l'itinerario dei due cavalieri sia bene definito e per di pi costellato di puntuali indicazioni storiche e geografiche; dopo Gibilterra, al contrario, l'itinerario si fa vago e favoloso. Nella seconda parte del canto, Carlo e Ubaldo sbarcano nella remota isoletta dove Armida tiene avvinto a s Rinaldo. Aiutati dalla verga d'oro mettono in fuga un orribile serpente e un leone ed altre belve mostruose, superano il dorso della montagna, ricoperto di nevi perenni, e, alla fine, sbucano in un aperto e bellissimo pianoro dove sempre primavera e dove tutto luminoso e sorridente incanto. Qui, i due cavalieri devono resistere alle insidie molto pi pericolose di un ambiente che rinnova in s le piacevolezze e le edonistiche libert dell'antica e beata et dell'oro.

CANTO SEDICESIMO

E' il canto in cui culmina e, quindi, si spezza crudelmente l'idillio di Rinaldo e Armida. Nella prima parte, Carlo e Ubaldo, guidati dal foglio, penetrano nel labirintico palazzo di Armida e giungono nel meraviglioso giardino incantato; nella seconda, i due cavalieri si palesano a Rinaldo, rimasto solo, lo richiamano ai doveri di soldato e gli mostrano la sua immagine, viziosamente effeminata, riflessa nello specchio magico, inducendo cos l'eroe crociato a ravvedersi e a decidere l'immediata partenza e il ritorno alle armi, mentre Armida, scoperta la fuga dell'amato, lo insegue disperatamente gridando e lo raggiunge sul lido dell'isoletta; nella terza, Rinaldo e Armida sono di fronte in un'estrema dolorosa scena d'addio; nella quarta, la maga colta, infine, da un impeto incontenibile d'ira che trasforma il suo amore in odio e che la spinge a tornare velocemente in Oriente e a presentari al re d'Egitto, offrendosi in premio a chi uccider Rinaldo.

CANTO DICIASETTESIMO

La prima parte del canto vede la maestosa rassegna dell'esercito egiziano davanti al Califfo, assiso sopra un trono prodigiosamente fastoso, e la presenza di Armida, trasformata in guerriera indomita, prima eretta sopra il grande carro che chiude splendidamente l'imponente parata e, quindi, al centro del convito, che fa seguito alla sfilata, durante il quale la giovane donna mette in opera tutte le sue arti per ottenere l'aiuto dei barbari guerrieri contro Rinaldo. Il suo discorso politicamente abilissimo: non vi si accusa, infatti, Rinaldo di tradimento d'amore, ma di ostile azione bellica, avendo egli liberato i prigionieri crociati che la maga aveva avviato in catene verso l'Egitto. Ma la pronta e infiammata adesione dei comandanti egiziani e, soprattutto, di Adrasto e Tisaferno, gi pronti ad azzuffarsi per lei, dovuta molto pi al fascino e alla bellezza della giovane donna. Ora, per lei, l'astuzia dolorosa necessit, appena fragile schermo all'intima debolezza, ai segreti turbamenti del cuore.

Nella seconda parte, Rinaldo fa ritorno in Palestina e s'incontra col mago d'Ascalona che lo esorta a salire il colle della virt e a non assecondare pi le lusinghe del piacere. Gli mostra, quindi, istoriate in un grande scudo dorato, le mirabili imprese degli Estensi suoi antenati, gli predice le glorie dei suoi discendenti e, soprattutto, le opere di guerra e di pace di Alfonso II. Rinaldo ascolta le parole del buon mago con animo lieto, mentre nel petto gli serpeggia un profondo compiacimento per cos illustre dinastia. Coi primi raggi del sole, il giovane eroe, ritrovata la via del dovere e indossate le armi a lui destinate, pu fare ritorno al campo cristiano e accingersi cos al rito della purificazione e all'alta e decisiva impresa a cui chiamato dal cielo.

