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Stefano Tomassini Roma, il papa, il re L’Unità d’Italia e il crollo dello Stato Pontificio

Roma, il papa, il re

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Stefano Tomassini

Roma, il papa, il reL’Unità d’Italia e il crollo dello Stato Pontificio

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Sommario

prima parte. il bene e il male

Il cappellaio matto 13L’Immacolata 19Il miracolo di Sant’Agnese 28«Bruci questo pezzo di carta per farmi piacere» 32Cavour, Rattazzi e don Bosco 45Giacomo Antonelli e i suoi 58Roma 72Epoca seconda di Pio ix 92«Le più belle provincie dell’Italia centrale» 107I difetti degli italiani 125Il papa in viaggio nel suo regno 133Sotto il sole di Roma 153Gli eroi intemperanti 161Lo strano caso del piccolo Edgardo Mortara 172

seconda parte. la partita

Una vacanza, un matrimonio, una guerra 181Maschere e dindaroli 202«Roma è silenziosa e pesante» 211Le qualità dei francesi 218Bologna, Ravenna e le altre 232Il sacco di Perugia 239«Imperocché il Signore ha già sciolto il freno dell’ira Sua» 257L’artista e il cacciatore 268

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Mazzini e Garibaldi 280Il papa, il congresso e le annessioni 290«A mano a mano che la primavera s’avanza» 309La strana guerra 324Botanica, geologia, politica e altre passioni 340Terranova 354Castelfidardo 366Ancona 387Il giardinetto 395Capodanno 403L’Italia 414Idee di Roma 424Cavour 438La Girandola 442

Nota 451

appendici

Cronologia 455Bibliografia 469

Indice dei nomi 475

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Crederò che gli asini volino, ma non che a Cavour sorrida molto la Capitale a Roma.Credo lo abbia detto per non lasciare a Mazzinila gloria di dirla più grossa di luima in fondo…

massimo d’azeglio, lettera a Luigi Torelli, Firenze, 10 marzo 1861

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PRIMA PARTE

Il bene e il male

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Il cappellaio matto

A Roma giugno è il più bel mese. È vero che al tempo di cui parlo i forestieri, i turisti, ai primi caldi, lasciavano la città e la sua mal’aria. Proseguivano il viaggio, magari verso Napoli, o, i più affezionati, salivano sui Colli Albani, decisi a non riscendere prima che fosse almeno settembre. I privilegiati trovavano ospitalità nelle ville dei nobili, anche loro per la maggior parte in fuga dalla calura e dal-le febbri. Ovviamente il popolo non si muoveva. E quel popolo di Roma, come quello odierno, il popolo che viveva e vive qui tutto l’anno apprezza di giugno la stabilità del tempo e naturalmente la durata dei giorni, con quella straordinaria sensazione di poter vivere la vita più a lungo.

Questa illusione non è solo un pensiero, buono per consolarsi dei limiti dell’esi-stenza. È anche un atteggiamento pratico, che tanto più si sviluppa e realizza quan-to più corre la luce del giorno. Si concentra dunque in quelle ore in cui la città e il sole si salutano per darsi appuntamento all’indomani e sembrano fare un po’ co-me i due compari che si accompagnano e riaccompagnano sul sentiero breve che divide le due case. Il tramonto è lunghissimo. E lunga è la fase in cui il sole, oriz-zontale rispetto alla città, ne diviene parte e assume caratteri umani, di mitezza, di fiducia, quasi di amicizia.

Ogni romano che abbia un buon concetto di sé si sente padrone allora non solo della propria vita, ma anche del tempo e dello spazio, della città e quindi del mondo, i cui confini non dovrebbero essere troppo più lontano di Frascati. Così, più o meno, e con maggior ragione di quasi tutti i suoi concittadini, do-veva sentirsi il cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato di Sua Santità Pio ix allora felicemente regnante, quel pomeriggio di martedì 12 giugno 1855, mentre scendeva la scala del Palazzo apostolico vaticano. Erano circa le sei e mezza ed era appunto una bella giornata di sole.

Papa Mastai, tornato il 12 aprile 1850 dall’esilio di Gaeta, aveva deciso di cambiare casa. Il Quirinale era pieno di brutti ricordi: la morte del povero mon-

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signor Palma, l’assedio della folla, la fuga notturna. Aveva bisogno di restauri e probabilmente anche di esorcismi, giacché c’era passato anche quel diavolo di Mazzini. Tutti ottimi motivi per andarsene stabilmente al Vaticano. Antonelli s’era sistemato al piano di sopra di quello occupato dall’appartamento pontifi-cio e questo particolare aveva dato materia per uno scherzo facile dei romani: il cardinale stava sotto o sopra al papa?

