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AC HAB Rivista di Antropologia 2007 numero X Università degli Studi di Milano-Bicocca

Rivista di Antropologiadownload.istella.it/user/515ca8ee1f7819da2d00005a/...ACHAB AChAB - Rivista di Antropologia Numero X - Febbraio 2007 Direttore Responsabile Matteo Scanni Direzione

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Rivista di Antropologia2007 numero X

Università degli Studi di Milano-Bicocca

ACHAB

AChAB - Rivista di Antropologia

Numero X - Febbraio 2007

Direttore Responsabile

Matteo Scanni

Direzione editoriale

Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi

Redazione

Paola Abenante, Paolo Borghi, Lorenzo D'Angelo, Antonio De Lauri, Michele Parodi,Fabio Vicini, Sara Zambotti

Ha collaborato

Anna Sambo

Progetto Grafico

Lorenzo D'Angelo

Referente del sito

Antonio De Lauri

Tiratura: 500 copie

Pubblicazione realizzata con il finanziamento del Bando "1000 lire", Università degli Studi di MilanoBicocca

Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 697 - 27 settembre 2005

* Immagine in copertina di Antonio De Lauri "Uno sguardo al cielo", Kabul, 2006.

Se volete collaborare con la rivista inviando vostri articoli o contattare gli autori,scrivete a: [email protected]

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In questo numero...

2 Corpo, memoria e violenza

di Ivo Quaranta

Conferenza: Politiche della violenza e della tortura

8 Gli scenari e le "zone grigie" della tortura

di Lorenzo D’Angelo

11 Riflessioni psicanalitiche sulla tortura

di Silvia Amati Sas

14 L’esilio della memoria. Violenza, trauma e tortura

di Roberto Beneduce

19 La tortura come male minore

di Roberto Escobar

22 Dibattito

25 I quotidiani italiani raccontano l’Albania

Le migrazioni albanesi del 1997 nella cronaca nazionale

di Vania Bovino

34 Sull’antropologia e la letteratura

di Stefania Carbonelli

40 La città è gialla. Di che colore e’ la disoccupazione?

di Anna Sambo

48 Abbracciamo il lago

Depurazione e risignificazione del lago di Varese

di Paolo Grassi

52 La Verifica IncertaNote a margine di una missione in Angola

(seconda parte)

di Michele Parodi

62 In ricordo di un maestro

di Antonio Marazzi

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Quello che intendo fare oggi è riflettere sugli usi professionalidelle conseguenze della violenza in contesti segnati da processi diprofonda dissoluzione del tessuto sociale, al fine di sollevare piùampie questioni circa le politiche attuali della presa in carico dellasofferenza, soprattutto all'interno della cosiddetta industria degliaiuti umanitari.Partiamo da come l'antropologia ha problematizzato il tema dellamemoria. Se a livello di senso comune siamo tutti pronti asostenere che il passato è un processo lineare, cumulativo, dieventi che si vanno ad assommare e che esercitano un'influenzasul presente (da qui l'importanza della memoria, della memoriastorica), l'antropologia va contro una tale visione naturalistica delpassato, come processo lineare e cumulativo e cerca di mettere inluce come il passato esista sempre nel presente. E' nel presenteche si intenziona il passato, che lo si qualifica simbolicamente,che si selezionano alcuni elementi piuttosto che altri in virtù delfatto che sono funzionali alle urgenze del presente, che possonofornire un terreno per la rivendicazione di particolari forme diidentità o di particolari diritti. Il passato in altre parole è altamenteinstabile, si materializza attraverso le nostre praticheinterpretative ed essendo così instabile, è necessariamente terrenodi confronto politico, di incontro e scontro tra differenti attorisociali, tra differenti gruppi, che in molti casi lottano circa laclassificazione del mondo. Tuttavia è fondamentale, al fine diradicarci nel presente e di proiettarci nel futuro, costruirne unacerta visione del passato. In modo paradossale l'antropologia ciinvita a pensare che in fondo noi immaginiamo il passato ericordiamo il futuro, nella misura in cui è alla luce di comericostruiamo il passato che ci radichiamo nel presente e ciproiettiamo nel futuro.Ma non è solo il passato ad essere terreno di plasmazioneculturale. Lo è anche il modo in cui lo materializziamo, loattiviamo, lo interpretiamo. In altre parole anche il modo in cuiricordiamo non è naturale. Anzi, potremmo parlare di specifichetecniche della memoria e del ricordo e questo è fondamentale alfine di denaturalizzare ciò che noi diamo per scontato, in virtù delfatto che assumiamo come non problematiche forme culturaliattraverso le quali strutturiamo il nostro essere nel mondo.Cercare invece di mettere in luce come ciò che diamo per scontatoe naturale è frutto di specifici processi di plasmazione storico-culturale, ci consente di concepire la possibilità di alternativemodalità di ricordare e costruire la memoria e il passato.

Da questo punto di vista molti studi antropologici ed etnograficiforniscono degli esempi interessanti. Personalmente, lavorandosull'Aids in Camerun, ho riscontrato come in alcune zone delNord Ovest del Paese, esso venga interpretato come una forma distregoneria dello Stato. In altri termini i segni della malattiavengono inscritti all'interno del registro della stregoneria. Alivello immaginario si parla di incontri notturni in cui gli stregoni,in spirito, si incontrano e chiedono a una figura centrale di averesuccesso, ricchezza, benessere, in cambio del sacrificio dei propriparenti più cari. Quando la persona che chiede benessere non èpiù in grado di sacrificare un membro del suo gruppo, ecco cheverrà a sua volta "mangiato". Normalmente, quando ci sono segnidi consunzione del corpo, si immagina subito che ci sia in azioneun processo stregonico, che l'essenza vitale di quella persona siastata "mangiata". Tuttavia quando si parla di stregoneria delloStato si fa riferimento a processi storici di natura collettiva,secondo cui l'accumulazione da parte di chi è al potere si èrealizzata e continua a realizzarsi attraverso la sottrazione dellerisorse ai cittadini che vengono così rappresentati come"sacrificati". Ed ecco allora che l'idioma stregonico, non èsemplicemente il retaggio di false credenze, ma emerge come unidioma attraverso cui si commentano precisi rapporti economici,politici, storici. I segni dell'Aids vengono dunque inscrittiall'interno di una specifica fisiologia politica, in cui gli statisomatici vengono collocati all'interno di una storia di oppressionee sfruttamento, che rinvia - nel caso in esame - all'esperienzastorica della tratta degli schiavi. Non è un caso che l'idiomastregonico, presentato in questi termini, viene in essere proprioall'epoca del contatto con i beni costieri provenienti dall'Europa. Abbiamo parlato di una stregoneria in cui qualcuno si arricchisceattraverso il sacrificio degli altri. I capi locali, gli intermediari, icapi lignaggio, ai tempi della tratta, vendevano i figli maschi incambio di prestigiosi beni europei. Accumulavano ricchezza,benessere, successo, in cambio del sacrificio della vita di membridella comunità. Inserire l'AIDS all'interno di questa fisiologiapolitica, è un modo per far rivivere quel passato. Analizzando altri contesti (Sierra Leone), l'antropologa RosalindShaw è rimasta sorpresa di un fatto per lei sconcertante: come èpossibile che in una regione così segnata dalla tratta non ci sianessun momento pubblico per ricordare quell'esperienza storicacosì drammatica e non così lontana nel tempo? Attraverso la suaanalisi emerge che si è di fronte a diverse tecniche della memoria:

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Corpo, memoria e violenza*

di Ivo Quaranta

Pavia, 16 giugno 2006

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questo fatto viene ricordato, ma in modi molto diversi rispetto aquelli che noi assumeremmo come naturali. Il fatto che lemaschere che le società segrete indossano, vengano portate nonsul volto, ma sulla testa o che particolari sonagli vengano legatialle caviglie in un certo modo, se analizziamo i documenti storici,sono trasformazioni che avvengono in epoca coloniale, quandonon era possibile esprimere apertamente il proprio dissensopolitico nei confronti degli oppressori. Ed ecco che in ambitorituale, avvengono delle modificazioni che immediatamente sonopercepibili per il gruppo, come riferimenti all'epoca delladeportazione, in cui migliaia di persone venivano dislocate peressere mandate nel Nuovo Mondo o nei centri locali che eranol'avamposto del nascente capitalismo: le piantagioni, le miniere.La maschera sopra la testa rinviava immediatamenteall'esperienza storica della deportazione, in cui gli schiavidiventavano portatori e camminavano per decine o centinaia dichilometri, con le caviglie incatenate. Abbiamo dunque unamemoria che viene in essere attraverso tecniche squisitamentecorporee, incorporate. Questi casi ci portano direttamente aproblematizzare il tema delle tecniche della memoria. Un autorecome Paul Connerton si chiede dove risiede la memoria sociale,la memoria storica: come viene evocata? La memoria socialerisiede a livello cognitivo? O piuttosto non è opportunodistinguere tra la memoria personale, legata alla propriabiografia, la memoria cognitiva, intesa come la capacità dirievocare fatti esterni e una memoria incorporata? Una memoriache vive nei nostri corpi, sedimentata in essi e che si manifestaattraverso gli automatismi corporei, attraverso il comportamento,attraverso la nostra naturale attitudine ad essere nel mondo. Èfondamentale problematizzare il ruolo che il corpo gioca neiprocessi di incorporazione della storia, per mettere in luce comeesso è al centro dei processi di inscrizione del socialesull'individuo, ma è anche il terreno attraverso cui l'individuoentra nel mondo, lo qualifica, lo intenziona. È per esposizione aun contesto sociale che noi incorporiamo valori, significati,pratiche, concezioni, in termini prettamente informali. E questoprocesso di impregnazione, di incorporazione, ci plasma, cicostituisce, ci consente di incorporare forme simbolicheattraverso cui supportiamo il nostro naturale essere nel mondo. Èun processo antropopoietico, di plasmazione e costruzioneculturale della persona, che struttura le modalità stesse attraversocui quella persona, intenzionerà, qualificherà, interpreterà ilmondo. Questo processo vive in modo silente nel e attraverso il corpo. Ilcorpo è terreno generativo di pratiche, è terreno esistenziale delsé e della cultura. Ma proprio in virtù del fatto che tutto questoprocesso è incorporato, noi lo viviamo come naturale. E' proprioin virtù del fatto che certi principi, certi valori, certe concezionisono incorporati, che noi li assumiamo come naturali, li diamoper scontati. Potremmo dire che la datità del mondo, il fatto chediamo per scontato un certo modo di concepire e costruire ilmondo, deriva proprio dal fatto che quel mondo è statoincorporato. Questo emerge chiaramente quando viviamo una crisi, che non è

riconducibile alle dimensioni prettamente bio-fisiche o bio-psicologiche della corporeità stessa, quando la crisi del corpocoinvolge il nostro stesso essere nel mondo e quando dal corpoparte una crisi che pone in discussione quel determinato modo diessere nel mondo. È a quel punto che ciò che davamo per scontatonon lo è più. Veniamo proiettati in una dimensione di significati arischio in cui siamo, volenti o nolenti, costretti a riqualificare ilsenso della realtà e della nostra esistenza in essa. La malattia o lacrisi non richiedono una cultura diversa, ma producono un diversoessere nel mondo, nel momento stesso in cui vanno ad alterare ilprocesso incorporato attraverso cui qualifichiamo la realtà e ilsenso della nostra esperienza in essa. Entrando in una stanza possiamo avvertire una sensazione didisagio, una stretta allo stomaco, che non è riconducibile aprocessi bio-chimici: le stesse emozioni sono fortementeimprontate a una grammatica culturale, eppure le emozioni sonoun processo di intenzionamento dal corpo, attraverso cui stiamoqualificando una determinata situazione, la stiamo intenzionando,stiamo costruendo la realtà, come imbarazzante, come ansiogenae dunque stiamo plasmando la nostra esperienza della realtàstessa. Questo processo è tanto individuale quanto sociale,personale quanto collettivo, presente quanto storicamenteinformato. Certamente possiamo parlare di forme storicamentesoggettive di essere nel mondo, in cui il soggetto non vieneannullato, perché ogni nostro stato d'essere è una personalearticolazione di più ampi repertori sociali di senso. La crisi del corpo dunque, è una crisi del mondo vissuto, produceun vero e proprio attacco ontologico, produce una vera e propriadissoluzione del mondo e della vita. Quanto la distruzione delmondo, la distruzione del tessuto sociale ordinario, proprio invirtù del fatto che esiste questo rapporto di complicità ontologicatra corpo e mondo, è una crisi per l'essere nel mondo? Questodiventa un terreno di interessante riflessione quando andiamo adesaminare contesti segnati da processi costanti di demolizione deltessuto sociale. Oggi viviamo in tempi tormentati, in cui c'è unamaggiore consapevolezza di quanto la guerra, ironicamentechiamata di bassa intensità, la violenza politica, rappresentinovere e proprie pandemie. Forme di violenza che strutturano ilmondo ordinario della vita, che diventano parte costitutiva di unordine sociale. E sebbene il risultato della violenza sia quello didistruggere il senso delle cose, raramente la violenza è priva disenso. La violenza è qualcosa che gli esseri umani fanno, spessoin modi originali e creativi. C'è una specifica grammatica dellaviolenza, se pensate agli stupri collettivi, di massa, alla puliziaetnica della ex Iugoslavia, ma presente in tutti i contesti di guerra.Pensate a quella cultura del terrore di aree del centro America eSud America. Penso anche a contesti africani, il caso tristementenoto del genocidio rwandese, in cui i corpi vengono violati emutilati secondo specifici codici e poi lasciati lì, a testimoniare losmembramento del tessuto sociale. Quei corpi evocano neglispettatori l'impossibilità di essere nel mondo. La distruzione, lacannibalizzazione, il massacro del corpo, ha una specifica valenzasimbolica: l'impossibilità di dare per scontata la propria esistenza,la distruzione del senso ordinario della vita e delle cose. È una

strategia che funziona, ce lo dimostrano i lavori di Luca Jourdan,che si è occupato di bambini-soldato nell'ex Zaire ora RepubblicaDemocratica del Congo. La gente è spaesata, quando anche comemero spettatore, si trova di fronte allo spettacolo del massacro:perde la capacità di pensare al mondo come qualcosa di certo e didefinito. E' una crisi della stessa possibilità di radicarci comepresenze date, in un mondo dotato di senso e questa continuarivoluzione, della naturalezza e dell'ordinarietà dell'esistenza,crea una modificazione profondissima delle modalità esistenzialidi essere nel mondo, priva l'individuo della stessa possibilità diesistere. Pensate al Guatemala dove i gruppi militari e para-militari sequestrano persone nei villaggi, spesso neppurecoinvolte nella dissidenza politica e lasciano le teste impalate aiconfini del villaggio, come monito. Le vittime sono persone scelteanche a caso, perché l'obiettivo non è colpire il dissidente, mamettere in mostra una vera e propria architettura del terrore, manon c'è solo questo.Questi sono casi in cui siamo di fronte ad eventi macabri, aviolenze commesse nell'ambito di specifici contesti. Tuttavia c'èanche un altro tipo di violenza, assai più sottile. Una violenza chenon ha bisogno di un soggetto per essere esercitata. Una violenzasilente, processuale, indiretta, una violenza strutturale. PaulFarmer ha ripreso il concetto di violenza strutturale, proposto dalfilosofo norvegese Johan Galtung nel 1969, intendendo quel tipodi violenza che non richiede l'azione di un soggetto nei confrontidi un altro soggetto per essere compiuta. E' una violenza prodottadalle forme dell'organizzazione sociale. E' una violenzaprocessuale, prodotta da ordinamenti sociali segnati da profondedisuguaglianze. E' una violenza che si materializza nella vita dellepersone che occupano le posizioni più marginali all'interno diquesti ordinamenti segnati da profonde ineguaglianze. È unaviolenza che si materializza in una bassa aspettativa di vita allanascita, nella malnutrizione, nella mancanza di accesso ai servizisanitari. Una violenza che tuttavia vive anche all'interno di queiriferimenti simbolici che diamo per scontati: pensate ad esempioalla violenza inscritta nei nostri canoni estetici, quanta sofferenzapuò produrre. Pensate alla violenza inscritta nelle categorie digenere, maschile e femminile. Quanta violenza la donna hastoricamente vissuto e subito, principalmente in virtù dideterminate modalità storiche e simboliche di costruire il rapportotra uomo e donna. Nella mia ricerca in Camerun ad esempio, eraevidente che ad essere maggiormente esposti al contagio daHIV/AIDS erano i giovani e tra i giovani le donne. La letteraturamedica poco mi aiutava a problematizzare questi temi: articolianche molto interessanti, che non dicono fandonie, parlano peròdell'Aids come un virus sessista, che colpisce principalmente ledonne, soprattutto in virtù della maggiore esposizione al virus deitessuti riproduttivi femminili. Cosa viene prodotto da questo tipodi interpretazione? Un occultamento della marginalità socialedelle donne, della loro impossibilità di negoziare i termini deipropri rapporti sessuali o della necessità di far ricorso a unasessualità di crisi per ottenere una mobilità sociale. Vediamoragazze che combinano le proprie necessità affettive con il ricorsoa una sessualità di scambio, perché spinte da una necessità

materiale. Quante donne ho visto negli ospedali di Kumbo,arrivare con fratture, prodotte dai loro mariti, in virtù del fatto chenon erano disposte a rapporti senza l'uso di preservativo, perchésapevano per certo che già in passato i mariti avevano portatomalattie sessualmente trasmesse, come la sifilide e gonorrea esapevano che i mariti avevano rapporti con altre donne, anche sein contesti poligamici. Tuttavia non è assolutamente ammesso chela donna possa negoziare i termini della propria sessualità equando ciò avviene, viene brutalmente picchiata. C'è unacomplicità incredibile: venni chiamato da un capo-lignaggio aintervenire in un processo nato dal fatto che una delle sue mogli,una ragazza diciassettenne, era stata violentata in un campo. Iorifiutai. Lui sapeva che mi occupavo di Aids e uno dei motivi percui voleva coinvolgermi era il fatto che questa ragazza era stataviolentata da un membro dell'amministrazione comunale, cosache rappresentava un fattore di rischio, perché avrebbe potutotrasmetterle l'Aids. La parte danneggiata in questo processo nonera la donna, era l'uomo: era stata danneggiata una sua proprietà.Qui stiamo parlando di una violenza che si inscrive nel tessutoordinario della vita quotidiana e proprio per questo risultainvisibile e spesso è parte del naturale modo di costruire il mondoe i rapporti umani. Parliamo di quelli che Franco Basaglia chiamò"crimini di pace" di quelle implicite e routinarie forme di violenzaquotidiana inscritte nelle istituzioni, nella famiglia. Parliamo diquella che Bourdieu ha chiamato "violenza simbolica" che spessodagli attori sociali non è concepita come violenza, ma è connotatacon valori positivi: pensate proprio alle differenze di genere.Penso a quelli che Nancy Scheper-Hughes ha chiamato "i piccoligenocidi della vita quotidiana". La caratteristica di questa violenza è appunto la sua quotidianità,che la rende invisibile. Ed è su questi processi che oggi,l'antropologia della violenza cerca di riflettere in modo piùattento, perché il rischio dell'antropologia è altissimo. Potremmodire che qualsiasi ordine sociale esercita una forma di violenzasui propri membri e qualsiasi ordine sociale deve occultare la dosedi violenza che viene esercitata in virtù dell'appartenenza ad essodei propri membri. Un'antropologia che si limiti a descrivere ivalori ideologici di un determinato contesto storico e culturale,rischia di mimetizzarsi con questo tipo di violenza, di nonriconoscere quanto produca a livello sociale una certa modalitàculturale di intendere la realtà. Nel mio campo specifico di ricercaad esempio, si trovavano specifiche concezioni del poteresomatico. I capi lignaggio sono legittimati a controllare l'accessoalle risorse del proprio compound in virtù del fatto che loro e sololoro sono detentori della sostanza ancestrale, che gli dà il poteredi trasformarsi, di entrare nel mondo degli spiriti e combatterecontro gli stregoni. Una magnifica simbologia: il corpo delnotabile come contenitore di potere. Tuttavia quando si analizzala produzione sociale di questa simbologia del potere, emerge cheè presente soprattutto in quei contesti in cui le élites sono emersegrazie ai proventi della tratta. I notabili diventavano contenitori dipotere principalmente accedendo a quei beni europei, localmentenon disponibili, a cui avevano accesso vendendo come schiavi ipropri figli maschi. In virtù del fatto che questo potere era

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necessario per difendere il gruppo tutto, ecco che la tratta diventaun male necessario per proteggere la comunità. Un'antropologiache si limita a descrivere le simbologie culturali, corre il rischiodi mimetizzarsi con la violenza che queste simbologie producono,contribuendo a naturalizzarle. È su questi temi che oggiprincipalmente l'antropologia della violenza riflette, proprioperché si tratta di una violenza che non è riconducibile ad unevento, all'azione di un singolo, ma si tratta di una violenza chedestruttura l'intero corpo sociale o meglio, che lo informa e lostruttura fino a diventare parte integrante di essa. Giunti a questo punto, collegandomi alla mia iniziale intenzionedi riflettere sugli usi professionali delle conseguenze dellaviolenza e del trauma, ci possiamo chiedere quanto, ad esempio,una categoria come quella di Post Traumatic Stress Disorder(Ptsd) riesca a cogliere questi processi? Che tipo di questionisollevano le conseguenze di tale violenza processuale? Di chetipo di trauma si tratta? E può questa categoria essere adeguata arenderne conto? Ma soprattutto che tipo di processi genera il suoutilizzo in riferimento a contesti in cui la violenza non èriconducibile ad un evento traumatico, ma è invece iscritta in unaprocessualità costante che struttura l'intero mondo della vita. Ilrischio è che il trauma venga ad emergere come un evento,decontestualizzato trasformato in una entità, in un processopatogenetico universalmente identico a se stesso, in un eventoanalizzato esclusivamente a livello intrapsichico.Nel DSM terzo 1980 si parla proprio di un evento al di fuoridell'ordinaria esperienza umana. Per eventi ordinari si intendonoil lutto, la separazione, un dolore di qualche tipo. In questo caso,per evento al di fuori dell'ordinaria esperienza umana, si intendeciò che dà origine a intrusivi e ricorrenti ricordi, che induce arivivere l'evento traumatico, portando così i soggetti ad evitaresituazioni e fattori scatenanti. Al cuore di questo tipo didefinizione troviamo una specifica etno-psicologia, una specificamodalità squisitamente culturale di intendere la persona.Troviamo anche specifiche tecniche della memoria che vengonoelette a standard normativi universalmente validi. Ce ne rendiamosubito conto quando consideriamo come in molti contesti laviolenza non è riconducibile ad un evento traumatico, eppureproduce conseguenze bio-psicologiche, proprio perché si tratta diun processo iscritto nel tessuto sociale, che produce laprecarizzazione dell'essere nel mondo. È ovvio che la violenzapolitica, la violenza strutturale, producano riflessi psico-fisiologici, ma se recidiamo il vincolo sociale che è inveceontologicamente costitutivo per il soggetto, rendiamo questeconseguenze psico-fisiologiche effetti di malattia, entità cliniche,senza cogliere quanto il trauma può essere inteso nei terminidell'incorporazione individuale, bio-psicologica di più ampiprocessi sociali. La categoria di Ptsd emerge come etnocentrica e fuorviante nellamisura in cui elegge la psiche come unico luogo dell'esperienza,con il rischio di ridurre la prospettiva analitica soltanto all'esito,alle conseguenze, allontanando lo sguardo dalle cause. Abbiamovisto come la violenza politica e strutturale produce degli esitibio-psicologici, ma nel momento in cui utilizziamo come unico

terreno analitico la prospettiva intrapsichica, privilegiamo ilprodotto a discapito del processo. Quando invece cerchiamo dicogliere nel trauma l'incorporazione individuale di più ampiprocessi sociali, economici, politici, ecco che i segni di disagioemergono come metonimia di più ampi processi che meritano diessere indagati, proprio perché è in quei processi che cogliamo ilsignificato dell'esperienza, che è sempre legata a doppio filo conquel mondo della vita, socialmente e storicamente informato. IlPtsd parla della persistenza di sintomi come indici di unamemoria patologica, patogenetica e nuovamente cogliamo unaspecifica immagine dell'ordine sociale e della persona, che haespulso la sofferenza. In Occidente troviamo l'idea normativa chela sofferenza sia qualcosa che non deve essere reiterato, eppure, inmolte zone del mondo, la sofferenza è parte della realtà ordinaria:la violenza come forma di vita. Ricordo sempre in Camerun:avendo guadagnato una grande familiarità coi quadri diriferimento simbolici locali, emergeva la possibilità di modularein termini più appropriati certi messaggi di informazione eprevenzione, ma mi scontrai con una realtà che non mi aspettavo:la gente mi diceva: "Basta! L'Aids uccide, ma è l'ultimo dei nostriproblemi. Io devo dare da mangiare ai miei figli, non riesco amandarli a scuola, non so se riusciremo a sopravvivere". Il rischioAids si stemperava all'interno di una precarizzazionedell'esistenza, che rispetto alle nostre forme di vita non avevacittadinanza e che pure era parte dell'ordinaria modalità di esserenel mondo. Questo significa prendere coscienza del fatto che ciòche noi riteniamo ovvio e naturale è assolutamente particolare erelativo, al punto che si arriva ai paradossi prodotti in molticontesti: penso oltre al Camerun ai Balcani dove si arriva allaparadossale medicalizzazione dell'intera popolazione.Tornando al Ptsd: è una malattia? o è forse una conseguenza diprocessi di disgregazione, di dissoluzione del tessuto sociale, delmondo della vita e dunque della possibilità di esserci? Qual è ilrischio di medicalizzare gli effetti e le conseguenze dellaviolenza? Si rischia di addomesticare, di naturalizzare tutto ciò ecosì facendo, ci si allontana sempre più da quel contesto umanodel trauma, della violenza, come qualcosa che gli esseri umanifanno, che dovrebbe essere il luogo privilegiato per lacomprensione stessa dell'esperienza traumatica. Nel trasformarela vittima in paziente, rischiamo di non cogliere il significatosociale di quell'esperienza. A questo riguardo è stata fortementecriticata l'idea di un comune sviluppo patogenetico derivante daesperienze traumatiche che sono radicalmente diverse. Un conto èil trauma a seguito di un incidente, di un lutto o di una tragediafamiliare e un conto è lo *tsunami* e altro ancora sono leconseguenze della violenza politica e della cultura del terrore.Non si possono ridurre tutte queste cose ad un processo identicoche produce gli stessi esiti. Dovremmo invece problematizzarel'intero processo e cogliere in quegli esiti l'incorporazione diquesto processo. Per riflettere su questi temi alcuni autori come Arthur Kleinman,sul versante antropologico-psichiatrico, hanno proposto ilconcetto di sofferenza sociale, che è un contesto volutamenteampio, che cerca di accomunare una serie di problemi umani la

cui origine e le cui conseguenze affondano le loro radici nellefratture che le forze sociali, economiche e politiche producono edesercitano sull'esperienza umana. Ad essere incluse nellacategoria di sofferenza sociale sono una molteplicità di fenomeni,che possono andare dall'Aids, alla maggior parte delle malattieinfettive, alla violenza politica, agli abusi, alla malnutrizione, alleviolazioni sessuali e alla mortalità infantile. Sono specificheforme in cui la sofferenza sociale si manifesta nella vita dellepersone, accomunate dal fatto che sono prodotte dalle stessecause, dagli stessi contesti economici e politici, che si vanno aintrecciare con mondi morali locali, producendo esiti semprediversificati. Questi temi, legati ai problemi che una medicalizzazione dellamemoria traumatica in contesti segnati da una violenzaprocessuale può produrre, ci porta ad un'ultima serie diconsiderazioni.Quando le vittime della violenza giungono in un luogo di rifugio,rischiano di subire un ulteriore processo di violazione. Questo cideve portare a riflettere su quanta violenza rischia di essereinscritta anche nelle nostre strategie di presa in carico dellasofferenza. I loro corpi, le loro storie traumatiche, diventano lavaluta attraverso cui possono negoziare e ottenere accesso a unapresa in carico, possono ottenere accesso al territorio di Shengen,possono ottenere accesso allo status di rifugiato da cui altrimentisarebbero esclusi. Qui parliamo della ricorsività della violenza:siamo di fronte da un lato a una violenza locale che producesofferenza, distruzione del tessuto sociale, impossibilità di esserenel mondo e dall'altro al rischio di reiterare forme di violenzanelle modalità in cui le prendiamo in carico attraverso strategie diinclusione che producono forme di esclusione estremamente piùsottili, ma ugualmente violente. Faccio una serie di esempi perdare concretezza a quanto sto cercando di dire. Pensate allanormativa italiana, ma sempre più presente nei paesi dell'area diShengen: viviamo in un contesto segnato dall'esperienza storicadegli stati nazionali, in cui il tema dei diritti è ancorato allacittadinanza, perché è in quanto cittadini che noi possiamorivendicare ed esercitare i nostri diritti. Che cosa avviene nel casodi immigrati cosiddetti irregolari, la cui irregolarità è prodottadalle nostre politiche di classificazione e di accoglienza o nonaccoglienza? Che sono "non cittadini" e in quanto tali non hannodiritti. Gli irregolari non possono iscriversi al servizio sanitarionazionale, non possono chiedere un contratto di lavoro, nonpotrebbero neppure lavorare. Questa è una palese violazione deidiritti fondamentali dell'uomo, così come vengono formulati nellacarta del '48 e ribaditi nei trattati internazionali del '67 e del '76.Come è possibile tutto ciò? Ecco che nelle normative troviamoquello che Agamben chiama lo "stato di eccezione". Qualoral'immigrato irregolare sia vittima di un incidente o colpito da unamalattia che pone a rischio la sua sopravvivenza, si opera inderoga alla normativa, si entra in uno stato di eccezione, perchéc'è una vita da salvare. È in quanto nuda vita, in quanto esistenzada salvare, in quanto mera esistenza organica e biologica cheottiene il riconoscimento dei suoi diritti. Non in quanto persona,con un nome, una biografia, dei figli in carne ed ossa, con delle

guance e degli occhi in cui guardare. Pensate a quanto in Europasi sia passati dal riconoscimento dello status di rifugiato, permotivi politici, al riconoscimento dell'asilo per motivi umanitari.Se il richiedente asilo è in grado di portare le tracce della violenzasubita, del trauma, tracce che devono essere visibili, inscritte nellanuda vita, osservabili, misurabili, al di là della storia che puòraccontare, che può essere manipolata, può essere frutto di untentativo truffaldino di ottenere un accesso al territorio europeo,ecco che può avere un riconoscimento. E c'è stato un passaggiostatisticamente rilevabile, dal riconoscimento dello status dirifugiato per motivi politici a quello concesso per motiviumanitari. Lo stesso avviene se una persona richiede accesso nelterritorio europeo per patologie che non sono trattabili nel paesedi provenienza. C'è una vita da salvare, allora si disapplicanuovamente la normativa. Ancoriamo i diritti sempre più o allacittadinanza o alla nuda vita. In questi termini si può sicuramenteparlare di bio-legittimità, di quanto una certa definizione delconcetto di vita produce specifici rapporti di potere. È ciò che giàin passato Michèl Foucault chiamava bio-politica: un potere chesi materializza semplicemente attraverso la definizione delconcetto di vita. Tuttavia, questo concetto di vita, lo ritroviamo proprio al cuore diquell'industria umanitaria che oggi cerca di sopperire alle carenzedi stati sfasciati da catastrofi, disastri, guerre, conflitti, violenze,nel prendersi cura delle popolazioni colpite. Pensate all'impattoincredibile che ha avuto la diffusione di farmaci antiretroviralisoprattutto in quelle regioni dell'Africa maggiormente colpitedall'AIDS. Numerose organizzazioni locali rendono disponibili itrattamenti terapeutici, ma queste vere e proprie tecnologiebiomediche che cosa producono? Sono disponibili, ma ladistribuzione non è priva di problemi. Innanzitutto bisognaassicurarsi che le persone che vengono inserite in questiprogrammi siano in grado effettivamente di aderire al trattamentoterapeutico, altrimenti sottraggono risorse che potrebbero essereutili ad altri. Poi bisogna verificare chi può accedere altrattamento, che non si riduce esclusivamente allasomministrazione del cocktail di farmaci. Non si è così stupidi daritenere che in quel modo è risolto il problema, si è consapevoliche è la povertà a produrre la crescita esponenziale dell'Aids edunque, parallelamente all'accesso ai farmaci antiretrovirali, cisono programmi sociali più ampi: formazione, inserimento nelmercato del lavoro, per cui si selezionano delle persone, la cuisalute può essere di maggior vantaggio per la comunità tutta. Qualè il dramma? Il dramma riguarda le persone sieronegative, chescoprono di non poter aver accesso a tutto ciò, perché solo inquanto sieropositivi , solo in quanto vite da salvare possonogodere di diritti fondamentali. Questo ci porta a riflettere su quanto oggi, l'industria dei dirittiumanitari, possa essere concepita come una sovranità mobile,come la definiscono Appadurai e Mariella Pandolfi. Veri e propriapparati che si spostano seguendo le logiche dell'emergenza edell'urgenza, in quei contesti in cui lo Stato non è in grado diesercitare le sue funzioni biopolitiche. E allora ecco che l'industriadell'umanitario subentra, fa le veci dello Stato, ridefinendo i

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confini, controllandoli e tutelandoli, pacificando le zone,riconoscendo diritti, rilasciando anche certificati di identità,riconoscendo lo status di vittima, di paziente o di rifugiato,sostituendosi totalmente alle funzioni tipiche di uno Stato.All'interno di questi progetti, si segua la logica del prendersicarico del prodotto senza poter intervenire sui processi.Facendo formazione a Ginevra a "Medici senza frontiere" questoè emerso: non a caso Msf è un'organizzazione che spesso harinunciato a dei progetti, proprio per l'impossibilità di affrontaredeterminati temi. Perché se ci si fa carico del prodotto va bene, maquando si vuole mettere in discussione il processo, si vanno atoccare temi che hanno implicazioni più ampie, di cui tutti siamopiù o meno consapevoli.Dunque viviamo in un'epoca in cui è legittimo prendersi caricodel prodotto, ma non mettere in discussione il processo. In questi

contesti troviamo l'utilizzazione di categorie, come quella di Ptsd,in cui effettivamente ci si occupa del prodotto a discapito delprocesso, creando forme di potere inedite e storicamente nuove.Possiamo parlare di nuove forme di cittadinanza in cui una bellafetta di popolazione mondiale riesce ad avere l'unica esperienzacon quella che noi definiremmo modernità, attraverso lapossibilità di negoziare un accesso a dei benefit, in virtù del fattodi essere vittima, paziente, vita da salvare. E solo in quanto vitaumana da salvare riesce, all'interno di questi programmi, adottenere il riconoscimento di diritti che noi riterremmonaturalmente ancorati al concetto di cittadinanza. Quantecontraddizioni sono inscritte in questa forma storica, inedita,emergente di cittadinanza terapeutica? Quanta violenza rischia diessere iscritta nelle - e prodotta dalle - categorie che utilizziamoper concettualizzare la sofferenza?

Note

*Questo testo rappresenta la trascrizione di un intervento presentato all'interno delle attività seminariali della Scuola diSpecializzazione in Psichiatria dell'Università degli Studi di Pavia il 16 giugno 2006. Colgo qui l'occasione per ringraziare FaustoPetrella, direttore della suddetta scuola; Vanna Berlincioni e il Laboratorio di Psichiatria, Cultura e Ambiente della stessa Università,da lei diretto; l'Associazione Astarte Mami Wata di Pavia; e Susanna Ripamonti per aver registrato e trascritto la relazione. Un graziedi cuore a tutti.

