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Università degli Studi Dipartimento di di Brescia Economia Aziendale Dicembre 2007 Paper numero 67 Giuseppe PROVENZANO RISPARMIO … CONSUMO … QUESTI SCONOSCIUTI !!!

RISPARMIO … CONSUMO … QUESTI SCONOSCIUTI

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Page 1: RISPARMIO … CONSUMO … QUESTI SCONOSCIUTI

Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Dicembre 2007

Paper numero 67

Giuseppe PROVENZANO

RISPARMIO … CONSUMO …QUESTI SCONOSCIUTI !!!

Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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RISPARMIO…. CONSUMO….QUESTI SCONOSCIUTI !!!

di

Giuseppe PROVENZANO Ordinario di

Economia e Gestione delle Imprese Università degli Studi di Brescia

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Indice

Premessa............................................................................................................1

La complessità dei moderni sistemi economici e finanziari .............................2

Una semplificazione del sistema economico e finanziario ...............................8

La formazione dei valori ...................................................................................9

Il concetto di valore.........................................................................................14

Il consumo.......................................................................................................19

Ridurre i consumi ?? .......................................................................................29

Riqualificare i consumi ...................................................................................31

Riqualificare il risparmio ................................................................................34

La catena del valore ........................................................................................45

Una prima conclusione....................................................................................46

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Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!!

Premessa

Sentiamo continuamente affermare, anche se con scarso successo, che nelle nostre opulenti società occidentali si sono persi quei veri valori sui quali dovrebbe fondarsi un contesto umano e sociale che voglia chiamarsi realmente evoluto.

Chi afferma ciò sono di solito coloro che si occupano di sociologia, di religione, di filosofia, di letteratura, di arte, di argomenti generalmente ascrivibili alla sfera cosiddet-ta umanistico-sociale delle scienze, intendendo per valori quelli generalmente ricondu-cibili agli aspetti non materiali ma culturali, spirituali, etici, estetici, ecc. ecc., della sfera umana.

Per cui, sembrerebbe che a tali valori si siano sostituiti materialità sempre più cre-scenti, che si individuerebbero in una prevalente, se non esclusiva, visione economici-stica della vita e dei rapporti interpersonali.

Le nuove società sarebbero, pertanto, pervase da un materialismo economico che a-vrebbe assolutamente contagiato e determinato il comportamento umano, inaridendone la sua spiritualità.

Lo stare bene, la ricerca della felicità, l’arricchirsi, il consumare, sarebbero i nuovi credi, le nuove religioni sui quali si fonderebbero le nostre società sviluppate ed opulen-te.

In sintesi, sui valori dello spirito prevarrebbero, in modo assoluto ed eclatante, quelli economici e materiali.

Tale affermazione ci sembra assolutamente accettata non solo da coloro che di tali argomenti si occupano per mestiere o per vocazione, ma anche dalla gente comune, che seppure incapace di un intimo e diffuso ripensamento dei propri comportamenti, in varie sedi, anche le più frivole e salottiere, generalmente sostiene ed afferma la diffusa man-canza di valori delle società moderne.

Ma è proprio vero che queste nostre società sanno almeno cogliere i veri valori offer-ti dal materialismo economico dilagante?

Ovvero la profonda incapacità culturale nella quale siamo sprofondati è così rilevante che anche tali valori sono divenuti inconsistenti, per cui non si è più neanche capaci di cogliere ciò che almeno di buono potrebbe offrire un reale comportamento materialisti-co-economico?

Poi, ancora, si è sempre in grado di definire con precisione i nuovi concetti di ric-chezza, di risparmio, di consumo, di investimento o essi sono ancora legati a concezioni vecchie e frutto di sistemi economici obsoleti e superati nei moderni sistemi economici estremamente consumistici e finanziarizzati?

Se così fosse, dovremmo concludere che queste nostre società, definite frettolosa-mente e semplicisticamente economicamente evolute, non solo hanno perso i valori u-mani dell’esistenza, ma anche quelli economici. Per cui, non sarebbero solo alcuni valo-ri ad essere entrati in crisi, ma i valori tutti, anche quelli sui quali si baserebbero lo svi-luppo economico ed i concetti di ricchezza, di risparmio, di consumo, di investimento, che sarebbero i nuovi valori generalmente accettati come vincenti e sostitutivi di quelli immateriali.

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Se così fosse, ancora, allorché si dovesse parlare di crisi di valori dovrebbe intendersi l’incapacità diffusa ed assoluta delle nostre società moderne di assegnare un valore a tutto, anche a quegli elementi che dovrebbero misurare il soddisfacimento materiale dell’individuo e della sua collettività e che indicherebbero la ricchezza personale e so-ciale di un popolo.

Tenteremo di sviluppare tale tesi, parlando di presunti valori economici: del signifi-cato che ad essi dovrebbe assegnarsi rispetto alla loro vera capacità di fare stare meglio gli individui e la società alla quale essi appartengono, di consentire sicurezza nel mante-nimento del benessere raggiunto alle future generazioni, di garantire lo stabile soddisfa-cimento della naturale aspirazione verso la crescita di bisogni, di esigenze e di desideri che hanno da sempre caratterizzato la vita del genere umano.

La complessità dei moderni sistemi economici e finanziari

Viviamo in una società economicamente e finanziariamente sempre più complessa ed articolata, che pervade la vita di tutti noi.

Solo pochi addetti ai lavori, però, riescono a districarsi tra numeri, valori, indici, proiezioni, variazioni percentuali, valutazioni economiche, quotazioni, ecc. ecc. dai qua-li siamo bombardati giornalmente da tutti i mezzi di comunicazione.

La maggior parte di noi è soggetto ed oggetto di “un’economia” che sostanzialmente non conosce, non comprende, ma dalla quale è inevitabilmente coinvolto.

E’ come se fossimo a bordo di un’automobile di cui non conosciamo i meccanismi di funzionamento, della quale non conosciamo alcunché, né siamo in grado di leggere e tradurre le astruse istruzioni scritte in un linguaggio incomprensibile, che non sappiamo guidare, ma sulla quale siamo costretti a viaggiare a velocità vorticosa e dalla quale non possiamo neanche scendere.

Della complessità dei moderni sistemi economici e finanziari delle nostre economie opulente, basate su consumi sempre più ampi e sofisticati, sconosciamo tutto, ma ne siamo assolutamente coinvolti giornalmente.

Ci assalgono quotidianamente proposte di nuovi e più necessari consumi di beni e di servizi, ci vengono offerte proposte di finanziamento le più “comode” ed articolate per acquistare di tutto e di più, ci offrono, porta a porta, prodotti finanziari nei quali conser-vare il nostro risparmio, nelle forme più complesse ed articolate, che sostanzialmente non comprendiamo, limitandoci nel loro acquisto ad atti di fiducia nei confronti della teorica affidabilità e serietà dei proponenti.

La nostra vita è scandita da numeri e cifre, che pur non comprendendo nel loro reale significato e portata, ci esaltano o ci deprimono: facendoci altalenare da sensazioni di ricchezza a quelle di assoluta povertà.

Fortunatamente o sfortunatamente conserviamo in noi alcune semplici categorie di base, che riteniamo assolutamente immanenti ed immodificabili, che sono, poi, quelle di ricchezza, di povertà, di consumo, di risparmio; elementi che riteniamo di conoscere e di sapere sempre distinguere, al di là e oltre la complessità del sistema economico in cui viviamo e che le esprimono.

Ciò ci fa sentire sicuri nelle nostre convinzioni, anche oltre la chiara e perfetta cono-

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scenza degli elementi che tali categorie misurano e qualificano. Fortunatamente, l’ignoranza economico-finanziaria nella quale viviamo e che diviene

sempre più profonda quanto più la realtà che ci circonda si complica e si articola, non incide sui nostri comportamenti e sulle nostre convinzioni, che per ciascuno di noi, presi come singole entità, restano elementi centrici sui quali basiamo i nostri comportamenti economici quotidiani.

Riteniamo di sapere, per un corretto e giornaliero agire nella nostra economia indivi-duale, cosa sia consumo e cosa sia risparmio.

Il primo lo identifichiamo con un quantitativo di danaro che utilizziamo per un bene o un servizio a ”perdere”: per esempio mangiare un gelato o bere un caffé.

Il secondo lo identifichiamo o in una somma di danaro che siamo riusciti a conserva-re, derivante dalla differenza tra il danaro che abbiamo guadagnato con il nostro lavoro e quello che abbiamo speso per i nostri consumi. Danaro conservato in contanti (moneta in Euro), o in banca, o alla posta (deposito bancario o postale), o attraverso l’acquisto dei cosiddetti prodotti finanziari, offerti dalle banche o da altre istituzioni finanziarie. Tali prodotti, per esempio, sono costituiti da azioni di società, nelle quali incorporiamo la nostra quota parte di proprietà di esse, obbligazioni di società o dello Stato (BOT, CCT, BTP), che rappresentano debiti di tali emittenti, i quali acquisiscono i nostri ri-sparmi monetari, a fronte dei quali riconoscono interessi annuali ed il rimborso della somma originariamente acquisita a determinate scadenze.

Il risparmio, poi, può essere anche investito in beni cosiddetti “reali”, quali case, ap-partamenti, terreni, botteghe, aziende, ecc. ecc. Tali beni costituiscono, per noi singoli, ricchezza conservata, produttrice di ulteriori guadagni mensili o annuali. Questi ultimi, per esempio, con riferimento ad un appartamento, derivano o direttamente dagli affitti che percepiamo da tale bene, o indirettamente dal fatto che se abitiamo una casa di pro-prietà risparmiamo il canone di locazione che saremmo costretti a pagare se non la pos-sedessimo.

Tali semplici concetti, sui quali fondiamo la nostra vita quotidiana e che, sostanzial-mente, ci danno una sufficiente sicurezza di conoscere gli elementi di base ed immutabi-li della nostra personale economia, al di là della complessità del sistema economico e finanziario al quale necessariamente partecipiamo, ci consentono di vivere nella più as-soluta ignoranza dei fatti economici quali essi realmente sono e ci danno nel contempo la spinta a lavorare, guadagnare, spendere e risparmiare.

Oserei dire che solo la più assoluta ignoranza dei meccanismi di funzionamento dei moderni sistemi economici e finanziari ci ha consentito quello sviluppo economico e quel benessere che le moderne economie hanno assicurato a miliardi di persone.

Pur se riteniamo di conoscere cosa costituisca per ciascuno di noi il consumo ed il ri-sparmio, il valore dell’uno e dell’altro, sconosciamo gli elementi che concorrono a for-mare il valore che ad essi il sistema assegna; sistema di valori che, in un’economia sempre più complessa ed articolata, presenta meccanismi di formazione altrettanto più difficili da comprendere, da analizzare ed esplicitare.

Tutto ciò ci porta ad assumere tali valori come dati, senza comprenderne il significa-to e le logiche di formazione.

Ciò fa si che un caffé può costare 0,50 euro o 5,00 euro, così come un jeans può co-

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stare 15,00 euro o 500,00 euro. Se, poi, lo stesso jeans, che avevamo visto in vetrina al prezzo pieno di 500,00 euro, lo compriamo scontato a 250,00 euro, nel comprarlo rite-niamo di avere acquistato un bene ad un prezzo minore del suo valore.

Se acquistiamo un appartamento, il cui valore di mercato può oscillare, per esempio, da 50.000,00 euro a 20.000.000,00 di euro, a seconda della sua localizzazione, ampiez-za, ecc. ecc., tali prezzi per noi costituiscono un dato, desunto solo dalla richiesta del venditore, suffragata, magari, da una valutazione dell’agenzia proponente, o dalle pub-blicazioni delle quotazioni immobiliari sui giornali specializzati, che, a seconda delle città e delle sue zone, assegnano i valori degli immobili per metro quadrato o per vano.

Se acquistassimo un appartamento per 200.000,00 euro e dopo qualche mese legges-simo che esso vale 220.000,00 euro ci sentiremmo più ricchi di 20.000,00 euro. Riter-remmo di avere fatto un affare e saremmo magari spinti a consumare una parte maggio-re dei nostri redditi, ritenendo di avere già risparmiato i 20.000,00 euro della maggiore valutazione dell’immobile posseduto. Al contrario, se esso fosse valutato solo 180.000,00 euro, ci sentiremmo più poveri, ci convinceremmo di avere fatto un pessimo affare e saremmo tentati di ricostituire la perdita subita riducendo i nostri consumi. Tut-to ciò senza riflettere che l’immobile, diversamente valutato, è e rimane sempre lo stes-so, con le stesse mura, le stesse finestre, la stessa ubicazione e così via e che se volessi-mo acquistare un altro immobile con le stesse caratteristiche spenderemmo lo stesso importo di quanto il “mercato” valuta l’immobile posseduto.

Non ci chiediamo, per esempio, se con i 180.000,00 o 220.000,00 euro siamo o meno in grado di acquistare gli stessi beni e servizi che prima acquistavamo con 200.000,00 euro. Se ciò fosse possibile, la diversa valutazione del nostro appartamento non ci ren-derebbe né più ricchi né più poveri.

Se investissimo, poi, il nostro risparmio in un BTP (Buono del Tesoro Poliennale) da 1.000,00 euro che rendesse il 3% annuo, cioè 30,00 euro all’anno, e lo vedessimo, dopo qualche giorno, quotato in Borsa a 500,00 euro riterremmo di avere perso 500,00 euro; così come se lo vedessimo quotato a 2.000,00 euro riterremmo di essere più ricchi di 1.000,00 euro. Senza chiederci, però, se vendendo il titolo a 500,00 euro o a 2.000,00 euro i pur diversi importi ricavati, se reinvestiti in altri BTP, potrebbero rendere sempre gli originari 30,00 euro all’anno. Se così fosse, anche in questo caso, non saremmo né più ricchi né più poveri, perché la diversa valutazione assegnata dal “mercato” al nostro BTP, non inficerebbe né sul suo reddito presente, né su quello che potremmo ottenere sostituendo il vecchio BTP con uno nuovo e, quindi, sul nostro reddito futuro.

Spieghiamo meglio tale meccanismo che verrà approfondito e sviluppato nelle pagi-ne seguenti.

Se tutti i risparmiatori (il mercato) ritenessero che il prezzo adeguato (tasso d’interesse) al quale fossero disposti a prestare il proprio danaro a chi lo chiedesse fosse del 3% annuo, chi volesse ottenere il loro risparmio dovrebbe offrire tale prezzo. Se si volessero ottenere 1.000,00 euro in prestito, il richiedente dovrebbe offrire una remune-razione annua di 30,00 euro (€ 1.000,00 x 3% = € 30,00). Il titolo (per esempio un BTP) verrebbe emesso al valore di 1.000,00 euro con un interesse annuo pari a 30,00 euro. A tali condizioni i risparmiatori sarebbero disposti a cedere il loro risparmio e ad acquisire il titolo emesso dal debitore (in questo caso lo Stato italiano). Se dopo qualche tempo

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altri risparmiatori, per i motivi più disparati che qui non ci interessa approfondire, fosse-ro disposti a cedere il loro risparmio non più al prezzo del 3% annuo ma del 6% annuo, per ottenere i 1.000,00 euro necessari i richiedenti risparmio dovrebbero pagare 60,00 euro all’anno ai propri finanziatori. Ciò significa che, se con 60,00 euro all’anno si ot-tengono 1.000,00 euro in prestito, il titolo che frutta ai propri possessori 30,00 euro all’anno varrà la metà di 1.000,00 euro, cioè 500,00 euro. Così come se i risparmiatori, sempre per i motivi più disparati che non approfondiamo, richiedessero un prezzo per il loro risparmio non del 3% annuo ma del 1,50%, i richiedenti risparmio per ottenere i 1.000,00 euro dovrebbero pagare un prezzo di 15,00 euro all’anno. Ciò significa, allora, che se con 15,00 euro all’anno si ottengono 1.000,00 euro di prestito, il titolo che frutta ai propri possessori 30,00 euro all’anno varrà il doppio di 1.000,00, cioè 2.000,00 euro.

Quanto appena esposto fa sì che il BTP, acquistato dal primo risparmiatore a 1.000,00 euro, alle eventuali variazioni dei prezzi che il mercato richiede per nuovi pre-stiti (6%, 1,50%) varierà il proprio valore dai 1.000,00 euro originali ai 500,00 euro o ai 2.000,00 euro.

Il punto adesso da chiarire è quello se: il primo risparmiatore, che aveva un titolo che valeva originariamente 1.000,00 e che gli rendeva 30,00 euro all’anno, vedendoselo va-lutare 500,00 euro o 2.000,00 è più povero o più ricco di prima. In primissima appros-simazione, dovrebbe affermarsi che diverse valutazioni di un bene che si possiede do-vrebbero comportare diverse ricchezze del suo possessore. Ad una più approfondita ana-lisi tale affermazione non è, invece, così scontata.

La domanda da porsi infatti è: si è ricchi di 1.000,00 euro perché si possiede un titolo di tale valore, o si è ricchi di un tale importo perché possedendosi un reddito di 30,00 euro all’anno tanti altri risparmiatori sono disposti, pur di avere un tale reddito annuo, a comprare il titolo che lo incorpora al prezzo di 1.000,00 euro?

Poiché è la capacità di reddito di un bene che ne definisce il valore (approfondiremo meglio tale concetto più in là) è il fatto di possedere un titolo che rende 30,00 euro all’anno che lo valorizza a 1.000,00 euro.

Se fosse così, ma così è di fatto, qualunque sia il valore di mercato del titolo (1.000, 500,00 o 2.000,00 euro) il nostro reddito di 30,00 euro all’anno non cambia e non cam-bierà mai.

Infatti, se manteniamo il titolo continueremo ad avere i 30,00 euro all’anno; se ven-dessimo il titolo al suo nuovo minore valore di mercato di 500,00 euro, potremmo im-piegare tale importo non più al 3% ma al 6%, ottenendo così sempre 30,00 euro all’anno (500,00 x 6%); se vendessimo il titolo al suo nuovo maggior valore di mercato di 2.000,00 euro, potremmo impiegare tale importo non più al 3% ma all’1,50%, incassan-do sempre un reddito annuo di 30,00 euro (2.000,00 x 1,50%).

Quanto appena detto ci fa comprendere che se il reddito è costante, qualunque valu-tazione il mercato assegni ad un bene ciò non si traduce automaticamente in un arric-chimento o in un impoverimento del possessore del bene, che dipende solo dalla quanti-tà e qualità di beni e servizi acquistabili con i 30,00 euro, rispetto a quelli che si acqui-stavano prima della variazione dei tassi di interessi.

Tale affermazione può avere una riprova. Se immaginassimo l’esistenza di due risparmiatori, l’uno che avesse investito il suo

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risparmio nel BTP con un reddito di 30,00 euro all’anno, dal valore originario di merca-to di 1.000,00 euro, l’altro che, invece, avesse depositato i suoi 1.000,00 euro in banca al tasso del 3%, entrambi avrebbero lo stesso reddito dal loro risparmio (30,00 euro all’anno), che varrebbe per entrambi 1.000,00 euro. Se il prezzo del danaro salisse dal 3% al 6%, il primo risparmiatore continuerebbe ad avere i suoi 30,00 euro all’anno ma vedrebbe deprezzare il valore del suo risparmio di 500,00 euro; il secondo (se la banca non adeguasse immediatamente la remunerazione del suo deposito al nuovo prezzo del 6%) continuerebbe ad ottenere 30,00 euro all’anno, leggerebbe nel suo estratto conto l’importo a suo credito di 1.000,00 euro, i quali però nei fatti varrebbero anch’essi 500,00 euro. Il primo risparmiatore avrebbe solo un’immediata ed illusoria percezione di povertà, il secondo, pur avendo lo stesso valore nominale del suo risparmio, non si accorgerebbe che esso varrebbe nei fatti 500,00 euro.

La differenza che contraddistinguerebbe i due risparmiatori non sarebbe fondata su di un fatto reale, ma sulla diversa percezione della propria ricchezza.

A quanto fino a qui detto, potrebbe obiettarsi che se il risparmiatore in BTP avesse tenuto il suo risparmio in danaro contanti sotto il materasso, all’aumentare del prezzo del danaro avrebbe potuto investirlo al nuovo e maggiore prezzo (6% e non 3%), otte-nendo, in tal modo, 60,00 euro e non 30,00 euro all’anno, divenendo, così, più ricco. A tale obiezione potrebbe rispondersi che se il risparmiatore si fosse comportato in tale modo egli, nell’attesa di impiegare il proprio danaro al 6%, avrebbe perduto per tutto il periodo dell’attesa 30,00 euro all’anno. Da tale considerazione deriverebbe la conclu-sione che la scelta più conveniente sarebbe dipesa solo dalla certezza dei tempi di attesa perché la remunerazione del risparmio passasse dal 3% al 6% e dalla certezza che un ta-le aumento avverrà nel futuro.

A reddito eguale, allora, corrispondono sempre valori eguali, al di là delle loro valo-rizzazioni nominali, le quali dipendono dalle nuove potenzialità di reddito al quale po-trebbe impiegarsi il risparmio già investito se lo si potesse reinvestire ai nuovi rendi-menti.

Tali maggiori o minori valori potenziali di reddito e di patrimonio risparmiato, non significano, però, che automaticamente arricchiscano o impoveriscano il risparmiatore che ha già investito il proprio risparmio a rendimenti maggiori o minori.

A meno che non si pensi che, chi giocando al super-enalotto e avesse fatto 6, si rite-nesse più ricco solo perché non ha totalizzato il 5+1, o, viceversa, avendo totalizzato un 5+1 si sentisse più povero per non avere fatto 6.