Scendeva, dunque, Antonelli e andava di buon passo, com’era solito fare, poiché era ancora giovane – aveva da poco compiuto quarantanove anni – man-teneva un fisico piuttosto asciutto e oltre a questo pensava di essere un po’ in ritardo per la quotidiana trottata. Il ritardo era dovuto a una riunione che il se-gretario di Stato aveva avuto con un gruppo di artisti: s’era parlato di altri lavo-ri da fare a San Paolo fuori le mura. La basilica, quasi completamente distrutta dall’incendio del 1823, era stata solennemente riconsacrata da Pio ix il 10 di-cembre 1854. Al decano di quegli artisti, il pittore Tommaso Minardi, Antonel-li aveva giusto proposto di fare insieme un sopralluogo a San Paolo. Quindi la passeggiata avrebbe avuto una meta diversa da quella solita del Pincio: motivo di più per sbrigarsi.

La scorta del cardinale procedeva avanti e non aveva fatto gran caso all’uo-mo che se ne stava in un angolo del pianerottolo. Teneva in una mano quella che aveva tutta l’aria di essere una supplica. Se ne incontravano tanti in quel-le stesse condizioni. Da qualche attimo però Antonelli lo osservava e quella fac-cia non gli diceva nulla di buono. Più tardi si sarebbe saputo che il giovanotto era già stato notato nel cortile, quando, al passaggio del papa, anche lui uscito una mezz’ora prima a godere le meraviglie del tramonto romano, non s’era tol-to il cappello. Un gendarme pontificio lo aveva redarguito e anche interrogato per questo: aveva risposto che era sua intenzione presentare un memoriale al se-gretario di Stato e s’era avviato verso la scala indisturbato. Tutte cose che oggi, naturalmente, sarebbero inconcepibili, ma allora, al tempo del papa re, poteva-no ancora accadere.

Durò un secondo l’indecisione del cardinale. Quando era ormai al pianerot-tolo si fermò, fissò gli occhi negli occhi di quello e dovette scorgervi un guizzo di incontenibile esaltazione, di furia non più repressa, di follia. Ancora un secondo. Quello fece l’atto di accostarglisi. Non solo, mosse anche la mano che aveva libe-ra per prendere qualcosa che aveva nascosto sotto la giacca o sotto il panciotto. Antonelli lanciò un urlo, che non era di paura, no, era di richiamo e forse anche di rimprovero alla scorta. Un passo indietro, una svolta e poi giù di corsa per l’al-tra rampa. Ciò che si sarebbe maggiormente ricordato di quell’evento sarebbero state la rapidità felina e l’agilità quasi acrobatica dell’aggredito.

Quanto all’aggressore, tirò effettivamente fuori l’arma che gl’ingombrava il panciotto e il cervello, la impugnò con tutta la forza che aveva, ma in quello stes-

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so momento s’avvide che il suo bersaglio fuggiva. Non l’aveva più a portata di mano. Allora levò in alto l’arma e la scagliò, gridando qualcosa, verso il cardina-le. Quando gli cadde vicino ai piedi, Antonelli constatò, forse con qualche ama-rezza, che era un forchettone da cucina. Così trascorrevano i tempi a Roma e con essi gli usi: tutto perdeva un po’ di dignità. Il pugnale di Bruto che ancora sei, sette anni prima aveva onorato il collo di Pellegrino Rossi, novello Cesare, per quanto poco amato dalla plebe, s’era mutato in forchettone. Di non essere ama-to, lui, Antonelli, era perfettamente cosciente, non se ne faceva un vanto, né un punto d’onore, come aveva fatto quell’altro, Rossi, ma, insomma, avrebbe certa-mente sperato qualcosa di meglio che essere trattato come un pollo o un quarto di manzo. Sono sicuro che poi andò rimuginando quella sera e nei giorni appres-so sul carattere inadeguato, ridicolo, dell’arma e dell’aggressione. Avrebbe pro-babilmente preferito dimenticarsene, e che gli altri dimenticassero con lui: come non fosse mai successo.

Un altro particolare che avrebbe poi colorito le chiacchiere che invece sempre seguono questi spiacevolissimi incidenti era il modo con il quale l’attentatore era stato messo in condizione di non nuocere: uno dei servitori gli aveva sbattuto in testa l’ombrello cardinalizio, che, come d’uso, accompagnava a passeggio il por-porato. A quel colpo, Antonio De Felici, trentacinque anni, cappellaio con bot-tega nei pressi del Gesù, non cadde tramortito – anche l’ombrello, come arma, non era così perfetta – ma rimase sorpreso, una specie di sonnambulo improvvi-samente svegliato: si lasciò prendere. Chissà cosa poteva girargli per la testa. Si diffuse presto la voce che, nell’atto di lanciare il forchettone contro Antonelli, avesse pronunciato questa sentenza: «Hai fatto spargere tanto sangue che con-viene sia sparso il tuo. Io morirò, ma vi sono altri venti che vendicheranno la mia morte». Parole grosse, compromettenti quasi quanto l’atto, certamente non de-stinate a suscitare l’indulgenza dei giudici ma capaci al contrario di corroborare i colpevolismi più sfrenati e tutte quelle teorie che parlavano di sette, di congiure, di complici, di mandanti ed esecutori, tutto il magazzino d’idee, insomma, pres-so il quale si forniva da qualche anno il tribunale della Sacra Consulta.