Le immagini di Abu Ghraib avevano già riempito gli schermi e lecopertine dei giornali di tutto il mondo quando, nel dicembre del2005, un sondaggio svolto negli Stati Uniti rivelò che il 38% degliamericani riteneva la tortura giustificabile "in almeno qualchecaso" mentre un altro 26% la considerava giustificabile solo"raramente" (Associated Press 2005). Sebbene l'allora Segretarioalla Difesa degli Stati Uniti, Donald Rumsfeld, avessecommentato le immagini dei prigionieri iracheni come "abusi" deisoldati americani - evitando esplicitamente di usare la parola"tortura" in quanto "tecnicamente" impropria ("My impression isthat what has been charged thus far is abuse, which I believetechnically is different from torture", queste le sue parole durantela conferenza stampa che seguì allo scandalo - cit. in Sontag2004) -, il Senato degli Stati Uniti d'America sentì la necessità diapprovare, sempre nel 2005, un emendamento del senatore JohnMacCain con il quale dare maggiore forza alla legge contro latortura ed impedire alcune scappatoie legali possibili nellaprecedente normativa, una fra tutte, quella di non doverintervenire (e non avere dunque la responsabilità) per queitrattamenti crudeli o inumani che avvengono al di fuori delterritorio americano (inclusa la base militare statunitense aGuantanamo, Cuba).Negli Stati Uniti, dopo l'11 settembre del 2001, i dibattiti e idilemmi etici sui possibili usi della tortura si sono moltiplicati eogni cittadino americano - spettatore di show televisivi o semplicelettore di giornali che fosse - è stato chiamato ad esprimere lapropria opinione su tale questione. Charles Krauthammer, ungiornalista americano del The weekly Standard, ha per esempiochiesto ai suoi lettori di immaginare la seguente situazione. Unabomba nucleare esploderà nel centro di New York se entro un'oranon si riesce a far parlare il terrorista che sa dove è stata messa.La domanda che pone è: "If you have the slightest belief thathanging this man by his thumbs will get you the information tosave a million people, are you permitted to do it?" Krauthammer,senza esitazione, risponde che una simile violenza non solosarebbe ammissibile - seppure con una minima speranza diottenere il risultato auspicato (the slighest belief) - ma che sarebbeaddirittura un "dovere morale" esercitarla. Preoccupato di

prevenire possibili obiezioni sul grado di plausibilità di una similesituazione ipotetica, il giornalista ci ricorda che dilemmi delgenere, per quanto su scala più ridotta, sono all'ordine del giornoin certi Paesi. Gli israeliani, che devono affrontare quasiquotidianamente la minaccia di attentati terroristici, hannopersino coniato una specifica espressione per denominare questesituazioni dilemmatiche: "the ticking time bomb problem" (ilproblema della bomba ad orologeria). Una minaccia imminente edevastante per la sicurezza di una popolazione, ecco cosa puòlegittimare, quanto meno, un trattamento inumano o degradantesecondo Krauthammer. Se la tortura è dunque impresentabile per ciò che è - come cimostra l'irritante reticenza di Rumsfeld ad usare la parola -, èchiaro che essa deve essere inserita in discorsi e rappresentazioniche la possano giustificare e legittimare. La "presentazionedell'impresentabile", per usare un'espressione di Lyotard, richiedepertanto una narrazione coerente e convincente (cfr. Escobar2001). Se per salvare un milione di persone ne occorre sacrificareuna, e per fare ciò basta mettere da parte, almeno per unmomento, i propri valori - e magari la propria etica pastoralecristiana -, allora chi non sarebbe disposto a questo sacrificiotemporaneo e del tutto eccezionale? Del resto, ad essere in gioco,è la vita di un milione di persone, quasi un popolo. Un rischiodecisamente inaccettabile persino (ma sarebbe meglio dire "tantopiù") per una democrazia liberale che ha a cuore lo Stato diDiritto.Guardiamo allora un po' più da vicino questo "raccontoconvincente" che il geografo Matthew Hannah ha definito, non acaso, "scenario da bomba ad orologeria" e cerchiamo di delinearemeglio la cornice biopolitica nella quale si inserisce. Perché ladomanda che ci assilla è la seguente: se la tortura è l'antitesi dellalibertà e della democrazia come è possibile che proprio questaforma di violenza estrema possa essere impiegata per difenderequesti stessi valori?Nell'estate del 2006, mentre la maggior parte degli italianiassaporava (o sopportava) il caldo d'agosto, il politologo AngeloPanebianco lanciava dalle pagine di uno dei più importantiquotidiani italiani una provocazione diretta a quelli che lui stesso

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Conferenza

Politiche della violenza e della tortura

Gli scenari e le "zone grigie" della torturaIntroduzione di Lorenzo D’Angelo

definiva i "fondamentalisti della legalità". Panebianco, dopo aversommariamente tratteggiato uno scenario apocalittico simile aquelli da "bomba ad orologeria" sopra menzionati, invitava ilettori del Corriere della Sera a prendere atto del fatto cheviviamo in uno stato d'eccezione. Essere in guerra, come "noi"siamo, secondo l'editorialista del Corriere, significa adattare la"legalità" di una normale vita democratica alle concrete situazionid'emergenza che la "guerra asimmetrica con il terrorismojihadista" ci costringe ad affrontare; trovare quel compromesso trastato di diritto e sicurezza nazionale che possa garantirci di"restare vivi". E non c'è altro modo per agevolare il compito agli"operatori di sicurezza" che creare una "zona grigia" tra legalità eillegalità. Un' "esigenza vitale", la definisce il politologo italianosottintendendo che è della nostra vita che si sta preoccupando. Panebianco sarebbe probabilmente disposto a riconoscere che inquest'ottica la tortura è quella particolare tecnica biopoliticaradicale il cui obiettivo dichiarato è assicurare la preservazionedella vita contro le minacce terroristiche che la insidiano. Che ilterrorismo, quello suicida di chi usa il corpo come un bio-dispositivo distruttivo, è la risposta coerente e speculare ad unsistema globale sempre più governamentalizzato1.Quello che, forse, il nostro politologo - e qualche altrointellettuale non fondamentalista - non sarebbe disposto adaccettare è che il vero obiettivo dei torturatori non è quasi maiquello di estorcere informazioni o confessioni ma di ridurresemplicemente al silenzio, distruggendo o svuotando lapersonalità dei prigionieri. Perché la domanda con la quale iltorturatore giustifica il dolore che infligge - come sottolinea conacume Elaine Scarry - non è una domanda e la risposta che siaspetta dalla sua vittima non è mai decisiva. La ricerca della veritào di informazioni che possano salvare "migliaia di vite umane"diventa perciò una competizione, una lotta fisica e simbolica che,ancor prima di svelare, produce la verità che cerca e la inscrivenei corpi attraverso "un'arte di trattenere la vita nella sofferenza"(Foucault 1975) che polverizza quasi ogni resistenza. La tortura inquesto senso è davvero qualcosa che ci riguarda da vicino perchédice molto di più su chi la esercita di quanto si possa ricavare dachi è torturato.Ma, anche ammesso che viviamo in uno stato d'eccezione oramaipermanente - ipotesi che, per quanto condivisibile, meriterebbecomunque un maggiore approfondimento -, non siamo costretti apensare che dobbiamo rimanere asserviti alle logiche sicuritariedel biopotere; accettare incondizionatamente lo stato di cose elimitare le nostre azioni alle conseguenze logiche di discutibilipremesse. Vogliamo poterci indignare rispetto a conclusioniaberranti come quelle sui possibili usi "democratici" e "liberali"della tortura; vogliamo poter pensare teorie nuove, "capaci direspirare" - come direbbe Carolyn Nordstrom -, e riflettere fino infondo sulle "condizioni che renderebbero possibile una forma divita in cui non sia mai possibile separare, come avviene nellatortura, qualcosa come una nuda vita" (Agamben 2004). In questosenso occorre "pensare la violenza" e la tortura (Beneduce 2003)con un atteggiamento "eticamente allarmato e sufficientementeavvertito" tale da permetterci di affrontare la nostra ambigua

attitudine ad accettare, in certe situazioni di violenza,compromessi altrimenti inaccettabili (Amati Sas, 1985). In Italia, qualcuno forse lo ricorderà, il 22 aprile del 2004 laCamera ha approvato un emendamento della Lega alla leggesull'introduzione del reato di tortura nel codice penale in base alquale le violenze o le minacce devono essere "reiterate" per essereconsiderate "tortura". La conferenza da cui è nato questo dossier è stata organizzata neldubbio che un torpore morale stia assalendo le nostre coscienze,un torpore dal quale occorre difendersi ancor più che dagliapocalittici "jihadisti" che minacciano la nostra vitale ma inquietasicurezza quotidiana.

***

Questo dossier raccoglie gli interventi presentati da tre studiosialla conferenza organizzata da Achab il 26 giugno 2006 inoccasione della Giornata Internazionale a sostegno delle vittimedi tortura. Silvia Amati Sas - psicanalista, Roberto Beneduce -antropologo e Roberto Escobar -filosofo politico, si sono occupatida prospettive diverse di "tortura" e sono stati invitati ad esporrealcune loro idee su tale questione.Il 26 giugno del 1987 entrava infatti in vigore la Convenzionecontro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani odegradanti dell'ONU e da allora questa ricorrenza viene celebrataogni anno. Gli stati firmatari della Convenzione, basandosi inparticolare sull'articolo 5 della Dichiarazione Universale deiDiritti dell'Uomo, stabilirono una definizione di tortura, che valela pena qui citare:

art. 1. Ai fini della presente Convenzione, il termine "tortura"designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una personadolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente alfine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni oconfessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona hacommesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla odesercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressionisu una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su unaqualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o talisofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o qualsiasialtra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione,oppure con il consenso espresso o tacito.

Come viene precisato nell'articolo 2 della stessa Convenzione,"nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti diguerra o di minaccia di guerra, d'instabilità politica interna o diqualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata ingiustificazione della tortura", ed anzi, "ogni Stato prendeprovvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari ed altriprovvedimenti efficaci per impedire che atti di tortura sianocompiuti in un territorio sotto la sua giurisdizione".Si può assumere una posizione critica nei confronti del linguaggiouniversalizzante dei diritti umani, facendo notare, ad esempio,quanto poco universali ed etnocentrici siano i presupposti su cui

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si fondano: che cos'è "dolore"? Cosa si intende per "individuo"?E per "crudeltà"? Quali sono i trattamenti "umani" e quali quelli"in-umani"? Tuttavia non possiamo dimenticare che, pure contutti i limiti cui si accennava, la Convenzione contro la torturaresta il principale strumento a livello internazionale perfronteggiare e condannare la tortura.Attualmente solo 141 stati nel mondo hanno ratificato laConvenzione dell'ONU contro la tortura. Ma dal momento che latortura ha luogo in più di 100 Paesi del mondo, come denuncianole principali organizzazioni internazionali in difesa dei dirittiumani, è chiaro che non tutti quelli che l'hanno ratificata laapplicano.

La conferenza organizzata da Achab il 26 giugno, intitolata:"Politiche della violenza e tortura", chiudeva una settimana dilavori iniziata il 16 giugno del 2006 con il convegno dal titolo: "Ilrifugio politico nell'era della globalizzazione", organizzatodall'Assessorato alla Pace della Provincia di Milano incollaborazione con l'ACNUR (Alto Commissariato delle NazioniUnite per i Rifugiati) e il CIR (Consiglio Italiano per Rifugiati). A nome della Redazione desidero ringraziare coloro che hannopartecipato a questi incontri e, in particolare, Matteo Armelloni,per la sua gentile e preziosa collaborazione, e Adriano Voltolin peraver condiviso con me alcune riflessioni sul tema della violenza.

Note

1 Per un approfondimento vedi Hannah, M. (2006).

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La mia esperienza in quest’ambito deriva dall’aver seguitopazienti provenienti dall’America Latina (lavoravo in Svizzera)reduci da tortura, nel corso di lunghe psicoterapie. Il lavoroterapeutico è talvolta durato più di dieci anni; lo sottolineo perevidenziare il fatto che una terapia breve non è certamentesufficiente a risolvere i problemi causati da questo tipo di traumapsichico, che in ogni caso il paziente dovrà elaborare in piùriprese nella sua vita al di là del periodo della terapia. Però,quando la persona trova la sua linea di coerenza interna, leconseguenze dei maltrattamenti possono essere superate. Questova detto perché sovente si pensa che, dopo la tortura, una personarimanga segnata per sempre …: non è vero.Vorrei iniziare col dire che l’istituzione della tortura non dovrebbeesistere in alcun modo. Tenterò di spiegare come intendo il dannopsichico provocato dalla tortura e perché la tortura produce undanno psichico. Per cominciare, dobbiamo attirare l’attenzione suun aspetto della nostra soggettività: prendere coscienza dellanostra malleabilità psichica: dobbiamo sapere che siamo moltoduttili ed è da questo che l’istituzione della tortura trae profitto.Il sistema torturante trae profitto dalla nostra umana dipendenzapsichica dagli altri, che è un fenomeno assolutamente universalee normale. Tutti dipendiamo dagli altri e dall’ambiente in cuiviviamo. La tortura è un modo per far sì che la persona diventiancora più dipendente dai suoi aguzzini e perda, per un certoperiodo, la maturazione psichica avvenuta durante la suaevoluzione; che perda, almeno per un po’ di tempo, i suoifunzionamenti più maturi ed autonomi anche se, come cercherò dimostrare, siamo in grado di sfidare le situazioni di torturamettendo in atto delle difese psichiche che utilizziamo nel viverequotidiano.Sono entrata in contatto con questo tema perché, nel 1973, hoconosciuto una studentessa di medicina uruguaiana che avevasubito torture nel carcere di Libertad di Montevideo, primolaboratorio della tortura in America Latina. Era venuta in Europa,al Tribunale Russell, per denunciare e testimoniare sulla torturasubita assieme ad altri studenti. Voleva far sapere al mondo che latortura è scientifica e che non c’è niente di casuale, che è qualcosadi ben studiato e messo a punto, perfino con dei test psicologici(la cosa oggi è ben nota).Dico molto spesso che esiste una “scienza nera” che utilizza tuttoil sapere umano a scopi distruttivi, a favore dei poteri di diversotipo, ma non entrerò nel merito, per cercare invece di spiegare, neltempo che ho a disposizione, qualcosa in riferimento al miomestiere psicoanalitico.Proprio nel periodo in cui conobbi questa studentessa, stavoleggendo il libro Simbiosi e ambiguità dello psicoanalistaargentino José Bleger (Ed. Paidos 1967, trad. it., Bleger, J. (1972),

Simbiosi e ambiguità, 1994, Ed. Lauretana), nel quale l’autorecercava di trovare il legame dell’apparato psichico col sociale, edel sociale con l’apparato psichico. Dunque fu un caso che,ascoltando una storia di tortura e leggendo contemporaneamentequesto libro, io abbia cercato di pensare un modello che mipermettesse di fare fronte ai difficili problemi che mi si ponevano.Un modello che servisse fondamentalmente a capire la nostradipendenza dal contesto sociale ed anche il perché la torturaprovochi fenomeni di mutilazione del pensiero, perdita delsentimento di identità, oltre che della dignità.Per introdurre le idee di J. Bleger applicate alle situazioni estreme,prendo una parte di La realtà psichica e le sue circostanze (AmatiSas, 2000):

Due concetti sono portanti in Bleger: uno è quello di ambiguità el’altro quello di depositazione. La depositazione nel mondoesterno di un nucleo di indifferenziazione primaria attraverso ilcosiddetto legame simbiotico concerne precisamente il problemadella realtà psichica che è qui visualizzata come una realtàsoggettiva, ma sempre dipendente da un complemento nella realtàesterna (persone, istituzioni, ecc.). L’idea è dunque di un legameobbligatorio con l’ambiente, che è depositario o portatore degliaspetti più indifferenziati di sé. Il primo depositario è un oggettoesterno avente funzione materna, che riceve e contiene questonucleo di incertezze e angosce primitive del bebè e lo elabora(“pouvoir de reverie” di Bion), attribuendogli senso e significati.Tuttavia, un residuo dell’indifferenziazione primaria rimarràsempre in ogni soggetto maturo, ossia ci sarà sempre un legamesimbiotico di depositazione dell’indifferenziazione“onnipotentemente” obbligatorio e automatico. Quello che sideposita è un “nucleo ambiguo” e l’ambiguità è la suaespressione clinica. Quando ci sono cambiamenti bruschi, sia permovimenti repentini del contesto depositario, sia per crisi nellavita del soggetto (emigrazione, o lutto, per esempio), lamobilitazione dell’ambiguità che ha perso la sua depositazionepuò manifestarsi come incertezza o angosce di diverse tonalità.Nella personalità già strutturata, la “reintroiezione” massicciadell’ambiguità (per la perdita dei depositari) provocaun’angoscia catastrofica o un vissuto di depersonalizzazione chepuò esprimersi con panico, obnubilazione, offuscamento,perplessità, oppure, talvolta, perfino con coscienza iperlucida,ossia una comprensione intuitiva della situazione (Winnicott,1974). Però ciò che è fondamentale in questo modello dinamico,è la premessa che il nucleo ambiguo non può essere sostenuto dalsoggetto stesso. Il nucleo ambiguo è sempre portato o sostenutoda un altro, dagli altri e dall’ambiente, procurando al soggetto

Riflessioni psicanalitiche sulla torturaIntervento di Silvia Amati Sas

una complementarità assolutamente necessaria e ineludibile, checomporta sicurezza e gli crea appartenenza (stabilendo un climaaffettivo che permette la familiarità con l’ambiente, oggettiesterni o contesti che l’Io ha bisogno di utilizzare come depositaridi angosce e incertezze insalvabili). Certi aspetti del nucleoambiguo sono paragonabili all’inconscio originario erimarranno per sempre sconosciuti. Però bisogna sottolinearel’esistenza di un’altra ambiguità, quella che troviamoclinicamente e che può funzionare come una difesa; essa implicaun’accettazione acritica della realtà, che però non viene negata odenegata. Bleger fa dell’ambiguità una posizione pre-schizoparanoide. La posizione “ambigua” o agglutinata precedele posizioni kleiniane conflittive classiche (schizoparanoide edepressiva). Le tre “posizioni” coesistono e si alternano nellaloro presentazione. E’ utile paragonare l’ambiguitàall’ambivalenza (posizione depressiva), una situazione interna diopposizione e conflitto tra rappresentazioni o affetticontraddittori che si presentano nei confronti di uno stessooggetto e nello stesso momento; l’ambivalenza presuppone lapossibilità di scelta tra termini opposti (odio-amore, buono-cattivo, vero-falso). Nell’ambiguità, invece, tutto appare possibilee intercambiabile: i termini opposti, contraddittori epotenzialmente conflittuali, non sono ancora precisati, nécontrastati. Per questo motivo, l’ambiguità dà ai fenomenipsichici un carattere proteiforme di imprecisione, malleabilità eadattabilità. Nel mondo interno (intrapsichico), l’ambiguitàcorrisponde a una posizione di non conflittualità e di nondiscriminazione tra valori o termini contraddittori (sia negliaffetti che nelle fantasie, nei pensieri, o nel comportamento).Nella dinamica della “vincolarità”, o intersoggettività, la qualitàelastica o “oscillatoria” (Maldonado) e proteiformedell’ambiguità, le permette di funzionare come un tessutomalleabile che riempie gli spazi vincolari. L’ambiguità serve anon separare, ossia ad obnubilare o confondere ciò cheappartiene a un soggetto o ad un altro nel vincolo. Tra pubblicoe privato l’ambiguità può dissimulare, falsificare, equivocare,adeguare, o conformare. Essa smussa ciò che è conflittuale, comeaccade nei gesti o nel linguaggio, con figure di compromesso.Nello spazio trans-soggettivo, la depositazione dell’ambiguità diognuno in un depositario comune a tutti produce un senso diappartenenza e sicurezza. A questo livello, quando ci sonosituazioni traumatiche,l’installarsi nell’ambiguità funziona comeuna difesa maggiore e allo stesso tempo come un “meccanismo diadattamento” (concetto di Parin). L’inevitabile esistenza dilegami simbiotici rende ogni soggetto estremamente sensibile aqualsiasi movimento dell’ansia esistenziale nell’ambienteimmediatamente circostante ed anche in tutte le situazioni socialidi cambiamento. Le non differenziazioni inconsce e le ansie dibase possono dare vita ed un continuum che va oltre la mentedell’individuo e che possiamo immaginare come uno spaziotrans-soggettivo comune a tutti e condiviso nel quale le tendenzemimetiche consentono a ciascun soggetto di essere parte di unamassa, ma anche di adattarsi e di essere passibile dimanipolazione ed alienazione.

In seguito al lavoro terapeutico con questi pazienti, ho scritto deilavori in relazione alla vergogna, all’etica professionale, e alfenomeno della trans-soggettività (citati nelle referenze).Torniamo al nostro tema adesso: cos’è la tortura? Prima di tutto inessa si perdono tutte le garanzie possibili: la persona è portata via,non ha più chi la difenda legalmente. Spesso non sa dov’è enessuno saprà dove trovarla. E poi c’è un attacco completo al suonome e a suoi sentimenti di appartenenza. Pensiamo a quelli chediventano numeri, ai loro vestiti, al loro corpo, che è anch’esso undepositario. Applicando i concetti che ho descritto prima, lapersona - e questa sarebbe una prima conclusione - perdefunzionamenti, in parte si obnubila e si accomoda alle nuovecircostanze. E credo che questo sia il problema piùimpressionante della tortura, perché in seguito il torturato puòaver vergogna di tante cose, di aver “cantado”, come si dice inspagnolo, o di aver avuto comportamenti imposti o attitudini chenon voleva avere. Però quello che rimane difficile da accettare èil fatto che ci si è adeguati a circostanze invivibili senza volerlo.Pensiamo ad Auschwitz, o pensiamo, come esempio, aGuantanamo. Qui con la tortura si cerca di ottenere unaregressione all’indifferenziazione e in questa maniera ottenere unsoggetto che si adegua alle circostanze offerte dal poteretorturante, come sappiamo che spesso infatti accade.Tuttavia l’adattamento del torturato non è completo, l’ho già dettoprima e lo ripeto. Nel suo intimo più segreto, possiamo scopriredurante la psicoterapia una resistenza alla situazione traumatica,una vera sfida nella preoccupazione che il paziente ha avuto perqualcun altro della cui dignità e destino si era preoccupato nelcorso di tutta la sua prigionia. Questo “oggetto da salvare” ètalvolta un figlio o un marito ecc. È un interesse per un’altra, oaltre persone, che già esiste nella vita quotidiana, ma che in quelleparticolari circostanze è interpretabile come continuità della vitapsichica e degli ideali etici del soggetto.Qual è lo scopo della terapia delle situazioni estreme? La miapremessa terapeutica consciamente assunta è che per la ripresa delfunzionamento psichico del paziente e per la sua autoliberazione(che è sempre molto lenta) si tratta di elaborare una pesanteesperienza di alienazione al fine di recuperare il sentimento diessere in divenire. Intendo l’alienazione come il cambiamentodegli affetti e del pensiero senza che il soggetto se ne accorga, pervolontà e azione di qualcun altro. La tortura blocca il sentimentodi divenire e quello che Aulagnier chiama “progettoidentificatorio”.Per il paziente si tratta di uscire da diversi livelli di un dilemma(un dilemma morale nel quale è stato messo da altriintenzionalmente) per riacquistare la propria capacità didiscriminazione etica e riappropriarsi della propria capacità discelta, decisione e integrazione identitaria che gli sono stateprecluse. Il prigioniero ha sperimentato uno strano sentimento difamiliarità con un mondo sinistro e adesso deve rendersiautonomo da un’identità degradata nella quale è stato messo daisuoi aguzzini. Un’appartenenza e un posto concreto, privo didignità, dal quale adesso deve uscire simbolicamente con la“modesta onnipotenza” del pensiero e della parola.

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Insieme al paziente l’analista, nelle sue funzioni di ascolto esostegno, dovrà trovare una strada interpretativa ed un modelloteorico utile per avvicinare le parole, per pensare ai vissutiimpensati ed impensabili e per riuscire ad elaborare la dinamicadell’esperienza estrema. Un lavoro che non può essere néprevisto, né scontato, né formulabile a priori, come pretenderebbela vittimologia meccanizzata e computerizzata.Non è sufficiente per il terapeuta basarsi sulle esperienze, ma avràbisogno di un’attenta e allarmata opposizione ad ogni anestesiadella sua propria indignazione che potrebbe presentarsi nel campoterapeutico intersoggettivo perché, con il paziente reduce dasituazioni estreme (torture, scomparsa, campo di concentramento)diventa evidente che il terapeuta condivide transoggettivamentelo stesso contesto traumatico di una inaffidabile umanità ed haanche la tendenza ad “adattarsi a qualsiasi cosa” e a difendersiattraverso l’ambiguità.Il “terrore senza nome”, la paura smantellante, quando sonointenzionalmente provocate da altri esseri umani, anche in tempie spazi lontani, possono portare alla perdita dei significati e delsenso, ed al conformismo in chiunque.Come definire questo trauma transpersonale? Forse lo si potrebbecomprendere col concetto di “crimini contro l’umanità”. Non c’èuna definizione giuridica di questi crimini, ma soltanto unaspecificazione delle situazioni chiamate: schiavitù, genocidio ....Ci sarebbe forse da trovare una definizione psicoanalitica perquesto genere di crimini dove non ci sono né tabù, nécomandamenti…Noi psicanalisti cerchiamo nei traumi del passato inconscio delpaziente il precedente determinante dei traumi attuali. Nei traumid’origine sociale questa regola diventa relativa perchè i traumiestremi di origine sociale non sono interpretabili come ripetizionedi traumi personali precedenti, giacché non c’è nientenell’esperienza singolare di vita del paziente che possa permetteredi simbolizzare la loro natura sociale.Non posso andare oltre; vorrei adesso introdurre l’idea ditransoggettività.I traumi sociali organizzati non sono diretti soltanto alla personasingola traumatizzata, ma a tutto l’insieme sociale. Quando c’ètortura, l’intenzione è quella di provocare terrore in tutto ungruppo, e questo è un punto che non possiamo dimenticarequando affrontiamo questi temi.Ci sono due cose che devo dire, anche se in fretta. L’altrateorizzazione psicoanalitica utile per il nostro tema di oggi è inriferimento alla soggettività. Altri colleghi argentini (Puget eBerenstein) considerano la soggettività come avente tre spazi:l’intrasoggettivo, ossia la relazione tra l’Io e i suoi “oggettiinterni”; l’intersoggettivo, ossia il legame tra il soggetto e un’altrodiverso da sé; ed il transoggettivo, il legame tra il soggetto el’insieme sociale o i “depositari sociali” condivisi (le leggi, lo

Stato, ecc.).L’esempio più chiaro in riferimento alla transoggettività èdiventato l’11 settembre. In quell’occasione, attraverso i mezzi dicomunicazione abbiamo tutti percepito per qualche momento… laperdita del contesto comune. L’angoscioso disagio provocato daquell’evento era nello “spazio transoggettivo della soggettività”di ognuno e di tutti. Infatti le perturbazioni provocate neidepositari comuni cambiano o alterano la soggettività di ognuno.Volevo ripetere che nella terapia dei sopravvissuti si possonotrovare chiaramente due meccanismi di sopravvivenza:l“adattamento a qualsiasi cosa” e quello che ho chiamato“l’oggetto da salvare”. Diciamo che nel mondo intimo - daintendersi sia come qualcosa di segreto, che come qualcosa dirimosso - possiamo trovare la rappresentazione mentale di unarelazione che ha continuato ad esistere nella mente durante tuttoil periodo della prigionia, come ad esempio la preoccupazione perun marito, un figlio ecc., anche se morto, non importa.Comunque, un rapporto di fiducia, un rapporto non alienante.Da questo punto di vista l’“oggetto da salvare” è una scopertainterpretativa nell’evoluzione del processo terapeutico. Peresempio, una paziente diceva: “non volevo che “quelli là”governassero il mondo in cui doveva vivere mia figlia”, e durantei maltrattamenti pensava che doveva uscire per raccontare tutto.Un’altra paziente, la quale è stata parecchio tempo in un campo diconcentramento, diceva molto spesso: “meno male che miomarito (che era stato ammazzato proprio nel momento in cui lei fupresa) non ha sofferto queste cose che io ho conosciuto”.Interpreto le parole di queste due pazienti come la sfida che ilprigioniero può porre alla situazione alienante: salvando nel suomondo interno la dignità di un altro, egli sfida il mondo perversonel quale si trova. Ci sarebbe ancora molto da dire, però mi devofermare qui.

Bibliografia

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Le esperienze di Silvia Amati sono ricche di suggestioni e mentreLei parlava, cercavo di raccogliere nella memoria esperienze siadi ricerca, ma soprattutto esperienze cliniche e, alla fine,concludevo per l’impossibilità di ricondurre queste esperienze adun comune quadro, una comune cornice. Quindi è importantericonoscere sin da subito come, al di là delle definizioni checercano di mettere d’accordo tutti, la tortura, la violenza,sembrano costituire pratiche fatte per disarcionarci dai nostrimodelli, per mandare in frantumi le formule dal rassicurantesapore universalista. La definizione della tortura fa di per sé problema. Credo che ladefinizione di tortura, anche quella che aveva letto primaLorenzo, è, come sin troppo facilmente riconosciuto, largamentetributaria dell’idea che la sovranità, il potere sulla vita, e sullamorte siano questioni degli stati nazionali. Quando questopresupposto non c’è, come spesso accade, anche la definizioneordinaria degli organismi internazionali di tortura si disfa. Non siperde quello che probabilmente è il nucleo roccioso della tortura,ossia la violenza, l’esercizio del potere assoluto, del poterdecidere della vita e della morte dell’Altro, ma si disfa l’idea ditortura che faticosamente gli organismi internazionalipropongono per cercare di trovare un compromesso fra i diversistati (già di compromesso si tratta, sebbene questa espressione sia,al cospetto di fatti come la tortura, di per sé intollerabile).Abbiamo visto nel corso di questi anni imporsi al dibattitosituazioni quanto mai eterogenee. Potremmo per analogiaricordare quanto anche la definizione di “genocidio” abbia divisogli esperti di diritto internazionale: sembra quasi paradossale,eppure non è così difficile comprendere le difficoltà nel trovare unterreno comune di principi e definizioni, laddove si ammetta chela preoccupazione è talvolta meno quella di proteggere le vittime(spesso è solo la loro memoria che può essere “protetta”) quantopiuttosto quella dell’uso attuale di quelle stesse definizioni, unuso sociale che può persino comprendere l’obiettivo disalvaguardare dal rischio di accuse e condanne coloro che hannoperpetrato atti di violenza disumana. Paradossale e insiemefastidioso dover ammettere che la definizione storica di fatti cosìgravi, di eventi così intollerabili, sembra avere a che fare più conil presente e il futuro, cioè con gli scopi e gli interessi (deisopravvissuti o dei perpetratori, secondo i casi) che con la vita ela morte delle vittime. Parto da una serie di situazioni che forse,più delle definizioni e delle cifre, ci possono avvicinare ai temiforti di questo incontro. In questo senso farò tesoro più delle vocie delle testimonianze raccolte in questi anni in vari paesi, o pressoil Centro Frantz Fanon di Torino, che non delle considerazioniteoriche, pur decisive, di quell’ambito di studi che definiamo“antropologia della violenza”, e che ha visto aumentare contributi

e ricerche dopo una lunga fase di latenza, ossia di silenzio suquesto tema da parte della quasi totalità dei ricercatori (questo ilrimprovero che Scheper-Hughes, ad esempio, muoveva qualcheanno fa contro Geertz).Mentre Silvia Amati parlava, ricordavo un paziente sudamericanoincontrato a Torino, ormai quasi 15 anni fa, il quale si era rivoltoa me in una circostanza, di per sé, molto particolare. La suadomanda di aiuto psicologico era sopravvenuta nel momento incui ci eravamo incontrati per caso: entrambi ci eravamo trovati,insieme ad altri, in un ospedale cittadino a condividere un tempodi attesa dolorosa, perché una ragazza era stata vittima di unincidente automobilistico ed era in coma.Lui sapeva che io seguivo quella sua giovane amica cometerapeuta, e mentre trascorrevo quelle ore tese insieme al piccologruppo di connazionali della vittima lui mi chiese, in disparte, sepoteva rivolgersi a me per parlarmi di alcuni problemi. Credo chegià la circostanza di quella richiesta sia molto eloquente, il fattocioè che di fronte a un evento di morte, di provvisorietàsopraggiunta all’improvviso, di fronte al fatto che una ragazzagiovanissima stesse morendo per un banalissimo incidenteautomobilistico, quest’uomo chiedesse un aiuto per un problemarelativo alla tortura occorsa 15 anni prima, mentre nel corso diquesti anni non aveva mai sentito il bisogno di una psicoterapia.Ecco il primo elemento, tutto psicologico che voglio sottolineare,anche per riconoscere la centralità delle osservazioni di SilviaAmati, cioè del fatto che non si possa immaginare mai concluso illavoro sulle esperienze traumatiche. Dopo 15 anni ricompare, inquesta vicenda, l’esigenza di ripensare ad una violenza lontana, eciò a partire dall’irruzione, sulla scena della propria esistenza,della notizia relativa all’agonia di un’amica, una notizia che dicolpo squarcia i compromessi con la propria memoria, rimette alcentro il dolore di un corpo ferito, della morte imminente, dellacompleta passività di quelle membra. In altri contesti mi sono misurato con un aspetto vicino, sebbenedi segno diverso, in particolare con quella che potrei definirel’impossibilità di trovare quadri temporali entro i qualiorganizzare le proprie esperienze, e più in generale dentro i qualistrutturare un senso per eventi che non ne posseggono alcuno, opromuovere un’opportunità di rielaborazione collettiva. L’assenzadi questi quadri temporali, nella mia esperienza, costituisce oggila regola, non l’eccezione. Sono infatti prevalenti i contesti in cuila violenza non è più quella organizzata dello Stato, dotata di unchiaro significato politico, attribuibile ad attori dotati dimotivazioni riconoscibili per quanto orribili; non è più quelladella tortura nei distretti di Polizia o nei campi segreti - quelle dicui parlava Frantz Fanon nell’Algeria colonizzata, ad esempio, oquella che abbiamo visto nelle dittature sudamericane degli anni

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L’esilio della memoria. Violenza, trauma e torturaIntervento di Roberto Beneduce

Settanta e Ottanta -, è piuttosto una violenza sorda, che assume unprofilo ancora più cupo al cui interno la tortura non è che l’ultimopasso di un progetto distruttivo generalizzato, un progetto dimorte (Mbembe parla di “necropolitics”), che quasi più nonpermette di distinguere, nel caos che lo accompagna, nell’assenzadi un Soggetto o di una Strategia che possano essere individuati,nemici o alleati. Tutti diventano potenzialmente nemici di tutti. Insimili situazioni l’esercizio della violenza comporta profondetrasformazioni psichiche (Taussig), e siamo ricondotti ad unaprima domanda: che cosa significa “adattamento psicologico” intali contesti, che cosa significa sopravvivere, resistere grazie aquelle mitiche forze interiori che gli psicologi, prendendo aprestito il termine dalla meccanica dei corpi, chiamano“resilienza”? Che cosa significa, in altre parole, adattarsi econtinuare a vivere in questi contesti di violenze macabre e diatrocità? Mi ponevo questa domanda quando qualche mese fa un amico cheha lavorato in un gruppo di ricerca da me coordinato nellaRepubblica Democratica del Congo, mi ha inviato il suo periodicorapporto. Nei suoi scritti mi racconta quello che succede, m’inviacon e-mail delle foto atroci, e poi mi dice: “qui tutto bene, c’è undiscreto segno di stabilità”, accompagnando il suo laconicocommento con dati dettagliati. Questo tono rassicurante, con ilquale Paul mi sollecita a ritornare in Congo e a lavorare comeabbiamo fatto sino all’estate del 2005, è inquietante, perché i datiche mi invia, le immagini che mi propone con le sue foto, sonoraccapriccianti. Qualche mese fa Paul mi ha inviato una foto trattadal suo matrimonio, con la didascalia seguente: “l’uomo al centro,con la cravatta, è stato ucciso barbaramente nella sua casa ierimattina, che Dio accolga la sua anima”.Ecco allora che il primo problema sul quale riflettere è chel’adattamento, che dobbiamo pure ammettere necessario, senzaeccezioni, in simili contesti, è già il sintomo di una profondapatologia, individuale e sociale, un sintomo doloroso che riflettespecularmente il macabro spettacolo di quello che Bourgoischiama il “continuum di violenza”. In Paesi come la RepubblicaDemocratica del Congo, gli eccidi di massa e le violenze non sonopiù privilegio degli eserciti, o di corpi separati e milizie al seviziodi questo o quel gruppo di potere, esse ormai sono diffuse,strumento di morte democraticamente distribuito, espressione diun dispotismo decentrato (per riprendere, sebbene in altro senso,l’espressione di Mandami): si può così impunemente devastare unvillaggio, violentare le donne, amputare braccia e umiliare corpi,incendiare abitazioni senza rischiare quasi nulla, perché questo èdiventato, da molti anni in quel Paese ed in altre aree limitrofe, unfatto comune: l’esercizio quotidiano del potere di morte sull’altro.A questo comportamento partecipano ormai indiscriminatamentetutti: milizie come le Force de Résistance Patriotique de l’Ituri(FRPI), il Front de Nationalistes Intégrationnistes (FNI), l’Uniondes Patriots Congolais (UPC), ma anche i soldati regolari delleFARDC (Forces Armées de la République Démocratique duCongo). Gli acronimi ormai non sono che una sintesi di morte edi arbitrio: mai la tanatopolitica ha espresso capacità così efficacinel rivestire atti brutali, massacri inutili, efficaci strategie del

terrore, di sigle e motivi pseudo-politici.Dei messaggi di Paul uno mi aveva molto colpito. È una foto cheben metaforizza quella sensazione di violenza generalizzataevocata prima dalle parole di Silvia Amati. Un uomo esibisce alfotografo il suo piede amputato. Ce l’ha nella mano, lo mostra, silascia fotografare, il piede è come un oggetto, ormai già separato,e la foto ci mostra un oggetto – la vittima – con una parte del suocorpo resa oggetto di grado zero. È un’immagine raccapricciante,e all’antropologo che lavora in quelle aree è impossibile nonricordare le immagini del Congo leopoldino, durante l’epocacoloniale belga, quando l’amputazione di mani e piedi era un fattoricorrente, per punire coloro che provavano a fuggire dalleforeste, dai luoghi di raccolta della gomma: le foto di un secolo fain nulla si discostano dall’esercizio attuale della stessa disumanaviolenza. Anche in quel caso le foto del 1904 mostrano uomini edonne, ragazze, senza mani e senza piedi, legati in catene, frustratio che mostrano, con identica espressione di stupore, di umanitàsiderata, questo o quell’arto amputato.Abbiamo dunque da fare i conti con almeno due ordini didiscorso. La questione della la tortura, come dato schiacciante conil quale continuare a fare i conti, come problema antropologico,politico e giuridico di irrisolta drammaticità: il monopolio dellaviolenza da parte degli Stati moderni, non esclusi quelli che sidefiniscono democratici (ciò che accresce la misura di questaperversione). Dall’altro la tortura come segmento di undispositivo di violenza generalizzata, in grado di applicarsi consmisurata efficacia contro i più deboli, anzi soprattutto contro diessi (è noto che milizie ed eserciti allo sbando si accaniscono conla popolazione civile, contro le donne e i bambini assai più diquanto facciano con il nemico). Qui la tortura e la violenzas’impongono come un dramma di gravità persino maggiore: inquesti casi la tecnica della morte rimane l’unico frammento di“razionalità” visibile, dietro il quale solo ci rimane il dato, giàevocato, di una progressiva e profonda trasformazione psichicadegli individui e delle collettività, di una smisurata sofferenzasociale, silente e spesso dimenticata. Il sospetto e il silenziodiventano allora il segno ulteriore di una solitudine radicale, diuna diffidenza che separa gli individui e corrompe i legami, cheavvelena e uccide la comunità nel suo insieme, come ha osservatoLinda Green in Guatemala. Nei contesti ai quali sto pensando latortura non è dunque un dato isolato, non è un evento eccezionale.E’ la dimensione quotidiana che si abbatte contro inermiprigionieri, contro detenuti, contro civili. Prossimi alla sogliadell’impensabile, pure dobbiamo continuare a interrogare le radicidi tutto questo orrore: farlo significa resistere alla paralisi delpensiero, obiettivo indiretto della violenza e del terrore, ma farlosignifica anche restare accanto alle vittime, al loro dolore, nondimenticarle.Come vedete sto cercando di spostare il discorso dal solo ambitodella tortura, dove si ha comunque la sensazione di trovare unsignificato e persino un certo accordo nelle definizioni, a unambito più inquietante, meno circoscritto intorno alle figure dicriminali o responsabili, un ambito di violenza dove la suabanalità, il suo “decentramento”, spaventano forse persino più