Quanto fino a qui detto ci porta a porci le seguenti domande: siamo sicuri che cia-scuno di noi, singolarmente, è capace di dare valutazioni corrette del valore del proprio consumo o del proprio risparmio?

E, ancora, è vero che si è più ricchi o più poveri a seconda delle valorizzazioni che leggiamo dai dati che il “mercato” assegna al nostro risparmio investito nei più svariati prodotti finanziari?

E, ancora, è vero che se qualcuno si arricchisce è perché qualcuno di contro si impo-verisce, per cui il saldo complessivo della società è sempre a zero?

Ovvero ci si può arricchire o impoverire tutti al di là dell’arricchimento o dell’impoverimento dei singoli?

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Tenteremo di dare una risposta a questi quesiti nel prosieguo di queste pagine. Qui ci interessa sottolineare che anche il concetto di consumo è, per esempio, non

univoco e che esistono vari tipi di consumo. Per cui esso assume varie qualificazioni a seconda della complessità del sistema economico nel quale si consuma.

E’ evidente che il cibo può essere ascritto ai consumi: dal momento che ciò che si spende per cibarsi dura lo spazio temporale dal pranzo alla cena. Ma a ben vedere, il consumo di danaro relativo alla quantità di cibo necessaria alla sopravvivenza potrebbe essere ascritto alla categoria economica degli investimenti: posto che il cibo, in questo caso, è elemento cardine per la stessa esistenza dell’individuo, condizione necessaria perché esso possa lavorare, produrre e guadagnare danaro. Potrebbe, invece, ascriversi ai consumi la spesa in cibo che, per quantità o per qualità, esuberi rispetto alla mera ne-cessità di sopravvivenza. Ma anche in questo caso, se volessimo sottilizzare, dovremmo determinare quali nuovi stili di alimentazione divengono, via via, condizioni necessarie di sopravvivenza, data un’evoluzione della società, dove lo stesso concetto di mera so-pravvivenza si sposta sempre più verso l’alto. Se così non facessimo, potremmo conti-nuare a immaginare come necessario alla sopravvivenza, per esempio, il cibarsi solo di carne cruda, ascrivendo già quella cotta tra i consumi non necessari e voluttuari.

Se rivolgiamo, poi, la nostra attenzione ad altri tipi di consumi e prendiamo in consi-derazione quelli cosiddetti in beni “di consumo durevoli”, intesi essi dalla letteratura economica prevalente come quei consumi che soddisfano fabbisogni o desideri per tem-pi più lunghi: quali, ad esempio l’automobile, l’elettrodomestico, il mobilio, ci accor-giamo che anche tale semplicistica definizione soffre di una caratterizzazione non uni-voca e suscettibile di modificazioni qualitative, definite dalla stessa evoluzione della so-cietà nella quale si vive.

Se è vero, infatti, che un automobile possiede in se una vita fisica certamente lunga, almeno di alcuni anni, e che essa può essere definita come tutto il periodo per il quale il mezzo può continuare a funzionare, fino a quando le riparazioni necessarie ne giustifi-cano l’utilizzo, è altrettanto vero che la vita fisica di tutti i beni cosiddetti duraturi ha sempre meno a che vedere con la loro vita economica (intesa essa come il periodo per il quale il bene soddisfa il desiderio che ci ha spinto all’acquisto). La durevolezza di tali beni non si connette più alla loro capacità fisica di trasportarci (automobile), di farci se-dere comodamente (divano) o di conservare freschi i cibi (frigorifero), ma alla loro ca-pacità di mantenere costantemente esaudito il desiderio originario che ci ha spinto all’acquisto.

Quanto più la società si rinnova nei desideri, tanto minore è la durevolezza dei beni oggetto di consumo.

Una tale categorizzazione è pertanto relativa e non assoluta. Ciò che vale per i consumi, vedremo valere anche per il concetto di risparmio, la cui

qualificazione e quantificazione, al di là delle sue valorizzazioni nominalistiche delle quali abbiamo più sopra accennato, si evolvono costantemente in funzione dell’evolversi della società, dell’economia che lo produce e lo misura e degli strumenti finanziari che lo rappresentano.

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Una semplificazione del sistema economico e finanziario

Qualsiasi sistema economico-finanziario, anche il più complesso e sofisticato quale quello che viviamo, può essere riportato ad una semplificazione che ne colga l’essenza ed i meccanismi primi di funzionamento.

Tenteremo di fare una tale semplificazione per potere meglio comprendere l’economia e la finanza moderna, che se non scarnificata rischierebbe non solo di non essere capita dai non addetti ai lavori, ma da essi, anzi, eccessivamente enfatizzata.

L’enfatizzazione comporterebbe, poi, la convinzione dell’esistenza di totem indiscu-tibili, di verità assolute, rivelate solo ai sacerdoti dell’economia e della finanza, la con-vinzione che tutto è solo come appare e che i concetti, appunto, di ricchezza, di povertà e di valore siano categorie assolute e trascendenti.

Banalizzeremo, volutamente, il sistema economico e finanziario, cercando di togliere orpelli e complicazioni.

Tale tentativo, certamente, è rischioso, ma ce ne assumiamo la responsabilità. Tutti i soggetti di un sistema economico-finanziario, attori principali ed unici di esso,

possono essere distinti in due grandi ed uniche categorie: le Famiglie e le Imprese. Le prime sono l’elemento centrico dell’economia, le seconde sono funzionale alle

prime. Per famiglie si intende il sistema di individui, raggruppati o meno in più persone, che

costituiscono, pertanto, essi ed essi solo i soggetti e gli oggetti dell’economia. Le imprese, a qualsiasi settore esse appartengano, siano esse di produzione di beni o

di servizi, industriali, commerciali o finanziarie, pur costituendo il momento fondamen-tale ed insostituibile di creazione e di distribuzione della ricchezza, non costituiscono, comunque, il punto finale della ricchezza o della povertà da esse eventualmente prodot-te, che si trasferiscono immediatamente e senza soluzione di continuità al sistema fami-glie.

Le imprese, allora, sono solo gli strumenti delle famiglie attraverso le quali esse dan-no vita all’economia della propria collettività.

Possiamo dire che vi è assoluta trasparenza e transitività tra le imprese e le famiglie. Le famiglie “posseggono” le imprese tutte, essendo le loro finali ed iniziali finanzia-

trici di capitale o di debito. Il risparmio delle famiglie si trasferisce, anche se attraverso vie più o meno dirette,

alle imprese sotto forma di finanziamenti di vario genere e qualità. I consumi delle famiglie alimentano i ricavi delle imprese. I costi delle imprese alimentano i ricavi delle famiglie. I risparmi delle imprese costituiscono i risparmi delle famiglie. Queste ultime, anche se hanno una loro economia individuale costituita da proprie

entrate, proprie uscite, propri risparmi, propri consumi o indebitamento, se analizzate nel loro complesso si identificano nell’economia e nel sistema finanziario delle imprese.

Le famiglie poi, direttamente o indirettamente attraverso le imprese, commerciano fra di loro, trasferendosi consumo o risparmio, i quali, per il tramite del sistema delle imprese che producono i beni da consumare e investono il risparmio ottenuto in attività produttive, determinano il trasferimento fra di esse (famiglie) della ricchezza finanziaria

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che si produce. La moneta non ha di per sé un valore, costituendo solo una merce di scambio che

consente al sistema imprese-famiglie di commerciare e di scambiarsi beni, servizi e ri-sparmio.

Questo ultimo è sostanzialmente costituito da titoli rappresentativi, lato sensu, di crediti che il sistema famiglie vanta nei confronti del sistema imprese e che dovrebbero rappresentare la ricchezza effettiva e potenziale che queste ultime hanno prodotto o che si ritiene siano in grado di produrre in futuro.

Il risparmio delle famiglie, infatti, si concretizza in depositi bancari o postali (credito vantato dal depositante verso le banche o la posta); titoli di Stato (crediti vantati dai loro detentori verso lo Stato); obbligazioni (crediti vantati dai loro sottoscrittori nei confronti delle imprese che li hanno emessi); azioni (“crediti” vantati dai proprietari delle imprese nei loro confronti, sottoposti, però, al rischio d’impresa).

La quantità di moneta in circolazione, regolata dalle Autorità Monetarie (Banche Centrali), consente che la quantità degli scambi tra le famiglie e le imprese sia adeguata alle capacità produttive di queste ultime ed alla ricchezza da esse prodotta o che produr-ranno in futuro.

Troppa moneta in circolazione aumenterebbe la domanda di beni non correlata alle produzioni offerte dalle imprese. Il risultato sarebbe solo quello di aumentare i prezzi dei beni e dei servizi che intendono acquistarsi.

Poca moneta rallenterebbe i consumi e la produzione. La moneta, pertanto, può essere considerata come l’elemento stimolatore o frenante

dei consumi e delle produzioni e, pertanto, della ricchezza che attraverso essi le imprese producono e distribuiscono alle famiglie.

La manovra sui tassi di interesse (in aumento o in diminuzione), i quali costituiscono il costo del danaro o del risparmio, il prezzo, cioè, che chi possiede risparmio finanzia-rio vuole fare pagare a chi tale risparmio richiede (generalmente le imprese che con tale risparmio intendono finanziare gli investimenti necessari alla produzione), rendendo più o meno caro il costo della principale e fondamentale delle materie prime necessarie a produrre (il danaro), ha effetti immediati sulla convenienza o meno ad investire e, quin-di, sul sistema produttivo, sulle quantità prodotte ed offerte e sui prezzi dei consumi.

Possiamo allora dire che la competizione tra le famiglie di uno stesso Stato sposta la ricchezza prodotta dal sistema imprese tra i vari soggetti che compongono la collettività statale. Così come la competizione tra collettività appartenenti a Stati diversi sposta la ricchezza prodotta da una collettività nazionale ad un'altra collettività nazionale.

La formazione dei valori

Qualcosa possiede un valore economico solo perché è capace di produrre un qualche beneficio.

Tale beneficio può essere materiale o immateriale. Qualcosa che non possiede tale caratteristica non possiede alcun valore monetario. All’interno dei beni della prima categoria, poi, il loro valore può avere una misura-

zione economica o meno. Ciò dipende da una serie di fattori e di circostanze, quali la

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scarsezza o l’abbondanza, la semplicità o le difficoltà di ottenimento del bene, le circo-stanze particolari nelle quali si trova il bene o colui che il beneficio dal suo utilizzo vuo-le ottenere.

Esistono, pertanto, beni assolutamente fondamentali senza alcun prezzo e beni cer-tamente superflui con un prezzo elevatissimo.

L’aria, per esempio, pur essendo un bene insostituibile per la nostra sopravvivenza non possiede un valore economico, perché si trova in natura con estrema abbondanza e la sua utilizzazione avviene senza alcuno sforzo. Ma la stessa aria, se la si volesse porta-re sott’acqua attraverso un respiratore, assumerebbe un suo prezzo, derivante dalla sua inesistenza nel luogo in cui la si vuole utilizzare e dal costo necessario per metterla in bombole.

Di contro, un paio di jeans alla moda, pur essendo un bene assolutamente superfluo, può essere valorizzato ad un prezzo esorbitante.

Non esiste pertanto un valore per ogni bene, ma una serie di valori per lo stesso bene, variabili nel tempo, nello spazio e da individuo ad individuo.

Se si vuole semplificare, il prezzo, dato che misura il valore economico di un bene, è direttamente correlato ai volumi di domanda che di quel bene la collettività economica effettua, ai volumi dell’offerta proposta da chi produce o possiede quel bene, ai costi che si sostengono per la sua produzione.

Generalmente è impossibile che un bene abbia un prezzo di vendita inferiore al suo costo di produzione, mentre questo ultimo può solo costituire la base minimale per la formazione di un prezzo, che nessun riferimento potrebbe avere con il suo costo di pro-duzione.

Se per produrre un chilogrammo di grano si sostiene un costo di 0,08 euro, il suo prezzo, salvo casi eccezionali e per tempi assolutamente limitati, non potrà essere mai inferiore a 0,08 euro. Il prezzo pagato per un abito di grande firma, invece, può non ave-re alcun riferimento, anche lontanissimo, con il suo costo di produzione.

Generalmente, i beni si suddividono in due grandi categorie: quelli di investimento e quelli di consumo.

I primi sono quelli capaci di produrre a loro volta un reddito per tempi più o meno lunghi, i secondi no, esaurendo la loro efficacia nel loro stesso consumo.

I beni d’investimento, poi, si suddividono in reali e finanziari. I primi sono beni capaci di produrre reddito in se e per se, senza alcun tipo di media-

zione. Ad esempio un appartamento che si affitta, un camion che trasporta merci e con-sente ricavi al suo proprietario.

I secondi (investimenti finanziari), invece, sono documenti rappresentativi di inve-stimenti reali, producendo un reddito mediato, come risultato del reddito del bene che essi rappresentano. Il reddito di un azione, per esempio, non deriva dall’azione in se, ma dai redditi dei beni dell’azienda che essa rappresenta, che si trasferiscono immediata-mente al suo possessore o attraverso un dividendo o per il tramite di un maggiore valore del titolo azionario. Il reddito che deriva da un BOT, o da qualsiasi altro titolo di Stato, non è prodotto dal titolo in se, ma dalle tasse che lo Stato incassa e quindi dalla ricchez-za che crea e distribuisce il sistema economico, con la quale esso paga gli interessi sul proprio debito.

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Gli investimenti reali, a loro volta, si suddividono in: investimenti materiali ed immateriali.

I primi possiamo definirli come beni che “si vedono e si toccano”, un camion, una catena di montaggio, una mietitrebbia ecc. ecc..

I secondi, invece, pur essendo beni capaci di produrre reddito non si “vedono o toc-cano”. Quali, ad esempio, il marchio, il know-how, la ricerca scientifica, la cultura e co-sì via.

Se facciamo riferimento alla semplificazione del sistema economico-finanziario più sopra riportata, che suddivide i soggetti di tale sistema nelle due grandi categorie delle famiglie e delle imprese, ci accorgiamo che la definizione di bene di investimento e di consumo non si riferisce tanto al bene in se ma al suo utilizzatore.

Per cui, un bene potrebbe essere di consumo per il sistema famiglia e di investimento per il sistema imprese.

Un’autovettura, ad esempio, se acquistata ed utilizzata da una famiglia è certamente un bene di consumo, anche se durevole, se acquistata ed utilizzata da un’impresa costi-tuisce un investimento che, insieme ad altri, formano l’azienda e contribuisce a produrre il suo reddito.

Si può affermare che, allora, non esiste un “valore” per i beni di consumo delle fami-glie, le quali, infatti, assegnano ai beni e servizi di cui abbisognano o che desiderano va-lori assolutamente personalizzati e dipendenti da singole psicologie, sensibilità, culture, storie personali e familiari, educazioni, ecc. ecc. Valorizzazioni assolutamente variabili, per il medesimo individuo, nel tempo, nello spazio e dalle circostanze.

Diverso è il valore che gli stessi beni di consumo posseggono se utilizzati dal sistema imprese. Questi, infatti, per esse costituiscono elementi dei costi di produzione e, per-tanto, vengono inseriti in un contesto valorizzativo complessivo, che definisce il costo finale del bene o del servizio prodotto. Esiste, pertanto, un rapporto diretto di correla-zione, in questo caso, tra costo del consumo, valore del prodotto, prezzo di vendita dello stesso, margine di utile che l’impresa si attende o vuole conseguire.

I beni di investimento, invece, sia che essi vengano utilizzati direttamente dal sistema famiglie, sia indirettamente attraverso il sistema imprese, sia che essi siano beni reali o finanziari, vengono valorizzati attraverso un unico e, oseremmo dire, universalmente accettato metodo: che si incentra sul valore attuale del reddito prospettico o dei flussi di cassa netti attualizzati che essi produrranno. Per sbarazzare il campo da inutili sofistica-zioni, che lasciamo agli addetti ai lavori, possiamo già affermare che entrambi i metodi sono sostanzialmente simili. Entrambi, nella loro sostanza, valorizzano un investimento come costituito dal valore riportato alla data di valutazione dei flussi di cassa netti futuri che da essi deriveranno. Per banalizzare ulteriormente, il valore di un appartamento si costituisce di tutti i flussi monetari futuri netti che l’appartamento frutterà al suo poten-ziale possessore, sistema di flussi futuri che vengono attualizzati alla data della valuta-zione.

Spieghiamo meglio cosa si intende per flussi futuri netti e per valore attualizzato, ri-ferendoci, prima, ad un investimento reale, per esempio immobiliare, poi ad un investi-mento finanziario, per esempio un titolo di Stato.

Per flussi futuri netti si intende la proiezione di tutti gli incassi e di tutti i pagamenti

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che chi possiede un immobile potrebbe ottenere e dovrebbe sostenere per ottenerli. Per esempio, gli incassi futuri si costituiranno dei canoni di affitto che per quel tipo di im-mobile e per la sua ubicazione si potranno richiedere, i pagamenti potranno essere costi-tuiti dalle spese di manutenzione necessarie per mantenere il bene oggetto dell’investimento in uno stato adeguato rispetto agli affitti richiesti. Se l’immobile, allo-ra, potrebbe essere affittato 11.000,00 euro all’anno e se per potere richiedere per tutto il periodo di vita fisica dell’immobile in oggetto tale canone sarà necessario preventivare una spesa annua di 1.000,00 euro, il flusso di cassa netto stimabile sarà di 10.000,00 eu-ro all’anno. Tale importo costituirà la base di calcolo per determinarne il valore.

Un punto è fondamentale da tenere presente: i flussi di cassa netti, una volta determi-nati, si considerano come infiniti nel tempo, a meno che il bene non possegga in se una vita determinabile aprioristicamente.

Ciò perché l’investimento in se, a prescindere dal suo possessore che può cambiare nel tempo, si immagina come eterno.

La valutazione dell’investimento, allora, prescinde dal suo proprietario pro tempore, ritenendosi che chiunque nel tempo sarà disposto ad acquistare un immobile con lo stes-so metro di valutazione, cioè il flusso di cassa netto prospettico attualizzato che il bene sarà capace di produrre.

Chiaramente, se l’investimento, per sua natura, possiede una vita limitata si calcole-ranno i flussi netti di cassa prospettici per la durata del bene oggetto d’investimento.

Lo stesso dicasi per un investimento finanziario, che nient’altro è, l’abbiamo già det-to, se non che la finanziarizzazione di una serie di investimenti reali.

Un titolo di Stato presenta come flusso di cassa netto prospettico il rendimento al quale esso è stato emesso. Per esempio, se esso è emesso al 5%, ciò significa che lo Sta-to riconoscerà al suo possessore un reddito di 5,00 euro annui ogni 100,00 euro prestati-gli. In questo caso il rendimento si considera netto, dal momento che non esistono spese da sostenere per “mantenere” un titolo di Stato. Tale flusso non si considera infinito, ma si considerano i flussi di cassa che si otterranno per tutto il periodo di vita del titolo.

Chiarito il concetto di flusso di cassa, al fine di semplificare ulteriormente la logica di formazione del valore di un investimento, immaginiamo flussi infiniti nel tempo.

Poiché tali flussi stimati appartengono al futuro una loro valorizzazione all’oggi ne-cessità di riportare valori futuri al presente. Tale operazione si chiame “attualizzazione” e si basa sul semplice concetto che ottenere un euro tra un anno non equivale ad ottenere un euro oggi.

Un euro incassato tra un anno vale meno di un euro incassato oggi. Attualizzare i flussi di cassa netti prospettici significa, allora, applicare un tasso di

sconto (sostanzialmente un tasso d’interesse) che riporti ad oggi il valore di un flusso di moneta futuro.

La domanda alla quale si risponde in un calcolo di attualizzazione è la seguente: quanto danaro devo impiegare oggi ad un tasso d’interesse del 5% se desidero tra un anno avere 105,00 euro?

Si tratta di determinare quanto valgono ad oggi i futuri 105,00 euro, se voglio inve-stire il mio danaro al 5% all’anno.

Senza spaventare il lettore, dobbiamo applicare una semplicissima equazione mate-

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matica. Se chiamiamo Y l’incognita (danaro da impiegare oggi), 0,05 (5% = 5/100) il tasso d’interesse al quale desideriamo impiegate la somma Y per un anno, e 105 l’importo che desideriamo avere fra un anno, abbiamo che:

105 = Y x (1+0,05) da cui:

Y = 105/1,05 = 100

Se impieghiamo 100,00 euro oggi al 5% per un anno avremo 105,00 euro alla fine dell’anno. Il che equivale a dire che 105,00 euro fra un anno equivalgono a 100,00 euro ad oggi se attualizzati al 5%.

Se, anziché limitare nel tempo il flusso di cassa, lo ritenessimo infinito: cioè come un quantitativo di danaro che per sempre (cioè, per un ipotetico infinito) sarà il frutto di quell’investimento e volessimo trovarne il valore, la domanda alla quale dovremmo dare una risposta è la seguente: quanto danaro devo impiegare perché esso al 5% all’anno mi possa dare 100,00 euro ogni anno per sempre?

La risposta sta nella seguente semplicissima equazione:

Y x 0,05 = 100 da cui:

Y = 100/ 0,05 = 2.000

2.000,00 euro impiegati al 5% all’anno daranno all’infinito 100,00 euro ogni anno. Da ciò deriva che il valore di un investimento che frutterà 100,00 euro all’anno, per sempre, è di 2.000,00 euro.