CANTO DICIOTTESIMO

Si compie e si perfeziona la metamorfosi di Rinaldo: non pi guerriero ribelle e protervo, n debole schiavo d'amore, ma casto e sacro eroe, restituito alla purezza degli ideali cavallereschi, ad un'interiore armonia morale. La sua figura campeggia in tutto il canto: nel rito solenne della purificazione, nella vittoriosa impresa contro i malefici incanti della selva, nell'assalto decisivo e trionfale alle mura di Gerusalemme. Per nuova degnit di cuore e per sublimit di gesta, Rinaldo viene cos ad affiancarsi, da ultimo, a Goffredo, e ne integra e sostiene l'azione di guida e di comando, felicemente congiungendo lo slancio e la baldanza della propria giovinezza alla saggezza e alla ferma determinazione del matura ed esperto comandante. Dopo il perdono di Goffredo e l'assoluzione e i consigli di Pietro l'Eremita, Rinaldo trascorre la notte in meditazione intima; e, quindi, all'alba, immerso in alti pensieri, sale sul Monte Oliveto per purificare il proprio cuore e ottenere la grazia divina, prima di affrontare i sortilegi diabolici della selva di Saron. E, tuttavia, anche nella riflessione purgatoriale del giovane cavaliere si insinua, fuggevolmente, l'immagine di un volto femminile, come l'ombra dell'antico peccato, della colpevole follia; cos come poi, la stessa persona di Armida ritorna, tentatrice, nella selva stregata, dove la magia nera offre a Rinaldo un paesaggio amabile e invitante, che rinnova le lusinghe e il fascino del giardino meraviglioso dell'isola Fortunata e dove riemergono le soavi fattezze della bellissima seduttrice. Ma l'uomo nuovo, che ormai in Rinaldo, vince ogni debolezza, respinge l'assalto insidioso dei ricordi e scioglie finalmente l'incanto del bosco, s che i luogi riprendono il loro aspetto primitivo e la natura, non pi violentata, sorride agli uomini, nuovamente benigna. Dissipati i fantasmi della selva, i carpentieri cristiani riprendono a costruire celermente i vari ordigni di guerra e tre grandi torri d'assalto. Goffredo, quindi, miracolosamente avvisato da una colomba dell'approssimarsi dell'esercito del Califfo, decide di affrettare i preparativi bellici per attaccare subito Gerusalemme e, intanto, invia segretamente Vafrino, scudiero di Tancredi, a raccogliere notizie nel campo egiziano. La grandiosa battaglia muraria che conclude il canto ci offre anche alcuni momenti di forte rilievo poetico: l'apparizione torva e squallida di Ismeno e la sua atroce morte in un'orribile mistura di ossa e di sangue; la mirabile visione di Goffredo, a cui appaiono i guerrieri cristiani defunti nell'atto di combattere a fianco dei compagni vivi; e, soprattutto, lo sventolare vittorioso dell'insegna crociata, piantata sulle mura di Gerusalemme e il possente grido d'esultanza dei cristiani e il loro dilagare irrefrenabile entro le mura della citt vinta, tra cataste di morti e di moribondi.

CANTO DICIANNOVESIMO

E' un canto in cui si susseguono tre diversi momenti poetici: quello epico, ma con forte venatura elegiaca, del duello di Tancredi e Argante, e della morte di quest'ultimo; quello altamento eroico dell'accanita e spietata battaglia entro le mura di Gerusalemme, con la figura dominante dell'irriducibile Solimano; e, infine, quello vivacemente romanzesco di Vafrino al campo egiziano, nel quale s'innesta l'episodio patetico di Erminia, perduta e ritrovata.

Lo scontro armato di Tancredi e Argante avviene, questa volta, senza testimoni, in una valletta solitaria, e ha tutti i caratteri di una lotta forsennata, all'ultimo sangue, senza esclusione di colpi, leciti o illeciti. Ed proprio in quest'ultimo duello che si manifesta compiutamente il complesso carattere di Argante, tuttora orgoglioso e sprezzante, accanito nella zuffa, sino all'inutile sacrificio, irriducibile ed eroico, anche se senza speranza, e nello stesso tempo illuminato da fremiti di umana melanconia, di virile dolore: uno sguardo desolato che il campione pagano rivolge alla sua citt ormai vinta e le parole di presaga tristezza che indirizza a Tancredi.