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della violenza stessa e del quale, non a caso, si parla poco. InPalestina c’è da tempo un dibattito, una irrisolta conflittualitàproprio riguardo a che cosa è la tortura. Perché? Perché se i fondiinternazionali, ancorché miseri, permettono comunque disostenere programmi di riabilitazione, ciò è possibile a condizioneche si faccia uso del termine “tortura” in accordo alle definizioniinternazionali. Ora molti degli operatori e delle vittime diviolenza vogliono far rientrare in questa definizione quello chenon è, secondo le definizioni convenzionali, tortura. Perchétortura non è, ad esempio, l’edificio abbattuto, come ritorsione peril fatto che nella mia famiglia c’è un attentatore. Mentre invece,per un Palestinese, questo è tortura. Perché tortura non èimpedirmi di raggiungere la casa di un amico o di un familiaretenendomi bloccato a un check-point per ore, secondo una precisae consapevole strategie dell’imprevedibilità, mentre invece, perun palestinese che ogni girono si confronta con questa perversaforma di violenza, lo è. I Palestinesi non vogliono delimitare lanozione di tortura a quelle definizioni che le convenzioniinternazionali propongono. “Siamo tutti stati torturati”. Questo midicevano i Palestinesi di Ramallah, quando facevo formazione.“Tutti siamo stati torturati”. E non si tratta di una meraprovocazione linguistica. E’ un modo per far esplodere lecategorie e gli ordini che noi proviamo ad utilizzare per metterein qualche modo pace e riconciliare. Loro dicono: “no, non èpossibile”.Secondo le definizioni delle Nazioni Unite, non è tortura lacontinua sottrazione di risorse, come l’acqua. Eppure per unpalestinese il fatto che le sorgenti di acqua siano state espropriateè un atto di tortura materiale, psichica e simbolica come lo ful’abbattimento dei trentamila ulivi da parte delle ruspe israeliane.Qui stiamo esplorando le zone d’ombra che le nostre categorie, lenostre definizioni, lasciano come irrisolti problemi. E si tratta diterritori impervi perché non riusciamo nemmeno più ad articolare,con quel minimo di chiarezza che l’epistemologia delle scienzeumane e sociali imporrebbe, le differenze fra ruoli, motivazioni,strategie, responsabilità. Solo ci rimane da penetrare in uno spaziodi cupe ambiguità, dove rischia di diventare difficile persino larisposta a domande come “Chi è il persecutore?”, “chi è ilperpetratore?”, “chi è la vittima?” quando le vittime sembranoessere ovunque, persino fra i primi. Voglio ritornare brevemente al problema delle trasformazionipsichiche collettive prodotte dal terrore. Queste trasformazionipossono generare anche nelle vittime meccanismi di violenzadifficili da riconoscere, e ancor più difficili da riconoscere quandoessi partecipano alla riproduzione della violenza. Secondo nonpochi autori le attuali violenze descritte nei paesi che hannoconosciuto violenze come quelle della colonizzazione possonoessere interpretate come una espressione particolare di questomeccanismo di ripetizione, vero e proprio demone della memoriache riproduce lontane atrocità le cui tracce sono profondamenteimpresse nell’inconscio, nell’immaginario collettivo, nellatransoggettività, nelle istituzioni. Non è necessario pensare solo aviolenze lontane. Nella Palestina di oggi, la violenza domesticadegli uomini contro le donne, contro i bambini, la violenza

privata, è cresciuta in modo spaventoso. Lo psicologo,l’antropologo, il sociologo fanno poca fatica a riconoscere comequesta violenza non è che il riflesso, la proiezione e l’espressionedella violenza subita nell’impotenza di una Storia che non sembralasciare vie d’uscita, di una condizione che non ha modo di dirsialtrimenti.L’esercizio della violenza, l’esercizio della tortura, sono tecnicheche, oltre a deumanizzare l’Altro - questa è una dellecaratteristiche fondamentali delle tecniche di tortura - lo pongonoin un regime di desincronizzazione, di asincronicità. È unconcetto proposto da alcuni autori che mi sembra importanteesaminare, anche per capire che cosa significa l’effetto di lungadurata di queste violenze, di queste torture, negli individui e neigruppi. La vittima non è soltanto deumanizzata, non è soltanto schiacciatain una condizione di oggetto, una condizione che può essererovesciata solo ricorrendo ad atti estremi: ai tempi della schiavitùla sola soluzione era quella del suicidio, dell’omicidio odell’infanticidio. Ricordate probabilmente, se avete letto ilbellissimo romanzo di Tony Morrison, come la figuradell’infanticidio nell’epoca della schiavitù sia stata riletta daglistorici proprio nei termini di un atto di rivolta contro il padrone,contro la sua illimitata utilizzazione del corpo della schiava,persino del suo potere riproduttivo. Soluzioni estreme, folli operverse, probabilmente, ma quello che m’interessa qui realizzareè ora meno il tipo di reazioni che la violenza produce e piuttostol’effetto di desincronizzazione che le atrocità e le torture possonogenerare. Quello che mi capita di osservare può essere descrittoinfatti proprio come una frattura del registro temporale dellepersone che hanno sperimentato violenze di questo genere, unadecomposizione del tempo dialogico: la vittima della violenzanon governa più il tempo della reciprocità, dello sguardo,dell’attesa; le vertebre fratturate della sua memoria lo spingonoall’indietro, gli impediscono di “esserci”, gli rendono difficile lapresa sul presente. Sta qui, in questa impotenza della capacitàcronodetica, una delle sfide più drammatiche che deve affrontarela vittima della tortura. Foucault diceva che la psicanalisi si trova in qualche modoimbarazzata al cospetto della schizofrenia (la psicosi pereccellenza) perché lì non c’è rimozione, non c’è nulla da scavareo da esplorare. Tutto è gettato contro, sin troppo esibito, e lapsicoanalisi ha dovuto lavorare a lungo per rimettere un qualcheordine nelle sue strategie dell’ascolto e della parola di fronteall’irrompere di fantasmi che travolgono le distanze, le regole, laregia del silenzio e delle libere associazioni. Senza più ancoraggioalle cose, le parole possono da sole contenere tutto l’orroredell’esperienza, la sua minaccia, e generare infiniti clivaggi nellacoscienza. Incontriamo qualcosa di simile quando guardiamo alleconseguenze psichiche delle violenze: là dove cioè non c’è unevento traumatico isolato da ricondurre alla coscienza, come nelpaziente nevrotico, un evento da riportare alla luce, quantopiuttosto una massa di sensazioni, immagini, suoni, perdite chehanno abolito i confini fra l’Individuo e il mondo, e generatoquella che si potrebbe definire, propriamente parlando, una

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apocalisse culturale e psicopatologica insieme. La soppressione della sintassi temporale e la dissoluzione deiconfini sono il dramma psicologico delle vittime di atrocità dimassa e della tortura: testimoni sopravvissuti alla loro stessamemoria, si potrebbe dire. Molte vittime di violenze talvoltachiedono, nel corso dei colloqui, se possono continuare araccontare le loro esperienze, se possono narrare di fattiparticolari, consapevoli dell’impatto che già il loro solo raccontopuò avere su chi ascolta. Quelle parole e quelle immagini è comese avessero mantenuto intatto, anche a distanza di anni, il poteredi sconvolgere, di siderare. Questo è un altro degli esempi diquell’effetto di rottura temporale che questo tipo di violenzeproduce. Sulla difficoltà di elaborare questi eventi dirò poi, più avanti,qualcosa rispetto ad una dimensione non meno imbarazzante perle nostre psicoterapie. Prima Silvia Amati diceva: le terapie brevinon possono essere efficaci, non possono funzionare. Lascianoquantomeno perplessi, e sono anch’io molto scetticorelativamente alla possibilità che una terapia breve possa risolveredanni di questo tipo. Il problema mi sembra però essere menoquello della reale o fittizia efficacia di tali strategie e piuttosto iltrattamento della memoria che esse presuppongono. Prima di riflettere su questo aspetto, vorrei rapidamentemenzionare un altro problema: quello relativo alla confusione fravittima e perpetratore in contesti di violenza cronica, quelli adesempio dove si moltiplicano i bambini soldato, bambini chediventano responsabili di atrocità non minori di quelle degliadulti. Come considerare questi bambini e questi adolescenti cheagiscono violenze, che stuprano o amputano: sono perpetratori osono vittime? Una donna anziana di ottant’anni mi raccontava cheera stata stuprata da quattro adolescenti, alcuni non più grandi di13/14 anni. E come trattare dopo la loro eventuale sofferenza?Quale collocazione morale dare dei loro comportamenti? Questoè un problema non solo clinico, è sin troppo ovvio, ma dellacollettività. Ricordo, molto rapidamente, il fastidioso dibattito cheha accompagnato in alcuni paesi gli interventi di riabilitazione peri bambini soldati in ragione di alcuni paradossi emersi proprio nelcorso di interventi di riabilitazione. In Congo una vera e propriarivolta si è prodotta quando, in seguito a uno dei tanti programmidi disarmo e riabilitazione di bambini soldato, si donava a questiultimi, in cambio del ritorno alla vita civile, una bicicletta e uncontributo economico. Attori di violenza, questi adolescenti ora siaveva urgenza di reintegrarli, ma l’azione aveva il colore sinistroe intollerabile di un premio concesso a chi aveva violentato,incendiato, ucciso, trascurando di considerare quello che ne erastato delle vittime, di coloro la cui voce nessuno sembrava avervoglia di ascoltare. Stiamo ragionando non più soltanto intorno alla coppiatorturatore/vittima, o della tecnica della tortura, ma di un ulterioreproblema: l’effetto psichico collettivo dell’impunità, che è ilproblema, fra gli altri, più difficile da gestire. Uno dei drammidelle definizioni delle convenzioni è la loro incapacità arispondere al problema dell’impunità. E la relazione tra impunitàe dramma psichico è di rado esaminata. Che cosa significa

questo? Significa che una vittima di tortura continua a soffrireanche quando coloro che hanno torturato e ucciso rimangonoimpuniti. Questo è uno dei problemi tipici delle società dopo lafine dei conflitti: dove collocare il responsabile della violenza?Dove situarlo? Che cosa farsene? Il dibattito ha già detto molto inalcuni Paesi dell’America del sud, ma poco quando le violenzediventano di massa come in Ruanda o come in Congo. Lì ci sonoi militari, ci sono le milizie, ci sono gli squadroni della morte, maquando sono centinaia di migliaia i perpetratori di violenza, ilproblema dell’impunità diventa un incubo collettivo. Chiunquepuò essere stato attore di violenze, di torture, di amputazioni, distupri. Il caso del Ruanda è ben noto. I tribunali di riconciliazione chenon riescono a riconciliare è un altro caso ben noto. Quello che siconfigura in queste condizioni è il rischio di impasse giuridica,ma soprattutto psicologica. Lo stupro non è soltanto quello dellavittima, l’anestesia non è soltanto quella del testimone diviolenza, ma è quella delle collettività che hanno spesso comeunica via d’uscita una qualche forma di adattamento chepossiamo riconoscere francamente patologico. Secondo problema. Quando le atrocità diventano ordinarie, checosa si produce nella collettività, quali effetti di lunga durata sideterminano? L’ambivalenza (o l’ambiguità) non è solo unconcetto di interesse psicologico o psicanalitico: è un problema dimassa, un problema che deborda ampiamente dal contestoterapeutico. È il problema della collettività, delle sueautorappresentazioni, è la contraddizione che rompecontinuamente gli argini che si vuole dare a questi concetti. In un film che è stato girato un paio di anni fa ad Abidjan daun’etnologa e cineasta, Eliane de Latour, si vede come nella vitadel ghetto di questa metropoli africana tutti partecipano in modocrescente alla logica della sopravvivenza, e coloro che sonomarginali, i giovani, possono esercitarsi all’esercizio dellaviolenza contro i più deboli, contro le donne, non per questodiventando necessariamente cattivi. Persino agli occhi dellevittime essi hanno ragioni da difendere. Il film ha sollevato undibattito feroce perché le femministe a Parigi avevano rifiutatol’idea che la vittima di stupro potesse poi innamorarsi di uno deimembri del gruppo della banda che l’aveva violentata. Nontolleravano questa idea. Ma qui siamo in un contesto - Abidjannon è certo la prigione della tortura in America latina - nel qualel’ambivalenza non costituisce più un’eccezione, è ormai norma.Terzo problema. Abbiamo detto che cosa l’impunità produce neirapporti sociali e qual è l’esito delle memorie traumatiche. Cometrattare queste memorie ferite, queste atrocità? Certo non si puòproporre, qualcuno diceva nei Balcani, una psicoanalisidell’intera popolazione. Che cosa fare? Ecco, un interrogativo chemi ossessiona dal 1993, da quando una paziente mi chiese, inmodo esplicito e diretto: “dottore, lei mi può aiutare adimenticare?”. É un frase che dal 1993 continua ad intrigarmi,perché noi, gli esperti occidentali dello psichismo, siamo pocopropensi ad aiutare a dimenticare, ed ascoltiamo con sospetto talirichieste: che ci appaiono piuttosto un ostacolo alla cura. Unadelle caratteristiche che più ricorrono delle vicende delle vittime

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di tortura che ho conosciuto a Torino è proprio la ricerca distrategie amnesiche, realizzate spesso spontaneamente. Questestrategie individuali sono da un lato in contrasto con il bisogno diuna memoria collettiva, di una coscienza storica che non vuoledimenticare, che non vuole lasciare impuniti i responsabili delleviolenze, e dall’altro paradossalmente in sintonia con quantiinvece pretendono un oblio conciliatorio, in nome di unacomunità che solo in questo modo potrebbe sopravvivere a sestessa. Pongo il problema senza la pretesa di darne qui una soluzione: ilsolo scopo della sua evocazione è mostrare come la memoria delleviolenze, la memoria traumatica, sia costitutivamentedilemmatica. Come nel romanzo di Toni Morrison, di questememorie non si sa che cosa fare, se dimenticarle o riprodurle, selasciarle andare o farne memoriali. Si è presi come in un enigma(sta forse qui il senso dell’espressione “il demone dellamemoria”), sospesi nell’alternativa opprimente e infelice di storieche non si vorrebbe ricordare e tramandare, ma anche nellaconsapevolezza che quelle storie non si possono tralasciare. Inquesto tempo incerto, zombificato, il Sé delle vittime, ma sipotrebbe dire lo stesso dell’intera società, è come dispossessato,incapace tanto di dimenticare quanto di ricordare. Le sole terapieefficaci paiono essere, per quanto questo suoni singolare, quelleche provengono dal discorso religioso delle chiese pentecostali,che non a caso accolgono molte di queste vittime, promettendoloro la salvezza e la guarigione a condizione di dimenticare tutto,di “rompere con il passato” (è questa la frase che campeggia inmolte delle chiese dei Born Again).Un paziente di trent’anni, originario del Congo-Brazzaville, permolti incontri non parlerà mai delle sue esperienze traumatiche,fino a quando si porrà il problema dell’incontro con lacommissione che dovrà valutare la sua richiesta di asilo. È in quelmomento che, per la prima volta, il paziente racconta il seguenteepisodio. Il fratello gemello è stato ucciso in sua presenza - anzilui è stato obbligato ad assistere a questo assassinio atroce: è statoinfilato in un pneumatico di gomma e poi gli hanno dato fuoco.La scelta di chi dovesse morire era motivata unicamente dal fatto

che il fratello gemello era nato un istante prima, e avendo vissutoun po’ di più, era stato scelto come quello destinato a morire…Un’altra donna proveniente dall’Uganda, aveva subito ottoviolenze in due giorni, l’ultima delle quali prodottasi quandoaveva trovato rifugio in una missione. Un’altra donna, daKinshasa, è arrivata in Italia con il pavimento dell’orbitafracassato, l’occhio quasi espulso e, ovviamente, una storia diviolenza sessuale.Tutte e tre queste persone hanno rappresentato per me,rappresentano per me, un enigma nella loro capacità di recupero,in tutti e tre i casi mediata dal ricorso a quella che io definiscocome una strategia amnesica e anestetica di gruppo: quale quellache oggi si persegue, come ho detto, in non poche chiesepentecostali. Questo per me rimane un rompicapo. Ho visto moltedi queste donne ricominciare a vivere un’esistenza normale nelgiro di pochi mesi, proprio a partire dalla frequentazione di questiluoghi di preghiera, e quest’uomo riprendere le proprie energie,trovare un lavoro, ristabilire rapporti dal momento in cui hacominciato a partecipare alle attività di una chiesa africanaindipendente, sempre aggiungendo, alla fine degli incontri: “Oranon penso più a quello che mi è accaduto, sto meglio”.I centri e le comunità di accoglienza dove risiedevano questipazienti erano sbalordite perché queste donne non erano più le“vittime” di qualche mese prima, vittime secondo i canoni dellenostre rappresentazioni. Il fatto di mostrare un rinnovatobenessere dopo quegli eventi, ricorrendo ad una retorica checancella ogni evento passato, interroga due volte i nostri modellidi psichismo e le nostre politiche della memoria: perché questepersone hanno non solo scelto l’oblio delle esperienzetraumatiche di cui erano state vittime, ma spesso anche dellefamiglie, del proprio congiunto, o addirittura dei figli rimasti nelpaese d’origine. Come una cesura, una chirurgia della memoria,che fa problema per più d’una ragione. Si tratta di un dilemmamorale, non solo tecnico e non solo psicoterapeutico, sul quale lecollettività sono “naturalmente” chiamate a riflettere, ainterrogarsi.

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Per quel che mi riguarda, vorrei fare o meglio vorrei continuare afare quello che in linguaggio cinematografico si chiama“controcampo”. Dico “continuare” perché un controcampo è statoappunto iniziato da Beneduce. Siamo partiti tenendo la macchinada presa, se posso usare questa metafora, addosso alla vittimadella tortura, cercando di capire che cosa accade nella sua anima,nella sua psiche. Ho anche molto apprezzato quel che ha dettoAmati Sas. Per quanto utilizzi strumenti conoscitivi diversi daimiei, mi riesce facile tradurre le sue parole in un discorso che miè familiare, cioè in un discorso filosofico politico.Tornando a Beneduce, più di una volta la sua analisi ha compiutoil controcampo cui ho accennato. Ossia, più d’una volta haspostato il suo interesse, e il suo “occhio”, dal torturato altorturatore. Ebbene, vorrei proseguire proprio su questa strada.Il controcampo, dunque, è il movimento con cui la macchina dapresa capovolge il proprio sguardo. In sostanza, il suo occhiomostra al pubblico l’altro lato della scena, fino a quel momentotenuto nascosto. Questo capovolgimento è un’ottima metafora delsenso profondo d’ogni filosofare: non c’è filosofare se non c’ècapovolgimento, se non c’è stupore e ribaltamento, se non c’è unariemersione di domande tenute nascoste. E io credo che unadomanda sempre venga tenuta nascosta, quando si parla ditortura. È il lato del torturato, che di solito si vuole illuminare. Mala domanda che, dal punto di vista filosofico e politico a meinteressa, è quel dell’altro lato, ossia del lato del torturatore. La sipuò esprime molto semplicemente, questa domanda: com’èpossibile che un uomo, non uno psicopatico, un uomo come noi,si lasci convincere a usare violenza, a incrudelire ferocemente suun altro uomo? Oppure anche: com’è possibile che unamoltitudine di uomini normali – ossia non diversi da noi, che neparliamo – consenta o comunque accetti che altri compiano questiatti?Da questa domanda e da questo controcampo qualche anno fa hotratto un libro, intitolato appunto Il silenzio dei persecutori. Levittime, come certo tutti sappiamo, sono ridotte al silenzio,esteriore ed interiore, ma la mia opinione è che il silenzio dellevittime abbia come causa, come presupposto necessario, ilsilenzio dei persecutori o, se volete, degli spettatori. In Massa epotere il grande Elias Canetti dà un ritratto spietato del“moderato”, di chi – dice – ogni mattina apre il giornale, leggecose terribili e crudeli, e si sazia della violenza attuata perinterposta persona, senza dolore ne senso di responsabilità. Noipossiamo aggiungere che oggi è lo spettatore, ossia chi accende iltelevisore, che ogni giorno si sazia di violenza e terrore. Poiché levittime sono “altri”, lontani fisicamente e moralmente, lospettatore si convince di esser buono, e il suo senso diresponsabilità si placa, come sempre accade ai “buoni”.

La nostra domanda qui deve essere: come si può accettare di essertorturatori o di consentire che altri siano torturatori? Certo,possiamo ricordare a questo proposito l’esperimento famoso diMilgram, oppure un altro, meno famoso ma addirittura piùsorprendente, quello di Zimbardo. Nel 1971, lo psicologo socialePhilip Zimbardo raduna un po’ di volontari, e li divide nei dueruoli contrapposti e complementari di guardie e prigionieri. Poidice loro che stanno per partecipare a un esperimento scientifico.Non aggiunge molto altro. Solo, fa vestire una metà da guardie el’altra metà da prigionieri. L’esperimento dovrebbe durare 15giorni: dopo 5 o 6 giorni, lo devono interrompere. Le guardieincrudeliscono tanto sui prigionieri, che procedere sarebbealtamente rischioso, oltre che “immorale”.Erano tutti normali, i volontari di Zimbardo. Come è potutoaccadere? La prima risposta ve la do così, banale e terribile, comece la suggerisce un terribile “autore” di filosofia politica, AdolfHitler. La si legge appunto nel Mein Kampf, libro di cui visconsiglio la lettura, se cercate buona letteratura, ma che viconsiglio di studiare se volete capire quel che dei rapporti politiciben si può chiamare “umano, orridamente umano”. Per due anniai miei studenti ho tenuto un corso dedicato alla lettura e alcommento del Mein Kampf (e facendo un parallelo con alcunitesti elaborati da ambienti della Lega Nord).Nel suo libro, Hitler si pone questa domanda: è possibile, si puòcombattere con la spada il nemico politico? E quando dice:“combattere con la spada”, intende dire: perseguitare, uccidere,sterminare. La risposta è pressappoco: “non si può, se non si faqualcosa”. In tedesco quel: “si può”, suona kann man, che ininglese si potrebbe tradurre “can you”, e in italiano “si è in grado,è possibile, siamo capaci di”. Hitler si risponde che non si può,che non si riesce. Infatti, argomenta, se obbligate i vostri seguacia sterminare e uccidere, strangolare, stuprare il nemico, capitacerto che questi, soprattutto i migliori fra loro, provinocompassione. A quel punto, molti vi abbandoneranno epasseranno dalla parte dei perseguitati. Perciò, se voletesterminare e uccidere, vi dovete assicurare che i vostri seguacinon siano esposti alla compassione. Come ci riuscirete? La risposta di Hitler è semplice, ed hal’ovvietà di quello che ci sta davanti agli occhi, e che noi cirifiutiamo di vedere. La compassione, scrive, si uccideraccontando di continuo ai vostri seguaci una fanatica, assoluta,esclusiva Weltanshauung, una visione del mondo che non siadisposta a venire a patti con nessuna altra. Una visione del mondonon è un’opinione, ma è una narrazione che si pretende assoluta eche ne esclude qualsiasi altra. Quando voi – dice – aveteindottrinato i vostri seguaci, potete fare quello che volete.Torniamo ora a Zimbardo. Che cosa fa, con il suo esperimento?

La tortura come male minoreIntervento di Roberto Escobar

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Dice ai suoi volontari: state lavorando per la scienza, non statecompiendo nulla che sia perverso, semplicemente lavorate per lascienza, non abbiate remore. In tal modo, riproduce in vitro ciòche Hitler produce nella storia. Il risultato, nel caso del nazismo,è stata una carneficina cui ha partecipato un intero popolo, e nonperché fosse quel popolo. Non ci sono popoli immuni, non ci sonoesseri umani immuni dalla distruzione della coscienza e dellaresponsabilità operata dal trionfo narrativo di una dottrinaassoluta, di una Weltanschauung fanatica. La “terribilità” diquesta prospettiva è che chiunque può essere persecutore, anchevoi, addirittura anch’io che vi racconto queste cose.Per non rimanere nel vago, vi leggo poche righe apparse sulCorriere della Sera il primo dicembre del 2003, a testimonianzadel fatto che siamo tutti persecutori. E quando dico “siamo tuttipersecutori”, non intendo stemperare questa mia affermazionenell’indistinto. Scendiamo nei particolari. Il primo dicembre2003, a pagina 5 c’è un’intera pagina dedicata a Nassiriya, aimorti di Nassiriya. Un paragrafo s’intitola “I fermati”. Sono 22righe, 813 caratteri. Li ho contati. “Cinque giorni dopo la stragequattro persone “sospette” sono state fermate dai Carabinieri.Tutte erano perfettamente addestrate a resistere agliinterrogatori”. Si anticipa ciò che poi verrà ripreso nellaconclusione: tutti perfettamente addestrati, sono sospetti, e si diceche sono stati perfettamente addestrati. “Ma è stato solo uno acolpire i militari per la sua determinazione”. Qua si entra nellospecifico. “La procedura seguita dai Carabinieri” - qua c’èappunto una procedura che i Carabinieri seguono per interrogarei sospetti – “è quella imposta dagli Stati Uniti che, alla fine, lihanno presi in consegna”. Ci sono qui una serie d’informazioniche sono sorprendenti. C’è una procedura per interrogarli, che fasospettare qualcosa. Questa procedura non è decisa dall’autoritàitaliana, ma è imposta all’autorità italiana da un altro Stato: gliStati Uniti. “In seguito gli Stati Uniti hanno preso in consegna iquattro sospetti”.Perché mai, se erano sospetti, sono stati consegnati agli StatiUniti? Non è questa una violazione delle leggi italiane? Ma c’èpoi molto di peggio. “I quattro sono rimasti chiusi in cella, albuio, inginocchiati, senza acqua, né cibo…” Voi direte per sei,dodici ore. No, per quattro giorni. Come si può stare quattrogiorni inginocchiati? A parte il buio, la sete, la fame... Qualcunoli deve aver presi a calci, come minimo, per tenerli svegli. Hodunque il sospetto che – a parte la privazione del sonno, che è giàdi per se stessa una forma di tortura – la procedura imposta dagliStati Uniti non sia proprio da “salotto buono”. Ma torniamo all’articolo, in cui si legge che si tratta di “unatecnica che mira a far crollare i prigionieri e spesso li porta aconfessare”. In questo caso, però “non è successo”. Come mai?Torniamo alla curiosa notazione che abbiamo letto qualcheminuto fa: “Tutti erano perfettamente addestrati a resistereall’interrogatorio”. Quel concetto ora viene confermato: nonhanno confessato, ricorrendo a “qualcosa di simileall’autoipnosi”. Vi prego di analizzare i termini: “qualcosa disimile all’autoipnosi”, cioè qualcosa di indeterminato, didemoniaco, che non si sa bene dove serpeggi. “I quattro sospetti

sono riusciti a restare in silenzio, sopportando le privazioni”. Evoi direte a questo punto: li hanno spediti a casa, non essendostato possibile dimostrarne la colpevolezza. Assolutamente no.“Questo ha avvalorato l’ipotesi che possano essere terroristi,addestrati a non parlare in caso di arresto”: così si conclude ilsillogismo riportato dal Corriere. Questa notizia, che trovo scandalosa, è stata pubblicata dal piùgrande giornale italiano. In quanti l’hanno letta? Diciamo chel’avranno letta almeno 5.000 persone? E’ una cifra attendibile, emolto per difetto. Io sono tra quelli che l’hanno letta. L’ha lettaanche Marco Travaglio, che poi ne ha scritto sull’Unità. Nienteinvece mi pare sia stato scritto da altri, su altri giornali. Non holetto niente su questo da nessuna parte. Allora, io e Piero Ignazi(politologo dell’Università di Bologna), abbiamo provato a farneparlare, appunto. Ignazi ne ha scritto a Giuliano Ferrara, che si eratanto distinto a proposito del sospetto di torture in Somalia. Ioinvece ne ho scritto a Mieli, che allora ancora non era tornato alladirezione del Corriere. Nessuno ci ha risposto. Solo la rivista IlMulino ha ospitato un mio piccolo saggio sulla questione, maanche quel saggio non ha avuto quasi seguito. Solo il SenatoreAngius, scoppiato lo scandalo di Abu Ghraib, lo ha utilizzato perun’interpellanza al Ministro dell’epoca. E tutto s’è poi personell’indifferenza.Certo, le righe pubblicate dal Corriere erano sorprendenti.Chiunque le leggesse, qualunque sia la sua appartenenza politica,vorrebbe essere rassicurato, vorrebbe che qualcuno gli dicesse chenulla di quei fatti è accaduto davvero. E se fosse accaduto,vorrebbe che qualcuno provvedesse a punire i responsabili.Niente di tutto questo ci è stato detto, niente è stato fatto. È questo“il silenzio dei persecutori”: è il silenzio che consente aitorturatori di fare il loro lavoro. Non a caso, la prosa e la “logica”dell’articoletto del Corriere seguono un modello antico e bencollaudato. Quel modello, appunto, risale al 1486/1487, e lo sitrova in un testo famoso, e anzi famigerato: il Malleusmaleficarum (Il mantello delle streghe). C’è un passaggio – inquel manuale di procedura penale a uso dell’inquisizione – in cuisi dice che le streghe si debbono dividere in due categorie. Cisono le streghe più deboli, quelle a cui il demonio tiene di meno,e che presto abbandona. Sotto tortura queste streghe confessano:quindi, sono colpevoli. Poi ci sono le altre, quelle che il demonioha care, che il demonio non abbandona, e che sono le responsabilidella stregoneria delle prime. Aiutate e sorrette da satana, questestreghe non confessano, e la loro mancata confessione è la provadel fatto che sono streghe, appunto. In questo circolo viziosocadevano i nostri antenati. In questo circolo vizioso troppo spessocadiamo noi.La domanda è: come mai? Come mai stiamo nel branco eobbediamo a quella che gli stessi autori del Malleus maleficarumchiamano la stregoneria del silenzio? Come può catturarci questastregoneria, non quella delle “streghe”, ma quella che riguardaproprio noi, e che ci impedisce di sentire, vedere, parlare? Hitlerben conosceva la risposta. Ci raccontano, anzi ci raccontiamosempre la stessa storia, unica ed escludente, assoluta eindubitabile. Ce ne riempiamo gli orecchi e le teste. Dunque,

siamo potenziali persecutori. Pensiamo all’11 settembre del 2001. Ricordate quante volte neabbiamo visto le immagini? Non erano proprio gli autoridell’attentato i primi a volere che tutti noi le vedessimo? Maallora, perché l’Occidente ha continuato a mandarle in onda?Forse perché noi stessi ci convincessimo della necessità di“rispondere” al nemico, perché ci convincessimo d’avere il dirittoe anzi proprio il dovere di ucciderlo, di “combatterlo con laspada”.All’inizio del 2005 mi è capitato di leggere un libro di MichaelIgnatieff, intitolato The Lesser Evil (Il male minore). Ignatieff èun liberal (forse, era un liberal) e si domanda: è possibile, èaccettabile, è legittimo ridurre il rispetto dell’altro, il rispettodegli individui (i diritti civili, i diritti politici, la civiltà giuridica)per difendere la nostra sopravvivenza e la nostra democrazia? Secon un po’ di male – non tanto, solo un po’ –, fatto a uno o a pochisospettati, riesco a salvare centinaia o migliaia di persone, perchénon dovrei farlo? In fondo, un male minore impedisce un malemaggiore. E qual è il male davvero maggiore, quello sommo, senon la fine del nostro mondo, e della democrazia? Posta così laquestione è subdola. Ponetela ai passeggeri su un autobus, “luogocomune” in cui è facile sottoporre a verifica la produttività deglislogan politici. La gran maggioranza non avrà dubbi: facciamolo,questo male minore, e non pensiamoci più. Ponetela in una aulauniversitaria. La risposta forse non sarà diversa, e nemmeno saràmolto diversa la maggioranza. Non c’è dubbio, afferma Ignatieff,l’importante è difendere le vite umane. E allora si può ridurre latutela giuridica, si possono ridurre i diritti civili, si possonoridurre i diritti politici. Guantanamo diventa una necessità, nonpiù un orrore incivile e antigiuridico, e del tutto “antioccidentale”.Che danno può venire alla nostra civiltà da qualche forma ditortura non cruenta? Che danno può venirle, per esempio, dallaprivazione del sonno? Così procede l’argomentazionepseudofilosofica di Ignatieff. Il quale poi ci rassicura: che i limiti“minori” del male non siano ecceduti è garantito dal controllosociale dell’opinione pubblica, tipico di ogni democrazia. Cheproprio l’esercizio di quel male, che proprio la riduzione dei diritticivili finisca per indebolire e minare l’opinione pubblica, e conessa la democrazia, che tutto questo apra una prospettivabarbarica non lo preoccupa. Anzi, nel suo libro nemmeno losospetta. Insomma, forse anche i suoi orecchi da (ex) liberal sonostati assordati da quella che ho chiamato congiura del silenzio.Come lui, tutti noi siamo esposti a una narrazione assordante eaccecante ogni giorno disseminata dagli strumenti diinformazione di massa, che tutti insieme sono una enormemacchina della paura. Tutti noi ogni giorno siamo chiamati araccolta, a rinchiuderci in un totalitarismo narrativo e di immagini

che ci rende impermeabili alla compassione, o a quella che AdamSmith chiama simpatia. E la simpatia, come appunto scrive Smith,è la capacità di sentire il dolore dell’altro e di viverlo non inquanto nostro, ma in quanto proprio dell’altro – dice Smith.Ricordate Abu Ghraib? La cosa più terribile e la più sorprendentedi Abu Ghraib sono state le foto di quei due soldati statunitensi,un uomo e una donna che sorridono come per una foto ricordo,con le mani coperte da guanti di lattice verde, al di sopra di unpovero corpo straziato. È il sorriso con i loro denti bianchi che piùmi ha spaventato. E mi hanno spaventato quei loro guanti asettici.Era come se dicessero: il morto è sporco, anzi è lo sporco cheminaccia di contaminarci, e noi siamo i puri che hanno il diritto eil dovere di difendersi. Ed è per questo che ci facciamofotografare mentre facciamo il nostro lavoro, il nostro good job.Un giorno i nostri nipoti ne andranno fieri. O pensiamo che questidue siano mostri, o dobbiamo rassegnarci a pensare che la loro“follia” sia molto, troppo normale. In un grande libro pubblicatonel ’51 e oggi quasi dimenticato, L’uomo in rivolta, Camus scrivepressappoco: “si può uccidere per passione o per ragionamento.L’assassino per passione, in realtà, uccidendo non nega del tuttocolui che uccide, ma in qualche modo lo afferma”. Io uccido te,non posso uccidere un altro. Per paradosso, mentre ti uccido ècome se ti dicessi “tu sei un uomo e hai valore per me, anche sesi tratta di un valore in negativo”. E poi, prosegue Camus, c’èl’altro assassino, quello che si dà ragioni per uccidere, che silegittima al suo gesto invocando una Verità superiore. È quellaVerità che per lui vale come garanzia d’innocenza. Non c’èassassino più crudele e più certo di sé dell’innocente, di chi siaconvinto d’essere al servizio di un Assoluto, che sia un dio, unaclasse, una razza, o magari la democrazia. Innocente è anche l’SSche infierisce senza emozione sui poveri esseri lasciati alla suaquotidiana ferocia. Innocente è, alla fine, il male che è statodefinito radicale, e che di nuovo vediamo all’opera nel nostromondo.Da dove viene il male radicale, se non da un bene radicale, edunque totale e fanatico? Eichmann non era un mostro, e non eraneppure un “uomo cattivo”. Era piuttosto un “uomo buono”, cosìbuono da non sentire e non vedere più il dolore degli altri. I duemilitari statunitensi con i guanti di lattice verde pallido sono certobuoni, anche loro. Se non fossero buoni, non si farebberofotografare felici e sereni, dopo aver fatto a good job, un buonlavoro. Ciò che davvero dobbiamo mettere in discussione, è lanostra convinzione profonda che siamo dalla parte del bene e cheaddirittura esista un bene. Non c’è niente di più omicida del bene.Il male non è che l’ombra del bene. E’ la sua altra parte, il suocontrocampo.