Un’operazione del genere si chiama, anche, capitalizzare un flusso di cassa: cioè de-terminare quale capitale vale un certo quantitativo di danaro che da esso si otterrà all’infinito.

Se tornassimo all’esempio dell’investimento immobiliare e volessimo determinare il valore di un immobile che fruttasse 10.000,00 euro all’anno netti e se il tasso che voles-simo ottenere da quel tipo d’investimento fosse del 5%, l’immobile varrebbe:

10.000,00/0,05 = 200.000,00 euro

E’ evidente che se il flusso di cassa resta eguale, il valore di un investimento varierà al variare del tasso d’interesse al quale capitalizziamo il flusso di cassa.

Infatti, se il flusso di cassa netto stimato futuro dell’investimento immobiliare restas-se di 10.000,00 euro all’anno, ma tale flusso prospettico fosse attualizzato (ci acconten-tassimo) al tasso del 2,50% e non del 5%, il valore dell’immobile passerebbe da 200.000,00 euro a:

10.000/0,025 = 400.000,00 euro

così come se il tasso di attualizzazione fosse del 10% il valore del bene sarebbe:

10.000/0,10 = 100.000 euro.

La variazione del tasso al quale si attualizzano i flussi stimati futuri di un investimen-to, il rendimento, cioè, che sostanzialmente vogliamo da quell’investimento, modifica il

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valore attuale del bene da valutare. Fondamentale, allora, diviene il tasso da scegliere per attualizzare il flusso monetario

prospettico dell’investimento. Tale tasso, in generale, viene determinato come la somma di un tasso base più una

maggiorazione per il rischio specifico dell’investimento. Come tasso base di solito si assume il rendimento di un investimento finanziario a

rischio zero: quale ad esempio il rendimento di un titolo di Stato emesso da una Nazione ad alto rating (ad esempio l’Italia, la Germania, l’Olanda ecc. ecc.), titoli che garanti-scono in modo assoluto il pagamento degli interessi offerti e la restituzione del capitale nei tempi pattuiti. Tale tasso viene aumentato di un premio (sempre in termini percen-tuali) correlato al rischio che si ritiene di correre per lo specifico investimento. Così, se per esempio un B.T.P. del Tesoro italiano rende il 3,5%, per una obbligazione industria-le (anche se emessa da una solida impresa ad alto rating) si richiederà un differenziale di tasso che premi il risparmiatore della minore affidabilità di un impresa privata rispetto a quella dello Stato. Per esempio uno 0,50% in più; per cui il tasso che si richiederà sarà del 4% (3,50%+0,50%).

Ogni investimento possiede, allora, un proprio tasso, al quale attualizzare i saldi dei flussi monetari futuri attesi per determinarne il valore.

Le variazioni dei tassi, determinate sia dalle modificazioni dei tassi base per investi-menti a rischio zero, sia da quelle dei rischi attesi futuri per lo specifico investimento che si intende intraprendere, determinano la costante variazione del valore degli inve-stimenti in beni reali o finanziari e, quindi, della ricchezza dei risparmiatori.

Il concetto di valore

Abbiamo appena descritto come si formi il valore e cosa assegni valore ad ogni bene o servizio prodotto o esistente. Tentiamo di approfondire il concetto stesso di valore, per una migliore sua comprensione e per cercare di individuare se esso ha subito modifica-zioni nel passaggio da un’economia a contenuti consumi ad un’economia basata preva-lentemente sui consumi e pertanto definibile consumista.

Un fatto ci sembra incontrovertibile: non può ritenersi che abbia valore solo ciò che ha un prezzo.

Se così fosse dovrebbe concludersi che l’aria o l’acqua abbiano minore valore di un jeans o di un hamburger.

Poiché così certamente non è, appare evidente che il concetto di valore economico non esaurisce il più complessivo concetto di valore.

Senza entrare nel merito di tale più alto e complesso concetto, che investirebbe inda-gini ed elucubrazioni mentali che esuberano i meri aspetti economici, ai quali limitiamo il nostro discorso, un fatto ci sembra interessante da analizzare prodromicamente: cosa significhi l’affermazione che le imprese, se i loro ricavi superano i loro costi, creano, tout-court, valore che possono diffondere e trasferire al sistema economico.

Il primo elemento da analizzare attiene allo studio di quale costo si discute. Se esso è solo quello esplicito che, misurato da un prezzo, entra nel processo produt-

tivo o anche quelli occulti, che non avendo un prezzo non si considerano avere un valo-

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re economico. Per semplificare, la domanda alla quale rispondere è la seguente: l’impresa che pre-

sentasse un differenziale di valore tra il prezzo di vendita di un barile di petrolio ed i co-sti di ricerca, di estrazione e di raffinazione dello stesso creerebbe sicuramente ed auto-maticamente un valore da potere diffondere se non considerasse anche il costo relativo all’esaurimento di un giacimento, che ha impiegato milioni di anni per formarsi, ed i co-sti dell’inquinamento atmosferico che impoveriscono un valore non economicamente misurabile ma sicuramente non rinnovabile?

Poiché il presunto arricchimento o impoverimento di una società sembra essere misu-rato esclusivamente dalla creazione o distruzione di valore creati dal sistema delle im-prese solo sulla base della misurazione dei costi espliciti riferiti ai loro ricavi, appare e-vidente che la misurazione del valore economico creato dal sistema delle imprese soffre già di evidenti limitazioni.

Ma mi sembra esserci di più. Anche se si ritenesse che i costi occulti, non avendo prezzo, sono irrilevanti nei con-

fronti delle imprese, attenendo essi ai cosiddetti costi sociali, dei quali deve farsi carico solo la comunità se vuole accrescere i propri livelli quantitativi di sviluppo materiale, anche lo stesso differenziale positivo tra ricavi e costi espliciti non potrebbe, sic et sim-pliciter, assumersi come semplicistico misuratore di creazione o distruzione di ricchez-za, soprattutto in un sistema nel quale la ricchezza presente è misurata dai livelli dei consumi futuri.

Se è vero, infatti, che il valore economico di ogni bene, da che il mondo è mondo, si è sempre basato, magari incosciamente anche prima che ciò avesse una sua teorizzazio-ne scientifica da parte degli economisti, sulla valorizzazione all’oggi del suo beneficio economico futuro, è altrettanto vero che il passaggio da un’economia basata su consumi naturali - con una crescita lineare nel tempo dettata da un equilibrato rapporto circolare crescente tra domanda di migliore o maggiore consumo, offerta dello stesso da parte delle imprese, ulteriore stimolo della domanda da parte di esse, accettazione della stessa da parte del consumatore - ad un’economia, invece, che ha visto invertire tale rapporto, attraverso lo stimolo artificiale della domanda da parte dell’impresa, che determina nuove esigenze di consumo, in una vorticosa spirale crescente e non lineare di consumi artificiali sospinti dal sistema delle imprese, ai quali il consumatore, oramai oggetto e non soggetto dei propri consumi, supinamente soggiace, non può ritenersi semplicisti-camente che non abbia avuto effetti enormi sulla stessa misurazione del valore della ric-chezza prodotta e distribuita.

Nel primo caso il valore nasce dall’individuo e viene soddisfatto dall’impresa, nel secondo caso esso è artificialmente creato dall’impresa e subìto supinamente dall’individuo.

Nel primo caso l’impresa è funzionale all’individuo, nel secondo caso questi diviene funzionale ad essa.

La differenza non è poca cosa nella formazione dei valori e nel loro trasferimento come stabile ricchezza in capo agli individui che tale maggiore ricchezza dovrebbero acquisire.

Ogni sistema economico si è sempre basato sul credito.

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Non può esistere economia e crescita senza credito. Se qualcuno non concede credito a qualcun altro, nelle più svariate forme sia solo

anche quella di lavorare un mese ottenendo la remunerazione del proprio lavoro solo al-la fine del mese, o quella di dare credito a se stessi dotando di capitale proprio l’azienda personale, nulla potrebbe prodursi e nessuna economia potrebbe avviarsi.

Da ciò l’ovvia considerazione che il valore di ogni bene esistente è misurato dal li-vello di credito che il sistema gli concede e valorizza.

Un appartamento vale quello che il mercato ritiene sia il credito ad esso concedibile, misurato dalla attualizzazione dei suoi flussi monetari netti futuri. Tale credito si con-cretizzerà nell’importo che il compratore è disposto ad investire su di esso o in quello che la banca è disposta ad erogare come mutuo ipotecario o, ancora, al credito che il suo stesso proprietario assegna al beneficio futuro che da esso gli deriverà dall’affittarlo o dall’abitarlo e che lo induce a mantenerlo ed a non venderlo.

Ogni azienda, allora, vale i suoi debiti (lato sensu). Debiti nei confronti dei suoi a-zionisti, che in essa hanno conferito risorse finanziarie sotto forma di capitale, e nei con-fronti dei suoi creditori tutti.

Poichè, allora, il sistema economico vale il credito che la sostiene, la ricchezza da es-so prodotta e distribuita è pari alla ricchezza finanziaria detenuta in mano ai soggetti tut-ti che al sistema hanno concesso credito (nelle più svariate forme).

La ricchezza finanziaria emessa e in circolazione vale, allora, il valore attuale dei consumi futuri, che costituiscono i futuri ricavi delle imprese e che concorreranno a formare i loro flussi monetari netti da attualizzare.

Il concetto di consumo, in questo caso, è certamente molto più ampio di quello co-munemente usato per identificarlo. Esso, infatti, identifica sia il consumo di un hambur-ger o di un cioccolatino, sia quello del consumo abitativo di un appartamento.

Da quanto fino ad ora detto deriverebbe, come necessario postulato, che la ricchezza si identifica nella ricchezza finanziaria esistente ed in circolazione e che essa è misurata nella sua consistenza di valore dal livello dei consumi stimati futuri.

Nelle pagine che seguiranno vedremo, poi, come la distinzione tra ricchezza teorica prodotta e quella realmente risparmiata nel sistema e, quindi, detenuta da ogni singolo risparmiatore dipenda non dai livelli di consumo futuro, tout-court, ma dalla qualità dei consumi passati e di quelli previsti futuri.

La potenzialità dei consumi futuri, allora, misura la ricchezza finanziaria di oggi. Consumi crescenti, ancora, aumentano il credito, i prodotti finanziari vendibili sul

mercato ed incrementano conseguentemente il valore di quelli già in circolazione. Ma se così è, bisogna riconoscere che il passaggio da un’economia di consumi, ma

non consumista, ad un’economia esclusivamente consumista, se ha accresciuto le ipote-si di maggiore ricchezza futura ha, nel contempo, bruciato più rapidamente quella con-servata nel passato. Ciò, anche con riferimento a quei consumi che sono stati da sempre considerati come di lungo o lunghissimo periodo.

Le Piramidi, ad esempio, che hanno incorporato la ricchezza di allora, costituita dal lavoro di centinaia di migliaia di schiavi per decine di anni, hanno conservato la loro capacità di consumo per alcune migliaia di anni. Esso si è trasformato, magari, da con-sumo funerario a consumo turistico-monumentale, mantenendo e conservando, però, il

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Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!!

risparmio di lavoro e di energia allora investito. Il consumo abitativo dei palazzi del ‘500, ‘600, ‘700 o ‘800 hanno trasformato il loro

consumo da quello semplicemente abitativo a quello storico-monumentale, conservando anch’essi gli investimenti allora sostenuti ed il risparmio in essi investito.

I grattacieli di Manhattan, invece, seppure teoricamente incorporanti la stessa qualità delle Piramidi o dei palazzi d’epoca (immobili destinati a perdurare, seppure con con-sumi variegati nel tempo) nei fatti durano solo pochi decenni, il loro consumo è sempre più specialistico ed univoco, per cui essi vengono abbattuti sempre più frequentemente per fare posto ad altri grattacieli più innovativi e più economici.

Le piramidi ed i palazzi d’epoca non abbisognano di ulteriori risparmi e risorse fi-nanziarie per garantire la conservazione del loro consumo (al di là di quelle necessarie al loro mantenimento funzionale), i grattacieli degli U.S.A. bruciano, invece, risorse fi-nanziarie più rapidamente ed abbisognano di ulteriore risparmio e di ulteriore credito per continuare ad esistere e per garantire il loro consumo e la ricchezza teoricamente in essi conservata.

Ciò che vale per tali esempi, mutatis mutandis, può valere per tutti gli altri consumi che vanno dal telefono, ai cioccolatini, ai tortellini, alle auto e così via.

Una società consumista, bruciando risorse finanziarie a ritmi elevatissimi, per man-tenere e proiettare nel futuro la ricchezza teoricamente prodotta ed incorporata nei pro-dotti finanziari emessi ed in circolazione, abbisogna di sempre crescenti risorse finan-ziarie, attraverso la costante, continua e vorticosa acquisizione di sempre maggiori quantità di risparmio, da sostituire a quello bruciato, e di mantenere costantemente in-vestito in strumenti finanziari il risparmio storicamente acquisito e la maggiore teorica ricchezza in mano alle famiglie.

Da ciò l’estrema finanziarizzazione dei moderni sistemi economici consumistici che abbisognano, pena la loro stessa sopravvivenza, di sempre maggiore credito incorporato in carta finanziaria, nella quale il risparmiatore deve costantemente ritenere investito, mantenuto ed accresciuto il teorico valore del proprio risparmio accumulato nel tempo, sia che egli venga analizzato come singolo individuo, sia che venga considerato come componente di più vaste collettività.

La finanziarizzazione estrema del sistema, il cui valore poggia esclusivamente sulle ipotesi di maggiori e crescenti consumi futuri, i quali, però, bruciano costantemente ed irremidiabilmente il risparmio passato, comporta rischi di una grande instabilità, che po-trebbe comportare in ogni momento la decisione dei risparmiatori di scaricare sul mer-cato dei beni reali le risorse finanziarie teoricamente accumulate in strumenti o prodotti finanziari.

Da ciò la necessità di mercati finanziari sempre più globalizzati, sofisticati, comples-si, capaci di ammortizzare gli effetti che diverse ipotesi di consumi futuri potrebbero avere sulle valorizzazioni della carta finanziaria in circolazione.

Assistiamo, così, ad investimenti finanziari virtuali, a mercati di prodotti finanziari anch’essi virtuali, che nessun collegamento diretto hanno più con l’economia reale, qua-li investimenti in indici, in indici di indici, in fondi di fondi, ecc. ecc., tendenti solo a creare un sempre più complesso sistema di assicurazioni dei mercati finanziari, al solo fine di mantenere la fiducia dei creditori in strumenti finanziari, che obbligatoriamente

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devono sopravvivere a se stessi, pena la catastrofe delle moderne economie basate su consumi imposti dalle imprese e sulla valorizzazione degli strumenti finanziari da esse emessi solo in funzione dei potenziali e sperati consumi futuri e dagli stessi valorizzati.

Poiché è il consumo futuro (lato sensu) che valorizza la ricchezza finanziaria presen-te, la quale costituisce, alla fine, l’unica ricchezza prodotta e detenuta dalla società, bi-sogna chiedersi se il passaggio da consumi contenuti al consumismo sfrenato, che di-strugge e continuamente rinnova necessità di consumo, abbia avuto qualche effetto sul modo stesso di concepire il valore della carta finanziaria che tale ricchezza dovrebbe in-corporare.

Mi sembra innegabile doversi riconoscere che è nella stessa durevolezza del consu-mo che dovrebbe concretizzarsi la stessa conservazione del risparmio, che ha finanziato la produzione dello stesso bene consumato.

La ricchezza lavoro degli schiavi, proiettando per millenni il consumo delle Piramidi, si è incorporata in esse stabilmente e, forse, per sempre. La ricchezza finanziaria rappre-sentante i grattacieli di Mahattan, bruciandosi più rapidamente, abbisogna di essere so-stenuta artificialmente con nuovi investimenti in grattacieli, che sostituiscano quelli ab-battuti, perché essa non si ritenga bruciata e svanita nell’arco di qualche decennio. Il ri-sparmio investito in Piramidi poggia il suo valore in un mix di passato e di futuro, quel-lo investito in grattacieli poggia il suo valore solo sul futuro.

Se, poi, riflettiamo che la maggior parte della ricchezza finanziaria sostiene consumi istantanei: cioccolatini, panettoni, hamburghers, detersivi, films, televisione, vacanze, vestiti, profumi, belletti, e chi più ne ha più ne metta, dobbiamo accorgerci necessaria-mente che tale ricchezza è solo ed esclusivamente valorizzata al futuro, il suo valore è assolutamente artificiale, prodotto e sostenuto dalla capacità delle imprese di imporre sempre maggiori consumi ad un più vasto pubblico di consumatori e, quindi, una ric-chezza che si determina e si autoalimenta dalla stessa distruzione di ricchezza che il consumo istantaneo necessariamente comporta.

Ma qualche altra riflessione ci sembra necessaria, sulla quale ritorneremo in seguito, ma che qui è necessario anticipare.

Quando il credito, costituente come già detto la ricchezza esistente, era appannaggio solo delle imprese che qualcosa in ogni caso producevano, esso, al di là della durevolez-za delle loro produzioni, si concretava in un bene o in un servizio che un qualche valore nei fatti avevano. L’ampliarsi ed il diffondersi del credito al consumo, concesso alle fa-miglie che nulla di per se producono, significa che la ricchezza finanziaria che esso pro-duce è supportata assolutamente dal nulla.

Il maggior consumo presente, che tale credito consente, amplia sempre più artifi-cialmente la ricchezza finanziaria emessa dalle imprese, sospinta dall’ampliarsi dei con-sumi stessi, creando per essa un valore non solo basato sui prospettici consumi futuri ma anche e ulteriormente rivalutato dall’anticipazione degli stessi. In una sorta di spirale crescente per la quale la valorizzazione di tale ricchezza sconta quello che potremmo definire un futuro del futuro.

In un tale sistema, che auto crea ricchezza che, a sua volta, incrementa il valore pro-spettico di quella che si creerà in futuro, che, a sua volta, incrementando la sensazione di ricchezza delle famiglie, ne spinge in alto i consumi, non solo sulla base della ric-

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chezza teoricamente disponibile, ma anche di quella che si presume si avrà in futuro, in-nesta una spirale crescente di consumi-ricchezza-consumi, dove la valorizzazione della reale ricchezza prodotta e conservata perde ogni capacità di misurazione e di qualifica-zione.

Ci sembra, pertanto, che una società basata su consumi istantanei, vorticosi ed autoa-limentati non possa consentirsi di non ripensare profondamente sui classici paradigmi che stavano alla base dei concetti di ricchezza prodotta, risparmio conservato, di con-sumi funzionali al benessere ed alla crescita sociale di una collettività.

Il consumo

Il consumare ricchezza è stato da sempre una delle necessità di sopravvivenza di ogni forma di vita. Da quella vegetale a quella animale ed umana.

La prima consuma acqua, humus della terra, ossigeno. La seconda acqua, cibo ed ossigeno. La terza, acqua, cibo, ossigeno ed una serie smisurata di altri beni e servizi. Anzi, la

quantità e la qualità dei beni e dei servizi consumati dall’uomo costituirebbero l’elemento differenziale che lo distinguerebbe dai vegetali e dagli animali, conseguenza della sua intelligenza e della visione economica della vita, tesa al costante miglioramen-to della sua qualità.

Le prime due specie, infatti, consumano solo quanto è loro necessario alla sopravvi-venza, riducendo, anzi, incosciamente le loro stesse necessità di vita, in una sorta di evoluzione darwiniana, in funzione della scarsezza dei beni consumabili. Basti pensare, per il regno vegetale, al cactus, che sopravvive in quasi assoluta mancanza di acqua e di humus della terra, o per il regno animale all’evoluzione che alcune sue specie hanno su-bito in funzione della scarsezza di alcune risorse del territorio nel quale esse si sono nel tempo, per necessità, insediate.

Per l’uomo sembra essere tutto diverso. La sua capacità di pensiero e di azione lo ha spinto nei millenni verso sempre mag-

giori consumi, superando quelli basilari collegati alla mera sopravvivenza, nel costante e sembra tutto sommato ben riuscito tentativo di affrancarsi dai bisogni primari, per soddisfare bisogni secondari, terziari e così via nella numerazione, ai quali ha da sempre collegato ipotesi di migliore qualità della vita e di felicità.

Una migliore qualità di vita, allora, come automatica conseguenza di più vasti ed ar-ticolati consumi.

L’uomo, così, da essere primordiale si è evoluto come individuo consumatore di be-ni, di servizi, di sensazioni, attraverso i quali ha teso al miglioramento materiale e spiri-tuale della sua esistenza.

A tale crescente vocazione di consumatore si sono collegati e sviluppati, di conse-guenza, lo stesso pensiero economico e l’economia nella sua evoluzione e nella sua stessa essenza: attraverso analisi e teorie tendenti a razionalizzare e spiegare in termini scientifici il comportamento economico dell’umanità e gli strumenti attraverso i quali misurare gli obiettivi raggiunti e l’evoluzione dell’economia della società.

L’uomo, pertanto, si è sempre di più identificato e sviluppato nella propria individua-

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lità e nella propria collettività con le sue potenzialità di produzione e di consumo pre-sente e futuro.

Produzione e consumo non solo di beni materiali, ma anche immateriali, quali idee, sensazioni, moralità, eticità, e così via. In una sorta di spirale crescente di aspirazione verso nuovi consumi, che superino ed esauriscano i vecchi, e nella costante e spasmodi-ca ricerca di nuove felicità e di totali appagamenti.