Che le avesse dette o no, quelle parole, Antonio De Felici, alla fine è piutto-sto indifferente. Certamente affermò qualcosa del genere nel corso degli inter-rogatori, nei quali per altro diceva una cosa e il contrario di quella, faceva un po’ il matto, insomma, e un po’ matto davvero lo era. Arrivò per esempio a sostene-re che il forchettone lo aveva trovato per caso lì in Vaticano e che non lo aveva tirato contro il cardinale, bensì gli era caduto. Pronto poi, in un altro momento, a spacciarsi per eroe e giustiziere del tiranno. In ogni modo né venti uomini, né uno solo si sarebbe mai presentato a vendicare la sua morte. Davanti ai giudici non avrebbe fatto il nome di un complice, per il probabile motivo che non ne co-nosceva e non ce n’erano. Magari qualche chiacchiera, alla sera, all’osteria, quella

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magari sì, qualche amico ch’era stato d’accordo con lui: che gran bene sarebbe stato per Roma togliere il cardinale Antonelli dalla luce del mondo. Era questa una congiura? Qualsiasi persona di buon senso lo avrebbe escluso, così come faceva, per esempio, il diplomatico che conosceva meglio Roma, l’ambasciatore dei Paesi Bassi Auguste de Liedekerke de Beaufort: «L’istruzione del processo e gli interrogatori che si sono fatti subire all’imputato» scriveva il 9 luglio al suo ministro all’Aia «non hanno prodotto, mi si assicura, nessuna rivelazione, nes-sun indizio tale da provare che sia stato lo strumento designato dal sorteggio, o scelto da una setta politica, per colpire il segretario di Stato». E concludeva: «Il detto De Felici non avrebbe dunque agito che per suo proprio conto e ceden-do alle ispirazioni di questi odi violenti che si producono pressoché soltanto nel Mezzogiorno dell’Europa».

L’imputato aveva trascorsi repubblicani, questo è vero: aveva combattuto contro i francesi il 30 aprile del 1849, dal 1851 era stato messo nel registro de-gli inquisiti per sospetta appartenenza alle sette e dal ’52 aveva l’obbligo di pre-sentarsi quotidianamente ai gendarmi, cosa che non doveva aiutarlo molto negli affari, che andavano piuttosto male. La cosa più sicura era che Antonio De Feli-ci era una testa calda: nell’agosto del 1840 era stato già condannato per un feri-mento. Si diceva che la sua prima moglie fosse morta anche per i maltrattamenti che le aveva fatto subire. Si era da poco risposato, ma a mandare avanti la fami-glia proprio non ce la faceva.

Il difensore d’ufficio, Lorenzo Pieri, cercò d’introdurre nel tribunale l’idea che il cappellaio fosse matto, ma non ebbe successo. Il 23 giugno la Sacra Con-sulta condannò con sentenza unanime Antonio De Felici alla pena capitale. Co-me fa notare lo storico Alberto Maria Ghisalberti, una volta esclusa l’idea della demenza, «l’inesorabilità del Regolamento sui delitti e sulle pene, del 1832, non lasciava adito ad alcuna speranza». Spiega Ghisalberti:

L’articolo 88 e l’articolo 89, il primo riguardante l’attentato «alla vita dei cardi-nali», il secondo quello «alla vita dei primari magistrati che amministrano o go-vernano lo Stato e le province», avevano duplice efficacia nel caso dell’Antonelli, cardinale e segretario di Stato. Per di più, l’uno e l’altro stabilivano che, anche se l’attentato non avesse raggiunto il suo scopo, la pena era una sola, la morte.

Rimaneva ovviamente un’ultima possibilità: la grazia sovrana. E, a quanto pare, fu lo stesso cardinale Antonelli a chiederla al papa. Dico «a quanto pare» perché una gran parte degli autori più o meno contemporanei ai fatti mette in dubbio la sincerità o la stessa esistenza della richiesta di grazia. Particolarmente perfido il francese Edmond About:

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Il cardinale, pieno di clemenza, si era ufficialmente gettato ai piedi del papa per implorare una grazia che era sicuro di non ottenere. Paga una pensione alla vedo-va: non è ciò che si addice a un uomo di spirito?