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INTERVENTO dal PUBBLICO: Vorrei ringraziarvi, i vostriinterventi sono stati molto interessanti. Volevo chiedere un parere[…]. La violenza strutturale, mi fa pensare al Sudafrica […], aduna violenza strutturale che dura da più di un secolo […]. Volevoun’opinione sulla questione della “riconciliazione” […]. Levittime hanno dovuto rivivere davanti a una commissione letorture subite. Davanti ad un interlocutore che li guardava - leproprie umiliazioni, la propria debolezza -, davanti al torturatore.E alla fine la cosa si è conclusa con una reiterazione del rapportodi dominio tra torturatore e vittima. La vittima è stata cosìumiliata davanti al pubblico, ha perso la propria identità sociale[…]. Il torturatore non è stato perseguito […] anzi, ha anchepotuto raccontare come la vittima gli parlava e lo pregava dismettere. Secondo me questo genere di “riconciliazione”, chenella nostra realtà europea è tanto “bella e buona”, è stata unoscandalo. Siamo tutti colpevoli. Secondo me, anche stare qui […]è collegato alla violenza. Cosa ne pensate?

R. BENEDUCE: Innanzitutto parto con un’immagine chesembra distante. Un articolo di Feldman prende in esamel’episodio di Los Angeles, quando dei poliziotti che picchiano unuomo di colore vengono ripresi da un videoamatore. Inquell’articolo Feldman proponeva il concetto di “anestesiaculturale” - questa incredibile metamorfosi del caso che diventa apoco, a poco, nel corso del processo, da prova della violenza deipoliziotti ingiustificata e gratuita, un documento sempre piùsegmentato, sino a diventare prova a difesa dei poliziotti. Perchédell’uomo di colore che si dibatte, i poliziotti dicono: “vedete, luista resistendo, per cui la nostra violenza si giustifica con il fattoche questa persona sta opponendo resistenza”. Lo stessoparadossale fenomeno si sta riproducendo da qualche tempoanche in Italia: le immagini della violenza incontrano un singolareprocesso di anestesia collettiva…

R. ESCOBAR: E’ successo anche in Italia, in un paesedell’Emilia.

R. BENEDUCE: Perfetto, e anche qui la vittima di violenza staopponendo resistenza. Questa immagine ci serve per far capireche la tecnica è sempre al servizio della violenza. Franz Fanondiceva: “l’oggettività si rivolge sempre contro gli indigeni”. È unafrase di una forza e di una semplicità radicale. Ogni volta che cisono tribunali internazionali, state pur sicuri che per Milosevicche alla fine viene condannato, ci sono moltissimi che riescono atrovare una via d’uscita. È incredibile: l’oggettività, la tecnica…paradossalmente producono degli effetti perversi.Questo è un enigma sul quale riflettere… c’è da diventarepessimisti. È come se lo stesso strumento deumanizzando,oggettivando, finisse col creare i presupposti per il ripetersi di unaviolenza. A partire da questo, recupero queste tue impressioni,perché in effetti il dramma della interiorizzazione era già stato

individuato 50 anni fa da Franz Fanon, il quale diceva: ci stiamouccidendo fra noi, nelle società africane ci stiamo uccidendo franoi. Oggi non abbiamo più il colono come nemico, ma stiamoormai rovesciando la violenza nei confronti del vicino. Perché laviolenza purtroppo non è improduttiva. Abbiamo la riflessione diFoucault che ci dice che il potere […], e con esso la violenza,determina comportamenti, si rigenera, cambia forma e quindi nonpuò essere delimitato e circoscritto. In Sudafrica è accaduto qualcosa di estremamente interessanteanche sul piano della dimensione etnico-culturale. È un esempioche io faccio spesso perché è eloquente. Nel paese della apartheidnon ci si poteva immaginare una retorica dell’unità e dellaindifferenza etnica. Invece dopo l’apartheid c’è stato ilriaffermarsi delle differenze etniche più esasperato quale mai sipoteva immaginare, nemmeno nel regime coloniale. Inoltre sonoritornate nei verdetti dei tribunali frasi che hanno lasciatoimbarazzati gli antropologi: nei confronti di un omicidio di unvicino la persona accusata ha detto: “io non ho sparato al miovicino, ho sparato a un pipistrello, perché questo vicino è unostregone e io ho sparato ad uno stregone”. Allora il tribunale, dopoaverlo condannato all’ergastolo, ha recuperato il concetto dicredenza per dire: questa persona aveva buoni motivi percommettere l’omicidio. E’ come se nel sud dell’Italia siutilizzasse il concetto di “delitto passionale”, tanto per fare unesempio. Dato che quest’uomo aveva buone ragioni culturali peruccidere il vicino, la pena – processo del 1996 – è stataridimensionata dall’ergastolo ad un anno. Infatti, in un articolointeressante si parla di rational man versus cultural man. Inquesto senso il diritto è tessuto vivo, eloquente di questemetamorfosi e di questi paradossi. Perché dico questo? Perché il problema della violenza nondobbiamo immaginarlo, come giustamente diceva Escobar,facilmente espellibile e quindi circoscrivibile. È questo l’enigmacon il quale senza pudore dobbiamo misurarci. Ci afferra allespalle, come il vento, ci prende alla schiena. Ma ricordate leimmagini che mostravano il soldato italiano in Iraq che diceva:“dai, annichiliscilo”? Erano da brivido, io non so quanti sianosaltati sul divano vedendo quelle immagini, vedendo i nostrisoldati che giocano come se fossero in un luna park.Questo significa che la violenza è nella nostra schiena, non cirisparmia. È questo il dato, ed è un dato che si può - per esempiose parliamo della violenza di genere - riprendere da un altro puntodi vista. […] Per esempio, io che lavoro sui casi di violenza e distupro, quando mi pongo il problema di genere, vi assicuro che misento assediato due volte perché io stesso riconosco la miacondizione di genere. È la paziente che ho di fronte che me loricorda. Io non posso fingere di essere il buono, che si tira fuori eche dice: sono innocente, sono solo i cattivi gli stupratori. Capitecosa voglio dire? Allora la violenza interiorizzata è il problema politico, è ilproblema psicologico, è il problema morale. È il problema che

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lascia senza strumenti, perché i miei amici psicologi in Palestinanon sanno come reagire se non invocando la categoria di post-traumatic stress disorder. È un’oggettivazione massiccia, che liporta a non parlare più di una violenza che ormai è dentro lefamiglie, dentro i rapporti coniugali… essi non riescono adassumere questo dato. Perché? Perché molte delle persone colpiteda disturbi sono probabilmente persone che esercitano violenza, omeglio, fanno parte comunque di un “noi” che esercita violenza,che ha utilizzato la violenza subita per perpetrarla. E’ un qualcosadi mostruoso.Altro aspetto: la questione della memoria. Noi dicevamo primacome si possa trattare, perché in Sudafrica c’è questo problema.Io credo che l’unica cosa buona che si sia riusciti a fare dopoAuschwitz è il non smettere di parlarne. L’unica cosa positiva chesiamo riusciti a produrre. L’unica. Il problema è quando c’è unavolontà di oblio - non dell’individuo, l’individuo ha il diritto didimenticare - ma il fatto che la collettività voglia talvolta disfarsidei problemi, e che spesso i tribunali di riconciliazione sono unaporta a questo genere di dinamiche. Il problema non sono nel’individuo, ne la famiglia, ne la vittima. Loro hanno ben diritto dichiedere una “protesi amnesica”. Dobbiamo persino pensare chesia terapeutica. Ma se le istituzioni e le collettività dicono:riconciliamoci, credo che ci sia lì il germe di quel cinismo di cuiparlava prima Escobar. Allora è questo forse il piano sul qualelavorare: mai cedere alla tentazione di oblio delle istituzioni; maicedere all’istituzione dell’oblio collettivo. Mai cedere allafascinazione della riconciliazione, perché la sopravvivenza di unacerta conflittualità è l’unico antidoto rispetto all’anestesia. La conflittualità deve rimanere, altrimenti diventiamo noi stessiperpetratori potenziali di violenza. A leggerla storicamente, lavicenda del Ruanda… mi arresto subito perché non c’è più tempo.

S. AMATI SAS: In riferimento all’ambiguità voglio dire che essacorrisponde ad un meccanismo di difesa che esiste in ognuno dinoi, il quale consiste nel fare “come se non si vedesse” o non sisentisse, nell’adeguarsi alle cose come si presentano, onell’offuscare i sentimenti difficili. Tuttavia trovo che certi tipi diambiguità non siano accettabili: per esempio, il conformismo cheabbiamo verso la violenza delle istituzioni e della culturatecnologica alla quale ci siamo abituati sempre di più. Vi ringrazio moltissimo e vi saluto (esce).

R. BENEDUCE: Venendo a Milano mi ero portato un volumettoche mi aveva regalato un amico medico che si occupa diimmigrati e con il quale lavoro spesso. E’ il libro di Pietro VerriOsservazioni sulla tortura. Leggendolo è bellissimo notare cometanto tempo fa (lui chiaramente scriveva contro la tortura) iproblemi fossero posti negli stessi termini di adesso. Il padre delVerri sosteneva (sarebbe interessante dal punto di vistapsicanalitico indagare perché il figlio si oppone al padre) che latortura è necessaria quando non è possibile conoscere la verità inaltro modo, quando il delitto che si attribuisce all’imputato èparticolarmente grave, oppure quando si rende necessarial’urgenza del giudizio. […] Il caso che prende in esame è

l’equivalente di allora dell’11 settembre, ovvero […] la peste aMilano e la questione degli untori, caso sociale del ‘600, presocome exemplum dal giurista per dire che la tortura non ammettegiustificazioni. È interessante: noi dopo due secoli ci ritroviamocon gli stessi enigmi morali e quindi la dice lunga, questo, sullafragilità delle nostre democrazie.

R. ESCOBAR: Pensate che i due autori del Malleus maleficarumscrivono che nelle questioni di fede si deve procederespeditamente. E’ l’urgenza.

R. BENEDUCE: Esatto, ovvero lo stesso concetto di assediodi… “stato d’eccezione”. E’ lo stesso, ovvero l’eccezione è lacondizione che può giustificare nelle nostre democrazie ciò chepensavamo scomparso. Quindi non dimenticare diventaveramente il nostro imperativo. Occorrerebbe veramente creare,non tanto il museo della memoria per un fatto specifico, ma unmuseo della memoria continuo di questi microframmenti diviolenza che appaiono ormai ovvi, perché ci riguardano troppo davicino, e di conseguenza riusciamo a malapena a evocarli. E’chiaro che nessuno legge dai quotidiani certi articoli, ancheperché farlo significherebbe aprire delle lacerazioni insostenibili.

R. ESCOBAR: Il problema secondo me è che li leggono, ma nonli commentano. Negli scorsi anni, un piccolo movimento privo dicultura politica, la Lega Nord, è riuscito a produrre un linguaggiocondiviso, ed a un certo punto della sua storia lo ha fattoattraverso strumenti potenti come la televisione, in una famosatrasmissione di Gad Lerner. Così per quel movimento latelevisione era diventata un volano potente, capace di distribuireparole, di farle diventare egemoni anche al di fuori delmovimento, e anche oltre i confini della destra razzista. Sonodiventate, quelle parole, un veleno che ha conquistato il discorsopubblico nella sua generalità, e che ha dettato l’agenda politica diquasi tutti i partiti (per quanto, certo, in misura diversa). Un soloesempio: sulle pagine dei nostri giornali e nei titoli del nostritelegiornali l’immigrazione è diventata ad un certo punto “laquestione immigrazione”. Perché non “l’opportunitàimmigrazione”? Perché nel nostro linguaggio diffuso il giudizioera già dato: l’immigrato è un problema, è un criminale? Comestupirsi che a questa egemonia linguistica sia seguita un’analogaegemonia politica? Certo, il potere produce linguaggio. Ma iocredo che valga anche l’inverso: il linguaggio produce potere. Chiriesce a controllare le nostre parole, controlla anche le nostrescelte, ed i nostri voti.

R. BENEDUCE: Un consigliere di Hitler diceva: non dire bugie,ma mezze verità. Questo è il segreto del potere. La stessaquestione era oggetto di riflessione da parte di un compagno dipsichiatria democratica, il quale diceva: “certo questi immigratisull’Arno, mi fanno paura per mia figlia”. […] Allora mi sonodetto, se lo dice lui, vuol dire che c’è, da qualche parte, unsegmento che diventa per un giornalista o un politico, unsegmento di paura […] sul quale costruire la carriera e l’esercizio

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del potere. Quindi il problema è cercare anche di andare al di làdella semplice negazione del problema, ma capire come questosia stato utilizzato e messo al servizio di un preciso stratagemmapolitico, altrimenti non se ne viene a capo.

INTERVENTO dal PUBBLICO: Volevo fare una domanda aproposito della giornata della memoria dell’Olocausto. […]Quello che in sostanza volevo dire è che va bene parlarne, ma michiedo come mai non vengano ricordati anche tutti gli altrigenocidi che sono stati perpetuati.

R. ESCOBAR: Lei ha usato l’espressione “olocausto” chesignifica “sacrificio espiatorio” e che è una deformazione dellamemoria. Io uso il termine “sterminio”. L’olocausto dà senso aquel fatto. Non a caso, e come Hannah Arendt ci ha insegnato, lostesso processo a Eichmann è stato finalizzato a trovarlo, quelsenso, e dunque a fondare uno stato. Eppure io continuo a pensareche se noi ricordiamo lo sterminio come olocausto, e comeolocausto lo celebriamo, quel fatto terribile diventa unico, e nellamostruosità dell’accadimento storico finisce per iscriversi in unasorta di destino. Ma così se ne depotenzia l’assurdo, e si finisceparadossalmente per dimenticarlo. Io invece penso chel’uccisione di milioni di persone sia del tutto vuota di senso.Importante mi sembra piuttosto porsi questa domanda: perché èaccaduta, questa cosa che non ha senso? Questo è per me“memoria”, questo sempre rinnovato stupore di fronte

all’insensato.

R. BENEDUCE: Con la sua domanda ha fatto intendere che c’èun grande dibattito sul riconoscimento del genocidio perpetrato adanno di altre comunità. E’ una partita che rimane aperta, nessunosi occupa dei 400.000/500.000 morti a Jakarta: mezzo milione dicomunisti fatti fuori sembrano poco importanti. Il problema èsicuramente due volte perverso, non solo per quello che dicevaprima Roberto Escobar, ma anche perché su questa memoria nonpossiamo evitare di dire che qualcuno ha costruito delle carriere.Anche un ebreo che aveva vinto il premio per la letteraturasosteneva che l’Olocausto viene continuamente utilizzato emanipolato. Perché nella comunità ebraica se tu ti affranchi soloper un giorno da questo obbligo di memoria, rischi tutto. Questoè un dramma fra i drammi. Diciamo la verità: la memoria diqueste violenze è, da qualunque punto di vista si voglia porre ilproblema, un dramma, un enigma, è qualcosa che rompe. Èpazzesco. E’ un po’ quello che si diceva a proposito dei morti inRuanda. Delle ossa dei 30.000 hutu non si ha memoria. Ciò èdrammatico, è cinico, ma è questa la politica dell’uomo, e nellaquale siamo immersi. Amselle ha osato dire che il genocidioebraico ha fondato lo stato ebraico. E’ stato uno dei pochissimi adaverne il coraggio. Egli non lo dice per banalizzare, ma lo dice intermini “oggettivi” per dire come sono manipolate anche lememorie delle atrocità.

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1. Luoghi Comuni

Roots sempre più coinvolte in routes1: radici mutanti in percorsientro un mondo dove I frutti puri, si sa, impazziscono2. Leidentità, migrando, si rifondano legandosi ad altre a loro voltaindotte a riplasmarsi: anche attraverso i media moderni. LeComunità infatti sono reali anche se immaginate3 nel ritoquotidiano della lettura dei giornali, che ha permesso "a unnumero sempre crescente di persone di pensare a sé, e di porsi inrelazione ad altri, in modi profondamente nuovi"4.Alla nota complessità di queste e altre considerazioni attorno alrapporto, epocale, tra media e migrazioni sembra contrapporsi lalettura semplificata del "caso" Italia/Albania. Si tratta di un filoneargomentativo che individua nel sistema mediatico la mollaprincipale che avrebbe fatto scattare oltre Adriatico ilmeccanismo della migrazione, essenzialmente causata dallavoglia di realizzare il "sogno italiano", creato ed alimentato dallatelevisione e dalle radio italiane. La loro fruizione, autorizzata nelpaese delle aquile solo dopo il crollo del regime di Enver Hoxhama già in precedenza praticata clandestinamente, ha diffusoimmagini e suoni che ritraevano una società caratterizzata dalbenessere, ha "incantato" la popolazione albanese abituata ad untenore di vita molto basso e infine l'ha spinta a migrare versoquesti "luoghi da sogno"5. Difficile non percepire lo scarto tra ilcarattere univoco di questa lettura e l'imprevedibilità dell'agire,del pensare, del relazionarsi degli uomini.Principale veicolo del ruolo decisivo che a riguardo avrebberoappunto svolto radio e televisione sono stati indubbiamente igiornali: con una saldatura del cerchio mediatico che accentua ladiffusione della tesi assai più che dimostrarne la validità.Sul Corriere della Sera del 17 marzo 1997 il presidente delConsiglio dei Ministri del tempo, Prodi, sosteneva: "Tv e giornali

possono avere un ruolo enorme per il grande ascolto che hanno aldi là del mare. Vi chiedo di non essere né sensazionalistici, néaccomodanti."Su La Repubblica del 5 aprile 1997, Bolaffi scrive: "Latelevisione, forse, è la vera piaga della tragedia albanese. Il fruttoavvelenato del primo dono concesso dal ricco Occidentetrasformatosi, d'improvviso, nel deus ex machina di eventi chehanno pochi eguali nella pur tribolatissima storiadell'immigrazione moderna".Luoghi comuni: come sempre indicatori preziosi quantonecessitanti di approfondimento. Così come "luogo comune" è insenso proprio il mare Adriatico, spazio referente e cifra delPortolano che spero possa legittimare questo coup de sonde, piùinterrogante che conclusivo. Nell'auspicio appunto che altrevoci vorranno interloquire sugli stessi temi tracciando nuoviitinerari di dialogo. Ovviamente fondamentale è il diretto "puntodi vista" albanese la cui conoscenza, purtroppo, è in Italia quasicompletamente da costruire. Tanto da risultar utili, in proposito,anche le schegge d'informazione poco più che aneddotiche. A noi in Italia, dopo il Festival di Sanremo del 1970, rimaseignoto che la larghissima diffusione in Albania di Chi nonlavora non fa l'amore obbligò il regime a convocare "nei suoiuffici centrali i dirigenti della macchina mediatica con l'ordinepreciso di dichiarare guerra alla canzone di Celentano [che]rendeva un grande servigio alla borghesia del suo paesefavorendo lo sfruttamento dei lavoratori. Celentano era unantirivoluzionario"6."E Voi - chiede Ilir Mati, allora ingegnere e sommergibilista -sapete che eravate presenti anche nei nostri lunghissimi discorsisulla libertà dentro un sommergibile albanese, mentre spiavamole vostre coste, e osservavamo i nostri nemici sdraiati a prendere

I quotidiani italiani raccontano l’Albania Le migrazioni albanesi del 1997 nella cronaca nazionale

di Vania Bovino

Il contributo di Vania Bovino è una ideale continuazione dell'articolo di Federico Boni e Oscar Ricci "Rappresentazioni del dolore.Immagini dei profughi nella narrazione mediale della guerra nel Kosovo" apparso in Achab IX. In entrambe queste ricerche, una

selezione cronologica e tematica di testi di quotidiani italiani viene analizzata per evidenziare i processi di rappresentazione disoggetti "altri" (gli albanesi, i serbi, i rifugiati kossovari). Questo tipo di ricerche si sviluppa a partire dall'ipotesi che i media sonoattori influenti nel riconoscere legittimità ad alcune rappresentazioni a discapito di altre. Oltre all'analisi dei contenuti, l'etnografia,i cultural studies e la semiotica hanno valorizzato in questi ultimi anni la dimensione delle pratiche di lettura e delle dinamiche didistribuzione all'interno dei vari contesti sociali. Il riferimento di Appadurai all'ironia e alla selettività nella chiusura del presentearticolo è un esempio di come si possono intendere le pratiche di uso dei media. Con questi contributi la redazione incoraggia laproposta di ricerche e articoli che approfondiscano le diverse possibilità metodologiche di uno studio etnografico dei media.

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il sole lungo le spiagge, con bellissime ragazze in bikini?"7.E' appunto alla luce di tali diverse suggestioni e valutazioni chepongo sullo sfondo della mia ricerca la tematica relativaall'incidenza della stampa, e più latamente del sistemamediatico, nella costruzione dell'immaginario e dell'universosimbolico, culturale e sociale degli individui e delle comunità.Al centro invece colloco l'analisi qualitativa di quattro tra leprincipali testate giornalistiche italiane (Corriere della Sera, IlSole 24 Ore, La Repubblica ed il manifesto) osservaterelativamente alle posizioni che si trovarono ad assumereattorno al fenomeno migratorio dall'Albania nel marzo-aprile1997.Trasversali infine considero varie coordinate metodologichesoprattutto interessate a superare il carattere necessario edineluttabile delle interpretazioni che vedono nell'azione deimedia il principale fattore, se non il solo, in grado dideterminare il modo di vedere noi stessi, il mondo che cicirconda e soprattutto gli "altri".

Costruire il caso

Nei primi giorni di marzo i quattro quotidiani esaminaticondividono una massiccia attenzione alle vicende albanesi:informano attorno alla situazione di dissesto economico, socialee politico che l'Albania affronta in quei giorni e, insieme,costruiscono un "caso giornalistico". Tra il gennaio e il febbraiodel 1997, sarà qui appena il caso di ricordare, l'Albania avevasubito una gravissima crisi economica, causata dal crack dellepiramidi finanziarie, cui erano seguite grandi manifestazioni dipiazza contro il governo Berisha e la creazione in alcuneimportanti città del Sud di amministrazioni autonome. Corollariimmediati di questi eventi furono la repressione con l'usodell'esercito e la ripresa del fenomeno migratorio verso l'Italia ela Grecia.Ampia la copertura giornalistica di queste vicende: ai titoli ditesta seguono servizi di inviati sul posto, editoriali, foto ecartine, intere rubriche di cronaca. Si adottano inoltre precisestrategie retoriche, stilistiche, grafiche e narrative: titoli su piùcolonne, riquadri accattivanti, fotografie che corredano lenotizie con un'informazione di tipo visuale. I titoli fanno leva,con Proietti8, sull'aspetto perlocutorio dell'informazione, ossiasu quegli elementi che tendono a creare un effetto sul lettore, perconvincerlo, commuoverlo, spiazzarlo. Da qui locuzioni come"stato d'emergenza" (Corriere della Sera) o "stato d'assedio"(La Repubblica) e anche termini come "crollo" (La Repubblica)o "bomba" (il manifesto) e ancora "collasso" (Il Sole 24 Ore).L'Albania è unanimamente rappresentata come in preda a unaguerra civile, con la popolazione divisa fra fazioni che sicombattono a colpi di Kalashnikov. Coloriture ricorrenti delquadro le comparazioni d'effetto: "Tirana 13 marzo: è la Saigond'Europa" (Corriere della sera, 14 marzo), "Fuga da Tirana,nuova Saigon" (Il Sole 24 Ore, 14 marzo), "Saranda, la Beirutd'Europa" (Corriere della Sera, 17 marzo).Dove non si ritrovano riferimenti puntuali all'idea di guerracivile il carattere drammatico della situazione viene

comunque reso attraverso la sottolineatura dell'uso delle armida parte della popolazione civile ed al clima di violenzaprodotto da un tale uso indiscriminato. Secondo una strategiache dalle prime pagine si estende anche a titoli e contenutidegli articoli di cronaca delle pagine interne, alle vignetteumoristiche e, soprattutto, al corredo fotografico:particolarmente importante, quest'ultimo, nello stile dicomunicazione adottato da il manifesto. Il 5 marzo l'aperturadel quotidiano comunista ritrae un carro armato ed il titolocommenta ironicamente "il carro armato ha sempre ragione".Nelle pagine interne appare una serie di uomini che ostentanoarmi sparando in aria mentre il resto della popolazioneacclama. Il 9 marzo è in prima pagina un civile che manovrauna grossa mitragliatrice: accanto una sequenza di foto chealternano immagini di bambini per le strade ad immagini dialtri civili armati di mitra. Tutte collegate al titolo "la bombaAlbania".È possibile operare due letture diverse di queste "notiziefotografiche": individuano infatti, secondo la linea editoriale"militante" de il manifesto, una denuncia per una situazione didisagio che porta la popolazione ad imbracciare le armi. Maanche lasciano intendere che sono le armi nelle mani dellapopolazione a creare il disagio sociale di cui è vittima lanazione.Per espugnare l'assolutezza della convinzione di trovarsidavvero davanti a una guerra civile occorre valersi diinformazioni esterne al nostro quadrilatero di quotidiani.Come quelle, su Limes, proposte da Gorgoni: "Le vittime sono poche e per la maggior parte casuali. Salvoqualche regolamento di conti tra bande di delinquenti, i mortie i feriti si devono a proiettili vaganti e all'uso maldestro diarmi ed esplosivi. I media occidentali che gridano alla guerracivile vengono smentiti dall'esasperante lentezza dell'avviodel conflitto annunciato. Più la televisione trasmette immaginibellicose e più, nei fatti, le profezie di imminente confrontomilitare cadono nel nulla"9.

Una folla

La centralità della convinzione/costruzione di una Albania"incontrollabile" non si identifica unicamente con la "guerracivile". Forte è anche la chiamata in causa della criminalità:"comune" e strutturata in "associazioni a delinquere". Ora l'una,ora l'altra, ora tutte e due insieme costituiscono il fulcro di unsecondo tipo di rappresentazione.Nella prima metà del mese di marzo escono articoli che dannoparticolare rilievo ad atti drammatici, violenti e soprattuttoillegali compiuti dalla popolazioni. Con ricostruzioni di interegiornate realizzate come un catalogo degli atti di vandalismo edegli attentati incendiari o anche dei furti compiuti dallapopolazione civile negli edifici pubblici e privati, o ancora degliassalti alle caserme, alle carceri ed ai depositi di armi. Altriancora fanno il punto sugli omicidi o i ferimenti. Da LaRepubblica del 5 marzo:"Ormai non c'è più legge che tenga, chi ha a Valona una pistola,

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un fucile, un Kalashnikov, e spesso sono solo ragazzini, si senteautorizzato a compiere ogni sorta di nefandezza. Come quelgruppo di una decina di persone che ieri, pistole in pugno, hannofatto irruzione nell'ospedale di Valona, saccheggiando le scortedi viveri ed entrando perfino in sala operatoria per finire a colpidi revolver un ferito proprio mentre un chirurgo tentava diricucirgli la pancia."Si punta a costruire una immagine delle proteste comemomenti di esplosione della rabbia e della disperazione di unamoltitudine ribelle incapace di controllare e gestire i proprisentimenti e le proprie azioni, che travolge cose e persone eche annulla qualsiasi possibilità di autonomia e autocontrolloindividuale. Mettendo in continuo pericolo l'ordine pubblico,la legalità, la proprietà pubblica e privata, la salute, la vita.Si tratta - come richiama Vehibu - della utilizzazione del mitodella folla", ossia di quel pensiero che interpreta le moltitudininon più come "assemblee di individui autosufficienti, ma comemassa primordiale, ubbidiente ai suoi istinti e ai suoi ritmioscuri"10.Gli albanesi descritti dai quotidiani sono una folla "che sembraappartenere ad un ordine diverso dell'essere, che tiene iscritto sulproprio codice genetico una capacità distruttiva intrinseca"11.Per Vehibu questa ideologia è stata utilizzata per colpire il lettoreoccidentale in quanto "le società occidentali non sonostrutturalmente attrezzate per gestire una relazione con follepersistenti. Quegli stessi riti comuni di celebrazioni e festività,manifestazioni e cortei, traffici di ferragosto e shopping natalizio,partite allo stadio e concerti rock ecc. - parte integrale della vitasociale quotidiana - sono costruite sull'idea di un limite temporale,nell'attesa della dispersione della folla, della sua trasformazionein individui. Con gli albanesi ciò non è avvenuto"12.Gli albanesi che protestano, che partono dall'Albania sulle navi earrivano nei porti italiani sono raccontati come folla,categorizzante l'individuo in una definizione univoca che inglobal'individualità fino a distruggerla. E questi racconti dell'essere-folla, assumono allo stesso tempo i caratteri della grandiosità edella drammaticità. L'obiettivo è quello di impressionare il lettore,insistendo anche sulla continua infrazione della legalità esull'assenza di un'autorità che faccia rispettare le leggi, e più ingenerale sull'incapacità da parte della popolazione di rispettareuna serie di principi postulati come fondamentali per l'esistenza diuna società "civile". Inevitabile, di conseguenza, la comparazionetra un "noi-civili", che accomuna lettori e giornalisti, ed un "loro-albanesi" descritti come moltitudine irrazionale, primordiale ecriminale e quindi estranea a questa idea di civiltà.Altri articoli hanno come elemento centrale gli affari delle"associazioni a delinquere": descritti come una fetta sempre piùconsistente e caratterizzante dell'economia albanese a partiredagli anni Novanta. Alle descrizioni di un'Albania in preda aldissesto economico, politico e sociale viene quindi affiancato ilracconto di come anche in condizioni di normalità gran partedell'economia locale sia contaminata dai profitti provenienti daattività della malavita: traffico di armi, di droga, di uomini,prostituzione, riciclaggio del danaro sporco, contrabbando di

sigarette. Tutto, quasi sempre, formulato attraverso dichiarazionidi esperti del settore antimafia italiano, che descrivono l'Albaniacome luogo prescelto dalle varie mafie (anche italiane einternazionali) per l'organizzazione e lo sviluppo dei propricommerci. Anche in questo caso ritroviamo una sostanzialeomogeneità delle testate.Il Corriere della Sera del 5 marzo dedica un'intera pagina alledichiarazioni del procuratore nazionale antimafia Vigna,completate da una intervista al giudice Fernando Imposimato,esperto di criminalità organizzata."IMPOSIMATO: FACCIAMO ATTENZIONE PUÒDIVENTARE LA NOSTRA COLOMBIA"La similitudine Albania-Colombia appare anche ne il manifestodel 4 marzo:"Crocicchio di tutte le mafie - a cui gli albanesi forniscono servizipregiati come l'immigrazione clandestina - l'Albania, oggiproduttore di marijuana, produrrà coca".Alle organizzazioni criminali viene attribuita anche laresponsabilità di reggere le fila della protesta, di fomentare ocreare direttamente gli scontri tra la popolazione ed il governo,con la finalità di accrescere il proprio potere fino a diventarel'unica "istituzione" in grado di imporre una sorta di ordinepubblico, o semplicemente per poter alimentare uno dei businesspiù redditizi: quello dei viaggi illegali di persone e di drogaattraverso l'Adriatico. Si veda La Repubblica del 2 marzo :"I mafiosi avevano avvertito Berisha: 'Ridacci i soldi, o ti mettiamo su un casino dal quale non usciraiindenne' QUELLA CITTA' RIBELLE DOVE COMANDANO IDURILe perdite erano superiori ai 700 miliardi."Il contenuto e soprattutto il tono dell'articolo trasmettono il sensodi gravità della situazione albanese. Se da un lato vienerappresentata una situazione economicamente disastrata esocialmente pericolosa, per cui può essere comprensibile econdivisibile la scelta di voler migrare, dall'altro si insiste nelmostrare come tale scelta sia fortemente influenzata dagliinteressi della criminalità organizzata.

Ondata inarrestabile

Nella seconda metà di marzo, il già alto livello di attenzione versol'Albania "violenta e illegale" diviene, con l'informazionegiornalistica, un vero allarme nazionale.Acquistano ora grande evidenza le previsioni numeriche, ingenti,sulla quantità di popolazione albanese che deciderà di partireverso l'Italia. Si analizza inoltre il rapporto che i migrantipotrebbero avere con la criminalità, che fornisce loro i mezzi peri viaggi e li assolda per attività illecite una volta entrati in Italia.Infine grande rilievo viene dato alla problematica giuridico-istituzionale e morale dell'accoglienza, relativa alla difficoltà daparte dello Stato italiano di conciliare il dovere di asilo, sancito daalcuni trattati internazionali, e invocato dall'anima cattolica e laicadel volontariato e dell'associazionismo, con la necessità diregolamentare l'immigrazione straniera secondo la vigente legge

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sull'immigrazione14 e secondo quanto richiesto dalle aree politichepiù nazionaliste e xenofobe.Nei giorni seguenti agli sbarchi, la presenza di una componentecriminale da individuare e isolare rispetto al resto dellapopolazione albanese arrivata in Italia, diviene uno dei punticentrali delle analisi della stampa. La distinzione "buoni/cattivi"individua anche uno degli obiettivi principali del governo italianoche ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale - il 20 marzo -e ha varato una serie di provvedimenti per il blocco dei flussimigratori e il rimpatrio di quelle persone considerate soggettipericolosi per l'ordine pubblico15.Il Corriere della Sera, il 18 marzo, riporta:"Quasi settemila i profughi arrivati. ALLARME PROFUGHI,ITALIA DIVISA. Scatta l'emergenza criminalità, decine dicasi sospetti. Il Super procuratore Vigna: ora c'è il pericolo diun'invasione della mala. Il governo l'accoglienza continua masolo per i più bisognosi, non per chi crea problemi. Borghezio:pronte le ronde padane. L'allarme del procuratore capo dellaDIA. VIGNA: MASSIMA ALLERTA CONTRO IL RISCHIODI UN' "INVASIONE CRIMINALE"Il Corriere della Sera utilizza l'intervista a Vigna persostenere l'idea della "invasione criminale", che per ora hasolo consistenza mediatica: nessuno dei profughi giunti inItalia è stato ancora ritenuto colpevole di una qualcheviolazione delle leggi italiane. Contemporaneamente,l'intervista crea una distanza da questa idea attribuendola aVigna. Il Corriere della Sera costruisce poi una vera e propria"arena": dove diverse personalità esprimono il loro giudizio inproposito. Il 20 marzo appare una intervista all'arcivescovo diBrindisi: "MA QUALI CRIMINALI IN FUGA. NOI SIAMO PEGGIODI LORO"Il 23: "Parla il presidente dell'antimafia: DEL TURCOATTACCA VIGNA: MA QUALE CONGIURA MAFIOSA, ÈL'ESODO DI UNA NAZIONE ESPLOSA"Il 24: "La polemica: VIGNA A DEL TURCO: "SÌ, LA CRIMINALITÀSI È INFILTRATA"Il 27: "il comunista vice della commissione: VENDOLA:SBARCHI DI MAFIA INVENZIONE DA FUMETTO "Il 28: "l'intervista: da Lecce Monsignor Ruppi replica alpresidente dell'antimafia: IL VESCOVO: DEL TURCO MALEINFORMATO, I RIMPATRIATI NON SONO ANGIOLETTI"Quando, nei giorni successivi al 14 marzo, si cominciano aregistrare i primi sbarchi, i giornali danno grande rilievo alladescrizione quantitativa e qualitativa del fenomeno. Quotidianamente ogni testata riporta in evidenza il numeroapprossimativo di profughi arrivati. Più spesso però i giornaliutilizzano espressioni verbali che, con enfasi maggiore delle cifre,si riferiscono alla portata numerica del fenomeno migratorio econtemporaneamente ne danno una definizione di tipoqualitativo: "ondata inarrestabile" (18 marzo, Corriere dellaSera), "invasione dei disperati" ed "esodo" (La Repubblica

rispettivamente del 15 e 16 marzo ma anche Il Sole 24 ore del 23marzo)". Non a torto Dal Lago ha parlato di:"una campagna di isteria collettiva contro il pericolo albanese,[..], sostenuta in gran parte dalla stampa nazionale e legittimata difatto dal governo di centro-sinistra, nonostante l'arrivo di poco piùdi 15.000 albanesi non abbiano provocato alcun vero problema diordine pubblico"16.Inoltre: "Il governo appare del tutto subordinato alla versionedella realtà costruita dai media"17.Tanto da far ritenere conseguenza di tale realtà il decreto del 20marzo 1997 con il quale viene conferito al fenomeno migratoriodall'Albania lo status di "emergenza nazionale", e per il qualevengono previste delle misure speciali per la tutela dell'ordinepubblico. Certo è che stampa ha preceduto il governo nelproclamare l' "emergenza".