Qualcuno vorrebbe collegare questa corsa sfrenata e sembra senza fine all’inconscia aspirazione del genere umano verso l’assoluto e la trascendenza, individuando, così, in questa ricerca costante di felicità e di appagamento l’innata ed inconsapevole aspirazio-ne religiosa dell’uomo.

Consumo, ergo sum. In una sorta di quasi autocoscienza dell’esistere misurata dalla capacità di consumare

e di riprodurre, ad un livello superiore, ciò che si è distrutto consumando. In questo impegno esistenziale sembrerebbe poco importare la distruzione di ric-

chezza che il consumare necessariamente comporta. Ciò, per l’inconscia certezza dell’uomo di essere in grado, comunque e sempre, di ri-

costituire nuova ed aggiuntiva ricchezza, atta a determinare un differenziale positivo di crescita della propria qualità di vita. In una tale visione dinamica poco importerebbe, questo sembra paradossale, quanto sforzo comporti la creazione della nuova ricchezza da consumare nel ciclo successivo.

In una società che si presume economicistica e sostanzialmente materialistica e che dovrebbe, pertanto, essere sempre in grado di misurare e paragonare lo sforzo effettuato con i risultati ottenuti si è perso, almeno così appare, la misura del costo personale e so-ciale che la creazione di nuova ed aggiuntiva ricchezza, necessaria a consentire più alti consumi, comporta.

Sembra quasi che nelle economie opulente ed evolute si stia avendo una rivoluzione nella regola fondamentale dell’homo economicus: il valore del bene o del servizio ac-quisito non deve mai essere inferiore al costo che si sopporta per ottenere i mezzi finan-ziari necessari all’acquisto.

Sembra, infatti, che oggi il prezzo personale e sociale che si paga alla spirale dei con-sumi non abbia più alcun riferimento con il costo sostenuto, per cui il prezzo del con-sumo si assume essere sempre inferiore al beneficio che dal consumo si trarrebbe.

Ciò varrebbe sia per il singolo soggetto che per la collettività alla quale esso appar-tiene.

Tale affermazione deriverebbe dal fatto che il costo personale che si ritiene di soste-nere per acquisire le risorse finanziarie necessarie per consumare viene assunto come eguale a zero: dal momento che a formare i costi del consumo concorrono solo quelli monetari che si sostengono e non quelli non monetari, che avendo perso per l’individuo e per la collettività misura di valore economico sono divenuti, così, inesistenti o irrile-vanti. Vero è che al proprio lavoro, base per acquisire le risorse finanziarie necessarie per il consumo, si assegna sempre un valore, per cui al di sotto di alcune remunerazioni non si è disposti a lavorare, ma altrettanto vero è che tale valore non è commisurato allo sforzo fisico, intellettuale o psichico che esso comporta, ma a quanto può consumarsi con la remunerazione acquisita.

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Solo il presunto valore del potenziale futuro consumo misurerebbe il valore dello sforzo.

Da ciò una spirale circolare per la quale il valore del futuro possibile maggiore con-sumo giustificherebbe sempre il maggiore sforzo per acquisirlo.

Da cui deriverebbe l’assioma, pervasivo delle nostre economie opulente, che vorreb-be che maggiori consumi siano indice di maggiore ricchezza, la quale, a sua volta, sa-rebbe misurata dal livello dei consumi stessi. In una sorta di autoreferenzialità della ric-chezza e dei consumi.

Il consumo, allora, prescinderebbe oggi da regole economiche naturali, che perman-gono solo nel regno vegetale o animale e non più in quello umano.

Sotto questo aspetto, allora, tutto mi sembra possa affermarsi tranne che le nostre so-cietà opulente ed evolute seguano regole economicistiche di comportamento o che metri di misurazione di valori economici abbiano avuto il sopravvento nelle scelte di consu-mo.

Sembrerebbe paradossale, ma solo nel regno animale o vegetale permane un econo-micismo naturale che si è perso in quello umano.

Un leone insegue una gazzella solo per poche centinaia di metri: ben sapendo che uno sforzo più prolungato forse gli consentirebbe egualmente di raggiungerla ed ucci-derla, ma ciò a rischio di essere esso stesso, oramai stanco e provato dallo sforzo, preda a sua volta di qualche altro felino o di dovere cedere ad un suo collega, meno affaticato dallo sforzo, la preda troppo a lungo inseguita.

Noi uomini, invece, inseguiamo prede da consumare a tutte le condizioni. Incuranti dello sforzo che l’inseguimento comporta ed al di là della nostra stessa convinzione dell’utilità reale che la preda presenta per il nostro soddisfacimento.

Sotto questo aspetto il famoso “homo economicus” si sarebbe dissolto in una società nella quale il consumo ha assunto un valore quasi trascendente e non più collegato al rapporto costo/soddisfazione/beneficio.

Le vendite rateali hanno, poi, accresciuto tale divario. Fino a quando il consumo seguiva il risparmio, nel senso che si consumava solo dopo

avere risparmiato le risorse finanziarie necessarie per esso, si aveva contezza chiara del-lo sforzo personale o sociale che si era sostenuto per acquisire i mezzi finanziari che si intendeva consumare. Il rapporto costo/beneficio aveva una base storicamente acquisita, certa e quindi facilmente misurabile.

Le scelte di consumo erano, possiamo dire, più coscienti. L’acquisto rateale, invece, consente di ipotecare gli sforzi futuri, senza conoscere a-

prioristicamente quale sarà il costo di quegli sforzi. Possiamo sostenere che esse inver-tono il rapporto da: costo storico già misurato/beneficio immediato, in beneficio imme-diato/costo futuro indeterminabile.

Il costo sociale che l’ipoteca del futuro comporta è, comunque, evidente in termini di stress quotidiano, di incertezza, di non libertà di scelta della propria vita, di perdita di occasioni che la necessità di finanziare i consumi già acquisiti comporta.

Eppure il consumo è il grande motore delle moderne economie. Dal livello dei consumi dipende il livello delle produzioni e quindi il Prodotto Inter-

no Lordo, grande misuratore della ricchezza dei Paesi e del loro grado di benessere.

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La propensione al consumo e gli indici che la misurano sono divenuti dati centrali di osservazione e di analisi, che enormi effetti hanno su tutti i dati macroeconomici e sugli andamenti dei mercati finanziari. La variazione di tali indici hanno, oggi, effetti mag-giori di quanto non abbiano modificazioni di altri dati economici, che una volta rivesti-vano rilevanza fondamentale: quali ad esempio la variazione dei tassi d’interesse sulle varie valute, i tassi di cambio, la variazione della base monetaria, ecc. ecc.

Consumare, allora, significa produrre, con ciò che ne consegue in termini di occupa-zione, salari e stipendi, risparmio personale e d’impresa, imposte, ecc. ecc.

Il consumo, poi, così come sta alla base della produzione di ricchezza singola e col-lettiva, sta alla base della ridistribuzione della ricchezza prodotta: tra imprenditori, fi-nanziatori, risparmiatori, operai ed impiegati, Stato.

In questa ottica si potrebbe affermare che il consumo è la più imponente tassa impo-sta alla società che essa paga liberamente e con inconscia contentezza.

La misurazione, però, dei livelli dei consumi o dei PIL non significa misurare il costo personale o sociale che i livelli da essi raggiunti comportano. Cioè la vera ricchezza del-la popolazione di un Paese, che è oggi sempre più identificata come costituita da una massa indistinta di cittadini-consumatori.

Vero è che esistono continue stime del benessere sociale e degli indici di benessere, che, però, tengono sempre conto dei costi finanziari e non di quelli personali o sociali necessari a produrre un certo livello di consumo. Tali analisi si fondano sempre su dati economici: quali, ad esempio i mq. di verde per ogni abitante, il numero di posteggi per auto possedute, la velocità media ed il numero di mezzi pubblici, i tempi di attesa per ottenere vari certificati, le lista di attesa negli ospedali, e così via. Manca sempre la mi-surazione dei costi (non monetari) sostenuti per abitare in città affollate, caotiche ed in-quinate, da cui la necessità del verde pubblico, dei costi del possedere e gestire un’autovettura, da cui la necessità almeno dei posteggi, dei costi di movimentazione e degli spostamenti di una società costretta, per produrre e consumare sempre di più, a muoversi e viaggiare in continuità, da cui l’analisi delle velocità medie e del numero di mezzi pubblici, dei costi di una società basata su certificati e rapporti con la burocrazia, da cui i tempi di attesa, degli effetti che sulla salute ha una vita basata su consumi e produzioni spasmodici, da cui la misurazione dell’efficienza degli ospedali, e così via.

Ma al di là di queste considerazioni, è indubbio che un elevato e costante incremento dei consumi e delle produzioni ad essi collegati hanno nei fatti creato un maggiore e più diffuso benessere e qualità materiali di vita certamente migliori.

Il problema, allora, non sta nei consumi in se, ma nell’individuare quale sia il livello quantitativo e qualitativo che devono raggiungere, affinché essi siano capaci di creare ricchezza aggiuntiva e, quindi, quale sia il loro limite, superato il quale essi, invece, di-struggono ricchezza singola o collettiva già storicamente accumulata.

E’ già, a prima vista, evidente che il consumare di per se significa distruggere ric-chezza prodotta ed accumulata nel tempo.

Tale distruzione si riferisce non solo al bene o al servizio consumato, ma anche a tut-ti quei fattori che hanno concorso alla sua produzione, quali ad esempio il lavoro, le ma-terie prime, l’energia, ecc. ecc. Ma tale distruzione di ricchezza riguarda non solo quei fattori della produzione che entrano direttamente nel prodotto consumato, ma anche tutti

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quegli investimenti necessari a che la produzione possa effettuarsi. Quali i macchinari, gli impianti, se ci riferiamo solo agli investimenti materiali; le invenzioni, i brevetti, i marchi, il know-how, se ci riferiamo agli investimenti immateriali.

Consumare, allora, significa distruzione di ricchezza tout-court. Il produrre e il consumare, di converso, significa anche produzione ed accumulo di

nuova ricchezza, che dovrebbe non solo ricostituire la ricchezza distrutta dal consumo stesso, ma creare nuova ed aggiuntiva ricchezza in ogni ciclo produzione-consumo.

Tale processo, allora, innesterebbe un circuito virtuoso di distruzione di vecchia ric-chezza e di produzione di nuova ed aggiuntiva ricchezza ad un livello maggiore. Da ciò la crescita economica singola e collettiva di benessere e di comodità.

Tale paradigma è alla base delle società economicamente ricche ed evolute. Essa è il credo sul quale nei secoli si è basato il pensiero economico e l’attività uma-

na. Lo sforzo costante degli economisti è stato, infatti, sempre quello di misurare, in o-gni modo, il rapporto costantemente esistente tra la distruzione di vecchia ricchezza e la produzione di nuova ricchezza.

Più i consumi divengono sofisticati ed immateriali, però, maggiore è la difficoltà di misurare il rapporto esistente tra distruzione e produzione di ricchezza.

Fino a quando l’acqua, per esempio, aveva un contenuto di materialità elevatissimo, sopperendo ad una esigenza insostituibile e vitale di sopravvivenza umana, il rapporto costo/beneficio era evidente, immediato e facilmente misurabile. I costi materiali, i sa-crifici umani necessari per la sua captazione, conservazione e distribuzione erano sicu-ramente inferiori alla creazione di ricchezza che da essi derivava in termini di disseta-mento, semplicità di utilizzazione, certezza di sopravvivenza presente e futura. Maggio-re distruzione di ricchezza, collegata a migliori servizi idrici, comportava certamente una maggiore ricchezza prodotta, che si concretava nell’immediatezza del suo uso, in maggiori quantità atte a migliorare l’igiene personale, a migliori sue conservazioni atte a garantirsi da eventuali siccità, ecc. ecc.

Allorché, però, l’acqua ha, via via, perso il suo contenuto di materialità, sopperendo sempre di più ad esigenze immateriali e ad aspirazioni totalmente diverse dal dissetarsi e dal sopravvivere bevendo, per assumere quelle, proprie delle acque in bottiglia cosid-dette minerali, di benessere, bellezza, gioventù della pelle, partecipazione, ecc. ecc., il bilancio tra ricchezza prodotta e ricchezza distrutta attraverso il consumo di ogni botti-glia è certamente più difficile ed effimero. Vi è certezza di ciò che si è distrutto: acqua in quantità superflua, energia, lavoro, petrolio, ambiente, ma assoluta incertezza nella misurazione della ricchezza prodotta dalla bellezza, snellezza, sensazione di benessere e di gioventù, che dovrebbero incorporare la maggiore ricchezza singola e collettiva che il bere acque minerali produrrebbe.

A ben vedere, l’esempio appena riportato è estensibile a molte delle produzioni e dei consumi delle nostre società opulente; dove il bilancio non è più effettuabile tra rapporti di materialità prodotte e distrutte, beni cioè suscettibili di misurazione di valori certi o, comunque, con una loro attendibilità, ma tra valori materiali certamente distrutti e valori immateriali prodotti, nei quali dovrebbe ritrovarsi l’aggiuntiva ricchezza che il ciclo produzione-consumo avrebbe dovuto comportare.

Se così è, allora, il paradigma che vorrebbe che i consumi creino aggiuntiva ricchez-

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za, se assolutamente valido in una economia semplice e collegata a consumi primari e materiali, potrebbe soffrire di grandi limitazioni in un’economia altamente sofisticata, produttrice di immaterialità e di sensazioni, di consumi indotti o imposti da stili di vita effimeri, altamente competitiva, con elevatissimi gradi di obsolescenza dei prodotti e degli investimenti necessari alle loro produzioni, dove alla certezza della ricchezza di-strutta, non si collega un’altrettanta certezza nella quantificazione della nuova ed ag-giuntiva ricchezza prodotta, anche solo in termini di miglioramento della qualità della vita.

In questo ultimo caso il rischio è quello di innestare solo un processo circolare, no-minalmente di crescita, sostanzialmente nullo, se non di decrescita rispetto alla ricchez-za posseduta precedentemente.

Un esempio varrà a meglio specificare tale concetto. Ipotizziamo che una comunità possedesse una ricchezza identificata come capacità di

lavoro pari a 100 unità lavorative giornaliere (ulg), che essa per attingere l’acqua da un fiume, per trasportarla e conservarla nel proprio villaggio, garantendosi la mera soprav-vivenza ed il minimo di igiene, fosse costretta ad impiegare 20 ulg; essa avrebbe a di-sposizione 80 ulg da utilizzare per altre attività (caccia, pesca, coltivazione del terreno, ecc. ecc.). Se tale comunità impiegasse 5.000 ulg per costruire una conduttura e reci-pienti che consentissero di spendere solo 5 ulg per approvvigionarsi d’acqua e se ipotiz-zassimo, ancora, che conduttura e recipienti avessero una vita di un anno, il bilancio della collettività sarebbe il seguente:

• ulg disponibili in un anno (100 x 365) = 36.500 • ulg spesi in un anno per la raccolta d’acqua (20 x 365) = 7.300 (-)• ulg disponibili per altre attività (80 x 365). Ricchezza disponibile = 29.200

La costruzione dell’acquedotto e dei recipienti farebbe variare la ricchezza disponibi-le in:

• ulg disponibili in un anno (100 x 365) = 36.500 • ulg impiegati per la costruzione dell’acquedotto e dei recipienti 5.000 (-)• ulg spesi in un anno per la raccolta d’acqua (5 x 365) = 1.825 (-)• ulg disponibili per altre attività (95 x 365-5.000). Ricchezza disponibile = 29.675

La comunità si arricchirebbe di 475 ulg all’anno, da impiegare in maggiore caccia, pesca, coltivazione dei campi, ovvero in un maggiore riposo, che ridurrà le potenzialità di ulg. Tale scelta dipenderà solo dal grado di soddisfazione alimentare raggiunto dalla comunità e dalle scelte tra lavoro e riposo che la stessa comunità effettuerà.

Se la stessa comunità decidesse, per migliorare la propria qualità di vita, di impiegare i 475 ulg di maggiore ricchezza conservata per aumentare la portata di acqua disponibile e potersi, così, rinfrescare nei giorni più caldi, il bilancio della maggiore ricchezza a-vrebbe un dato difficilmente misurabile: quello di quale maggiore capacità di ulg gior-naliero la comunità conseguirebbe attraverso la migliore qualità di vita collegata alla migliore sopportazione del caldo, ovvero quello relativo a quale maggiore soddisfazione trarre da una migliore sopportazione del caldo rispetto ad una maggiore quantità di cibo ottenibile da una maggiore capacità di caccia, di pesca o di coltivazione dei campi o,

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ancora, rispetto ad un maggiore riposo giornaliero. Un fatto ci sembra certo: nel primo caso, essendo il consumo relativo ad una quantità

di bene al solo livello fondamentale per la stessa mera sopravvivenza, il bilancio costi-benefici è più immediato e semplice; nel secondo caso, entrando in gioco misure di qua-lità, il bilancio diviene molto più difficile e meno immediato.

Ma a ben vedere nell’uno e nell’altro caso si ha un miglioramento della qualità di vi-ta solo attraverso una scelta cosciente tra le combinazioni possibili: più acqua, più cibo, più riposo.

Il miglioramento della qualità della vita è, però, di per sé inelastico. Nel senso che, raggiunto uno standard di vita si punta immediatamente a quello suc-

cessivo, in un processo a spirale crescente, interrotto solo da eventi particolari che ridu-cono o azzerano i livelli di vita già raggiunti, quali guerre, terremoti, catastrofi naturali. In questa spirale crescente ogni stadio è prodromico al successivo, senza soluzione di continuità, dove consumi sempre maggiori seguono a consumi e dove la misurazione della ricchezza prodotta, distribuita e potenzialmente conservata è misurata da nessun altro metro se non che dal livello raggiunto dai consumi stessi. In una sorta di autorefe-renzialità dei consumi, che misurano se stessi in termini di qualità della vita e di ric-chezza collettiva.

E’ il livello dei consumi, allora, che di per se misurerebbe la ricchezza di una collet-tività in termini di migliore qualità della vita e, quindi, determinerebbe automaticamente l’affermazione che i costi sostenuti per consumare sono sempre inferiori ai benefici che da essi la collettività ed il singolo individuo ottengono.

L’affermazione è assoluta e sembra perentoria: maggiori consumi, maggiori produ-zioni, maggiore ricchezza, maggiore benessere. Ogni nuovo ciclo consumo-produzione creerebbe maggiore ricchezza rispetto a quella bruciata con il consumo del ciclo prece-dente.

Ma è proprio così ?! Lo è a condizione che il processo produzione-consumo non si fermi mai e continui in

una spirale crescente senza fine. Infatti, se riprendiamo l’esempio appena riportato ed immaginassimo che la comunità

in oggetto, pienamente soddisfatta della quantità di acqua e di cibo, decidesse che la maggiore ricchezza prodotta (475 ulg) possa essere utilizzata in un maggiore riposo, e-lemento di migliore qualità di vita, e che tale scelta impigrisse definitivamente la comu-nità, il suo potenziale annuo di ulg passerebbe da 36.500 a 36.025 (36.500-475) in tale condizione, al secondo anno, nel quale sarà necessario ricostruire l’acquedotto ed i reci-pienti, la sua situazione sarà la seguente:

• ulg disponibili in un anno 36.025 • ulg impiegati per la nuova costruzione dell’acquedotto e dei recipienti 5.000 (-)• ulg spesi in un anno per la raccolta d’acqua (5 x 365) = 1.825 (-)• ulg disponibili per altre attività. Ricchezza disponibile 29.200

La comunità in oggetto ritornerebbe alla stessa ricchezza del primo anno, con una migliore qualità di vita determinata dal maggiore riposo.

Ma ciò è solo teorico: perché presupporrebbe che la comunità sia statica nelle sue a-

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spirazioni e che i consumi di acqua siano assolutamente soddisfacenti e che la maggiore qualità di vita raggiunta non richieda contemporaneamente maggiori consumi di acqua. Se ciò accadesse e nella realtà dei fatti accade, basterebbe che la comunità impiegasse anche solo un ulg in più per aumentare la portata annua dell’acquedotto o la capienza dei recipienti perchè la ricchezza disponibile si riducebbe, rispetto ai 29.200 ulg, deter-minando, così, un impoverimento della collettività.

I consumi, allora, perché non impoveriscano la collettività richiedono sempre mag-giori consumi e sempre maggiori produzioni, in un circuito spirale crescente che se si fermasse creerebbe solo consumo di ricchezza disponibile.

Se, allora, usciamo dall’esemplificazione e guardiamo alle nostre società dobbiamo riconoscere che esse sono condannate a sempre più elevati consumi, sinonimi apodittici e misuratori assiomatici di un benessere sempre maggiore e crescente e che supposte migliori qualità di vita presuppongono sempre maggiori sforzi singoli e collettivi, non solo per essere mantenute ad un certo livello ma per non essere addirittura perdute.

La crescita delle esigenze e delle supposte migliori qualità di vita non è più una scel-ta ma un obbligo, imposto da un sistema che brucia ricchezza posseduta a ritmi sempre più rapidi e che richiede sempre maggiori consumi e produzioni per mantenere attiva l’illusione di ricostituire con continuità crescente la ricchezza depauperata dai consumi del ciclo precedente.