Penetrare nei pensieri di Giacomo Antonelli, in quel momento e in tutta la sua vita, è una delle operazioni più difficili che ci si possa proporre. E tuttavia ne va almeno fatto il tentativo. Così, per esempio, adesso osservo che una ragione di sincerità in quella richiesta di grazia poteva pur esserci: l’attentato, come ho det-to, aveva troppi aspetti ridicoli perché una mente politica, quale certamente era la mente del segretario di Stato, avvertisse la necessità o l’opportunità di sanzio-narlo e sottolinearlo con una pena capitale.

Scampato il pericolo, il cardinale fece la sua solita passeggiata al Pincio. Il povero De Felici gli aveva solo guastato la corsa a San Paolo con Minardi. Me lo immagino, Antonelli, che riceve le prime congratulazioni, dalle nobildonne e i nobiluomini che, anche loro a passeggio nel tramonto romano, avevano già sa-puto del sacrilego atto, ovvero dello spiacevolissimo incidente. Sbaglierò, ma me lo immagino più imbarazzato che altro, lo vedo, lo vedo no – perché, certo, non lo faceva vedere –, lo intuisco quasi indispettito dalla rapidità con la quale a Ro-ma si spargevano certe notizie.

Martedì 10 luglio, alle cinque del pomeriggio, Antonio De Felici fu trasferi-to dal carcere di San Michele a Ripa alle Carceri Nuove di via Giulia, dove gli fu data lettura della sentenza. L’uso era questo: non si comunicava subito al condannato il verdetto del tribunale, si aspettava la vigilia dell’esecuzione. E sinceramente non saprei dire se questa fosse una crudeltà in più, oppure una forma di carità che lasciava vivere per qualche tempo il morituro nella spe-ranza della grazia o anche solo dell’incertezza del domani. Propenderei forse per la prima ipotesi, ma confesso il mio limite: la pena di morte mi fa talmen-te orrore, che, al comando di addentrarsi nei meccanismi psicologici che vi si legano, la mia mente si rifiuta. E il rifiuto è così totale che la mente non trova modo di aggiungere a una esecuzione e alla sua attesa miglioramenti o peggioramenti.

Conosciuta la sentenza, De Felici non si scompose e si preoccupò solo di av-vertire che non voleva che gli si presentassero confessori. Poi prese a cantare i versi del quarto atto del Trovatore:

Ah che la morte ognoraè tarda nel venira chi desia morir!…

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Durante la notte il condannato fu trasferito alla cosiddetta conforteria. Lì, prima di ogni esecuzione, si riunivano i membri della Confraternita di San Giovanni Decollato, costituita dal fior fiore della nobiltà romana. Agostino Chigi avreb-be annotato nel diario che c’erano andati quella notte anche i suoi figli Flavio, futuro cardinale, e Giovanni. Anche qui, non saprei dire quale effetto potesse produrre sull’animo del pover’uomo destinato a morire la presenza così impo-nente, solenne e obbligata di un mondo tanto lontano dal suo. Quel che è cer-to è che non furono i confratelli di San Giovanni Decollato a provocare la sua conversione. De Felici, che io suppongo fosse come stordito da tutta quella fol-la oltre che dal pensiero della morte imminente, si accorse a un certo punto che fra tanti sconosciuti c’era una faccia che, se non proprio amica, almeno gli era conosciuta. Era un agente di polizia, tale Costantini, che abitava vicino alla sua bottega. Lo salutò, come tante altre volte lo aveva salutato, quando si incontra-vano in via de’ Cesarini. Ma quell’ultima volta il saluto era speciale, intenso, co-me forse non era mai stato, perché, come un miracolo, quello, Costantini, era la sola umanità che gli era dato vedere in quell’ora e fra quelle mura. Gli disse che voleva lasciargli come suo ricordo la cravatta e un soprabito. L’altro gli rispose con buone maniere che non poteva accettarli, perché sarebbero stati il ricordo di una perdizione. Se si fosse pentito, se si fosse confessato e fosse morto in gra-zia di Dio, allora sì, avrebbe accettato di tutto cuore. De Felici scoppiò a pian-gere e chiese che gli si chiamasse il confessore.

Salì il patibolo, davanti alla chiesa di Santa Maria in Cosmedin, verso le sei e mezza del mattino di mercoledì 11 luglio. Non era passato un mese dall’atten-tato. Si annunciava una giornata caliginosa, una di quelle giornate di scirocco in cui i romani vorrebbero essere dappertutto meno che a Roma. A tratti pioveva. Nicola Roncalli nel suo diario ha scritto:

Asceso sul palco guardò intrepido la mannaia dicendo che non la temeva, baciò il boia, si trattenne poscia ad osservare il popolo per vedere se vi fosse qualche suo amico e quindi subì il supplizio.