Da profughi a clandestini

La definizione e la denominazione più frequentemente utilizzatadalla stampa nei riguardi dei migranti albanesi arrivati in Italia nelmarzo 1997 è stata all'inizio quella di profughi: facilmenteassociabile con le rappresentazioni dell'Albania, già citate, in cuiil Paese viene descritto in preda alla guerra civile, al caos, allebande armate.Allo stesso tempo, poiché questa definizione prevede per il paeseospitante una accoglienza illimitata e incondizionata, l'uso fattodai giornali di questo termine è stato estremamente generico eriduttivo, proprio per il suo valore impegnativo in termini diaccoglienza.Nella seconda metà di marzo la categoria profughi verrà invecemessa in discussione e saranno introdotte altre diversedenominazioni: tra cui quelle di immigrati e clandestini, cheimpongono di pensare ai migranti non più in base alle condizionidel luogo da dove sono partiti, ma in relazione al contesto,soprattutto giuridico, del luogo di sbarco. Per gli immigrati infattiil contesto è quello delle leggi che regolamentano il lavoro eprincipalmente quelle che disciplinano l'afflusso di manodoperastraniera. Per i clandestini invece il riferimento è piùgenericamente al sistema giuridico dello stato di arrivo, ed inparticolare alla normativa che sancisce i diritti e i doveri relativialla cittadinanza, nei confronti della quale essi sono in difetto.Per quanto riguarda la stampa, nel periodo e sul tema considerati,si è dimostrata per la verità anche autoriflessiva: affrontando dalproprio interno il tema dell'influenza che il sistema mediatico haavuto sul fenomeno delle migrazioni dall'Albania.Il Corriere della Sera, 17 marzo:"E GRAZIE ALLE PARABOLICHE PARLANO TUTTIITALIANO"Questa "preparazione" fornita dalla televisione si rivela poi, nelcontesto della migrazione in Italia, utile allo stesso sistematelevisivo, a cui gli albanesi appaiono come "Gli stranieri piùintervistabili del pianeta".La Repubblica, il 5 aprile: "La vicenda albanese dimostra che ormai il video ha un poteresovranazionale. LA TELE - EMIGRAZIONE. Il falso miraggio

della ricchezza facile."Significativo in questa direzione l'atteggiamento assunto, sempreda La Repubblica, il 2 aprile, dopo il dramma del canaled'Otranto, dove morirono, con il coinvolgimento di una corvettadella Marina Militare italiana, 89 cittadini albanesi. Con lacreazione del "blocco navale" è infatti il governo, e non più ilsistema mediatico, ad essere ritenuto responsabile dell'accaduto, equindi accusato di aver influito in maniera drammatica, attraversoquesto tipo di provvedimenti:"Accuse di irresponsabilità ai media. la replica dei direttori:abbiamo fatto quello che doveva fare il ministro. ANDREATTA ETG AI FERRI CORTI Mimun: che dovevamo fare, tacere?"E' forse il manifesto ad assegnare comunque maggiore spazioalla dimensione autoriflessiva. Il 19 marzo pubblica un articoloin cui vengono riportati stralci di pezzi pubblicati sui maggioriquotidiani nazionali (Il Messaggero, Il Tempo, La Stampa, ilGiornale, La Repubblica, l'Unità, il Corriere della Sera) neiquali gli albanesi vengono descritti come criminali e ilfenomeno migratorio dall'Albania come un'invasione daglieffetti pericolosi per il Paese. il manifesto, ovviamente, si sentesoprattutto chiamato in causa dalla presenza del "razzismo disinistra": indubbiamente presente in Italia, come tra l'altroemerge, dagli interventi telefonici a "Italia Radio", emittentenazionale vicina al PDS:"[…] ieri mattina il primo ad intervenire è stato Anselmo Brighida Forlì. "dovevamo bloccare i porti e mandarli tuttiindietro…[…] quello che ha detto quello di Forlì lo volevo dire io- esordisce Tina Fagioli da Empoli - […] non si vive, non sicammina con negri, zingari…ero del Pci ora sono del Pds, ho 64anni ma questa Sinistra fa schifo, doveva chiudere le frontiere"[…] "bisognava mettere un freno subito, questi sono prepotenti -dice da Roma Giuseppina Limini - quindi non cerchiamo di esserebuoni quando gli altri non sono buoni con noi" […] la signoraLuisa Piccolo da Torino, afferma senza pudore "io non sonobuona, questi mi fanno paura. Non sono persone piacevoli, c'è dapreferire i marocchini… è il massimo".Il Corriere della Sera, invece, non dichiara esplicitamente unaconnessione tra reazioni di chiusura degli italiani e larappresentazione elaborata dai mass media. Non manca tuttavia dianalizzare gli articoli "peggiori" che la stampa italiana ha prodottosul conto dei profughi e di riportare le polemiche e le accuse dirazzismo che hanno scatenato. Rilevando che, in ogni caso,l'ostilità contro gli albanesi si dimostra in Italia pervasiva. In unarticolo di Fumagalli, del 22 marzo, si cerca di dimostrare che:"l'antipatia verso i cittadini dell'altra sponda Adriatica ètrasversale agli schieramenti politici. In altre parole non si rilevauna linea dell'Ulivo ed una linea del Polo. Le distanze daglialbanesi le prendono con maggiore o minore enfasi sia L'espressoche il Giornale".E' infine significativo il silenzio manifestato su questi temi da IlSole 24 Ore: una scelta forse motivata dalla linea editoriale cherivolge la propria attenzione prevalentemente alle notizie chepossono essere dichiarate ufficiali e alle quali affianca commentied interpretazioni non generiche ma frutto di analisi

specialistiche. Per soddisfare un pubblico ricercato nelle fascemedio alte ed istruite. Se ne può quindi dedurre che la testata nonveda nel dibattito fondamenti argomentativi adeguati.

News values

E' probabilmente il silenzio de Il Sole 24 Ore il miglior viatico perintraprendere un breve percorso di riflessione sull'insieme deidati raccolti.L'insistenza sul "peso" dei media mostra intanto una sorta diautocompiacenza, che conduce all'adozione di forme e contenutiche si fanno sempre più autoreferenziali. Si tratta di un processoche conduce i mass media ad allontanarsi dalla funzione diinformazione e rappresentazione della realtà e al contrario liavvicina sempre più ad una continua rappresentazione di sé, delproprio mondo e delle proprie dinamiche, come di una "altra"realtà, degna di interesse e di attenzione quanto, e forse anche più,della prima. Sottoinsieme del problema è la concorrenza: sipubblica qualcosa perché ci si aspetta che lo facciano le altretestate, creando quindi tendenziale omologazione.Concorrenza esiste anche, e sempre di più, tra TV e stampa: conla conseguente "settimanalizzazione dei quotidiani". Questi,avendo perso l'esclusiva sulla caratteristica temporale dellaquotidianità dell'informazione, assunta invece dalla televisione,cercano di modificare il proprio ritmo utilizzando tecniche che liavvicinano ai settimanali e ai rotocalchi. Rispetto al tema delle migrazioni l'autoreferenzialità appenaricordata si traduce nell'effetto di conferire al fenomenomigratorio un'immagine artificiale, frutto non di esigenze reali eprimarie, ma inculcata attraverso narrazioni, descrizioni e finzionielaborate dai media. La stampa italiana lo rappresenta come ilfrutto dell'influenza della televisione italiana: non come unaesigenza concreta dettata dall'impossibilità di condurreun'esistenza dignitosa.Occorre naturalmente tener conto, per meglio orientarsinell'analisi, della peculiare identità e struttura del quotidiani:"contenitore di notizie", è stato detto senza dire molto. "Notizia"è infatti concetto tutt'altro che semplice, come tra l'altro appareevidente dal dibattito relativo. Da Tuchman e l'anglosassonenewsmaking (per cui "la notizia è un perenne definire e ridefinire,comporre e ricomporre i fenomeni sociali") a Eco e lanotiziabilità di un evento a indicare che diversi sono i fattori chefanno di un fatto una possibile notizia. Papuzzi inoltre parla delprocesso di creazione delle notizie come di "un processo chedecontestualizza un evento per ricontestualizzarlo nella formadella notizia". La notizia si presenta come il prodotto finale di unprocesso che elabora gli eventi per inserirli nel "contenitore" delquotidiano, definito anche come "un sistema di classificazione incui per organizzare i contenuti si impone una gerarchizzazione deifatti"20. Decisivi in questa direzione, anche per il nostro tema, glistudi sui cosiddetti news values o valori notizia: "Affinché un avvenimento possa essere trasformato in notizia ènecessario che esso presenti requisiti tali da superare le rigideregole imposte dalle routine produttive21. Nei valori notizia sirispecchia e si concretizza una questione chiave del linguaggio

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giornalistico e delle sue tecniche: il fatto che le notizie sono unaforma di comunicazione costruita su stereotipi […] il lettore saràinteressato a un avvenimento, oggetto di notizia, se corrisponde aipreconcetti in base ai quali considera la realtà che lo circonda eforma le proprie opinioni"22.

Mediorami

A questo punto, tenendo in debita considerazione i meccanismiidentitari dei quotidiani vorrei riportare la riflessione sul nodoprincipale: la reale influenza del potere mediatico sul fenomenomigratorio albanese.Di grande pertinenza e utilità valuto, a riguardo, l'analisi condottada Marrone23 sul rapporto tra il quotidiano e il lettore: consideratoquesto quale destinatario attivo, che non subisce lacomunicazione ma dà un contributo fondamentale compiendo dueazioni diverse: leggere un contenuto informativo e stabilire unarelazione con l'emittente.Un approccio di questo tipo contrasta fortemente con la vulgatainterpretativa su quanto e come sarebbero responsabilità deimedia tanto la migrazione albanese quanto le modalità della suaaccoglienza, o rifiuto, in Italia. La "Teoria dell'Agenda Setting",formulata da E. Shaw24, concezione alquanto datata e dai moltigenitori, considera che la rappresentazione della realtà fornita daimedia ha effetti notevoli sulla percezione della stessa realtà daparte del pubblico, mentre dalla "metà degli anni sessanta, tutti glistudi sulle comunicazioni di massa hanno accantonato l'idea chequeste producano effetti veloci, isolabili, potenti, cioè a brevetermine, su lettori passivi"25. Nello specifico del fenomenomigratorio questo significherebbe, molto semplicisticamente, chegli albanesi subiscono i media italiani. Un approccio quindiunidirezionale, che tiene conto di una sola modalità di interazionetra le comunità locali ed i mezzi di comunicazione che simuovono su scala transnazionale. Al contrario risulta che talerelazione non solo non è univoca ma è il più delle voltecaratterizzata da un ruolo attivo della popolazione locale ecostituita da una molteplicità di forme ed approcci, che vannodalla riformulazione e rielaborazione del messaggio mediaticoall'interno delle categorie e dei sistemi di significato locali,all'appropriazione del mezzo stesso di comunicazione con lafinalità di veicolare i propri messaggi oltre i confini locali. Illimite dell' Agenda Setting è infatti proprio quello di ritrarre glialbanesi come mere vittime del sistema mediatico, incapaci dicomprendere e rielaborare in maniera autonoma larappresentazione dell'Italia fornita dalle reti mediatiche,ingenuamente ammaliati dai lustrini della televisione italiana esprovvisti degli strumenti cognitivi atti a comprendere ladistinzione tra fiction e realtà. Inoltre questa teoria pone insecondo piano le altre motivazioni che possono aver spinto lapopolazione albanese alla migrazione e che, al di là dellapossibile manipolazione effettuata dai media, possono essereoriginate da una reale e profonda disparità di condizionieconomiche, politiche e sociali tra l'Italia e l'Albania.Solo in prima istanza allineata con la teoria de L'Agenda Setting èla teorizzazione di Anderson, che ha coniato il concetto di

"comunità immaginate" per rappresentare quei fenomeni nei qualiproprio la fruizione collettiva dei mass media ha stimolato lanascita di nuove identità collettive che, sebbene abbiano uncarattere immaginato, hanno dei risvolti concreti nella vita socialee culturale26. Il lettore sa che migliaia di persone stannocompiendo la stessa operazione nello stesso momento: il consumodi massa crea un legame ideale tra i consumatori di questoprodotto che cominciano a pensarsi come una comunità.Al giornale viene quindi riconosciuto un ruolo fondamentale checonsiste nel contribuire alla formazione della capacità degliuomini di immaginare se stessi ed il mondo. Ma agli uomini vieneanche riconosciuta la capacità di agire in vista della realizzazionepratica di questi nuovi tipi di relazioni umane e di mondiimmaginati.In termini più generali questo modello teorico ci propone diguardare in maniera diversa alla relazione tra le tecnologie dicomunicazione di massa e la vita quotidiana. Appadurai nel suolavoro Modernità in polvere suggerisce di analizzare questarelazione all'interno del contesto contemporaneo affidando unruolo centrale all'immaginazione27. Vedendo in questa non unsinonimo di "fantasia" che: "[…] porta con sé l'inevitabile connotazione di pensieroseparato da progetti e azioni, ed ha anche una sfumatura privataaddirittura individualistica. Invece l'immaginazione siaccompagna ad un senso di proiezione, di essere preludio aqualche forma di espressione, estetica o di altro tipo. La fantasiapuò portare all'indifferenza (perché la sua logica è spessoautoreferenziale), ma l'immaginazione, soprattutto quando ècollettiva, può diventare impulso per l'azione"28.Immaginazione dunque come bagaglio collettivo di memorie edesideri condivisi, che interviene nella definizione dell'identità diun gruppo di persone. È possibile quindi pensare chel'immaginazione sia in grado di produrre definizioni culturali,attraverso la creazione di "comunità di sentimento"29. Questecomunità, così come proposto da Anderson, possono nascere dallafruizione collettiva dei mass media. Appadurai però spinge oltregli effetti di questo "sentire comune" sostenendo che è in grado dicontribuire a modificare la vita sociale delle comunità. Come siverifica con le migrazioni.Si tratta di valutare l'importanza dal punto di vista culturale esociale che l'immaginazione ha nella vita quotidiana, e la forzaulteriore che essa può acquisire se alimentata su scalaplanetaria dai mezzi di comunicazione di massa,trasformandosi così in uno stimolo per immaginare nuovepossibilità di vita. I media moderni infatti veicolano idee erealtà prodotte in zone anche molto lontane da quelle in cuivengono fruite e in questo senso contribuiscono a modificare lapercezione della dimensione spaziale, consentendo di allargarele proprie possibilità immaginative oltre i confini degli statinazionali, creando immaginari di tipo trans-nazionale30 eglobale.Oggi infatti diviene possibile immaginare di spostarsi e di viverein luoghi molto lontani dal posto in cui si è nati, ed allo stessotempo diviene sempre più frequente, pur non spostandosi affatto,

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"sentire" di avere idee, desideri e aspettative in comune conpersone che vivono dall'altra parte del mondo. L'immaginazionesi alimenta quindi costantemente delle trasformazioni e deglistimoli che le vengono dall'uso dei mass media, e, così facendo,contribuisce a creare le condizioni di possibilità per uncambiamento sociale.Secondo Appadurai infatti l'immaginazione possiede una caricaprogettuale, invita ad una riformulazione continua della realtà, edè in grado di stimolare l'azione. Nel momento in cuiimmaginiamo di poter condurre una vita altrove stiamoformulando un progetto che in qualche modo produrrà uncambiamento nella realtà sociale in cui viviamo. Attribuendoall'immaginazione questo ruolo, Appadurai si pone in nettacontrapposizione con quelle prospettive teoriche, soprattuttolegate alla Scuola di Francoforte, che vedono i media comestrumenti utilizzati dal potere capitalista per paralizzarel'immaginazione dell'individuo e sfruttarlo in vista delprofitto."La teoria dei media come oppio dei popoli deve essere giudicatacon estremo scetticismo. Non è che i consumatori siano attoriliberi, che vivono felicemente in un mondo fatto di centricommerciali sicuri, pasti gratuiti e riparazioni veloci. [...] ilconsumo nel mondo contemporaneo è spesso una forma diasservimento, parte del processo capitalista di civilizzazione.Però dove c'è il consumo c'è piacere e dove c'è il piacere c'èazione. La libertà d'altra parte è un bene assai più sfuggente"31. Non si tratta di rifiutare l'idea che i messaggi dei mass mediaveicolino forme di controllo e sfruttamento di tipo capitalista.Occorre piuttosto valutare anche la componente creativa checostituisce uno degli elementi fondamentali di questa particolarefacoltà. L'immaginazione dota l'individuo della capacità di agireper modificare la realtà e di riformulare in maniera autonoma imessaggi mediatici.In questo quadro teorico i mass media assumono un ruolo diversoall'interno del fenomeno della globalizzazione. Non sono piùsoltanto il veicolo per messaggi volti all'omogeneizzazioneculturale sulla base di un modello occidentale: possono ancheessere visti come i portatori di un repertorio sempre nuovo dimemorie e desideri."Ci sono prove sempre più evidenti che l'uso dei mass media nelmondo produce spesso resistenza, ironia, selettività, e in generale,azione. Terroristi che prendono come modelli figure alla Rambo;casalinghe che leggono romanzi rosa e guardano le soap-operacome parte del tentativo di costruirsi le loro vite [...] sono tuttiesempi del modo attivo in cui la gente in tutto il mondo siappropria dei media. Magliette, cartelloni pubblicitari, graffiti,ma anche la musica rap, la street dance, le baraccopoli indicanotutti che le immagini dei media sono rapidamente assimilate entrorepertori locali fatti di ironia, rabbia, umorismo, e resistenza"32.I messaggi mediatici, in altri termini, non agiscono su di una"tabula rasa". Sicuramente incontrano soggetti e gruppi che nonsono semplici spettatori passivi e che non si prestano ad esseresoltanto vittime di questo "bombardamento di informazioni". Purnon disconoscendo l'indubbio peso dei mezzi di comunicazione

di massa sulla vita quotidiana di milioni di persone, è importantericonoscere che esiste un margine di resistenza poiché esiste unacapacità critica ma anche creativa ed inventiva da parte degliuomini: una sorta di "spirito di sopravvivenza" che spinge lecomunità ed i soggetti a difendersi in qualche modo dagli attacchicontinui e dalle incursioni intermittenti di informazioni cheprovengono da altri universi simbolici, sociali, culturali che moltospesso si impongono cercando di soppiantare quelli già esistenti.Ancora con Appadurai: i mezzi di comunicazione di massa suscala mondiale creano flussi costanti e continui di informazioni,immagini, idee e narrative che si muovono in spazi chetrascendono i confini nazionali e vengono sfruttati dalle personedi tutto il mondo come un repertorio simbolico al quale attingereper la costruzione del proprio immaginario e per la progettazionedella propria vita sociale e culturale33. Vengono così a formarsiscenari socio-culturali e simbolici complessi ed inediti dovutianche all'incontro/scontro di elementi appartenenti a spazi,società, culture diverse e lontane tra loro. Questi flussi e i relativiscenari che si costituiscono vengono chiamati da Appaduraimediorami: uno di questi è il repertorio di immagini, idee, parole,narrative che abbiamo visto nella stampa italiana.Le descrizioni elaborate dai quotidiani delle rivolte in Albanianella prima metà del mese di marzo del 1997, possono essereritenute elementi cruciali nella formazione dell'immaginarioitaliano sugli albanesi, prima ancora del loro arrivo in Italia. Allostesso modo è possibile ricordare quanto i discorsi dei quotidianiitaliani sull' "emergenza albanese" abbiano avuto peso nelle scelteamministrative, giuridiche e politiche del governo italiano finodivenire un indirizzo politico-ideologico, trasversale ai partitipolitici, che ha guidato in Italia la realizzazione delle politichesull'immigrazione nel 1997 e negli anni successivi.Ad un altro livello, anche le immagini della televisione italianache arrivano nelle case degli albanesi possono essere definitecome un frammento specifico di questo flusso mediatico. E loscenario costituito dall'incursione delle immagini, idee, suoni,prodotti in Italia nella vita quotidiana, nelle relazioni sociali,nell'immaginario di milioni di cittadini albanesi può essereanch'esso considerato un mediorama. La diffusione dei mediaitaliani in Albania è indiscutibilmente il fulcro di tutta una serie ditrasformazioni che la cultura, la società e la vita quotidiana deglialbanesi hanno subito. Allo stesso tempo però è importante nonforzare troppo questo paradigma. Se i media italiani sicuramentehanno inciso nella trasformazione dell'Albania essi non possonoessere considerati come l'unico o il principale fattore dicambiamento. Appadurai infatti propone un modello piùcomplesso e sofisticato.Oltre ai mediorami vanno considerati altri quattro possibiliscenari creati da altrettanti flussi differenti: i Finanziorami, iTecnorami, gli Ideorami e gli Etnorami. La circolazione diimmagini, idee e suoni derivanti dalla diffusione dei sistemi dicomunicazione di massa si articolano infatti in manieracomplessa, e molte volte imprevedibile, con i flussi costituitidalla circolazione di denaro, di tecnologie, di ideologie esoprattutto di persone.

Il flusso costante di persone attraverso gli stati genera gliEtnorami, scenari costituiti da questa circolazione di individui,gruppi, comunità. Questi soggetti migranti devono fare i conti conun'esistenza deterritorializzata, e così facendo trasformanoradicalmente il rapporto esistente tra comunità, identità eterritorio. Riprendendo uno dei concetti chiave della filosofia delPostmoderno, il concetto di deterritorializzazione, Appaduraiconnota la dimensione esistenziale dei soggetti migranti nelmondo contemporaneo nei termini di una perdita di "aderenza" edi una trasformazione radicale dei rapporti tra la dimensioneculturale, simbolica, identitaria e sociale delle comunità e degliindividui e la dimensione spaziale, geografica, territoriale. Questadefinizione non implica la scomparsa di comunità stabili, masottolinea la presenza di un immaginario e di una realtà socialeche si estende su scala mondiale, legata allo spostamento diindividui e che costringe a ripensare modelli socio-economici,politici ed identitari.In termini più generali quindi il sistema complesso di relazioni trai mezzi di comunicazione di massa e le migrazioni può essereconsiderato il fulcro delle politiche identitarie nel mondocontemporaneo. All'interno del mondo contemporaneo infatti unnumero crescente di persone elabora i propri sentimenti diappartenenza o esclusione non considerando più come un dato difatto la coincidenza di luogo e identità, e confrontandosi sia conla patria d'origine che con la nuova dimora. Tutto ciò avviene acausa del fatto che in seguito alle migrazioni molte comunitàvivono di relazioni sociali che non si basano su più sul contattodiretto tra le persone e su di una contiguità territoriale, ma sono ilfrutto di relazioni, asimmetriche, complesse, molteplici e mediate,gestite il più delle volte "a distanza" tramite l'uso delle tecnologiedi comunicazione di massa e la fruizione di eventi e prodottimediatici34 .In questo senso quindi l'analisi dei quotidiani può essereinterpretata come il contributo dei media alla definizione e allostesso tempo alla riformulazione delle identità e delleappartenenze reciproche di italiani e albanesi. La

rappresentazione dei migranti albanesi da parte della stampaitaliana può essere presa in considerazione come strategia perriqualificare l'identità italiana rispetto ad una formulazione di tiponegativo, largamente diffusa e condivisa non solo all'estero, che civede contraddistinti dalla criminalità e caratterizzati dairrazionalità e irruenza.Non è però altrettanto semplice trovare elementi che permettanodi comprendere come anche gli albanesi abbiano dovuto fare iconti con sentimenti di appartenenza ed esclusione basati su diuna non più ovvia coincidenza tra luogo e identità. Le immaginidella tv, i giornali e le radio sono stati i mezzi principali che anchegli albanesi, come gli italiani, hanno utilizzato per elaborare unaimmagine di sé stessi, del mondo e degli altri e quindi per definiree ridefinire specifiche appartenenze culturali.Sia gli italiani che gli albanesi sono parte della "comunità deitelespettatori". Se per gli italiani però questa appartenenza apparescontata, poiché si tratta della televisione italiana, essa non lo èaffatto per gli albanesi, che al contrario devono continuamentecontrattare la loro inclusione nella comunità telematica e avereuna grande cura nel mostrare i segni della propria appartenenza.Attraverso questa ottica è possibile considerare la straordinariaconoscenza dell'italiano tra i migranti come un elementoimportante di definizione "del telespettatore", così come icontinui riferimenti fatti dai migranti ad illustri personaggi dellatelevisione o dello sport italiani, sono segni inconfutabili di questanegoziazione dell'appartenenza alla comunità dei telespettatori.Inoltre le dichiarazioni preoccupate circa la portata dei messaggitelevisivi fatte da esponenti del governo possono essereinterpretate anch'esse come conferme implicite del fatto chequesta appartenenza viene riconosciuta dagli stessi italiani.Analizzando i quotidiani, in conclusione, si finisce per mettere inevidenza tutta quella serie di elementi e di strumenti che lo stessosistema mediatico ha messo a disposizione dei soggettiprotagonisti per riformulare la propria identità "italiana" e"albanese" e riposizionare il confine culturale tra "noi" e "loro".

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Note

1 Il gioco di parole è in Clifford 1997, p. 11, nota.2 Cfr. Clifford 1988.3 Cfr. Anderson 1991.4 Ivi, p. 52.5 Cfr. Polovina 2002.6 Ivi, p. 62.7 Mati 2002, p. 738 Cfr. Proietti 1992, pp. 124-140.9 Gorgoni 1997, p. 87.10 Cfr. Vehibu 1996 e cfr. Vehibu e Devole 1996. 11 Ibidem.12 Ibidem.13 La Convenzione di Ginevra del 28/7/1951 ratificata in Italia con lalegge n. 722 del 1954 sancisce "il principio universale della protezioneper tutti coloro facciano richiesta di asilo".14 Si tratta della legge Martelli, ovvero la legge n. 39 del 1990.15 Si tratta del Decreto del 20 marzo 1997 n. 60 dal titolo "interventistraordinari per fronteggiare l'eccezionale afflusso di stranieriextracomunitari provenienti dall'Albania", che prevede il rilascio di unpermesso di soggiorno temporaneo della durata di 60-90 giorni per tutti

gli stranieri albanesi che non abbiano rapporti con la criminalità o nonabbiano commesso reati, per i quali invece è prevista l'espulsione. Cfr.Decreto albanesi: immediate espulsioni, Il Sole 24 ore, 22/03/1997 pag.29. 16 Dal Lago 1999, p. 25.17 Ivi, p. 189.18 Tuchman 1998, p. 44.19 Calcagno, Festa, Marello, Papuzzi, Pastore op. cit. p. 7.20 Boldrini 2000, p. 11.21 Ivi, p. 29.22 Calcagno, Festa, Marello, Papuzzi, Pastore, op. cit. pag. 9.23 Marrone 2001.24 Shaw 2000.25 Boldrini, op. cit., p. 41.26 Anderson, op. cit. p. 52.27 Appadurai 1996, p. 18.28 Ivi, p. 22.29 Ibidem.30 Ivi, p. 23.31 Ivi, p. 21.32 Ibidem.33 Ivi, p. 56.34 Matera 2002, p. 75.

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Fin dalla nascita dell'antropologia il legame fra letteratura edetnografia è stato intenso ma anche complesso. Antropologihanno scritto e scrivono narrativa (si pensi a La madre di Arthur,il romanzo di Marc Augé) e scrittori si sono serviti nelle loroopere degli strumenti dell'antropologia - la ricerca sul campo,l'osservazione partecipante, l'indagine etnografica - utilizzandoliper affrontare una problematica ormai estremamente attuale,quella dell'identità etnica. Uno dei luoghi-situazioni più interessanti per l'ambitoantropologico è quello della produzione narrativa degli scrittorimigranti, che è ben presente nella letteratura in lingua francesedella migrazione maghrebina, o nella letteratura inglese dellamigrazione indiana e pakistana: Tahar Ben Jelloun, AmitavGhosh, Hanif Kureishi.L'antropologia, oggi, dovendo ricoprire un ruolo d'interpretazionecritica, si confronta con il mondo letterario, senza piùallontanarlo; ma, anzi, deve assolutamente appropriarsi delle suearmi critiche, della sua dimensione stilistica e retorica: torna inprimo piano il momento della scrittura, dell'autorialità, che permolto tempo era stata liquidata e minimizzata. Del resto il grandeinteresse per la scrittura era stato ampiamente dimostrato daldibattito sulla scrittura etnografica sviluppatosi a partiredall'ultimo ventennio del secolo scorso. L'antropologia, insiemead altre discipline, ha dovuto riflettere sulla presenza di unadimensione soggettiva nelle proprie procedure di costruzione etrasmissione della conoscenza, verificando che più cheinterrogarsi sulla possibilità di rappresentare un mondo altro,secondo i parametri positivisti dell'oggettività, è necessarioelaborare modelli di rappresentazione più complessi a partire daun'analisi della realtà che scaturisce di volta in voltadall'interazione tra soggetto e oggetto. La rivalutazione delladimensione soggettiva all'interno dei processi di strutturazionedella conoscenza impone quindi all'antropologia nuovi quesiti:può l'antropologo dire veramente qualcosa sulle culture altre? Masoprattutto come lo dice? Negli ultimi decenni del secolo scorso diversi contributi, susollecitazione della filosofia ermeneutica, hanno indirizzatol'attenzione soprattutto sulla scrittura. L'apertura di questaprospettiva emerge in modo particolare nella seconda metà deglianni '80, specialmente dopo la pubblicazione di L'antropologiacome critica culturale e Scrivere le culture, due libri chedimostrano che l'etnografia, nel momento stesso della suarappresentazione, sperimenta delle forme di riflessività anche suse stessa, sul fare scienza e sulla cultura a cui appartiene ilricercatore. Ne consegue quindi l'apertura a nuove forme dirappresentazione culturale, riflessivamente consapevoli delladimensione testuale in cui si collocano, e pronte a superare leconvenzioni classiche della scrittura etnografica. Secondo la

prospettiva di Geertz, la scrittura non è solo mero e neutralestrumento di trasmissione di una conoscenza acquisitaindipendentemente da essa, la cui validità consisterebbe nellospazio interamente epistemologico che si apre fra Soggetto eOggetto. La scrittura, invece, è la dimensione al cui interno lapratica conoscitiva si definisce e che plasma le stesse categorie diSoggetto e Oggetto. I grandi problemi epistemologici - com'èpossibile l'accesso ad altre menti, com'è possibile l'oggettivazionedi un'esperienza soprattutto soggettiva e partecipativa comequella etnografica, com'è possibile evitare l'etnocentrismo nelconfronto interculturale - si rivelano così parti di praticherappresentative che avvengono all'interno della scrittura. Quindiquello che fino a quel momento era solo un problemaepistemologico diventa anche e forse soprattutto un problemaletterario.Ma a questo punto si apre anche un'altra questione: qual è ladecisiva differenza tra romanzo ed etnografia?Nel romanzo, secondo una convenzione oramai consolidata dallanascita del genere stesso, al lettore viene chiesta dall'autorel'immediata identificazione con un universo narrativo e vienestipulato da entrambe le parti il cosiddetto patto narrativo, ossiaquel patto di identificazione che il lettore liberamente sottoscrivequando apre la prima pagina di un romanzo: l'interfaccia traautore e lettore assume la forma di un "come se", che consente dirimodulare l'attenzione in rapporto alle regole di quel particolareuniverso narrativo. Invece nell'etnografia non esiste una cornice di "come se", né allettore è richiesto un patto di partecipazione, o l'uso di categoriecritiche del discorso (della sua coerenza, verosimiglianza, ecc.)diverse da quelle ordinarie. Tra etnografo e lettore s'instaura unrapporto di interlocuzione diretta che si attua in discorsidescrittivi e argomentativi inscritti in una cornice (esplicita oimplicita) di riferimenti teorici; la narrazione etnografica divental'oggetto del dialogo tra autore e lettore, distanziata da entrambi erivestita di un apparente effetto di realtà. Ma, secondo leosservazioni di Crapanzano, l'effetto "realista" della conduzioneimpersonale del discorso e dell'occultamento della soggettivitàautoriale è solo apparente. L'autore, infatti, resta sempre presentenella cornice dell'etnografia: come il lettore sa bene, è sempre luiche parla, o riporta le parole di altri, garantendone la veridicità.Certo in un testo etnografico così impostato sono inseritedescrizioni e narrazioni che fanno uso di espedienti retorici estilistici tipici della letteratura, ma è solo attraverso lo spaziodenotativo aperto dalla cornice teorica che esse acquistano sensoper il lettore.Ne consegue un altro discorso ancora. Se i paradigmi teorici forticon la post-modernità sono ormai venuti a mancare,l'antropologia può ancora produrre l'etnografia, dal momento che

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Sull’antropologia e la letteraturadi Stefania Carbonelli

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non esiste più l'ambito denotativo dato dalla teoria? Infatti man mano che si perde fiducia nella possibilitàdell'antropologia di costruire la conoscenza dell'altro, laconoscenza oggettiva dell'altro, il senso dell'antropologia sipotrebbe cercare nella sua capacità di trasformarsi in criticaculturale, cioè non tanto di offrirci una conoscenza e unarappresentazione di altri modi di vita, quanto di costruire undiscorso all'interno della nostra società in cui trovino unacollocazione non eccessivamente subalterna altri modi di vita,altri valori. In tal senso il genere "romanzo antropologico"potrebbe essere una delle forme più adatte all'esplicitazione di talecritica.Al di là delle diverse direzioni specifiche un punto accomuna lecritiche al testo etnografico e i cosiddetti sperimentalismi neldibattito sulla scrittura etnografica sviluppatosi dalla secondametà degli anni '80, sulla scorta delle sollecitazioni geertziane: ilriconoscimento del carattere di "finzione" del genereantropologico. E, di conseguenza, dell'importanza dell'autore edella sua capacità di farsi "scrittore".Come sostiene Matera, poiché la scrittura ha assunto nel corso deltempo un "peso sempre maggiore rispetto al metodo, nellacomprensione etnografica e antropologica" (Matera, 2004: 61),possiamo fare due considerazioni: si è ormai giunti allaconsapevolezza che le rappresentazioni dell'esperienzadell'alterità culturale non possono essere oggettive, ma sonofortemente influenzate dal momento storico, culturale e sonoquindi contingenti e destinate a mutare continuamente; ènecessario sperimentare nuove modalità di relazione con le altreculture e soprattutto nuove forme di rappresentazione e quindi ditesto.Si può allora azzardare l'ipotesi che, vista la crisi in cui versa laproduzione etnografica, il romanzo di alcuni nuovi scrittori,Ghosh e Naipaul ad esempio, può essere una nuova forma dietnografia? Che cosa rende così differente un romanzo da unresoconto etnografico?A questo proposito mi sembra di grande interesse un articolo cheil quotidiano "La Repubblica"1 ha pubblicato l'estate scorsa. Sitratta di uno scritto del 2000 di Salman Rusdhie in cui lo scrittoreindiano si scalda vivacemente in difesa del romanzo, opponendosistrenuamente all'idea di Naipaul che "ritiene che il romanzo siasopravvissuto al suo momento storico, che non adempia più adalcun ruolo utile e che sarà rimpiazzato dalla scrittura fattuale"2.Rusdhie, invece, è convinto che "si continuerà a scrivere romanziancora per molto, ma sempre di più, la ricerca si sposta versoforme ibride, che semplificando potremmo chiamare realtà-finzioni"3 e continua "la metà del secolo la cui produzioneletteraria, secondo Steiner e Naipaul, dimostra il declino delromanzo, è anche il primo cinquantennio di periodo post-coloniale. Potrebbe semplicemente darsi che stia per emergere unnuovo romanzo post-coloniale, un romanzo de-centrato,transnazionale, interlinguistico, interculturale; e che questo nuovoordine, o disordine, del mondo ci fornisca una spiegazionemigliore della salute del romanzo contemporaneo"4. "Il cosiddetto boom latino-americano, è stato dunque il risultato

tanto della corruzione del vecchio mondo borghese quanto dellacreatività presumibilmente primitiva del nuovo […]. L'India, conle sue grandi classi mercantili, le sue tentacolari burocrazie, la suaeconomia in piena espansione, possiede una delle più ampie edinamiche borghesie del mondo, e questo da almeno tanto tempoquanto l'Europa. La grande letteratura, e un gruppo di lettori colti,non sono una novità in India. Ciò che è nuovo è l'emersione di unatalentuosa generazione di autori indiani che scrivono in inglese.Ciò che è di nuovo è che il centro si è degnato di notare lefrontiere nel momento in cui le frontiere hanno iniziato a parlare,secondo proprie innumerevoli versioni, una lingua chel'Occidente può comprendere più facilmente"5.E' una meravigliosa apertura nei confronti della letteratura ildiscorso di Rusdhie, che dimostra una fiducia grandissima inqualcosa che può veramente portare a un vero contatto tra culture,a mettere in pratica quel melange ibrido di cui l'antropologiacontemporanea parla. E, ancora una volta, la letteratura precorregrandi cambiamenti, si dimostra aperta a nuove esperienze,dimostra delle intuizioni sicuramente destinate a concretizzarsi.Certo questo è un discorso ancora elitario, che vale per le classicolte, ma non si può fare a meno di sottolineare che la letteraturamigrante minore può contribuire a rafforzare questo discorso e adallargarlo. E, azzardando, si potrebbe dire che, visto che oramai laletteratura occidentale, ha per così dire esaurito se stessa, èproprio questa nuova letteratura post-coloniale quella che ha piùargomenti da proporre, ha più da dire, e che riesce a parlare a unpubblico molto più eterogeneo, molto più in movimento, moltopiù ibrido di quello di vent'anni fa.E ben può sostenere questo discorso Salman Rusdhie che si èformato proprio sulla grande letteratura europea, da Ariosto, aCervantes, a Camus o Mann."Raramente il mondo ha visto una fioritura così ricca di grandiromanzieri viventi e all'opera nello stesso periodo, e il facilepessimismo alla Steiner-Naipaul non solo è deprimente, ma ancheingiustificato. Se V.S. Naipaul non vuol più scrivere romanzi, onon è più in grado di farlo, peggio per noi. Ma non ci sono dubbiche l'arte del romanzo sopravviverà anche senza di lui. A mioavviso non c'è alcuna crisi dell'arte del romanzo. Il romanzo èproprio quella "forma ibrida" a cui aspira il professor Steiner.Parte inchiesta sociale, parte immaginazione, parte confessione,attraversa le frontiere del sapere così come i confinigeografici"6.E a quanto detto da Rusdhie si possono aggiungere le parole diEdouard Glissant, lo scrittore della letteratura-erranza, la cuipoetica ha al centro il rapporto cultura-identità. In un saggio-intervista Poetica del diverso (1996), Glissant parla proprio diquelle letterature che si costituiscono nell'incontro con le altre,"stabilendo relazioni, parlandosi in un idioma "multilingue",accettandosi nelle loro "opacità"" (Fabietti, Pellegrino, 2000;197)."Vivere la totalità-mondo a partire dal luogo che ci è propriosignifica stabilire una relazione, non consacrare un'esclusione.Credo che la letteratura, intorno alla questione dell'identità, stiaentrando in un'epoca in cui produrrà epica, epica nuova econtemporanea (…) Se si esaminano l'Antico Testamento, l'Iliade,