Siamo nei fatti una società condannata a consumare per sempre, di più e di tutto. Ciò che vale per i consumi teoricamente materiali - vestiti, bevande, servizi, automo-

bili, case, arredi, che una volta raggiunti i livelli massimi di materialità utilizzabili (be-vande per dissetarsi, vestiti per coprirsi, automobili per spostarsi rapidamente, telefoni per comunicare a distanza, case ed arredi per abitare), assumono gradi sempre più cre-scenti di immaterialità (bevande per essere belli e partecipativi, vestiti per apparire e sentirsi sicuri, telefonini per inviarsi messaggini e partecipare al gruppo, automobili e case per apparire), che consentono la necessaria spirale crescente che i consumi devono necessariamente avere – vale anche per quelli in origine immateriali (cultura, arte e cosi via) e addirittura per quei beni ritenuti valori fondanti del genere umano (idee, etica, morale, religione) che sono divenuti anch’essi oggetto di consumo con vite medie sem-pre minori e più labili.

I consumi, allora, così come concorrono in via teorica ad un arricchimento del sin-golo e della collettività, possono, di converso, determinare o solo una mera ridistribu-zione della ricchezza tra i vari soggetti della società o addirittura determinare un loro impoverimento.

Il punto, allora, non sembra essere quello di ridurre tout-court i consumi ma di quali-ficarli, puntando o a consumi il cui costo singolo e collettivo non sia superiore al loro valore, o indirizzandoli verso consumi-investimento, che di fatto arricchiscano stabil-mente la collettività e il singolo componente di essa, con obsolescenze più lunghe e, quindi, più duraturi nella loro vita media di soddisfacimento.

Cosa significa orientare i consumi verso beni o servizi a valore maggiore dei costi sostenuti per acquistarli?

E’ certamente difficile dare una risposta semplice a tale quesito estremamente com-plesso: perché esso è risolvibile solo confrontando il costo, non solo quello monetaria-

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mente esplicito che si sostiene per l’acquisto del consumo, con il suo valore. Tenteremo di dare, comunque, una risposta attraverso qualche esempio concreto che

individui il significato di costo e di valore del bene o del servizio consumato. Prendiamo come esempio i consumi nel settore della telefonia mobile, bene e servi-

zio nel quale si concentra un livello elevatissimo di consumi e di investimenti. E’ assolutamente certo che i telefoni cellulari hanno di per se un valore enorme, col-

legato alla possibilità di comunicare sempre, dovunque e con chiunque in ogni istante. Il valore di questo servizio è certamente oggi inestimabile per la gestione degli affari e, anche, per la vita quotidiana di ogni famiglia. Essi hanno attivato elevati investimenti con la conseguente creazione di un gran numero di posti di lavoro e diffusa distribuzio-ne di ricchezza.

I telefonini aziendali certamente hanno creato e creano valore aggiunto alla collettivi-tà.

Quelli familiari arrecano certamente un grande beneficio ed un’innegabile utilità ai singoli utilizzatori, ad un costo per essi, però, non esplicito e non immediatamente quantificabile: in termini di sacrificio di lavoro e di impegno di risorse finanziarie per il loro acquisto e la loro gestione quotidiana. Quanto tale costo sia controbilanciato dall’utilizzo “economico” di tale rivoluzionario servizio è difficilmente quantificabile, anche se sembra innegabile che solo poche delle telefonate fatte attraverso tale strumen-to posseggono una loro reale utilità. Certamente, i milioni di SMS inviati dagli adole-scenti ai propri coetanei per comunicare i più inutili messaggi o sensazioni hanno un co-sto familiare certamente non controbilanciato dal beneficio di dotare i figli di strumenti per essi assolutamente non necessari, se non in casi eccezionali. Ora, pur accettando che tali telefonini abbiano, comunque, una generica utilità e incarnino una qualità di vita migliore di quando essi non erano disponibili, deve pur riconoscersi che il loro consumo familiare poteva anche fermarsi alla loro seconda generazione, e che le generazioni se-guenti, che consentono i video messaggi e che consentiranno a breve anche l’invio di odori, divengono un costo aggiuntivo ed uno spreco di risorse finanziarie familiari, non certo controbilanciate dal valore prodotto per ogni famiglia dal loro utilizzo. Vero è che dal consumo delle famiglie di tali prodotti sono derivati la maggior parte dei ricavi delle aziende che tali beni e servizi hanno prodotto, con i quali si sono creati posti di lavoro e distribuzione di ricchezza, ma altrettanto vero è che il costo familiare di tali consumi superflui, con molte probabilità, ha comportato solo una mera distribuzione di ricchezza e non produzione di nuova ed aggiuntiva ricchezza: tenuto soprattutto conto della velo-cissima loro obsolescenza, che brucia con grande rapidità gli investimenti effettuati ed il risparmio necessario a finanziarli. Se le famiglie avessero speso le stesse risorse finan-ziarie in consumi a più lunga durata, istruzione, sport, salute, ecc. ecc., l’effetto di di-stribuzione di ricchezza sarebbe stato probabilmente eguale, con consumi, però, certa-mente creatori di maggiore e più stabile ricchezza individuale e collettiva.

Ciò, senza considerare i costi sommersi, ma certamente elevati, connessi sia sul pia-no psicologico e relativi alla dipendenza che tali strumenti comportano per ciascuno di noi, sia sul piano fisico dei danni eventuali che essi producono sulla salute dei loro uti-lizzatori, danni che verranno esplicitati solo allorché essi diverranno evidenti e non più occultabili, sia sul piano delle libertà personali, consentendo essi il monitoraggio costante della vita e degli spostamenti di ciascuno.

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stante della vita e degli spostamenti di ciascuno. Il costo personale e sociale, allora, del consumismo di telefonia mobile può affermar-

si con certezza essere stato superiore al valore aggiunto in termini di qualità della vita e quindi di ricchezza singola e collettiva che essa ha determinato fino ad una certa sua ge-nerazione. Oltre la quale, invece, un bilancio tra distruzione di ricchezza derivata dall’obsolescenza dei vecchi consumi e degli investimenti necessari a produrli e del conseguente risparmio chiamato a finanziarli e creazione di nuova ricchezza collegata ai nuovi servizi offerti (sms più rapidi e in quantitativi maggiori, giochi, televisione su te-lefonino, ecc. ecc.) è oggi sicuramente difficile da tracciare e quantificare.

Deve anche considerarsi che, in una società in rapida evoluzione, dove la globalizza-zione crescente, la dinamicità e l’elevatissima concorrenzialità sono elementi centrici della sua caratterizzazione, non è neanche certo che un crescente consumo di beni e di servizi ad elevata obsolescenza, anche se non crea aggiuntiva ricchezza, comunque de-termini una sua distribuzione tra le varie componenti della società. Dumping sociali, che caratterizzano e caratterizzeranno sempre sistemi economici con diverso livello di ric-chezza, producono il rischio reale che consumi di tale tipo nei fatti trasferiscano ric-chezza accumulata in un Paese nei Paesi dove i costi di produzione sono inferiori. Cre-ando sì un trasferimento di ricchezza, ma non più all’interno delle varie categorie di uno stesso Paese, ma a vantaggio dei Paesi più competitivi in termini di costi, anche se meno competitivi in termini di libertà individuali e di garanzie sociali.

L’inelasticità dei consumi in società abituate all’opulenza rischia, così, di impoverire tali sistemi economici, senza che essi si accorgano esplicitamente del lento ma inesora-bile loro impoverimento, mascherato da sempre alti livelli di consumo, magari finanziati sempre più massicciamente dal debito.

Depauperamento drogato da una finta ricchezza, misurata da consumi di fatto non più sopportabili. Mantenere alti consumi in sistemi economici produttivamente non più competitivi significa distruzione di ricchezza, sostenibile solo a patto di non curarsi nel breve termine del saldo della bilancia commerciale, finanziata o dal possesso di una moneta accettata come moneta di conto mondiale, o da produzione di servizi tali da rie-quilibrare la bilancia complessiva dei pagamenti: ricreando, così, quel circuito virtuoso di riappropriazione delle risorse finanziarie perdute dall’importazione di beni effimeri di consumo con l’esportazione verso i Paesi produttivamente più competitivi di servizi di varia natura, effimeri come i prodotti importati e consumati. Si ricreerebbe, così, quel circuito di cui abbiamo più sopra parlato, proiettato non più a livello di una singola co-munità chiusa ma di una comunità mondiale.

Consumi superflui ed effimeri, non più supportati da esigenze primarie o ritenute as-solutamente tali da moderni stili di vita, che possano costituire zoccoli duri di consumo e produzione, determinano economie altamente sensibili a variabili psicologiche che, a loro volta, possono avere effetti devastanti sui sistemi economici. I quali sono costretti, con le più sofisticate politiche di marketing, ad imporre consumi sempre crescenti, nella consapevolezza che la loro sopravvivenza è oggi esclusivamente legata al consumare di tutto e di più.

Tutto ciò innesta quel circuito perverso di cui abbiamo più sopra accennato: l’incapacità di ciascun consumatore di effettuare un bilancio cosciente tra costi persona-

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Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!!

li e sociali del consumo e maggiore ricchezza realmente prodotta e conservata, misurata, anche e solo, in termini di miglioramento della propria qualità di vita, che da sempre si farebbe derivare da più elevati consumi.

Ciò crea quel paradosso di cui abbiamo accennato, per cui le nostre società opulente hanno di fatto cancellato il concetto di “homo economicus”, capace, cioè, di valutare coscientemente e costantemente il rapporto costo/beneficio di ogni sua azione.

Anzi, sul costante mantenimento di un’assoluta e permanente incapacità valutativa dell’individuo e della società trova esistenza e sviluppo la cosiddetta società del benes-sere e dell’opulenza, che si trasforma, invece, in società a malessere diffuso, caratteriz-zata da incertezze assolute nel futuro e in una più diffusa povertà economica.

Ma, allora, ridurre i consumi porterebbe ad una maggiore povertà ovvero ad una maggiore ricchezza anche economica?

Recuperare i valori sostanziali dei beni consumati significa, certamente, ridurre i consumi e gli sforzi personali e finanziari che per essi si sostengono. Riportare il telefo-nino alla sua funzione originale (comunicare fatti utili e necessari), le automobili alle loro sostanziali funzioni (spostarsi velocemente ed in sicurezza), gli alimenti alla loro reale funzione (alimentarsi quando si ha fame), i vestiti alla loro funzione originale (co-prirsi con dignità e decoro), e così via, significherebbe consumare beni e servizi con una durevolezza maggiore, recuperando la vita fisica degli stessi beni e non quella imposta da un turn-over artificiale, che brucia in tempi sempre più rapidi la naturale e necessaria soddisfazione a consumare e che nei fatti elimina lo stesso piacere che il consumo do-vrebbe comportare. In tale modo il consumo diverrebbe una forma d’investimento in un piacere di più lungo periodo, collegato a sforzi personali, sociali e finanziari più equili-brati per un piacere che si prolungherebbe nel tempo.

E’ innegabile che una società più cosciente nei propri consumi, che sappia dare valo-ri economici ai propri sforzi fisici e psicologici, rapportandoli costantemente ai piaceri dei beni o dei servizi che si vogliono possedere o utilizzare, è una società più equilibrata e più felice, sostanzialmente più ricca e più forte perché maggiormente capace di resi-stere a fattori che dovessero rapidamente cambiare gli stili di vita artificialmente impo-sti.

Ridurre e riqualificare i consumi, allora, per essere più ricchi. Se è evidente che la riduzione personale dei consumi significa non solo minore spre-

co di risorse e maggiore risparmio; meno evidente e pacifico è l’effetto che minori con-sumi e correlate produzioni possono avere sulla ricchezza complessiva di una comunità, anche se di tali effetti abbiamo accennato nelle pagine precedenti e ci accingiamo ad approfondirli in quelle seguenti.

Ridurre i consumi ??

Poniamoci, adesso, il problema degli effetti che una riduzione dei consumi può avere sulla ricchezza del singolo individuo e della collettività.

Appare evidente, ad un superficiale approccio, che una riduzione dei consumi avreb-be l’effetto di aumentare il risparmio finanziario del singolo individuo ed una sua mag-giore ricchezza finanziaria da investire in beni o di consumo più durevoli (cultura, studi,

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Giuseppe Provenzano

famiglia, ecc. ecc.) o in beni d’investimento veri e propri (case, terreni, imprese, ecc. ecc.).

Un più approfondito esame, però, farebbe emergere che tale maggiore accumulo di ricchezza presupporrebbe che i minori consumi del singolo non comportino una sua mi-nore capacità di reddito. Cioè, che i suoi minori consumi non determinino o una minore ricchezza prodotta dalla collettività o una minore sua ridistribuzione, fatti che avrebbero necessarie conseguenze sul reddito dell’individuo. In tale caso una riduzione dei con-sumi si tradurrebbe in una pari riduzione della sua capacità di risparmio e, quindi, in una sua minore capacità d’investimento. Da questa osservazione deriverebbe che l’effetto prodotto da una riduzione dei consumi del singolo individuo, analizzato nella sua indi-vidualità, non è determinabile se non in rapporto al comportamento dei consumi di tutta la collettività di cui egli fa parte.

Pertanto, l’esame va condotto con riferimento ai consumi collettivi e non singoli. Una riduzione dei consumi collettivi, a prima vista, comporterebbe una minore pro-

duzione e ridistribuzione di ricchezza della comunità alla quale si appartiene. Afferma-zione corretta se per comunità si intende un insieme chiuso e non aperto ad altre collet-tività con le quali si commercia. Se ci riferiamo, invece, ad un sistema di mercato aper-to, dove gli scambi commerciali sono liberi e la concorrenza effettiva, mercati globaliz-zati quali quelli in atto esistenti, l’analisi degli effetti di una riduzione dei consumi di una collettività si sposta sullo studio della competitività produttiva della collettività in esame rispetto alle altre collettività con le quali si è in competizione.

Se la collettività che riducesse i propri consumi avesse produzioni assolutamente competitive con i propri concorrenti, l’effetto di una riduzione dei propri consumi inter-ni sarebbe quello di maggiori esportazioni e di correlate acquisizioni di ricchezza dalle collettività concorrenti. La produzione interna non si ridurrebbe, la ricchezza prodotta verrebbe consumata al di fuori della collettività che la produce, con la conseguenza di un arricchimento costante e continuo della collettività che riducesse i consumi a spese delle collettività meno competitive.

Se la collettività che riducesse i propri consumi fosse non competitiva rispetto alle comunità con le quali è in concorrenza l’effetto sarebbe inverso. I consumi della nostra comunità di fatto l’impoverirebbe, a favore delle collettività più competitive, i consumi distruggerebbero, così, ricchezza esistente, che verrebbe esportata a vantaggio dei com-petitori esterni. In mercati, poi, in cui esistesse una moneta unica non si innesterebbero, neanche, i noti effetti sul cambio che teoricamente comporterebbero effetti svalutativi della propria moneta atti a riconquistare la competitività perduta.

Una prima conclusione sembrerebbe essere quella che, si sia o meno competitivi, una riduzione dei consumi arricchirebbe in ogni caso la collettività.

Tale ricchezza, poi, potrebbe essere risparmiata ed investita in attività capaci di au-mentare la propria competitività internazionale, ciò consentirebbe un riequilibrato au-mento dei consumi e, quindi, della ricchezza interna. Il tutto attraverso l’attivazione di un circuito virtuoso: maggiore ricchezza-maggiori consumi-maggiore ridistribuzione di ricchezza.

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Riqualificare i consumi

Altro passaggio, a nostro parere, fondamentale è quello di una profonda riqualifica-zione dei consumi, ne abbiamo più sopra accennato. Intendiamo per riqualificazione non solo un consumo cosciente, che ricostituisca un chiaro e definibile rapporto tra co-sto (singolo e collettivo) e beneficio, di cui abbiamo già più sopra parlato, ma soprattut-to una ridefinizione dei valori dei beni e dei servizi che si intendono consumare. Chia-riamo tale ultima affermazione.

Riteniamo, per esempio, che riqualificare i consumi significhi spostarli da consumi istantanei a consumi a soddisfazione più prolungata nel tempo, cioè a consumi-investimento. Quali, ad esempio, cultura, istruzione, sanità, sicurezza, salvaguardia del territorio, valorizzazione dei beni culturali ed artistici, ecc. ecc. Molti di questi consumi si ritengono debbano essere gratuiti per l’individuo ed onerosi per la collettività, ciò ha comportato che gli oneri relativi a tali consumi siano a carico dello Stato, finanziati at-traverso le imposte e le tasse.

La conseguenza di tale impostazione è stata quella di uno scollamento tra il prezzo del consumo e l’immediata percezione del suo costo, non più sostenuto direttamente dal suo fruitore, ma solo indirettamente.

L’assurdità di una tale impostazione ha determinato che i consumi a più alto contenu-to di valore intrinseco siano, nei fatti, considerati come dovuti alla collettività e, pertan-to, gratuiti; collettività che ha, così dirottato le proprie risorse finanziarie dai consumi più costosi ma necessari a quelli più inutili e superflui, meno costosi socialmente ma con prezzi di vendita elevatissimi.

Viviamo solo perché esiste l’aria, l’acqua, la terra che produce i suoi frutti, il mare, i boschi e così via, ma per tali consumi primari non siamo disposti a spendere un cente-simo del nostro reddito, se non quelli che lo Stato riteniamo ci “estorca“ attraverso le imposte, mentre siamo disposti a spendere tutte le nostre risorse finanziarie e, anzi addi-rittura, ad indebitarci pur di acquistare il vestito alla moda, o il telefonino di ultima ge-nerazione, la vacanza esotica, il televisore più moderno e così via.

Se alcuni consumi “gratuiti” divenissero o, comunque, si percepissero come onerosi, per quello che di fatto essi costano e per il valore che essi intrinsecamente posseggono per noi tutti, si avrebbe uno spostamento dei consumi verso questi ultimi, con la conse-guenza di orientare risorse finanziarie, non solo pubbliche ma anche private, dalle pro-duzioni di vestiti o di telefonini o di merendine o di profumi a quelle necessarie per il mantenimento dei boschi, per la riqualificazione dei territori, per il potenziamento e mi-glioramento dei servizi sanitari, per la sicurezza sociale, ecc. ecc.

In termini di occupazione e di ridistribuzione di ricchezza il saldo potrebbe essere a zero, se non a vantaggio di scelte riqualificate di consumi.

Le risorse finanziarie così consumate di fatto arricchirebbero l’individuo e la società che tali scelte effettuassero, a svantaggio di quelle comunità che impiegassero risorse finanziarie singole e collettive per produrre beni e servizi a consumo più immediato ed effimero.

Ci chiediamo: sarebbe più povero un individuo o una società che fosse disposta a pa-gare di più per potere usufruire di una riserva naturale, rispetto a chi è solo disposto a

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pagare di tasca propria una merendina o un telefonino o un vestito all’ultima moda ??!! Viviamo, oggi, in una società che pur ritenendosi assolutamente economicistica sem-

bra non sapersi fare i conti più semplici ed immediati, quelli cosiddetti “della serva”. Un esempio varrà per tutti. Con riferimento, per esempio, alle fonti energetiche si dice che il petrolio resta anco-

ra la fonte meno cara, rispetto a quelle cosiddette rinnovabili. Ciò è vero se tra i costi non si considera l’esaurimento dei giacimenti, cioè se a formare il costo del barile si prendono solo in considerazione i costi necessari alla ricerca del giacimento, all’estrazione del petrolio, alla sua raffinazione, trasporto e distribuzione, alle royalties da riconoscere ai Paesi detentori dei giacimenti. Senza considerare che il giacimento, una volta individuato e stimato nella sua consistenza, dovrebbe essere valorizzato come ricchezza esistente e pertanto ogni barile estratto dovrebbe essere addebitato del costo pari alla riduzione del valore della ricchezza estratta, che ha impiegato milioni di anni per essere prodotta e che certamente la royalty riconosciuta non ripaga. Se così si faces-se, non è assolutamente certo che il costo del barile di petrolio sarebbe inferiore a quello dell’energia eolica o solare, che nei fatti non dovrebbe considerare il costo relativo all’esaurimento delle scorte della materia prima. Tutto ciò senza volere indulgere, vo-lontariamente, su altri elementi di costo indiretto, quali l’effetto serra, l’inquinamento ed i costi sanitari correlati, che esplicitamente vogliamo non considerare, volendoci limita-re ad un aspetto dei costi esclusivamente economicistici e non sociali.

Ma riqualificare i consumi significa, anche, rideterminare con maggiore coscienza il rapporto costo/beneficio di ogni bene o servizio che si acquista; acquisire, cioè, piena coscienza di cosa si abbisogni veramente per una migliore qualità della vita, con un ben preciso rapporto tra la crescita di una ricchezza meglio distribuita, più diffusa e più stabile e maggiori consumi nei quali esplicitare il maggior senso di benessere e di cer-tezze future.

Un primo passo perché ciò avvenga potrebbe consistere nella drastica riduzione del credito al consumo, che non può trovare il suo limite di concessione solo nell’accertata insolvenza del richiedente, fatto già patologico e che avviene allorché il consumatore ha oramai raggiunto la disperazione economica, ma che dovrebbe già avvenire a monte della concessione, attraverso istruttorie meglio ponderate non solo e non tanto nell’interesse del creditore, ma anche e soprattutto nell’interesse della società che a tale forma di consumo del proprio risparmio futuro ricorre.