E mentre si compie drammaticamente la sorte di Argante, nella grande battaglia che infuria entro le mura di Gerusalemme, un altro magnanimo guerriero musulmano campeggia epicamente, fronteggiando da solo l'assalto cristiano: Solimano.

Pi lontano, molto pi lontano, nel campo egiziano, s'intrecciano, invece, le vicende avventurose di Vafrino, intento a raccogliere ovunque preziose informazioni militari, e quelle patetiche di Erminia, che svela a Vafrino la occulta congiura contro Goffredo e, quindi, gli confessa i suoi sentimenti per Tancredi. L'astuto Vafrino corona brillantemente la sua missione segreta riferendo a Goffredo intorno alle forze e all'armamento dell'esercito egiziano, e alla sua marcia d'avvicinamento e svelandogli la congiura tramata contro la sua persona. Il duce cristiano si consiglia con il saggio Raimondo e, quindi, delibera in modo che sia sventata l'insidia ordita a suo danno e comanda che l'esercito riprenda riposo e si riorganizzi. E', infatti, ormai ferma convinzione di Goffredo affrontare in campo aperto le truppe del Califfo.

CANTO VENTESIMO

E' il canto conclusivo del poema; vi si corona trionfalmente la crociata e vi giungono anche a compimento, ora lieto ora luttuoso, i diversi destini dei personaggi: la citt di Giudea giace vinta e i maggiori campioni pagani, da Aladino a Emireno, da Adrasto a Tisaferno, da Solimano ad Altamoro, sono uccisi o catturati, mentre il Santo Sepolcro restituito ai cristiani, e Goffredo, Raimondo e Tancredi conquistano sul campo di battaglia le loro pi belle glorie militari, e Rinaldo compie prodigi di valore, vendica Sveno e, infine, conquista il cuore di Armida, a lui amorosamente arresasi.

Nel vasto affresco eroico spiccano, tuttavia, alcune bellissime dissonanze, inserti sentimentali che, oltre a ingentilire il racconto e ad alleggerirne l'assidua tensione, completano felicemente il disegno spirituale di alcune figure del poema e ne illustrano la sostanza umana pi segreta: cos di Gildippe e Odoardo, sempre uniti in guerra ed ora congiuntamente colpiti a morte, con quel loro estremo sospirare e quel guardarsi dolorosamente negli occhi nell'atto di congedarsi dall'amorosa vita; e cos di Armida, che trapassa dall'odio e dal desiderio di vendetta alla delusa impotenza e, quindi, all'arrendevolezza ancora dubbiosa e, infine, alla patetica dedizione all'eroe amato, compiendo cos la sua ultima metamorfosi e presentandosi, a noi, nella veste inedita di ancella devota e sottomessa di Rinaldo; cos , soprattutto, di Solimano, quando contempla dall'alto della torre di David il vasto campo di battaglia, i cruenti scontri e le stragi funeste, e riflette amaramente non su se stesso, sulla propria vita sventurata, ma sulla comune sorte tragica degli uomini, esprimendo cos quel drammatico sentimento esistenziale che fu proprio della inquieta coscienza tassiana, oppure quando, paralizzato da un arcano terrore, folgorato dall'apparizione minacciosa di Rinaldo e dal presagio della morte imminente, attende immoto la ferita mortale, gi fuori della vita prima ancora di essere colpito.

Ancora in questo canto, risplende di purissima luce, dall'allocuzione di apertura allo scioglimento del voto, la magnanima figura di Goffredo: la sua generosa forza morale, sempre vittoriosa sulle debolezze e sugli smarrimenti, la sua virt incontaminata, composta in una dignit ferma e sicura di gesti e di parole, la sua pacata saggezza e il suo riflessivo coraggio, governano sino all'ultimo il cuore dei crociati e guidano l'impresa al suo felice compimento. Prima che la notte scenda, senza neppure togliersi la veste insanguinata, ancora ansante per la battaglia, Goffredo entra nel tempio, vi appende la spada vittoriosa e si raccoglie in preghiera sul Santo Sepolcro. E' l'umile apoteosi del condottiero cristiano e giustamente i versi finali del poema del Tasso sono dedicati alla sua immagine orante, al suo ultimo atto di esemplare devozione.