le saghe, l'Eneide, si nota subito che questi libri sono "completi"perché nella stessa vocazione al radicamento propongono anche,immediatamente la vocazione all'erranza. E mi sembra che unanuova letteratura epica, contemporanea, apparirà nel momento incui la totalità-mondo avrà cominciato ad essere concepita comeuna comunità nuova. Ma questa epica sarà scritta, a differenza deigrandi libri fondanti delle umanità ataviche, in un idiomamultilingue anche se all'interno di una lingua specifica. […]. Lanuova letteratura epica stabilirà relazioni e non esclusioni".(Fabietti, Pellegrino, 2000; 196-197).Un esempio particolarmente eloquente del nuovo tipo di romanzodi cui parla Salman Rhusdie (e forse anche un nuovo modo di fareetnografia) ci sembra essere Lo schiavo del manoscritto (1993),forse il romanzo più riuscito di Amitav Ghosh.Giornalista e scrittore, di formazione antropologica (haconseguito un dottorato in antropologia sociale all'Università diOxford), è sempre attento alle dinamiche sociali, alle storie dellagente comune, ai singoli individui in rapporto coi grandi passaggiepocali, quali elementi fondanti del suo lavoro di intellettuale nelmondo globale contemporaneo. Negli anni giovanili di ricerca sulcampo per il dottorato, nel 1980/81, ha studiato i rapporti fra Indiaed Egitto in epoca medievale trascorrendo vari mesi in alcunivillaggi della parte occidentale del delta del Nilo, nella provinciadi Beheira7, dove ha interagito con gli abitanti, ha imparato lalingua e ha indagato sulle tracce di uno schiavo indiano e del suopadrone, un mercante ebreo nato nell'odierna Tunisia, vissuti neldodicesimo secolo. Proprio questa ricerca lo ha portato allastesura di In an Antique Land, tradotto in italiano nel 1993 coltitolo Lo schiavo del manoscritto, che può senza ombra di dubbioessere definito romanzo post-moderno e quindi inserirsi a pienotitolo nel discorso che sto facendo. Infatti esso è sganciato da ogniprospettiva storica e ideologica e da qualsiasi possibilità diinvenzione del nuovo. Si tratta di un romanzo dalla strutturanarrativa complessa, dal momento che alla parte propriamentenarrativa (costituita dalle vicende degli abitanti di due villaggi chediventano i protagonisti di una storia di incontri e di amicizietrans-culturali) si sovrappone la ricostruzione storica dellavicenda dello schiavo e la descrizione dei dati scientifici e deidocumenti ritrovati, articolandosi così su più piani non solonarrativi, ma anche temporali. Ci sono le parti etnografiche, laricerca storica dell'autore e la sua esperienza stessa, la ricercaparallela che Ghosh stesso mette in atto, inseguendo il misteriososchiavo, vissuto nel dodicesimo secolo, che appare, scompare eriappare nei manoscritti e nei documenti in cui l'autore-narratores'imbatte nel corso della sua ricerca. Si tratta di una narrazione diegetica, dal momento che la figuradel narratore è ben individuata e gli eventi vengono narrati dal suopunto di vista; il narratore mette così in rilievo la propria funzionee si attribuisce un'identità individuale. Seguendo deboli tracce eindizi appena accennati sparsi nelle biblioteche di vari continenti,l'autore riesce a ricostruire i movimenti del personaggio che dà iltitolo al romanzo, Bomma (ma il nome sarà scoperto da Ghoshsolo verso la fine della ricostruzione storica), vissuto neldodicesimo secolo, al servizio di Abraham Ben Yiju, le cui attività

si svolgevano in un ampio raggio del mondo allora conosciuto,che andava dal Mediterraneo all'Oceano Indiano, dal Maghreb edalla Sicilia al Malabar, una regione costiera dell'India sud-occidentale, passando attraverso l'Egitto e lo Yemen. Mentre"insegue" lo schiavo e cerca di ricostruirne l'identità, lo scrittoreripercorre gli spazi di quel mondo in gran parte islamico, ma nonsolo, che all'inizio del cosiddetto Basso Medioevo, erainternazionale, multietnico e, si potrebbe dire, ancheintercontinentale. Spazio che confinava con l'Europa meridionale,l'Africa centrale, l'Asia sudorientale e orientale, e al suo internocomprendeva elementi di tutte queste regioni. Ben Yjuu e loschiavo si muovevano proprio in questo mondo su cui Ghosh hamodo di riflettere nel corso del romanzo e di cui mette in lucetutte le differenze prima delle conquiste coloniali. Quegli spaziche non erano esclusivamente traiettorie commerciali lungo lequali si muovevano merci e mercanti, ma erano anche, anzisoprattutto, spazi di dialogo fra culture diverse. Per ricostruire glispostamenti di Ben Yjuu e dello schiavo, Ghosh si reca nellebiblioteche inglesi, americane, egiziane e britanniche, e devenecessariamente tornare ogni volta in Egitto, a distanza di annirivisitare i due villaggi, Lataifa e Nashawi, (la parte narrativa delromanzo si svolge dall'inverno del 1980 al 1989), in cui avevacondotto la sua ricerca sul campo e quindi ha modo di osservarecon una certa regolarità e soprattutto con l'occhio dell'antropologole continue evoluzioni, involuzioni con le relative contraddizioni,insomma i cambiamenti, provocati dalla "modernità" e soprattuttodalla penetrazione del linguaggio della modernità in un mondorurale, restato quasi fuori dal tempo a lungo perché formato dacontadini fedeli alle loro tradizioni (Fabietti, Malighetti, Matera,2002).Significative a questo proposito sono le pagine del romanzo in cuiGhosh illustra al lettore la concezione della schiavitù, ai tempi diBen Yjiu e del suo schiavo Bomma; innanzitutto essa era uno "deiprincipali mezzi di reclutamento in alcuni dei più privilegiatisettori dell'esercito e della burocrazia" (p.213) e aveva soprattuttoun ruolo di metafora spirituale, di strumento dell'immaginarioreligioso. Per i poeti Vachanakara, pietisti e rigorosamenteegualitari, "la schiavitù diventava incarnazione della libertàperfetta; raffigurazione dell'idea stessa di rapporto, di legameumano, come pure della loro possibilità di trascendenza" (p.214).E probabilmente l'immaginario poetico Vachanakara era ben notoa Ben Yjiu, che, pur essendo ebreo, si sentiva parte integrante diun mondo di lingua araba, condividendo con i musulmani illinguaggio quotidiano della vita religiosa; la sua fede, insomma,era inserita nel mondo religioso mediorientale, che di lì a pocosarebbe stato messo sottosopra dai Sufi, i mistici islamici, che conla loro concezione di estinzione (fana) ed esistenza (baqa),implicavano un'idea di Dio totalmente trascendente. Per i Sufi,come per i Vachanakara, l'idea della schiavitù sarebbe diventata lametafora centrale della vita religiosa. Ne consegue che, anche seil patrimonio retorico dei Vachanakara e dei Sufi poteva sembrarelontanissimo dallo schiavo e dal suo padrone, in realtà, poiché"anche le istituzioni più terrene hanno miti vivificanti, e sullosfondo di quelle antiche leggende e metafore, gli aspetti

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schiavistici dei vincoli che uniscono un apprendista o un maestroartigiano, o un contabile a un mercante, apparivano forse noncome vincoli avvilenti, ma piuttosto come legami in qualchemisura nobilitanti-doveri umani, prove di fiducia che avrebberopotuto essere puro scambio di moneta […] possiamo supporre chequelle inespresse credenze eterodosse, più che la formaleconversione cui Bomma dovette probabilmente sottoporsi quandoentrò al servizio di Ben Yiju, abbiano finito per creare un terrenocomune tra loro: il Tulu di ascendenza patrilineare e l'ebreopatriarcale, che sarebbero altrimenti rimasti sulle opposte spondedi un abisso insormontabile." (pp 215-216).Quel terreno comune, quella rete di relazioni di scambio traculture diverse si sono quasi completamente dissolti nel corsodella storia. Infatti, Ben Yiju, il mercante ebreo di originemaghrebina padrone di Bomma, aveva potuto tranquillamentevivere a Mangalore, in India, per vent'anni, sposare una donna dietnia Nair e viaggiare per affari tra i diversi paesi dell'odiernoMedio Oriente.E Ghosh aveva sempre associato l'India, il suo paese, all'Egitto,considerandole entrambe terre antiche8, abitate prevalentementeda popolazioni rurali e depositarie di tradizioni culturali,filosofiche e religiose millenarie, che avevano subito nell'arco deisecoli e in modi diversi la dominazione britannica. Ma in unepisodio particolarmente significativo del romanzo viene benmesso in luce come oggi queste due culture sono arrivate allaseparatezza, anzi al conflitto. Si tratta dell'incontro tra l'autore-narratore e l'Imam Ibrahim, incontro già apparso col titolo TheImam and the Indian9 sotto la forma di un breve raccontosull'esperienza egiziana di Ghosh scritto nel 198610.Sfortunatamente il loro dialogo non ha effetti positivi, anzi si puòrilevare da parte di entrambi una totale incapacità di trovare puntidi contatto fra culture che non erano mai state così lontane.L'Imam, infatti, un tempo guaritore tradizionale, si è del tutto"convertito" alla medicina moderna e da questo fatto nasce unaferoce discussione tra i due che si conclude con un confronto intermini di armi possedute dai rispettivi paesi. Il narratore cedeall'inutile sfida nel momento in cui l'Imam comincia a chiedergliperché in India esistono ancora la venerazione delle vacche sacre,la cremazione dei morti e altri riti religiosi indù, praticheconsiderate ancestrali rispetto alla modernità occidentale in cuil'Imam si riconosce pienamente. Il tono aggressivo e provocatoriodell'uomo porta il giovane studioso a vantare, per conto dell'India,il possesso della bomba atomica, come se questo strumentorendesse il suo paese molto superiore all'Egitto. E' in questomomento che lo scrittore, profondamente amareggiato, diventacompletamente consapevole della sconfitta:

"Pressappoco in quel momento comparve al mio fiancoKhamees, e mi trascinò via, altrimenti avremmo continuato alungo, l'Imam e io: rappresentanti di due società arretrate, in garaper stabilire il proprio primato tecnologico nella violenzamoderna. In quel frangente, malgrado l'abisso che ci divideva, cicomprendevamo alla perfezione. Eravamo in viaggio inOccidente. L'unica differenza era che io ci ero stato davvero: avreipotuto raccontargli molte cose viste con i miei occhi, i musei, i

teatri, ma non avrebbe avuto peso. Entrambi sapevamo che tuttociò non aveva importanza: in fin dei conti per milioni e milioni dipersone degli sterminati territori che ci circondavano, Occidentesignificava soltanto questo - scienza e carri armati e cannoni ebombe" (p.192).Questo episodio esemplifica una sorta di assimilazione dellinguaggio della modernità bellica da parte dell'Imam (Fabietti,Malighetti, Matera 2002: 121) perché essa vorrebbe indicare ildesiderio di "diversità" non solo dal mondo occidentale, ma anchedagli Indiani. Infatti, l'assimilazione del linguaggio dellamodernità bellica dà luogo a un codice neutro e uniforme didialogo interculturale, che però, invece di provocare un reciprocoriconoscimento della propria diversità e quindi un'accettazione,produce allontanamento, addirittura distacco. Innanzitutto dallapropria tradizione, identità e memoria, ma anche separatezza fra"culture che pur si riconoscono nello stesso linguaggio. Illinguaggio della modernizzazione, infatti, è il linguaggioegemonico dell'Occidente che ovunque sia adottato, riproduce leidee di dominio che quello stesso linguaggio veicola: per esempiole idee di sviluppo e di scala evolutiva. Siamo qui di fronte a unpunto cruciale di ogni possibile discorso sul traffico esull'ibridazione culturale, poiché se è vero che questi ultimiproducono quasi sempre contatto e scambio, non danno luogosempre e necessariamente al reciproco riconoscimento" (Fabietti,Malighetti, Matera, 2002; 121).Del resto già Augé nel '7711 richiamava l'impossibilità diesprimere un'opposizione al potere, inteso come struttura ideo-logica che informa l'agire delle rappresentazioni e dei simboli inmodo totalitario.In un altro passaggio significativo troviamo un'altra conferma diquesta problematica: verso la fine della ricerca l'antropologo èmolto interessato a visitare la tomba di un santo associato ad unaleggenda indiana proveniente dalla regione originaria delloschiavo. Ma il militare egiziano che Ghosh e l'amico incontranosulla strada chiede con molto sospetto e ostilità il motivo dellavisita di un indiano di lingua e religione diversa alla tomba di unsanto ebreo:"Non avrebbe dovuto crederci […]. Questo tipo di credenze nonha nulla a che fare con la vera religione. Si tratta di purasuperstizione, contraria all'Islam, destinata a sparire con losviluppo e il progresso" (Ghosh, 1993; 283).Come sottolinea Fabietti (Fabietti, Malighetti, Matera, 2002:122),secoli di incontri tra fedi e culture diverse vengono soffocati dallamodernità che ancora una volta ha la meglio e viene quindiseparato ciò che un tempo era unito e allontanato quello che eravicino. Tramite la modernità le culture vengono apparentementeavvicinate con un linguaggio uniforme e omologante, ma in realtàseparate col linguaggio dello sviluppo che porta con sé un'idea diprogressione lungo la scala evolutiva e distanzia l'Altro, cercandodi batterlo nel grado di "modernizzazione".Si tratta quindi di vere e proprie "crisi mimetiche", fenomeniattraverso i quali entrano nell'immaginario collettivo o nelcomportamento di gruppi, popoli o nazioni alcuni beni cheappartengono ai popoli occidentali. E proprio la corsa agli

armamenti di cui parlano l'Imam e l'antropologo o l'idea disuperstizione che sembra oramai acquisita dal poliziotto egizianorappresentano delle crisi mimetiche.Su questo passo, inoltre, risultano particolarmente illuminantialcune considerazioni di Appadurai, secondo cui propriol'immigrazione e la mobilità in genere, sia reale che virtuale,hanno giocato un ruolo importante nella configurazione di mondiimmaginati del tutto particolari. La possibilità di separazionedelle identità dai luoghi di origine ha prodotto quello cheAppadurai ha individuato come il paradosso della questioneetnicità oggi: "Gli elementi primordiali (sia del linguaggio, delcolore della pelle, di vicinato o di parentela) sono diventatiglobalizzati. Vale a dire che i sentimenti, la cui più grande forzasta nella loro capacità di trasformare l'intimità in un sentimentopolitico e fare della località un territorio base per l'identità, sonodiventati dispersi su spazi vasti e irregolari, quando i gruppi sispostano e restano pur legati l'un l'altro attraverso le capacità dimedia sofisticati. Questo non significa negare che tali elementiprimordiali sono spesso il prodotto di tradizioni inventate(Hobsbawam e Ranger, 1983) o affiliazioni retrospettive, masottolineare che a causa dell'azione reciproca instabile e tra lorodisgiunta del commercio, dei media, delle politiche nazionali edelle fantasie di consumo, l'etnicità, una volta un genio racchiusonella bottiglia di un qualche tipo di località (comunque grande), èora diventata una forza globale, che scivola continuamente nellecrepe che si aprono tra gli stati e le frontiere" (Appadurai, 1996:

306).In conclusione posso dire che la scrittura etnografica può forsecominciare ad essere pensata proprio come il mezzo attraverso cuisi manifesta un nuovo spazio discorsivo in una concezionecomplessiva della riflessione del lavoro antropologico che rifiutil'idea dell'antropologia come conoscenza dell'altro. Chiaramentese si resta ancorati all'idea di conoscere altre culture, allora non c'èspazio per forme di scrittura che si discostino troppo dal modelloclassico, ma se si accetta l'ipotesi di un'antropologia come spaziodiscorsivo, bisogna anche accettare l'idea che la capacitàespressiva di un narratore è molto più efficace di quella di unantropologo. Se "il progetto di massima dell'antropologia […] è lariattualizzazione dell'analisi culturale in sintonia con un contestomondiale modificato e con una sensibilità del pubblico diversa daquella di una volta" (Fabietti, 1999: 94), l'idea di un'antropologiacome spazio discorsivo è auspicabile. Perché la disciplina escadagli ambiti strettamente accademici e si apra a un pubblico piùvasto, è necessario che trovi altre forme di rappresentazione, piùefficaci del resoconto etnografico. E Lo schiavo del manoscrittoci sembra un modello perfettamente riuscito. Certo Ghosh non èl'antropologo di cui parla Matera, è un intellettuale, è unoscrittore, è una voce critica, ma proprio per questo e perché haun'apertura, un "occhio" antropologico, la sua non è un'esperienzada cartolina, ma una rappresentazione efficace che diventa anchecritica culturale.

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Note

1 "La Repubblica", 6 agosto 2006, In difesa del romanzo, pp.40-43. 2 Ibidem, p.40.3 Ibidem, p.404 Ibidem, p. 415 Ibidem, p. 42. Il grassetto è mio.6 Ibidem, p. 437 Lo racconta Ghosh stesso nel saggio The Relations of Envy in an Egyptian Village che fa parte della raccolta di saggi, articoli eracconti The Imam and the Indian.8 Si pensi al titolo inglese del romanzo, In an antique Land.9 Il racconto citato è stato pubblicato l'anno scorso in italiano in Circostanze incendarie, una raccolta di saggi, racconti e reportagesdello scrittore, scritti nell'arco di vent'anni. Proprio a questo racconto si riferisce anche Clifford nel prologo di Strade. Alcuni dei saggicontenuti in Circostanze incendiarie fanno parte della raccolta intitolata proprio The Imam and the Indian che contiene anche duecapitoli della tesi del PHD in antropologia sociale conseguito da Ghosh a Oxford.10 Nello stesso anno il racconto era stato pubblicato singolarmente nella rivista britannica Granta.11 Augé, Poteri di vita, poteri di morte. Introduzione a un'antropologia della repressione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003,"l'ideo-logica sarebbe pertanto al tempo stesso la somma del possibile e del pensabile per una data società, una somma che costituisceuna totalità virtuale la quale non si attualizza se non in enunciati parziali per l'interpretazione, la descrizione o la giustificazione di undato evento." Pagg, 59/60

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Bibliografia

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La città è gialla

Di che colore e’ la disoccupazione?

di Anna Sambo

1. Cotonou, sulla panca la camicia, dentro alla sede del sindacato degli zemijan Sycotamol, 19.12.05

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Il Benin, paese dell’Africa Sub-sahariana, è oggi una Repubblicademocratica, con un governoguidato dal Presidente YayiBoni, eletto nel marzo 2006, eche si regge su politicheeconomiche liberiste che miranoad inserirlo nel mercato globale.L’economia di questo paese siregge soprattutto sull’economiainformale, che occupa l’80%della popolazione; si tratta diun’economia talvolta nascostama nella maggior parte dei casievidente, costituita da piccolocommercio, commercioclandestino, attività disussistenza. Questo tipo dieconomia è particolarmenteevidente nelle grandi città (inparticolar modo a Cotonou,capitale economica), dovel’urbanizzazione porta allacreazione di nuovi mestieri dovei disoccupati possanoimpiegarsi.La crisi economica degli anni’80, particolarmente dura per ifunzionari pubblici, ma non solo,da’ una forte spinta propulsivaall’economia informale.Nascono nuovi mestieri tra cuiquello dello zemijan, cioè ilguidatore di moto taxi.Nelle campagne intorno a PortoNovo (capitale ufficiale dellaRepubblica del Benin) sidiffonde, nei primi anni ’70, labicicletta come mezzo pertrasportare la akassa, cibolocalmente diffuso, prodotto conla farina di manioca, dai villaggiai mercati, per la vendita. Con ilpassare del tempo e grazie alladiffusione dei mezzi motorizzati,la bicicletta (che oltre atrasportare i prodotti dei campitrasportava anche le persone,fungendo da “taxi”) vienerimpiazzata piano piano semprepiù dalle motociclette,

2. Cotonou, le camicie in vendita lungo la strada. Vernice e mascherina per dipingere il numero, 15.12.05

inizialmente importate dalla Nigeria. Sitrattava spesso delle stesse motocicletteche venivano utilizzate per il trasportoclandestino della benzina attraverso ilconfine tra Benin e Nigeria.Da Porto Novo questo nuovo mezzo ditrasporto si diffonde a Cotonou e via viain tutte le altre città (e villaggi) delpaese.Il trasporto di merci e persone vieneeseguito da coloro che non riescono adesercitare il proprio mestiere o che nonne hanno uno. Dunque questa“professione” nasce tra le magliedell’economia informale del Benin, chesi diffonde enormemente durante la crisieconomica degli anni ’80.Non solo gli abitanti dei villaggi, chenon hanno lavoro nei campi, ma anche esoprattutto i funzionari pubblici(impiegati statali, insegnanti) siprocurano una motocicletta,acquistandola, affittandola ofacendosela prestare da conoscenti, ediventano “moto- taxista”, cioè zemijan.

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3. Cotonou, altre camicie in vendita, 14.07.06

4. Cotonou, con la pioggia, anche sotto la pioggia la camicia deve essere evidente, 14.07.06

Zemijan in lingua Fon (parlata nel suddel Benin) significa “portamivelocemente” ed è il modo in cui ci sirivolge ai mototaxisti per indicare illuogo in cui si desidera andare. Lozemijan è sia il guidatore che il motoveicolo che le due cose messe insieme.Molti zemijan sono analfabeti (quelliprovenienti dalle campagne) maaltrettanti sono alfabetizzati e hannoraggiunto un livello alto di istruzione.Con il passare del tempo il mestiere si èdiffuso ed oggi una grandissima partedella popolazione beninese lo pratica. Èun mestiere che nasce dall’ autoimpiegocausato dalla disoccupazione (semprecrescente) e questo lo fa rientrare“ufficialmente” nell’economiainformale, come viene definita da KeithHart, antropologo che per primo haintrodotto questo termine nellariflessione teorica relativa. Dai suoistudi condotti in Ghana deduce appuntoche l’economia informale “nascedall’autoimpiego in una situazione di

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disoccupazione.”1

Così si assiste ad una crescita esponenziale del numero di persone(quasi tutte di sesso maschile) che cominciano a praticare questaprofessione strettamente legata alla crescita apparentementeillimitata della disoccupazione.Ci troviamo di fronte ad un “gruppo strategico”2, che si costituiscee si disgrega a seconda delle occasioni che si presentano, nonomogeneo al suo interno e che si crea secondo le necessitàeconomiche, politiche e sociali.Questo gruppo ha dimensioni e geografia variabile: c’è chi pratica

il mestiere da anni, per 10 ore al giorno, c’è chi lo fa da poco e perpoche ore alla settimana; c’è chi lavora solo per poter acquistarela moto che utilizza durante il lavoro3; la maggior parte deiconduttori dei motorini sostiene che non si tratti di un lavoro madi un “job”, intendendolo come un piccolo lavoro in nero perportare a casa qualcosa da mangiare, per sopravvivere.Nonostante non sia percepito come tale dalla maggior parte dellepersone, sembra essere diventato una professione.Infatti da una parte si tratta di economia informale, che nasce emuore spontanea, dall’altra parte le autorità (governo e

5. Cotonou, Toutes les filles à l'école, gli zemijan e l'UNICEF, 21.07.06, Parc Agla

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6. Cotonou, quartiere Saint Cecil, Gandonou. Sulla moto, 10.08.06.

7. Cotonou, quartiere Saint Cecil, Gandonou, 10.08.06.

8. Cotonou, quartiere Saint Cecil, Gandonou, 10.08.06.

9. Cotonou, quartiere Saint Cecil, Gandonou, 10.08.06

amministrazione) tentano continuamente di formalizzarla,imponendo tasse, regole e segni distintivi e identitari.La presenza di sei sindacati (ufficialmente riconosciuti) e di ungran numero di associazioni per la difesa dei diritti degli zemijandimostra che non si tratta di una occupazione classificabilesemplicemente nell’economia informale ma che il gruppo di cuisi parla è oggetto di tentativi di organizzazione da parte di unpotere (foto 11 e 12).

La camicia

Nonostante gli zemijan tendano a sfuggire ad ogni tipo diclassificazione, sono portatori di caratteri che li identificano. Unodi questi è la camicia. Si tratta di una specie di “uniforme” che èstata imposta dall’amministrazione di Cotonou per prima, e poi daquelle delle altre città, per rendere gli zemijan identificabili econtrollabili. D’altra parte la stessa camicia risulta importante pergli stessi conduttori che così possono procurarsi clienti piùfacilmente.

A Cotonou la camicia degli zemijan è gialla, a Porto Novo è rossoamaranto, a Ouidah verde e così via… Una delle prime cose chesaltano all’occhio quando si entra nella città di Cotonou (che siain aereo o che sia in auto), al di là dell’aria grigia perl’inquinamento, è il giallo; il giallo delle camicie degli zemijan, ilgiallo dei trasporti e della disoccupazione (foto 10 e 13).La camicia da loro un aspetto “professionale”, permette delletransazioni economiche più vantaggiose con il cliente, li rendeidentificabili e, soprattutto, visibili.La visibilità acquisita con la camicia diventa una posta in gioconotevole; grazie alla visibilità possono avere accesso allaclientela, possono costituire un gruppo identificabile e che possaportare avanti richieste economiche e politiche; d’altra parte lacamicia diventa simbolo di disoccupazione, di povertà, didelinquenza. Gli zemijan infatti sono vittima di discriminazioni(o comunque si ritengono tali) perché considerati appartenentiai gradini più bassi della “scala sociale” beninese. Moltizemijan sostengono infatti che sia loro vietato entrare in luoghi

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10. Cotonou, pausa all'ombra. la moto deve sempre essere tenuta sotto controllo, 24.11.05

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11. Cotonou, incontro dei sindacati con la Sogema per una questione riguardante il traffico al mercato Dantokpa, 23.08.06, Centre Paul VI

pubblici (come scuole o palazzi amministrativi) indossando lacamicia gialla.La camicia porta dipinta sul dorso una targa (foto 2 e 3) chetestimonierebbe una registrazione amministrativa ma che non neè la garanzia; molti infatti sono quelli che autonomamentescrivono dei numeri e/o delle lettere sulla camicia spacciandoliper numeri “legalmente” registrati.La camicia è uno spazio strategico utilizzato non solo daiconduttori che la indossano ma anche da organizzazioni nongovernative o associazioni che se ne servono per pubblicizzare iloro “prodotti”, come la prevenzione dall’HIV o l’attenzioneall’ambiente. Gli zemijan fanno pubblicità spesso gratuitamente,in cambio di una camicia nuova (con qualche scritta aggiuntivasul dorso). L’ultima “campagna” a cui hanno partecipato con leloro camicie è quella dell’UNICEF intitolata “Toutes les filles àl’école”, per la promozione della scolarizzazione femminile (foto5).Le fotografie proposte vogliono evidenziare la camicia;seguendone le tracce, è possibile avvicinarsi alla percezione di

quello che è la camicia (quindi l’uniforme) per gli zemijan. È unoggetto onnipresente, sia indossato che steso o appallottolato suuna panca della sede del sindacato (foto 1). La camicia diventasimbolo fondamentale della loro professione e nello stesso tempodella loro disoccupazione. Un disoccupato a Cotonou è prestoevidente grazie all’uniforme gialla che porta. Segno diprofessionalità e di marginalità allo stesso tempo, la camicia vaportata in ogni momento della giornata, con qualsiasi clima (foto4). Deve essere ben visibile, non coperta da altri indumenti, deveessere pulita e “in ordine”. La camicia assegna un ruolo alguidatore che, in movimento per le strade della città o fermo adaspettare clienti negli angoli strategicamente importanti (foto 6),fa parte della vita economica e sociale che si svolge sulla strada.Così chi sta per strada (donne, bambini, venditori ambulanti) oltrea servirsi dello zemijan, ne condivide le attese e i tempi morti(foto 7, 8 e 9). La camicia, dapprima evidente, si confonde poi conla vita quotidiana (foto 9). Il giallo diventa confine tra informalee formale, tra clandestino e legale.

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12. Cotonou, gli zemijan ed il nazionalismo: anche la bandiera è gialla, 28.07.2006, Parc Cnhu

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Note

*Le fotografie sono state scattate a Cotonou (Repubblica del Benin) nel periodo di ricerca sul campo tra luglio e ottobre 2006,relativo al progetto di ricerca all’interno del dottorato in Antropologia della Contemporaneità presso l’Università degli studi diMilano, Bicocca; il progetto si focalizza sul ruolo degli zemijan nell’economia informale e sul loro essere dentro ai processi dicambiamento del paese. La ricerca è inserita nel Progetto MEBAO, progetto inter-universitario, finanziato dal Ministero degliAffari Esteri – Direzione Generale per la Promozione e la Cooperazione Culturale (DGPCC) e co-finanziato dal Dipartimentodi Scienze Umane per la Formazione "Riccardo Massa" dell'Università di Milano-Bicocca.1. Hart Keith, 1973, Informal incombe opportunities and urban employment in Ghana, Journal of Modern African Studies, 11, 61-892. Jean-Pierre Olivier De Sardan, 1995, Anthropologie et développement: essai en socio-anthropologie du changement social,Karthala.3. Le motociclette e i motorini oggi, nella maggior parte dei casi, vengono affittati da persone che ne acquistano alcune e le danno dautilizzare ad amici e conoscenti, i quali per parecchi mesi (almeno 12/18 mesi) devono pagare un affitto; alla scadenza del “contrattodi affitto” la moto diventa di proprietà del guidatore.

13. Cotonou, a casa con la pioggia, 03.09.06

“Abbracciamo il lago” è il nome di una manifestazione che sitiene, ormai da due anni, intorno alle rive del piccolo lago diVarese. L’evento suggella il successo della sua depurazione,depurazione iniziata circa vent’anni anni fa, in seguito allacertificazione del suo stato di inquinamento grave. Insomma,siamo di fronte ad una grande festa, il cui culmine è rappresentatodalla formazione di una catena umana lungo la nuova pistaciclabile che segue le sponde del lago. Un abbraccio simbolico dibentornato si concretizza in un rituale collettivo. Sembra unastoria a lieto fine, ma, come ogni buona storia che si rispetti,possiamo tuttavia ricavarne alcune interpretazioni più nascoste,forse meno idilliache, ma meritevoli di altrettanta attenzione. Il lago di Varese, nella regione della Lombardia, è situato nellazona dei laghi subalpini italiani, ad un’altitudine media di 238 ms.l.m. Si estende per un’area di 14,52 Kmq, con una profonditàmedia di 10,7 m. Esso riceve le acque da una dozzina di corsid’acqua a regime torrentizio, di portata pressoché trascurabile suscala annua. L’unico immissario significativo è il canale Brabbia,mentre l’unico emissario è il fiume Bardello.E’ un lago di origine glaciale formatosi diciassettemila anni fadalla riescavazione di depositi morenici e ghiaie cementate. Ilbacino giace in massima parte su rocce calcaree.Originariamente più esteso, comprendeva infatti il lago diComabbio, di Biandronno e la palude Brabbia. Il clima è di tipotemperato freddo caratterizzato da piogge nei periodi primaverilied autunnali, contrapposti ad un periodo relativamente seccoestivo. Tra gennaio e febbraio il lago può gelare. Il bacino è caratterizzato da una densità di popolazione di circa700 abitanti/Kmq, tra le più alte in Italia; ad esso appartengono 24comuni, tra cui, Varese Gavirate, Bardello, Cazzzago Brabbia,Bodio Lomnago, Galliate Lombardo, Azzate e Buguggiate.Nel 1863 sono stati trovati resti di civiltà delle palafitte nella partedi lago appartenente al comune di Biandronno, su una piccolaisola chiamata in passato S. Biagio, poi Donna Camilla Litta e, nel1878, Isolino Virginia, in onore della moglie di Andrea Ponti, suoultimo proprietario.Per millenni le sponde del Lago di Varese, prima chiamato diGavirate, furono abitate da popolazioni che vissero con il lago egrazie al lago.Quest’area, definibile quindi vero e proprio luogo, ossia parte disuperficie terrestre in relazione con l’uomo, caricata di valori e diuna sua ben specifica identità, ha stabilito da sempre vincoli benprecisi, ma anche interessanti possibilità per le comunità che nelcorso della storia vi hanno abitato. Il rapporto uomo-lago si ècaratterizzato per un reciproco condizionamento tra ambiente emodi di vita, favorendo la costituzione di un particolare

paesaggio, sintesi di azione umana e natura. L’attività principale di sostentamento fu rappresentata dalla pesca(basti pensare che la ricchezza di quelle acque lo decretò lago piùpescoso d’Europa), ma anche caccia, agricoltura, commercio eturismo, subirono, in tempi diversi, notevoli incrementi. Tuttavia, a partire dagli anni sessanta del ventesimo secolo, doposoli pochi anni di nascente industrializzazione, si avvertirono leprime avvisaglie di malessere: un quantitativo di pescatoinnaturale, più del doppio rispetto alla media. Di lì a pococominciarono, all’opposto, improvvise morie di pesce. Ilfenomeno fu dovuto all’eccessiva presenza di sostanze nutrientiprodotta da scarichi civili e industriali: eutrofizzazione, ossiatroppo azoto e fosforo nell’acqua, portati dalle fognature,nutrimento per alghe che crebbero così a dismisura. Le alghemorte diventano cibo per i batteri responsabili della lorodecomposizione. I batteri respirano ossigeno, sottraendolo alleacque e ai pesci. Lo sviluppo economico scardinò in poco tempo quellacooperazione fruttuosa, sostituendola ad una logica riduzionistanon più basata sul reciproco scambio tra comunità locali e lago.L’identità stessa di quel luogo cambiò radicalmente. Nel 1962 le prime analisi, realizzate dall’Istituto Idrobiologico diPallanza certificarono lo stato di inquinamento grave, mentre lapopolazione affermava che ormai il lago era “morto”. Ciò nonostante, nel 1965, nacque il consorzio per la tutela e lasalvaguardia delle acque del lago di Varese il cui compito fuquello di realizzare un primo sistema di depurazione. Nel 1986 fuavviato l’impianto di depurazione Varese-Lago, situato a Gaviratesulla riva destra del fiume Bardello. La struttura fu affidata allaSogeiva S.p.A. Varese ambiente, che la gestisce ancor oggi. Due lunghe tubazioni di circa 29 Km complessivi seguono tutto ilcontorno del lago ricollegandosi a Gavirate in un unico canaled’ingresso al depuratore, con lo scopo di portare all’impianto gliscarichi civili e d industriali delle fognature di ogni singolocomune rivierasco. Tuttavia, in un primo momento, l’impianto dasolo non poté garantire un recupero delle condizioni d’equilibrio,in quanto non andava ad incidere sul carico inquinante giàpresente nel bacino.Nel 1994 la Provincia di Varese affida al Centro Comune diRicerca di Ispra lo studio per il progetto di intervento diretto sulbacino. Nel 1997 prendono inizio i lavori. Nel 2000 vieneufficialmente avviata la fase operativa del Piano di gestione e dicontrollo dei fenomeni di eutrofizzazione del lago di Varesecoordinati dal CCR di Ispra e dall’Istituto di Biologiadell’Università degli Studi di Milano. Le operazioni principaliinterne al lago hanno implicato l’asportazione diretta delle

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Abbracciamo il lagoDepurazione e risignificazione del lago di Varese

di Paolo Grassi

biomasse; la biomanipolazione, ossia l’introduzione dideterminate specie di pesci e la pesca intensiva di altre perl’eliminazione dell’eccesso di alghe presenti sui fondali; lacircolazione e l’aerazione, per aumentare l’ossigeno disciolto inacqua; la diluizione, ossia la diminuzione del fosforo attraversol’immissione di acqua a basso contenuto di nutrienti;l’inattivazione dei sedimenti, ottenuta costruendo barriere adazioni chimiche sui sedimenti; la precipitazione chimica. Il Pianosta tutt’ora recando i suoi frutti e un primo bilancio dellecondizioni ambientali sembra aver decretato il suo successo.Il progetto non nasconde i possibili benefici economici, legatisoprattutto al turismo, che il risanamento del lago potrebbeapportare (ne è un esempio la pista ciclabile costruita intorno allago che attira ogni fine settimana molte persone).E’ interessante riportare diverse opinioni in merito apparse su untesto del 2001 dall’emblematico titolo “Lago vivo”, in onore delrisuscitamento del bacino.Scrive nella presentazione Carlo Crosti, l’allora presidente delConsorzio Provinciale per la Tutela e la Salvaguardia delle Acquedel Lago di Varese e del Lago di Comabbio:

“ Un ambiente sano, equilibrato e vivo garantisce soprattuttooggi, in una società dominata dall’accumulazione e dalla frenesia,quella qualità della vita di cui l’uomo moderno avverte lanecessità. Nel nostro territorio, ricco di verde e di corsi d’acqua, ilaghi hanno costituito dai tempi più antichi una risorsa vitale:acqua come luogo d’insediamento, acqua come fonte disostentamento, acqua come veicolo di culture e di persone…Dopo anni di sfruttamento, causato dall’avvento dell’eraindustriale, l’uomo sente il bisogno di riconciliarsi con la natura,perché è nella natura, nel paesaggio, nel cielo e nell’acqua chel’uomo può ritrovare quell’equilibrio psico-fisico spesso logoratodai tempi troppo veloci del consumismo” (AA. VV. Lago Vivo,2001. p.1)

Questa testimonianza sottolinea il recupero di un’area degradataal fine di una riconciliazione tra l’uomo e la natura, contro i valorinegativi della società moderna.Diversamente, l’allora Presidente della Provincia di VareseMassimo Ferrario sembra riconoscere al progetto diverse utilità:

“La Provincia di Varese… ha operato attivamente… per ridarevita e far tornare all’antico splendore le acque e le zone umide dicui è ricca. Non per un ritorno al passato, a tempi, a tradizioni, amodi di vivere, che non potranno più riproporsi, ma per l’intimaconvinzione che una corretta e positiva attenzione siaall’ambiente che alla natura, abbia risvolti positivi anche intermini di crescita culturale e – perché no – economica. E’ cosìche il Lago di Varese, che sembrava ormai morto, sta per tornarea nuova vita, per essere goduto non solo dagli abitanti delle suerive, ma anche da coloro che intendono praticare un turismodiverso, molto attento alle esigenze individuali”(Ivi).I due interventi, come si può notare, mostrano un similecompiacimento per gli obiettivi conseguiti rispetto al risanamento

del lago. Quello che cambia sembrerebbe, almeno esplicitamente,il fine del raggiungimento di tale traguardo. Forse forzatamente sipuò ricollegare questa sottile divergenza di opinioni ad undibattito ben più strutturato, quello tra preservazionisti econservazionisti iniziato a fine Ottocento nel contesto del primoambientalismo americano. Una similitudine azzardata, certo, mache può tentare perlomeno di paragonare due realtà scopribili nondel tutto estranee.La prima testimonianza richiama tematiche care alpreservazionismo, ossia ad “un ideale di natura santificata di perse stessa, della quale noi facciamo parte, al pari delle altrecreature” Schmidt di Friedberg Marcella: L’arca di Noè,conservazionismo tra natura e cultura, 2004. p.67). Carlo Crostiparla di riconciliazione, di equilibrio psicofisico attraverso lanatura, portatrice di valori opponibili alla società modernaindustrializzata. L’uomo è inserito nell’ambiente, le sue azionipossono rovinare il sistema naturale in cui agisce. Il lago di Vareserisanato sembra riacquistare un’integrità quasi morale. La seconda testimonianza è invece paragonabile ad unaconcezione conservazionista, se non altro per l’accento dato apossibili sviluppi economici dell’operazione di depurazione.L’ambiente si fa in questo caso risorsa, da custodire e damigliorare, attraverso la tecnologia.In questo senso sembra qui nascondersi un circolo vizioso tipicodell’ambientalismo contemporaneo: in generale, il progressotecnologico della prima metà del novecento ha portato ad unagrave crisi ambientale (riscontrabile appunto nell’inquinamentodel lago di Varese dovuto alla crescente industrializzazione), laquale ha prodotto predizioni catastrofiche (il lago era statodichiarato “morto”). La catastrofe non si è tuttavia avverata e unacomplessa risposta scientifica (l’impianto di depurazione el’intervento diretto sul bacino) ha portato alla negazione dellacrisi ambientale e ad una nuova fiducia nella scienza e nelprogresso. Ci si può chiedere appunto se l’ultimo passaggio nonrischia di rivelarsi un ritorno al primo, innescando nuovamente ilcircolo.A questo proposito viene di seguito riportata un’interessantetestimonianza che sembrerebbe prevedere un futuro nonnecessariamente idilliaco:

“I più tradizionalmente legati al mondo rivierasco avanzano laprevisione che il lago pulito rappresenterà un pericolo per iresidenti, perché immaginano, come prossima ventura, unaterribile invasione turistica, accompagnata da una speculazioneedilizia devastante e, in definitiva, dalla fine della tranquillità diun lago, il cui inquinamento ha sempre finora scoraggiato gliestranei” (AA. VV. Lago Vivo, 2001. p.18).