Oggi il credito al consumo, data la vastità del pubblico che vi ricorre e la mole dei fi-nanziamenti concessi, rischia di essere misurato nella sua rischiosità da parte delle im-prese erogatrici più con la legge dei grandi numeri, piuttosto che con i criteri di solvibi-lità di ogni singolo finanziato. I tassi di interessi richiesti, infatti, comprendono una maggiorazione che può identificarsi quasi come una premio assicurativo per l’eventuale insolvenza, già stimabile e determinabile a priori con riferimento alla massa finanziata. Ma ciò, se mette al riparo i bilanci delle imprese finanziatrici, getta nella disperazione centinaia di migliaia di famiglie, attirate da un consumo immediato, maggiore delle pro-prie possibilità finanziarie presenti, a fronte delle cosiddette “comode rate”.

Con esse si ipotecano anni di lavoro e di sacrifici per un consumo che sarà dimenticato ed obsoleto già al momento della scadenza della prima “comoda rata”.

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Crediamo, infatti, che l’uovo di Colombo inventato, consciamente od inconsciamente dal sistema, sia stato quello di trasferire i suoi crescenti rischi di instabilità sul consuma-tore, chiamato ad assumersi l’onere del finanziamento dei propri consumi attraverso l’attivazione e l’ingigantimento del credito al consumo. Attraverso tale nuova tipologia di credito il consumatore, nei fatti, finanzia indirettamente il sistema delle imprese, che ricevono così solo ricavi, e si assume in prima persona i rischi di instabilità del sistema. Così come le incentivazioni agli acquisti a tasso zero e con pagamento dilazionato (ma-gari con prima rata a sei mesi, se non addirittura a dodici mesi, dall’acquisto) hanno sca-ricato sul consumatore i costi ed i rischi relativi alle giacenze di magazzino ed all’obsolescenza dei prodotti.

L’indebitamento delle famiglie, cresciuto enormemente in questi ultimi decenni, da una parte le ha obbligate ad aumentare le proprie capacità lavorative ed inventive, per garantirsi dall’insolvenza rispetto agli impegni assunti, dall’altro lato ha consentito ad esse di vivere ai limiti della proprie possibilità reddituali, trasferendo, così nei fatti, la loro capacità di credito alle imprese e assumendosi in prima persona il rischio di così e-levati indebitamenti.

Tali elevatissimi indebitamenti, poi, stanno alla base delle nuove e più dirompenti povertà di chi, per i motivi più disparati, magari legati anche alla rapidissima obsole-scenza delle risorse umane, dovesse perdere, anche temporaneamente, il proprio lavoro. Soggetti del genere, sfortunatamente oggi sempre più frequenti, si trovano non solo sen-za un reddito, ma per giunta oberati da impegni finanziari mensili conseguenti da inde-bitamenti assunti in precedenza, per garantirsi livelli di consumo in misura maggiore di quelli che erano state le proprie disponibilità immediate.

Il consumo presente ipoteca sempre più massicciamente il futuro. Una leva finanziaria insostenibile dalle imprese, o comunque eccessivamente ri-

schiosa per esse, è stata sostanzialmente attivata dalla massa dei consumatori-famiglia, della quale ha goduto e gode il sistema delle imprese operanti nel settore dei beni e dei servizi ad alto contenuto di immaterialità.

Non a caso i luoghi fisici di vendita del credito al consumo si identificano con quelli di vendita dei beni stessi, che, molte volte, incorporano gia il finanziamento al consu-matore. Questo ultimo, spesso, è incapace di identificare e scomporre il prezzo del bene o del servizio acquistato da quello del suo finanziamento, che divengono così un unicum inscindibile, costituente il prezzo di vendita sul quale il consumatore è indotto o meno all’acquisto. Le politiche dei tassi e delle rateizzazioni, particolarmente incentivanti in periodi di minore propensione al consumo, stabilizzano le vendite e riducono la volatili-tà della domanda.

Un’adeguata armonizzazione, poi, tra la vita utile del bene consumato e la vita media del finanziamento concesso consente la continua sostituzione del consumo ritenuto ob-soleto con un nuovo consumo ed un nuovo finanziamento.

La vita media di soddisfacimento del prodotto consumato, tra l’altro, si è notevol-mente abbreviata, sollecitando il consumatore, non più soddisfatto dal precedente acqui-sto, ad un nuovo ed ulteriore consumo, finanziato in parte dal fido utilizzabile a seguito del pagamento delle precedenti rate, in parte attraverso un suo ampliamento basato sulle nuove attese di reddito. Ciò comporta un costante e crescente indebitamento dei consu-

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matori, che alimenta, così, le capacità produttive delle imprese e che finanzia la vortico-sa obsolescenza dei prodotti immateriali offerti e degli investimenti materiali ed imma-teriali ad essi collegati.

Tutto ciò senza considerare che il credito al consumo consente alle imprese di pro-durre e di vendere oggi ciò che sarebbe vendibile e producibile solo domani. Anticipan-do così una domanda ed una offerta artificiale non basata sulla ricchezza e sulla capacità di spesa presente ma su quelle supposte future. Con la necessaria conseguenza che il si-stema industriale viaggia sempre ai limiti massimi delle capacità future di reddito pre-sunto prospettico dei consumatori. Modificazioni sulle attese di reddito futuro hanno ef-fetti che possono essere disastrosi su tutto il sistema produttivo e finanziario.

Da un sistema basato su di una netta separazione tra le figure del finanziatore (dai volti più variegati), quella del produttore e del consumatore, si è passati ad un sistema nel quale, al di là del formale sistema di intermediazione finanziaria esistente, il mo-mento del consumo e del finanziamento all’impresa produttrice si va sempre più con-fondendosi ed unificandosi.

Il moderno consumatore, in sintesi, unifica i due momenti dell’acquisto e del finan-ziamento all’impresa produttrice.

Tale nuovo fenomeno, che va prepotentemente affermandosi, comporta una rinnova-ta concezione del risparmio, che per le famiglie si concretizza sempre meno nell’accantonamento di risorse finanziarie, atte a garantire maggiori futuri consumi o investimenti in beni durevoli o semidurevoli ovvero a fare fronte ad imprevisti, ma nel consumo odierno dei propri futuri redditi (ipotizzati o sperati), da spendere nel presente in consumi di beni durevoli o semidurevoli o nella copertura di futuri rischi, attraverso l’utilizzo massimo di quella capacità di indebitamento che il sistema loro consente, nella cui restituzione rateale si concretizzerebbe la nuova forma che il loro risparmio va mano a mano assumendo.

Risparmio già in grande parte consumato all’atto stesso della sua stessa formazione. Riqualificare i consumi significa, allora e soprattutto, adeguarli solo ed esclusiva-

mente alle proprie capacità finanziarie presenti e non anche a quelle ipotizzate future, empre più incerte.

Ristabilire, cioè, un equilibrio tra risparmio già acquisito e consumi. Tra ricchezza presente e consumo presente. Il sistema famiglia dovrebbe riacquisire la coscienza che il debito deve solo ed esclu-

sivamente finanziare investimenti, risparmio duraturo che si incorpora nelle rate di resti-tuzione del finanziamento ottenuto. Diversamente, la ricchezza delle famiglie serve solo a finanziare un vorticoso giro di consumi immediati, che solo effimeramente misurereb-bero benessere e migliore qualità di vita.

Riqualificare il risparmio

Minori e più qualificati consumi comporterebbero, allora, maggiore risparmio, mag-giore ricchezza stabile e duratura, maggiore certezza nel futuro e, conseguentemente, una più equilibrata crescita dei consumi supportata da una accresciuta ricchezza.

E’ evidente che ciò che non si consuma, si risparmia.

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Affermazione troppo ovvia ed ai limiti della banalità se fosse assodato che, nelle no-stre moderne società opulente, il concetto di risparmio e gli strumenti finanziari nei qua-li esso si incorpora non avessero subito profonde modificazioni, al limite del loro stesso stravolgimento concettuale e contenutistico.

Risparmio significa nella sua etimologia ricchezza non consumata e come tale utiliz-zabile per nuovi investimenti o per ulteriori consumi.

Se si osserva il risparmio del singolo, esso, se costituito da risorse finanziarie liquide (deposito bancario o postale), è facilmente identificabile in una ricchezza conservata (entrate finanziarie maggiori delle uscite finanziarie) frutto di consumi minori dei reddi-ti percepiti, che costituisce effettiva potenzialità di acquisto di beni d’investimento reali (ad esempio case) o di maggiori consumi futuri (migliore stile di vita). E’ innegabile che il risparmio se analizzato atomisticamente per il singolo individuo è facilmente identifi-cabile, determinabile e valutabile.

Unica condizione necessaria affinché esso non svanisca è la costante solvibilità dell’istituzione finanziaria alla quale esso è affidato e che lo custodisce (ad esempio la banca o la posta), unita al mantenimento nel tempo del potere di acquisto della moneta nella quale esso è espresso.

Se, invece, il risparmio lo si considera nella sua globalità, cioè come complessiva ricchezza conservata da comunità più vaste, sulla quale la stessa fa affidamento e che costituisce la potenziale maggiore ricchezza prodotta e non consumata, il discorso si fa più complesso e meno evidente.

Il valore del risparmio esistente e che ciascun singolo componente della collettività ritiene di avere conservato e disponibile è strettamente connesso alle attese di nuova ric-chezza che il risparmio investito nell’economia sarà capace di produrre.

Spiegheremo meglio tale concetto. Per un primo approccio, vogliamo portare l’esempio delle assicurazioni. Ciascun as-

sicurato, con il pagamento di un premio, è certo che al verificarsi del danno assicurato la compagnia gli liquiderà la somma pattuita. Di fatto, tutti i clienti della compagnia si sentono e sono assicurati, a condizione, però, che non tutti e nello stesso momento subi-scano il danno per il quale sono assicurati. In una tale evenienza nessuna compagnia di assicurazione potrebbe liquidare le somme assicurate. Essa diverrebbe ineluttabilmente e necessariamente insolvibile. Ciò è evidente e deriva necessariamente dal fatto che il premio assicurativo che ciascun cliente paga è obbligatoriamente inferiore al valore as-sicurato (se così non fosse ognuno si assicurerebbe da se e non esisterebbero le compa-gnie di assicurazione). Se tutti gli incidenti si verificassero contemporaneamente le assi-curazione non avrebbero i fondi per risarcire tutti i propri clienti. Le assicurazioni, infat-ti, determinano i premi ed i valori assicurati sulla base delle probabilità degli accadi-menti dei danni assicurati, la legge dei grandi numeri dà ad esse la certezza che, posto un certo numero di assicurati, solo una parte di essi (generalmente molto piccola) subi-sce il danno risarcibile. Ciò consente loro di determinare il premio e le proprie riserve sulla base delle probabilità di accadimento del danno rispetto alla massa di assicurati. Possiamo, allora, affermare che ciascun assicurato è tale solo a condizione che non tutti e contemporaneamente lo siano.

Ciò vale anche per il risparmio inteso tout-court.

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Il depositante di una banca è certo di potere prelevare ed utilizzare le somme costi-tuenti il proprio risparmio a condizione che non tutti i depositanti contemporaneamente prelevino le somme depositate. Se così facessero la banca sarebbe certamente insolven-te. Ciò è evidente perché le banche utilizzano i depositi per effettuare prestiti, che cer-tamente non sono da esse revocabili alla propria clientela con la stessa rapidità e con la stessa certezza di totale restituzione degli importi prestati che, invece, il depositante ri-chiede e si attende. I prestiti delle banche concessi alle imprese, infatti, si trovano inve-stiti in macchinari, impianti, scorte di magazzino, capannoni industriali, studi e ricerche, che non solo non solo liquidabili immediatamente a semplice richiesta della banca fi-nanziatrice, ma che, qualora anche lo fossero, non garantirebbero la totale restituzione del prestito ottenuto, anzi comporterebbero certamente il fallimento dell’impresa.

Quanto appena esposto vale sia per il risparmio finanziario (depositi, azioni, obbliga-

zioni, quote di fondi comuni, risparmio assicurativo ecc. ecc.) sia per quello investito in beni reali (appartamenti, magazzini, terreni, ecc. ecc.).

Anche in questo ultimo caso, infatti, qualora tutti i risparmiatori volessero tradurre in moneta il loro risparmio investito in immobili, l’offerta simultanea e probabilmente su-periore alla domanda provocherebbe un crollo dei loro valori, con la conseguente perdi-ta del risparmio in essi investito. Allorché, poi, la domanda fosse eguale all’offerta i compratori sarebbero spinti a prelevare i propri depositi per acquistare gli immobili, prelevamenti che avrebbero sul sistema bancario gli effetti nefasti che si sono più sopra analizzati.

Da quanto appena detto emerge chiaramente che il risparmio, di qualunque natura es-so sia, si qualifica e si valorizza non di per se, ma dai comportamenti complessivi dei risparmiatori e dalla capacità del sistema economico di mantenere un ben preciso e co-stante equilibrio tra ricchezza finanziaria posseduta dal pubblico dei risparmiatori (dana-ro liquido, azioni, obbligazioni, depositi bancari e postali, quote di fondi comuni d’investimento, risparmio assicurativo e previdenziale, ecc. ecc.), ricchezza reale esi-stente (case, appartamenti, magazzini, capannoni, impianti, macchinari, scorte di mate-rie prime di semilavorati e di prodotti finiti, ecc. ecc.) ed attese di nuova ed aggiuntiva ricchezza che il sistema agricolo, industriale e finanziario si ritiene produrrà in futuro.

Le ipotesi e le attese di nuova ricchezza, che il risparmio investito in strumenti finan-ziari o in beni reali produrrà in futuro, lo manterranno investito, per tempi più o meno lunghi, con un turn-over accettabile dal sistema tra disinvestimenti e nuovi investimenti del risparmio e dei suoi proventi. Solo il perfetto equilibrio di tale sistema valorizza il risparmio accumulato nel tempo e lo mette al riparo da tracolli di valori che butterebbe-ro nel panico i risparmiatori.

Un tale equilibrio è assicurato dalla politica monetaria ed economica dei Governi, dai mercati finanziari e dall’utilizzo dei tassi d’interesse, le cui modificazioni hanno pro-fondi effetti nell’orientare la convenienza del risparmiatore a detenere risparmio finan-ziario, ad investirlo in beni reali o a consumarlo.

Nell’affermare che il risparmio non si valorizza di per se, non si dice nulla di nuovo e di non pacificamente assodato.

Da qui le classiche affermazioni che vogliono che un sistema economico si sviluppi

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Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!!

solo basandosi su di un preciso equilibrio tra accumulo di risparmio, suo investimento nel sistema produttivo, creazione di aggiuntiva ricchezza, distribuzione della stessa at-traverso i consumi, riacquisizione di nuovo ed aggiuntivo risparmio, in un circuito vir-tuoso che crea sviluppo e benessere.

Bisogna, però, chiedersi se anche per le opulenti società dei consumi meccanismi e-conomico-finanziari quali quelli appena descritti valgono egualmente, essendo esse nient’altro che quantitativamente maggiori rispetto a società più semplici e meno sofi-sticate nei consumi e nella finanza, ovvero la loro complessità e la stessa quantità e qua-lità dei loro consumi rischiano di modificare quelle regole che si ritengono immutabili e trascendenti.

Il punto, allora, è quello se ed in quanto le regole appena descritte siano immanenti o meno rispetto ai volumi ed alla qualità dei consumi che caratterizzano le nostre moderne società dell’opulenza.

Dalla risposta che daremo dipenderà il ritenere o meno se è accettabile l’affermazione che i meccanismi di formazione e di valorizzazione del risparmio siano sempre gli stessi, qualunque siano le qualità e le quantità dei consumi di una società.

Per dimostrare che i meccanismi di formazione e di valorizzazione del risparmio di-pendono dalla qualità e dal turn-over dei consumi ricorreremo ad un esempio semplicis-simo.

Semplifichiamo, come già evidenziato più sopra, il sistema economico come costitui-to da solo due grandi soggetti: le Imprese e le Famiglie. Le prime produttrici di beni e di servizi ed erogatrici di interessi sui capitali ricevuti dalle famiglie e dei salari da queste ultime percepite, le seconde finanziatrici delle prime e consumatrici dei beni e dei servi-zi da esse prodotte.

Nei fatti, ogni sistema economico, anche il più complesso ed articolato, può sintetiz-zarsi nell’esempio semplicistico appena definito.

Ipotizziamo che il sistema famiglie possieda un risparmio finanziario iniziale di 100, non ci interessa in questa sede come esso si sia originariamente formato, possiamo im-maginare per semplicità che esso derivi da un “regalo dello Stato”.

Ipotizziamo che detto risparmio iniziale venga prestato al sistema impresa per effet-tuare gli investimenti necessari alla produzione.

Ipotizziamo, ancora, che detti investimenti si esauriscano in 20 anni e che il capitale ottenuto in prestito dalle famiglie debba essere ad esse restituito nel medesimo periodo di tempo.

Ipotizziamo, sempre, che il capitale venga prestato al tasso annuo del 5%. Ipotizziamo, ancora, che le famiglie spendano per acquistare i prodotti delle imprese

tutti i loro redditi, costituiti dai salari percepiti e dagli interessi sul prestito, tali consumi costituiranno i ricavi del sistema imprese.

Poste tali ipotesi, riportiamo nella tabella seguente (tabella 1) il sistema di flussi dei due soggetti ed i loro saldi per il periodo preso in considerazione:

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Giuseppe Provenzano

Tabella 1

IMPRESE FAMIGLE

(a) (b) (c) (d) (e) (f) (g) (h) (i) (l) (m)

anni Capitale Interesse Salari Ricavi Risparmio Capitale Interesse Salari Consumi Risparmio

(-l) (c+d+e) (c) (d) (h+i) (g+h+i+l)

0 100 -100

1 -5 -5 -5 10 0 5 5 5 -10 5

2 -5 -4,75 -5 9,75 0 5 4,75 5 -9,75 5

3 -5 -4,5 -5 9,5 0 5 4,5 5 -9,5 5

4 -5 -4,25 -5 9,25 0 5 4,25 5 -9,25 5

5 -5 -4 -5 9 0 5 4 5 -9 5

6 -5 -3,75 -5 8,75 0 5 3,75 5 -8,75 5

7 -5 -3,5 -5 8,5 0 5 3,5 5 -8,5 5

8 -5 -3,25 -5 8,25 0 5 3,25 5 -8,25 5

9 -5 -3 -5 8 0 5 3 5 -8 5

10 -5 -2,75 -5 7,75 0 5 2,75 5 -7,75 5

11 -5 -2,5 -5 7,5 0 5 2,5 5 -7,5 5

12 -5 -2,25 -5 7,25 0 5 2,25 5 -7,25 5

13 -5 -2 -5 7 0 5 2 5 -7 5

14 -5 -1,75 -5 6,75 0 5 1,75 5 -6,75 5

15 -5 -1,5 -5 6,5 0 5 1,5 5 -6,5 5

16 -5 -1,25 -5 6,25 0 5 1,25 5 -6,25 5

17 -5 -1 -5 6 0 5 1 5 -6 5

18 -5 -0,75 -5 5,75 0 5 0,75 5 -5,75 5

19 -5 -0,5 -5 5,5 0 5 0,5 5 -5,5 5

20 -5 -0,25 -5 5,25 0 5 0,25 5 -5,25 5

Totali 0 -52,5 -100 152,5 0 0 52,5 100 -152,5 100 Come è evidente dai dati riportati in tabella la produzione delle imprese non crea di

per se maggiore ricchezza o maggiore risparmio finanziario. Infatti, il risparmio delle imprese era 0 all’inizio del ciclo e resta 0 alla fina del ciclo, il risparmio delle famiglie era 100 all’inizio del ciclo e resta 100 alla fine del ciclo.

Perché si crei risparmio finanziario positivo sarà necessario che i ricavi delle imprese non derivino per intero dai consumi delle famiglie interne al sistema analizzato, ma che parte di tali ricavi derivino, invece, dai consumi esterni al sistema (esportazioni), in tale caso potrebbe formarsi un accumulo di risparmio finanziario del sistema analizzato, di-stribuito tra imprese e famiglie.

In un sistema chiuso, i minori consumi delle famiglie, ipotizzato un loro consumo pa-ri al 50% dei loro redditi, porterebbe alla seguente situazione (tabella 2):

38

Page 42: RISPARMIO … CONSUMO … QUESTI SCONOSCIUTI

Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!!

Tabella 2

IMPRESE FAMIGLE

(a) (b) (c) (d) (e) (f) (g) (h) (i) (l) (m)

anni Capitale Interesse Salari Ricavi Risparmio Capitale Interesse Salari Consumi Risparmio

(-l) (c+d+e) (c) (d) (h+i) (g+h+i+l)

0 100 -100

1 -5 -5 -5 5 -5 5 5 5 -5 10

2 -5 -4,75 -5 4,875 -4,875 5 4,75 5 -4,875 9,875

3 -5 -4,5 -5 4,75 -4,75 5 4,5 5 -4,75 9,75

4 -5 -4,25 -5 4,625 -4,625 5 4,25 5 -4,625 9,625

5 -5 -4 -5 4,5 -4,5 5 4 5 -4,5 9,5

6 -5 -3,75 -5 4,375 -4,375 5 3,75 5 -4,375 9,375

7 -5 -3,5 -5 4,25 -4,25 5 3,5 5 -4,25 9,25

8 -5 -3,25 -5 4,125 -4,125 5 3,25 5 -4,125 9,125

9 -5 -3 -5 4 -4 5 3 5 -4 9

10 -5 -2,75 -5 3,875 -3,875 5 2,75 5 -3,875 8,875

11 -5 -2,5 -5 3,75 -3,75 5 2,5 5 -3,75 8,75

12 -5 -2,25 -5 3,625 -3,625 5 2,25 5 -3,625 8,625

13 -5 -2 -5 3,5 -3,5 5 2 5 -3,5 8,5

14 -5 -1,75 -5 3,375 -3,375 5 1,75 5 -3,375 8,375

15 -5 -1,5 -5 3,25 -3,25 5 1,5 5 -3,25 8,25

16 -5 -1,25 -5 3,125 -3,125 5 1,25 5 -3,125 8,125

17 -5 -1 -5 3 -3 5 1 5 -3 8

18 -5 -0,75 -5 2,875 -2,875 5 0,75 5 -2,875 7,875

19 -5 -0,5 -5 2,75 -2,75 5 0,5 5 -2,75 7,75

20 -5 -0,25 -5 2,625 -2,625 5 0,25 5 -2,625 7,625

Totali 0 -52,5 -100 76,25 -76,25 0 52,5 100 -76,25 176,25

I minori consumi delle famiglie comporterebbero minori ricavi delle imprese e, di

conseguenza, un loro risparmio finanziario negativo pari al risparmio finanziario positi-vo delle famiglie.