Amerigo Giorgetti, autore di queste righe, continua il suointervento definendo questa opinione solo in parte condivisibile,“dettata da una visione un po’ particolaristica del futuro del lago,basata inconsapevolmente sulla antichissima tradizione che illago appartiene alle varie comunità di villaggio rivierasche” (Ivi,p.19). “Ma a chi se no?”, obietteremo noi.

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La conservazione appare quindi in tutta la sua ambiguità. In primoluogo, come emerge anche dal contributo del presidente Ferrario,l’ecosistema che si sta tentando di ricostruire, attraverso unmassiccio impiego della tecnologia, non corrispondeall’ecosistema esistente cinquant’anni fa, qualcosa è quindiandato irreparabilmente perduto. In secondo luogo ci si puòchiedere quale sia il fine di tale risanamento: il recupero di untrascorso connubio tra uomo-natura, oppure il potenziamento delsettore turistico di una zona potenzialmente proficua? Su queste questioni aperte si innesta inoltre un discorso culturale:l’intervento necessita la trasmissione di determinati valori storico-culturali, affinché il lago continui a recare con sé una sua specificaidentità, unico vero motore per una tutela che parta dal basso,dall’azione di ogni singolo. Il lago non è di tutti, “appartiene soloa quelli che lo conoscono e lo amano per quello che è” (Ivi p.19),scrive, a ragione, lo stesso Giorgetti poche righe dopo.Il 24 settembre 2006 si è svolta lungo le sponde di tutto il lago diVarese la terza edizione di una manifestazione intitolata, comedetto all’inizio di questo articolo: “Abbracciamo il lago”, la qualeraggruppava una serie di iniziative finalizzate al mettere al centro,attraverso un momento di vita comunitaria, un elementogeografico e paesaggistico quale il lago appunto, riscopribile evalorizzabile in seguito al suo risanamento. L’avvenimentocopriva l’intera giornata, includendo le più svariate iniziative:mercatini, gare e stand gastronomici, musica, lotterie, artisti distrada, mostre di pittura e scultura, modellismo, sport e, inchiusura, uno spettacolo pirotecnico. Per dar contodell’imponenza della manifestazione basta dare una scorsa alprogramma: decine di eventi divisi si sono susseguiti in novecomuni, dalle 8.30 di mattina alle 23.00 di sera. In pratica, laquasi totalità del perimetro dello specchio d’acqua è stato animatoper quindici ore consecutive.Ciò che interessa qui descrivere più in dettaglio è l’iniziativaprincipale della giornata, tenutasi contemporaneamente alle ore16.30 in tutti i Comuni partecipanti (Varese, Buguggiate, Azzate,Galliate Lombardo, Bodio Lomnago, Cazzago Brabbia,Biandronno, Bardello e Gavirate). E’ stata infatti organizzata unacatena umana lungo la pista ciclopedonale che costeggia tutto ilbacino con l’intento di abbracciare, fisicamente emetaforicamente, il lago di Varese. Scrive nel 2004 il Presidentedella Provincia, Marco Reguzzoni:

“Cerchiamo di coniugare ambiente e necessità economiche.Abbiamo sempre sostenuto che solo una buona conoscenza dellarealtà in cui si vive è preludio alla consapevolezza della sua tutela.Oggi questi nostri impegni di amministratori si concretizzano inun atto simbolico, l’abbraccio intorno il lago, che vuole essereun’occasione per dimostrare attenzione alla salvaguardia di unimportante patrimonio paesaggistico e storico-naturalistico.L’abbraccio è anche simbolica alleanza di chi vive intorno al lagoe di chi semplicemente lo ama e lo conosce per difenderlo da ognideturpamento, da ogni aggressione… L’abbraccio serve a farsentire ancora maggiormente il desiderio di tutti di andare avantilungo questo processo [di recupero del lago]” (Da un opuscolo

informativo sulla manifestazione).

L’intervento si apre con la solita sottolineatura agli interessieconomici che sottostanno l’operazione di depurazione esensibilizzazione. Tuttavia, subito dopo il Presidente dellaProvincia pone l’accento sul carattere simbolico dell’abbraccio,un gesto dimostrativo per ribadire l’importanza dellasalvaguardia, del rapporto tra lago e chi vi vive intorno.“Sentiamo con te questa situazione, ti abbracciamo per darti ilnostro sostegno. Noi ci siamo e te lo stiamo manifestando”,sembra comunicare questo atto.Giangiacomo Longoni, Assessore provinciale al MarketingTerritoriale e Identità culturale ribadisce questi concetti:

“Abbracciamo il lago significa dare il bentornato al lago di Varesedopo un duro lavoro di recupero iniziato dalla nostra Provincia.Dunque questa manifestazione non è solo un abbraccio simbolico,ma rappresenta il concreto ritorno dell’affetto dei cittadini neiconfronti di una cultura e di una esperienza millenaria”.

L’assessore sottolinea, giustamente, il fatto che il risanamento dellago ha implicato un riavvicinamento della popolazione con esso.L’abbraccio si fa allora anche gesto concreto del ritorno di unacomunità al proprio ambiente.A questo punto, è interessante compiere un paragone, con ledovute accortezze, tra l’iniziativa descritta ed un’esperienza percerti versi analoga, anche se di certo ben più strutturata,storicamente e culturalmente: il movimento ecologista indiano delChipko.Tale movimento, nato, sembrerebbe, addirittura trecento anni fa,deve tuttavia la sua fama soprattutto agli sviluppi più recenti e allasua relativamente recente espansione (dagli anni Settanta inparticolare). Chipko significa abbracciare, gesto dimostrativo diventatoemblema dell’organizzazione. Ma abbracciare che cosa? Inquesto caso non un lago ma degli alberi. E’ proprio in tale azioneche si concentra il nucleo simbolico del Chipko. Abbracciaresignifica ribadire la propria alleanza con lo specifico ecosistemain cui ci si trova immersi, contro i tentativi della suaespropriazione, messi in atto da una logica capitalista tendenteallo sfruttamento. Abbracciare significa sostenere l’importanzadella biodiversità, contro la deforestazione o l’introduzione dimonoculture di legname commerciabile. Abbracciare un alberoautoctono ribadisce l’importa che quella particolare piantaassume per quella particolare società: un eucalipto fornisce forsepiù legname commercializzabile, ma è privo di quella materiafunzionale ad altri scopi (rami, frutti e foglie), di primariaimportanza per le comunità rurali, oltre che necessitare di unamaggiore quantità d’acqua per sopravvivere, sottraendolainnanzitutto al suolo e favorendo quindi il suo inaridimento.Il Chipko è un movimento femminista, che tenta di recuperare ilprincipio femminile della natura, ossia la natura vista comeriproduttrice e nutrimento per ogni esistenza.Il Chipko promuove forme di sussistenza basate su conoscenze

tradizionali locali, che permettono la conservazione degli habitat,unita a migliori condizioni di vita, contro la mentalità violenta,maschile, dell’occidente, tendente, al contrario,all’omogeneizzazione, alla distruzione della biodiveristà.Vandana Shiva parla di monoculture della mente (Shiva Vandana:Monoculture della mente1995), paradigmi riduzionisti chesovrastano le azioni del mondo industrializzato, minacciando cosìla sopravvivenza delle specie e degli uomini.L’abbraccio dell’albero ricorda l’abbraccio del lago: il gestoimplica in tutti e due casi una dimostrazione di affetto, diprotezione, di relazione. Tuttavia l’abbraccio del lago nasce in unpaese di quell’Occidente criticato dal Chipko, come propostaproveniente dall’alto, dalla Provincia, da un’operazione dimarketing territoriale, celebrazione di un atto politico che haavuto successo. L’abbraccio del lago onora la tecnologia che ha

saputo restituire alla comunità un ambiente risanato, nonproponendo effettivi modelli alternativi. L’abbraccio del lagorischia di essere figlio di quel circolo vizioso delconservazionismo descritto sopra.Tuttavia l’abbraccio del lago sottolinea una relazione, unacomunanza tra popolazione e sistema naturale che trova le sueradici nell’uomo del Neolitico dell’isolino Virginia, passando peril pescatore di inizio secolo e il cavatore degli anni sessanta, finoai giorni nostri, ribadendo l’importanza di tale rapporto,festeggiandone il ritorno. Forse, dando impulso a questi elementiculturali, piuttosto che a fini economici tendenti al profitto, sipotrà evitare un possibile ri-sfruttamento, certo oggi non piùindustriale, ma essenzialmente turistico, del lago di Varese,garantendone così l’equilibrio (anche rispetto l’azione umana) ela sopravvivenza.

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Bibliografia

AA. VV. La palude Brabbia, Pubblinova Edizioni Negri, Varese1992.AA. VV. Lago di Varese, condizioni ambientali e soluzioni per il risanamento, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle comunitàEuoropee, Lussemburgo1995.AA. VV. Lago di Varese, condizioni ambientali e soluzioni per il risanamento (primo biennio di attività degli interventi diretti2000/2001), Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle comunità Europee 2002.AA. VV. Lago Vivo, GMC editore Varese 2001.Costa, Fassi, Prando: Sillabario prealpino Nicolini Editore, Varese 1989. Schmidt di Friedberg Marcella: L’arca di Noè, conservazionismo tra natura e cultura, Giappichelli Editore, Torino 2004.Shiva Vandana: Terra Madre, sopravvivere allo sviluppo UTET, Torino 2002.Shiva Vandana: Monoculture della mente Bollati Boringhieri, Torino 1995.

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4. Partecipare

La distanza tra antropologia generale, antropologia applicata ecooperazione allo sviluppo, nella prospettiva fin qui tracciata puòforse essere riconsiderata. Questioni di ordine teorico,epistemologico e politico spingono ad una convergenza di questeattività verso una comune pratica di campo aperta ai rispettivicontributi e a forme di partecipazione con le comunità locali semprepiù profonde. È chiaro che notevoli resistenze si oppongono ad unasimile trasformazione, sia all'interno dell'accademia che nelleistituzioni coinvolte nella cooperazione internazionale: resistenzeche dipendono dalla difesa delle differenti posizioni acquisite edalle relative rendite economiche e sociali, ma soprattutto dalletrame pervasive di discorsi e dispositivi egemonici che formanobisogni naturalizzati, incorporati nell'agire quotidiano. La messa in pratica di un atteggiamento partecipativo nei metodidella ricerca etnografica implica una particolare definizione deitempi, dei luoghi e delle modalità di elaborazione dei progetti diricerca. Questione del tutto analoga a quella che coinvolge leagenzie dello sviluppo nella determinazione dei progetti dicooperazione. L'antropologo Vittorio Rinaldi ci ricorda che ilprogetto di "aiuto", concepito teoricamente come strumentooperativo, nella pratica è trattato come un fine, mentre gli effettidiacronici della sua realizzazione divengono epifenomeni.

«Quando arriva il cooperante si fa tabula rasa di tutto quello che c'eraprima, […] mentre chiaramente la gente con cui collaboriamo ha una suastoria, un passato che precede le vicende del progetto. Il progetto diventauna parentesi della loro vita, una fase considerata transitoria. I partnerlocali […] sanno che molti progetti che vengono approvati sono viziati daalcuni errori di fondo, tuttavia hanno appreso che in ogni caso arriverannodegli investimenti, che ad un certo punto i cooperanti se ne andranno, e cheinfine rimarranno dei beni. C'è un opportunismo da parte locale che nascedal fatto che il progetto è un episodio contingente. Da questo punto di vista più che per progetti dovremmo pensare a rapportidi comunanza, di gemellaggio, di partnership prolungate nel tempo. […]Una cosa è realizzare un progetto che si esaurisce in 2 o 3 anni, altra cosaè organizzare in un territorio un gemellaggio di lungo periodo, ungemellaggio che coinvolge più istituzioni. […] Un gemellaggio diuniversità, di progetti di cooperazione che si inseriscono in una prospettivaa lungo termine […]. Ciò implica anche la necessità di ridurre le proprieambizioni territoriali. […] La logica del gemellaggio è una logica che

blocca su un territorio».34

Edoardo Occa, responsabile di un progetto di sviluppo in Tanzania,così racconta le sue inquietudini di cooperante:

«Un fattore destabilizzante, nei confronti della ricerca di una piena epartecipata sostenibilità, riguarda la formula stessa della nostra presenzasul territorio. Circa ogni due anni, infatti, il personale responsabile in lococambia, e questo genera inevitabilmente scompensi nella gerarchia dellepriorità progettuali e nei rapporti interpersonali con la comunità; sottolineoquesto punto in quanto, sebbene ognuno di noi cerchi di svolgere il propriocompito con il massimo rigore professionale, il fattore umano,comportamentale e adattivo, di ciascun cooperante si declina ogni voltasotto personalissimi schemi di riferimento, i quali non possono che venirregistrati e ricalibrati dalla controparte, all'insegna dei medesimi codicicomunicativi. Questo comporta, secondo noi, l'insorgere di una sorta di"schizofrenia" del progetto di cooperazione, causata da una situazione incui input differenti vengono forniti e successivamente squalificati da figure(noi che lavoriamo nel progetto) che, nella lettura della popolazione, sonoinvece assunte come un'unità difficilmente districabile in singolesoggettività.Questa situazione di apparente "doppio vincolo" rischia a volte di creare uncircolo ermeneutico dal quale è difficoltoso uscire, per dipanare il quale sinecessita di notevoli risorse in termini di tempo ed energie» ( Occa 2006:71).

Nella progettazione della ricerca antropologica, accogliereosservazioni critiche di questo genere significa, in primo luogo,impegnarsi nella trasformazione delle relazioni che legano iricercatori ai propri interlocutori, provando a fare dell'analisi deiproblemi che il campo esprime, dell'immaginario e delle trame deiracconti che in esso si formano, il momento centrale del propriolavoro etnografico. Il superamento di un oggetto di ricerca precostituito, verso ladeterminazione dialogica di un oggetto di ricerca vivo, la ricercadell'oggetto di ricerca e l'inquietudine circa il contenuto del dialogo,divengono fondamento e punto di avvio della prassi etnografica.L'antropologo, accogliendo questa concezione della ricerca sulcampo, si trasforma in un operatore enigmatico. La suaindecifrabilità diviene il nucleo poietico in cui l'alterità dell'altropuò parlare, lasciare delle tracce, mostrare dei sintomi.L'antropologia acquisisce gli spazi dove ospitare la differenza.

La Verifica IncertaNote a margine di una missione in Angola

di Michele Parodi

(Seconda Parte)

Facendo nostra la terminologia di Ivan Illich, l'incontro di alteritàche il lavoro etnografico prevede, proprio in quanto ospitalità cheallude ad una precedenza dell'altro, ad un'apertura che si espone allasua venuta, è un incontro conviviale: rapporto di reciprocità semprenuovo, opera di persone che partecipano alla creazione della vitasociale conciliando l'efficacia dei propri strumenti con la propriaautonomia, così ritrovando sia la dimensione personale che ladimensione comunitaria (Illich 1993: cap. II, La ricostruzioneconviviale).Considerare le assonanze tra le pratiche della cooperazioneinternazionale, della ricerca accademica e, più in generale,dell'istruzione e del sapere, ci aiuta, in secondo luogo, a pensare imiti fondatori che ne sostengono e legittimano l'autorità. Ci aiuta ascoprire le liturgie impiegate per generare la convinzione che sitratti d'imprese necessarie a difendere e potenziare la società,svelando le logiche che ne sostengono il funzionamento. Al mitodello sviluppo fanno così eco i miti dell'educazione e dellaconoscenza.Una prospettiva di questo genere indica la via verso lacomposizione di legami di lunga durata tra i ricercatori, i luoghidella ricerca e i vari soggetti che in esso vi operano: le istituzionipolitiche, gli uffici amministrativi, le Università, le ONG e leorganizzazioni internazionali, le associazioni e i gruppi di opinionelocali, infine le singole persone che con il loro operare quotidiano esingolare trasformano i macchinari burocratici a cui sonoassoggettati sperimentando tattiche di resistenza o adeguandosi informe disciplinate. La radicalità dell'antropologia si coniuga alloracon un'effettiva com-partecipazione ai problemi locali cheemergono dal campo. Come James Peacock ci ricorda (Peacock 2005), lo slogan "Thinkglobally, act locally", può essere ripensato estendendo da un lato illocale ai luoghi della scrittura e dell'accademia, e dall'altro,indagando le condizioni con cui il globale attraversa il locale. Ilposizionamento marginale dell'antropologo, il ruolo sovversivo chetale collocazione induce, sviluppa allora tutte le sue potenzialitàcritiche. Possiamo immaginare forme di cooperazione che evitandodi prendersi carico acriticamente degli effetti perversi dellepolitiche globali, così diventando funzionali alla loro riproduzione,sono in grado, al contrario, di alimentare le capacità dimobilitazione delle risorse sociali e individuali con cui affrontare ledinamiche complesse del presente.

5. Sintomatologia di un'esperienza di cooperazione

Cercherò ora di collegarmi alla mia breve esperienza dicooperazione in Angola per fornire un'immagine del tipo di lavorodi campo che ha suscitato le idee presentate nei paragrafiprecedenti. Le varie fasi della mia missione sono piuttostoindicative delle difficoltà di tale prospettiva. Allo stesso tempo,forniscono alcuni spunti per pensare concretamente una prassidialogica impegnata criticamente.

Gli obiettivi della mia missione in Angola coinvolgevano la possibilità di avviare un

processo di scambio, o di "sostegno" pedagogico, a partire dai nuovi orientamenti

didattici partecipativi proposti dalla riforma della scuola elementare italiana.

Giunto a Luanda mi ero subito impegnato a cercare di capire su quali basi

metodologiche costruire un rapporto collaborativo con gli insegnanti della scuola

423 di Sambizanga, uno dei quartieri periferici della capitale.

Il gemellaggio, avviato nel 2004, mi pareva fino a quel momento, non aver

considerato la possibilità di coinvolgere direttamente i professori angolani

nell'elaborazione dei percorsi didattici che invece erano destinati a sperimentare in

modo piuttosto passivo. L'occasione di poter condividere con essi un intero mese di

scuola mi sembrava un'opportunità ideale per svolgere un tentativo che in

precedenza non era stato forse possibile realizzare. Mi pareva che per far loro

comprendere le idee della nuova didattica partecipativa l'unica possibilità fosse

quella di lavorare insieme in modo altrettanto partecipativo, mettendo in pratica gli

strumenti pedagogici che queste idee suggerivano, cercando di farle operare sui

problemi, le esigenze, i desideri che potevano emergere dal contesto di Sambizanga,

con la consapevolezza infine di doverle probabilmente cambiare di fronte alla

diversità imprevedibile di una realtà così lontana.

Volendo cercare di accogliere l'alterità a cui mi esponevo, senza pretendere di ridurla

immediatamente ai miei schemi, intendevo adottare un atteggiamento riflessivo

decostruttivo dei miei pregiudizi. Con questo comportamento aperto e creativo

speravo anche di creare negli insegnanti la curiosità e l'interesse per questioni

teoriche altrimenti astratte e poco motivanti. Allo stesso scopo andavo anche

immaginando delle attività didattiche che mettessero al centro - oltre al recupero e

alla valorizzazione della cultura locale, delle lingue nazionali, delle tradizioni rurali

- il presente e il futuro, il possibile, il sogno, una micro progettualità volta a pensare

piccoli interventi capaci di modificare concretamente il proprio ambiente

quotidiano.

Nei primi giorni cercai di organizzare una serie d'incontri e interviste con singoli

professori e con piccoli gruppi d'insegnanti. L'idea era quella di progettare insieme

a loro delle nuove attività didattiche e in questo processo capire dialogicamente i

differenti e possibili modi di immaginare la didattica nel contesto di Sambizanga.

Pensavo che in seguito sarebbe stato possibile proporre anche agli insegnanti italiani

le schede sviluppate, costruendo sulla loro analisi un possibile scambio di proposte

e suggerimenti.

Questa linea operativa, che mi sembrava dopo la prima settimana molto promettente,

si scontrò, ad un certo punto con lo schema comparativo su cui si basava il progetto.

Le schede didattiche già in precedenza preparate in Italia, dovevano essere proposte

agli insegnanti angolani senza apportare sostanziali modifiche, se non nel tipo di

prodotti finali da raccogliere: disegni o testi, ecc., in modo da permettere il raffronto

tra le esperienze e i prodotti realizzati a Roma e Luanda e avviare una fase dialogica

coinvolgente direttamente i professori delle due scuole sulla base di un identico

percorso. Stravolgere il contenuto delle schede significava perdere in seguito la

possibilità di analizzare in senso comparativo i lavori prodotti dalle due scuole,

rischiando di far fallire il progetto congiunto. Ogni attività aveva un suo scopo

pedagogico e doveva essere proposta, dagli insegnanti delle due scuole, con

modalità analoghe. Di conseguenza, il mio sforzo per stabilire delle relazioni molto

partecipative e dialogiche con gli insegnanti della 423 doveva essere rivisto.

Rimasi piuttosto contrariato dal fatto che la libertà d'azione che mi ero conquistato

mi fosse improvvisamente tolta. Narcisisticamente, pretendevo arrogarmi un ruolo

molto più attivo e propositivo di quello che mi era stato assegnato, quasi che il solo

fatto di essere sul campo mi autorizzasse a sostituirmi ai responsabili e agli ideatori

del gemellaggio. Non avevo preso a sufficienza in considerazione quanto il progetto

fosse indipendente da me, avendo già seguito un suo percorso prima del mio arrivo

e avendo prospettive a lungo termine più ampie di quelle che potevo immaginare

sulla base del mio intervento. Avevo creduto che tutto ciò che ritenevo importante

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dovesse essere compiuto o almeno avviato durante la mia missione.

Nonostante il mio iniziale disappunto mi resi conto ben presto che le osservazioni

che mi erano state rivolte erano del tutto sensate. Decisi così di abbandonare il modo

precedente di relazionarmi con gli insegnanti angolani. Da una presenza critica e

creativa molto viva, impegnata a coinvolgere i professori in un processo riflessivo,

mi limitai a seguire i professori nella proposta di una scheda didattica sugli animali,

osservando con cura il modo con cui gli insegnanti angolani programmavano e

realizzavano le attività previste.

In questa fase della missione, mi accorsi che alcuni aspetti problematici del progetto

dipendevano dal fatto di fondarsi su una limitata conoscenza della Scuola 423, del

modo di lavorare dei suoi insegnanti e del sistema di istruzione pubblica in cui il loro

lavoro si inseriva. A partire dalla terza settimana iniziai così a dedicarmi ad

un'attività "etnografica" più descrittiva che partecipativa, un compito che era

contemplato nel mio mandato ma che fino ad allora non avevo messo al centro della

mia attenzione. Cercai così di studiare dettagliatamente, attraverso interviste ed

osservazioni dirette del lavoro in classe, il modo di insegnare dei vari professori, il

loro stile, scoprendo ad esempio tra di essi una sostanziale uniformità, una comune

cultura pedagogica.35

Da questa breve sintesi emergono chiaramente alcuni punti criticidel progetto di gemellaggio:

1) Il progetto è stato elaborato a partire da una conoscenza minimadella realtà della Scuola 423 e del contesto sociale ed istituzionalein cui era inserita.2) Gli insegnanti della scuola non sono stati coinvolti attivamentenella sua elaborazione e quindi per molti di loro il sensocomplessivo del progetto è rimasto poco chiaro. 3) La partecipazione è stata proposta a posteriori mentre i tentatividi cambiare radicalmente il progetto in corso d'opera sono statigiudicati forvianti rispetto la sua organizzazione sistematica. 4) La breve durata della mia permanenza, il mio attivismoirrequieto, gli improvvisi cambiamenti nel mio modo di operarenella scuola, hanno contribuito a confondere le idee che gliinsegnanti angolani avevano del gemellaggio, mostrandone tutta lacontingenza e precarietà.

La relazione finale che ho presentato all'ONG responsabile delgemellaggio - dove ho richiamato le mie difficoltà, i puntiproblematici della struttura del progetto, insieme ad alcuneproposte per il suo prolungamento -, è stata accolta con grandeinteresse e favore. Nonostante ciò, i coordinatori delle strategiedell'ONG, in seguito, hanno ritenuto il progetto non prioritario.Dopo l'allestimento di una mostra a Roma dove sono state espostele opere realizzate dai bambini di Luanda e della Scuola di Roma,evento che ha permesso all'ONG di ottenere una certa visibilità,tutto è stato sospeso. Anche la mostra che si sarebbe dovutarealizzare a Luanda in Settembre, è stata infine annullata.L'esito deludente dell'iniziativa non rappresenta un caso sfortunato,ma invece la norma della gran parte dei programmi di cooperazioneinternazionale. Come segnalano le osservazioni di Rinaldi e Occa iprogetti di sviluppo si svolgono secondo scansioni temporali spessoschizofreniche che non permettono il radicarsi del progetto nelcontesto della sua realizzazione. Il progetto rimane allora un corpo

sterile da sfruttare, oppure un organismo parassitario che assorbe econsuma energie, contribuendo a disorganizzare il tessuto socialelocale.

6. Giochi linguistici e somiglianze di famiglia

Nelle ultime due settimane della mia missione a Sambizanga, hointervistato numerosi professori della Scuola 423 allo scopo dicomprendere quali "benefici" si aspettassero dal progetto prima delmio arrivo e quali opinioni avessero in seguito maturato durante lamia permanenza a Luanda. M'interessava sapere quali erano iproblemi che secondo il loro punto di vista si erano verificati e qualiaspetti era opportuno cambiare. Volevo, inoltre, raccogliere unaserie di proposte su come organizzare il futuro del programma digemellaggio.Di tutta la mia esperienza a Sambizanga mi soffermerò inconclusione su quest'ultima parte, sui momenti in cui,

«[…] per mezzo dell'intimità acquisita durante un mese di assiduefrequentazioni, il dialogo con i professori della 423 ad un certo punto mi èparso aprirsi. Come se la nostalgia prodotta da un'imminente separazione36

ci spingesse a pretendere di stringere dei legami ideali tra le nostre vite.Come se per essi la mia presenza, e allo stesso tempo per me l'essere statotra loro, dovesse per forza significare qualcosa di prezioso e di operativo,una risorsa immaginifica con cui costruire nuove storie» (Parodi 2005: 49).

Rileggendo queste note, mi accorgo come anche qui si riveliqualcosa di me, della "faccia" che ho cercato di mostrare agliinterlocutori e ai committenti del mio lavoro, il ruolo di "uomoonesto" che ho costruito sul campo e dopo, nel testo, attraversol'uso "retorico" di un tono di "genuina" partecipazione affettiva. Sitratta di forme stilistiche di occultamento dei rapporti diassoggettamento di cui anch'io sono stato parte? Forme didistinzione attraverso cui affermare la mia indipendenza rispettoalle pratiche di cooperazione? O di effettivi "interludi bucolici"rovinati dai vincoli temporali e strategici del progetto? 37

Riporterò alcuni brani delle conversazioni avute con alcuni degliinsegnanti della Scuola di Sambizanga, alcune interviste con ilprofessor Cabeto e la professoressa Marcelina, che per motividiversi hanno assunto per me un significato esemplare.

Cabeto

Con il professor Cabeto ho avuto spesso lunghe discussioniteoriche sui problemi della pedagogia. Un giorno festivo abbiamopotuto conversare senza particolari limiti di tempo. Nella scuoladove ci eravamo dati appuntamento, oltre a noi, vi erano soltanto gliaddetti alla sicurezza. Nell'aula vuota e silenziosa, il nostro incontromi appare, nei miei ricordi, "strano" e affascinante. L'incontro didue soggettività che si fronteggiano nella loro differenza.

M.: Cabeto, per te conoscere cosa significa?Cabeto: […] Un bambino per conoscere una cosa deve prima osservare,poi può conoscere la cosa che sta vedendo. Conoscere significa sapere

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qualcosa di una cosa sconosciuta. Prima devo osservarla poi devochiedere informazioni a chi già la conosce. […] Devo sapere il nome dellacosa stessa.M.: Sapere il nome o dare un nome, battezzare la cosa con un nome…Cabeto: Si, ma prima di battezzare una cosa con un nome nuovo bisognainvestigare per conoscere se questa cosa per caso non ha già un nome. […]È qui che la persona, se non sa, allora formulerà delle domande,investigherà tra le altre persone, cercando di capire se qualcuno già nonla conosce. Perché se gli da un nome quando ha già il suo proprio nomeallora commette un errore. M.: Dopo aver conosciuto il suo nome, cosa resta da fare?Cabeto: Bisogna mettere in pratica quello che si è appreso. M.: Cosa significa mettere in pratica?Cabeto: Per esempio, stiamo facendo una lezione sulla Palanca Negra[una specie di antilope presente solo in Angola e nel nord della Namibia].La Palanca Negra è un animale quadrupede, ruminante,… La pratica èesercitarsi ad usare le nozioni conosciute, […] mostrare esempi. Peresempio se sto facendo una lezione sugli animali posso chiedere aglialunni: a cosa serve la carne? Come si chiama la persona che caccial'animale? Quali sono gli strumenti di caccia che conosci?M.: Esempi del modo con cui gli uomini utilizzano gli animali.Cabeto: Mettere in pratica significa parlare di cose reali. Per prima cosabisogna insegnare agli alunni che gli animali non servono solo per lacaccia, è necessario anche conservarli per consentire la loro riproduzione.Se li ammazziamo anarchicamente allora possiamo restare senza animali.M.: C'è allora un'altra fase del processo di conoscenza, il riflettere suiprodotti, i risultati della pratica.Cabeto: […] Riflettere sui benefici…38

Da questo dialogo sembra emergere, con una certa evidenza, lacentralità della dialettica tra domanda e risposta nell'organizzazionedel rapporto pedagogico tra l'insegnante e i suoi allievi. Ildomandare diventa una pratica non solo conoscitiva, ma anchesociale, una pratica in cui per prima cosa deve essere stabilita larelazione tra ciò che si conosce e il sapere culturale di cui si èpartecipi. Nella seguente intervista a Cabeto, compiuta alcunigiorni prima della mia partenza, rimane qualcosa di incompreso,come se concetti apparentemente così ovvi, come "domandare","rispondere", nelle parole dell'insegnante, assumessero unsignificato nuovo e per me ancora indecifrabile. Come se qualcosaresistesse e sfidasse il mio pensiero, reagendo ai miei interventi checercavano di condurre la conversazione verso i piani più consolidatie convenzionali dei discorsi della pedagogia "occidentale".

M.: La tua esperienza nel progetto, il nostro incontro, ha cambiatoqualcosa nel tuo modo di insegnare?Cabeto.: Si, lo ha cambiato, qualsiasi incontro pedagogico produce unmiglioramento. […]. Nel prossimo mese metteremo in pratica le forme dididattica che abbiamo appreso. Per esempio, in primo luogo bisogna faredomande agli alunni, ma subito dopo bisogna incoraggiarli, perché, comesi dice in pedagogia, bisogna costruire la lezione, e come costruire unalezione? Mettendo insieme le idee del professore con le idee degli alunni.E come possiamo fare per esplorare le idee degli altri? Con delledomande. Nel momento stesso in cui formuliamo delle domande agli

alunni, essi vanno a proporre le loro idee.M.: Si, io penso che sia importante fare domande, ma penso anche che siaimportante spingere gli alunni a formulare, ad immaginare loro stessi delledomande. Le domande devono nascere anche dai bambini, non devonosolo essere imposte dal professore. Il professore da una struttura ma poi èil bambino che deve immaginare, a partire dalle sue idee, nuove domande.[…].Cabeto.: Si, quando presentiamo una nuova materia, alcuni alunnirispondono, mentre altri possono suggerire nuove domande. Gli alunnidevono essere in grado di fare domande, non è solo il professore chedomanda.

M.: Si, è così. Mi sono accorto, osservando le lezioni, che gli alunni sonomolto timidi, non hanno piacere a parlare in pubblico, hanno un poco dipaura, io credo… Penso che un compito del professore sia anche quello disviluppare la capacità dei bambini di essere indipendenti, autonomi.Cabeto.: Si perché… è importante che gli alunni durante la lezione sianoliberi, non possiamo opprimere i bambini, perché altrimenti nonriusciranno a sviluppare le proprie capacità. Noi dobbiamo direzionare ibambini in un modo tale che si sentano liberi in aula. Se un bambino sisente libero allora comincia ad immaginare e può conseguire dei buonirisultati, conversa con i compagni e impara, si sente libero di faredomande al professore.39

Tra le righe di questi dialoghi "filosofici" s'incontrano forse duegiochi diversi, anche se simili, due giochi che con le loro trameformano un tessuto di sottili connessioni, relazioni quasi invisibiligenerate dal desiderio di comprendersi e conoscersi. Trascrivendo quest'intervista - conquistato dalle memorie letterariedelle classiche monografie etnografiche, con la loro magia, lamistica della scoperta di un'alterità remota - ho pensato quanto avreipotuto imparare da una permanenza di molti mesi, quante altredomande avrei potuto rivolgere, quante cose difficili e quasiimpercettibili lentamente avrei colto dalle parole, dagli sguardi, dai

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I professori Cabeto, Magalhaes, Santos, Kumbi. Preparazione della prova parcelar di fine trimestre. Aprile 2005. Foto dell’autore.

gesti dei miei interlocutori. Qui si mostra con evidenza anche laforza egemonica delle mie affermazioni, la loro "autorevolezza",fondata su una dominazione politica, economica e culturale, che siimpone su discorsi che avrebbero forse voluto sfuggirgli. Ciò chesul campo mi era sembrato privo di interesse si rivela un inizioappena accennato, uno scarto che non ho avuto la capacità, nelbreve tempo a mia disposizione, di vedere ed esplorare. Certo, con Cabeto sono riuscito a costruire una bellissima amicizia,ho visitato la sua casa e incontrato i suoi bambini. Con lui ho giratoper il quartiere di Sambizanga. Riascoltando ora la sua voce misembra di essere ancora di fronte al suo sguardo dolce ecomprensivo. Qualcosa di oscuro e "intrigante" rimane però nellesue risposte. Ciò è forse il primo seme di una forma di opposizionecontrastiva e asimmetrica, preludio di un lavoro di rimodellamentod'identità, di una parziale fusione di orizzonti tra assimilazione edifferenziazione. Primo frutto di una consapevolezza superiore,quasi fisica e corporea, del nostro essere nella scuola.