Perché le imprese possano sopravvivere sarà necessario che esse riacquisiscano i surplus finanziari delle famiglie, o spingendole, comunque, verso maggiori consumi o riacquisendo sotto forma di maggiori finanziamenti, di capitale o di debito, i loro ri-sparmi.

Anche se il circuito finanziario è certamente più complesso ed articolato, le esempli-ficazioni appena riportate dimostrano che, in un’economia chiusa, non si può avere for-mazione di nuovo risparmio finanziario che incorpori maggiore ricchezza nel sistema.

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Page 43: RISPARMIO … CONSUMO … QUESTI SCONOSCIUTI

Giuseppe Provenzano

Tabella 3

IMPRESE FAMIGLE

(a) (b) (c) (d) (e) (f) (g) (h) (i) (l) (m)

anni Capitale Interesse Salari Ricavi Risparmio Capitale Interesse Salari Consumi Risparmio

(-l) (c+d+e) (c) (d) (h+i) (g+h+i+l)

0 100 -100

1 -5 -5 -5 10 0 5 5 5 -10 5

2 -5 -4,75 -5 9,75 0 5 4,75 5 -9,75 5

3 -5 -4,5 -5 9,5 0 5 4,5 5 -9,5 5

4 -5 -4,25 -5 9,25 0 5 4,25 5 -9,25 5

5 -5 -4 -5 9 0 5 4 5 -9 5

6 -5 -3,75 -5 8,75 0 5 3,75 5 -8,75 5

7 -5 -3,5 -5 8,5 0 5 3,5 5 -8,5 5

8 -5 -3,25 -5 8,25 0 5 3,25 5 -8,25 5

9 -5 -3 -5 8 0 5 3 5 -8 5

10 -5 -2,75 -5 7,75 0 5 2,75 5 -7,75 5

11 -5 -2,5 -5 7,5 0 5 2,5 5 -7,5 5

12 -5 -2,25 -5 7,25 0 5 2,25 5 -7,25 5

13 -5 -2 -5 7 0 5 2 5 -7 5

14 -5 -1,75 -5 6,75 0 5 1,75 5 -6,75 5

15 -5 -1,5 -5 6,5 0 5 1,5 5 -6,5 5

16 -5 -1,25 -5 6,25 0 5 1,25 5 -6,25 5

17 -5 -1 -5 6 0 5 1 5 -6 5

18 -5 -0,75 -5 5,75 0 5 0,75 5 -5,75 5

19 -5 -0,5 -5 5,5 0 5 0,5 5 -5,5 5

20 -5 -0,25 -5 5,25 0 5 0,25 5 -5,25 5

21 0 0 -5 5 0 0 0 5 -5 0

22 0 0 -5 5 0 0 0 5 -5 0

23 0 0 -5 5 0 0 0 5 -5 0

24 0 0 -5 5 0 0 0 5 -5 0

25 0 0 -5 5 0 0 0 5 -5 0

Totali 0 -52,5 -125 177,5 0 0 0 52,5 125 -177,5 100

La ricchezza finanziaria che si formerebbe sarebbe sempre a saldo 0 in un bilancio

consolidato imprese+famiglie. Neanche l’allungamento dei tempi di ammortamento degli investimenti delle imprese

rispetto agli ammortamenti dei loro debiti amplierebbe il risparmio finanziario esistente. Riportiamo (nella tabella 3) gli effetti di un allungamento della vita economica degli

investimenti rispetto alla vita del debito contratto dalle imprese per finanziare gli inve-stimenti stessi.

I consumi delle famiglie si ridurrebbero, infatti, ai soli salari distribuiti dalle imprese senza formazione di nuovo risparmio finanziario né delle imprese né delle famiglie.

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Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!!

Analizziamo adesso cosa avverrebbe se il risparmio finanziario, via via, riacquisito dalle famiglie attraverso il rimborso da parte delle imprese del loro originario finanzia-mento non rimanesse sterilizzato in mano alle prime ma riattivato dalle imprese o per espandere la loro capacità produttiva o per rinnovare i loro prodotti, aumentando i desi-deri e gli acquisti delle famiglie. L’ipotesi è quella che il flusso annuale di -5 delle im-prese per il pagamento dei loro debiti sia riacquisito dalle imprese stesse per effettuare nuovi investimenti atti ad innovare impianti e produzioni.

Ciò significherebbe che il risparmio originario di 100 sarebbe dalle famiglie costan-temente investito in attività finanziarie delle imprese e che esso non ritornerebbe mai ad esse sotto forma monetaria ma come detenzione costante di attività finanziarie sulle im-prese. Tale situazione aumenterebbe gli interessi passivi annuali pagati dalle imprese (il debito di 100 rimarrebbe costante per sempre), aumenterebbero anche i consumi delle famiglie, a seguito dell’aumento annuale degli interessi incassati. La situazione sarebbe la seguente (tabella 4).

I consumi passerebbero da 152,5 a 200,00 e di pari importo aumenterebbero i ricavi

delle imprese. Si annullerebbe il risparmio monetario (100) che diverrebbe solo rispar-mio investito in passività finanziarie delle imprese (azioni, obbligazioni, prestiti).

La realtà dei sistemi finanziari moderni è sostanzialmente e sinteticamente quella esposta nella tabella 4.

In essi, infatti, il risparmio che mano a mano si forma nel sistema famiglie viene rias-sorbito dal sistema imprese per finanziare nuovi investimenti e nuovi prodotti che, sosti-tuiscano le vecchie produzioni obsolete, meccanismo sempre più vorticoso e veloce, perché sospinto dalla concorrenza sempre più pressante e dall’innovazione, che brucia-no costantemente i vecchi investimenti e i vecchi prodotti.

Il risultato sembra essere, appunto quello di un risparmio costantemente investito nelle imprese che si incorpora nelle loro passività finanziare detenute dalle famiglie.

Appare evidente, allora, che il risparmio viene di fatto bruciato nei consumi, che essi creano nuovo risparmio che si ribrucia nei successivi ed ampliati consumi. In un circui-to spirale crescente che se interrotto farebbe apparire nei fatti l’inesistenza del risparmio teoricamente accumulato dalle famiglie, nel quale dovrebbe concretarsi la loro maggiore ricchezza.

Da ciò deriverebbe la conclusione che il risparmio, inteso come ricchezza accumula-ta stabilmente dal sistema, nei moderni contesti economici delle società opulente basate sui consumi, di fatto non esiste più e che esso si identifica nella maggiore ricchezza che maggiori consumi possono apportare a tali tipi di società.

Il risparmio, allora, si identifica, si qualifica e quantifica nella tipologia dei consumi. Una tale affermazione potrebbe sembrare assurda e, quasi, negare l’essenza stessa del

concetto di risparmio. In una tale rinnovata visione risparmio e consumo si identifiche-rebbero, per cui quanto una società risparmia è il derivato della qualità dei propri con-sumi.

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Page 45: RISPARMIO … CONSUMO … QUESTI SCONOSCIUTI

Giuseppe Provenzano

Tabella 4

IMPRESE FAMIGLE

(a) (b) (c) (d) (e) (f) (g) (h) (i) (l) (m)

anni Capitale Interesse Salari Ricavi Risparmio Capitale Interesse Salari Consumi Risparmio

(-l) (c+d+e) (c) (d) (h+i) (g+h+i+l)

0 100 -100

1 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

2 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

3 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

4 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

5 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

6 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

7 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

8 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

9 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

10 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

11 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

12 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

13 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

14 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

15 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

16 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

17 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

18 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

19 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

20 0 -5 -5 10 0 0 5 5 -10 0

Totali 100 -100 -100 200 0 0 -100 100 100 -200 0

Spieghiamo meglio tale concetto. Per riprendere l’esempio più sopra riportato del settore della telefonia, appare

evidente che il consumo di telefonia mobile arricchisce la società di un nuovo strumento che innegabilmente la rende più “ricca” rispetto alle società che tale strumento di comu-nicazione non possedevano o non posseggono ancora.

In questo caso il consumo crea risparmio e nuova ricchezza. Ma è evidente che minore ricchezza aggiuntiva crea l’innovazione della telefonia

mobile che, per esempio, consentisse anche l’invio tramite essa dei profumi. Tale inno-vazione, che certamente aumenterebbe i consumi di telefonia mobile, arricchirebbe la società meno di quanto l’originaria invenzione del telefonino non abbia arricchito la so-cietà con la sua primigenia invenzione.

Esistono, allora, consumi che incorporano risparmio, cioè maggiore ricchezza per la società, e consumi che restano solo consumi, che nessun apporto danno al risparmio complessivo della società, che attraverso essi esaudisce solo desideri che nei fatti de-terminano un valore aggiunto di ricchezza minore dei costi sociali e finanziari che essi

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Page 46: RISPARMIO … CONSUMO … QUESTI SCONOSCIUTI

Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!!

hanno determinato. Ciò perché indotti prepotentemente ed artificialmente da un sistema economico che deve riacquisire obbligatoriamente e continuamente le risorse finanziarie che ha distribuito, per dare valore stesso a tali risorse finanziarie, che solo formalmente determinano sensazioni di maggiore ricchezza alle famiglie.

Da ciò una prima riflessione: il risparmio, inteso come accumulo di valori economi-co-finanziari, nei fatti non esiste.

Esso si concretizza solo nella qualità dei consumi, che migliorando la qualità di vita delle famiglie, identifica in essa la loro maggiore ricchezza accumulata e conservata.

Il discorso poi si complica se innestiamo su di esso qualche altra riflessione, propria dei sistemi economici e finanziari dei quali stiamo discutendo.

Affrontiamo il tema delle valorizzazioni che al loro risparmio finanziario le famiglie assegnano, attraverso il mercato finanziario del quale fanno parte direttamente o indiret-tamente, e che determinano maggiori o minori sensazioni di ricchezza che hanno effetti diretti sui loro consumi.

Abbiamo più sopra visto che la valorizzazione del risparmio deriva dall’attualizzazione dei flussi monetari futuri che il suo investimento produrrà. Esso, pertanto, si valorizza in funzione del futuro (stima di flussi e stima dei tassi di attualiz-zazione). Il futuro, allora, valorizza la sensazione della ricchezza presente e, quindi, la propensione al consumo.

Riportiamo, qui di seguito (tabella 5), le valorizzazioni di un investimento delle fa-miglie, il cui valore sconti al presente la variazione dei flussi che l’investimento stesso produrrà. Se il 100 d’investimento è capace di produrre una ricchezza aggiuntiva di con-sumi di 10 (interessi + salari) è evidente che il 100 verrà valorizzato dal mercato, anno per anno, in funzione della maggiore ricchezza che esso si presume produrrà nell’anno. Nello stesso momento la maggiore sensazione di ricchezza, determinata dalla maggiore valutazione della ricchezza finanziaria delle famiglie, le spingerà a maggiori consumi, che rivaluteranno ancora la maggiore ricchezza finanziaria detenuta, innestando, così, un processo circolare crescente di maggiore consumi, maggiore sensazione di ricchezza, ulteriori maggiori consumi.

La tabella 5 è costruita con le seguenti ipotesi:

1. valorizzazione dei maggiori flussi futuri applicando un tasso del 5%; 2. ulteriore propensione al consumo pari al 5% della maggiore ricchezza finanzia-

ria detenuta.

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Giuseppe Provenzano

Tabella 5

IMPRESE FAMIGLE

(a) (b) © (d) (e) (f) (g) (h) (i) (l) (m) (n) (o) (p)

anni Cap. Salari Inter. Costi Ricavi Risp. Cap. Salari Inter. magg.riccspendibile Con.mi Risp.

Att. Fin.

(-h) (hx5%) (c+d) (-n) (e+f) (-c) (-d) ((p-100)x5% (-i-l-m) (i+l+m+n) (f/5%)

0 100 -100 100 100

1 0 -5 -5 -10 10 0 0 5 5 -10 0 200

2 0 -5 -5 -10 15 5 0 5 5 5 -15 0 300

3 0 -5 -5 -10 20 10 0 5 5 10 -20 0 400

4 0 -5 -5 -10 25 15 0 5 5 15 -25 0 500

5 0 -5 -5 -10 30 20 0 5 5 20 -30 0 600

6 0 -5 -5 -10 35 25 0 5 5 25 -35 0 700

7 0 -5 -5 -10 40 30 0 5 5 30 -40 0 800

8 0 -5 -5 -10 45 35 0 5 5 35 -45 0 900

9 0 -5 -5 -10 50 40 0 5 5 40 -50 0 1000

10 0 -5 -5 -10 55 45 0 5 5 45 -55 0 1100

11 0 -5 -5 -10 60 50 0 5 5 50 -60 0 1200

12 0 -5 -5 -10 65 55 0 5 5 55 -65 0 1300

13 0 -5 -5 -10 70 60 0 5 5 60 -70 0 1400

14 0 -5 -5 -10 75 65 0 5 5 65 -75 0 1500

15 0 -5 -5 -10 80 70 0 5 5 70 -80 0 1600

16 0 -5 -5 -10 85 75 0 5 5 75 -85 0 1700

17 0 -5 -5 -10 90 80 0 5 5 80 -90 0 1800

18 0 -5 -5 -10 95 85 0 5 5 85 -95 0 1900

19 0 -5 -5 -10 100 90 0 5 5 90 -100 0 2000

20 0 -5 -5 -10 105 95 0 5 5 95 -105 0 2100

Totali 100 -100 -100 -200 1150 950 -100 100 100 950 -1150 100

Come si evince dalla precedente tabella (5) la ricchezza finanziaria delle famiglie

(2.100) è pari all’attualizzazione dei ricavi previsti (105/0,05). Essi nient’altro sono se non che i consumi delle famiglie. Per cui la ricchezza finanziaria di queste ultime è mi-surata dai loro consumi futuri. In un sistema circolare dove il risparmio è funzione dei consumi e da essi misurato nel suo valore.

Tale osservazione non è rivoluzionaria, dal momento che il valore delle attività fi-nanziarie (passività finanziarie emesse dalle imprese) possedute dalle famiglie è misura-to dal valore attuale dei futuri flussi monetari che deriveranno alle imprese, flussi che, in un bilancio consolidato imprese+famiglie, corrispondono ai consumi delle stesse.

Risparmio e consumi, allora, divengono sinonimi, per cui la ricchezza accumulata dalle famiglie corrisponde ai loro potenziali e futuri consumi.

La quantità di risparmio accumulato dal sistema dipende, allora, indissolubilmente dalla qualità dei consumi.

Consumi, allora, che incorporano un miglioramento effettivo, stabile, consolidato della qualità di vita incorporano risparmio e ricchezza effettiva, stabile, consolidata del-

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Risparmio…. Consumo….questi sconosciuti !!!

la società che produce tali consumi. Consumi effimeri, che si bruciano quasi istantaneamente che, seppure posseggono

parvenze di migliore qualità di vita, devono essere costantemente rinnovati perché non duraturi nei loro effetti e che come tali sono incapaci di incorporare una crescita cultura-le, sensazionale, emotiva, psicologica, civile della società che li consuma, non creano risparmio effettivo, ma solo aumento di una ricchezza finanziaria che non trova riscon-tro in una reale ricchezza della società pervasa da tali consumi.

Per uscire dall’astratto ed entrare nel concreto, possiamo portare due esempi di con-sumo: quello dell’acquisto di un giornale e quello dell’acquisto di una merendina.

Ambedue consumi istantanei, che esauriscono la loro vita fisica in brevissimo tempo. Consumi a tutti gli effetti. Il primo, però, collabora ad una crescita culturale, di ap-

prendimento, di partecipazione alla società ed ai suoi problemi, in sintesi la sua durata va oltre la sua vita fisica, il secondo, invece, si esaurisce nell’istante stesso del suo con-sumo. Il giornale, possiamo dire, costituisce consumo-risparmio; la merendina rappre-senta, invece, consumo-consumo.

La catena del valore

Chi si occupa di finanza aziendale, di valutazione di aziende e dei valori espressi dai mercati finanziari è spinto necessariamente a parcellizzare il concetto di valore e, di conseguenza, ad analizzarlo e quantificarlo rispetto all’oggetto che si studia.

La catena del valore, allora, partirebbe dall’impresa, quale unica creatrice di valori aggiunti, e si propagherebbe a valle sui suoi titoli di partecipazione o di debito e, attra-verso i mercati, a sua volta, si trasferirebbe ai detentori finali di tali valori: i possessori dei titoli emessi dall’impresa.

Si assume per assodato che i ricavi dell’impresa, qualunque prodotto essa produca, creano valore aggiunto, se essi sono superiori ai costi, e, pertanto, determinano maggio-re ricchezza che automaticamente si trasferisce sui detentori delle sue passività finanzia-rie. Tali maggiori valori costituirebbero, tout-court, risparmio e ricchezza aggiuntiva, stabile e duratura, se si stima che i flussi futuri, attualizzati a tassi adeguati, saranno al-trettanto stabili e duraturi.

Una tale catena del valore sarebbe discendente dall’impresa, al mercato finanziario, ai risparmiatori.

Se si invertisse, invece, la catena di formazione del valore e la si concepisse quale es-sa nella realtà dovrebbe essere: ascendente dai prodotti all’impresa, da essa alle sue pas-sività finanziarie e, infine, al mercato dei finanziatori, ci si accorgerebbe che, in primis, si dovrebbe valutare il valore dei prodotti delle imprese, rispetto alla loro capacità di in-corporare ricchezza aggiuntiva trasferita ai loro consumatori, per risalire al valore dell’impresa ed al volume di risparmio stabile e duraturo che essa è stata capace di tra-sferire attraverso i propri prodotti ai suoi consumatori e quindi ai risparmiatori.

Una valutazione atomistica e parcellizzata rischia, infatti, di misurare il risparmio e la ricchezza in termini assolutamente astratti e indipendenti dalle produzioni che quel risparmio finanzia, quasi che esso non sia misurato nella sua quantità e stabilità, appun-to e solo, dai futuri consumi che ne definiscono la sua stessa esistenza e stabilità nel

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Page 49: RISPARMIO … CONSUMO … QUESTI SCONOSCIUTI

Giuseppe Provenzano

tempo. Se la ricchezza di una società la si misurasse attraverso una tale seconda catena di va-

lore, il valore quantitativo del PIL perderebbe molto del suo significato se non analizza-to anche qualitativamente. Per cui una società che avesse un PIL di 1.000 formato solo da produzione di merendine non sarebbe egualmente ricca rispetto ad una società il cui medesimo PIL fosse formato, per esempio, da sanità, scuola o alta tecnologia.

La ricchezza finanziaria in mano ai primi risparmiatori, anche se nominalmente e-guale a quella in possesso ai secondi, sarebbe certamente inferiore perché incorporereb-be ipotesi di maggiore ricchezza più instabile, collegata a consumi ed investimenti meno duraturi ed effimeri.

Se tali concetti si riportassero alle microeconomie costituenti il tessuto produttivo di una società (aziende) ed ai valori espressi dalle loro passività finanziarie, che costitui-scono il risparmio dei singoli componenti la collettività, dovrebbe concludersi:

• che le azioni o le obbligazioni da esse emesse dovrebbero essere valutate con parametri differenti a seconda delle produzioni effettuate;

• che, a parità di dividendi o di strutture finanziarie e produttive, ad eguali ipotesi di crescita dei fatturati e delle quote di mercato non necessariamente corrispon-dono eguali quantità di ricchezza prodotta e conservata, rappresentata dalla ric-chezza finanziaria emessa ed in mano ai risparmiatori.

Da tutto ciò dovrebbe derivare una maggiore attenzione delle politiche industriali ri-spetto alle tipologie delle produzioni costituenti il tessuto dell’economia. Esse non do-vrebbero essere attente solo alle quantità (produzioni, occupazione, utili, ricavi, ecc. ecc.) ma anche e soprattutto alle qualità delle produzioni, che di fatto costituiscono le qualità dei consumi futuri e, pertanto, la quantità di risparmio globalmente e duratura-mente prodotto e conservato.

Una prima conclusione

Una prima conclusione di quanto fino a qui detto potrebbe essere così riassunta:

1. il valore del risparmio, rappresentato dalle attività finanziarie emesse dalle im-prese e detenute dal pubblico dei risparmiatori, è misurato dal valore futuro dei consumi;

2. il valore delle passività finanziarie delle imprese, essendo dipendente dai poten-ziali consumi futuri, è destinato necessariamente a dissolversi con lo stesso gra-do di dissolvimento che i beni e/o i servizi consumati avranno nel futuro per quantità e qualità;

3. l’obsolescenza dei consumi misura il grado di obsolescenza del risparmio finan-ziario investito per produrli;

4. consumi che non si consolidano in una crescita stabile e solida della qualità della vita della collettività sperperano risorse finanziarie e, pertanto, disperdono il va-lore del risparmio teoricamente accumulato;

5. consumi effimeri, instabili, che non costituiscono costante accumulo di ricchez-za, intesa come miglioramento stabile della qualità della vita di una società, ne-

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cessitano di un loro velocissimo turn-over, a livelli sempre crescenti perché il ri-sparmio che li ha prodotti possa ricostituirsi nelle aspettative di nuovi ed ulterio-ri consumi;

6. consumi invece duraturi, che inglobano un oggettivo miglioramento, sociale, culturale, civile, di serenità degli stili di vita di una comunità costituiscono quote di risparmio stabile ed accumulo di ricchezza conservata. Le risorse finanziarie utilizzate per produrre tali consumi non sono sperperate, ma costituiscono il vero risparmio di una società, che non abbisogna di ulteriori e maggiori consumi per-ché esso sopravviva al consumo stesso;

7. i PIL di ogni Paese dovrebbero essere oggetto di valutazione qualitativa delle sue quantità, onde avere contezza della ricchezza prodotta e consumata dalla col-lettività e, così, potere avere coscienza di quanto di tale ricchezza si è conservata nel sistema economico, e, conseguentemente, incorporata nel valore del rispar-mio rappresentato dalle attività finanziarie detenute dal pubblico dei risparmiato-ri;

8. parimenti, il valore di ogni singola azienda, rappresentato dalle sue passività emesse ed in circolazione, non dovrebbe prescindere dalla qualità delle sue pro-duzioni e dalla loro capacità di incorporare ad ogni ciclo produzione-consumo un valore aggiunto stabile e duraturo, rappresentato appunto dall’apporto dato al miglioramento sociale, conseguente dallo stesso consumo delle sue produzioni. Valore che, così, non si autoriferenzierebbe solo da una spirale crescente ed infi-nita degli stessi consumi futuri, i quali definirebbero, invece, ricchezze conservate solo nominali ed effimere.

Sfortunatamente, l’incapacità di pensiero che caratterizza le società opulente - che si alimentano di immagini, sensazioni, sogni, mode, emulazioni, e che sono imperniate ed impegnate, appunto, nello sforzo costante e continuo di ingessare il pensiero collettivo su totem che devono essere accettati supinamente dagli individui consumatori, nella co-scienza che solo un attimo di riflessione sulla distinzione esistente tra i consumi che fanno crescere una società e quelli che, invece, bruciano solo ricchezza personale e so-ciale accumulata, farebbe crollare il castello di “ricchezza” presunta creata e teorica-mente conservata - ci risucchia rapidamente ed inconsciamente in una spirale perversa in cui la superficialità collettiva costituisce la vera ed unica risorsa necessaria ed insosti-tuibile dei sistemi economici cosiddetti avanzati.

Compito degli studiosi di economia dovrebbe essere quello di indagare, appunto, in cosa consista la creazione e la diffusione del valore che dal comportamento economico degli individui e delle società derivano. Non quello di assumere supinamente come va-lore tutto quello che gli individui sono disposti a consumare, per cui il valore si identifi-ca e si quantifica nel prezzo che le collettività sono disposte a pagare pur di soddisfare esigenze per la maggior parte indotte ed imposte dagli stessi presunti produttori di valo-re. Il ché crea una necessaria tautologia per cui ha valore tutto ciò a cui il produttore rie-sce a fare assegnare un prezzo.

Il pensiero economico che si era sviluppato prima dell’avvento delle società consu-mistiche poteva correttamente basarsi su una tale tautologia. Ciò perché l’esigenza che assegnava valore al consumo derivava quasi esclusivamente da un bisogno autonoma-

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mente formatosi all’interno della “coscienza di consumo” dell’individuo consumatore, esigenza che poteva sì trovare spinte o incanalamenti da parte dei produttori, che co-munque non erano capaci di imporre l’insorgere dell’esigenza stessa. Ciò consentiva di potere affermare che il valore nasceva dall’individuo, che esso era innato nell’individuo stesso e che si esplicitava in un prezzo assegnato allo strumento (bene o servizio) che tale esigenza era in grado di soddisfare e che l’impresa richiedeva. Prezzo, poi, variabile a seconda delle condizioni di mercato in cui il produttore ed il consumatore operavano. Esigenze di consumo, ancora, che crescevano e si sostituivano anche con rapidità, ma dettate sempre dall’individuo consumatore e non imposte dal produttore. Potremmo af-fermare che vi era una formazione “umana” del valore, che nasceva dall’uomo e dalla sua crescita naturale, quasi in una sorta di evoluzione darwiniana e, quindi, naturale dei bisogni, delle esigenze, e dei beni e servizi chiamati a soddisfare gli uni e le altre. In una tale economia l’impresa era al servizio del consumatore, funzionale alle sue esigenze, costituiva lo strumento tecnico capace di concretizzare quel valore che il consumatore dava alla propria esigenza di consumo.

Si è creduto che tale principio fosse tanto immanente e trascendente, quasi immorta-le, tanto da potere sopravvivere come assioma immutabile anche in un sistema econo-mico che vede invece ribaltato il sistema di creazione delle esigenze e dei bisogni, dall’individuo alle imprese. Queste ultime oggi, infatti, nella catena del valore costitui-scono l’anello primario, quello che di fatto assegna ed impone il valore alla collettività degli individui, i quali subiscono supinamente la nascita delle esigenze, dei bisogni e dei valori che le imprese ad essa impone.

Non più le imprese funzionali agli individui, ma questi funzionali alle imprese. Sotto questo aspetto, allora, tutto ciò a cui le imprese riescono ad assegnare un prez-

zo, qualunque sia il modo attraverso il quale ciò avvenga, costituisce creazione di valo-re.

Un valore, allora, che appunto perché non nasce dal basso (dall’individuo) ma si crea dall’alto è di per se un valore virtuale ed effimero, da cui la conseguenza che sistemi economici basati su tale paradigma necessitano di costanti ed elevatissimi turn-over di nuove esigenze, di aggiuntivi bisogni e, quindi, di costanti e vorticose obsolescenze di valori.

Il moderno pensiero economico, allora, non si è più posto il problema di indagare la qualità e la durevolezza dei valori creati dalle imprese, ma si è limitato ad assumere le loro produzioni come creatrici tout-court di valore per l’individuo e per la società, po-nendo il solo e semplicistico vincolo della economicità della gestione delle imprese (ri-cavi monetari maggiori ai costi monetari espliciti).

Viviamo in una società molto strana, molto incoerente, eccessivamente incapace di pensare e riflettere su principi primi. Anche quelli che, riferendosi a valori economici, dovrebbero essere innati nel famoso “homo economicus” di buona memoria.

L’eccessiva finanziarizzazione del sistema, premessa e conseguenza necessaria di un’economia che brucia ricchezza a ritmi vorticosi, ma che deve necessariamente valo-rizzare la teorica ricchezza racchiusa e conservata nella “carta” che essa è costretta a produrre e distribuire incessantemente ai risparmiatori per potere sopravvivere, compor-ta la necessaria autoreferenzialità cartacea della ricchezza accumulata nel sistema, che

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non trova più, come una volta, concretizzazione in beni capaci di conservare il lavoro e gli sforzi necessari a produrla trasferendola nel tempo alle future generazioni.

Un fatto ci sembra evidente e sotto gli occhi di tutti. I beni trasmettibili, quelli cioè capaci di sopravvivere alla generazione che li ha creati, che inglobano intrensicamente una loro utilità nel tempo, nonostante l’avvento di nuove tecnologie che avrebbero do-vuto ridurne il rapporto costo/prezzo, hanno di fatto mantenuto costante tale rapporto, se non accresciuto. Rapporto ridottosi solo per i beni di largo consumo con valore “a per-dere”. Un’abitazione oggi, infatti, costa, in termini di reddito medio annuo, tanti anni di lavoro quanto essa ne costava 25 o 30 anni fa. Se più soggetti oggi sono possessori di un’abitazione ciò non è certamente legato al migliore rapporto tra reddito annuo e valo-re delle abitazioni, ma solo all’esistenza di un sistema creditizio capace di anticipare i redditi futuri attraverso la concessione di mutui ipotecari a fasce più larghe di utenti e per importi maggiori. I beni di consumo, invece, hanno di molto modificato e in meglio il rapporto reddito medio/prezzo, consentendo a fasce più larghe di popolazione di po-tersi consentire consumi a perdere fino a pochi anni fa impensabili. La crescita dei con-sumi ha, poi, aumentato la potenziale ricchezza finanziaria dei consumatori, rappresen-tata da maggiore risparmio finanziario o maggiori capacità creditizie, le quali, però, non appena vogliono tradursi in risparmio reale e non cartaceo necessitano di eguali se non maggiori quantità relative di risparmio finanziario accumulato o ottenibile attraverso il credito.

Una società, allora, tutta vocata ed obbligata al consumo e non al risparmio. Ciò ha nei fatti stravolto i sistemi economici cosiddetti moderni o evoluti. Sistemi economici incoerenti e contraddittori, abbiamo più sopra detto.

Incoerenti. Infatti, là dove enormi costi di ricerca per il miglioramento della salute pubblica han-

no consentito un elevatissimo incremento della vita media delle popolazioni più ricche, tali enormi investimenti non si concretizzano in una più lunga capacità media lavorativa ma nella sua costanza, quasi che tale maggiore risparmio effettivo della collettività non dovesse essere tesaurizzato, ma speso immediatamente in maggiore tempo di vita da dedicare ai consumi ed al divertimento. Salvo, poi, ad investire ulteriori risorse finanzia-rie per sostenere materialmente e psicologicamente il troppo giovane pensionato, stres-sato dal troppo precoce senso di inutilità, giunto con troppo anticipo rispetto alla natura-le maturazione fisica e mentale.

Contraddittori. Infatti, i giovanissimi anziani pensionati non sono né disponibili né più capaci di

svolgere almeno il mestiere di nonni, alleviando la società dagli oneri finanziari collega-ti alla gestione dell’infanzia, che va necessariamente posteggiata, già in fasce, all’ammasso nei sempre inadeguati asili nido pubblici o aziendali. Per non parlare dei giovani che bivaccano tra le mura familiari fino ad una età media di 30/32 anni, incapa-ci, anch’essi, però, di svolgere un minimo di assistenza nei confronti di eventuali nonni o genitori realmente anziani, dei quali deve occuparsi la società attraverso costosissime strutture di assistenza domiciliare o di residenze per anziani. Con il paradosso, per giun-ta, di doverli sostenere finanziariamente, sempre a carico della collettività, con assegni

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Giuseppe Provenzano

di disoccupazione o con il salario minimo garantito, da spendere in più vasti ed articola-ti consumi notturni.

Tali sistemi economici hanno abbandonato, nei fatti, il concetto di qualità per sosti-tuirlo a quello di quantità.

Non interessa più in cosa si risparmi o si consumi, ma solo quanto si consuma, con-dizione necessaria per aumentare la quantità di risparmio cartaceo e, quindi, la sensa-zione di ricchezza prodromica a sempre maggiori consumi. In una spirale crescente, la cui verifica effettiva avviene solo allorchè il risparmio vuole tradursi in beni di lunga durata e con una loro utilizzazione che vada oltre le generazioni che tale risparmio han-no teoricamente accumulato. Da ciò la necessità che una tale verifica non avvenga mai o avvenga con tempi adeguati alla consistenza reale di tali beni. Ciò è stato possibile at-traverso la costituzione di mercati secondari, dove potere scaricare la potenziale richie-sta di monetizzazione del risparmio finanziario, e attraverso i quali misurare teorica-mente la quantità di ricchezza detenuta cartaceamente, mercati sempre più sofisticati e complessi, che se da un lato hanno consentito l’esistenza stessa di un sistema economi-co altamente finanziarizzato e cartolarizzato, dall’altro lato costituiscono il più grande paravento rispetto ad una misurazione effettiva e costante tra ricchezza finanziaria crea-ta ed in circolazione e ricchezza realmente accumulata dal sistema. Mercati, tra l’altro, che sempre di più quotano e si scambiano beni virtuali, quali indici ed indici di indici, e sempre di meno titoli rappresentativi di una seppure cartacea ricchezza. Mercati secon-dari i quali, nel contempo, garantiscono che una quantità enorme e crescente di ipotetico risparmio accumulato resti per sempre sterilizzato in investimenti finanziari, la cui con-versione in investimenti reali determinerebbe la catastrofe del sistema stesso.

Del resto non c’è da stupirsi. In un mondo sempre più virtuale consumi e risparmio non possono che assumere anch’essi elevatissimi contenuti di virtualità.

Ma è allora tutto finto? Siamo in presenza di un illusione collettiva di ricchezza e di benessere?

La risposta non può consistere in un semplicissimo “si” o “no” ma in un complicatis-simo “NI”.

Infatti, se si raffrontasse semplicisticamente la qualità di vita delle passate genera-zioni a quella della generazione presente è innegabile il dovere rilevare un reale ed im-menso miglioramento del benessere materiale da noi raggiunto rispetto ai nostri avi. Benessere che si concretizza in un allungamento della vita media, in un suo oggettivo miglioramento, nell’affrancamento dalla fame e dalla miseria complessiva, in un wel-fare garantito dagli Stati, a livelli molto elevati e stabili, e così via.

Che tutto ciò abbia concorso ad una maggiore “felicità” è certamente tutto da dimo-strare.

Se, infatti, quando la vita media era di 45 anni, nessuno si sentiva infelice di non vi-verne 82, oggi non siamo più infelici di domani perché vivendone solo 82 non ne vi-viamo 182, cosa che probabilmente avverrà fra 50 o 100 anni. Così come se ieri per fare 10.000 chilometri si impiegava un anno di cammino non si era più infelici di oggi che per fare lo stesso chilometraggio impieghiamo solo 12 ore di aereo, ciò perché oggi non ci sentiamo più infelici di domani quando con il teletrasporto impiegheremo solo poche frazioni di secondo. La felicità dell’oggi non è misurabile con quella di un domani, sco-

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nosciuta al momento in cui vuole misurarsi il grado raggiunto della qualità della vita o del quantum di “felicità” raggiunto.

Ogni ieri, se misurato con il metro dell’oggi, è certamente peggiore del presente. Co-sì come ogni oggi misurato con il metro del domani sarebbe altrettanto peggiore.

Ma fortunatamente tali misurazioni di qualità della vita si misurano solo all’oggi e non al ieri o al domani.

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DIPARTIMENTO DI ECONOMIA AZIENDALE PAPERS PUBBLICATI DAL 2002 AL 2007∗:

18- Pierpaolo FERRARI, La gestione del capitale nelle principali banche internazionali, febbraio 2002.

19- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Il valore della marca. Modello evolutivo e metodi di misurazione, marzo 2002.

20- Paolo Francesco BERTUZZI, La gestione del rischio di credito nei rapporti commer-ciali, aprile 2002.

21- Vincenzo CIOFFO, La riforma dei servizi a rete e l'impresa multiutility, maggio 2002. 22- Giuseppe MARZO, La relazione tra rischio e rendimento: proposte teoriche e ricerche

empiriche, giugno 2002. 23- Sergio ALBERTINI, Francesca VISINTIN, Corporate Governance e performance in-

novativa nel settore delle macchine utensili italiano, luglio 2002. 24- Francesco AVALLONE, Monica VENEZIANI, Models of financial disclosure on the

Internet: a survey of Italian companies, gennaio 2003. 25- Anna CODINI, Strutture organizzative e assetti di governance del non profit, ottobre

2003. 26- Annalisa BALDISSERA, L’origine del capitale nella dottrina marxiana, ottobre 2003. 27- Annalisa BALDISSERA, Valore e plusvalore nella speculazione marxiana, ottobre

2003. 28- Sergio ALBERTINI, Enrico MARELLI, Esportazione di posti di lavoro ed importa-

zione di lavoratori:implicazioni per il mercato locale del lavoro e ricadute sul cam-biamento organizzativo e sulla gestione delle risorse umane, dicembre 2003.

29- Federico MANFRIN, Sulla natura del controllo legale dei conti e la responsabilità dei revisori esterni, dicembre 2003.

30- Rino FERRATA, Le variabili critiche nella misurazione del valore di una tecnologia, aprile 2004.

31- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Co-branding e valore della marca, aprile 2004. 32- Arnaldo CANZIANI, La natura economica dell’impresa, giugno 2004. 33- Angelo MINAFRA, Verso un nuovo paradigma per le Banche Centrali agli inizi del

XXI secolo?, luglio 2004. 34- Yuri BIONDI, Equilibrio e dinamica economica nell’impresa di Maffeo Pantaleoni,

agosto 2004. 35- Yuri BIONDI, Gino Zappa lettore degli Erotemi di Maffeo Pantaleoni, agosto 2004. 36- Mario MAZZOLENI, Co-operatives in the Digital Era, settembre 2004. 37- Claudio TEODORI, La comunicazione via WEB delle imprese italiane quotate: un

quadro d’insieme, dicembre 2004. 38- Elisabetta CORVI, Michelle BONERA, La comunicazione on line nel settore della di-

stribuzione dell’energia elettrica, dicembre 2004. 39- Yuri BIONDI, Zappa, Veblen, Commons: azienda e istituzioni nel formarsi

dell’Economia Aziendale, dicembre 2004. 40- Federico MANFRIN, La revisione del bilancio di esercizio e l’uso erroneo degli stru-

menti statistici, dicembre 2004. 41- Monica VENEZIANI, Effects of the IFRS on Financial Communication in Italy: Im-

pact on the Consolidated Financial Statement, gennaio 2005.

∗ Serie depositata a norma di legge. L’elenco completo dei paper è disponibile al se-

guente indirizzo internet http://www.deaz.unibs.it

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42- Anna Maria TARANTOLA RONCHI, Domenico CERVADORO, L’industria vitivini-cola di Franciacorta: un caso di successo, marzo 2005.

43- Paolo BOGARELLI, Strumenti economico aziendali per il governo delle aziende fami-liari, marzo 2005.

44- Anna CODINI, I codici etici nelle cooperative sociali, luglio 2005. 45- Francesca GENNARI, Corporate Governance e controllo della Brand Equity

nell’attuale scenario competitivo, luglio 2005. 46- Yuri BIONDI, The Firm as an Entity: Management, Organisation, Accounting, agosto

2005. 47- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Luca MOLTENI, Consumatore, marca ed

“effetto made in”: evidenze dall’Italia e dagli Stati Uniti, novembre 2005. 48- Pier-Luca BUBBI, I metodi basati sui flussi: condizioni e limiti di applicazione ai fini

della valutazione delle imprese aeroportuali, novembre 2005. 49- Simona FRANZONI, Le relazioni con gli stakeholder e la responsabilità d’impresa,

dicembre 2005. 50- Francesco BOLDIZZONI, Arnaldo CANZIANI, Mathematics and Economics: Use,

Misuse, or Abuse?, dicembre 2005. 51- Elisabetta CORVI, Michelle BONERA, Web Orientation and Value Chain Evolution

in the Tourism Industry, dicembre 2005. 52- Cinzia DABRASSI PRANDI, Relationship e Transactional Banking models, marzo

2006. 53- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Federica LEVATO, Brand Extension &

Brand Loyalty, aprile 2006. 54- Mario MAZZOLENI, Marco BERTOCCHI, La rendicontazione sociale negli enti lo-

cali quale strumento a supporto delle relazioni con gli Stakeholder: una riflessione cri-tica, aprile 2006

55- Marco PAIOLA, Eventi culturali e marketing territoriale: un modello relazionale ap-plicato al caso di Brescia, luglio 2006

56- Maria MARTELLINI, Intervento pubblico ed economia delle imprese, agosto 2006 57- Arnaldo CANZIANI, Between Politics and Double Entry, dicembre 2006 58- Marco BERGAMASCHI, Note sul principio di indeterminazione nelle scienze sociali,

dicembre 2006 59- Arnaldo CANZIANI, Renato CAMODECA, Il debito pubblico italiano 1971-2005 nel-

l'apprezzamento economico-aziendale, dicembre 2006 60- Giuseppina GANDINI, L’evoluzione della Governance nel processo di trasformazione

delle IPAB, dicembre 2006 61- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, Brand Extension:

l’impatto della qualità relazionale della marca e delle scelte di denominazione, marzo 2007

62- Francesca GENNARI, Responsabilità globale d’impresa e bilancio integrato, marzo 2007

63- Arnaldo CANZIANI, La ragioneria italiana 1841-1922 da tecnica a scienza, luglio 2007

64- Giuseppina GANDINI, Simona FRANZONI, La responsabilità e la rendicontazione sociale e di genere nelle aziende ospedaliere, luglio 2007

65- Giuseppe BERTOLI, Bruno BUSACCA, Ottavia PELLONI, La valutazione di un’estensione di marca: consonanza percettiva e fattori Brand-Related, luglio 2007

66- Marco BERGAMASCHI, Crisi d’impresa e tecnica legislativa: l’istituto giuridico del-la moratoria, dicembre 2007.

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Università degli Studi Dipartimento didi Brescia Economia Aziendale

Dicembre 2007

Paper numero 67

Giuseppe PROVENZANO

RISPARMIO … CONSUMO …QUESTI SCONOSCIUTI !!!

Università degli Studi di BresciaDipartimento di Economia AziendaleContrada Santa Chiara, 50 - 25122 Bresciatel. 030.2988.551-552-553-554 - fax 030.295814e-mail: [email protected]

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