Marcelina

Una delle ultime insegnanti intervistate è stata la professoressaMarcelina. Nei frammenti d'intervista che seguono, traspare lapossibilità di stabilire un confronto sul terreno elementare deibisogni quotidiani, di problemi che riguardano la carne stessa dellagente: nutrirsi, vestirsi, avere una casa; di corpi che manifestanouna propria espressività che trapassa la differenza delle culture.

Marcelina.: Non so perché il lavoro fu ripetuto, il lavoro fu fatto l'annopassato e il professore Michele [riferito a me] voleva che noi lo facessimodi nuovo, […] io penso che questo non fosse necessario, non ha logica.M.: Per te lavorare su una nuova scheda è ripetere il lavoro dell'annopassato…Marcelina.: Si, è stancante, bisognerebbe fare un altro programma,un'altra cosa, diversa dalle schede, differente dall'anno passato. Non c'èvantaggio a ripetere lo stesso lavoro. Io pensavo ad un altro tema,migliore, differente […]. Perché qui in Angola abbiamo molto lavoro,abbiamo i programmi, dobbiamo fare molte cose […]. Troviamo dei temimigliori… Ciò di cui si è parlato [la famiglia, le piante,..] va bene, ma cisono anche altri temi.M.: Per esempio che tema potrebbe essere interessante? Cosa intendi pertema?Marcelina.: Per esempio il tema delle famiglie di profughi, di rifugiati,…il tema della fame. Veniamo da una guerra molto dura, e la fame, lacarenza di vestiti continua,… dei problemi del popolo, il popolo non se lapassa molto bene, non ha vestiti, scarpe […]. I bambini che vengono qua,non mangiano e quando tornano a casa non mangiano, così non riesconoad apprendere.M.: Pensi che questi temi si potrebbero proporre ai bambini o vorrestiinvece che fossero discussi con i professori?Marcelina.: Io penso che ci dovrebbe essere un dibattito, qui nella scuola,insieme con te che sei venuto ad aiutarci.40

In seguito abbiamo parlato della mia idea di fare un orto di miglionel terreno dissestato tra i due edifici della scuola, area piena di

pozze maleodoranti, luogo ideale di riproduzione delle zanzare chetrasmettono la malaria. Qualche giorno prima, avevo scoperto unsignore di Sambizanga che con cura e passione era riuscito acoltivare a miglio, di fianco alla sua casa, un piccolo pezzo di terraargillosa, terra del tutto simile a quella confinante con la scuola. AMarcelina sembrava una buona idea per insegnare ai bambini iprincipi dell'agricoltura. Proponeva di sviluppare la stessa idea inun terreno più grande, nella periferia della città, così avviandoun'attività potenzialmente utile per tutta la comunità della scuola.Non sono qui rilevanti le idee operative stravaganti e paternalisticheda me immaginate - che segnalano la mia incapacità e impossibilitàdi operare ad un più alto livello di coscienza politica -, quantoinvece l'emerge, tra le righe, di nuove aspettative e desideri: ildesiderio di conoscere, apprendere e dibattere insieme in formeparitarie, di elaborare nuove strategie pedagogiche e nuovi modi diessere nella scuola e nel quartiere. Quando chiesi ad un altro insegnante, il professor Sousa, che cosafosse mancato nei nostri incontri mi rispose:

S.: Bene, è mancato un incontro pedagogico con i professori dove dibattereuna tesi, o un tema, tutti noi insieme,… questo sarebbe utile.M.: Che tipo di tema?S.: Un tema in relazione alla scuola, o ai professori, o al progetto… untema pedagogico.M.: Fare una discussione tutti insieme…S.: Esatto, tutti insieme, ognuno con la sua opinione.41

Se il terreno dei bisogni si rivela un campo minato già organizzatoda sistemi di potere che non solo inducono ma anche anticipano laloro "necessità", controllandone il movimento (Rovatti 1992: 15-26; cfr. Baudrillard 1979), d'altra parte l'eccedenza dei bisognirispetto la loro prevedibilità ne fa dei punti di resistenza mobili,luoghi di scambi d'esperienze, nuclei positivi di cooperazioneinterna a processi di concretizzazione e intensificazione soggettiva(ibidem: 24).

Il resoconto schematico della mia missione in Angola, i frammentidelle interviste qui riportate, possono essere il frutto di una certaingenuità, di un atteggiamento impressionistico che semplifica unarealtà complessa. Tra le righe affiora però la gradazione dei mieiatteggiamenti, la banalità d'incontri ordinari tra persone ordinarie.Questo tono a tratti prosaico e diaristico vorrebbe anche suscitareun interrogativo. La complessità dei discorsi accademici nel campodelle scienze sociali e in particolare della ricerca antropologica -discorsi infarciti di tecnicismi disciplinari e colte citazioni -, è finea se stessa? Espressione di un gioco raffinato il cui scopo ultimo èdi assicurarsi un "profitto di distinzione proporzionale alla raritàdegli strumenti necessari ad appropriarsene, […] un profitto dilegittimità, che è il profitto per eccellenza, e che consiste nel fattodi sentirsi giustificato nella propria esistenza"? (Bourdieu 1983:237; cfr. 1984). Mosse strategiche intestine alla comunitàaccademica. Volendo superare l'isolamento di una disciplinapreoccupata primariamente degli effetti interni delle sue produzioniintellettuali, la traducibilità dei resoconti di campo su piani dove

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forme di reciprocità con i propri interlocutori siano concretamenterealizzabili, rappresenta un esercizio decisivo con cui avvicinare ilcontesto sociale, politico ed esistenziale del lavoro etnografico.

7. Volontà di potenza

Ho cercato di comprendere il senso del mio "impegno" aSambizanga. Facendo mie le riflessioni di Leiris - di ritorno dallasua missione in Costa d'Avorio42 -, ho voluto verificare quanto delmio modo di pensare e praticare la ricerca etnografica e il lavoro dicooperazione si sia risolto in una esanime "effusione che non va aldi là di qualche gesto simbolico: […] una manifestazione [difraternità] che poteva soddisfare il mio orgoglio ma che restava deltutto esteriore" (Leiris 1998: 223-224); quanto invece, superando ivincoli imposti dal progetto di gemellaggio, la mia presenza aSambizanga sia stata efficace nell'organizzare una sfera di "agirecomunicativo" in grado di lasciare dei segni, delle tracce. Trameforse effimere, travolte da eventi più vasti e pervasivi, manell'istante del loro realizzarsi capaci di suscitare - adottando leparole di de Martino - una scintilla di reciproca consapevolezza,una "energia del fare" (de Martino 1975: 14) frutto di una "potenzaetica" (ibidem), di una vitalità, di una "immediatezza bisognosa dimediazione formale" (ibidem: 15) che, se non si trascendenell'opera, rischia di cadere nelle insidie della dispersione di una"presenza malata" (ibidem: par. 2, Cap. 1).Qui sento la necessità di fermarmi, di fare una pausa; provare adampliare nuovamente la mia riflessione in termini più filosofici,indagare le origini del mio impegno, formularne una "genealogiamorale".Nel testo di de Martino sopra citato, il concetto di presenza, lavolontà di esserci in una storia umana, assume le connotazioni diuna forza affermativa, "energia di trascendimento" che ricorda lanietzschiana volontà di potenza. Gianni Vattimo in alcuni testipubblicati negli anni '70 (Vattimo 1988; 1974), caratterizzava lavolontà di potenza come arte, produzione simbolica che non aspiraprincipalmente ad equilibrare e regolare, ma a sommuovere irapporti gerarchici vigenti, svelandoli come rapporti di forze. Lostesso criterio di evidenza diviene l'aspetto costitutivo di una formastorica della vita conforme a certi schemi pratico-utilitari (Vattimo1988: 50-51). Questa prospettiva interpretativa mostra uno deisentieri lungo il quale ho cercato di approfondire e dare sostanzaalle idee di decostruzione e prassi etnografica (supra: par. 3).In un orizzonte che riduce il soggetto a sintomo - sistemastratificato di cause ed effetti, di pulsioni la cui natura e genesi ènascosta alla consapevolezza critica -, emerge con tutta la suaurgenza "il problema del senso dell'azione e della scelta storica"(ibidem: 63). Se l'individuo non è più pensabile come attore dellastoria, per sfuggire alla frammentazione e alla crisi delle scienzemoderne, al primato dell'attitudine calcolante, si tratta, allora, dirifondare la pratica su quello sfondo inoggettivo e nonrelativizzabile dove si manifesta il 'vissuto' nella sua evidenzaprecategoriale: "rilevare la funzione di mobilitazione del corpo"(ibidem: 118); dall'altro vuole dire ospitare nel proprio agire unafilosofia della prassi (ibidem: 64)43. Per Vattimo, è appunto nella

prassi che l'individuo si confronta concretamente con gli altri comealleati o avversari e fa esperienza del proprio corpo, così scoprendola realtà del suo posizionamento etico-politico (ibidem: 66). La volontà di potenza nietzschiana come stato estetico, come prassiaffermativa, si articola, allora, in una "sovrabbondanza di mezzi dicomunicazione, insieme con un'estrema ricettività agli stimoli e aisegni. È il culmine della comunicatività e della traducibilità […] -è la fonte delle lingue" (ibidem: 115):

«Ogni arte matura ha alla sua base una moltitudine di convenzioni: inquanto è linguaggio. […][È] forza di comunicazione e del pari la forza dicomprensione dell'uomo».44

«Estrema acutezza di certi sensi […]; estrema mobilità che si trasforma inun'estrema comunicatività; […] capacità di parlare di sé con cento mezziespressivi».45

Queste osservazioni indicano una via per la ricerca etnografica ingrado di riconfigurare l'antropologia come luogo d'incontro e dicomunicazione che dis-pone, disloca, destruttura il soggetto-assoggettato, incarnazione ultima delle strutture del dominio(Vattimo 1988: 121-122); incontro dove l'idealizzazione del propriopunto di vista non si compie nel senso dell'imposizione di unaforma conciliata, ma invece come "straripamento dell'internosull'esterno" (ibidem: 119), inautenticità, non-verità, che fonda laverità come apertura. La verità si manifesta nell'interpretazionecome esperienza che modifica le nostre opinioni, pone nuoviproblemi, mobilita nuovi punti di vista inscrivendosi in una prassitrasformativa aperta al futuro.46

Potremmo chiederci, in una prospettiva così radicale, cosa rimangadella ricerca scientifica. Interrogativo che a mio parere bisognaporsi per superare i rischi di un disciplinamento metodologicoirrigidito nelle burocrazie istituzionali, cercando le uscite dalleinsularità specialistiche attraverso cui l'esperto, come ci spiega deCerteau, afferma la propria autorità "su uno sfondo di 'resistenze'pratiche e di simbolizzazioni irriducibili al pensiero" (de Certeau2001: 33). Tale autorità produce un discorso che non è più quellodel sapere, "sapere che le manca proprio là dove si esercita"(ibidem: 35), ma bensì quello dei "giochi tattici tra poteri economicie autorità simboliche" (ibidem), discorso che s'inscrive allora nellinguaggio comune delle pratiche per legittimare un dominio.47

L'ambiguità della scienza risale al fatto che essa può venir posta alservizio di un atteggiamento metafisico-feticizzante, oppure, alcontrario, di un atteggiamento di libertà del simbolico48. Leprocedure scientifiche possiedono un'inerzia che può operare daelemento antiautoritario.Nell'introduzione agli Argonauti - per citare un classico dellaricerca etnografica - Malinowski insisteva sull'importanza diorganizzare le osservazioni di campo in carte sinottiche capaci dievidenziare i problemi irrisolti, insisteva sull'importanza di nontrascurare né i fatti banali della quotidianità, né gli eventieccezionali, che una prolungata permanenza permette di osservare.La raccolta della più ampia possibile quantità di dati determina laloro irriducibilità ad uno schema unico, implicando digressioni,

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fuori tema, riaggiustamenti contraddittori e quindi forme di analisiche assomigliano, più che a classificazioni formali, alla tassonomiamorfologica dei giochi proposta da Wittgenstein (cfr. Wittgenstein1995: 46-48): "somiglianze di famiglia", interpretazioni dinamicheall'interno di un processo di progressivo approfondimento delmateriale etnografico. Una critica dell'ideologia delle scienze "strumentali", allora, nonmette necessariamente in discussione il valore dell'osservazionescientifica, delle metodologie sperimentali, e dei sistemid'interpretazione. Il problema si nasconde nelle praticheegemoniche che fanno del sapere scientifico lo strumento dilegittimazione della supremazia di una visione del mondo e dispecifici gruppi d'interesse. Egemonia universalizzante cheimbriglia la ricerca, esigendo l'impersonalità e il livellamento -invece di affermare la varietà e singolarità delle interpretazioni -,allo stesso tempo convalidando determinate strutture didistinzione.49

Per svelare le maschere del "giocatore tassonomico" (Fabian 2000:82-98, 124-131) e delle sue pratiche combinatorie, possiamotentare di introdurre nella ricerca empirica la temporalità di unariflessione in grado di mostrarne i vincoli e i significati culturali epolitici, includendo al suo interno quegli elementi "eversivi" (adesempio, la "parola dialogata") in grado di decostruire le preteseoggettivanti delle strategie retoriche che accompagnano il discorsoscientifico.Seguendo Feyerabend possiamo ammettere che la ricchezzaesplicativa delle teorie scientifiche non risiede principalmente nelrigore o nella coerenza formale che dimostrano50, ma nella lorocapacità di dire qualcosa di efficace e di produttivo per l'uomo, dicreare "miti positivi" in grado di promuovere la vita. Si tratta alloradi riconfigurare la scienza come insieme plurale di metodologieeuristiche51 antidogmatiche, partecipi di una prassi complessiva diriflessione e trasformazione del mondo: attività fondamentalmentecostruttiva-creativa, piuttosto che referenziale, in cui intervengonoanche abitudini, inerzia, sogno, desiderio. La scienza può fornireallora visioni unitarie non univoche.Dal punto di vista delle pratiche testuali, si tratta di raccontare deifatti: non rappresentare "realtà", ma esercitare un modo di faretestuale. Ciò che importa, citando ancora de Certeau, è elaborareun'arte del dire in grado di produrre effetti e tattiche imbricate in untessuto esistenziale attraversato da un desiderio e da una direzionedell'esistenza. Narrazione che al medesimo tempo è arte di fare e dipensare (de Certeau 2001: 125-128). Per Bachelard la stessa matematica, in ambito scientifico, crearealtà complesse euristicamente fertili - espressioni dello spiritonon distinte, di principio, da un esercizio poetico.52

In questa prospettiva possiamo meglio comprendere l'intimità cheLeiris concepiva tra la sua attività di etnografo e di letterato,includendo entrambe in un complessivo progetto antropologico, ein una specifica disciplina di comportamento e di osservazione.53

Così, rispetto l'intensità più motivata e creativa che hacaratterizzato la mia breve permanenza in Angola, la miaprolungata esperienza d'insegnante in Nigeria sembra sfumare, neimiei ricordi, in un insieme confuso di esperienze frammentarie.Giorni e giorni mancanti, sfuggiti, almeno in parte, alle mie facoltàdi attenzione e riflessione. Abbandonati alle sole possibilitàpercettive del mio corpo. Riconosco qui il perfezionamento dellemie capacità d'osservazione, di ascolto, di partecipazione, prodotteda un addestramento ai metodi della ricerca etnografica.Un'intensità cognitiva attivata da processi interpretativi checonfigurano la ricerca etnografica come una peculiare esperienzaestetica.54

Questa mescolanza di letteratura e scienza, così difficile da pensare,ci permette forse di affrontare il lutto della perdita del privilegiofilosofico e scientifico, del luogo privilegiato dove poter "guardaredall'esterno". Luogo di un impossibile sguardo totalizzante55.Confondendosi infine nell'ordinario, nell'unico linguaggio comunedi cui disponiamo56, imbarcati nella "prosa del mondo" di cuiparlava Merleau-Ponty (cfr. de Certeau 2001: 39), possiamo allorasuperare le patologie e le retoriche dei poteri, liberando illinguaggio dalla sua funzione denotativa, per aprirci alla suadimensione di evento. Saper prendere congedo dal fondamentosignifica assegnare al senso che si conferisce alle cose uno statutoprovvisorio; significa vivere nella prossimità, nella superficie dellarealtà, nella pienezza della sua presenza.57

Nel caso della ricerca etnografica la narratività e la dialogia, siinsinuano nel discorso "dotto" come occasione, possibilità chemodifica un equilibrio; modi del discorso, che possono conteneremomenti metodologici sia da parte dell'antropologo, sia da parte deisuoi interlocutori, e "nel quale i metodi sono un possibileargomento di discussione sia sul campo sia a tavolino" (Tedlock2002: 302). La logica di un discorso "vicino all'esperienza", inquesta prospettiva, non fornisce al discorso etnografico solo uninsieme di oggetti testuali da esaminare, ma anche uno schemapragmatico performativo con cui parlare dei fenomeni di cui èparte integrante. Arte riflessiva di pensare procedimenti analiticiall'interno del linguaggio che li circoscrive, "presso di sé ma senzaun di fuori" (de Certeau 2001: 42-43). Produzione di contatti,connessioni, somiglianze di famiglia, intreccio infinito delle fibreche formano il tessuto con cui di-segnare il mondo: esempi, analisidi casi, storie di vita, interviste, frammenti di un incontro58.

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Note

* La prima parte dell’articolo è comparsa sul n. 9 di “Achab” (ott. 2006).** Si ringrazia Paolo Borghi, Lorenzo D’angelo e Sara Zambotti per avercorretto e commentato le bozze dell’articolo. Le loro critiche mi hannofatto riflettere sul carattere circolare e “vorticoso” della mia scrittura cheprocede sviluppando dei percorsi che però vengono abbandonati, oltre uncerto punto, dall’urgenza di seguire altre ispirazioni in un progressivoallargamento dell’orizzonte di indagine. Ciò che mi è parso importanteconservare nelle mie strategie testuali non è la coerenza e la completezza,ma il tentativo di produrre un dispositivo aperto e creativo radicato nel miovissuto esistenziale, un dispositivo “ipertestuale” costruito anche sufrequenti rimandi alle note, in grado, almeno nelle mie intenzioni, disviluppare una molteplicità di percorsi interpretativi e di modalizzazioniplausibili.34 V. Rinaldi, M. Scaramella, Antropologia e politiche di sviluppo:prospettive critiche e orientamenti futuri. Seminario organizzato dal Centrodi Ricerca sull’Antropologia e l’Epistemologia della Complessità(CERCO) - Università degli Studi di Bergamo, 28 Settembre 2005.Registrazione dell’autore.35 Il testo qui riportato, salvo lievi modifiche, è la trascrizionedell’introduzione della relazione consegnata ai responsabili del progetto digemellaggio (Parodi 2005).36 Secondo Crapanzano “l’evento della partenza, spesso ignorato nellediscussioni antropologiche relative al lavoro sul campo, ha un ruolodeterminante in ogni ricerca sul terreno. […] Si riflette non solo sullafrequenza degli incontri […], ma anche sui temi ricorrenti dellaseparazione, morte, castrazione e abbandono” che caratterizzano i discorsidi campo (Crapanzano 1995: 178). 37 Cfr. R. Rosaldo, Sulla soglia della tenda: l’etnografo e l’inquisitore (inClifford e Marcus 2001). Vedi in particolare le pp. 131-137. 38 Registrazione 10-I, 24 Marzo 2005, 4’30” - 22’.39 Registrazione 40-II, 12 Aprile 2005, 2’30” - 13’10”.40 Registrazione 30-II, 11 Aprile 2005, 14’20”- 18’10”41 Registrazione 29-II, 11 Aprile 2005, 10’50”- 11’45”.42 Compiuta tra il 26 Febbraio e il 10 Maggio 1945, la missione, direttadall’ispettore delle Colonie Albert-Jean Lucas, aveva come scopo dianalizzare lo stato della manodopera indigena dopo l’abolizione dei lavoriforzati (cfr. introduzione di Catherine Maubon a Leiris 2005, pp. 41-43).43 Per una prospettiva critica con cui pensare il superamento dell’”ansiacartesiana” dell’assenza di fondamenti, cfr. Bernstein 1983; D’Agostini1997: 394-398.44 Nietzsche 1999, vol. VIII, frammento 14 [119]; cit. in Vattimo 1988, p.115.45 Ibidem, frammento 14 [170], cit. in Vattimo 1988, pp. 116-17. Ricoeur(1989: 205-227) individua nell’enunciazione metaforica il potere didiffusione dell’immaginazione. Assimilando lo shock prodottodall’attribuzione metaforica, l’immaginazione rianima le esperienzeanteriori, risveglia i ricordi, irrigando i campi sensoriali adiacenti, “lascia-dirsi il legame ontologico del nostro essere agli “altri esseri e all’essere”, lareferenza primordiale in opposizione alla referenza empirica (ibidem: 213).46 Qui l’ “infondatezza” nietzschiana prelude all’ermeneutica di Gadamer ePareyson.47 Per la presentazione di alcune riflessioni sul rapporto tra università,

istituzione e sapere, rimando al Dossier Università e sapere, pubblicato sulnumero 7 di “Achab” (Febbraio 2006).48 Cfr. l’interpretazione di Vattimo di alcuni passi dello Zarathustra diNietzsche, in particolare dell’aforisma “Della Scienza” (Vattimo 1974:337).49 L’ambivalenza tra il proselitismo culturale e l’ansia per la propria“differenziazione”, caratterizza, più in generale, il rapporto degliintellettuali con le istituzioni della cultura, mostrandone la logica diappropriazione interna ad un sistema di posizioni e scarti mobili (cfr.Bourdieu 1983: 239).50 Si potrebbe parlare semmai di una pluralità di livelli di rigore scientifico.Ricoeur cita l’Etica a Nicomaco di Aristotele: “Avremo adempiuto inmaniera soddisfacente al nostro compito, se daremo i chiarimenti che lanatura dell’oggetto da noi trattato comporta […]; perché è proprio di unuomo colto non cercare il rigore in ogni genere di cose, se non nella misurain cui la natura dell’oggetto lo ammette” (Aristotele in Ricoeur 1989, p.293).51 Cfr. Feyerabend 2002. L’opposizione tra Verstehen (comprensione) eErklären (spiegazione), tematizzata da Dilthey, in questa prospettiva, vienea perdere la sua forza. Seguendo le ragioni metodologiche di Weber, anchela spiegazione causale, nelle scienze sociali, può essere euristicamenteutile, costituendo un mezzo per la ricerca di connessioni all’interno di unprocesso conoscitivo plurale (Weber 1997: 239-255; cfr. Cesareo 1993: 18-23). Secondo Bourdieu la ricerca sociale si fonda sulla dialettica tra unoggettivismo non essenzialista, in grado di evidenziare le strutture delmondo sociale (il sistema delle relazioni tra posizioni dotate di differenticapitali economici, culturali e simbolici), e un soggettivismo capace diinterpretare le rappresentazioni degli agenti sociali e dello stessoricercatore (attraverso una riflessività che introduce una circolaritàstraniante) come punti di vista determinati e determinanti la strutturasociale (Bourdieu 1987: 147-166). Crapanzano, in Tuhami, parla invece di“un uso retorico di specifici approcci teorici - per illuminare lo spaziodell’incontro”. Un modo pragmatico di rinviare a teorici e teorie che “serveanche a formulare l’incontro e la responsabilità che comporta”(Crapanzano 1995: 20).52 Per una sintesi del pensiero di Bachelard vedi D’Agostini 1997, pp. 472-75. 53 “[…] Michel Leiris si augura di portare avanti, fino a quando ne avrà lapossibilità le due facce di una ricerca antropologica nel senso più completodel termine: accrescere la nostra conoscenza dell’uomo, sia per la viasoggettiva dell’introspezione e dell’esperienza poetica, sia per la via menopersonale della ricerca etnologica” (Leiris, Titoli e lavori, in Leiris 2005, p.206. Pagine preliminari del curriculum didattico-scientifico, presentato nel1967 da Leiris al Cnrs per accedere al grado di direttore di ricerca).54 Dai miei diari. Dicembre 2000:“Il rumore delle pale dell'elicottero che atterra mi sveglia. Apro gli occhisul soffitto, sui tendaggi che coprono le finestre. Si intravvedono le fogliedegli alberi impazzite. Reminescenze cinematografiche che modellano ilmio sguardo e la mia immaginazione. Da alcuni giorni sono ospite dellaguest house della NAOC (Nigerian Agip Oil Company), in attesa che misia assegnato un alloggio nei compound vicini alla scuola” [...]. “Ora percorro la città brulicante, occhi neri che mi guardano superati dallamacchina zigzagando tra le buche. Una vasta umanità occupata nellefaccende più umili e quotidiane. Sento forse di avere un amico, Albert.

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Dovrò conquistare la sua fiducia e la sua simpatia. I suoi occhi seri chissàcos’hanno visto: da giovane ha lavorato in una compagnia di pesca fino aquando è fallita e ha licenziato tutti. Ha 39 anni, 3 figli, una moglie a cuivuole molto bene”. […]“Sogno: Africa, sul confine grande movimento di truppe gli scontri sisusseguono io ascolto i vostri consigli come da un fratello maggiore,scendo lungo il fiume mi giro per un ultimo saluto vi guardo ormai lontaniil fiume mi porta con se…”.Febbraio 2001: “Ho dormito in una stanza con sei amici e a fianco una ragazza bellissima.Ci siamo baciati ci siamo stretti l’un l’altro come adolescenti. Comeselvaggi accampati attorno a fuochi nella notte. Eppure tutto è finito e nonpuò avere un seguito, ci divide tutto: così vicini e lontanissimi e io che liamo pazzamente loro che non mi ameranno mai come uno di loro”. […]. “Nella foresta voci, uccelli incantevoli... una specialmente, una voceflautata, abbaiare molto lontano di un cane, sensazione di sogno. […] Io stobene, anche se ora mi sento un po’ confuso e la mia solita identità sembraogni tanto sfuggirmi. Non riesco quasi più a leggere, dei miei film non mene frega più niente. Cerco di preparare almeno le lezioni. Sono felice, macome se qualche preoccupazione, qualche incertezza continuasse adassillarmi”. […] “Il mondo mi prende per mano, del resto rimane solo l’essenziale”. 55 Per una definizione del fenomeno estetico cfr. Eco 1991, cap. 3.7. Vedianche Parodi 2004.56 Luogo peculiare del discorso ideologico, in quanto discorso che si sottraealla critica. Potremmo però domandarci con Ricoeur: “esiste un luogo nonideologico da cui parlare […] dell’ideologia”? (Ricoeur 1989: 304).57 Wittgenstein scriveva nel Tractatus: “I limiti del mio linguaggiosignificano i limiti del mio mondo” (Wittgenstein 1968: 5.6).58 F. Nietzsche, Aurora, aforismi 44 “Origine e significato”, 501 “Animemortali”; vedi anche La gaia scienza, aforisma 256 “Epidermicità”.

59 Da qualche mese sono in Brasile. Dalle mie note di campo, 21 Luglio2006, São Luíz - Maranhão: «Ieri, quasi per caso, sono stato alla Casa das Minas, il più antico terreirodella città. Camminando per la Rua São Pantaleão raggiungo il caseggiatoazzurrino che mi indica un passante. Busso timidamente alla portasemichiusa, nell’ora più calda del pomeriggio. Una donna molto anzianatutta raggrinzita è apparsa in fondo al corridoio d’ingresso. Mi ha aperto emi ha invitato ad entrare.Seduto nel guma [l’ampio locale ove avvengono i rituali] ho atteso DonaDeni, la vodúnsi. Ci siamo presentati un po’ sospettosi, ma poi abbiamoiniziato a parlare con molta semplicità, come conoscenti di lunga data,come se lei avesse capito qualcosa di me e le fosse piaciuto. Abbiamoparlato dei suoi dolori, dei miei problemi ad una gamba. Abbiamo parlatosenza fretta. Delle domande petulanti degli studenti: “Come ricevi glispiriti?”, “Come danzi allora?”, “E cosa senti?”. Come se lei potesserispondergli… Dell’albero morto e della bella ombra che faceva,dell’albero che aveva piantato una sua anziana amica, anche lei morta dapoco, di mio papà e della sua malattia, del professor Ferretti. Abbiamoparlato di piante e di erbe medicinali, di una pianta dalla cui corteccia siestrae un succo capace di curare il cancro, della grande cajazera in mezzoal quintal dedicata al vodum del terreiro. Ho assaggiato un piccolo fruttorosso e asprigno, simile ad una ciliegia, che Dona Deni mi ha mostrato trale foglie di un albero. A lei piace molto il chá di cidreira (melissa) e dichamati. Anche la camomilla. Ci siamo seduti su una panca sotto l’alberodi cajà, guardando la calma del quintal, commentando le variazioni dellaluce al termine della tarde. Ci siamo separati con molta saudade. Alla fine mentre già uscivo dal corridoio d’ingresso, mi sono girato. Leiancora mi guardava, in fondo al giardino. Così ci siamo salutati di nuovo,con un cenno della mano. Del famoso Tambor de Mina nessuno di noi havoluto parlare».

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Delta del fiume Niger. Febbraio 2001. Foto dell’autore.

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Bibliografia

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Achab ricorda la scomparsa di Bernardo Bernardi attraverso le parole di uno dei suoi allievi, Antonio Marazzi. Bernardo Bernardiè da molti considerato il padre degli studi di africanistica in Italia. È stato membro del Comitato esecutivo dell'International

African Institute; Presidente del Consiglio europeo di Studi africani e membro del Consiglio scientifico dell'Istituto italiano perl'Africa e l'Oriente; Honorary Fellow del Royal Anthropological Institute di Londra. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Etnologiae antropologia culturale (Milano 1973); Africa meridionale (1977); Uomo cultura società. Introduzione agli studi etnoantropologici(Milano 1982); Il Mugwe un profeta che scompare. Studio su un dignitario religioso dei Meru nel Kenya (Milano1983); Introduzioneallo studio della religione (Torino 1992); Africa. Tradizione e modernità (Roma 1998); Nel nome d'Africa (Milano 2001);Africanistica. Le culture orali dell'Africa (Milano 2006).

In ricordo di un maestrodi Antonio Marazzi

Bussai per la prima volta alla sua porta quasi trentacinque anni fa,nell'antico palazzo di via Belle Arti, a Bologna, che ospitaval'istituto di Sociologia: lui di fresca nomina a professore ordinarioin quella Università, io appassionato di antropologia, di culturatibetana, nipote di un esploratore, ma senza alcuna conoscenzadell'ambiente accademico italiano, né alcuna idea di entrarvi a farparte. Furono il calore umano e la limpidezza etica delcomportamento, uniti al rigore scientifico (qualità che di radovanno insieme), a convincermi di accettare il suo invito a seguirlo.Lasciate alle spalle altre esperienze, fu come l'inizio di una nuovavita per ambedue, da posizioni diverse. La sofferta esperienza religiosa aveva accentuato in Dino - comepresto mi invitò a chiamarlo- quella che per me è stata la sua veravocazione, lo spirito della saggezza. Io, in un periodo della vita incui ero più sperduto che mai, trovai in lui un maestro e una guidaspirituale, nel senso più orientale del termine. Mai mi sareiimmaginato assistente di un 'barone', come gli altri mi vedevanoe come lo stesso Dino, per civetteria, talvolta amava presentarmi,anche dopo che io pure ero diventato ordinario. Dovevo impararepresto a vedere messa in atto la sua saggezza, la sua capacità diavvicinarsi con esigente lealtà alle persone, di affrontaresituazioni turbolente smontandole con la sua serena profondità,quando fu preside a Scienze Politiche a Bologna negli anni dellacontestazione più dura. La statura scientifica di Bernardi è riconosciuta in Italia eall'estero e i suoi contributi, sia come africanista sia come teoriconel campo dell'antropologia culturale hanno lasciato un segno e

sono destinati a durare. Mi piace qui ricordarne uno, perché so chevi attribuiva particolare valore: il principio strutturante delleclassi d'età, fondato su una solidissima etnografia di prima manoin Africa orientale. A ciò vanno aggiunte la spiccata vocazionedidattica e le doti di organizzatore di incontri scientifici e diaccattivante comunicatore. Una particolare sensibilità estetical'aveva inoltre portato ad apprezzare e promuovere le articosiddette primitive, in particolare quelle africane.Ma ora sono piuttosto altre cose che mi vengono in mente e chemi fanno sentire ancora vicino a lui. Quanti viaggi nella nebbiaper andare a dormire a Medicina "dalle mie sorelle", quante visitea Milano per dormire sul divano di casa mia, divertito nella bolgiadi figli, cani e gatti. Fino a quel sorprendente, commovente invitoa unirmi a lui e Lilli nel loro primo viaggio da sposati in Africa,di cui ricordo gli incontri con africani sbigottiti dalla suapadronanza nel parlare i dialetti locali e talvolta, persino, ditracciare le ascendenze genealogiche dei suoi sconosciutiinterlocutori. Sono passati tanti anni, abbiamo condiviso tantecose, siamo stati vicini e lontani (e come si lamentava Dinoperché "non ti fai mai vivo"!), ma lui da quella prima volta èsempre stata la mia guida, il mio "guru", come lo chiamavoscherzosamente. Anche adesso che so che è lui a non poter piùfarsi vivo con me, mi sembra quasi che tutto continuerà comeprima, che lui mi abbia trasmesso un pò della sua saggezza peraiutarmi a sopportare la cosa e ad affrontare la mia vita. Nonposso dire di più ora: lasciate che mi ci abitui.

Editoriale

Margherita Becchetti, Diego Giachetti, Franco Milanesi, Sette note per la storia

Zoom

Marco Peroni, Ci vuole orecchio. Come le canzoni raccontano la storiaAngela Maria Alberton, «Se viene Garibaldi soldato mi farò». Canzone popolare emobilitazione patriottica nel RisorgimentoEmanuela Vita, Ost-Musik. Il dissenso nella Rdt attraverso le subculture musicali

negli anni sessanta

Immagini

Margherita Becchetti, Elezioni di musica. Gli spettacoli della Compagnia del Collettivoper la campagna elettorale del 1972,

Nanni Angeli, I misteri di Lunissanti

Schegge

Matteo Saudino, Note di guerra. Propaganda e protesta nei canti del primo conflittomondiale. Simone A. Bellezza, Ukrainian Euro(di)vision. Politica e musica della “rivoluzionearancione”

In cantiere

Mimmo Perrotta, Le memorie di Girasole. Una ricerca per il cinquantenariodell’uccisione di un bracciante lucano.

Voci

Massimiliano Genot, Andante molto mosso. Un’intervista su musica classica epolitica, a cura di Franco Milanesi

Altre narrazioni

Gigi Dall’Aglio, L’Istruttoria, un rito laico. Intervista sul rapporto tra storia e teatro, a

cura di Bianca Maria Ragni

Luoghi

Quinto Antonelli, Cara Gigliola. Le lettere a Gigliola Cinguetti conservate al Museostorico di Trento

La storia al lavoro

Andrea Brazzoduro, L’ombra lunga della guerra. La riabilitazione del passatocoloniale in Francia

Storie di classe

Ruts (Rete urbana per il territorio e la sua storia), La fabbrica della memoria. Nuovipercorsi di ricerca e di intervento scolastico nei quartieri di Roma

Interventi

Edoardo Tacchi, Storia di un equivoco. Bob Dylan e la canzone di protestaFranco Bergoglio, Il secolo swing. Jazz e società di massaAlessandro Romanello, Today’s type of blues. Jimi Hendrix nella musica rock

Recensioni

Marco Adorni (Diego Giachetti, Caterina Caselli. Una protagonista del beat italiano)Maria Teresa Gavazza (Giorgio Barberis, Marco Revelli, Sulla fine della politica.Tracce di un altro mondo possibile)

Giovanni Savegnago (Marco Peroni, Il nostro concerto)Laura Schettini (Patrizia Guarnieri, L’ammazzabambini. Legge e scienza in unprocesso di fine Ottocento)

Yannick Beaulieu (Jean-Paul Salles, La Ligue communiste révolutionnaire. (1968-1981) Instrument du Grand Soir ou lieu d’apprentissage?)

Chiara Bonfiglioli (Annamaria Rivera, La guerra dei simboli)

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Zapruder Storie in movimento

Rivista di storia della conflittualità sociale

n. 12 gennaio-aprile 2007

Posta elettronica: [email protected] (redazione)

[email protected] (progetto Storie in movimento)

Sito Web del progetto: www.storieinmovimento.org

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Nasce AChAB Media

Sul sito di Achab é in preparazione una sezione dedicata ai media e in particolareall’approfondimento del rapporto tra tecnologie di comunicazione, ricerca etnografica e riflessioneantropologica. Parlando di media da questa prospettiva intendiamo da una parte delimitareun ambito di analisi che comprende le pratiche contestualizzate di produzione, organizzazione,distribuzione ed uso di media e la costruzione sociale delle relazioni tra tecnologia e comunicazione;dall’altra esplorare il ruolo dei “supporti” nella quotidianità della ricerca. All’interno di Achabmediaverranno segnalate news relative a convegni, workshops, call for papers, borse di studio e novitàeditoriali. Inoltre, Achabmedia accetta proposte da artisti/e, ricercatori e ricercatrici, studenti chevogliano presentare sul sito materiale di ricerca multimediale o testi di approfondimento.

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Gli articoli devono essere in formato Word o Rich Text Format (.rtf). Si consiglia di usare il caratteretimes o times new roman corpo 12.

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Okada, moto-taxi nigeriani. Foto di Michele Parodi, Port Harcourt, Nigeria, 2001

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Foto di Anna Sambo - Benin, 2006